venerdì 1 giugno 2012

l’Unità 1.6.12
Intervista a Andrea Orlando: «Non ci servono liste alleate, apriamoci ai ceti produttivi e intellettuali. Le primarie per il leader? Meglio un grande confronto sulle scelte»
«Pensiamo al programma e alla società»
di Andrea Carugati


ROMA «Il voto delle amministrative ci offre un credito da parte degli italiani, ma allo stesso tempo ci sfida al cambiamento», spiega Andrea Orlando, deputato Pd, quarantenne. «Ci chiede un salto di qualità nella selezione della classe dirigente».
Crede che la soluzione sia la nascita di una lista civica alleata col Pd?
«No, non credo. Dobbiamo aprire il Pd a interi pezzi di società, ceti produttivi, intellettuali, che sono essenziali per una riscossa civica. Questo però impli.ca far saltare un tappo che c’è nel nostro partito: il tappo di un correntismo esasperato. L’attuale pace interna è figlia di una tregua tra correnti, ma se il profilo che il Pd presenterà alle elezioni partisse da questo equilibrismo non avrebbe alcuna capacità espansiva o di apertura».
Come si fa saltare questo “tappo”?
«È un compito che spetta a tutto il gruppo dirigente, a partire dalla maggioranza che ha sostenuto Bersani. Ci siamo impegnati a fare del Pd una grande infrastruttura a servizio del Paese».
Questa operazione si fa con le primarie di circoscrizione?
«Se restasse il Porcellum sarebbe doveroso farle. Ma questo non esclude la necessità di un lavoro politico per individuare la nuova classe dirigente, per coinvolgere un pezzo di società, non è solo una questione di procedure».
Qual è il modello elettorale più adatto?
«Dobbiamo lavorare per il doppio turno, che garantisce autonomia dei partiti e stabilità, evitando le coalizioni coatte. Credo che la bozza Violante, il siste.ma ispano-tedesco su cui si era raggiunto un compromesso con Pdl e Udc, nel quadro post amministrative non garantisca stabilità. Per questo è giusto tornare sul doppio turno».
Niente presidenzialismo?
«Non si può cambiare la seconda parte della Costituzione in poche settimane. Se il Pdl insiste a mettere troppa carne al fuoco significa che vuole bruciarla tutta, e dunque tenersi il Porcellum». Servono nuove primarie per il leader pri.ma delle politiche?
«Non avverto questa esigenza, le prima.rie ci sono state nel 2009 e le ha vinte Bersani. Però serve un grande momento di rilegittimazione, di apertura alla società. La stesura del programma potrebbe essere l’occasione giusta. Il successo dei grillini ci ha dimostrato che le persone sono sì interessate a scegliere i leader, ma ancor più a entrare nel me.rito delle scelte. L’ipotesi di un programma scritto tra quattro responsabili di partito sarebbe di per sé un segna.le di distanza dai cittadini. Viceversa, serve un grande percorso dal basso».
Le alleanze. Come dovrebbe muoversi il Pd? Da solo o la foto di Vasto?
«Molto dipenderà dalla legge elettorale. Se anche dovesse restare un sistema come l’attuale di “coalizioni necessitate”, il Pd dovrebbe comunque esplicitare la sua vocazione al Paese. L’alleanza non può essere fatta a tutti i costi. Oggi la priorità è allearsi con pezzi di società che non sono andati a votare, e questo non si risolve con una som.ma di sigle. Se c’è una foto su cui dovremmo puntare è quella di Parigi con Bersani, Hollande e il tedesco Gabriel: un grande partito riformista che si col.lega con altre forze europee per coniugare uguaglianza e modernizzazione. Ormai temi come la redistribuzione e la lotta ai grandi poteri che condizionano la democrazia coinvolgono anche larga parte del ceto medio, piccola impresa, mondo delle professioni. E il Pd può proporsi come luogo di una possibile alleanza tra progressisti e modera.ti, come garante di un nuovo patto sociale».

l’Unità 1.6.12
Intervista a Giorgio Tonini: «Non esistono al mondo consultazioni tra forze diverse. Presidenzialismo? Dopo Hollande siamo stati noi a rilanciare il sistema francese»
«Primarie in autunno ma solo Pd»
di Andrea Carugati


ROMA «Congresso anticipato del Pd in autun.no e primarie per scegliere il leader-candidato premier». Giorgio Tonini, senatore Pd molto vicino a Veltroni, rilancia la proposta di Matteo Renzi e di Civati. E sfida il partito: «Sul sistema semipresidenziale dovremmo riflette.re seriamente. Siamo stati noi per primi a proporre di fare come in Francia». Dunque lei chiede primarie del Pd prima del voto?
«Sì, ma non con lo spirito del regola.mento di conti interno, ma con l’obiettivo di aprire porte e finestre alla società. È l’unico modo per contrastare efficace.mente chi ci accusa di rappresentare il “vecchio” e immagina liste civiche».
Bersani è stato eletto con le primarie e lo statuto prevede che sia lui il candidato premier.
«Ha perfettamente ragione, ma ha sempre aggiunto che non vuole trincerarsi dietro un fatto notarile. Le primarie sono il modo per portare l’innovazione dentro il Pd. Non è un attacco a Bersani, è nel suo interesse mettere in gioco il suo ruolo e rilanciarlo attraverso una grande operazione democratica».
Sta chiedendo un congresso anticipato?
«Nel nostro statuto le due cose vanno insieme. Al congresso c’è una pre-selezione tra gli iscritti, poi la parola passa alle primarie».
Perchè chiedere un cambio di leader vi.sto che il Pd ha vinto le amministrative?
«Bersani parte in pole position per vincere anche questa partita».
E tuttavia dalle sue parole sembra che i veltroniani siano pronti a tirare la volata a Renzi...
«Sia chiaro, queste sono riflessioni del tutto personali che non coinvolgono Veltroni. Io non sposo Renzi, ragiono sulla “ditta” che ha bisogno del passaggio delle primarie. Altrimenti rischiamo che il Pd si riduca a fare il portatore d’acqua di qualcun’altro, la bad company di una coalizione in cui la bella politica sta altrove».
Niente liste Saviano o dei sindaci?
«Non abbiamo fatto il Pd per delegare l’innovazione ad altri. Quella vera si fa con partiti che siano strumenti di cambiamento, non con operazioni più o me.no effimere, con liste civiche con cui spesso si fatica a governare i Comuni»
Come fate a fare le primarie escludendo Vendola?
«Non esistono nel mondo primarie tra forze politiche diverse. In tutti i grandi paesi europei il candidato è il leader del partito più importante. Vendola farà quello che vuole. Gli alleati accetteranno il nostro leader, altrimenti prenderanno altre strade».
Lei ed altri senatori, come Morando, sembrate tentati dal sistema semi-presidenziale proposto da Berlusconi. È così?
«Siamo stati noi del Pd, dopo la vittoria di Hollande, a rilanciare il sistema francese, per allontanarci dal rischio Grecia. Semipresidenzialismo e doppio turno sono due parti dello stesso sistema».
Nel Pd c’è molta freddezza per questa proposta, soprattutto perchè viene dal Cavaliere.
«Facciamo bene a diffidare, siamo rimasti scottati troppe volte. Ma l’unico modo per smascherare un eventuale bluff è andare a vedere. Lo vedremo alla fine della prossima settimana nell’aula del Senato, quando si voterà l’emendamento del Pdl».
Lei lo voterebbe?
«Aprirei il confronto in modo molto se.rio. Disponibile a votarlo se è un testo francese e non sudamericano, simile a quello Salvi della Bicamerale D’Alema».
Se questa ipotesi non passasse, su quale legge elettorale punterebbe?
«Sono uno dei pochi che non ha mai sconfessato la bozza Violante, la correggerei solo in senso più spagnolo e meno tedesco».

l’Unità 1.6.12
Grillo e la trappola della «iperdemocrazia»
di Michele Prospero


Nessun soggetto politico, e tanto meno un movimento nuovo e con forti venature antisistema, si esaurisce mai del tutto in quello che dichiara di essere.
Se ne sono visti già molti di fenomeni politici emergenti nascere con un forte spirito di rottura verso l’esistente e poi trasformarsi in corso d’opera in un condensato di pura conservazione.
La forza ispirata da Grillo non sfugge a questa regolarità. La città di Parma è in fondo la metafora di un movimento sorto dalla volontà di imprimere una assoluta discontinutà che diventa il punto di riferimento insperato dei vecchi poteri in agonia. Con una base culturale molto evanescente, così come appare nell’intervista di Grillo, il movimento si presta in pieno alle mire e ai calcoli di potenze che cercano di utilizzarne la carica sovvertitrice per volgerla verso altri sbocchi.
Quando un movimento riceve la simpatia di grandi giornali, di settimanali, di trasmissioni della tv pubblica e privata, già non appartiene più alla pura passione dei navigatori delle origini e sta per essere attirato in un’orbita più ampia in cui si agitano interessi e manovre e in cui quindi l’infuenza di media e denaro pare irresistibile. Le parole di Grillo non si riferiscono alla questione sociale con rigore analitico ma alimentano una semplicistica e a tratti caricaturale raffigurazione manichea del mondo in cui si oppongono i perfidi finanzieri e i semplici cittadini. Lo schema binario proposto dal comico contrappone gli altri («le banche, gli zombi») e noi («siamo l’ultima chance per l’Italia»). Non c’è spazio per analisi più complesse e l’avversario perde ogni dignità e non viene riconosiuto se non nelle sembianze del male assoluto.
Da una parte Grillo colloca il bene, il pulito, il bravo, l’incensurato e dall’altra ospita il male, il ladro che ha la figura del partito impressa. Questo schematismo non solo alimenta un immaginario tardogiacobino ma coltiva una veduta inquietante della democrazia quando il comico prospetta il suo minaccioso programma: «noi vogliamo arrivare al cento per cento». Quando un politico parla in nome della totalità e descrive l’avversario come un reprobo contro il quale si innalzano gogne e tribunali del popolo provoca sempre un certo turbamento.
Il progetto di Grillo mira ad una «iperdemocrazia» (il termine risale a Ortega y Gasset) nella quale scompaiono partiti e politica organizzata e tutto viene affidato a referendum a getto continuo. Il problema è che anche una sedicente democrazia dal basso ha bisogno di esprimere classi dirigenti, di eleggere rappresentanza. E qui, fatti fuori i partiti (con quali strumenti coercitivi è possibile sbarazzarsene?), ci sarà qualche altro momento in cui i compiti di proposta e di indicazione verranno espletati. Non basta certo navigare nella leggerezza della rete per annullare i pesanti poteri dei territori. Nel paradiso di una iperdemocrazia dei cittadini e senza più partiti e «segretari nazionali» Grillo si propone nel gratificante ruolo di «grande vecchio» o di «ispiratore» che senza mai uscire dall’ombra orienta, suggerisce, raccomanda, censura. Il movimento che «vuole cambiare la società intera» in realtà non essendo strutturato, e presentandosi come sprovvisto di procedure, regole e spazi visibili per un apprendimento collettivo, restringe la partecipazione reale che non ha bisogno di grandi vecchi e tanto meno di ispiratori occulti.

il Fatto 1.6.12
Primarie aperte: Pier Luigi Bersani al bivio


Le parole ufficiali arriveranno solo venerdì prossimo, quando il Pd riunirà la Direzione nazionale, già rinviata a causa del terremoto. Solo allora si chiarirà la posizione del segretario Pier Luigi Bersani su cui ieri si è vociferato a lungo. Prima, alcune ricostruzioni parlavano di una sua apertura alle liste civiche collegate al Pd, compreso il via libera a primarie aperte a tutti. Poi è stato lui stesso a smentire: “Temo di essere il solo a sapere cosa avrei detto e inviterei a una maggiore cautela”. La questione divide il partito. Da una parte c’è chi, come i “giovani turchi” di Andrea Orlando, pensa che il punto vero su cui discutere siano i contenuti. E soprattutto che il Pd non può passare come “la bad company e appaltare ad altri la good company”. Diversa invece l’opinione dei cosiddetti veltroniani di MoDem: “Il Pd ha una grande occasione di essere la locomotiva di una proposta riformista per tutta l'Italia compresi i milioni di elettori che hanno lasciato il centrodestra e di radicale rinnovamento della politica - dice Walter Verini - Se lo faremo difficilmente si sentirà il bisogno di costruire qualcosa fuori dal Pd”.

La Stampa 1.6.12
Bersani rivede Casini e tiene aperta la porta ai cantieri anti-Grillo
Vertice del disgelo con l’Udc: “Dialoghiamo”
di Carlo Bertini


Pierluigi Bersani apre la porta alle liste civiche e prova a riannodare i fili con Casini. «Ovvio che in Direzione tutto farò tranne un discorso di chiusura», risponde il leader Pd nel cortile della Camera a proposito dell’atteggiamento da tenere nei riguardi delle svariate liste civiche che potrebbero nascere in ogni angolo dello stivale per la sfida delle politiche del 2013. Confortato (non si sa quanto) dal fatto che Roberto Saviano escluda di volersi candidare capeggiando una lista a suo nome, Bersani si sforza di negare che vi sia già un accordo per far andare a braccetto in campagna elettorale il Pd e una grande lista civica nazionale che avrebbe la benedizione del quotidiano Repubblica. Fatta questa smentita obbligata, dopo che la notizia apparsa sul Corriere e su alcuni siti aveva già provocato un mezzo terremoto in casa sua, Bersani si infila rapidamente in aula. Uscendone però cinque minuti dopo per recarsi da solo ad un conclave riservato e foriero di possibili sviluppi. Il leader Pd si fa aprire da un commesso il suo studio nel corridoio parallelo al Transatlantico e lì lo raggiungono con aria da «gatto e la volpe», Pierferdinando Casini e Lorenzo Cesa. E’ la prima volta che i due «Pier» si vedono per discutere di massimi sistemi dopo le voci di un Casini trasmigrante verso una destra in crisi di rappresentanza e con un Pdl in frantumi. Ed è significativo che Casini si presenti con Cesa, dando l’impressione di voler investire tutto il partito su una ripresa dei contatti temporaneamente interrotti. «Siete venuti in due... », li saluta Bersani prima di chiudersi la porta dietro le spalle.
I due episodi solo apparentemente sono scollegati tra loro, perché in realtà all’antivigilia della Direzione che si riunirà la settimana prossima, la voce di un Pd nel ruolo di «levatrice» di una o più liste civiche, utili a disinnescare la mina Grillo, provoca una mezza sommossa, soprattutto tra i quarantenni. «Ha fatto bene a smentire perché sarebbe l’ammissione che resta il Porcellum e che il progetto del Pd è fallito», commenta caustico Salvatore Vassallo, veltroniano ormai vicino ai «rottamatori». «Far nascere una lista civica da una costola del Pd sarebbe un harakiri», taglia corto Deborah Serracchiani. «Il Pd non può essere la bad company e appaltare ad altri la good company», obietta Andrea Orlando. «Un conto è vederla nascere e accordarsi, ben altra cosa è promuovere una grande lista civica nazionale capace di farti concorrenza... », fa notare un alto dirigente del Pd.
Bersani dunque prima di sfidare i possibili avversari interni ed esterni, accettando anche primarie aperte a chiunque voglia candidarsi, ha tutto l’interesse a sondare le mosse dei centristi. Anche perché in Direzione intende bilanciare l’apertura ai movimenti rilanciando un patto tra progressisti e moderati per la ricostruzione del paese. Un patto che Bersani vuole riproporre, facendo ben attenzione però a non chiudere le porte alle varie liste civiche, ma senza legarsi le mani anzitempo. «Stiamo lavorando per una riforma della legge elettorale, quindi discussioni a prescindere da ciò non vedo che fondamento abbiano». E dunque, dopo aver parlato per più di un’ora della situazione politica a 360 gradi con Casini e Cesa, pure se nulla lascia preludere ad un patto per una possibile alleanza, quel che rimane sul terreno è la riapertura di un dialogo politico che non si ferma alla sola collaborazione nella «strana maggioranza» che regge le sorti del governo Monti. Insomma, un riavvicinamento che se non altro congela l’ipotesi molto in voga di un Casini ormai definitivamente proteso verso il campo avverso.

Repubblica 1.6.12
E sulla legge elettorale cinque senatori chiedono il confronto con il Pdl: "Novità positive"
"In autunno primarie aperte" Pd , l’affondo di Bersani
Anche Violante auspica il dialogo con il centrodestra "Il rischio è tenerci il Porcellum"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Tra qualche giorno il mistero di Fatima sarà sciolto, ci sarà la direzione del partito, intanto smettiamola con le illazioni su quello che avrei detto se la scorsa riunione si fosse fatta... sono io solo a saperlo». Pier Luigi Bersani nel cortile di Montecitorio ha il sigaro in bocca e una carta nascosta in tasca. Aveva intenzione di mostrarla, a sorpresa, nel "parlamentino" del Pd di martedì scorso, sospeso per il sisma in Emilia. Ecco, la mossa-annuncio del segretario sarà: «Accettiamo le primarie aperte». Potrebbe esserci anche la comunicazione della data, che non dovrebbe andare oltre ottobre-novembre.
A chi gli chiede conferme, Bersani ricorda che non ha mai pensato di «andare dal notaio» per rivendicare la sua candidatura a premier. Afferma in pratica di essere stato sempre disposto a rimettersi in gioco. Lo rifarà. Rilanciare sulle primarie significa sminare in un colpo solo il pressing dei quarantenni del partito e di Vendola e Di Pietro. Oltre all´ultima novità: la lista civica, o meglio le liste della società civile che si stanno organizzando in giro e alle quali il leader conferma l´apertura, «il dialogo», in funzione anti-Grillo e dentro un Patto democratico guidato dal Pd. Precisando però, di fronte al tam tam su iniziative civiche e relativi candidati (da Roberto Saviano a Gustavo Zagrebelsky, a Federica Guidi; da Emiliano a De Magistris e Pisapia) che è abbastanza inutile ipotizzare liste e alleanze senza conoscere la legge elettorale.
Di questa - e del semi presidenzialismo proposto da Berlusconi - Bersani parla con Luciano Violante. Colloquio fitto, sempre nel cortile durante una pausa dell´aula della Camera. Il segretario bacchetta. Violante, che guida gli sherpa alle prese con l´accordo sulle riforme, spiegherà dopo: «Tutto è condizionato dal "pasticciaccio" sul presidenzialismo. Discutiamone. Ma se non ci sono le condizioni ora, si sigli un impegno per affrontare la questione nella prossima legislatura. Sulla legge elettorale però, non possiamo arroccarci, altrimenti restiamo con il Porcellum». Sono del resto cinque i senatori democratici (Cabras, Follini, Giaretta, Morando e Tonini), che non vogliono sbattere la porta in faccia al Pdl e a Berlusconi, e chiedono di confrontarsi nel merito: «Andiamo a vedere», dicono. Aggiungono: «Se è lecito dubitare delle reali intenzioni dei proponenti, in particolare se si valutano i comportamenti precedenti occasioni, è ragionevole cogliere le positive novità. È auspicabile essere pronti al confronto, aperti e disponibili, vigilando perché tutto sia in piena trasparenza».
Ieri i trenta-quaratenni e gli ulivisti (Civati, Gozi, Concia, Zampa, Scalfarotto, Parisi, Santagata, Sarubbi) hanno preparato una lettera aperta su tre punti: no a liste civiche; primarie a doppio turno (Gozi: «Al primo turno si potrebbe candidare davvero chi lo ritiene, Saviano, Pannella, Bonino, Di Pietro»); nessuna deroga dopo i tre mandati parlamentari. «Almeno che non si cambi il Porcellum, se gli elettori tornano a scegliere, allora decideranno loro chi mandare a casa», sempre Gozi. Della stessa partita è Renzi. L´alleanza con liste civiche irrita molti, al di là dell´appartenenza di correnti: Andrea Martella (veltroniano), Andrea Orlando, Matteo Orfini (dalemiano). Mentre Paolo Gentiloni la pensa come Veltroni: «C´è una straordinaria domanda di novità e di protagonismo politico, il Pd apra porte e finestre. L´importante è competere anche nell´area di centro dell´elettorato».

il Fatto 1.6.12
Nuova lista fantasia. La carica delle liste civiche
Oltre a Grillo e Montezemolo, a destra e a sinistra, fioriscono le sigle pronte ad approfittare del tracollo della politica tradizionale. Ci sarà anche Saviano? Lui: “Non mi presento”, ma parla di un “nuovo percorso” Scalfari al Fatto dice: “È la nostra speranza, la sinistra ne ha bisogno”
I partiti scendono vertiginosamente nei consensi Si moltiplicano formazioni e candidati
di Fabrizio d’Esposito


La Terza Repubblica sarà l’Apocalisse dei partiti? L’ultimo, devastante sondaggio dell’Ipsos a Ballarò ha fornito dati eloquenti. Il 55 per cento del campione considera esaurita la spinta propulsiva dei “partiti tradizionali”, anche se dovessero presentare le fatidiche “facce nuove”. Per quanto riguarda poi il prossimo inquilino di Palazzo Chigi, il 31 per cento vorrebbe “un nuovo rappresentante della società civile”. Monti e il resto si trovano ben sotto.

La Terza Repubblica sarà l’Apocalisse dei partiti? L’ultimo, devastante sondaggio dell’Ipsos a Ballarò ha fornito dati eloquenti. Il 55 per cento del campione considera esaurita la spinta propulsiva dei “partiti tradizionali”, anche se dovessero presentare le fatidiche “facce nuove”. Per quanto riguarda poi il prossimo inquilino di Palazzo Chigi, il 31 per cento vorrebbe “un nuovo rappresentante della società civile”. Monti e il resto si trovano ben sotto: appena il 14 per cento per l’attuale premier, mentre i segretari dei due partiti maggiori, Pd e Pdl, assommano addirittura il 18 per cento: 10 per Bersani e 8 per Alfano. Un disastro accentuato dalla crescita continua del Movimento 5 Stelle: 19,8 per cento a fronte del 25,6 del Pd e del 16,8 del Pdl.
PER TENTARE di arginare il boom del grillismo (che ha di fatto già ribaltato il tavolo dell’inciucio o della Grande Coalizione), anche nei partiti è cominciata la rincorsa alle liste civiche, antica idea di Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega. La scorsa settimana, il dibattito ha quasi distrutto quel che resta del Pdl: la nomenklatura ex forzista ed ex An contro lo spacchettamento a favore di una rete di liste capeggiata da Daniela Santanchè. E lo stesso Berlusconi ha ammesso pubblicamente l’ipotesi di un centrodestra civico. Adesso è il turno del Pd sotto schiaffo del giornale-partito di Repubblica. L’idea di una lista Saviano voluta da De Benedetti, Scalfari e Mauro sta causando una rivolta tra i democrat. Ieri lo stesso Saviano ha smentito una sua candidatura ma non il progetto. Il centro, poi. Tra il tecnico Passera e l’eterno indeciso Montezemolo (ieri ha smentito come Saviano: no alla candidatura ma sì alle liste) passa il futuro dei moderati, che disperatamente Berlusconi vorrebbe riunire in una confederazione. Tutto però dipenderà dal nuovo sistema elettorale, se cambierà. E non è escluso che anche il Porcellum veda in campo coalizioni fatte soprattutto di liste civiche.

il Fatto 1.6.12
Manifesto operaio
La Fiom tentata dal Parlamento


La tentazione c’è: una lista Fiom alle prossime elezioni sui temi del lavoro e dell’articolo 18. Tutto si deciderà il 9 giugno, quando il gruppo dirigente delle tute blu della Cgil, guidato da Maurizio Landini, incontrerà i leader della foto di Vasto, i movimenti, i sindaci progressisti. Il manifesto dell’impegno politico è in queste parole di Giorgio Airaudo, numero due della Fiom, all’ultimo comitato centrale del sindacato dei metalmeccanici: “In questi anni abbiamo fatto una battaglia per difendere i diritti, e per questo sempre inseguiti dall’accusa di fare politica. Da oggi in poi, visto che le nostre battaglie non hanno trovato sponda, dobbiamo puntare a inserire i diritti e il lavoro nell’agenda della politica. Dobbiamo fare politica, quindi, a viso aperto, perché il sindacato e i lavoratori non restino più soli”. Se alla fine la Fiom dovesse battersi alle prossime elezioni con una propria lista sarebbe un’altra rivoluzione, dopo il boom delle liste civiche. Ma Landini punta a un accordo col Pd.

l’Unità 1.6.12
Ricostruire, la sfida Fiom per il dopo Berlusconi
di Gianni Venturi
Fiom-Cgil nazionale

In questi anni si è verificata una crisi della contrattazione ...
Grande Crisi e globalizzazione sono le prove da superare

DA QUALCHE TEMPO È IN ATTO UN TENTATIVO INSI.STENTE E DIFFUSO DI “RECLUTARE” LA FIOM IN UN ARCIPELAGO VARIAMENTE ANTAGONISTICO. Per ultimo Marco Travaglio, nell’editoriale di domenica 27 maggio su Il Foglio Quotidiano: “Ci sarà bisogno di Grillo e dei suoi ragazzi, di qui alle elezioni. Ma anche di altre forze civiche e nuove che raccolgano il meglio di quel che resta della politica degli ultimi anni: sindaci ed amministratori di ultima generazione (quelli eletti a dispetto dei partiti, anche dei loro) intellettuali e cittadini riuniti a difesa dei “beni comuni”, movimenti che un anno fa, insieme all’Idv, vinsero i referendum contro il nucleare, l’impunità di Stato e per l’acqua pubblica, associazioni antimafia, anti-tav, anti-inceneritori, occupanti di spazi culturali, magari la Fiom”.
Possiamo tentar di capire le ragioni di Travaglio e del “listone”: la Fiom, il suo presente e la sua storia, rappresentano un invidiabile “marchio di qualità” di cui fregiarsi. Ma proprio per questo non si può fare a meno di considerare quelle ragioni come un’opa ostile nei confronti della Fiom. Una cosa è considerare legittimo e necessario il confronto tra realtà profondamente diverse per “ragioni sociali”, culture, sensibilità; altra cosa è immaginare di poter far parte di un “listone” che competa su un terreno, quello della rappresentanza politica, che, dopo l’autunno caldo del’69, abbiamo sempre considerato separato ed autonomo dalla funzione della rappresentanza sociale del lavoro. Meno comprensibili sono le tentazioni che sembrano comunque presenti nella Fiom. Tentazioni che, se assecondate, condurrebbero ad uno snaturamento della funzione che è propria del sindacato.
È indiscutibile che in questi anni nel nostro Paese, e con maggior forza nella maggiore categoria dell’industria, quella dei metalmeccanici, si sia verificata una vera e pro.pria crisi della contrattazione. Crisi che, peraltro, è stata largamente indotta da governi di centrodestra che non so.lo hanno operato per acuire il conflitto fra capitale e lavoro, ma che hanno fatto della divi.sione fra i sindacati un obiettivo esplicito della propria azione politica.
Il problema che sta oggi di fronte alla Fiom è quindi di difficile soluzione: come ricostruire, dopo l’eclissi parziale del berlusconismo, nuove rapporti con gli altri sindacati dei metalmeccanici e nuove relazioni con le controparti datoriali? La risposta non è certo semplice, ma solo noi possiamo trovarla. Il che vuol dire, da un lato, che non possiamo passivamente aspettarla dalle forze politiche che guideranno la prossima legislatura. E, dall’altro, che non ci sono scorciatoie politiche che consentano al gruppo dirigente della Fiom di raggiungere per altra via quegli obiettivi che oggi appaiono difficili da raggiungere all’interno dell’universo metalmeccanico.
Il punto è che oggi la Fiom deve essere all’altezza della sfida che, al lavoro ed alla sua rappresentanza, viene posta dagli effetti congiunti della globalizzazione e della Grande Crisi. Tali effetti pretendono una capacità di analisi e di proposta che sappia tenere insieme la dimensione dei diritti sociali e delle tutele, con quella della concreta organizzazione della produzione e delle condizioni di lavoro. La prima senza la seconda finisce per incontrare rapidamente un limite invalicabile, finisce per diventare declamazione astratta. A differenza di quella dei diritti civili e politici, l’esigibilità dei diritti sociali è storicamente collocata in un rigido incastro tra il processo di accumulazione, i rapporti di produzione e i rapporti di forza che il conflitto sociale determina. Per questo per la Fiom non si pone il dilemma di quale ruolo giocare nella ricomposizione degli assetti politici, ma piuttosto la necessità di riconquistare-ricostruire, nel pre.sente, il Contratto nazionale, la rappresentanza e il potere negoziale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Cioè là dove l’offensiva è più forte e là dove nessuno svolgerà il compito che spetta esclusivamente a noi

il Fatto 1.6.12
Copyright Repubblica
In prima fila Zagrebelsky e De Gregorio


Non solo Saviano, che ieri però ha smentito. Ma anche Concita De Gregorio e Gustavo Zagrebelsky. Sono questi i tre nomi che da giorni circolano per il listone di Repubblica che potrebbe allearsi con il Pd alle politiche. La discussione sta squassando il partito di Bersani (nonché di D’Alema e Veltroni) e ancora non è chiaro il punto di arrivo. Secondo una parte del Pd, il listone Savia-no potrebbe ridurre il peso della foto di Vasto con Idv di Antonio Di Pietro e Sel di Nichi Vendola. Per un’altra corrente di pensiero, invece, il Partito dovrebbe inglobare i candidati della società civile, sull’antico modello degli indipendenti di sinistra. Bersani rimanda tutto al cambiamento della legge elettorale, ma anche un bambino sa che il Porcellum dei nominati non nega la possibilità di una coalizione fatta di partiti e liste civiche. Resta il nodo del candidato premier. Bersani non farà passi indietro, ma Renzi è pronto a contrastarlo e lo stesso partito di Repubblica, a partire dall’Ingegnere, giudica il segretario del Pd una figura debole.

il Fatto 1.6.12
Il fondatore i democratici e la proposta di Repubblica
Eugenio Scalfari: senza Saviano la sinistra perde le elezioni
di Luca Telese


C’è ben poco da dire. E sinceramente, per quanto mi sforzi, davvero non comprendo le ragioni della levata di scudi a cui assistiamo in queste ore, da parte di alcuni dirigenti del Pd: una lista patrocinata da Saviano, ma non solo da lui, sarebbe il valore aggiunto che può decidere queste elezioni”. Eugenio Scalfari non sorride. È molto serio, forse anche preoccupato per una polemica che considera priva di fondamento, se non addirittura autoreferenziale e politicista. Sta di fatto che lui l'idea della “lista Saviano” l’ha avuta per primo, o raccontata per primo (il che non fa molta differenza) due mesi fa, quando aveva ipotizzato quello che in queste ore si sta realizzando. Ieri, sul Corriere, Maria Teresa Meli ha raccontato che Pier Luigi Bersani ha deciso di concedere l'apparentamento a questa lista. Il segretario democratico le ha definite illazioni. E Saviano ha smentito con molta nettezza l'ipotesi di una propria candidatura, ma non ha escluso l'idea di un ruolo di patrocinio a un progetto che prende corpo intorno a Libertà e Giustizia, e a una parte di volti vicini al Gruppo L’Espresso. Ecco perché il grande patriarca del giornalismo italiano continua a indicare la rotta che ritiene più giusta al popolo della sinistra.
Direttore, è stata una profezia scalfariana o cosa?
No, guardi, solo un semplice auspicio dettato dal buonsenso. Io quando vedo dirigenti del Pd, peraltro giovani, che si affrettano a mettere le mani avanti, resto interdetto.
Mi spieghi cosa non la convince. Civati e Fassina dicono che così il Pd rischia di diventare una Bad Company.
Guardi, la battuta è senza dubbio immaginifica, ma io non la capisco. I dirigenti del Pd vogliono vincere? Bene, dovrebbero essere contenti che professionisti, giornalisti, esponenti della società civile possano impegnarsi in una lista che allarga il campo del centrosinistra.
Provo a prendere le parti del diavolo. Il loro ragionamento è: ma se queste persone hanno idee simili al Pd perché non si candidano con il Pd?
Ripeto, per chi conosce la storia della sinistra italiana non c'è nulla di nuovo. Ai tempi di Togliatti c’era la consuetudine dei compagni di strada, vicini al partito, ma sciolti dai vincoli disciplinari degli iscritti. Poi venne la felice intuizione di Berlinguer che diede statuto e consistenza parlamentare alla figura degli indipendenti di sinistra, garantendo l'elezione a una pattuglia di intellettuali e professori di sicuro valore... Era il 1976. Negli anni arrivarono laici come Rodotá, economisti come Spaventa, cattolici del dissenso come Raniero La Valle...
Però venivano eletti nelle liste e con il simbolo del Pci...
Sono passati quarant'anni! Era prima della caduta del muro e c'era, se mi consenti il termine, quel popó di partito alle spalle.
Sta dicendo che quello potrebbe tornare ad essere un modello di relazione con intellettuali esterni al Pd?
Perché no? Nel 2011, posso aspettarmi dal Pd un tasso di elasticità non superiore, ma almeno pari a quello degli anni ‘70? Bersani fa bene ad aprire.
Fammi un esempio.
Dico un nome, non un nome a caso, di valore indiscusso, proprio come quello di Rodotà.
Certo.
Ebbene, un uomo come Rodotà, animato da indubbio spirito di servizio, sarebbe forse disponibile a candidarsi in una lista del tipo che abbiamo ipotizzato. Mi sento di escludere in maniera pressoché certa che potrebbe accettare di correre sotto il simbolo del Pd.
Lei però ha dato anche un'altra spiegazione...
È vero: io credo, per esempio, che in un paese come questo, una lista che affermi il valore della legalità sarebbe un punto di forza per la coalizione.
E il ruolo del Pd?
Il Pd è, e resta, il cardine della coalizione: affiancato, però, da una o più liste che nulla tolgono, casomai molto aggiungono al suo patrimonio di uomini e di idee.
Quindi anche una lista patrocinata - per esempio - dalla Fiom, in questo quadro, potrebbe essere l'ala “sinistra”, e Saviano l'ala “destra”?
Potrebbe in linea teorica, ma con un dubbio, e a patto di sottoscrivere una condizione preliminare.
Partiamo dal dubbio.
Per me in realtà è una certezza: un sindacato non è un partito. Il suo mestiere è occuparsi di contratti, non promuovere o influenzare formazioni politiche. Nemmeno di porre condizioni programmatiche o ultimatum.
Nulla impedisce però che singoli dirigenti possano candidarsi o che il sindacato possa chiedere riforme che ritiene indispensabili.
Oh certo: ma prima si devono dimettere dal sindacato. E poi scatta quella che considero la condizione preliminare.
Quale?
Il perno della politica del Pd, in questi mesi, è stato il sostegno al governo Monti.
E allora?
Si può fare parte di questa coalizione se si sostiene il governo Monti e il suo operato. Landini e i suoi sono pronti a sottoscrivere questa condizione?
Hanno giá posto come condizione di rivedere la riforma previdenziale Fornero per i lavoratori usuranti e di restaurare l'articolo 18.
Questo li pone fuori dalla coalizione riformista, e li mette al pari di Grillo, che chiede di cancellare le banche.
C'è una pregiudiziale Monti, secondo lei, che deve essere applicata nel centrosinistra?
Vede, il sindaco di Parma deve negoziare il debito con le banche, e il leader del suo movimento inneggia alla loro demolizione. Basterebbe questo per dimostrare che la demagogia, soprattutto in questo momento ha le gambe corte.

La Stampa 1.6.12
Saviano e la lista civica nazionale accanto al Pd: “Non mi candido”
“Chiunque venga percepito come non schierato fa paura e viene delegittimato”
La sondaggista Ghisleri lo gela:  «Il 40% dei voti da catturare, ma di questi il 70% sono di centrodestra"
di Flavia Amabile


Lo scrittore Roberto Saviano ieri è intervenuto per smentire la voce, fattasi insistente, di una sua presunta imminente candidatura.
Sarà davvero Roberto Saviano l’«anti-Grillo»? Se ne parla da giorni ormai, si raccontano bizantine strategie per arginare il pericolo rappresentato dall’esplosione del comico genovese in quello che un tempo era un elettorato al massimo condiviso con la sinistra radicale.
Cambiano gli equilibri, però, e cambiano gli schemi. Il quotidiano «Repubblica» ha avanzato l’ipotesi di una «lista per la legalità». Il Pd si sarebbe quindi messo allo studio di alcune idee per non essere tagliato fuori dal processo in corso nella sua zona di campo. E quindi porta aperta alle liste civiche, guidate da intellettuali non da politici, ma in ogni caso apparentate con il Pd come ad esempio Roberto Saviano o Gustavo Zagrebelsky o Concita De Gregorio.
Che cosa di vero ci sia dietro queste ipotesi lo si saprà nei prossimi giorni quando il segretario del Pd Pierluigi Bersani annuncerà ufficialmente la nuova fase. Ma nel Pd si è già iniziato a litigare: le liste civiche come finora sono state descritte convincono pochi. E lui, l’anti-grillo, la speranza di arginare l’ascesa dei grillini ha smentito il suo coinvolgimento diretto nelle liste: «Mi capita spesso di leggere articoli che danno per certa la mia candidatura politica. Non è importante in quale ruolo e in quale partito, la cosa certa è, che dicono, sto per candidarmi. Ovviamente è falso. È dal 2006 che, mentendo, annunciano la mia candidatura. Chi fa disinformazione, quando terminò “Vieniviaconme”, dava per certa la mia candidatura. E ora che è finito “Quello che (non) ho”, spuntano notizie dello stesso tenore», spiega in un'articolo per il prossimo numero del settimanale «l'Espresso». «Il punto è che per queste persone, chiunque non venga percepito come schierato, fa paura e va delegittimato. Il messaggio implicito è: «Questo qui fa di tutto per ottenere consensi, perché il suo scopo è fare politica», avverte Saviano.
Insomma nessun «anti-Grillo», sembrerebbe, in realtà Saviano smentisce la guida delle liste civiche ma conferma il suo impegno nella battaglia della futura Italia politica: «Il mio mestiere è quello di scrivere, ma non rinuncio alla possibilità di costruire un nuovo percorso in questo Paese. Ridare dignità alle parole della politica è invece la premessa alla rinascita. Ripartire dalle parole significa costruire prassi diverse. Perché le parole sono azione».
Insomma Saviano ci sarà. La formula verrà decisa in seguito. Quanto valga in termini elettorali l’autore di «Gomorra» in questo momento è difficile dirlo. Nicola Piepoli sostiene che il suo impatto può essere «alto». Dopo le amministrative il quadro dei voti è diviso in due parti, più o meno equivalenti: da un lato i partiti tradizionali, dall’altro Grillo. «La fetta che ora è occupata da Grillo - spiega Piepoli - è uno spazio vuoto e la natura odia il vuoto. E’ naturale che venga occupato da altre persone. Si divideranno quel 50%. Se ipotizziamo anche una candidatura di Montezemolo e di Passera il valore di Saviano si attesta tra il 12 e il 13% da un punto di vista statistico».
Meno ottimista è Alessandra Ghisleri, di Euromedia Research. «C’è il 40% dei voti da catturare, il 70% di questi sono di centrodestra e l’offerta politica che ci si aspetta non è di un Messia ma di qualcosa di concreto. Saviano è un simbolo della lotta all’illegalità, alla corruzione, alla disonestà, alle mafie ma può creare una rete locale in grado di convincere gli elettori sulla base di programmi specifici? Essere famosi e avere un buon curriculum non è detto che sia sufficiente, potrebbe risultare di difficile presa».

il Fatto 1.6.12
Intellettuali anti-grillini
Un’altra Alba della sinistra


Si chiama Alba e significa Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente. La prima assemblea nazionale si è tenuta al Palamandela di Firenze alla fine di aprile. Migliaia le firme per un manifesto che chiede un’altra politica “nelle forme e nelle passioni”, dopo l’incapacità dei partiti di autoriformarsi. Il nuovo soggetto politico, che farà liste civiche nel 2013, è stato battezzato dallo storico Paul Ginsborg, già girotondino. Con lui: Stefano Rodotà, Luciano Gallino, Ugo Mattei, Marco Revelli, Paolo Cacciari, Chiara Giunti, Nicoletta Pirotta e Alberto Lucarelli. Alba sta crescendo su tutto il territorio nazionale e vanta almeno 80 gruppi locali. È una civica anti-grillina da sinistra, come ha spiegato Ginsborg: “Vorremmo porci come un’alternativa a Beppe Grillo perché ci sono molte persone che chiedono un rinnovamento ma non si riconoscono nel grillismo. Alba non esclude l’ipotesi di un’alleanza con il Pd, ma è più probabile che alla fine vada da sola alle politiche.

il Fatto 1.6.12
La creatura di Emiliano
I sindaci e “il trio perfetto”


Sul Mattino di ieri, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris si è mantenuto largo sul neo-partito dei sindaci che nello scorso inverno sembrava invece cosa fatta: “Voglio fare la rivoluzione da sindaco”. Detto questo, da “uomo di sinistra” ha precisato che non si possono affidare a Grillo le istanze di cambiamento. Il sogno è quello di mettere insieme i primi cittadini di sinistra, ultimo arrivato Leoluca Orlando, e appellarsi a Bersani, Di Pietro, Vendola e Ferrero. Oltre a De Magistris e Orlando, entrambi dell’Italia dei Valori, la griglia della potenziale creatura include Zedda (Cagliari), Pisapia (Milano) ed Emiliano (Bari). A marzo, proprio De Magistris disse che questa lista valeva almeno il 20 per cento. Poi è arrivato il boom Grillo e nel frattempo Emiliano a Bari è stato alle prese con l’inchiesta delle cozze pelose. Il progetto è, o era, di fare la sinistra del centrosinistra. Come disse lo stesso Emiliano: “Io, Luigi e Nichi siamo il trio perfetto”.

il Fatto 1.6.12
Stefano Fassina:  “Non possiamo essere rinunciatari”
“Noi non li appoggiamo, se vogliono si presentino col Pd”


Stefano Fassina è tra quelli che nel Pd – soprattutto i più giovani – hanno accolto con scetticismo (eufemismo) la notizia data dal Corriere che Pier Luigi Bersani sia intenzionato a concedere il suo apparentamento a una lista patrocinata da Roberto Saviano: “Non è la cosa giusta da fare, pernoièunarinuncia”. Seproviachiedergli perché, mentre è seduto nella sua stanzetta nell'ufficio economico del Pd, ti ammonisce: “Prima di rispondere devo fare un ragionamento... ”. E poi parte: “Siamo a un bivio storico... ”.
Che c'entra con Saviano?
(Fassina sorride) C’entra, eccome! La crisi dei partiti ha prodotto, non solo in Italia, un’involuzione della democrazia.
Si però...
Pochi giorni fa ho avuto una bella conversazione con Reichlin: ha usato una metafora che mi ha colpito: “Siamo all'8 settembre della politica”.
Condivide questo giudizio?
Oh sì. Le classi dirigenti italiane oscillano pericolosamente fra tecnocrazia e grillismo.
E voi?
Il centrosinistra deve costruire l'opzione progressista. E il protagonista di questa vicenda può essere solo il Pd.
Ma Saviano perché non va bene?
Ci arrivo! La potenzialità di rinnovamento che il Pd può esprimere è immensa, purché si apra all'apporto di energie fresche...
La mitica società civile...
Non alla società civile: a quella parte della società civile che ha dimostrato di non essere incivile.
Ma allora lei dovrebbe fare ponti d'oro a una lista Saviano...
Scusi, ma perché bisogna ipotizzare una lista patrocinata da lui ma fuori, se il Pd è nato per rappresentare proprio queste istanze?
Magari perché qualcuno della società civile non si sente libero come vorrebbe dentro le liste del Pd!
Ma perché la loro casa non deve essere il Pd? Se accettiamo l’idea che ci si senta più liberi fuori, stiamo decretando che non sappiamo fare ciò per cui siamo nati.
Avete altre risorse: personale politico, sindaci, dirigenti...
La credibilità e la competenza non bastano, se non siamo la casa dei progressisti. E poi...
Dica.
Aggiungo, da dirigente: dobbiamo essere noi i protagonisti. Sennò dovrei dire che non credo a quello che faccio.
Ci sono stati gli indipendenti di sinistra, per anni...
Ma erano eletti nel partito! Non si può appaltare agli altri le proprie insicurezze.
Non c’è solo la lista Repubblica...
È lo stesso: tutti vogliono fare la lista civica, ma per andare dove?
E perché il Pd può?
Possiamo indicare la direzione perché abbiamo una visione della crisi, e delle ricette.
Scalfari le direbbe: però così si prendono più voti.
Lo capisco. Ma il Pd deve fare quel salto di qualità per accogliere dentro la sua casa Saviano, o la studentessa di Brindisi, o l'operaio della gru.
Avete avuto degli espulsi anche voi...
Già: Lusi perché rubava e il senatore Villari perché ha fatto il presidente della Vigilanza eletto dal centrodestra!
C'è altro?
Credo che Parlamento e governo abbiano esaurito la possibilità di dare risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte...
Vorrebbe staccare la spina?
Sto dicendo questo. E aggiungo: la legge elettorale proprio non va. O la cambiamo, subito, o – concordandolo con l'Europa – si anticipano le elezioni. lutel

Corriere 1.6.12
Doppio turno virtuoso (se ci sono i partiti)
di Paolo Franchi


Chi si appassiona al dibattito (un po' surreale) su una possibile importazione in tempi stretti del modello francese in Italia, farebbe bene a dare un'occhiata a quel che capiterà, tra il 10 e il 17 giugno, nella circoscrizione di Hénin-Beaumont: una cittadina di 27 mila abitanti, la principale dell'ex bacino minerario del Nord-Pas de Calais, dove la crisi è una condizione di esistenza già da qualche generazione. Erano fortissimi i comunisti, a Hénin-Beaumont, prima che i socialisti svuotassero la loro cassaforte di voti. Un passaggio dal rosso al rosa in una terra destinata comunque a restare di sinistra? No, perché dopo le miniere hanno chiuso anche le fabbriche, l'immigrazione ci ha messo del suo, e vari amministratori e dirigenti socialisti, compreso l'attuale candidato del Ps, Philippe Kernel, hanno provveduto a finire impigliati, e malamente, nelle reti di una Tangentopoli locale.
Così a Hénin-Beaumont, da qualche anno, ha messo salde radici Marine Le Pen, che ne ha fatto il luogo simbolico (e qualcosa di più) della sua leadership e della sua battaglia per conquistare al Fronte Nazionale il voto dei lavoratori colpiti dalla crisi. Qui cinque anni fa è stata eletta consigliere comunale. Qui ha conquistato un clamoroso 31 e passa per cento al primo turno delle presidenziali. Qui è candidata per un seggio in quell'Assemblea nazionale dove cerca di portare qualcosa più di un drappello di deputati dell'estrema destra. Ma qui, ecco la novità, è arrivato, per complicarle il più possibile la vita, Jean-Luc Mélenchon, il leader del Front de gauche che già alle presidenziali aveva cercato, ma senza successo, di contenderle una quota consistente del voto popolare transitato da sinistra a destra in questi anni. Anche lui si giocherà il suo seggio a Hénin-Beaumont. Stando, per quel che valgono, ai sondaggi, Marine sarà sì saldamente in testa al primo turno (qui l'Ump è più allo sbando che altrove), ma Mélenchon ha ottime possibilità di vincere al secondo, quello che conta, anche perché ben difficilmente i socialisti gli faranno mancare i loro voti. Quanto ai comunisti (la federazione del Pas de Calais è la più stalinista di Francia), lo voteranno già al primo: e, per un trotzkista, ancorché stagionato, questa non è solo una curiosità, ma pure una soddisfazione.
Miracoli del doppio turno, almeno in un Paese iperpolitico come la Francia. Prima di tutto sul piano mediatico: questa di Hénin-Beaumont è, per il momento, l'unica contesa delle imminenti legislative che la Francia, dopo la sbornia delle presidenziali, segue da vicino. Ma pure sul piano politico. Madame Le Pen spera, con il voto del 10 e del 17 giugno, di dare il colpo più duro possibile a una Ump acefala e peggio che nervosa dopo l'uscita di scena di Sarkozy, e di fare un passo in avanti decisivo per candidarsi prima o poi, più prima che poi, alla guida della destra francese. E Mélenchon con Hollande e il governo socialista è leale, sì, ma non rinuncia affatto alla competizione a sinistra: a Hénin-Beaumont si batte contro il Fronte Nazionale per vincere riportando dalle parti della vecchia casa il voto operaio, certo, ma il perimetro della sua sfida è quello della gauche. Non si decide tutto nel Pas de Calais, naturalmente. I loro destini, però, e in una certa misura le prospettive della destra e della sinistra francese, passano da queste parti.
Se i francesi si appassionano al duello tra due candidati che, a differenza di quel che capita da noi (vedi, da ultima, Parma) ci hanno comunque messo, eccome, la faccia, è anche per questo. Non è una panacea universale, il doppio turno di collegio. Ma senza il doppio turno di collegio, un meccanismo elettorale maggioritario, cioè, che non ha nulla dell'ordalia, lascia campo alla politica, e pure al gioco politico, e non ingessa i rapporti di forza tradizionali tra i partiti, tutto questo sarebbe stato letteralmente impossibile. Un altro buon motivo per importarlo anche da noi il più presto possibile, si dirà. Giustissimo. Solo che, per farlo, servirebbe la materia prima, e cioè la politica (compreso, eccome, il gioco politico, che non è una parolaccia) e pure i partiti: vecchi, nuovi, solidi, liquidi o gassosi, ma partiti. Tutte cose che non si inventano, e che nessun sistema elettorale, nessun ordinamento istituzionale possono, come per un miracolo, regalarci.

Repubblica 1.6.12
L’appello di 12 giuristi "Il Parlamento blocchi la riforma costituzionale"
"La riduzione dei parlamentari può avvenire anche senza stravolgere la Carta"


Caro direttore, con una inammissibile precipitazione il Senato ha approvato in commissione un disegno di legge di riforma costituzionale che s´intende portare in aula già martedì prossimo. Ma la Costituzione non può essere profondamente mutata senza una vera discussione pubblica, senza che i cittadini adeguatamente informati possano far sentire la loro voce. E´ inaccettabile che la richiesta di partecipazione, così forte ed evidente proprio in questo momento, venga ignorata proprio quando si vuole addirittura modificare l´intero edificio costituzionale. I cittadini, che negli ultimi tempi sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione, non possono essere messi di fronte a fatti compiuti.
Offrendo ad una opinione pubblica offesa da prevaricazioni e prepotenze un´esigua riduzione del numero dei parlamentari, che passerebbero da 630 a 508 alla Camera e da 315 a 254 al Senato, si vuol cogliere l´occasione per alterare pericolosamente l´assetto dei poteri istituzionali (la riduzione dei parlamentari può essere affidata ad una legge costituzionale a sé stante, senza stravolgere la Costituzione). Viene attribuita una posizione assolutamente centrale al Presidente del Consiglio, mortificando il Parlamento e ridimensionando in maniera radicale la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica. Il Parlamento è conculcato nelle sue stesse funzioni e nella sua libertà, fino a poter essere sciolto dallo stesso Presidente del Consiglio, nel caso votasse contro una sua legge sul quale fosse stata posta e negata la fiducia. L´intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere attribuisce a quest´ultimo un improprio strumento di pressione e rende marginale il ruolo del Presidente della Repubblica. I problemi del bicameralismo vengono aggravati, il procedimento legislativo complicato. Gli equilibri costituzionali sono profondamente alterati, cancellando garanzie e bilanciamenti propri di un sistema democratico. E ora si propone di passare da una repubblica parlamentare ad una presidenziale, di mutare dunque la stessa forma di governo, addirittura con un emendamento che sarà presentato in aula all´ultimo momento.
I firmatari di questo documento denunciano all´opinione pubblica la gravità di questa iniziativa per i pregiudizi che può arrecare alle istituzioni della Repubblica e si rivolgono a tutti i parlamentari perché rinuncino a portare avanti una modifica tanto pericolosa del sistema costituzionale.
Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Alessandro Pace, Alessandro Pizzorusso, Eligio Resta, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky

Corriere 1.6.12
Tidei-Adinolfi, la poltrona per due divide il Pd
Il sindaco di Civitavecchia non lascia la Camera. E il blogger attacca Bersani
di Alessandro Trocino


ROMA — Deputato del Pd e, da poco, sindaco di Civitavecchia. Situazione incompatibile per Pietro Tidei, che però traccheggia e aspetta che la procedura faccia il suo corso. Situazione d'attesa per Mario Adinolfi, che aspetta impazientemente di subentrare e accusa il Pd di non volerlo. Situazione difficile per il Pd, che è sempre stato nemico giurato delle incompatibilità e che finisce per subire il duello tra Adinolfi e Tidei.
A portare alla luce il caso è proprio Adinolfi, che da giorni martella contro il silenzio del Nazareno, al quale sarebbe «sgradito». Tidei in un primo tempo spiega che non si dimette perché preoccupato dalla situazione del tribunale di Civitavecchia e dalla questione dei rifiuti. Il pd Andrea Sarubbi si offre di essere la sua «longa manus» alla Camera, incitandolo a lasciare. Niente da fare.
La vicenda arriva in Parlamento ieri. Si riunisce il Comitato per le incompatibilità, primo passo per ufficializzare la situazione e sottoporla alla giunta per le elezioni. Il terzo passaggio prevede che il presidente della Camera dia 30 giorni di tempo al deputato-sindaco per scegliere. Dopodiché, in caso di non scelta, decadenza. Ma la procedura si è intoppata subito. Presenti al Comitato, 4: il presidente Pino Pisicchio (Api), Tidei (in quanto membro della Giunta) e due deputati pd, Mario Oliverio e la capogruppo Donata Lenzi. La quale eccepisce la necessità di sentire Tidei prima di procedere e l'impossibilità di votare, con così pochi membri. Pisicchio non è d'accordo: «La Consulta ha dato certezza alle incompatibilità, la procedura è automatica. Si poteva votare». La Lenzi si arrabbia: «Incredibile, accusano noi di non voler votare l'incompatibilità? Ma noi vogliamo, sono gli altri che non si presentano». Pisicchio ha riconvocato la seduta per martedì.
Pier Luigi Bersani, chiamato in causa, si lascia sfuggire: «Deciderà il gruppo». Colleghi di partito, con delicatezza, lo correggono, spiegando che è la giunta a stabilire l'incompatibilità, non il gruppo. Adinolfi si arrabbia e forse un po' gongola: «Sono incredulo. Bersani ha risposto che decide il gruppo. No. Ha deciso la Consulta. Si faccia spiegare da Saviano il rispetto della legge». Tidei, intanto, replica: «Le regole non si possono piegare alla smania di subentrarmi dell'intemperante Adinolfi, più adatto ai tavoli del poker che alla Camera. Deciderò nei termini previsti».
Sarubbi non è d'accordo: «Altri si sono dimessi il giorno dopo le elezioni. Non possiamo dare alibi a Grillo e farci prendere a schiaffi. Non credo all'ostracismo del Pd nei confronti di Adinolfi: credo che Tidei non si dimetta per motivi personali». Quali possano essere, lo sussurrano in molti, sottovoce: il comune di Civitavecchia ha un buco di 30 milioni di euro. Il rischio di dissesto e di commissariamento è tangibile. Tidei rischia di passare da due poltrone a zero. A meno di non scegliere la Camera. A tempo debito.

Corriere 1.6.12
Il console fascio-rock sospeso per quattro mesi


ROMA — Oltre a mantenere posto in diplomazia e grado di ministro plenipotenziario, il console che ha definito la Repubblica italiana «fondata sulle menzogne e i tradimenti» e «da mafiosi italiani riportati a casa dagli americani» ha ricevuto dalla Farnesina meno del massimo previsto per la sanzione adottata, la sospensione dalla qualifica. Il sottosegretario agli Esteri de Mistura ha riferito alla Camera che per Mario Vattani, su proposta della commissione di disciplina accolta dal ministro Terzi, è stata disposta una sospensione di 4 mesi. Le misure possibili andavano da una lettera di richiamo al licenziamento. Fra le intermedie, la sospensione poteva arrivare fino a 6 mesi. La commissione ha rilevato «grave non conformità ai doveri d'ufficio», ma dopo l'estate ci sarà il ritorno in servizio del diplomatico che prima di insediarsi console ad Osaka ha cantato inneggiando alla «bandiera nera» tra saluti romani.

il Fatto 1.6.12
Il papa a Milano: una visita da 13 milioni
Al via il VII incontro delle famiglie Pisapia insiste: “Sì alle unioni civili”
di Luigi Franco


Un milione e duecentomila pellegrini. Tradotto: tre giorni di popolazione raddoppiata. Ruota tutta attorno a questa cifra da record la macchina organizzativa che sta preparando Milano all’arrivo del Papa. La visita più lunga in una città italiana nella storia dei pontefici. Benedetto XVI atterrerà a Linate questo pomeriggio alle 17. Alle spalle i contrasti dei palazzi vaticani e le rivelazioni dei ‘corvi’. Ad attenderlo le polemica sul ruolo della famiglia, proprio il tema al centro di questo incontro mondiale.
Due giorni fa lo scontro a distanza tra Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni. “Se entro la fine dell’anno il Consiglio comunale non deciderà, assumerò io personalmente con la mia giunta la decisione sul registro delle unioni civili”, ha promesso il sindaco di Milano. “Di famiglia ne conosco una sola, fatta di un uomo, una donna e dei bambini”, ha replicato il presidente della Lombardia. Battibecchi che si aggiungono ai mal di pancia all’interno della stessa maggioranza arancione per “il deficit preoccupante di laicità” che accompagna la visita del Papa. Queste le parole della capogruppo di Fds in Consiglio comunale, Anita Sonego, che ha anche messo nel mirino i soldi pubblici stanziati per l’evento “in un periodo di crisi come questo”.
Il Comune ha previsto una spesa di 3,1 milioni di euro per potenziare i servizi in questi tre giorni: trasporti, sicurezza, pulizia delle strade. Soldi che secondo la giunta andranno a favore di tutta la città, dei milanesi oltre che dei pellegrini. In ogni caso, è saltato il milione di euro che Letizia Moratti aveva promesso alla Curia, senza mai però metterlo a bilancio.
CI SONO poi i due milioni elargiti da regione Lombardia e il 27esimo piano del Pirellone messo per nove mesi a disposizione della Fondazione Milano Famiglie 2012, che ha iniziato a organizzare l’evento quasi due anni fa. Spesa complessiva 10 milioni di euro, finanziati oltre che dalla Regione, dall’arcidiocesi di Milano, dalla Cei e da numerosi sponsor, come Intesa San Paolo, Eni ed Enel. Investimenti che saranno ben ripagati, fa sapere la fondazione, visto che l’indotto previsto è di 55 milioni di euro. Soldi portati dal milione di pellegrini che sono già iniziati ad arrivare. Ieri qualcuno si aggirava incuriosito per piazza Duomo, mentre gli operai spostavano transenne e preparavano il palco sul sagrato .
Se Milano reggerà, però, lo si inizierà a capire oggi. Una città sotto assedio, un assedio ‘gentile’, dicono le autorità. Allerta massima, le bonifiche delle strade dove passerà il papa sono già partite nei giorni scorsi: tolti i cestini, controllati i tombini. Per l’evento più delicato, la messa di domenica mattina a Bresso, sono state addirittura visionate le mappe militari per studiare al meglio come difendere il perimetro del parco Nord. Nei tre giorni saranno impiegati 15mila uomini, tra forze dell’ordine, vigili del fuoco e protezione civile. Ci sarà poi un esercito di 6mila volontari. A seguire il corteo papale un apparato di sicurezza imponente, tiratori scelti sui tetti, quattro elicotteri di polizia e carabinieri in volo. Primo trasferimento quello di oggi tra l’aeroporto di Linate e piazza Duomo, dove alle 17.30 Benedetto XVI terrà un discorso alla cittadinanza.
SULLA papamobile non salirà, come altre volte, il suo ex maggiordomo Paolo Gabriele, finito in una cella del Vaticano con l’accusa di essere uno dei responsabili della fuoriuscita di documenti riservati. Tre giorni di mezzi potenziati, metro tutta la notte, bus già in strada alle 4 di mattino, la zona a nord di Milano vicino a Bresso chiusa a quasi tutto il traffico. Misure eccezionali per un programma che dopo la presenza di Benedetto XVI in Duomo prevede il concerto alla Scala stasera. Domani la festa dei cresimandi alle 11 allo stadio San Siro e alle 16 l’incontro nell’area allestita all’aeroporto di Bresso, dove in serata il pontefice salirà per la prima volta sul palco da 50 metri. Meglio di una rockstar. Alle 10 di domenica la messa, sempre a Bresso, da dove il Papa partirà dopo aver recitato l’Angelus. Direzione Linate. Poi, alle 17.30, in volo per Roma.

il Fatto 1.6.12
Rottura sulle inchieste in Vaticano
La gendarmeria vuole sentire i cardinali che si negano e chiedono rogatoria per Nuzzi
di Carlo Tecce


Non si finisce di litigare in Vaticano, per usare una formula estremamente ottimistica. Non si finisce di separare le fazioni che si scontrano senza clemenza cristiana. Quelle vicine al cardinale Tarcisio Bertone contro quelle nostalgiche di Angelo Sodano e Camillo Ruini. Anche le indagini per scovare e punire i traditori di Vatileaks, una lista di venti sospettati ridotta al maggiordomo Paolo Gabriele, e i metodi utilizzati dividono i gruppi avversari che indeboliscono il pontificato di Benedetto XVI.
Non è azzardato accostare l’ispettore generale Domenico Giani, che coordina l’inchiesta dei gendarmi con il procuratore Nicola Picardi, al Segretario di Stato piemontese: le lettere e i documenti pubblicati hanno colpito soprattutto la gestione di Bertone. Non è neppure sbagliato intravedere nei tre cardinali che compongono la commissione inquirente, Tomko, Herranz, De Giorgio, le aspettative di pulizia morbida di padre Georg e, inevitabilmente, di Benedetto XVI. Non stupisce, allora, l’indiscrezione che racconta la rottura fra le due inchieste: la gendarmeria avrebbe cercato di interrogare un paio di porporati, presunti mandanti di Gabriele e di numerosi laici italiani, ma i cardinali avrebbero rifiutato. Questo rafforza una notizia curiosa: appena terminano i colloqui con fonti interne di altissimo livello, colleghi cardinali oppure arcivescovi e sacerdoti, Tonko, Herranz e De Giorgio bruciano i fogli su cui appuntano i particolari raccolti, destinati soltanto al Papa attraverso don Georg.
BENEDETTO XVI ha recentemente rinnovato la sua fiducia e la sua amicizia ai collaboratori più stretti, proprio per evitare screzi insanabili fra don Georg e Bertone. Il pontefice non vuole rinunciare al Segretario di Stato né allontanare l’inseparabile assistente di nazionalità tedesca, ma la sensazione diffusa è che la caccia a corvi e talpe rimanga incagliata verso il basso: ai laici, ai funzionari. Un obiettivo troppo piccolo per risolvere un grande dilemma: sacrificare Bertone per calmare l’opposizione o cercare un compromesso fra le parti? Nessuno dimentica che domenica scorsa in piazza San Pietro, primi giorni di scandali e prigioni, i cardinali Giovanni Battista Re e Angelo Sodano fossero assenti. Tutti si fanno domande, però. Prima di atterrare al ministero di Grazia e Giustizia, dove attendono le rogatorie vaticane che padre Lombardi smentisce con cautela diplomatica, l’inchiesta su Paolo Gabriele dovrà fare un passo decisivo: volgere verso gli arresti domiciliari, giudice istruttore Bonnet permettendo. Sono due le rogatorie in arrivo con il timbro Santa Sede per i magistrati italiani. Una riguarda i laici che operano in Vaticano: potrebbero rispondere dei reati di attentato alla riservatezza e sicurezza di uno Stato, furto aggravato e ricettazione.
Ma il Vaticano - seconda richiesta - vorrebbe che i magistrati italiani ascoltassero Gianluigi Nuzzi, autore di Sua Santità per Chiarelettere, un libro che raccoglie anche la corrispondenza privata del Papa. La casa editrice e il giornalista fanno sapere di aver agito per informare, e basta. L’aiutante di camera, che la gendarmeria tiene rinchiuso in una stanza di sicurezza, avrebbe fornito dettagli importanti: avrebbe confessato. E dunque per superare il colonnato di San Pietro è necessaria la collaborazione con la giustizia italiana. Anche per far tacere quelle voci che accusano i gendarmi di aver svolto pedinamenti e intercettazioni in territorio italiano, delicate azioni per cercare le prove contro vari funzionari italiani che lavorano per la Segreteria di Stato. Nel consueto appuntamento in sala stampa con i giornalisti, che viene utilizzato per correggere i quotidiani, padre Federico Lombardi ha negato pure un’attività oltre confine dei gendarmi: “Non si sono svolte investigazioni in Italia”.

La Stampa 1.6.12
Vaticano, l’inchiesta. Cinque laici nel mirino degli inquirenti
Pronte le rogatorie per l’autore di “Sua Santità” e per alcuni dipendenti dei Sacri palazzi
di Giacomo Galeazzi


Al ministero di Giustizia attendono dai magistrati vaticani due distinte richieste di rogatoria: una per i dipendenti laici della Santa Sede che risiedono in Italia e una per Gianluigi Nuzzi, autore di «Sua Santità», il libro che ha reso pubbliche alcune carte segrete del Papa e per il suo editore Lorenzo Fazio di Chiarelettere. Nel mirino degli investigatori ci sono cinque persone che, con diverse ipotesi di reato (furto aggravato, ricettazione, attentato alla sicurezza dello Stato) potrebbero finire a giudizio. Benedetto XVI, nella preghiera di chiusura del mese mariano, auspica che ci sia più letizia anche in Vaticano: «La “famiglia” della Santa Sede serve la Chiesa universale». I legali del maggiordomo papale, Paolo Gabriele, detenuto da nove giorni nella caserma della Gendarmeria, presenteranno al giudice istruttore la richiesta di libertà vigilata o di arresti domiciliari. Intanto le indagini sulla fuga di carte riservate dal Vaticano e dal tavolo di lavoro del Pontefice si stanno concentrando sul materiale sequestrato nell’appartamento dell’assistente di camera di Benedetto XVI. Fra la documentazione rinvenuta nel corso delle perquisizioni e ora all’esame dei magistrati della Santa Sede, ci sono anche documenti scritti in tedesco, la lingua parlata dal Papa, e da pochi altri stretti collaboratori, ma non dallo stesso Gabriele. Gli interrogatori del maggiordomo del Pontefice non cominceranno prima della settimana prossima, forse tra lunedì e martedì. Perché ciò avvenga, infatti, l’avvocato di Gabriele, Carlo Fusco, dovrà avanzare istanza formale. In questi giorni l’indagato sta infatti avendo diversi colloqui con il suo legale e ha dichiarato la propria intenzione di collaborare per consentire di appurare la verità su quanto è avvenuto. Sentire Nuzzi servirà invece ad accertare se c’è stato il passaggio di carte tra il maggiordomo e l’autore del libro.
«De facto» stanno seguendo percorsi paralleli le inchieste sui «corvi» condotte dalla commissione cardinalizia, che riferisce al Pontefice e al suo segretario don Georg, e dalla gendarmeria, che fa riferimento al segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Con il trasferimento negli Usa dell’arcivescovo Viganò (entrato in rotta di collisione con Bertone dopo la sua denuncia di malaffare in Curia), i nuovi vertici del Governatorato, Bertello e Sciacca hanno posto l’ispettorato guidato dal comandante Domenico Giani nell’alveo bertoniano. E così la Santa Sede ha dovuto precisare che i cardinali possono essere interrogati solo dai loro pari grado Herranz, De Giorgi, Tomko. Insomma c’è divergenza anche tra le due entità che stanno indagando sulla fuga di notizie da cui esce gravemente incrinata l’attuale «governance» vaticana, impegnata in una lotta senza quartiere con la vecchia guardia diplomatica (Sodano, Sandri, Re).
L’attivismo della gendarmeria tra bunker per le intercettazioni di telefonate e mail, hacker ingaggiati per scoprire le «talpe» e indagini negli uffici curiali turba consolidati assetti interni. E in questo clima di veleni e sospetti, torna oggi a riunirsi la commissione di vigilanza sullo Ior, dopo che venerdì scorso i cardinali che la compongono si erano spaccati sul brusco allontanamento del presidente Ettore Gotti Tedeschi. Da oggi a domenica arriva per il Papa la boccata d’ossigeno tanto attesa, fuori dal clima dei «veleni» e dalla bufera che ha investito il Vaticano e scosso il governo della Chiesa. Benedetto XVI punta sull’Incontro della famiglie di Milano per riportare in primo piano valori pastorali e spirituali rimasti offuscati dall’imperversare del ciclone «Vatileaks». Intanto ieri sera, alla tradizionale processione nei Giardini vaticani, di fronte anche ai cardinali di Curia e ai vescovi, il Pontefice ha auspicato che la «letizia spirituale sia più consolidata nei nostri animi, nella nostra vita personale e familiare, in ogni ambiente», e «specialmente nella vita di questa famiglia che qui in Vaticano serve la Chiesa universale». Corvi e talpe non spaventano il Papa teologo.

La Stampa 1.6.12
“Non hanno certo tradito per aiutare il Pontefice”
Il primate del Messico Rivera Carrera: fatto doloroso ma isolato
di Andrea Tornielli


MILANO Il tradimento non potrà mai aiutare qualcuno, né il Papa né nessun altro…». Norberto Rivera Carrera, primate del Messico, settant’anni anni fra una settimana, creato cardinale nel 1998 da Papa Wojtyla, arcivescovo di una delle diocesi più grandi del mondo, già da due giorni percorre in lungo e in largo i padiglioni di Fiera Milanocity dove si sta svolgendo il VII incontro mondiale delle famiglie.
Eminenza, che cosa pensa del caso Vatileaks?
«Sappiamo che quanto è accaduto ha causato al Papa un dolore grande e profondo. Credo però che anche che quelli che hanno scritto le lettere pubblicate si sentano male, perché si sono confidati con Benedetto XVI su vicende personali, su ciò che in coscienza pensavano, e questo segreto, questa intimità, questa comunicazione confidenziale è stata violata. Non si colpisce solo il Papa o la Curia, ma tutti coloro che si confidano per iscritto con il Papa».
Siete diventati più timorosi nelle comunicazioni con Roma?
«No, ciò che è accaduto è doloroso, ma è un fatto isolato. Queste violazioni non rappresentano certo la normalità. Piuttosto ci attestano ancora una volta che le persone ferite dal peccato ci sono dappertutto».
Ha colpito il coinvolgimento di una persona che appartiene alla famiglia pontificia…
«Sì, perché si supponeva essere una persona raccomandabile, nella quale si era posta una grande fiducia. E invece vediamo che è anche l’ambito della Chiesa non è estraneo alle cadute e alle debolezze umane».
Qual è la sua esperienza della Curia romana?
«Tutte le volte che l’ho frequentata, partecipando alle riunioni delle varie congregazioni, ho avuto esperienze positive: è una curia che sa in primo luogo ascoltare, dove si lavora e si tenta di rispondere alle nuove domande che la vita della Chiesa propone».
I «corvi» dicono di aver voluto «per aiutare il Papa». Che cosa ne pensa?
«Il tradimento, l’inganno, il giocare a nascondino, non aiuterà mai nessuno, né il Papa né ad alcun Prefetto di congregazione. Credo invece che soltanto la trasparenza e la lealtà aiutino le persone e dunque anche il Papa. Compiere questi atti, anche se si dice di essere motivati da buone intenzioni, non aiuta nessuno».
Si è detto che Vatileaks sia un’operazione contro il Segretario di Stato Bertone. Lo crede anche lei?
«Non so quale sia lo scopo delle fughe di notizie. E non so se la Segreteria di Stato abbia dei problemi, non ci ho mai lavorato. Posso solo testimoniare che nelle riunioni alle quali ho partecipato, nelle quali interveniva la Segreteria di Stato, si trattava di interventi propositivi e fruttuosi».
È noto che il Papa abbia stima del cardinale Bertone…
«Quando scegliamo un segretario cerchiamo di avere accanto a noi una persona di fiducia, con cui lavorare bene. Ci possono essere diversità di opinioni all’interno della Curia, è la pluralità della Chiesa. Non tutti la devono pensare allo stesso modo. Può anche accadere che i metodi di lavoro di qualcuno non piacciano a qualcun altro, o che una decisione non trovi d’accordo tutti. Ma bisogna rispettare il modo di lavorare dell’altro. Se il Papa continua a volere al suo fianco il cardinale Bertone è perché ha la sua fiducia».
Il Papa viene spesso presentato come un dogmatico, un conservatore. Qual è la sua esperienza in proposito?
«È vero, certi media lo presentano come un Papa dogmatico e dottrinale. Invece il Papanel suo magistero e nella sua testimonianza di vita ci mostra che ciò che è più importante non è la dottrina né il dogma, ma il rapporto personale con l’avvenimento di Cristo, che accade nella nostra vita e ci chiama alla conversione. Il cristianesimo non ha origine da una legge o da una dottrina, ma da una persona viva. Durante la sua recente visita in Messico, ho visto in pochi giorni un grande cambiamento dei media che quando è arrivato lo presentavano secondo il solito cliché, e alla fine si sono resi conto della sua vicinanza alla gente semplice».

Corriere 1.6.12
Ior, nel mirino conti sospetti di religiosi
Da Bankitalia alla magistratura la segnalazione di una decina di operazioni
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Flussi finanziari transitati su conti correnti dello Ior e poi finiti su altri conti aperti presso banche italiane ed estere. Depositi intestati a preti e suore che sarebbero stati utilizzati per «ripulire» il denaro o quantomeno per occultarne la provenienza. Mentre non sono ancora sopite le polemiche per la destituzione del presidente Ettore Gotti Tedeschi, c'è un'altra vicenda che rischia di aizzare lo scontro interno al Vaticano. E di far emergere un nuovo scandalo sulla gestione dell'Istituto delle Opere Religiose. Perché sono almeno una decina le segnalazioni di operazioni sospette già analizzate dall'Uif, l'Ufficio di informazione finanziaria di Bankitalia e poi trasmesse alla magistratura e alla Guardia di Finanza per gli accertamenti di tipo penale. E tutte riguardano prelati che avrebbero accettato di fare da prestanome per passaggi di denaro con finalità che appaiono ancora oscure.
Le varie relazioni trasmesse dagli analisti di Via Nazionale riguardano conti diversi, ma non si può escludere che almeno alcune possano essere collegate tra loro e riguardare operazioni illecite per le quali era necessario un frazionamento su depositi diversi. Per questo si è deciso di riunirle in un unico filone e di svolgere accertamenti paralleli anche per stabilire eventuali connessioni tra persone diverse e soprattutto tra beneficiari diversi, almeno apparentemente.
Al momento si sa che le movimentazioni che hanno generato allarme sono state segnalate da istituti di credito italiani ed esteri e soltanto la ricostruzione dei vari passaggi ha consentito di stabilire che una delle «tappe» era interna alla Santa Sede. Un meccanismo ben individuato due anni fa dalla Procura di Catania che accertò come Antonino Bonaccorsi, fratello del boss Vincenzo condannato con sentenza definitiva per associazione mafiosa, era riuscito a «ripulire» 300 mila euro di provenienza illecita facendoli depositare sul conto aperto dal figlio prete, don Orazio, presso lo Ior grazie al collegamento homebanking e dunque all'utilizzo dei codici di sicurezza assegnati proprio al prelato.
Un «sistema» che le indagini condotte dal pool di magistrati romani coordinato dal procuratore aggiunto Nello Rossi ha ricostruito in tutte le sue fasi, anche se i rapporti tra l'Italia e la Città del Vaticano in questa materia hanno subito fasi alterne e attualmente la collaborazione sembra entrata in una fase di stallo.
Le varie «Sos» (segnalazioni operazioni sospette), sono scattate quando su alcuni conti correnti di normali banche sono stati notati prelevamenti e depositi di somme ingenti che non trovavano giustificazione rispetto al normale andamento oppure che erano stati frazionati proprio nella speranza di non alimentare sospetti. E invece i primi accertamenti hanno consentito di scoprire che i soldi venivano spostati su conti dello Ior e poi riaccreditati per tentare di farne perdere le tracce. Nella maggior parte dei casi la causale parla genericamente di beneficienza. Esattamente la «voce» che usava Don Evaldo, il prete a disposizione della «cricca» dei Grandi eventi, quando ridistribuiva il denaro che gli era stato affidato da funzionari e costruttori.
Numerose operazioni sono state effettuate online e proprio questo ha generato il sospetto che in realtà i prelati siano soltanto dei prestanome disponibili a consegnare i codici di accesso ai proprietari del denaro. Per identificare i reali beneficiari e stabilire la provenienza dei soldi bisognerà adesso ricostruire rapporti e legami dei preti e delle suore coinvolti. Una verifica che, visto quanto sta accadendo in Vaticano, rischia di avere clamorose conseguenze.

Corriere 1.6.12
Vaticano, la «sindrome italiana» si scarica sul futuro Conclave
di Massimo Franco


A lzando la testa un po' sopra i confini angusti della Roma papalina e della penisola, ci si accorge che lo scontro in atto in Vaticano viene letto con un'ottica un po' diversa da quella più in voga. A livello internazionale decifrano quanto sta accadendo come «una congiura italiana, anzi italiota». E col secondo aggettivo si intende accentuare un'atmosfera di intrigo e di conflitto permanente, tipici del nostro Paese. L'analisi ormai va oltre la sorte del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, o lo scontro fra lui e la Cei. Esula dalla divisione opinabile tra «riformatori» e «conservatori». Ridimensiona perfino il siluramento brutale del presidente dello Ior, la «banca vaticana», Ettore Gotti Tedeschi. Sarebbero tutti schemi fuorvianti: quasi depistaggi.
La convinzione è che quanto sta accadendo configuri un'operazione mirata a piegare Benedetto XVI in vista del prossimo Concistoro che designerà altri cardinali per il Conclave. Ma, proprio perché nate nella pancia del potere curiale, si tratta di rese dei conti che non convincono gli episcopati del resto del mondo; anzi, aumentano le loro diffidenze. L'unico vero effetto che stanno avendo, è di lasciar trasparire la filiera dei potenziali sconfitti: le «eminenze» italiane. Comunque la si osservi, la vicenda dei «corvi» e quella dello Ior, col contorno di veleni che le correda, offrono un'immagine devastante della Chiesa cattolica peninsulare. I vescovi, il segretario di Stato, i cospiratori che cercano di scaricare tutte le colpe su Bertone: sono altrettante vittime di una manovra nella quale prevale l'intrigo e si confondono le responsabilità.
Il Vaticano viene riportato a una dimensione terrena, anzi terragna e profana, nella quale rischia di non salvarsi nessuno. Il silenzio degli episcopati non italiani è quello di chi si è rassegnato a osservare a distanza di sicurezza un'involuzione che non prevede lieto fine; e che verrà fatta pesare quando si tratterà di eleggere il successore di Benedetto XVI. E la cautela nelle reazioni dei vescovi italiani riflette una preoccupazione e uno stupore crescenti; ma forse tradisce anche una miscela psicologica nella quale convivono l'insofferenza per il modo di agire di Bertone e insieme la proiezione verso il prossimo Conclave. E quanti non sono ascrivibili a questo o quello schieramento, appaiono schiacciati da quanto accade. Comunque, non hanno la forza né la temerarietà sufficiente per chiedere un «cessate il fuoco».
Per il momento non sembra che il papa voglia cambiare la sua agenda. Se è vero che sta bene, che rifiuta logiche di cordata, e che sugli scandali della Curia non vuole avallare teoremi, verrebbe da concludere che l'offensiva può continuare ma non produrrà i risultati sperati da quanti la manovrano. Gli aspiranti «registi» si rivelano apprendisti stregoni, capaci di delegittimare e distruggere gli equilibri esistenti; eppure non sembrano in grado di dare corpo a una soluzione alternativa a quella fragile e contestata che oggi governa la Chiesa cattolica. Il fatto che l'attacco sia arrivato nel cuore dell'«Appartamento», fra le persone più vicine al pontefice, è un salto di livello. L'apparente coinvolgimento del cameriere personale di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, stordisce e insieme costringe a guardare in faccia una realtà inaspettata.
Drammatizza i contorni dello scandalo. Ma riduce per forza di cose anche le distanze e le differenze di vedute fra Bertone e il segretario di Benedetto XVI, padre Georg Gänswein. Entrambi sono colpiti dalla fuga di notizie riservate e dalla caccia ai responsabili, quantunque in modo e misura diversa. Eppure, se il vero obiettivo dell'offensiva è di condizionare il pontefice, l'impressione è che papa Ratzinger risponderà ancora una volta confermando la fiducia ai suoi collaboratori: almeno per ora. Uno storico della Chiesa come il ministro Andrea Riccardi ricorda che nel passato, in Vaticano sono successe cose anche più gravi delle attuali. Vero, ma non si respirava come oggi la sensazione che un'epoca stia veramente tramontando; e che la sequenza degli scandali sia non la causa ma la conseguenza di un modello che non regge più. La Chiesa, assicura il cardinale Francesco Coccopalmerio, un giurista, «uscirà purificata».
Ma certo dovrà prima liberarsi di quelli che oggi si presentano come «titoli tossici», per assecondare il paragone che vede una Chiesa in crisi morale, speculare a quella economica dell'Italia. Colpisce sentir parlare anche Oltretevere di spread, lo scarto fra titoli di Stato italiani e tedeschi, che da mesi è una sorta di termometro della crisi di credibilità del governo italiano. Si parla di uno scarto preoccupante fra l'affidabilità etica che la Chiesa dovrebbe dare, e quella che invece sta mostrando da mesi. «Lo spread morale vaticano è altissimo», si ammette. «Potrebbe fare pensare che la Santa Sede sia vicina al fallimento. Ma l'attacco speculativo si sgonfierà, perché Benedetto XVI sta bene e non si farà influenzare da chi scommette sul collasso del papato». Per paradosso, l'antidoto dovrebbe essere più facile da trovare rispetto alle difficoltà di un governo italiano costretto a fronteggiare la speculazione finanziaria internazionale. Se è vero che l'attacco arriva dall'interno della Chiesa, e che ha contorni tutti italiani, in apparenza la soluzione è a portata di mano. A meno che i contrasti non riflettano divisioni più profonde; e uno scadimento del senso di appartenenza alla Chiesa e di culto del segreto, che ne hanno costituito per secoli la forza e il fascino. In questo caso, la «sindrome italiana» e autodistruttiva sarebbe difficile da fermare, nonostante un Papa tedesco. E i finti bersagli finirebbero per produrre danni veri, duraturi: macerie capaci di fare apparire i crolli dei titoli degli Stati «laici» e la crisi delle economie occidentali come una piccola cosa.

Corriere 1.6.12
Pronte le rogatorie per Nuzzi e 5 «corvi»
di G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — L'iter è partito e le rogatorie preparate dalla magistratura vaticana al momento sono due: la prima riguarda Gianluigi Nuzzi, autore del libro Sua Santità sulle «carte segrete» del Papa; la seconda le altre persone coinvolte nella vicenda dei «corvi», «quattro o cinque». Padre Federico Lombardi ha smentito ieri che le rogatorie alle autorità italiane siano partite, «questo può avvenire, ma non prima di altri accertamenti». Però l'iter è complesso, passa attraverso la nunziatura in Italia e i ministeri di Esteri e Giustizia, e ci si è mossi per tempo: in base agli articoli 22 e 23 (sugli ecclesiastici: segno che non sono coinvolti solo «laici») del Trattato del Patti Lateranensi. I reati contestati vanno dalla ricettazione alla violazione della corrispondenza di un capo di Stato. Il maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, è stato «incastrato» dal fatto che alcune carte pubblicate, come un bilancio della «Fondazione Joseph Ratzinger», potevano trovarsi solo nell'appartamento del pontefice perché non ancora archiviate in segreteria di Stato. I gendarmi le hanno trovate a casa di Gabriele. La casa editrice di Nuzzi, Chiarelettere, ha ribadito che la Cassazione «ha più volte escluso che la ricezione di documenti riservati da parte di un giornalista possa essere considerata reato» anche se «in ipotesi sottratti da terzi al proprietario». Il quadro delle indagini e dei sospetti è già definito, anche se proseguono le «audizioni» della commissione cardinalizia e gli interrogatori e i controlli dei magistrati e della Gendarmeria: ieri è trapelata notizia di un'altra perquisizione negli uffici vaticani, già setacciati. Lunedì o al più tardi martedì ci sarà l'interrogatorio del maggiordomo. Gli avvocati presenteranno istanza per la libertà vigilata o i domiciliari, Gabriele «collaborerà» e ci si aspetta che dopo l'interrogatorio gli vengano concessi i domiciliari. Il governo ha comunicato alla Camera di non esser stato ufficialmente «coinvolto» e che «non risulta» ancora un «passo diplomatico» della Santa Sede. Ma una forma di «segnalazione» ci sarà. Benedetto XVI, ieri, ha pregato perché ci sia più «letizia spirituale» negli animi: «Specie nella vita di questa famiglia che qui in Vaticano serve la Chiesa universale», e cioè nella Curia.

Repubblica 1.6.12
Il Corvo e Bertone la guerra medievale all’ombra del Papa
di Ezio Mauro


"Qui c´è una buona quantità di ricattatori, di ricattati e una percentuale ridotta di uomini di fede: tra questi i Santi che tengono in piedi la Chiesa"
Padre Georg è l´orecchio cui indirizzare tutte le proteste, il canale per informare il Papa, senza transitare dalla Segreteria di Stato

Il volo del corvo sulle mura vaticane (dove un tempo s´innalzava nei mosaici di San Pietro la più nobile fenice, simbolo della verginità immacolata ma ancor più della dignità della Chiesa che non muore) è in realtà soltanto il penultimo atto di una battaglia medievale spostata nel ventunesimo secolo. Dunque spettacolare per i media, infarcita di simboli come un romanzo popolare sui poteri occulti, clamorosa nel rovesciamento pubblico di quel "segreto" che è buona parte del mistero della potestà papale fin da Bonifacio VIII che ebbe la cura e la preveggenza, dopo aver nominato il suo cameriere, di non rivelarne mai il nome, per evitare pubblici guai.
Oggi tutto il mondo conosce il nome di Paolo Gabriele, il maggiordomo di Benedetto XVI finito in una cella vaticana di quattro metri per quattro, con l´accusa di essere l´uomo della cospirazione: appunto il corvo. Ma chi vive all´interno delle Mura sa che la partita è più larga, conta molti protagonisti in più, e soprattutto dura da molto tempo. La vera posta è la Segreteria di Stato, cioè il governo della Santa Sede, la carica ecclesiastica più alta sotto il trono papale. Per cominciare bisogna andare indietro negli anni, alla prima insofferenza organizzata di 15 cardinali contro Tarcisio Bertone, pochi mesi dopo la sua nomina a Segretario di Stato al posto di Angelo Sodano.
A Bertone, fedelissimo del Papa fin dagli anni passati all´ex Sant´Uffizio, nessuno rimprovera incapacità e inesperienza nel ruolo importantissimo che svolge. Piuttosto l´ambizione di occupare spazi altrui (come dimostra il conflitto permanente con la Cei, cioè con Bagnasco, sulla titolarità del "protettorato" da esercitare nei confronti della "cattolicissima Italia"), la disinvoltura nelle relazioni con il mondo italiano della politica e della finanza, i metodi salesiani e sbrigativi all´interno, nella costruzione meticolosa di un sistema di potere.
Contro Bertone si muovono cardinali in gruppo e isolati. Le Eminenze che possono, ne parlano al Papa, com´è successo un anno fa durante un pranzo a Castel Gandolfo con i cardinali Ruini, Scola e Bagnasco; altri gli scrivono; chi non arriva al pontefice, si lamenta negli uffici e nei corridoi. «Qui dentro - dice chi mi fa da guida e mi aiuta a capire - c´è una buona quantità di ricattatori, un numero uguale di ricattati, una massa di employé, e una percentuale ridotta di uomini di fede: tra questi ci sono i Santi, che tengono in piedi la Chiesa. E in questa fase di disorientamento tutti vanno dai Santi, per avere un conforto, qualche certezza». Anche perché a chi gli ha parlato criticando Bertone, Benedetto XVI ha risposto più volte nello stesso modo: «Noi siamo un Papa vecchio»: come a dire che non ha un lungo orizzonte di pontificato davanti a sé, e non se la sente di rovesciare la governance della Santa Sede, ricominciando a 85 anni con un nuovo Segretario di Stato con il quale non ha consuetudine, proprio lui che ascolta preferibilmente gli uomini con cui ha un´amicizia antica, meglio se storica, comunque collaudata e a prova di inquietudini e sorprese.
Sul tavolo del Papa si sono così accumulati messaggi d´ogni tipo, giusti e anche ingiusti, contro il suo collaboratore più vicino, persino l´ultima velenosa accusa - documentata e inedita - sull´uso di aerei di Stato italiani per i suoi spostamenti veloci. Ma il Pontefice sa bene che i capi d´imputazione veri sono contenuti in tre lettere - rivelate dal "Fatto" e dalla trasmissione "Gli Intoccabili" - che proprio il corvo ha fatto uscire dai Sacri Palazzi negli ultimi mesi. Una missiva del segretario del Governatorato della Città del Vaticano, arcivescovo Carlo Maria Viganò (oggi rimosso da Bertone e inviato a Washington come Nunzio apostolico), che denuncia una serie di malversazioni, traffici e complotti in Vaticano ma soprattutto sostiene - dietro gli omissis, dice chi ha letto gli originali - che il Segretario di Stato è influenzato da personaggi esterni e da "ambienti massonici", che gli tolgono autonomia. Poi la lettera del cardinale Dionigi Tettamanzi indirizzata direttamente al Papa per chiedergli se davvero ha ispirato la richiesta che Bertone ha rivolto a nome di Benedetto XVI all´ex vescovo di Milano, spingendolo a lasciare la presidenza dell´istituto Toniolo, che controlla due giganteschi centri d´influenza e di potere come l´università Cattolica e il Policlinico Gemelli. Infine, la lettera del cardinale Attilio Nicora, presidente dell´AIF, l´Autorità di Informazione Finanziaria del Vaticano, che denuncia il rifiuto dello Ior, la Banca della Santa Sede, di dare informazioni trasparenti su movimenti bancari sospetti prima dell´entrata in vigore della legge vaticana antiriciclaggio, il 1° aprile 2011.
Sono tre accuse pesanti per il cardinal Bertone: condizionamento esterno nella guida del governo vaticano; abuso della delega papale nel rapporto coi vescovi; mancanza di chiarezza nella gestione dei fondi Ior, la banca che ha già coperto misteri vergognosi. La questione finanziaria è talmente delicata e rilevante che ha portato più di un anno fa alla rottura tra Bertone e Ettore Gotti Tedeschi, suggerito al Segretario di Stato come presidente dello Ior direttamente dal Papa, con cui aveva collaborato per la stesura dell´enciclica "Caritas in veritate". Gotti riceve da Benedetto XVI il mandato di rendere lo Ior "limpido". Lavora per portare la banca nella white list dove stanno le democrazie occidentali, fa approvare una legge antiriciclaggio e istituisce un´autorità di controllo interna, l´Aif. Ma subito dopo, si accorge che il Vaticano dice una cosa e ne fa un´altra, vede le norme cambiare, l´autorità scavalcata, la trasparenza ingannata. Rompe con Bertone e minaccia le dimissioni. Ma il Segretario di Stato lo precede - forse temendo rivelazioni - e restando ufficialmente all´oscuro di tutto lo fa sfiduciare all´unanimità dal Consiglio di Sovrintendenza dello Ior con un attacco ad personam del Cavaliere di Colombo Carl Anderson, per delegittimare preventivamente le eventuali notizie scomode che Gotti potrebbe dare un giorno.
Sulla Banca si gioca uno scontro di potere concreto. In passato per i forzieri dell´Istituto per le Opere di Religione è transitato di tutto: dal conto "omissis" di Andreotti ai soldi del democristiano Prandini, che aveva affittato addirittura il conto del demonologo Padre Balducci, ai fondi di Luigi Bisignani, l´ultimo faccendiere di Stato campione di tutti gli intrighi che cominciano con la lettera P, cioè P2, P3 e P4. Ma il problema non riguarda tanto il passato, con storie che sembrerebbero pittoresche se non fossero ignobili anche per una banca non religiosa, quanto il futuro immediato. Con tutti i Paesi democratici che dopo l´11 settembre si adeguano alla trasparenza dei movimenti finanziari, l´opacità voluta, insistita e ricercata dallo Ior può essere una finestra d´opportunità criminale per operazioni d´ogni genere, con il rischio - denunciato nella sua lettera dal cardinal Nicora - "di un conseguente colpo alla reputazione della Santa Sede".
È quello che gli avversari di Bertone ripetono al Papa, ogni volta che possono. E questa insistenza ha creato involontariamente un antagonista di Bertone, proprio alla Seconda Loggia. È Padre Georg Gaenswein, il segretario del Papa: un uomo che non ha mai creato correnti e non ha ambizioni di potere, ma «vuole soltanto il bene del Papa, e quindi della Chiesa», come dice chi lo conosce da vicino. Ma Georg, nella vecchiaia distante di Ratzinger, è diventato l´orecchio a cui si indirizzano tutte le proteste, e soprattutto il canale per trasmettere informazioni dirette al Papa, senza transitare come si faceva prima dalla Segreteria di Stato: basta passare dal salottino ristretto con due sedie imbottite davanti a una scrivania minuta, dove Monsignore compare entrando da una porta mimetizzata nella parete di sinistra. Ci passano in molti. Fatalmente Padre Georg senza volerlo si è così trovato ad incarnare l´immagine di uno dei due duellanti dello scontro in atto attorno all´Appartamento papale. Il segretario contro il Segretario.
Così, arriviamo al penultimo atto. Non ottenendo una reazione immediata dal Papa alle loro denunce, gli avversari di Bertone inventano il corvo, un gruppo organizzato di persone che rivela documenti riservati scritti contro il Segretario di Stato, con il doppio scopo di mostrare al Papa la clamorosa verità di una governance che fa acqua da tutte le parti, e di minare all´esterno l´autorità di Sua Eminenza, mettendolo in difficoltà per cercare di spingerlo a lasciare. Un´operazione primitiva e modernissima nella sua violenza elementare, fatta di carta e d´inchiostro nell´epoca del web. Trasportare all´esterno i veleni e gli intrighi fino a ieri coperti dalle Sacre Mura, nell´abitudine anagrafica e curiale di metterli per scritto, colpendo i nemici in bella calligrafia e chiamandoli sempre Eminenze Reverendissime. Per poi farli rimbalzare, quei veleni e quegli intrighi, all´interno dei Palazzi, ingigantiti dal clamore pagano - divertito e scandalizzato - del mondo di fuori. Ma la reazione di Bertone è intelligente e mirata: prima di tutto, un clima di polizia dentro le mura, con tutti che si sentono controllati nella persona, negli incontri, nelle conversazioni telefoniche, e non importa che lo siano davvero. Basta sia chiaro che se il Papa ha le chiavi di Pietro, e può serrare o disserrare le porte del Cielo, le chiavi del regno terreno sono saldamente in mano al Segretario di Stato, che può chiudere o aprire carriere e percorsi di laici, monsignori e porporati. Poi, l´avvertimento a Padre Georg e soprattutto a chi si rivolge troppo frequentemente a lui: quel maggiordomo così interno all´Appartamento, così vicino alla "famiglia" ristretta che circonda il Pontefice, e così ingigantito nella dimensione criminale da riassumere in sé - per comodità investigativa, politica e strategica - la molteplicità dei corvi che si sono mossi insieme in questi mesi: chi ha dato per anni fiducia al corvo-maggiordomo? Chi doveva vigilare sull´inviolabilità dell´Appartamento, e soprattutto sulla sicurezza delle carte del Papa? Come a dire: invece di lasciar attaccare la Segreteria, guardatevi in casa. «Da Innocenzo III - spiega la nostra guida - il Papa viene detto anche "dominatore dei mostri": bene, come ognuno di noi, deve purtroppo cominciare da quelli domestici».
In realtà il Papa assiste a questa profana guerra non di religione ma di religiosi senza saper come intervenire. La sapienza e la tradizione non lo aiutano. La storia vaticana è piena di lettere segrete del pontefice, che venivano contrassegnate proprio dal sigillo dell´anello piscatorio, simbolo di Pietro, che consegnava al segreto in perpetuo anche i "brevi", scritti su pelle di agnello nato morto dai segretari del pontefice. E già da Benedetto III in poi la cancelleria apponeva alle lettere papali più delicate delle "bolle" di piombo con le sacre immagini di Pietro e Paolo, segno della gran cura religiosa necessaria per custodire con fede la riservatezza degli "interna corporis", quando riguardano il Papa. Ma oggi, non è più tempo di piombo e soprattutto non è tempo di agnelli. Al Papa piuttosto qualcuno in questi giorni ha ricordato le parole di Geremia: "Issate un segnale verso il muro di Babilonia, rafforzate le guardie, ponete sentinelle, preparate gli agguati".
Già, ma cosa può fare il Papa? Sembra di risentire le parole del cardinal Poupard nel dicembre 2000, era finale del woytjlismo: «In Vaticano si vive in regime di inadempienza costituzionale. Il Santo Padre non controlla la Curia. Il Segretario di Stato procede in proprio. I dossier vanno e vengono privi di firma o di sigla. Si dubita che il Papa possa avere l´energia sufficiente per leggerli. E soprattutto non si sa neanche se gli vengono sottoposti». Sullo sfondo dei suoi silenzi, Benedetto XVI vede avvicinarsi l´ombra del conclave, le guerre di posizione, gli schieramenti, i giochi degli "italiani", i dubbi degli stranieri, la Curia sotto choc, tutto il mondo che improvvisamente rivaluta le trame di Dan Brown che fino a ieri sembravano infantili ed esagerate, e oggi sono sopravanzate dalla realtà vaticana. Tanto che lo stesso Gotti Tedeschi, dicono, si è confidato con un amico cardinale confessando che «è finito un sogno, ma soprattutto è finito un incubo».
Chi preme sul Papa contro Bertone spiega che lo fa per difendere il ruolo e l´autorità della Chiesa cattolica apostolica e romana, e il Pontefice. Ma come si può voler difendere il Papa, e poi forzare il suo silenzio con l´evidenza clamorosa del corvo, che toglie ogni immagine di sacralità e di fraternità alla vita oltre le Sacre Mura? Voi laici, dice chi mi accompagna, non capite che è in gioco qualcosa di più del galateo profano e della stessa bontà d´animo cristiana, qualcosa che interpella il soprannaturale. Perché il Papa è ascoltato nel mondo quando parla del bene e del male proprio in quanto la sua autorità non è solo terrena e pertanto non viene messa in discussione. Bene, oggi siamo al punto in cui viene in discussione la credibilità del Papa, la sua autorità: e se il Papa perde credibilità, è la fine della Chiesa.
Tuttavia il Papa vive nell´attitudine consolatoria di precetti che parlano di compassione, di distinzione tra peccato e peccatore, soprattutto di perdono, come sacramento insito nella confessione e nella penitenza. Da qui la tendenza a non condannare mai, ad aspettare. Cambiare Segretario di Stato adesso, proprio nell´urto dello scandalo? Solo se ci fosse qualche evidenza documentale, dice chi conosce bene il Papa e la sua prudenza.
Allontanare Padre Georg, nominandolo vescovo in Germania, per ristabilire l´unità della Santa Sede attorno al Segretario? Sarebbe un´amputazione papale, per di più ingiusta, e significherebbe introiettare la colpa per quieto vivere. Aspettare dicembre, il compleanno di Bertone, e fingere un normale avvicendamento? «Ma ogni giorno che passa qui affondiamo di più, e si perde fiducia nella Chiesa e alla fine nel Papa».
Così continua la battaglia medievale sotto il regno di Benedetto XVI. Fino a quando, e fin dove? Siamo giunti con ogni evidenza all´ultimo atto di questa lunga partita. Chi dietro le Mura ne ha viste molte («non così, però: mai»), adesso cita il Faust e pensa che alla fine il Papa riuscirà a trasformare il male in bene, operando il necessario rinnovamento. Nel suo pensiero e nei suoi libri, Joseph Ratzinger sa che tocca al Papa «essere un argine contro l´arbitrio», perché lui «incarna l´obbligo della Chiesa a conformarsi alla parola di Dio». Può farlo non per la qualità degli uomini diventati pontefici, ha scritto Benedetto XVI, ma «per un´altra forza, non umana: quella forza che era stata promessa a Pietro, dicendo che le porte degli inferi non prevarranno». D´altra parte, anche la fenice del mosaico di San Pietro ogni cinquecento anni incendiava il suo stesso nido e battendo le ali faceva crescere il fuoco fino a bruciare nelle fiamme, risorgendo viva e vitale dalle braci. Solo che qui, intanto, gracchia il sacro corvo. E chi sa, dice che non è finita.

il Fatto 1.6.12
Solo un giovane su tre sicuro dell’importanza del matrimonio


Sarebbero la maggioranza i giovani che vogliono una famiglia. Anche se uno su tre non crede che la famiglia si basi sul matrimonio. Da un sondaggio commissionato dall’Istituto Giuseppe Toniolo, secondo il quale quasi il 60% dei giovani pensa che la famiglia tiene, non rinuncia a credere di poterne formare una propria e si vede nel futuro mediamente con due o più figli. La ricerca è basata su 9.000 interviste a ragazzi tra i 18 e i 29 anni fatte da Ipsos. Quelli noti sono i risultati relativi a un primo campione di 2.400 interviste. Per quanto riguarda la volontà di avere figli, ad esempio, secondo l’indagine solo una minoranza (il 9,2% fra gli uomini e il 6,2% fra le donne) pensa di non averne del tutto. Inoltre tra le nuove generazioni una persona su tre non concorda con il fatto che la famiglia si fondi sul matrimonio, un terzo si dice “abbastanza d’accordo” e il 30% è del tutto d’accordo. Quindi per un giovane su tre non è più l’istituzione fondante della famiglia.

Corriere 1.6.12
Caso Lusi: gli investigatori cercano riscontri a spese sostenute da Rutelli, Renzi e Bianco
Il senatore: «Versamenti negati? Nei conti 2009-2012 c'è la prova»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Acquisizione dei documenti contabili per ricostruire il percorso dei soldi versati da Luigi Lusi a esponenti della Margherita. Fatture, contratti, bilanci delle società che — denuncia l'ex tesoriere — avrebbero ottenuto finanziamenti dalle casse del partito. La Guardia di Finanza avvia le verifiche sul Cfs, il «Centro per un futuro sostenibile», fondazione che fa capo a Francesco Rutelli; sulla «M&S Congress» di Catania del fratello della segretaria di Enzo Bianco; sulla «Web&Press» che avrebbe gestito il denaro poi utilizzato da Matteo Renzi.
Controlli che sono diventati doverosi dopo le dichiarazioni dello stesso Lusi di fronte alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato e che serviranno a scoprire se davvero — come hanno più volte sostenuto gli interessati — si trattava di un uso legittimo dei fondi per sostenere l'attività politica. O se invece quei versamenti fossero entrati nelle loro disponibilità personali.
Complessivamente sono circa 50 i milioni ottenuti dalla Margherita sotto forma di rimborsi elettorali e poi destinati ai propri esponenti. I giudici del tribunale del Riesame che hanno confermato gli arresti domiciliari per Giovanna Petricone, la moglie del tesoriere accusata di associazione a delinquere e illecito reimpiego di denaro, evidenziano come di questi soldi non si conosca la destinazione. In realtà le indagini già svolte dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Stefano Pesci hanno stabilito che la maggior parte di questi soldi è servita effettivamente per pagare le campagne elettorali e le legittime spese di deputati e senatori. I controlli ancora in corso riguardano poco meno di otto milioni e tra questi ci sono le acquisizioni di atti in relazione agli 886 mila euro versati alla Cfs, i 315 mila alla «M&S», i 70 mila alla «Web&Press».
Mentre il Tribunale del Riesame conferma il quadro accusatorio contro Lusi e sottolinea come sua moglie non possa essere liberata perché nei suoi confronti «il pericolo di fuga assume una connotazione assai seria, visto che in Canada la donna può contare su una base logistica, tanto che, per consolidare la sua posizione in tale nazione, ha deciso di acquistare per quasi due milioni di dollari canadesi la prestigiosa residenza di Toronto, in fase di ultimazione», l'ex tesoriere si scatena. E ai colleghi senatori che devono decidere se autorizzare il suo trasferimento in carcere — già deciso dal giudice di Roma Simonetta D'Alessandro — affida una nuova memoria per ribadire come «la chiavetta Usb consegnata ai magistrati dalla mia segretaria Francesca Fiore contiene un prospetto contabile dimostrativo delle spese per gli anni 2009-2012; contiene spese e costi erogati dalla Margherita che è documentazione di particolare rilievo e conferma come i finanziamenti erogati dalla Margherita nel 2009-2012, pubblicamente e reiteratamente negati, sono in realtà un fatto certo e dimostrato».
La guerra non è affatto conclusa: proprio ieri gli avvocati del partito Titta Madia e Alessandro Diddi hanno consegnato ai pubblici ministeri la relazione finale della Kpmg, società di analisi finanziaria che ha esaminato i libri contabili e ricostruito tutte le spese sostenute dal tesoriere.
Gli esperti hanno ribadito le «irregolarità» compiute da Lusi per appropriarsi dei soldi della Margherita facendoli uscire dalle casse spesso utilizzando «falsi giustificativi», ma soprattutto si sono soffermati sulle modalità di gestione dei conti correnti. E hanno sottolineato come il senatore possa aver goduto di complicità all'interno della filiale della Banca Nazionale del Lavoro che ha sede al Senato.
Proprio lì è aperto il conto intestato alla Margherita e «la persona autorizzata a operare per conto della società, nei limiti dei relativi poteri di firma, è il Senatore Francesco Rutelli a firma congiunta, senza peraltro alcuna indicazione circa il nominativo delle ulteriori firme congiunte autorizzate». Nonostante questo Lusi ha fatto partire i 96 bonifici in favore della sua società «TTT srl» e ha prelevato numerose somme in contanti, senza mai avere il via libera di Rutelli e soprattutto «senza avere il potere di firma disgiunta».
Una procedura illegittima sulla quale saranno svolti ulteriori accertamenti.

l’Unità 1.6.12
Le strade dei rom
di Dezideriu Gergely
Direttore Esecutivo ERRC (European Roma Rights Centre)

LA FORZA DELLA DEMOCRAZIA IN UN PAE.SE PUÒ FORSE ESSERE MISURATA sulla ba.se del trattamento riservato alle sue comunità più vulnerabili e non c’è dubbio che i rom siano uno dei gruppi più fragili in Italia e in Europa. Finora l’Italia ha fallito questo test a causa del trattamento riservato ai rom presenti nel Paese.
L’Italia ha dichiarato i rom una “minaccia per la società” e ha iniziato contro di essi una guerra nel 2008. Le autorità, armate dal decreto presidenziale dello stato di emergenza del governo Berlusconi, hanno iniziato un’appassionata campagna contro i rom. Sotto lo stato di emergenza i diritti fondamentali dei rom sono stati violati. I rom in Italia sono stati contati, fotografati, continuamente soggetti a sgomberi forzati, esclusi dall’istruzione, sono state rilevate le loro impronte digitali, sono stati segregati ed espulsi. Le organizzazione dei di.ritti umani e le vittime si sono chiesti “Quale sarà il prossimo passo? Costringere i rom ad indossare una fascia con su scritta una “R” di colore giallo?
Il 16 novembre 2011 è stato considerato un punto di svolta. In quella data il Consiglio di Stato, supremo organo di giustizia amministrativa, ha dichiarato illegale lo stato di emergenza. I difensori dei diritti umani e le vittime hanno celebrato questa decisione. L’Italia sta cambiando? Comincerà a vedere il lato “umano” dei rom e smetterà di considerarli soltanto un problema di sicurezza?
Il nuovo governo ha dato segnali confusi. Ha affermato di non voler ripristinare il disastroso stato di emergenza di Berlusconi. Ha anche sviluppato, su indicazione della Commissione europea, una strategia nazionale di integrazione dei rom. Strategia in cui viene espressa una chiara posizione contro il sistema dei campi. Ma allo steso tempo il governo italiano ha presentato ricorso.
Inoltre ha chiesto al Consiglio di Stato di sospendere gli effetti della sentenza dichiarante l’illegalità dello stato di emergenza in attesa che la corte di cassazione si pronunci. Sfortunatamente il consiglio di stato non è rimasto coerente con la sua decisione e ha accettato la richiesta del governo di sospendere la sentenza del novembre 2011 (almeno in parte).
Confusi? Almeno noi lo siamo...
Un punto ci è chiaro e su questo nessuno dovrebbe fare confusione: lo stato di emergenza non è nuovamente in vigore. La nuova sentenza del Consiglio di Stato ha soltanto deciso che le attività avviate con lo stato di emergenza possono essere portate a compimento. Questo avrà sicuramente un impatto negativo sulla situazione abitativa di rom e sinti che vivono nei campi formali e tollerati. Inoltre la Suprema Corte di Cassazione deve ancora esprimersi.
Per tale motivo chiediamo alle autorità italiane di non abusare di questa fase intermedia. Esse possono dimostrare di rispettare i diritti umani e la democrazia garantendo la trasparenza di tutte le decisioni che verranno prese e di tutte le attività conseguenti, consultando le comunità in merito alle decisioni che le riguardano. Le autorità italiane dovrebbero concentrare la loro attenzione e le loro energie al fine di implementare le strategie di integrazione dei rom e combattere la discriminazione piuttosto che spendersi in inutili misure di sicurezza, in piani per le case sconsiderati, segreganti e a breve termine.
Ancora una volta questa è un’opportunità per il governo italiano per dare prova del.la sua affezione per la democrazia e i diritti umani. Bisogna inoltre tenere in mente che quando si testa la democrazia in Italia “tutte le strade portano a Rom(a)”.

La Stampa 1.6.12
Sikh, romeni e musulmani. L’immagine simbolo del sisma
Dietro la tragedia anche le storie dei lavoratori immigrati
Emergenza multietnica. Per strada si possono incontrare arabi, romeni marocchini o indiani sikh che provengono dal Punjab
Tutti in strada per paura del terremoto
di Gianni Riotta


MODENA Ogni terremoto ha una sua immagine, che rimane per sempre, nel ricordo e nella storia. Di Messina, 1908, stima delle vittime tra 90 e 120.000 morti, abbiamo vecchie pellicole color seppia con i marinai russi della flotta del Mediterraneo, agli ordini dell’ammiraglio Livtinov, che con le corazzate Slava e Cesarevic e l’incrociatore Makarov portano i primi soccorsi. Del Belice, 1968, ricordiamo Cudduredda, la bambina di Gibellina che, estratta viva dalle macerie, muore in braccio a un vigile del fuoco piangente, il cronista Sergio Zavoli a due passi. L’Irpinia ci scuote con il grido di denuncia dei ritardi nei soccorsi del presidente Pertini, il Friuli per l’ordinata ripresa, l’Aquila con il frontone del Palazzo del Governo demolito, metafora dell’Italia smarrita.
Se dovessi scegliere un’immagine tra quelle che ho visto in giro per San Felice, Mirandola, Cavezzo, Medolla, nella Bassa Modenese, penserei ai sikh, gli operai venuti dal Punjab a lavorare da noi, seguaci della religione fondata nel XV secolo dal Guru Nanak Dev Ji, con i loro turbanti, persuasi che la fede in un dio supremo, e una vita laboriosa e onesta, siano destino dei giusti. Hanno pregato insieme per un loro compagno caduto in un capannone. O i ragazzi rumeni che chiedono alle telecamere: «Inquadrateci, poi diteci quando andiamo in onda e così mamma vede che siamo vivi». O i maghrebini: saldatori, vetrai, manovali che, incrociando le schede telefoniche, provano a rassicurare casa.
Meriterebbero di andare nell’album di una tragedia tutti i 17 morti, i 350 feriti, i 15.000 sfollati che il Fato ha tolto a una routine bonaria di dovere, famiglia, benessere. I tecnici del business biomedicale, il secondo del pianeta, che al telefono raggiungono i clienti in tutto il mondo, valvole cardiache, strumenti per la dialisi, rassicurando che presto la produzione ripartirà. Sanno che milioni di malati, in cinque continenti, hanno bisogno dei loro prodotti, sanno che in sei mesi possono perdere il mercato a vantaggio dei concorrenti, sanno che tantissimi in Italia vivono dei frutti della valuta che importano. Chiamano Los Angeles, Pechino, Melbourne dalla tenda in via Libertà di Cavezzo, dal campo di calcio di Mirandola, dalla roulotte: «Tutto ok, gli ordini partono prestissimo, davvero tutto a posto qui, business as usual…» e controllano i figli sul prato.
Ho visto gli anziani, con la cannula dell’ossigeno, in cerca di farmaci mentre il dottor Borelli di Medolla, farfallino al collo, si sgola per far arrivare una farmacia mobile. Chi ha bisogno di un catetere, chi soffre il caldo della tenda, chi deve andare in ospedale per le piaghe. Nessuno si lagna, generazione Giobbe.
Gente come il giornalista Carlo Marulli, tra i fondatori del quotidiano «Il Foglio» a Bologna nel 1975, con gli intellettuali del Mulino, Pedrazzi e Gorrieri, poi alle riviste della satira, Il Male, Cuore, e ora in campagna nella Bassa, che dai tweet @carlomarulli illustrati con irriverenza dai baffi di Stalin, sfollato con una figlia piccola, nota come sembrino «allegri i parchi pieni di tende», con gli anziani a chiacchierare e i bambini, felici di non avere scuola, a contendersi le altalene.
Un’illusione di festa, certo, una sagra paesana che la dignità emiliana tiene moltissimo a rappresentare davanti ai forestieri, ma la tragedia incombe nella domanda che è diventata saluto: «La casa è su? ». «La casa è su» vuol dire la vita riprenderà presto, «la casa non è su» allunga la precarietà. La comunità tiene insieme tutti: lacrime, sorrisi, pacche sulla schiena. Forse la crepa più profonda, su cui noi dinosauri dell’informazione e pronipoti del web dovremmo insieme riflettere, con umiltà, è quella che divide la realtà in Emilia dalla sua rappresentazione nei media. Parata sì, parata no del 2 Giugno sui siti: in Emilia nessuno ne parla. Un pensionato mi ha detto: «Senta, al massimo, visto che non vogliono a Roma le Frecce tricolori che a me piacciono tanto, perché non le mandano qui a sorvolare l’Emilia, a salutarci, il 2 giugno? Mi promette di farlo sapere al presidente Napolitano? ». Mantenuto, signor Guido.
Capannoni sicuri o no: in Emilia tutti son certi che ora non son più sicuri, ma, come dicono al Genio Civile, «prima li testavamo contro il vento, il solo rischio, erano a norma delle leggi che esistevano, chiaro adesso non vanno più bene». Potete eccepire a questa logica? Non nella Bassa.
Forse la foto che simboleggia insieme la Bassa, l’Emilia e l’Italia 2012 è quella della Rocca Estense a San Felice sul Panaro. Capolavoro dell’ingegnere militare Bartolino da Novara, così d’avanguardia che nel 1404 sa trasformare in arma strategica perfino gli argini del Po. Tre crepe, una da destra, una da sinistra, la terza dal basso, la lacerano senza rimedio. Ogni scossa la fa tremare. Da lontano i curiosi si chiedono come stia in piedi. «Sembra il vaso dei fumetti di Tom e Jerry - dicono tutto crepato, appena lo tocchi va in pezzi». Invece, finora, resiste, simbolo delle coscienze che la circondano. Potrebbe essere domani, 2 giugno, simbolo della Repubblica italiana, ricca di genio, antica di storia, maestosa per bellezza, spaccata dalle crepe della corruzione, dell’egoismo, dell’ingiustizia, scossa dalla rissa politica, eppure in piedi, bellissima.

La Stampa 1.6.12
I riflessi sociali
La fuga degli immigrati: “Qui si rischia troppo”
Allarme manodopera: 3-4 mila famiglie verso il rimpatrio volontario
di Marco Alfieri


L’economia rischia di subire ulteriori ripercussioni dalla fuga degli immigrati
13% degli occupati, questa la percentuale di lavoratori stranieri presenti nelle aziende dell’Emilia
Molti stranieri hanno già lasciato l’Emilia
Il distretto conta 53 mila addetti per 142 milioni di euro di contributi previdenziali
Molti piccoli centri tornati a vivere grazie a loro ora potrebbero sguarnirsi"

Qualcuno la chiama la diaspora degli stranieri, altri direttamente la fuga. «Dopo la botta di martedì i miei 4 operai romeni e indiani sono scappati via, da 3 giorni non ho notizie…», racconta Sergio Ratti, titolare dell’omonimo salumificio di San Biagio, specializzato nella lavorazione e vendita di carni, pollame e insaccati.
Sami invece è un ragazzone ghanese di 24 anni, in Italia da 3. «Lavoro in una azienda ceramica», dice trafelato col vassoio in mano della mensa mobile vicino a Novi. «Mia moglie e mia figlia sono già ripartite, vediamo che succede ma qui si rischia troppo…». Vicino a Medolla, al caseificio Speciale di Camurana, mancano all’appello due lavoratori cingalesi. Anche loro fuggiti, sembra in collina…
Quel che ha cominciato a fare la crisi tre anni fa – nel cratere del mostro s’incrociano decine di cartelli affittasi e di costruzioni invendute che hanno portato al taglio di 1.200 posti di lavoro stranieri nei cantieri -, rischia di completarla il terremoto. Il modenese è una provincia di grande densità migratoria. «La forza lavoro extracomunitaria conta 53 mila addetti per 142 milioni di contributi previdenziali. Vale circa il 13,5% del totale occupati», spiega Ermes Ferrari degli artigiani Cna. Ma nei comparti ceramico, meccanico, edilizio, lavorazione carni e agricoltura salgono al 20%. A spanne indiani e pakistani nelle stalle; romeni, tunisini e marocchini nei campi e nel mattone; ghanesi, cinesi e cingalesi nei cicli di lavorazione pesante e nell’agroalimentare. Nei distretti del sisma ci sono interi paesi quieti e multietnici che adesso rischiano di sguarnirsi.
«Alcune stime parlano di 300 marocchini che starebbero rimpatriando mogli e bambini solo tra qui e San Felice», spiega una maestra della scuola di lingua per stranieri di Mirandola. Manca un censimento ma basta farsi un giro per trovare conferme. L’altro ieri girava per le tendopoli il console tunisino, offrendo viaggi gratis di rimpatrio.
Abdel, marocchino smilzo di 27 anni, lavora in un’aziendina che fa zincature a caldo. Il capannone è lesionato, non si può entrare e Abdel vorrebbe scappare via. «Molti miei amici nella meccanica se ne sono già andati in auto», racconta mentre insegue il figlioletto in bici per il campo tende davanti alle scuole di San Felice. Alcuni stranieri arrivano per il pranzo, altri dormono in auto, hanno la casa rovinata. Seduto su una sedia sotto un albero c’è Hosni, tunisino. Parla un buon italiano. «Sono qui da 12 anni», dice. Fa l’operaio alla fonderia Scacchetti e sta ancora pagando il mutuo della casa. Ha due figli e la moglie che lo guarda da lontano dalla fila del bagno chimico. «I primi ad andarsene martedì sono stati i moldavi, poi polacchi e ucraini», ci spiega con il fare di chi la sa lunga. «I maschi di solito lavorano nei campi, le donne fanno le badanti o il lavoro domestico». Sono ventimila nel Modenese. Un esercito rosa al servizio di bambini e anziani. Ma dipende anche dalle etnie. La notte del 20 maggio, quando è arrivata la prima scossa, a Carpi e Mirandola gli unici bar che hanno aperto per dare ristoro alla gente scesa in strada erano quelli dei cinesi cuor di leone. Però nelle fabbriche, nelle stalle e nei caseifici è un’altra cosa.
Umberto Franciosi della Flai Cgil di Modena ammette la fuga. «Gli italiani hanno la rete familiare, chi la casa in Romagna per tenersi distanti dalle angosce chi gli amici pronti ad ospitarli, gli stranieri no». Sono soli pur pagando un prezzo altissimo al terremoto con 3 morti (il marocchino Mohamad, il pachistano Kumar e il cinese Hou) e tanti feriti. «E’ comprensibile che qualcuno scappi via per la paura».
Nella tendopoli di piazza del mercato a San Felice, il 70% degli accampati è straniero, gli avvisi comuni sono scritti in doppia lingua, italiano e cinese. Nico sta posteggiando la sua Renault Clio davanti al recinto. E’ romeno, il figlio più grande di 12 anni con la maglietta di Ronaldo gli va incontro. «Lavoro alle Officine Borsari di Cavezzo, ringraziamo i volontari che ci assistono ma è vero che molti stanno partendo», ammette quasi a disagio. «Se continua questa psicosi potrebbero andarsene 3-4mila famiglie straniere», impoverendo le filiere produttive del territorio.
L’incertezza è una brutta bestia. A Migliarina di Carpi, sulla strada per Guastalla, c’è Italcarni, il più grande centro di macellazione dell’Emilia Romagna. 14-15mila suini macellati la settimana e poi consegnati a prosciuttifici, salumifici, industria della trasformazione e grande distribuzione. Lo stabilimento ha riaperto ieri mattina dopo due giorni di stop per le verifiche. «La struttura ha tenuto, è caduto solo un pezzo di controsoffitto in mensa», spiega l’ad Roberto Carù. In Italcarni ci lavorano 250 addetti ma più del 20% è straniero. Ci sono indiani, pakistani, cinesi e nordafricani. «Qualcuno oggi manca all’appello nel reparto produzione – continua l’ad -, la paura di rientrare è tanta…».
A Finale Emilia, altro comune piegato dal sisma, anche l’assessore alle Attività Produttive, Angelo D’Aiello, conferma la fuga. Oltre al dramma umano, sarà un problema in agricoltura. «Tra qualche settimana, non sarà facile trovare braccianti per la cura dei campi e la raccolta frutta…».

La Stampa 1.6.12
I Pm: manipolazione del mercato plurima e aggravata
“Standard & Poor’s voleva destabilizzare l’Italia”
Trani chiude l’inchiesta sui rating. L’agenzia: accuse infondate
di Guido Ruotolo


ROMA A incastrarli più che perizie e consulenze di parte ci sono compromettenti intercettazioni telefoniche tra l’allora numero uno dell’agenzia di rating Standards and Poor’s, Deven Sharma, e i suoi referenti europei, italiani. E’ in quelle telefonate, secondo la procura di Trani, la «prova regina» che documenta «la manipolazione del mercato pluriaggravata e continuata». Una ipotesi di reato, ammette lo stesso pm Michele Ruggiero, «rivoluzionata rispetto alla contestazione iniziale».
E già, all’inizio si ipotizzava che in più riprese (maggio, giugno e luglio scorso) gli analisti di S&P «elaborarono e diffusero notizie non corrette (dunque false anche in parte), comunque esagerate e tendenziose sulla tenuta del sistema economico-finanziario e bancario italiano, concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari». Ma poi, le stesse intercettazioni telefoniche, le testimonianze, la documentazione acquisita hanno fornito un quadro indiziario molto più inquietante.
Per dirla più chiaramente, il sospetto dei pm di Trani, del procuratore Carlo Maria Capristo e del pm Michele Ruggiero, è che gli analisti non si mossero autonomamente ma risposero a un disegno, oggettivamente perseguito, di «golpe bianco» del gruppo dirigente centrale dell’agenzia. Un disegno preordinato fu quello di affidare ad analisti «inesperti» il mandato di produrre analisi, un disegno non casuale quello di scegliere una certa tempistica nel diffondere i report in modo tale «da influenzare l’evoluzione politica italiana». Non facendo sconti né a Berlusconi né allo stesso Monti, per dirla tutta.
Ora che l’inchiesta è chiusa formalmente, dal 20 giugno la Procura dovrà decidere se chiedere il processo per il gruppo di analisti e dirigenti di Standards and Poor’s - gli atti del fascicolo sono stati depositati. E si conosceranno, a breve, le «prove», le intercettazioni telefoniche, le dichiarazioni delle autorità finanziarie ed economiche italiane.
Per il momento, i legali dell’agenzia di rating e la stessa S&P non vanno al di là di un commento generico: «Riteniamo che le accuse riportare siano prive di ogni fondamento e non supportate da alcuna prova. Continueremo a difendere strenuamente le nostre azioni e la reputazione della società e delle nostre persone».
L’accusa principale contestata ai tre analisti - Eileen Zhang, Frank Gill e Moritz Kraemer - e all’ex presidente Deven Sharma, e all’attuale responsabile Europa di S&P, Yann Le Pallec, è quella di «manipolazione di mercato pluriaggravata e continuata». Ieri, il pm Ruggiero ha consegnato alla Consob gli atti della inchiesta e, secondo Elio Lannutti, presidente dell’Adusbef - Associazione difesa consumatori ed utenti bancari, finanziari ed assicurativi -, Ruggiero «ha chiesto di valutare la possibilità di impedire che S&P continui a operare in Italia».
Ma anche le altre due più importanti agenzie di rating al mondo, Moody’s e Fitch, sono sotto inchiesta a Trani, e anche per loro si avvicina la scaddenza della chiusura delle indagini. In sostanza, si contesta alle agenzie di rating di aver espresso giudizi negativi che non corrispondevano alla realtà, come dimostrano alcune consulenze tecniche agli atti delle indagini. Solo per quanto riguarda S&P, non veritiero fu il report del 20 maggio 2011 con il quale fu divulgata la notizia «dell’avvenuto taglio dell’outlook del debito sovrano dell’Italia da stabile a negativo». Giudizi negativi arrivarono il primo luglio sulla manovra finanziaria dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Infine, il 13 gennaio, governo Monti, l’Italia fu declassata da «A a BBB+». Un declassamento, per la procura di Trani, «incongruo e incoerente».

La Stampa 1.6.12
La sindrome del contagio
Atene, Madrid e Dublino, i focolai che possono incendiare l’euro
Paesi a rischio per le incertezze della politica e i debiti poco sostenibili
di Tonia Mastrobuoni


I focolai del grande incendio che potrebbe spazzare via l’euro sono almeno tre, al momento. Il più grande è la Grecia. Ma la Spagna si sta seriamente candidando a scalzarla, in questa infelice gara a diventare il paese più pericoloso per la sopravvivenza della moneta unica.
Grecia
C’è ansia per le elezioni elleniche del 17 giugno, che si sono trasformate in un appuntamento cruciale soprattutto per il rischio di un impasse bis, dopo il disastroso esito di quelle del 6 maggio (quando nessun partito è riuscito a mettere insieme un governo). Da allora i greci hanno ritirato 3 miliardi di euro dai conti, secondo il Financial Times, e i partiti restano polarizzati su due fronti, pro e contro i sacrifici. Ma se le urne dovessero restituire di nuovo una situazione di stallo o se dovessero vincere i partiti antimemorandum, sfumerebbero le rate del mega salvataggio da 174 miliardi di euro concesso a marzo e che concede respiro ad Atene fino al 2020 (di cui 45 miliardi solo per salvare le malandate banche greche dal collasso). Senza quelle rate, come è riemerso da un documento governativo pubblicato domenica dal quotidiano To Vima, Atene non arriva a luglio. Dopo, il default e l’uscita dall’euro sarebbero pressoché inevitabili.
Spagna
L’altro paese avanzato sulla prima linea dei paesi più a rischio è la Spagna. Ieri dopo un incontro con il vicepremier, Soraya Saenz de Santamaria, il direttore del Fmi Christine Lagarde ha detto che non c’è stata nessuna richiesta di aiuti da parte di Madrid. E due giorni fa il ministro delle Finanze Luis De Guindos ha sostenuto che il 70% del sistema bancario spagnolo potrebbe reggere < senza nessun problema> uno stress test di solidità. Ma il mercato, evidentemente non la pensa così: sta spingendo da giorni i rendimenti sui titoli di Stato decennali spagnoli verso il 7% - soglia classica oltre la quale i Paesi si vedono costretti a chiedere aiuti alla Ue e al Fmi (è stato così per Grecia, Portogallo e Irlanda). La vicenda dell’istituto spagnolo Bankia con i suoi 23 miliardi di euro di ricapitalizzazione indispensabili per salvarla ed evitare rischi di contagio sul resto del fragilissimo sistema creditizio iberico è diventata paradossale. Il governo iberico di Mariano Rajoy, restìo a salvarla direttamente, sta facendo da settimane pressioni sulla Bce e la Ue perché vengano in aiuto all’istituto di credito. Madrid ha un problema sia sul versante del deficit – per la Unione europea deve scendere dall’8,9% dall’attuale al 3% entro il 2014 ed ha dunque margini scarsi per iniettare denaro nelle banche. Dall’altra, con una disoccupazione giovanile oltre il 50% un primato che condivide con la Grecia – Madrid si rifiuta di fare sacrifici troppo pesanti.
Irlanda
Anche se il presidente della Bce Mario Draghi l’ha elogiata più volte per i progressi nel risanare i conti, l’Irlanda è in difficoltà. Inoltre il Paese sta votando in questi giorni il referendum per il nuovo Patto di stabilità di impronta tedesca, e anche da questo esito dipenderà il futuro dell’euro. Una bocciatura rischierebbe di bloccare o rallentare il processo di ratifica del Fiscal compact improntato sul pareggio di bilancio costituzionale (il “sì” deve arrivare da almeno 12 paesi). Dal 2008, per salvare le banche travolte dalla crisi dalla bolla immobiliare, Dublino ha dato 64 miliardi alle banche, in parte nazionalizzandole, per evitare la bancarotta. Ma così ha il moltiplicato il debito ed è stata costretta a chiedere un piano di aiuti Fmi-Ue. Ora il debito resta al 120% del Pil ma dal 2008 l’ex “tigre celtica” ha messo insieme 24 miliardi per rispettare i piani di austerità, il 15% del Pil. Il viceministro delle Finanze, Bryan Hayes, ha detto ieri che «se l’Irlanda non diventa un problema al livello europeo, abbiamo più possibilità di ottenere ciò che ci preme per il debito delle banche». Ma Declan Ganley, un imprenditore che anima la campagna per il ”no” al nuovo Patto sostiene che l’Europa ascolta «solo quando i paesi si impuntano». Evidentemente, la Grecia ha fatto scuola.

il Fatto 1.6.12
La Spagna affonderà l’euro
di Michele Boldrin
, Washington University in St Louis

Sarà la Spagna a farla finita con l’euro come lo conosciamo, realizzando l’opera non riuscita a portoghesi e greci nonostante questi ultimi ci abbiano tentato (e continuino a farlo) con ammirevole dedizione? Se mi avessero posto questa domanda nel mezzo dell’estate 2011, durante la quale gli italiani fecero inimicizia con lo spread, avrei risposto con un tranquillo “no”: la situazione spagnola era grave, lo è dal 2006, ma non drammatica. C’erano ancora margini relativamente abbondanti per evitare disastri. Ora, devo ammetterlo, non è più così e questo drammatico cambio, che ha cominciato a materializzarsi fra settembre e novembre dell’anno scorso, va compreso e interpretato. Perché ha in serbo gravi e utili lezioni anche per noi, oltre che per tutta l’Europa. La Spagna oggi è, più di quanto forse appaia dallo spread sul suo debito pubblico e dalla caduta dell’Ibex, sull’orlo del baratro. E lo è a causa di una parte del suo sistema finanziario: le “cajas” pubbliche e un pezzo piccolo della banca privata. Le cajas sono le nostre vecchie casse di risparmio, tali e quali. Controllano più della metà del sistema bancario spagnolo e le due più grandi (La Caixa, catalanissima, e Caja Madrid ora Bankia dopo una serie di fusioni una più demente dell’altra, madrilena) sono rispettivamente la terza e la quarta banca del paese (Santander e BBVA son la prima e la seconda).
LE CAJAS sono quasi tutte fallite (fatta eccezione forse per La Caixa ma non è più il caso di mettere la mano sul fuoco per nessuno) e lo sono perché sono state il motore finanziario della bolla speculativa 2005-2007 legata al ladrillo, noto da noi come mattone. Le cajas sono da sempre in mano ai partiti e lo sono così esplicitamente che gli spagnoli parlano ufficialmente di “cajas del PP, del Psoe, di CyU” e così via. Il buco si stima attualmente fra gli 80 e i 120 miliardi di euro ma, visto che Bankia (del PP, appena “nazionalizzata”) è passata da un buco stimato di 10 a uno rivelato di 40, meglio anche qui non mettere la mano sul fuoco. Dal 2007 in poi questo buco è stato attivamente coperto dai consigli delle varie cajas (composti quasi essenzialmente di politici, sindacalisti e qualche prete), dal Psoe, dal PP, dal governatore del Banco de España e anche da buona parte dei media spagnoli coscienti del potere delle cajas medesime. Chi provava a mettere in evidenza che i conti non tornavano veniva rimbrottato mentre, nel frattempo, le cajas continuavano a rifinanziare il capitale e gli interessi di progetti residenziali falliti, aumentando così la loro esposizione. Da circa un anno la liquidità si è fatta drammaticamente scarsa e il giochetto del rilancio non ha più funzionato. Oggi non solo le cajas sono quasi tutte fallite e praticamente non operative (ossia, non fanno credito a nessuno, buono o cattivo che sia) ma la loro malattia – che avrebbe potuto essere isolata in maniera costosa ma non troppo quattro anni fa – ha ora contagiato l’intero sistema bancario. Quest’ultimo, che soffre di una progressiva emorragia di depositi e fatica a finanziarsi sul mercato, sta sottoponendo il proprio paese a una restrizione brutale del credito. È fondamentalmente per questo che la Spagna è entrata in una recessione forse più profonda di quella in corso pure in Italia (la quale ha le stesse radici, anche se la condizione delle banche italiane è meno grave di quella delle spagnole) e non certo per i piccoli tagli di spesa effettuati sino ad ora: la spesa pubblica spagnola, nel 2012, sarà ancora superiore a quella del 2011. Sono le banche e soprattutto le cajas che stanno uccidendo la Spagna ed è per questo che bisogna intervenire su (quasi) tutte al più presto, i loro consigli d’amministrazione cacciati e i loro capitali ricostruiti con nuovi fondi. E questo deve essere fatto al più presto perché l’economia spagnola si sta avvitando su se stessa con sintomi greci – per chi non se ne fosse reso ancora conto: non è stata l’austerità a massacrare la Grecia, ma il collasso del suo sistema bancario. Ed è qui che casca l’asino: lo Stato spagnolo non è oggi in grado di indebitarsi sul mercato per i 100-120 miliardi di euro addizionali di cui avrebbe bisogno per nazionalizzare.
SE PROVASSE a farlo rischierebbe la sindrome irlandese, avvitandosi. Ha quindi bisogno di aiuti esterni che possono venire solo dallo Efsf/Esm o, pensano i politici spagnoli, dalla Bec. Sì, perché Psoe e Pp, che si aggrediscono su tutto in maniera violenta da anni, su una cosa sono riusciti neanche tanto segretamente a “pactar” la settimana scorsa: che richiedere l’aiuto dell’Efsf/Esm comprometterebbe l’indipendenza nazionale e che, quindi, le cajas devono sopravvivere grazie a finanziamenti straordinari della Bce. La quale, non avendo alcuna intenzione da un lato di violare il proprio mandato e dall’altro di aprire l’ennesimo vaso di Pandora pieno di mostri, ha immediatamente risposto picche.
Perché qui non si tratta di fare il prestatore di ultima istanza di alcune banche in crisi di liquidità, ma di ricapitalizzare banche fallite, che non è mai stato compito di una Banca centrale. Su questo stallo che dura oramai da una decina di giorni si è inserita oggi l’iniziativa della Commissione europea che ha suggerito di utilizzare l’Efsf/Esm per ricapitalizzare le banche. Proposta saggia, non tanto di mediazione, ma di superamento dello stallo guardando ai suoi aspetti più generali: l’Europa non può avere una Banca centrale comune senza avere un regolatore bancario comune capace di intervenire sulle singole banche nazionali e assumerne il controllo quando la stabilità del sistema lo richiede.
ASSUMERE il controllo, però, deve voler dire davvero assumere il controllo. Ammesso e non concesso che su questa nuova proposta si aggreghi il consenso europeo, non è detto che ai politici spagnoli piaccia l’idea di dover perdere per sempre i loro giocattolini chiamati cajas che finirebbero per essere gestiti da tecnocrati provenienti dai quattro angoli d’Europa invece che dai loro amici di provincia. Perché forse sarà anche vero che questa crisi infinita è frutto dell’irrazionalità dei mercati ma quella spagnola è tutta e solo figlia della voracità e del cinismo dei politici. E non è la sola.

Repubblica 1.6.12
Psicologia della crisi
di Massimo Ammaniti


La crisi economica si sta ripercuotendo sulla vita di centinaia di milioni di persone sia a livello individuale che sociale. È diffuso un senso di insicurezza e di paura: si teme di dover rinunciare alle abitudini, alle risorse e alle necessità che hanno rappresentato le rotaie su cui si è mossa la vita personale e che si debbano affrontare in futuro sacrifici imprevedibili. Non dimentichiamo che, mentre Freud riteneva che la fondamentale motivazione umana fosse la pulsione sessuale, Bowlby negli anni ´60 del secolo scorso ha messo in primo piano il bisogno di sicurezza. Sicurezza di avere delle persone che si prendano cura di noi durante l´infanzia, sicurezza di avere rapporti affettivi, sicurezza di vivere in un mondo prevedibile e rassicurante, sicurezza di avere abbastanza risorse e di disporre di un contesto di vita stabile.
La crisi suscita inevitabilmente insicurezze e allo stesso tempo stimola l´esigenza di avere rassicurazioni per il futuro, che riguardano in primo luogo il lavoro, la protezione sociale ma anche la stessa vita familiare. Anche la dimensione psicologica individuale e sociale entra in gioco nell´affrontare lo stress e le avversità, non tutti reagiscono allo stesso modo, c´è chi non si fa piegare e cerca di utilizzare al meglio le proprie risorse, c´è chi si sente impotente e si fa sopraffare dall´ansia e dallo scoramento, c´è chi va alla ricerca con gli altri di nuove soluzioni per superare le difficoltà. Naturalmente ci sono anche caratteristiche nazionali, non ogni popolo reagisce allo stesso modo alle avversità per tradizioni culturali e per organizzazione sociale. Non è un problema nuovo, anche durante la crisi del ´29 emergevano grandi diversità fra i popoli. In un articolo del 1931 del New York Times dal titolo "Tests in adversity: America and Britain" ("Test nelle avversità: America e Gran Bretagna") venivano analizzate le particolari risposte alla crisi. Mentre gli Americani cercavano di far leva sull´ottimismo e sulle speranze per la ripresa futura mettendo in piedi commissioni e gruppi di lavoro per risolvere i problemi, gli Inglesi reagivano col mugugno, trovando soluzioni individuali ed evitando di mostrare la propria ansia. Probabilmente la differenza è legata al fatto che la Gran Bretagna è un paese con antiche tradizioni, abituata a perdere le battaglie ma alla fine a vincere la guerra, mentre gli Stati Uniti sono un paese giovane che crede nel volontarismo partecipativo.
E l´Italia? Il clima che si respira in questi mesi è improntato al pessimismo e al senso di impotenza di fronte ad una crisi economica che colpisce soprattutto il nostro paese, anche se spesso si sente dire che non siamo come la Grecia. Siamo un paese che si perde facilmente d´animo e che dimostra la sua fragilità psicologica, ad esempio nello sport i nostri giocatori quando si trovano in difficoltà si scoraggiano, rinunciano, imprecano contro l´arbitro e la cattiva sorte. Ma se questo è vero, siamo anche in grado di farci valere in modo inaspettato, tutti si ricorderanno la finale di calcio del 2006 che la squadra italiana ha vinto con grande grinta. La prima tendenza è quella di rinunciare all´impegno sociale e di rinchiudersi nel proprio spazio privato familiare. Qui si conferma il "familismo amorale" italiano di cui parlò Banfield, che spinge a trovare scappatoie e compromessi personali dal momento che c´è poca fiducia verso lo Stato. Ma nella storia del nostro paese ci sono stati momenti di riscatto nazionale, solo quando si giunge a toccare il fondo.
Forse con la crisi economica siamo giunti al bordo del baratro anche per una lunga connivenza del paese, ora ci si attende un colpo di reni da parte di tutti. Le tasse vanno senz´altro pagate ma non basta, occorre investire sul futuro sapendo uscire dagli spazi rassicuranti e abituali e affrontare il rischio di nuove strade.
Il carattere italiano emerge spesso nelle scelte quotidiane, dettate più dai vantaggi immediati e dalla soddisfazione del momento anche se queste possono comportare a lungo termine gravi svantaggi. Sarebbe importante saper procrastinare il tornaconto personale dettato dal narcisismo personale e intraprendere una strada meno rassicurante ma più remunerativa in futuro. Sappiamo d´altra parte che l´economia non è una variabile indipendente, ma è fortemente condizionata dalle dinamiche psicologiche, come ha messo in luce il Premio Nobel Kahneman.

Corriere 1.6.12
Sondaggi in Grecia
Nuova Democrazia in vantaggio. Cala la sinistra radicale di Syriza


ATENE — Nuova Democrazia supera negli ultimi sondaggi Syriza: al partito di centro-destra andrebbe il 28,4% dei consensi contro il 25,6% della formazione di sinistra che si oppone apertamente alle misure di austerity richieste dall'Unione Europea. I numeri diffusi ieri da Data Rc combaciano con la rilevazione condotta da Alco per il sito Newsit.gre, che dà ai conservatori guidati da Antonis Samaras (favorevoli al piano di salvataggio targato Ue) un vantaggio del 2,3%, mentre i socialisti del Pasok (al governo fino all'anno scorso) sarebbero lontani terzi con il 12,5%. Dati che potrebbero comunque cambiare ancora in vista delle elezioni del 17 giugno. Soltanto l'altro ieri i sondaggi disegnavano uno scenario opposto: sinistra radicale di Syriza al primo posto con il 30% delle preferenze, seguita da Nuova Democrazia ferma al 26,5%. Una situazione fluida che riflette l'incertezza del quadro politico uscito dalle elezioni del 6 maggio. Le nuove consultazioni di giugno appaiono un referendum sull'euro: i greci sono chiamati a decidere se restare oppure mettere in conto una probabile uscita da Eurolandia.

il Fatto 1.6.12
Come si dice bunga-bunga in cinese: xilai-xilai
Il leader defenestrato e il sesso a pagamento con la star del cinema
di Simone Pieranni


Pechino. E dopo l’espulsione dal Comitato Centrale, la fine della carriera politica, la moglie sotto accusa per aver ucciso un britannico, sospettato di essere una spia, Bo Xilai regala alle cronache politiche cinesi anche una storia di sesso, un “bunga bunga” in salsa di soia, tra soldi, attrici famose, confessioni di tesorieri e appuntamenti in club privati. Secondo quanto pubblicato da bo  xun.com , sito di cinesi negli Usa, ripreso dall'Apple’s Daily, un quotidiano di Hong Kong, Xu Ming, sotto indagine e accusato di essere il tesoriere del cerchio magico di Bo, una sorta di Belsito della Grande Muraglia, avrebbe confessato di aver pagato svariati milioni di yuan all’attrice Zhang Ziyi per fare sesso per ben 10 volte con l’ex leader del Partito di Chongqing.
DIECI MILIONI di yuan (circa 1,3 milioni di euro) per 10 notti con Bo Xilai, altri milioni per sesso tra l’attrice e altri funzionari cinesi, compreso l'assistente di Xu Ming.
Zhang Ziyi, 33 anni, è probabilmente l'attrice cinese più famosa in Cina e nel mondo, grazie alle interpretazioni di noti film come “Memorie di una Geisha”, “La Tigre e il Dragone” e “Heroes”. Al recente festival di Cannes, quando si dice l'ironia, avrebbe dovuto presenziare per il lancio di Relazioni Pericolose, il remake cinese di Zhang Yimou: purtroppo per lei però, non può lasciare il paese, perché sotto indagine.
Secondo quanto rivelato da Xu Ming, uno degli uomini più ricchi della Cina, l'attrice infatti avrebbe ricevuto 6 milioni di yuan (945 mila dollari) per fare sesso anche con lui e i due sarebbero finiti a letto insieme anche in occasioni successive.
Nello stesso anno, avrebbe detto Xu, Zhang è stata introdotta a Bo quando era a capo del partito di Chongqing: con lui avrebbe fatto sesso grazie a incontri avvenuti presso un circolo privato di proprietà di Xu a Pechino. Nello stesso periodo, Xu avrebbe organizzato per Zhang altre serate piccanti con altri due alti funzionari, nonché con il suo assistente ( boxun.com   ha fatto sapere di essere pronto a pubblicare presto tutti i nomi).
L’attrice, impegnata sul set di un film a Canton, prima ha reagito con ironia su Weibo, il Twitter locale (“tutti i miei colleghi mi stanno chiedendo quale sarebbe il grosso problema”, ha scritto), poi si è detta “triste”, infine piuttosto adirata, vista la rapida diffusione delle dichiarazioni di Xu sul web cinese, ha deciso di dare il mandato a rispondere direttamente ai suoi avvocati.
STANDO A QUANTO hanno dichiarato i suoi legali di Hong Kong, “le accuse riguardanti la nostra cliente sono completamente false e costituiscono una diffamazione grave. A seguito della pubblicazione di queste affermazioni, la reputazione della nostra cliente è stata gravemente danneggiata. e ha subito un notevole disagio”.
Gli avvocati di Zhang hanno quindi chiesto una ritrattazione completa e le scuse immediate, riservandosi di procedere con azioni legali e risarcitorie contro l'Apple's Daily, il quotidiano di Hong Kong che ha riportato con grande enfasi le confessioni di Xu Ming.

La Stampa 1.6.12
Chen a New York “La democrazia arriverà in Cina”
Il dissidente fuggito negli Usa: “Le leggi ci sono già È il governo di Pechino il primo a non rispettarle”
di Paolo Mastrolilli


«Sono ottimista: la democrazia arriverà in Cina durante l’arco della mia vita, perché le cose stanno cambiando molto velocemente. Però la comunità internazionale deve continuare a premere su Pechino, affinché rispetti le sue stesse leggi»
«Sono qui per studiare Spero di poter tornare nel mio Paese, come mi hanno promesso»

Chen Guangcheng, il dissidente cinese cieco fuggito negli Stati Uniti il 19 maggio scorso dopo un braccio di ferro tra Washington e Pechino, ha fatto ieri il suo esordio sul palcoscenico della politica estera americana che conta. Il Council on Foreign Relations lo ha ospitato per la sua prima uscita pubblica, insieme al professore Jerome Cohen, che sta organizzando i suoi studi legali a New York. Vestito scuro, camicia bianca e cravatta rossa, Chen è sembrato subito a suo agio. Ha chiarito come è avvenuta la fuga: «Non sapevo che stesse arrivando una delegazione guidata da Hillary Clinton, perché ero completamente isolato. Sono andato all’ambasciata americana perché volevo avere la possibilità di studiare all’estero. Il governo ha violato le intese sulla mia uscita dall’ambasciata, e quindi ho deciso di andare via. Ma il punto importante è che sono venuto perché mi è stata concessa l’opportunità di studiare qui». Chen ha detto di non aver cambiato idea sul suo futuro, perché «spero ancora di tornare in Cina. Le autorità mi hanno fatto una promessa, e credo che ogni cittadino dovrebbe essere libero di partire e tornare a suo piacimento».
La prima preoccupazione, ora, è per la sua famiglia: «Mio fratello è stato aggredito, dopo la mia partenza. Alcuni malviventi sono entrati nella sua casa, lo hanno picchiato e hanno rubato il suo cellulare e altri strumenti di comunicazione. Mio nipote ha cercato di difendersi dall’aggressione, prendendo un coltello dalla cucina, e ora è accusato di tentato omicidio. Gli aggressori, invece, sono liberi e nessuno li sta cercando». Questo è un punto fondamentale, perché dimostra il problema che sta al centro della battaglia per la legalità condotta da Chen: «In Cina le leggi ci sono, ma il governo è il primo a non rispettarle. Manca lo stato di diritto e anche le convenzioni internazionali vengono costantemente violate, tipo quelle contro la tortura. L’articolo 5 della nostra costituzione garantisce la libertà dei partiti politici, ma le autorità sono le prime a violarlo. Come diceva Confucio, “Se tu non sei disposto a comportarti in maniera corretta, chi altro ti aspetti che lo faccia? ”».
In questo senso lo scandalo di Bo Xilai, l’alto dirigente comunista accusato di corruzione, non è un caso isolato: «Molti altri hanno amanti o commettono reati simili, però non vengono perseguiti». Chen non chiede di abbattere il regime e giudica «non realistiche le aspirazioni di chi pensa di spostare la montagna in un giorno». Però resta convinto che la pressione internazionale, e quella interna di ciascun cittadino, potranno spingere la Cina a cambiare: «Dicono che non dobbiamo imitare l’Occidente: giusto. Però ci sono molte democrazie che funzionano bene anche in Asia, e noi possiamo costruire la nostra».

Repubblica 1.6.12
Ora i cinesi scoprono il cibo "pulito”. Una scommessa che l’Occidente non può ignorare
Da discarica alimentare e primo inquinatore del pianeta, si rinnova come super potenza ecologica
di Giampaolo Visetti


Pechino è diventata il primo produttore mondiale di impianti eolici e a biomassa, di pannelli solari e fotovoltaici.
Sul successo della svolta incombe lo scontro con gli Usa sul controllo del business del futuro

Anche la Cina, discarica alimentare e primo inquinatore del mondo, irrompe nel mercato globale dei cibi bio e della green economy. Boom dei consumi e crescita sostenuta mutano abitudini ed esigenze dei nuovi ricchi, ma soprattutto la vita di un ceto medio di oltre 400 milioni di individui, il più numeroso del pianeta. Gli ex comunisti convertiti al capitalismo non sono più disposti a registrare una delle attese di vita più basse del mondo. Uno studio shock dell´Accademia delle scienze di Pechino ha rivelato che il cinese medio, per aspetto e salute, è di 8,2 anni più vecchio rispetto all´età anagrafica. La preoccupazione per la sicurezza del cibo, della qualità dell´aria e dell´acqua, balza così al primo posto in una popolazione che pretende dalle autorità una "svolta verde".
La Cina energivora, per mantenere la stabilità sociale, sceglie dunque la strada dell´ambiente e per industria e agricoltura si annuncia il più grande affare del secolo. L´obiettivo di Pechino non ha precedenti: diventare leader della crescita economica compatibile con la natura. L´approccio è di mercato, ma i mezzi rappresentano una sfida alla sostenibilità: oltre 2 mila miliardi in cinque anni per migliorare l´efficienza energetica, riconvertire le centrali a carbone, costruire città a impatto zero, lanciare strade e grattacieli ideati come centrali termiche, alimentate da risorse naturali e autofinanziate.
Il viceministro dello Sviluppo, Xie Zhenhua, ha confermato l´obiettivo di ridurre l´intensità energetica del 16% e quella del carbonio del 17% prima del 2015. Entro quella data il governo investirà altri 316 miliardi di dollari per tagliare l´inquinamento. Ma sarà il modello di sviluppo stesso a risultare rivoluzionato: meno vecchie industrie, in gran parte prive di impianti di depurazione, e più terziario. La quota dei servizi sul Pil, dall´attuale 43%, supererà il 47%, avvicinando quella degli Usa. Uno sforzo impressionante: nel 2012 Pechino sta investendo 16 miliardi di dollari in energie rinnovabili, mentre altrettanti saranno spesi per favorire la diffusione di automobili ed elettrodomestici a risparmio energetico.
Uno studio della Banca mondiale ha certificato che lo scorso anno la Cina ha già conquistato il primato degli investimenti nella green economy, con stanziamenti per quasi 55 miliardi di dollari. Il risultato? Il Dragone, primo produttore mondiale di impianti eolici e a biomassa, di pannelli solari e fotovoltaici, e con oltre 50 centrali nucleari in costruzione, entro il 2020 si doterà di un´edilizia con una soglia di efficienza energetica del 30%, sui livelli della Danimarca. La rivoluzione verde della Cina, impegnata a invertire il flusso dei suoi grandi fiumi, costruire dighe e piantare 40 milioni di ettari di foreste, non resterà un progetto politico. Autorità e investitori privati stimano che nel giro di tre anni produrrà profitti per 350 miliardi di euro, prima opportunità di profitto globale per le multinazionali. La vecchia fabbrica del mondo si rinnova come super-potenza verde. Sul successo della svolta incombe lo scontro con gli Stati Uniti, decisi a non lasciarsi sfuggire il controllo del business del futuro.
In un sondaggio del Quotidiano del popolo l´80% dei cinesi si è dichiarato «molto preoccupato» per la qualità dell´ambiente e ha puntato il dito contro la corruzione che dilaga tra imprese private e funzionari di partito. Gli effetti del benessere si dimostrano però più resistenti delle difficoltà. L´esplosione degli alimenti biologici risidegna le campagne cinesi e muta i centri commerciali. L´addio a fertilizzanti, antiparassitari e mangimi chimici, per la prima volta costringe migliaia di aziende a riconvertirsi.
Il settore bio, nel 2011, in Cina ha segnato una crescita annua del 45%, più 64% nei primi quattro mesi del 2012. Nove cinesi su dieci, scossi dagli scandali aliementari degli ultimi anni, dichiarano di essere pronti a spendere di più per mangiare più sano e gli ingredienti organici non sono più uno status symbol, come una berlina tedesca nera. Nel 2007 il biologico in Cina valeva un miliardo di euro. Nel 2011 si sono sfiorati i 7 e quest´anno saranno superati i 10. Un anno fa ottennero la certificazione bio 678 aziende agricole, rispetto alle 345 del 2010. Nel primo quadrimestre 2012, nonostante l´introduzione di vincoli e controlli più rigidi, il marchio è stato già assegnato a 380 imprese.
La nuova sensibilità verde dei cinesi è tale che le periferie delle metropoli, prima occupate dalle discariche, sono ora destinate a orti, frutteti, pascoli e fattorie ceduti in affitto al ceto medio urbano, che vi trascorre il fine settimana. Tornare contadini verdi nel tempo libero, per operai rossi e colletti bianchi ammassati in megalopoli da 60 milioni di abitanti, è l´ultima moda in tutta l´Asia. Una scommessa che l´Occidente non può ignorare.

l’Unità 1.6.12
Editoria. L’acchiappalettori
Ecco un’ambiziosa iniziativa che arriva dall’Inghilterra
Anticipiamo stralci dell’intervento di Jamie Byng dall’Almanacco Guanda:
«L’editore? È un piromane che accende i fuochi e sa come alimentare le fiamme»
di Jamie Byng
, editore di Canongate

SONO SEMPRE STATO UN PO’ PIROMANE. SONO CRESCIUTO IN CAMPAGNA E FIN DA PICCOLO I FUOCHI, SIA AL CHIUSO CHE ALL’APERTO, MI AFFASCINANO IN MANIERA INCREDIBILE. Mio padre lavorava spesso fuori e i falò erano parte della quotidianità della mia infanzia; presto ho iniziato a farli con gli amici, senza adulti che ci controllassero. E così ho imparato un sacco di cose su come si accendono e come si alimentano e, in rare occasioni, su come possa.no sfuggirti di mano. Il fuoco ha nutrito la mia immaginazione di bambino e l’alimenta tuttora. Il mestiere dell’editore dovrebbe essere simile al prendersi cura di un fuoco. Combinando la scintilla dell’immaginazione dello scrittore e i ramoscelli secchi del linguaggio si accendono delle fiamme nella mente del lettore, ma sono fiamme che si spengono presto se non vengono continua.mente alimentate da nuovi lettori. Un romanzo come Le braci di Sándor Márai, uscito nel 1942, letteralmente scomparso fino a quando Roberto Calasso non ha deciso di ripubblicarlo all’Adelphi nel 1998, è un ottimo esempio di questa analogia. (...) Ogni libro dipende dalla generosità del lettore, quanto la lettura dipende dalla generosità dello scrittore. Più lettori vengono attirati verso un libro, più carburante riceve quest’ultimo.
(...) Il mio primo pensiero, in quanto editore, è senz’altro di dover alimentare tanto i libri con i lettori quanto i lettori con i libri. La relazione fra libri e lettori, infatti, è del tutto simbiotica. Nessu.no dei due potrebbe sopravvivere senza l’altro. Ed è responsabilità, privilegio e dovere dell’edito.ria in quanto industria fare in modo che i libri si nutrano di lettori e viceversa. Sotto questo aspetto, in fin dei conti, le cose non sono cambiate più di tanto. Da sempre, infatti, all’editore spetta questo ruolo: noi siamo canali, catalizzatori, elementi di congiunzione. Quello che è decisamente di.verso sono i modi in cui può essere favorito questo rapporto diretto libro-lettore. Non solo l’e-book ha cambiato volto al libro tradizionale, ma la vendita on line e internet hanno fatto sì che il lettore possa trovare e comprare libri usando vie che prima erano impensabili. La velocità e la facilità con cui si può rintracciare in rete ciò che interessa, il fatto che un lettore possa trovare un libro in particolare o un testo fino a quel momento a lui sconosciuto su un argomento specifico, nel giro di pochi minuti e ovunque si trovi, dimostra che questa «connessione» è consolidata.
E le possibilità per gli editori di promuovere i propri libri e di comunicare direttamente con i lettori ormai sono infinite. Ma tutto, di questo fenomeno, è cosa buona? Be’, sotto molti aspetti sì. Tuttavia, per usare una metafora molto citata, la tecnologia è una lama a doppio taglio e la rivoluzione digitale ha anche una serie di conseguenze poco gradevoli e, in alcuni casi, impreviste. Tra queste c’è senz’altro il fatto che le persone interagiscono meno. Uno degli spazi in cui quest’interazione si assottiglia di più mentre gli individui lottano per la sopravvivenza è senza dubbio la libreria tradizionale, un luogo in cui i lettori si ritrovano faccia a faccia con altri lettori e dove, soprattutto, lettori e libri possono fare incontri inaspettati. E non dimentichiamoci il ruolo cruciale che può giocare il libraio in tutto questo. È lui l’intermediario, la guida, il link tra il libro e il lettore. I librai contribuiscono alla propagazione delle fiamme e possono farlo in modi molto intimi: uno sguardo, un contatto, il rapporto diretto. La vendita manuale è il modo più bello per vendere un libro perché coinvolge la relazione intima, personale di un lettore con il libro.
(...) Sappiamo di avere tra le mani un best seller quando sentiamo il calore, quando libri e lettori si stanno alimentando gli uni con gli altri, quando i risultati ormai hanno superato qualunque nostra aspettativa, quando la cosa più importante da fare è solo ristampare e mantenere vive le fiamme. La fede nell’importanza del passaparola, dei consigli ad personam, del fondamentale ruolo svolto dai lettori nel successo dei libri è ciò che ha portato alla creazione della World Book Night, un’ambiziosa iniziativa non profit lanciata in Gran Bretagna nel 2011, una festa della lettura per promuovere l’alfabetizzazione. L’evento è consistito nel distribuire un milione di libri a un milione di persone nello stesso giorno, con la certezza, nella stragrande maggioranza dei casi, che gli individui coinvolti non avessero mai neanche tenuto in mano i volumi loro assegnati. Il successo dell’operazione è dipeso tutto dal modo in cui sono state distribuite le opere. Per la World Book Night è stato reclutato un esercito di ventimila «addetti alla distribuzione dei libri», un ruolo assolutamente inedito, tutti entusiasti all’idea di condividere la loro passione per un libro in parti.colare (e per la lettura in generale) con un pubblico più vasto. Questo blitz di massa, il dare libri alla gente con un gesto che fosse personale, significativo e quindi estremamente prezioso, ha sprigionato un’incredibile vampata di calore positivo intorno ai libri e alla lettura. Quel giorno, inaspettatamente, si sono accesi un milione di piccoli fuochi, si è nutrita la gente di libri, ma anche i libri con la gente. Abbiamo creato un milione di ragioni per leggere. E la cosa eccitante è che nel 2012 la World Book Night verrà lanciata anche in Germania e negli Stati Uniti, e ripetuta in Gran Bretagna. Le fiamme si stanno propagando a macchia d’olio. Ecco, secondo me è proprio questo tipo d’iniziative propositive, ovvero il portare concretamente i libri verso la gente in modi inattesi e generosi, a far sì che la lettura continui a prosperare e a restare al centro della nostra cultura. (Traduzione di Lucia Ferrantini)

l’Unità 1.6.12
Gli uomini a metà di Giorgio Manacorda
La lotta armata degli anni Settanta è lo scenario sul quale si consuma
la tragedia di uno scollamento tra realtà e ideologia
I personaggi sono «dannunziani involontari»
di Gaia Manzini


QUESTO ROMANZO DI GIORGIO MANACORDA MI HA RICORDATO UNO SPLENDIDO FILM DI VITTORIO DE SETA (Un uomo a metà, 1966), in cui il giovane protagonista entra in conflitto con la realtà che lo circonda. È il racconto di una nevrosi, che mette in scena i frammenti di una vita colti alternativa.mente da uno sguardo ravvicinato o da una distanza che tende a innalzarsi verso il cielo. Sguardo straniato e straniante, tutto soggettivo e onirico. Per questo inaspettatamente lucido.
RAPPORTO SCLEROTICO
«Qualcosa mi faceva male. Non era nostalgia, era la percezione improvvisa dell’uguaglianza (...) Un’uguaglianza molto più brutale. Siamo tutti feroci, e lo siamo da subito. Il resto non è che una conseguenza o una ripetizione».
Manacorda ricostruisce la storia della lotta armata de.gli anni 70, o meglio, la storia del suo rapporto sclerotico
con la realtà. Racconta la relazione malata e inconciliabile tra ideologia e analisi oggettiva del mondo. E lo fa a partire dall’assunto fanta-politico, che in Italia ci fosse una dittatura, perché quella era la realtà distorta che vedevano i terroristi.
Manacorda usa le parole come un chimico, con una precisione che aumenta di pagina in pagina. Lo fa a parti.re da un organismo dai tratti kafkiani: il collegio, dove gli amici della lotta armata sono cresciuti. Il collegio e le sue perversioni: l’annullamento dell’identità più vera (tutti come degli Jakob von Gunten walseriani, ma senza l’anelito a servire gli altri, quanto a servire un ideale fino alla fine); l’omologazione che ha come risvolto l’omosessualità rituale; il concetto stesso di solidarietà che muta in «stessa esperienza, stessi miti, stessa ferocia».
SCONTRO TRA FRATELLI
Lo fa trasformando la dialettica interna tra idealismo e scetticismo in scontro irrimediabile tra due fratelli, Silvestro e Andrea. Tra il leader e quello che per diminutio si definisce un semplice «uditore della rivoluzione» e continua a lacerarsi tra i dubbi: «... dov’è la purezza che ho sempre rivendicato, su cosa si fondano le mie accuse a Silvestro? Sono io il nobile, il cavaliere delle idee giuste, l’altruista? Io che non ho combattuto? O lui che ha com.battuto e magari combatte ancora? Ma forse tutto è finito, rivolte e rivoluzioni, sopravvive solo un debole insensato terrorismo.»
Già. Come a dire che poi la violenza fa il giro, che tutti si ritrovano «dannunziani involontari» e che le ideologie finiscono col mescolarsi l’una all’altra come in una clessidra, dove l’unica cosa a distinguersi è la sabbia, la matrice feroce da cui tutto ha inizio e fine.
Il nemico è una costruzione mentale, il nemico esiste a patto di una follia. E allora non poteva andare a finire che con un bacio di opposti: con un leader che forse passa dall’altra parte e il vile scettico che trova il modo di essere assassino impunito e impunibile scegliendo la strada sublime dell’essere boia.
Il corridoio di legno si legge come un incubo, che però parte da un nucleo di adamantina innocenza: «Volevamo cambiare il mondo, avevamo diciassette anni, in quel con.testo eravamo gli unici esseri umani di sinistra e pensavamo di doverci organiz.zare per fare qualcosa, magari quando saremmo tornati in Italia». E anche se le paro.le smuovono la nostalgia, abbiamo imparato che anche quella (soprattutto quella) può essere nefasta.

l’Unità 1.6.12
Il corpo incantato di Michel Onfray pagine 332 euro 21,00 Ponte alle Grazie


Se fra l’atteggiamento intransigente e conservatore dei comitati bioetici e scienziati disposti a spericolate sperimentazioni ci si mette Onfray, il dibattito esplosivo è garantito... A favore di una bioetica libertaria che insegni a nascere, vivere e morire meglio con il sostegno di scienza e tecnologia. Corpi incantati come corpi post-cristiani, in una riflessione felicemente senza pregiudizi e fortemente laica.

Repubblica 1.6.12
Il Dracula dei mongoli
Quel signore della guerra che sognava Gengis Khan
Il libro di Pozner ricostruisce la vicenda del barone von Ungern-Sternberg
di Pietrangelo Buttafuoco


Premesso che Ungern Khan – il più affascinante tra i soldati in guerra "contro Trockij e contro Cristo" – non è morto ma reincarnato, dichiarato appunto Mahakala da Thubten Gyatso, tredicesimo Dalai Lama; premesso che la sua tomba è puro luogo indifferente alla geografia, dove tra le dure crete di Novonikolaevsk c´è solo la Croce di San Giorgio, la medaglia che inghiottì prima di essere fucilato dai bolscevichi; premesso che ancora oggi vi arrivano gli sciamani per gridare "Urrah, urrah, urrah"; premesso che il suo anello con il segno di Shiva, lo swastika – non la chevalière del lignaggio baltico, ma l´anello del Re del Mondo – gli è stato prelevato il 15 settembre 1921 dal suo carceriere, il generale sovietico Bljucher, e poi, all´epoca della Grandi Purghe, passato nelle mani del maresciallo Zhukov, il vincitore di Stalingrado (fino a venti anni fa ancora in mano alla figlia di quest´ultimo); premesso tutto ciò, il libro di Vladimir Pozner, Il barone sanguinario (Adelphi) è pura mistificazione intorno alla vita e al destino di chi inventò la più abietta delle torture: legare i polsi dei prigionieri con stracci sporchi di sterco di cavallo; supplizio destinato non certo all´olfatto, bensì a produrre vermi che rosicchiavano la carne fino a far staccare, tra atroci tormenti, le mani.
Premesso tutto ciò, la menzogna non può offendere Roman Nicolaus Fiodorovic von Ungern-Sternberg, signore della guerra, sotto il cui vessillo marciò la divisione di dungani, mongoli, cinesi, giapponesi, karakalpaki, sarti, turkmeni, calmucchi, baschiri, kirghisi, tatari e, naturalmente, russi. Fecero orda, tutti quegli asiatici, riconoscendo in lui l´erede di Gengis Khan «…per poi dedicarsi alla restaurazione della monarchia zarista». Onorarono una storia che Pozner, dalla felice penna, ricostruisce catalogandone gli enigmi, le false piste e i misteri fino a farne un mostro da destinare al folklore.
Fu a Urga che Ungern liberò il Dalai Lama fatto prigioniero dai cinesi, ristabilendolo sul trono quale prefigurazione del Buddha venturo. Il barone ebbe come appellativi, nell´ordine, "pazzo", "nero" e, appunto, "sanguinario", ma sotto il magnifico mantello di ufficiale imperiale vestì sempre la tunica gialla del lama.
Come Bram Stoker per Dracula, anche Pozner sottrae vita dalla straordinaria personalità di Ungern Khan per farne un personaggio da destinare all´anatema. E come il conte Vlad Tepes di Valachia, un altro signore della guerra, fu proclamato vampiro da Stoker e perciò macchiato per sempre fino a farne maschera di successo ma pur sempre maschera, così il barone, il "sanguinario", lo sterminatore nemico delle sorti progressive dell´umanità, è il macabro Dracula a noi più vicino. Quando Pozner se ne occupa, infatti, accettando la proposta di scriverne la biografia, studia vicende concluse da appena qualche decennio eppure già soffuse di un´aura leggendaria. Comincia da Parigi, dove interroga tassisti che fanno il baciamano alle signore quando entrano nelle loro vetture, e indossano camicioni da lavoro il cui taglio, impeccabile, rivela un´antica educazione: sono granduchi, principi e generali rifugiatisi in Francia dopo la Rivoluzione d´Ottobre. Ci sembra di riconoscerli tra le comparse del film Anastasia, fanno il loro dovere di chaffeur come se il carburatore delle Renault potesse far sentire il tintinnare degli speroni e lo stridere delle sciabole a beneficio di uno stile. E di ogni struggente malinconia, Pozner, giornalista ma anche sceneggiatore, produce effetti in crescendo per costruire una pessima reputazione al suo "personaggio". Lui che ebbe modo di sfogliare album e diari dove capita di trovare in allegato campioni disseccati di flora della Transbajkalia, nega al Barone almeno due capitoli fondamentali: il ruolo sacerdotale che fu predominante e poi ancora i significati legati al sollevamento di un esercito così fortemente asiatico nel momento in cui Mosca diventava capitale del bolscevismo internazionale. È stato più rispettoso Hugo Pratt, che volle mettere il Barone sulla strada di Corto Maltese, di quanto abbia fatto Pozner impegnando il Barone, nella pagine meno plausibili di un libro comunque fantasioso, in una discussione su Albert Einstein con due prigionieri bolscevichi ebrei. È una sorta di gara tra la teoria della relatività e le carte celesti tracciate dai Lama tibetani; ma, a voler essere pignoli, le mappe lamaiste non hanno avuto neppure la smentita da Galileo ma sono cose evidenti nel deserto del Gobi «dove ci sono serpenti che, quando un´ombra si posa su di loro, si slanciano in avanti e riescono a trapassare un cammello e due casse di tè».
Pozner non accenna al fatto che il barone, erede di una schiatta cui bastava leggere il proprio albero genealogico per conoscere la storia del mondo, non era un convertito ma nato lamaista tibetano, compagno d´arme di mongoli abituati a consumare pasti – nell´era dei monopoli e del capitalismo – in teschi intarsiati d´oro e di argento; non era ovviamente occidentale, europeo e "cristiano" di educazione, e non poté accettare il mutarsi del suo mondo secondo i principi del Terrore, "la giustizia del popolo", che vedeva precipitare nel kali-yuga, ovvero l´età oscura, l´ordine gerarchico della Siberia "bianca" e della Mongolia, già cuore di nitore di uno spazio che si dilata dal Baikal allo Hsing-Kiang e al Tibet, già patria spirituale dell´ineffabile Shambhala, "la terra degli iniziati".
Pozner, che scrive un libro pensando di liquidare un avventuriero sotto la categoria del "sadico", non considera quanto per Ungern Khan, pur nella consapevolezza della disfatta, fosse di primaria importanza issare lo stendardo di una cultura antica oltre cinquemila anni in contrapposizione col principio opposto, quello fugace e terreno della moderna società materialista.
Militante comunista, Pozner, nel solco di una celebrazione cui non si sottrae né il cinema sovietico (Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Alelsandr Zarchi e Josif Chejfiz) né la monumentale "Enciclopedia sovietica", fa di questo eroe della Russia bianca una leggenda nera, secondo il noto principio: tanto più grande è il nemico tanto maggiore è il merito nell´averlo sconfitto, specie se a far da coro, nella scena del processo, vengono convocati cinesi e contadini desiderosi di sapere chi fosse mai Don Chisciotte, quel "Don Chisciotte" da destinare alla fucilazione.
La scrittura di Pozner è sontuosa: le ragazze nei collegi attendono il passaggio dei reggimenti per organizzare i balli mentre i soldati, attardati tra le pagine, battono le mani per il freddo e sembrano applaudire lo scenario dell´inverno ingoiati dalla solitudine.
Il barone Ungern-Sternberg di Pozner onora i sogni dell´infanzia ed è fratello dei mongoli cui ha dato una direttiva di marcia verso il sole: «Essi non hanno né mura né città e le case se le trascinano ovunque vadano. Inoltre, sono abituati, dal primo all´ultimo, a tirare con l´arco stando a cavallo, non vivono di agricoltura, ma di allevamento, e hanno come unica dimora dei carri coperti: come potrebbero non essere invincibili?».
Il barone Ungern Khan, nel libro di Pozner, parla con le descrizioni di Erodoto: peccato che in questa biografia manchi la sua ultima notte di libertà nella yurta di Ja Lama, il calmucco nel cui nome "ja" c´è "khalka", ovvero fato, destino, karma. Ma non è precisamente una biografia quella di Pozner, è solo un romanzo. Lui è il Bram Stoker del Comandante della Divisione asiatica di Cavalleria, legittimo erede di Gengis Khan, pellegrino in cammino verso il Re del Mondo.

Repubblica 1.6.12
"Timira" il nuovo romanzo di Wu Ming 2 racconta la vita di Isabella Marincola
Partigiani, esuli e ribelli. La nostra storia in una donna
di Massimo Vincenzi


Gli oggetti che vedete negli specchietti retrovisori sono più vicini di quanto appaiano. Così recita l´apposita scritta di sicurezza. E così deve pensarla Wu Ming 2, tessera dell´omonimo mosaico creativo "senza nome", che girando lo sguardo al passato cattura un frammento di verità tanto vicina da essere incollata alle nostre vite, al nostro presente. Parlano di noi le vicende, i personaggi e le persone che riempiono le oltre cinquecento pagine di Timira (Einaudi Stile libero). Ovvero la rivelazione al pubblico di una vita così particolare, come solo le terre di confine e di migranti (Italia compresa), sanno custodire negli angoli più remoti della propria anima.
Storia inzuppata di cose. Occhi accecati da mille immagini. Quasi da non afferrarne subito la visione di insieme, ma solo schegge di bellezza.
Timira è Isabella Marincola, di mamma somala e padre italiano, come avveniva spesso ai suoi tempi, quelli delle colonie (parola quasi rimossa nel nostro vocabolario). Modella, attrice (sorpresa nella sorpresa: è la mondina nera che appare in Riso Amaro), esule, ribelle rabbiosa e sconsolata, poi ancora profuga di due patrie. Sorella di Giorgio, giovane martire partigiano. Madre di Antar, emigrato in Italia dalla dittatura di Siad Barre, studente, attore, scrittore, volontario e mille altre cose ancora. Materiale infinito, quasi troppo, a cui Wu Ming 2 ha messo ordine con il rigore dello storico e un´abilità quasi ottocentesca (nel senso del romanzo). Amante della verità, tanto da infilare nel libro documenti ufficiali, ma amante ancora più appassionato della forza narrativa, che richiede spruzzate di invenzioni, laddove la vicenda si inceppa o perde respiro, come accade con la realtà (ahimè sempre più lenta della nostra fantasia).
Un romanzo "meticcio", lo definisce Wu Ming 2: «L´abbiamo scritto in tre, io Isabella e Antar. Abbiamo realizzato in concreto un esperimento di convivenza, di società multietnica. Che a parole sembra sempre bellissima ma invece è figlia di un duro lavoro, di tanta pazienza e impegno. E così è stato anche per creare questo romanzo. Io pensavo di intervistare Isabella, come per altro ho fatto per 20 ore, e poi di sbobinare il tutto, condirlo con le mie invenzioni stilistiche e via: il libro era pronto. Niente di più sbagliato: lei voleva essere protagonista sino in fondo, aveva voglia di ripercorrere la sua vita e così è stato. Mi consegnava fogli scritti a mano frutto dei suoi ricordi e del diario che aveva tenuto negli anni di Mogadiscio. Poi alla sua morte, una volta che con Antar abbiamo deciso di proseguire, è subentrato lui e ancora una volta abbiamo cambiato modo di procedere. Ci siamo parlati, ci siamo capiti, ci siamo rispettati: quello che serve per unire culture e punti di vista diversi».
Una moltitudine di parole, dove il lettore, preso il ritmo, non capisce più (e quel che più conta, meno che mai gli importa) quali sono fatti veri, quali sono quelli inventati e persino il tempo (il romanzo vive in più epoche, accese da continui flashback) si mischia, come a sovrapporsi in un inevitabile oggi. Ora e sempre. «È l´effetto che volevo: mi interessa il senso generale della storia, il suo significato più profondo. Volevo aprire una porta su nuovi universi, unire passato e presente». Porta che si spalanca, come già con Q (dei Wu Ming) o con Asce di guerra scritto insieme a Vitaliano Ravagli (di cui Timira è in qualche modo la diretta conseguenza): libri che poi ti stimolano una fame insaziabile di sapere, di leggere saggi per conoscere più a fondo le vicende narrate.
Libri pieni di punti interrogativi, di salutari curiosità liberate: «In Timira volevo riuscire a ragionare sul concetto di profughi, su quanto noi ci rendiamo così poco conto della nostra precarietà in questi tempi. Di quanto sia importante essere cittadini e di quanto sia difficile invece la condizione di profugo, il non avere uno Stato, una casa. La vita di Isabella certo è eccezionale, ma invece alla fine diventa esemplare, l´eccezione si fa regola e ci serve per capire meglio questa condizione. Prendiamo i terremotati di questi giorni, sconvolti dal lutto scoprono che lo Stato per la prima volta non rimborserà i danni e subito si sentono abbandonati. Diventano profughi. È questo che vorrei rimanesse: una consapevolezza».
Per questo la storia, mescolata, maneggiata con le parole serve a mettere a fuoco meglio il profilo del nuovo orizzonte: «Guardarsi indietro è utile, raccontare i fatti passati aiuta, è una buona palestra per capire la complessità del presente. A condizione che non si facciano sconti: Timira per esempio non è un romanzo comodo, rovescia molti stereotipi, la stessa Isabella emerge con le sue contraddizioni e tutto questo contribuisce a costruire una mappa per orientarsi». La storia e le parole, la voglia di raccontare: «Perché la narrazione è importante, è un mattone decisivo nella costruzione di una comunità. Bisogna raccontare sempre verità nuove, ridire le stesse cose con parole diverse. E per riuscirci bisogna avere un´etica, una deontologia professionale: arrivare a colpire il cuore della verità narrativa».
E si arriva alla fine del libro stremati. Quasi una fatica fisica. Stanchi ma con una bella sensazione dentro. Felici per aver esplorato questo mondo sconosciuto così lontano da noi: l´Italia che siamo diventati e che troppo spesso, per pigrizia e comodità, facciamo finta di ignorare.

Le Scienze 31.5.12
CNR. Adolescenti e sostanze psicotrope: italiani nella 'top ten'
qui

Le Scienze 29.5.12
La scelta della donna alle origini della monogamia
qui