martedì 5 giugno 2012

l’Unità 5.6.12
Fassina: voto a ottobre. Bersani: no, nel 2013
Polemica nel Pd per la sortita del responsabile economico: «O si fanno le riforme, oppure
è meglio andare alle urne»
L’irritazione del segretario: la posizione è chiara
Consensi da Sel, Idv e da alcuni esponenti Pdl. Modem all’attacco. Venerdì la Direzione
di Simone Collini


«Dovremmo verificare rapidamente se esiste la possibilità di riformare la legge elettorale e, se questa non c’è, dovremmo considerare la possibilità di anticipare la legge finanziaria per il 2013 e votare in autunno». Un’intervista rilasciata da Stefano Fassina all’agenzia Reuters fa scoppiare una bufera fuori e dentro al Pd. E fa infuriare Pier Luigi Bersani, che attraverso il portavoce Stefano Di Traglia smentisce si possa attribuire al suo partito una posizione favorevole a elezioni anticipate: «Il Pd conferma la posizione di sempre e cioè che le prossime elezioni si terranno nel 2013».
Il leader dei Democratici, aprendo la Direzione convocata per venerdì, annuncerà un percorso che difficilmente potrebbe compiersi, se la legislatura non dovesse andare a scadenza naturale (parlerà di un Pd che si candida a guidare l’azione di governo, senza chiudere la porta all’ipotesi primarie se ci saranno altre candidature, lanciando un appello a tutte le forze riformiste e moderate a lavorare per fare della prossima una legislatura costituente, e annunciando per dopo l’estate un’iniziativa con intellettuali, docenti universitari, personalità del mondo della cultura e dell’associazionismo per scrivere insieme l’agenda).
IL GIUDIZIO
Ma soprattutto l’uscita di Fassina membro della segreteria tra i più vicini a Bersani viene giudicata dannosa dal leader del Pd perché rischia di mettere in dubbio la lealtà dei Democratici nei confronti dell’esecutivo, o quanto meno dà l’immagine di un partitononcosì compatto nel sostenere Monti (quando invece siamo alla vigilia di un delicato vertice europeo e il governo italiano deve andarci col massimo della credibilità). Per non parlare del fatto che una simile uscita finisce per dar voce a chi, come il Pdl, effettivamente sta sia rendendo complicato il confronto tra le forze politiche per una nuova legge elettorale (ora è stato messo sul piatto il semipresidenzialismo) che frenando l’azione dell’esecutivo su diverse riforme (a cominciare dall’anticorruzione).
È quello che dice anche Fassina, per il quale «se il Parlamento viene bloccato dall’implosione del Pdl» e se quindi «Monti non ha la forza di portare avanti altre riforme», è preferibile andare alle urne in ottobre più che in primavera, quando la situazione politica ed economica sarebbe anche peggiore. Ma, come dice il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando, «un conto è in questo momento evidenziare le criticità e chiedere al governo di stringere su alcuni temi economici e sociali per i quali non c’è stata adeguata risposta, un conto è alla vigilia di un passaggio importante come il vertice europeo di giugno mettere in forse la tenuta del governo».
Il ragionamento di Fassina incassa consensi da parte di Sel («votare in autunno è l’unica soluzione in grado di salvare il Paese dice Nichi Vendola dopo la fallimentare esperienza del governo Monti, votare in autunno farebbe guadagnare al Paese sei mesi, anziché fargliene perdere altri sei»), Idv («la pseudo-maggioranza che sostiene il governo Monti è divisa su tutto ed ogni provvedimento è il frutto di un compromesso al ribasso», dice Massimo Donadi), Rifondazione comunista e Pdci, oltre che da parte di alcuni esponenti del Pdl (da Guido Crosetto a Renato Brunetta).
Ma l’uscita del responsabile Economia divide il Pd, facendo registrare poche dichiarazioni di condivisione (Matteo Orfini in primis) e molte critiche (soprattutto da parte della minoranza di Movimento democratico). Franco Marini sottolinea che di fronte alla grave crisi che stiamo attraversando bisogna fare attenzione a «non smontare la credibilità che ci ha restituito il presidente Monti, che sta puntando i piedi in Europa per forme di garanzia sul debito». Caustico Paolo Gentiloni: «Chi nel Pd minaccia di scaricare Monti dilapida il nostro patrimonio di forza seria, affidabile. Modello è Napolitano, non Brunetta-Santanchè». Walter Verini definisce «molto grave» l’uscita, che «stupisce e inquieta» Achille Passoni. Francesco Boccia bolla questa «fretta di andare al voto col Porcellum» e l’europarlamentare Debora Serracchiani invita Fassina a «trarre le conclusioni» dal suo dissenso rispetto alla segreteria nazionale. Tra i membri della segreteria, a dirsi d’accordo col responsabile per l’Economia è Orfini: «Fassina ha detto una cosa di buon senso, se il governo è paralizzato e senza maggioranza è inutile arrivare al 2013». Per il responsabile Cultura e informazione del Pd «Monti sta facendo male per responsabilità propria e perché la maggioranza è difficile». Da qui la domanda: «Se il grande governo riformista non riesce a fare nemmeno la riforma della Rai, che senso ha arrivare fino in fondo?».
Per Bersani è però una discussione che non fa bene né al Pd né al governo né al Paese, soprattutto ora che l’Italia ha bisogno di tutta la credibilità possibile per andare a discutere con i partner europei al vertice di Bruxelles fissato in agenda per la fine del mese.

il Fatto 5.6.12
“Basta Monti, elezioni” Il Pd si spacca in due
Fassina e Orfini della segreteria del partito chiedono il voto in autunno: “Il governo non ha più la forza di fare nuove riforme” Bersani: “Non se ne parla”. Ma Di Pietro e Vendola: “Era ora”
Il leader dell’Idv: “Non possiamo aspettare il signor Tentenna”. Ezio Mauro: “I democratici non vogliono la lista civica? Allora il partito deve essere scalabile”
di Wanda Marra


In questo contesto politico e con questo Parlamento, Monti non ha la forza di portare avanti altre riforme”. Con queste parole il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, fa da asse di sfondamento e dice una cosa che in (alcuni) corridoi del d circola ormai da settimane: “Dovremmo considerare la possibilità di anticipare la legge finanziaria per il 2013 e votare in autunno”. Perché “in marzo o aprile 2013 dopo altra recessione e nuova disoccupazione, penso che la situazione politica ed economica sarebbe decisamente peggiore”. Fassina era stato il primo a mettere in discussione il sostegno al governo Monti e la sua linea economica. Ed è il primo dei Democratici a dire che i tecnici sono deludenti, anzi fallimentari e che da questo Parlamento non potrà mai uscire nulla di buono. Lui, una delle figure chiave della segreteria, un bersaniano di ferro. Che però Pier Luigi Bersani, per bocca del portavoce Stefano Di Traglia, smentisce secca-mente: “Il Partito democratico conferma la posizione di sempre e cioè che le prossime elezioni si terranno nel 2013”. Certo, senza una nota del genere, la crisi di governo sarebbe stata praticamente già un dato di fatto. Ma nel Pd il vento delle elezioni soffia a correnti alterne. Il segretario, dopo aver abdicato anche a qualche ambizione personale in nome del sostegno a questo esecutivo nello scorso autunno, a questo punto si stava preparando a raccogliere qualche frutto. Era pronto ad annunciare le primarie per la leadership alla direzione convocata per venerdì. Non solo, l’idea di sostenere delle liste civiche (il “partito Repubblica” in primis), e in cambio guadagnarsi non solo l’appoggio da parte loro, ma anche dai vari dirigenti del partito finora perplessi (da Veltroni in poi) rimane per lui il progetto maestro. Insomma, all’interno di questa strategia, le parole di Fassina suonano come un’uscita a freddo. E infatti, dallo staff del segretario continuano a dare degli irresponsabili a quelli che polemizzano, senza rendersi conto della situazione del paese. Ma se il responsabile economico - una volta gettato il sasso, fa qualche distinguo (è colpa dell’implosione del Pdl se il Parlamento viene bloccato), giusto quel tanto per non dover mettere in discussione il suo ruolo nel partito - ci pensa Matteo Or-fini, responsabile Cultura, a rincarare la dose. “Fassina ha detto una cosa di buonsenso, se il governo è paralizzato e senza maggioranza è inutile arrivare al 2013. Monti sta facendo male per responsabilità propria e perchè la maggioranza è difficile”, dice alla Zanzara. Di più: “Gli darei un cinque in pagella”. Non male, l’attacco frontale sferrato da due membri di peso della segreteria, due “giovani turchi” promettenti, nonché tra i più vicini al segretario.
ATTACCO che sembra non solo al governo, ma pure allo stesso Bersani. “Lo vogliamo aiutare, lo vogliamo portare sulle posizioni giuste”, spiega Orfini. Tradotto: è il tentativo da una parte di forzargli la mano, dall’altra di intestarsi la rappresentanza dell’ala sinistra del partito. Quella che guarda a Sel, alla Fiom, e magari pure all’Idv (non a caso a sinistra, da Vendola in poi, le reazioni sono tutte entusiaste). Chissà che non facciano breccia, visto che Chiara Geloni, la direttrice di Youdem di chiara fede bersaniana commenta su Twitter: “Sui può essere d’accordo o no con Fassina, ma che l’idea di tornare alle urne sia considerata sovversiva non è un buon segno”. In un momento in cui il consenso dei partiti è in calo vertiginoso, la delusione nei confronti di Monti è diventata un possibile fattore di aggregazione, e i 5 Stelle fanno paura a tutti. Per di più i giovani democratici hanno qualche motivo di temere le liste civiche in termini di candidature e di prospettive personali. Che il loro turno non arrivi mai? Da notare, in questo senso, la notazione di Orfini su D’Alema (del quale è stato per anni uno dei consiglieri): “Potrebbe non ricandidarsi”. Ma questi due giovani virgulti quanto consenso aggregano? Da registrare che il loro “ideale” terzo compagno di strada, Andrea Orlando, si sfila immediatamente: “Un errore, un’uscita irresponsabile”, dice. Non senza tenere aperta una porta: “Monti è assolutamente deludente”. Da parte dei montiani del partito le reazioni non solo sono decise, ma pure incandescenti. Walter Verini, luogotenente di Veltroni, attacca: “È molto grave che un membro della segreteria parli di elezioni anticipate”. Il lettiano Francesco Boccia scrive su Twitter: non è che Fassina spera che la riforma elettorale non si faccia per "portare l’Unione bonsai al governo?". Interviene anche Paolo Gentiloni, che fa arrabbiare Renato Brunetta: “Chi nel Pd minaccia di scaricare Monti dilapida il nostro patrimonio. Modello è Napolitano non Brunetta-Santanchè". Nessuno però, né tra i bersaniani, né tra gli altri, mette in discussione il ruolo di Fassina nel partito. Lo fa solo una come Deborah Serracchiani: “Fassina valuti se le sue posizioni sono in linea con quelle della sua segreteria”. E l’ex rottamatore Civati fa una battuta: “Mi hanno fatto a pezzi per molto meno”. Con Fassina si allinea Marianna Madia. E Fioroni fa un “ragionamento”: “C’è una grande sofferenza nel paese, di cui Fassina si è fatto interprete, ma facendosi scappare la frizione”. Nel Pdl, intanto, qualcuno prende la palla al balzo. Come Crosetto: “Da Fassina parole condivisibili”.

La Stampa 5.6.12
Fassina: voto subito, stop di Bersani
Il responsabile economia del Pd: “Monti non fa riforme”. Il segretario infuriato: assist alla destra
Malessere nel partito, Venerdì battaglia in direzione: la svolta sostenuta da Sel e Idv
di Carlo Bertini


«In questo contesto politico e con questo Parlamento, Monti non ha la forza di portare avanti altre riforme, quindi bisogna vedere se è possibile cambiare la legge elettorale e poi andare a votare in autunno»: firmato, Stefano Fassina. Che nel Pd non è certo un personaggio qualunque, ma un membro della segreteria, nonché il responsabile Economia, non nuovo ad uscite dirompenti sul governo, che anche stavolta non passano affatto inosservate sui colli più alti della Capitale. E Bersani si infuria: senza poter dare pubblico sfogo a ciò che pensa e volendo evitare una litigata epocale, incarica uno dei suoi uomini più fidati di chiamare l’incauto Fassina per fargli riversare addosso tutto il suo sconcerto. Per un’uscita «che ci potevamo risparmiare, che dà un formidabile assist alla destra per cavalcare lo sfascio». Insomma, un boomerang che tornerà dritto sulla testa del segretario venerdì, quando in Direzione ci saranno quelli che lo metteranno in croce e altri, come Matteo Orfini, che sosterranno Fassina, «che ha detto una cosa di buon senso, se il governo è paralizzato e senza maggioranza è inutile arrivare al 2013». E’ comprensibile che il leader Pd non si dia pace. «Siamo in una fase di grande turbolenza, a fine giugno al vertice europeo l’Italia con Monti potrà giocare un ruolo di primo piano per cambiare le cose e se ne esce con una roba del genere? », si sfoga Bersani. Il quale ieri mattina aveva perfino programmato un appello a evitare chiacchiere in libertà su liste civiche ed alleanze per parlare piuttosto della crisi e di come uscirne. Ma di fronte alla mala parata il suo pensiero viene trasfuso in una nota di uno dei suoi dirigenti, Davide Zoggia: mentre in Europa si discute su cosa fare per salvare l’euro e alla vigilia di aste cruciali dei Btp in Italia e dei Bonos in Spagna, «sarebbe bene che ciascuno concentrasse le proprie energie sulle sfide concrete che l’Italia deve affrontare e sulle riforme che dobbiamo fare ad ogni costo».
Ma il problema è che Fassina non è l’unico a pensarla così: più che una voglia diffusa di voto anticipato, le sue parole svelano la forte insofferenza verso il governo dell’ala più a sinistra del Pd. Alimentando il sospetto dei «filomontiani» di un gioco delle parti: di fronte ad «una dichiarazione di sfiducia che lascia sbalorditi, viene da chiedersi a nome di chi parla Fassina», attacca il veltroniano Andrea Martella. E dello stesso calibro le bordate dei giovani esponenti delle anime non diessine: come il lettiano Boccia («Fassina svela la fretta di andare a votare col Porcellum») o la Serracchiani, vicina a Franceschini, che chiede a Bersani le dimissioni del suo responsabile economico. Per provare a fugare ogni dubbio di una sua benevola tolleranza, il leader Pd fa diramare all’ora di pranzo una nota del suo portavoce Di Traglia, confermando che «l’obiettivo sono le elezioni nel 2013». Tradotto: il momento è grave e bisogna tenere la barra dritta, poi se sarà Berlusconi a staccare la spina, il Pd potrà pure trarre un vantaggio, ma solo se dimostrerà senso di responsabilità e lealtà al governo.
Dopo aver incassato il plauso di Vendola e dei dipietristi, Fassina riappare su Sky, ma non fa marcia indietro. «La mia è una preoccupazione seria per lo stato dell’economia e il quadro politico: il Pdl è in grande confusione e difficilmente darà il sostegno necessario alle riforme che servono al paese. Se la legge elettorale non va in porto prima dell’estate, si dovrebbe valutare la possibilità di anticipare la finanziaria e poi, senza atti unilaterali, d’accordo con Bruxelles, valutare la possibilità di anticipare il voto. Senza colpi di testa».

il Fatto 5.6.12
Da novembre a oggi la perdita di consensi del governo


Il governo di Mario Monti ha perso oltre il 30% di gradimento da novembre 2011 a oggi. A rivelarlo, un sondaggio effettuato dal 28 al 30 maggio da Demos&PiI. Tra gli intervistati, infatti, solo il 45,3% esprime per il governo una valutazione sufficiente, rispetto al 78,6% di votazioni positive di novembre. Crollati anche i giudizi positivi sulla capacità del governo di portare l’Italia fuori dalla crisi economica: se a novembre il 66,5% degli intervistati rispondeva “probabilmente si”, adesso ha dato la stessa risposta il 54,8%. Solo il 9,1% ha risposto “sicuramente sì” e il 16,8% “sicuramente no”. Nonostante lo stesso premier abbia più volte rimarcato la sua intenzione di non presentarsi alle elezioni una volta giunto a termine del suo mandato nel 2013, il 48,4% degli intervistati si è detto favorevole alla possibilità di rinviare le elezioni e andare avanti con il governo dei tecnici fino alla soluzione della crisi economica. A marzo si erano dichiarati d’accordo il 61,1% degli intervistati. Il 32,4% erano contrari, ora sono 48,4% i voti non favorevoli. Mario Monti rimane comunque il leader più amato, con il 52,1% di votazioni positive, seguito dalla Fornero e da Montezemolo. Ultimi in ordine di gradimento, Fini, Berlusconi e Bossi.

il Fatto 5.6.12
Partito scalabile, ricetta Repubblica per i democratici
La lista Gomorra, tra smentite e nuove proposte
di Luca Telese


E così tutti si chiedono: cosa succede con la fantomatica lista civica che dovrebbe affiancarsi al Pd e alla foto di Vasto? La patrocinerà Roberto Saviano? È nato “il partito di Gomorra” titola a tutta pagina con luciferina malizia Alessandro Sallusti. Mauro parla dalla Gruber e chiede aperture del Pd che “deve essere scalabile”. Davvero si sta allestendo una nuova panoplia in cui al posto dei volti storici dell’iconografia socialista del Novecento troveranno posto i profili di Eugenio Scalfari, Concita De Gregorio, Gustavo Zagrebelsky e dell’uomo simbolo dell’anti-camorra?
DI FRONTE a queste domande - che attraversano l’opinione pubblica democratica - ogni risposta banale e semplificatoria è sbagliata. Ecco perché occorre riavvolgere la bobina.
1) Il padre spirituale della lista ha un nome, ed è quello di Eugenio Scalfari. Il primo che ne ha disegnato l’identità, la possibile fisionomia e la funzione in un editoriale.
2) Seconda domanda: ma allora Scalfari scrive perché rappresenta il gruppo Espresso? Sciocchezza sesquipedale. Scalfari parla per conto di Scalfari. Come cittadino, come opinion leader, come guru. Le sue opinioni non sono frutto di una politica aziendale pianificata a tavolino a Largo Fochetti ma dei suoi personali convincimenti. Attenzione: questo non vuol dire che le sue idee non siano condivise - individualmente - da molte persone che lavorano dentro e fuori dal gruppo.
3) La miccia che fa esplodere tutto è un articolo pubblicato sul Corriere della Sera da Maria Teresa Meli. La retroscenista principe del Corriere ha scritto un’altra notizia assolutamente vera: Pier Luigi Bersani aveva acconsentito all’idea di un apparentamento. La mossa era il pilastro dell’annuncio di una propria candidatura alle primarie.
4) Saviano smentisce con veemenza la suacandidatura. Ma precisa: “Non rinuncio a costruire un percorso”. Non esclude il suo patrocinio.
5) L’annuncio solleva la rivolta dei giovani turchi del Pd con in testa Matteo Orfini, Stefano Fassina e Pippo Civati. Sua la battuta che resta: “Se accade questo il Pd diventa una bad company”.
6) Concita De Gregorio, da molti indicata come possibile capolista, ex direttrice de l’Unità, viene a In Onda, su La7 e fa un discorso della corona (1 milione di ascoltatori, 4%). Premette e precisa “non intendo fare politica”. Poi stila una micidiale requisitoria: “Il Pd, in questi anni è stato un progetto fallito. Anziché selezionare il meglio ha selezionato il peggio. Se a uno della società civile gli dici, con rispetto parlando, che deve farsi selezionare dal responsabile enti locali Davide Zoggia o dall’organizzatore Migliavacca, quello scappa a gambe levate”. In studio Sallusti grida: “E’ un golpe! ”. Lei procede implacabile: “Che in Sicilia nessuno degli elettori del Pd volesse l’inciucio con Lombardo lo sanno anche i sassi”. Pausa, altro nome: “Hanno emarginato uno come Ivan Scalfarotto che selezionava il personale di una delle più importanti multinazionali basate in Europa”. Poi, rivolgendosi a Civati(e qui altro colpo di scena): “Pippo, ma perché non dici che ogni volta che tu fai una convention il segretario ti piazza un appuntamento contro per oscurarti? ”. Civati invece di arrabbiarsi annuisce: “Guarda, se questo è quello che vuoi fare, se la linea è quella che giustamente ha chiarito Scalfari oggi su La Repubblica, questa lista la votiamo pure io e i miei cari”.
7) Già perché cosa aveva detto Scalfari, proprio quella mattina? Mentre Ezio Mauro il giorno prima aveva approfittato della riunione di redazione per escludere ogni coinvolgimento del gruppo e del suo quotidiano, il fondatore aveva coniato due espressioni che resteranno nel dibattito. Primo: “La società civile, cioè gli elettori sovrani al momento del voto dovrebbero riscoprire i partiti e invaderli laddove si riconoscono nei loro valori”. Secondo: “Oppure formare liste collegate con quei partiti, legge elettorale permettendo. Cioè trasfusioni di sangue oppure - notate la immaginifica metafora sanitaria - circolazione extracorporea di sangue nuovo”.
8) Il fondatore si concede un post scriptum in cui bacchetta un sito di gossip “preaclaro” (ai suoi occhi Dagospia), questo giornale e il tg di Mentana. La critica Scalfariana? Aver presentato l’operazione come un’opa ostile al Pd. Quindi: non è un’Opa, ma un aiuto? L’operazione va bene.
9) Questo tourbillon si sovrappone con “il festival delle idee” che La Repubblica celebra in pompa magna a Bologna. Domenica prossima la De Gregorio intervista Scalfari. Unico assente proprio Saviano.
10) Mauro ieri dalla Gruber parla ancora: “Scalfari ha fatto un’ipotesi, ma le azioni di lobbismo non mi interessano”. Però... “Esiste una montagna di energia democratica nel centrosinistra che i partiti non sembrano utilizzare. E quindi? Mauro conclude: “Tocca ai partiti convogliare questa energia”: DIpiù: “Il Pd deve sentirsi forte perché scalabile, perché contendibile, perché aperto alle energie nuove”. Bingo! Scalfari vuole “la circolazione extracorporea” delle liste civiche. Mauro la trasfusione e la scalabilità del Pd. Conoscendo la vecchia guardia del Pd, per Bersani l’“extracorporea” è meglio di un Alien in corpo. Se Mauro fosse un ex trotszkista, c’è da giurarci, D’Alema attingerebbe alla lingua del novecento per dargli dell’“entrista”. Conclusione: tutto è possibile, ne vedremo delle belle.

il Fatto 5.6.12
Le mille civiche da quelle di Santanché ad Alba di Ginsborg


La Terza Repubblica sarà l’Apocalisse dei partiti? Se lo chiedeva Fabrizio D’Esposito su queste pagine venerdì scorso ricostruendo la corsa dei partiti tradizionali alle liste civiche, antica idea di Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega. Il Pdl sarebbe spacchettato a favore di una rete di liste capeggiata da Daniela Santanchè, mentre il Pd è rimasto sotto schiaffo del giornale Republlica: l’idea di una lista Saviano voluta da De Benedetti, Scalfari e Mauro, ha provocato l’ennesima spaccatura nei democratici. C’è poi il centro con Montezemolo che non sa proprio decidersi e Passera, anche lui indeciso se tentare di restare (in politica) o andare. In tutto questo ci sono poi le liste del ciclone Grillo, quel Movimento 5 Stelle che ancora deve salire sul banco di prova, e gli intellettuali anti-grillini: si chiama Alba (Alleanza Lavoro Beni comuni Ambiente) ed è capitana dallo storico Paul Ginsborg, già girotondino, insieme a Paolo Cacciari, Stefano Rodotà, Marco Revelli, Chiara Giunti.

l’Unità 5.6.12
Davide Zoggia
«Il Pd saprà dare segnali di apertura. Anche sulle primarie»
«Si sottovaluta il risultato delle amministrative ottenuto in un clima molto difficile. Sarà Bersani a indicare il percorso e si aprirà il dibattito»
di Maria Zegarelli


Davide Zoggia è tra quelli che il bicchiere lo vede mezzo pieno, anche a rischio di attirarsi critiche ancora più forti di quelle fin qui giunte al suo indirizzo.
Zoggia, la direzione di venerdì si annuncia frizzante. Renzi, Civati e altri «quarantenni» raccolgono consensi con la loro richiesta di primarie a ottobre.
«Dal voto delle amministrative il Pd ha una accresciuta responsabilità verso il Paese e nessuno dovrebbe dimenticarlo. Non soltanto perché siamo cresciuti in alcune realtà ma anche e soprattutto perché abbiamo vinto in Comuni dove da anni non c’era il centrosinistra in maggioranza...».
Sta dicendo che va tutto bene?
«Non sto dicendo questo. Ma vorrei che non si sottovalutasse quel risultato ottenuto in un clima molto complesso. La crisi economica, la sfiducia dei cittadini e un campo politico caratterizzato dal disfacimento del centrodestra, tanto che in alcuni comuni sono andati al ballottaggio due candidati del centrosinistra. Il tema del recupero della fiducia dei cittadini per i partiti è la priorità ed è evidente che possono farlo soltanto partiti rinnovati. Ma non possiamo tacere il fatto che il Pd alcune cose le ha fatte, le primarie le abbiamo inventate noi. Detto questo, ritengo fondamentale in vista delle prossime elezioni dare voce a tutti quelli che vogliono impegnarsi per cambiare il Paese e sono molti anche se non tutti trovano nei partiti le forme di espressione che vorrebbero. Spetta al Pd dare loro un segnale di apertura, di un partito che non si chiude in un perimetro politicista».
A proposito di aperture, Renzi e Civati ricordano che ogni volta che organizzano un’iniziativa il partito gliene piazza un’altra lo stesso giorno.
«Quello che posso assicurare io è che quando facciamo il calendario delle nostre iniziative non guardiamo quello di Renzi e Civati e aggiungo anche che considero ogni contributo al partito molto prezioso. L’unica cosa che dobbiamo evitare sono le liti interne. Non pagano, penalizzano, non sfidiamoci a ordini del giorno, discutiamo».
Ma le primarie a ottobre si devono fare?
«Non spetta a me indicare il percorso, il segretario parlerà in direzione e lì si aprirà il dibattito. Tra l’altro è da settimane che Bersani dice di non volersi appellare allo Statuto, lo conosco e so che è quello che farà. Sa cogliere il sentimento dei cittadini, quello è il suo riferimento e non a caso ha già detto che se non cambia la legge elettorale il Pd farà le primarie per scegliere i candidati al Parlamento».
E nell’ultima polemica scatenata dalle dichiarazioni di Fassina, sul voto anticipato, lei da che parte sta?
«Noi abbiamo l’abitudine di discutere di queste cose in segreteria e in queste settimane, in maniera unitaria, si è stabilito che le elezioni si fanno nel 2013. Rilanciando, però, l’azione del governo su alcune iniziative a cui teniamo molto. Oltre al fatto che siamo impegnati in Parlamento per cambiare la legge elettorale. Non ha senso impegnarsi per la riforma e poi puntare alle elezioni a ottobre».

l’Unità 5.6.12
Paola Concia
«Serve coraggio. Il nuovo non si può lasciare in panchina»
«Sì alle primarie e al tetto massimo di tre mandati per i parlamentari. Al mio segretario dico: ci sono tante energie, facciamole entrare in campo»
di M.Ze.


Non voglio invecchiare restando in panchina». Paola Concia inizia così questo dialogo sul suo partito e su quello che si aspetta per il futuro. Non vuole restare in panchina, né dover «ammazzare» madri e padri per poter dare il proprio contributo, «li vorrei al mio fianco», dice. E spiega anche che la decisione di firmare l’ordine del giorno da presentare nella direzione di venerdì sul limite dei tre mandati per i parlamentari e le primarie, nasce «dal fatto che io al Pd voglio un gran bene».
Un atto d’amore la richiesta di primarie per i parlamentari e candidato premier da svolgere ad ottobre?
«Esatto, a me interessa la “ditta”. Questo ordine del giorno è condiviso da persone di cultura diversa che vogliono dare uno scossone salutare. Io, poi, non ho alcun intento polemico, mi pongo però il problema del rinnovamento che non è anagrafico, è di cultura politica. Noi non ci dobbiamo spaventare se ci sono le liste civiche, dobbiamo lavorare per far sì che sia il nostro partito ad aprirsi alla società civile e a dare spazio a una nuova classe dirigente portatrice di questa nuova cultura politica». Anche lei come Pippo Civati sente di essere vista come un “nemico interno” perché pone queste istanze?
«Non mi voglio sentire così, è diverso. Non credo che faccia bene al Pd pensare che tutti i rinnovatori debbano essere “soffocati”, ma ci sono diverse responsabilità: da una parte quelle di una classe dirigente che stenta a promuovere il ricambio; dall’altra quelle di chi accusa di sentirsi soffocato ma in realtà cerca “protezione”. A questi ultimi chiedo: ma siete disposti a mettervi in gioco davvero, con le vostre idee? L’unico modo per crearsi spazi è quello di avere proposte forti. Dobbiamo avere il coraggio di dire come noi immaginiamo un modello di società, come rispondiamo ai sogni e ai bisogni dei cittadini. Quello che sto dicendo è che ci sonotante energie nel partito per poter dare un contributo al progetto di alternativa».
Concia, ma lei è una parlamentare del Pd, non una semplice militante. Non si sente già in pista?
«Io faccio la mia parte, sono pronta a prendermi le mie responsabilità, non sono una giovane che viene dal nulla, la mia storia arriva dal Pci, eppure a volte mi sento come un giocatore in panchina sempre allenato ma che nessuno chiama a giocare».
Condivide le critiche di chi ritiene il Pd bloccato da logiche di partito e di lotte intestine?
«No, io dico che il Pd deve avere il coraggio di liberare le sue energie interne».
Le primarie sono un modo?
«Le primarie sono necessarie, possiamo discutere del modo in cui farle però dobbiamo farle. Ma io parlo delle energie che sono ovunque nel Paese e, girando l’Italia in lungo e in largo, le assicuro che ce ne sono. Il rinnovamento ce lo abbiamo in casa, basta metterlo in luce, farlo entrare il campo. Questo chiedo a Bersani».

l’Unità 5.6.12
Renzi chiama due professori. Ma è tensione col Pd
Il dimissionario Fantoni: il sindaco gioca per sé. La replica: il partito abbia la forza di cambiare
di Osvaldo Sabato


La crisi lampo della giunta di Palazzo Vecchio si è chiusa in quarantotto ore con la nomina del sindaco Matteo Renzi di due tecnici: il fiscalista e docente di economia Alessandro Petretto e il filosofo Sergio Givone. Due professori nel governo fiorentino con il primo che prende il posto al bilancio del dimissionario Claudio Fantoni, il secondo si occuperà di cultura, delega che fino a ieri era nelle mani del sindaco. Sistemata la giunta, restano però sempre aperti nel Pd i nodi che aveva sollevato Fantoni nella lettera di dimissioni e le accuse a Renzi di personalismi e cattiva gestione dei conti del comune.
Come dire che la vicenda assume un carattere politico alla luce anche della voglia del sindaco di Renzi di giocare le sue carte sul palcoscenico nazionale con le primarie per la premiership e la scalata al Pd. «Non c’è nessun complotto» spiega Fantoni «si pensa sempre a questo quando qualcuno muove delle critiche». Ma per capire
meglio come stia la faccenda ieri lo stesso ex assessore ha avuto un incontro di un’ora con Andrea Manciulli, segretario regionale del Pd, Patrizio Mecacci, segretario metropolitano e Lorenza Giani, segretaria cittadina del partito. Sempre ieri Manciulli ha parlato al telefono con Renzi.
Ora i tre segretari nei prossimi giorni dovrebbero vedere il sindaco. Ma le parole di Fantoni hanno fatto un certo rumore dentro il Pd. «Firenze non è strumento per ambizioni personali», aveva detto l’ex assessore rivolto al sindaco. Gira e rigira la questione ruota sempre attorno all’incrocio della politica nazionale con quella fiorentina. Ruota sempre attorno agli affondi che il sindaco rottamatore lancia continuamente al suo partito e al segretario Bersani e le tensioni che questi creano fra gli stessi suoi “compagni” anche a Firenze dove nel gruppo del Pd in Comune ormai ci sono i renziani e gli anti renziani. Gli scontri senza fine con il leader del Pd Bersani, l’ultimo sulla data della riunione dei segretari di circolo, voluta dal segretario nazionale, che va a sovrapporsi con l’iniziativa dei sindaci democratici, organizzata da Renzi. Il gatto e il topo, che si rincorrono. Sono tensioni che iniziano a pesare dentro il partito con il sindaco rottamatore sempre con l’acceleratore pigiato. «I quarantenni del Pd ci sono e hanno i numeri per cambiare l’Italia aveva twittato Renzi nei giorni scorsi Dobbiamo solo decidere se giochiamo o restiamo in panchina a lamentarci».
TROTTOLA IMPAZZITA
Il dibattito continuo, le voci, che vorrebbero Renzi con la testa già a Roma, sono tutti elementi che fanno sembrare la politica a Firenze una trottola impazzita. «Io voglio fare il sindaco di Firenze», ha detto ieri parlando all’assemblea di Confindustria al Palacongressi. «Io mi agito perché vedo il mio partito che è ancora attrezzato come una cosa novecentesca. Vorrei che il mio partito ha proseguito avesse intelligenza, forza e onestà intellettuale di non continuare a cambiare il nome senza cambiare i leader. È maturo il tempo in cui si possa fare una proposta al Paese per i prossimi dieci anni: se saremo in grado di farlo allora saremo credibili e faremo un servizio al Pd e al Paese». «Non c’è bisogno dell’en-
nesimo politico che esce dal suo partito e si fa la sua listina. C’è bisogno di due schieramenti, centrodestra e centrosinistra, che non si odiano, non si insultano, non si detestano, ma che si confrontano. In questo quadro, io sto nel mio partito, combatto una battaglia, magari la perdo, ma la faccio».
«Sto nel mio partito dice Renzi e lì combatterò la mia battaglia. Se perderemo la battaglia delle primarie pazienza, ma ci proveremo». Intanto il sindaco di Firenze incassa l’appoggio del neo presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: «Se io fossi a Firenze voterei per lei. È grandissimo è veramente una persona che ha delle idee e molte di queste corrispondono esattamente alle mie». Chissà cosa penserà la segretaria della Cgil Susanna Camusso con la quale Renzi ha polemizzato più di una volta.

il Fatto 5.6.12
Toto nomine
Agcom e Privacy, i partiti pronti a prendersi tutte le poltrone
L’accordo Pd-Pdl-Udc-Lega: agli esterni niente
di Carlo Tecce


Quant’è ottimista la legge che istituisce l’Autorità di controllo: “Indipendenza e autonomia sono gli elementi costitutivi che ne caratterizzano l’attività e le deliberazioni”. Vi risparmiamo articoli e commi che celebrano la notoria imparzialità, la prestigiosa professionalità e via menando uno spirito mai incarnato. Perché le poltrone non sono spirituali. Quelle vengono fabbricate con oscuri accordi, alleanze improvvise e pessimi calcoli. Anche per domani in Parlamento, nonostante le campagne per la trasparenza e il merito, il vizio si ripete per le nomine dei commissari di Agcom (4, telecomunicazioni) e Privacy (4, dati personali). Un patto, due protagonisti: Denis Verdini, l’emissario del Cavaliere e Dario Franceschini, capogruppo Pd a Montecitorio. L’Agcom offre quattro posti per sette anni e una caterva di questioni aperte: antenne, televisioni, connessioni veloci. I berlusconiani, senza proteste, vogliono piazzare due commissari durante i due voti separati fra Camera e Senato: i deputati confermano Antonio Martusciello, il fondatore di Forza Italia ed ex sottosegretario di B. che subentrò a Giancarlo Innocenzi (tramava contro Annozero); i senatori promuovono Antonio Preto, ex collaboratore di Tajani e Brunetta. E i democratici di Pier Luigi Bersani, anziché combattere l’arroganza del Pdl, un partito depresso che arraffa il massimo, insistono con la guerriglia interna. Il compromesso di Franceschini prevede un accordo con l’Udc per riciclare Rodolfo De Laurentiis all’Agcom, il consigliere d’amministrazione Rai – uomo di Casini in Abruzzo – che sta per terminare il suo mandato in viale Mazzini, un percorso saltellante fra il centrodestra e il centrosinistra. Nessuno oserà, sino a prova contraria, negare la bandierina di Massimo D’Alema: insiste con Maurizio Decina per l’Agcom, il docente al Politecnico di Milano, ex consulente di Telecom (e componente del Cda). La corrente di Franceschini, un misto di cattolici e popolari, è disposta a cedere ben volentieri la seconda poltrona Agcom agli amici Udc purché Antonello Soro, il capogruppo a Montecitorio con il successore di Walter Veltroni segretario Pd, sia nominato presidente Privacy. E qui le strategie s’incrociano, e fanno litigare il Partito Democratico. Oggi si riuniscono i parlamentari democratici, qualcuno vuole una discussione per scegliere il candidato fra i novanta curricula spediti ai presidenti di Camera e Senato; qualcuno propone primarie estemporanee. Non c’è forma di democrazia che tenga: se il Pd preferisce due commissari Agcom c’è spazio per un nome non politico, sempre che sia escluso il professor Antonio Sassano. Ieri il giornalista Giovanni Valentini, per esempio, ha ricevuto il sostegno di svariate associazioni di consumatori e di un gruppo trasversale di deputati.
Fra questa ridda di papabili e di inciuci è facile perdere l’orientamento. Eppure sornione sornione, il partito indicato per morto, fa il pieno di potere: il Pdl incassa senza contestazioni due commissari Agcom, discute con Mario Monti il presidente di matrice governativa, in corsa c’è il bocconiano Angelo Marcello Cardani e risolve un problemino. Il magistrato Augusta Iannini, capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, e moglie di Bruno Vespa, chiede di lasciare l’incarico che ottenne undici anni fa con Roberto Castelli. La Iannini è in forte polemica con il ministro Paola Severi-no, l’avvocato romano che conosce da un ventennio, ma non l’ha premiata con la direzione generale del dicastero. Il momento è perfetto. I berlusconiani le offrono sette anni (e 250 mila euro l'anno) all’Autorità per la Privacy. Non vi preoccupate, le spartizioni non si dimenticano dei leghisti.
Il Carroccio doveva prendersi uno dei quattro pezzi di Agcom, ma le inchieste giudiziarie consigliano di accontentarsi di una poltroncina Privacy, rifugio ideale per Giovanna Bianchi Cleri-ci (Cda Rai).
Sbagliava di grosso chi sperava di aiutare l’Italia a risolvere i conflitti di interesse e i monopoli indistruttibili inviando un curriculum. I partiti rinascono ai tavoli del potere.

Corriere 5.6.12
Agcom, Cardani arbitro Lite nel Pd sui candidati
di Massimo Sideri


MILANO — Agcom, giochi ormai fatti in vista delle nomine di domani. Anzi, no. Quello che ieri, alle 10 e 30 del mattino, sembrava ormai un dossier faticosamente chiuso potrebbe essere rimesso in parte in discussione alle 10 e 30 di questa mattina.
La soluzione trovata, peraltro, sembrava un vecchio capitolo del manuale Cencelli: poltrona da presidente al montiano di ferro Angelo Cardani, con al fianco due componenti di nomina Pd e due di nomina Pdl. Rispettivamente Maurizio Decina, Antonio Sassano, il capo gabinetto di Antonio Tajani alla commissione europea, Antonio Preto, e Antonio Martusciello (l'unico nome che non è mai cambiato e sul quale c'è stata assoluta certezza fin dalle prime battute sul rinnovo dell'autorità). A guardarla bene un'opera d'arte «politica» del premier Mario Monti, che per essere un tecnico in questo caso si è mostrato abile nel fare l'ago della bilancia su un'authority che in molti accomunano alle telecomunicazioni ma che, in realtà, si troverà a decidere sullo spinosissimo dossier delle frequenze televisive che dopo l'annullamento del beauty contest berlusconiano non verranno più regalate ma vendute a Mediaset e Rai. Monti ha ottenuto il risultato venendo meno alla regola aurea che si era dato fin dal suo arrivo al governo: nessun «bocconiano» in posti chiave per non dare adito a dubbi e sospetti. Ma il ghiaccio era già stato rotto con Francesco Giavazzi coinvolto nella spending review. L'equilibrio politico dello schema 2-2 nelle quattro nomine dei partiti, peraltro, rispecchiava anche la crisi della Lega che ha ceduto così la sua nomina al compagno di tante battaglie di governo e l'indebolimento dell'Udc alle recenti amministrative.
E allora? Allora il Pd non sembra volere perdere il vizio di spaccarsi e discutere fuori tempo massimo. Sulla riunione del gruppo dirigente del Partito democratico convocata questa mattina appunto alle 10 e 30 già aleggia lo spettro della votazione. Si laveranno i panni sporchi in casa, ma il risultato potrebbe anche essere il ritorno a uno schema 2-1-1.
Tra Decina e Sassano, nome forte con la ex Margherita alle spalle, uno dei due si dovrebbe fare da parte per dare spazio ad altri nomi le cui quotazioni non sembrano molto alte ma che in queste ore stanno vorticosamente girando nelle varie correnti democratiche. Tra questi ci sarebbe Roberto Zaccaria, appoggiato da Rosy Bindi, ma con il passato da presidente Rai che questa volta potrebbe giocargli contro. Mentre Anna Finocchiaro starebbe puntando su una quota «rosa» con Giovanna De Minico, docente all'università di Napoli. Il vero rischio è che, non trovando l'accordo, si opti piuttosto per rilasciare la poltrona all'Udc. E in questo scenario potrebbe anche esserci il colpo di scena con il rientro in gioco di Stefano Quintarelli, l'imprenditore che si è licenziato da poche settimane dal gruppo «Sole24Ore» dopo aver incassato il sostegno della rete con una raccolta di firme su Twitter al grido #Quinta4president. Le due poltrone del Pdl, invece, sarebbero già state messe in cassaforte. Troppo importante la vicenda per il partito di Silvio Berlusconi, visto che ci sono decisioni strategiche in ballo per il futuro di Mediaset. In cambio l'appoggio al presidente è assicurato.
Ps. Vale solo la pena di notare en passant che alla fine l'operazione trasparenza — con l'invio dei curricula che si è chiuso ieri sera — non ha portato molti risultati se non una pioggia di nomi, circa 90, di cui la maggior parte senza l'ombra di competenze vere.

l’Unità 5.6.12
Viaggio nel Cie di Milo Un incubo senza fine
di Flore Murard Yovanovitch


COME SI PUÒ PASSARE DAL CARCERE AL CIE E POI DAL CIE AL CARCERE, PER ANNI, SENZA VIA DI USCITA? ESSERE STRANIERO in posizione irregolare in Italia.
Trapani Cie di Milo. Una scatola di sbarre alte e gialle, quasi tecnologiche, estranea all’ambiente, su una strada periferica vicino Trapani; un illegale carcere per migranti, che i cittadini fanno finta di non vedere: di non sapere. Il 30 maggio scorso una delegazione di giornalisti guidata dal presidente della Fnsi, Roberto Natale, ha invece potuto varcare il cancello, anche se l’accesso è stato garantito a un unico «settore» della struttura, che può detenere fino a circa 204 uomini (ma con massimi di 270).
La maggioranza dei detenuti è di nazionalità magrebina: solo pochi gli sbarcati, mentre la grande maggioranza, circa il 90%, sono ex-carcerati, con il particolare di aver già scontato la loro pena in carcere; ma a fine pena, invece di tornare in libertà o di venire rimpatriati, sono trattenuti di nuovo, fino a 18 mesi, nel Cie. Si chiama «detenzione amministrativa»: ma significa privazione della libertà personale senza accusa né processo; per un unico reato, quello di avere il permesso di soggiorno scaduto. Peggio del carcere, senza le garanzie assicurate dal sistema penale. «È peggio di stare in galera dice un altro ospite Lì, almeno, sei chiamato per nome e sai quando devi uscire»: zero privacy né assistenza legale, niente libri né matite, persone isolate dal mondo esterno, cui il diritto alle cure e alla socialità viene negato: uomini ridotti a numeri e deportati da un Cie all’altro, per mezza Italia. Mera prassi discrezionale del potere. Anche se alcuni immigrati vivono in Italia e hanno pagato le tasse per anni, sono sposati o convivono e hanno figli italiani; come Jamel, allenatore di cavalli, che in perfetto dialetto siculo racconta di vivere nella penisola da più di 33 anni e di avere una figlia nata e sposata con un italiano, mentre lui era chiuso lì; o Mohamed che dichiara che «qua non esiste mai la fine della pena, solo angoscia» e preferirebbe persino essere rimpatriato.
A Milo, però, per causa di precedenti penali (soprattutto per spaccio e traffico di stupefacenti), nessuno li vuole e il consolato del proprio Paese di origine non agevola il rimpatrio (che avviene soltanto per meno della metà dei detenuti). Qua in terra trapanese «finiscono i casi più complicati, i casi limite», riconosce Tommaso Mondello, responsabile Immigrazione della Prefettura. Indesiderati tra due Stati: relitti del sistema.
A comprovare la totale inutilità del trattenimento nei Cie, allo scadere dei 18 mesi, a volte anche prima, il detenuto viene semplicemente «rimesso in libertà» con convalida del Giudice di pace, con l’ordine di lasciare il territorio nazionale. Ovviamente, in assenza di documenti e con l’assurda normativa del «reato di clandestinità», finiscono di nuovo in prigione. «Nel corso degli anni vediamo tornare le stesse persone», osserva Edoardo Menghi, responsabile Immigrazione della Questura. Un folle, costoso e disumano circuito chiuso, senza alcuna utilità nel contrasto all’immigrazione irregolare.
Perfino le forze dell’ordine impiegate nel Cie di Milo sono a disagio; nel suo ennesimo comunicato, la segreteria nazionale del Siulp chiede d’urgenza di «incrementare il personale da impiegare, perché fare meramente “sopravvivere” una struttura indispensabile alle procedure finalizzate alla identificazione e alla espulsione degli extracomunitari significa soltanto uno spreco di energie, di uomini e di mezzi, senza pensare al mancato soddisfacimento della primaria esigenza di sicurezza».
Intanto, a marcire dietro muri, recinzioni, cordoni, ci sono persone internate sulla base di ciò che sono: «stranieri», «migranti», «non bianchi». Le sbarre di sei metri, da carcere di massima sicurezza peggio di quelle per la mafia, la sorveglianza 24 ore su 24 dalle forze dell’ordine, dicono l’evidenza: è mera reclusione sociale di soggetti presunti «pericolosi», da tenere chiusi come bestie, criminalizzare, piegare a quello che si vuole fare di loro. Un nulla. Salta la nuda verità alla coscienza: il Cie è la mera spazializzazione di un’ideologia razzista, perché solo un pensiero che nega l’umanità a questi uomini, li rende oggetti, può spiegare una tale volontaria privazione della loro libertà, una tale distruzione arbitraria della loro mente, vita e sogni.
Nessuno si degna di comunicare le «ragioni», ove ce ne fossero, ma almeno la durata della detenzione. E quel limbo senza senso, che toglie la dignità, produce solo autolesionismo («mensilmente almeno 15 casi», spiega Giovanna Ottoveggio, medico della struttura), somministrazione di psicofarmaci, violenze, fughe (come i 130 scappati nei giorni scorsi). Come racconta un detenuto con le braccia e i polsi pieni di cicatrici e vistosi lividi: «la fuga è la nostra unica salvezza, per non impazzire».

Repubblica 5.6.12
Diritto di cittadinanza per chi nasce in Italia
di Carlo Feltrinelli

qui

l’Unità 5.6.12
Idea sbagliata quella della sola meritocrazia
di Luigi Cancrini


Stranissimo che sfugge a chi come il ministro Profumo è stato docente universitario (e rettore del Politecnico di Torino) ciò che è evidente a coloro che insegnano con un minimo di passione: è il livello medio degli allievi che si è pericolosamente abbassato negli ultimi decenni, non i picchi, costituiti da quel 2% o 3% di studenti (liceali od universitari) che sono in grado di capire ed apprendere a prescindere, in gran misura, dalla qualità dell'insegnamento. È sul restante 97% che occorre lavorare!
L’idea che quella di cui c’è bisogno nella scuola e nelle università italiane sia una svolta meritocratica è un’idea sbagliata. L’impronta solidaristica dell’educazione materna ed elementare è uno dei vanti di questo Paese, più volte celebrata dagli studiosi di tutto il mondo e dei documenti ufficiali dell’Ocse fin dal tempo dell’inserimento nelle classi normali dei diversamente abili. La tendenza (o la deriva) involontariamente meritocratica che inizia nelle medie e si inasprisce nelle superiori è evidente dai dati sulla dispersione scolastica e sulla mortalità, ancora oggi altissima, della popolazione universitaria. Lo spazio per emergere i più dotati e i più meritevoli lo hanno già, caro ministro Profumo, ad aver bisogno di interventi forti del governo sono soprattutto i ragazzi che hanno la sfortuna di non nascere bene e di non ricevere in casa l’aiuto che la scuola non dà loro il vero problema della scuola italiana. Di cui sarebbe giusto e prioritario che ci si occupasse, migliorando la qualità e il livello medio dell’insegnamento da un posto di responsabilità come il suo.

Corriere 5.6.12
La Fiat e il verdetto della Consulta
di Enrico Marro


Sarà la Corte Costituzionale a pronunciarsi sulla controversia che oppone la Fiom Cgil alla Fiat in materia di rappresentanza sindacale. Ed è un bene che sia così. Finora, infatti, nelle numerose cause decise i giudici si sono divisi. Alcuni hanno dato ragione alla Fiat, dicendo che è legittimo escludere la Fiom dalle Rappresentanze sindacali aziendali, perché essa non ha firmato il contratto, e l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal referendum del 1995, dice appunto che solo i sindacati firmatari di contratto possono costituire le Rsa. Altri giudici invece hanno sentenziato a favore della Fiom, con argomenti diversi. Per esempio, spiegando che prevedere che la firma sia la condizione per ottenere l'agibilità sindacale, comprime la libertà del sindacato che, per partecipare alle Rsa, sarebbe costretto a firmare anche un contratto che non condivide. Adesso il giudice di Modena ha passato la palla alla Consulta perché «è rilevante e non manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'articolo 19». Speriamo i giudici decidano presto. In un senso o nell'altro.

Corriere 5.6.12
Il cardinale negli Usa dopo il rapimento
Law trasferito da Roma a Boston. La sigla «Phoenix» che sfidò i sequestratori
di Fabrizio Peronaci


ROMA — C'è stato anche questo e nessuno ha mai neanche provato a spiegarlo, nell'intrigo che ha coinvolto le segrete stanze vaticane, cancellerie di mezzo mondo e servizi di intelligence dell'Est e dell'Ovest attorno alla scomparsa di una ragazzina divenuta sua malgrado il simbolo delle macchinazioni più feroci: un momento in cui sembrava fatta, era fatta. La trattativa per il rilascio della figlia del «postino» papale non era incerta o in corso: era conclusa. Siamo a fine settembre 1983. Lo Stato, nella persona di un agente del Sisde, bussò a casa Orlandi: «Emanuela tornerà tra 10-15 giorni, ma mi raccomando, portatela fuori, lontana dai giornalisti, è molto provata...». Papà Ercole, mamma Maria, il fratello Pietro e le altre tre sorelle si abbracciarono. Erano passati tre mesi. Novanta giorni da incubo: ogni ora un messaggio, una rivendicazione, un depistaggio, un pugno alla bocca dello stomaco quando al telefono si faceva vivo l'«Amerikano»....
È quella promessa caduta nel vuoto, quell'annuncio fallace che gettò nella costernazione gli Orlandi la lente da usare, oggi, per mettere a fuoco gli ultimi inquietanti sviluppi sulla pista che lega il sequestro di Emanuela, ma anche della coetanea Mirella Gregori, ai preti pedofili di Boston. Perché il giovane 007 Giulio Gangi, che in seguito si rimangiò le parole dette, comunicò l'imminente lieto fine? Già, da chi l'aveva saputo? La «ragazza con la fascetta» a settembre — dunque — era indubitabilmente viva, il che autorizza a spazzar via ogni ricostruzione che la vuole morta prima?
Una spiegazione mai data dagli inquirenti — non nella fase iniziale delle indagini né tantomeno negli ultimi 5-6 anni, avviluppati attorno alla pista della banda della Magliana — sta nelle carte, ma non solo. La si trova con ragionevole certezza nelle lettere, ritenute «le uniche attendibili», che in quella fine d'estate arrivarono da Boston al corrispondente romano della Cbs, Richard Roth, con il timbro di Kenmore Station. E la si intravede nello scenario terribile, seppure ancora sgranato, che ci consegna quel «Box 331» del network pedofilo di Boston, ubicato anch'esso in testa ai binari di Kenmore.
La congiunzione — il fermo posta chiamato Fag Rag, che sta per «Giornalaccio omosessuale» — era a disposizione di chi avesse voluta vederla già dal 2002, quando lo scandalo-pedofilia più grave della storia della Chiesa portò alle dimissioni dell'arcivescovo Bernard Francis Law, accusato di aver coperto le pratiche dei «suoi» sacerdoti. Di Kenmore Station si parlò davanti alla Corte di Suffolk, come rivelato ieri dal Corriere, durante la deposizione dell'imbarazzato prelato.
Però attenzione alle date, adesso. Da quando Sua Eminenza Reverendissima B.F. Law presiedeva alla cura delle anime negli States? Esattamente dall'11 gennaio 1984, giorno in cui fu nominato arcivescovo di Boston. Una coincidenza che si aggiunge a un'altra: il fatto che le prime denunce sulla East Coast, poi deflagrate nelle 456 cause delle giovani vittime di abusi sessuali contate nel 2002, risalivano all'anno del suo arrivo.
I mesi precedenti Bernard Law, a Roma, tesseva i fili della potente Chiesa d'America facendo base a Santa Susanna, sede dell'American Church, zona stazione Termini. Un trasferimento inaspettato, il suo: il rettore Humberto Sousa Medeiros morì il 17 settembre 1983 e chi poteva aspettarsi un avanzamento di carriera in loco lo vide volare oltreoceano, salvo nel 1985 accumulare la carica e diventare, lo stesso Law, anche il cardinale titolare di Santa Susanna.
È in questo contesto che torna in scena l'agente Gangi. Come si spiega il suo ottimismo? Qualcuno, almeno ai familiari di Emanuela, dovrà pur spiegarlo. L'esame incrociato delle rivendicazioni telefoniche e per lettera dell'«Amerikano» e dei messaggi di una sigla fino ad allora sconosciuta, tuttavia, fornisce già di per sé l'evidenza della segretissima trattativa.
Ecco le date. 4 settembre da Roma e 27 da Boston: due missive (stessa grafia) insistono nella richiesta di scambio Orlandi-Agca, l'attentatore di Wojtyla. 24 settembre: si appalesa «Phoenix», misterioso gruppo che nei comunicati usa toni sanguinolenti, minaccia «sentenze immediate», chiede «rispetto», invita «gli elementi» (esecutori del sequestro) a contattare «il conduttore» (mandante). E usa strane sigle, come «order NY», o «A.D.C». La stampa italiana abbocca: è la mafia americana, quella del boss Aniello Della Croce, coinvolta anch'essa nell'affaire Orlandi, si buttano i cronisti. No, spiega Pietro Orlandi, il fratello: «Phoenix altro non era che il Sisde, me lo confidò lo stesso Gangi a casa mia davanti a un caffè...».
Sì, così è chiaro. Quei messaggi rappresentarono un'operazione di intelligence (un po' goffa e di dubbio gusto) per tentare di stanare i sequestratori, utilizzando i mass media. E dove venivano fatti trovare? Due nelle chiese di San Bellarmino e di San Silvestro, un altro sotto l'immagine di una Madonna vicino piazza di Spagna. Scelta casuale? Il senso, a una lettura attenta, non può che essere: sappiamo chi siete, vi bracchiamo. L'«Amerikano», d'altronde, nelle stesse ore veniva descritto dal prefetto Vincenzo Parisi, vicecapo del Sisde, come persona legata al «mondo ecclesiastico». Ma non basta: «Phoenix» (città dove era già scoppiato un caso di pedofilia nel clero, altra coincidenza?) l'8 ottobre 1983 testualmente dichiara: «È cosa nostra porre termine alla situazione Orlandi... Nell'eventualità di una mancata obbedienza estirperemo alla radice questa pseudo organizzazione causa di spiacevoli inconvenienti». Tradotto: rapitori di Boston, badate, vi abbiamo in pugno.
In coda, poi, una riga rivelatrice dell'ipotetico movente. Tre parole: «Traffico internazionale bambole». Non potevano saperlo, ovvio, quelli di «Phoenix», ciò che sarebbe accaduto a Boston 19 anni dopo... Ma forse, chi lo sa, era solo un modo di dire da sbirri, in una storia di poteri, complotti e dolore che sarebbe ora di scrivere una volta per tutte.

Corriere 5.6.12
Bertone: contro Benedetto XVI attacchi mirati e a volte feroci
Il segretario di Stato: serve unità. Oggi l'interrogatorio di Gabriele
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Non è un caso che il cardinale Tarcisio Bertone sia apparso ieri sera al Tg1 per far sapere che questi «sono giorni di forza nella fede» e «di ferma serenità anche nelle decisioni». La Santa Sede mostra di voler serrare le fila, il segretario di Stato scandisce: «Il Papa non si lascia certo intimorire dagli attacchi, di qualsiasi genere, né dalle dure incrostazioni dei pregiudizi. È il momento della coesione di tutti coloro che vogliono servire veramente la Chiesa».
Così la risposta agli «attacchi mirati, a volte anche feroci, dilanianti e organizzati» comincia oggi con l'interrogatorio di Paolo Gabriele, il maggiordomo dell'Appartamento pontificio che aveva in casa casse di documenti dello studio del Papa. Non pare che ci si attendano rivelazioni: con Gabriele hanno già parlato, il quadro è definito. L'interrogatorio formale e il verbale permetteranno piuttosto di procedere contro coloro che hanno trafficato con le carte, oltre le Mura: là punta l'indagine.
Filtra la convinzione che ci sia «una sola fonte». Resta da capire se Gabriele fosse guidato da qualcuno, all'interno. Però, dopo settimane di controlli, Oltretevere si dice che i documenti avessero un unico denominatore comune: l'Appartamento. Gabriele è stato incastrato da carte che potevano trovarsi solo nello studio del Papa. Ma anche le altre, si fa sapere, vi erano passate, per poi essere archiviate altrove. A febbraio un «corvo», alla trasmissione Gli intoccabili di Gianluigi Nuzzi, disse: «Siamo una ventina». Un'alta personalità Oltretevere scuote la testa, «un depistaggio», e ripete: «La fonte è una». Anche nelle parole di Bertone è chiara la volontà di smentire guerre in Curia, «non sono stati e non sono giorni di divisione, ma di unità», tanto che il cardinale dice che «non basta pubblicare alcuni documenti parziali per conoscere la piena verità sui fatti» e le «chiarificazioni sono frutto di un lungo lavoro di dialogo e conversione del cuore» al di là delle «carte». La trasparenza «non è un atto di cinismo o di superficialità».
Il tutto arriva dopo l'ultima pubblicazione di una minacciosa lettera anonima — alla viglia dell'interrogatorio di Gabriele — contro Bertone e monsignor Georg Gänswein. Lettera che non appare coerente con i «corvi» che emergono dal libro Sua Santità di Nuzzi. La sua stessa artificiosità è così palese che si sospetta voluta, «per confondere le acque», da qualcuno di coloro che hanno ricevuto le carte. «Vatileaks» è un gioco di specchi. Ma resta la forza che Benedetto XVI ha mostrato domenica, nel pranzo con le famiglie: «Qualche volta si può pensare che la barca di Pietro sia realmente in mezzo a venti avversari difficili», ha detto, «tuttavia vediamo che il Signore è presente, vivo, e ha in mano il governo del mondo e il cuore degli uomini».

Corriere 5.6.12
Un patto segreto per il maggiordomo di Benedetto XVI
Il maggiordomo e i mesi da agente «doppio» I dubbi sulla scelta (inspiegabile) di tenere in casa le carte sui destinatari anche dopo essere stato sospettato
di Fiorenza Sarzanini


Potrebbe esserci un patto segreto dietro la scelta del maggiordomo Paolo Gabriele di tenere nel suo appartamento copia dei documenti segreti trafugati dall'appartamento di Benedetto XVI.
Collaborazione. L'ipotesi è che, dopo essere stato scoperto, Paolo Gabriele abbia accettato di collaborare per far scoprire mandanti e beneficiari dei suoi furti.
Rogatoria. Le autorità avrebbero così acquisito prove da usare nella rogatoria per l'Italia con la quale si chiede di contestare ai complici di Gabriele reati come la violazione della corrispondenza papale.
Bertone. Il segretario di Stato, Bertone: il Papa «non si lascia intimorire anche se gli attacchi sono mirati, feroci, dilanianti e organizzati».

ROMA — C'è un continuo gioco di rimandi nell'inchiesta sul maggiordomo del Papa Paolo Gabriele. E sul ruolo che avrebbe rivestito negli ultimi mesi, quando era stato ormai accertato come numerosi documenti riservati fossero usciti dalle stanze del Vaticano. Dopo giorni di controlli e verifiche compiuti nel massimo riserbo ma tesi a individuare i suoi eventuali complici e soprattutto i suoi «terminali», continua a rimanere senza risposta un interrogativo diventato il cardine dell'indagine sui «corvi» della Santa Sede. E riguarda proprio l'atteggiamento tenuto da quell'uomo che per anni ha vissuto all'ombra del Pontefice. Perché, nonostante fosse ormai noto che la Gendarmeria era sulle tracce di chi aveva trafugato gli atti, il maggiordomo custodiva nel suo appartamento privato copie di incartamenti pronti a essere consegnati?
Sono diverse le ipotesi formulate per cercare di spiegare questa scelta apparentemente suicida, ma una sembra prevalere sulle altre e tiene conto dell'esito del processo canonico al quale Gabriele sarà sottoposto. La procedura potrebbe concludersi con la sua richiesta di perdono al Pontefice. Istanza che sarebbe accolta in virtù di un patto segreto che lo stesso Gabriele avrebbe siglato tempo fa, accettando di collaborare e di indirizzare l'inchiesta verso mandanti e beneficiari. Un accordo che non lascia prove e non contempla testimoni, però consente alle autorità vaticane di arrivare ai complici italiani scongiurando il rischio che possano restare impuniti. Per ricostruire quanto può essere accaduto bisogna dunque tornare a sei mesi fa, quando viene accreditato il sospetto che il maggiordomo sia la fonte di alcune notizie pubblicate sui giornali. Le voci vengono respinte, negate con decisione. Ma qualche settimana dopo, durante la trasmissione «Gli Intoccabili» di Gianluigi Nuzzi su La7 vengono mostrate alcune lettere private di Benedetto XVI. E quelle accuse inizialmente bollate come calunnie sembrano prendere nuova sostanza.
L'indagine viene affidata al comandante della Gendarmeria Domenico Giani e prende svariate direzioni visto che le missive sono state trattate da diversi uffici. Vengono effettuati pedinamenti, intercettazioni, si incrociano i dati telematici. Ma nell'entourage più vicino al Santo Padre il nome del «corvo» sembra essere già noto. Dopo l'uscita dei primi documenti si era infatti deciso di gettare un'esca, convinti che avrebbe potuto fornire la prova regina. E in alcuni plichi era stata inserita la copia di un documento trattato soltanto all'interno dell'appartamento papale. Un atto che non aveva bisogno di essere «vistato» da altri uffici o comunque inviato alla Segreteria di Stato. Dunque accessibile soltanto per chi si muove con disinvoltura tra quelle stanze. Quando si è scoperto che era stato portato all'esterno, si è avuta la certezza che il traditore era Paolo Gabriele.
La violazione della corrispondenza del Papa è un reato gravissimo. Il maggiordomo ha la doppia cittadinanza, se le autorità vaticane decidessero di chiedere collaborazione alla giustizia italiana rischierebbe una condanna alta e soprattutto la carcerazione. Ecco allora profilarsi l'ipotesi di un accordo che però deve rimanere segreto per avere valore, nascosto anche a chi sta conducendo le indagini. Gabriele si trasforma in una sorta di agente «doppio» che continua a trattare con mandanti ed emissari, ma ha come vero obiettivo di portarli allo scoperto e farli individuare. Alcuni sono italiani, senza elementi concreti nei loro confronti sarà impossibile far partire una rogatoria e chiedere che siano perseguiti per reati che vanno dal furto alla ricettazione, fino al concorso nella violazione delle prerogative di Benedetto XVI nella sua qualità di capo di Stato.
Il maggiordomo comincia a muoversi con maggiore disinvoltura, concorda appuntamenti facilmente rintracciabili tanto che almeno uno di questi incontri sarebbe stato documentato. Continua a maneggiare lettere e documenti. L'ultimo atto si consuma il 23 maggio scorso quando gli uomini guidati da Giani entrano nel suo appartamento e lo arrestano. «Custodiva casse di documenti», fanno sapere dalla Santa Sede. Qualche giorno dopo si scopre che nella sua casa all'interno delle mura leonine Gabriele aveva svariati incartamenti già pronti per la consegna e un elenco di destinatari. Nomi che dovrebbe confermare durante l'interrogatorio formale che sarà poi inserito integralmente nella rogatoria per l'Italia. Il passo ritenuto necessario per tentare di frenare il volo di altri «corvi».

Corriere 5.6.12
«Il Pontefice sarà sempre un bersaglio»
di Agostino Marchetto


Caro direttore,
nella lettura quotidiana del «Corriere della Sera» mi sorprende oggi, come storico, nunzio apostolico e direi anche come segretario emerito del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, il rimedio urgente che Alberto Melloni propone come risposta a quanto definisce un «pandemonio» nella Curia romana. La sorpresa viene dal fatto che Melloni ritorna a proporre i suoi convincimenti in relazione al concilio ecumenico Vaticano II, con l'aggiunta di questo giudizio liquidatorio che storicamente non regge: «Da oltre un secolo la Segreteria di Stato non funziona e il sogno montiniano di dare al Papa un primo ministro è fallito». La riforma fondamentale della Curia romana nel secolo scorso è stata certo opera di Paolo VI, nella quale confluì la sua grandissima esperienza e visione delle cose, come esponente, a vari livelli, della Curia stessa, ma Melloni dimentica di aggiungere che era prevista una dialettica interna alla Segreteria di Stato grazie ai giudizi offerti dalle due sue sezioni (comunque si chiamassero) al Papa, che poi decideva. Che detti giudizi non sempre collimassero, basta pensare, per esempio, due personaggi straordinari quali furono i monsignori Benelli e Casaroli. Che poi ci fosse bisogno, in Curia, di un dicastero di coordinamento generale e di manifestazione ultima della volontà pontificia non c'è dubbio, pur nel rispetto delle competenze di ciascun organismo curiale. Questo non significa che tutto ivi sia perfetto e che non vi possano essere meditate riforme, considerando peraltro che anche gli uomini di Chiesa sono comunque uomini e che, andando nella linea del pensiero di Benedetto XVI, a poco giovano le riforme strutturali se non vi è una riforma degli spiriti. Per Melloni la seconda riforma riguarda la diplomazia pontificia. Peraltro la sua proposta di supernunziature continentali ha un sapore collegiale particolare, nella linea di pensiero della cosiddetta scuola di Bologna. In effetti l'auspicio, in fondo, è di creare conferenze episcopali a livello continentale, che tali oggi non sono. Naturalmente ciò non significa che non vi siano oggi organismi ecclesiali episcopali a livello continentale che possono essere utili, ma che non dovrebbero diventare, come qualcuno dice, dei nuovi patriarcati, con le complicazioni che ciò comporterebbe per il primato pontificio. «La terza riforma è una parola dimenticata del Vaticano II: collegialità» scrive ancora Melloni. Non direi proprio che sia dimenticata ma bisogna specificare di che si tratta. Il concilio ha distinto collegialità in senso stretto e in senso largo, ossia effettiva e affettiva, e non bisogna giocare sull'equivoco, come molti fanno. I Padri conciliari non si sono pronunciati a favore di un collegio (sinodo) permanente di vescovi «vicini» al Papa. Senza entrare in altre precisazioni, mi limiterò a dire che il Papa sarà sempre «un bersaglio», poiché nella Chiesa cattolica vi è anche, e vi sarà sempre, un esercizio personale dell'autorità suprema e ciò pone il «povero cristiano» (Ignazio Silone) che la esercita alla mercé di chi lo voglia colpire.
Agostino Marchetto

Corriere 5.6.12
Famiglia, i progetti del Vaticano


MILANO — Una manifestazione, il VII Incontro mondiale delle Famiglie appena terminato con la visita a Milano di Benedetto XVI, che si chiude con un progetto. Ieri è stato istituito il Centro internazionale per la famiglia a Nazareth, promosso dal Pontificio consiglio per la Famiglia e affidato al Rinnovamento nello Spirito Santo. L'iniziativa è stata presentata durante la conferenza stampa della manifestazione, in cui sono intervenuti l'arcivescovo di Milano Angelo Scola, il presidente del Pontificio consiglio per la Famiglia, il cardinale Ennio Antonelli, e Salvatore Martinez, Presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo. «Abbiamo visto e sentito l'attualità e l'attuabilità della famiglia. La famiglia è ancora la migliore risorsa a disposizione per il progresso delle nostre democrazie, delle nostre comunità — ha detto Martinez —, se sarà messa nelle condizioni di esprimere tutta la soggettività ecclesiale e sociale di cui è capace».

il Fatto 5.6.12
Padre Georg, l’unica chiave che porta al papa
È il nuovo obiettivo dei dissidenti per indebolire il pontificato
di Marco Politi


I dissidenti vaticani alzano il tiro e puntano al segretario papale, don Georg Gaenswein. È bastato che Benedetto XVI mercoledì scorso riconfermasse pubblicamente la fiducia ai suoi “più stretti collaboratori” ed ecco che la rete clandestina, che combatte il cardinale Bertone, attacca l’uomo più di tutti vicino al pontefice e che ne costituisce la “voce” nei rapporti con le massime gerarchie della Curia.
PER IL LORO nuovo colpo i guerriglieri clandestini dei Vatileaks hanno scelto Repubblica, rivelando una lettera – diplomaticamente arrabbiata – del cardinale statunitense Burke al Segretario di Stato Bertone e inoltre ben due lettere firmate da don Georg. Con una raffinatezza: si vede la data, ma non il contenuto sbianchettato. Nel testo di accompagnamento l’anonimo dissidente esibisce la volontà di non “offendere il Santo Padre”. Però minaccia di rendere note vicende vaticane “incresciose e vergognose”, forse legate al caso Williamson, il vescovo anti-semita lefebvriano cui Benedetto XVI (non sapendolo) tolse la scomunica. L’anonimo aggiunge un insulto: “Cacciate i veri responsabili di questo scandalo: mons. Gaenswein e il card. Bertone”.
In Vaticano il nervosismo è altissimo. Lo testimonia la dichiarazione di Bertone al Tg1, che invoca unità spiegando che il Papa non si lascia intimorire di fronte ad “attacchi feroci e dilanianti”. L’aggressione a Gaenswein equivale a un attacco al pontefice. Tradizionalmente i segretari sono le eminenze grigie, che operano dietro il trono papale. Gaenswein, oggi cinquantaseienne, non è stato fino a pochi anni fa un segretario eminentemente politico come Capovilla, Macchi, Dziwisz, i potenti prelati che operavano da agenti onnipresenti di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Ma oggi, con il procedere dell’età di papa Ratzinger, il suo ruolo è divenuto essenziale. Una sua parola viene intesa come emanazione della volontà papale.
Bavarese come Ratzinger, nato in un villaggio della Foresta Nera, esperto di diritto canonico, diventato poi docente di tale materia all’ateneo romano dell’Opus Dei, decisamente ratzingeriano dal punto di vista dottrinale, don Giorgio – come ama farsi chiamare dai vecchi amici romani – era approdato alla Congregazione per la Dottrina della fede nel 1996, ma è diventato segretario papale per un colpo di fortuna. Il segretario precedente Joseph Clemens voleva far carriera in Vaticano e infatti interrompe la collaborazione con il cardinale Ratzinger nel 2003 e dopo un paio di mesi viene nominato – con l’aiuto dell’allora cardinale Segretario di Stato Sodano – segretario del pontificio Consiglio per i Laici. Una scommessa sbagliata sul destino. Don Georg, subentratogli in corsa, sarà due anni dopo il segretario di papa Benedetto XVI. Un segretario osannato dai media per il suo fascino e la sua prestanza.
UN SEGRETARIO sportivo che i primi tempi si fa vedere vedere all’interno del Palazzo apostolico, reduce da partite di tennis in t-shirt e calzoncini corti. Un segretario che ha incendiato le fantasie della stampa femminile: memorabile il suo incedere accanto a Carla Bruni all’Eliseo durante la visita di Benedetto XVI a Parigi nel 2008.
Benché impolitico e caratterialmente poco amante delle manovre curiali e dell’involuto linguaggio clericale, Gaenswein è stato costretto giocoforza ad assumere negli ultimi tre anni un ruolo più attivo di consigliere papale e di silenzioso organizzatore della sua agenda. Nelle sue mani stanno le chiavi che aprono e chiudono i contatti diretti con il pontefice: udienze, lettere, incontri, telefonate. Può frenare o incoraggiare il papa esitante. Suo è il compito di comunicare in Vaticano la “mente” del papa (dicono così, in tono solenne, i monsignori di Curia). Quanto più fragile, affaticato e concentrato sul libro su Gesù – il terzo – diviene papa Ratzinger tanto più delicato e importante si è fatto il ruolo di Gaenswein come anello di congiunzione con la Segreteria di Stato e la Curia. Al suo carteggio con Bertone – con divergenze e convergenze – allude in tono ricattatorio l’ultimo messaggio anonimo uscito dal Vaticano. Sembra, ad esempio, che Gaenswein avesse dubbi sulla rimozione di mons. Viganò, il prelato che aveva denunciato la corruzione in Vaticano. Sempre Gaenswein è il depositario delle reazioni di stupore e disorientamento di Benedetto XVI per la rimozione del presidente dello Ior, Gotti Tedeschi. È lui, infine, ad aver affrontato il maggiordomo Paolo Gabriele due giorni prima del suo arresto, mettendolo con le spalle al muro e chiedendogli di assumersi le sue responsabilità.
L’ATTACCO portato a Gaenswein rivela che la rete anti-Bertone ha scelto la strategia del caos. Sono pronte altre pubblicazioni micidiali. Minacciare rivelazioni sul segretario papale è un avviso sinistro rivolto a Ratzinger per fargli capire che l’opposizione sotterranea è intenzionata a fare terra bruciata finché non sarà cambiato il vertice della Curia. Vista la fedeltà a prova di bomba di don Georg e la sua serietà nel trasmettere i desiderata di Benedetto XVI, l’operazione mira a una destabilizzazione in grande stile della stessa leadership di papa Ratzinger. A mostrare lo stato di disgregazione della Curia contribuisce anche la lettera del cardinale Burke a Bertone. Burke è un cardinale onestamente conservatore, ha marciato recentemente contro la legge sull’aborto per le strade di Roma, è ultra-ratzingeriano. Eppure denuncia che siano state sancite dal pontefice le pratiche liturgiche dei neo-catecumenali, millantando un’approvazione della Congregazione per il Culto che non c’è mai stata.

il Fatto 5.6.12
Pagata con i soldi dell’Idi
Don Decaminada, indagine sulla tenuta in Toscana
di Valeria Pacelli


Un piccolo peccato veniale, una villa di 23mila metri quadri tra prato e terreno che padre Franco Decaminada avrebbe pagato con i soldi dell’Idi, l’istituto dermopatico dell’Immacolata, finito al centro di un’inchiesta giudiziaria per presunte irregolarità relative alla gestione finanziaria della struttura sull’orlo del crack. Per questo il frate, guida spirituale della Congregazione dei figli dell’Immacolata, è stato indagato dalla procura di Roma con l’accusa di appropriazione indebita aggravata.
L’INDAGINE nasce dopo un esposto anonimo che raccontava della cattiva gestione di questa Idi che, nonostante sia registrata come no-profit, sembra una vera e propria holding, con i suoi affari milionari e gli investimenti ramificati. Il contenuto della denuncia (tutto da verificare) chiamerebbe in causa oltre a Franco Decaminada, consigliere delegato fino a gennaio di quest’anno, consulenti e direttori generali degli ultimi dieci anni.
Un lasso di tempo in cui l’Idi avrebbe accumulato troppi debiti: ci sono infatti circa 40 milioni di euro da versare ancora all’Inps, oltre 100 milioni che spettano ad Unicredit, e altri 200milioni da dare ai fornitori. Soldi che, sommati ad altri, porterebbero a un’esposizione di circa 600 milioni di euro. Intanto a pagarne le conseguenze i 1500 lavoratori a cui devono esser pagati da mesi arretrati dello stipendio. Per questo gli inquirenti ora vogliono capire bene come può rischiare il default un istituto che fattura circa 80 mila euro al giorno, che tuttavia non ha vincoli di presentazione del bilancio, ma che riceve anche dei finanziamenti pubblici. Circa 800 mila euro però sarebbero stati prelevati tre anni fa dalle casse dell’Istituto e utilizzati per pagare la prima tranche di una villa di Decaminada a Magliano, in Toscana. A rivelare l’investimento, lo scorso novembre è stato l’Espresso, tanto che i sindacati paramedici durante una riunione, ne avevano chiesto spiegazioni all’ex direttore generale Temperini.
LA RISPOSTA data in tempi non sospetti dallo stesso Temperini fu: “In merito alla villa in Toscana di Padre Decaminada, trattasi di bene personale dello stesso. Si precisa che padre Decaminada ha ereditato un’azienda tessile e la citata villa è stata acquistata con fondi di natura personale. Il tutto è stato autorizzato dagli organi canonici preposti. Padre Decaminada ha stilato da tempo personale testamento nel quale dispone che tutto il suo patrimonio personale sarà donato alla congregazione”.

La Stampa 5.6.12
Vatileaks, erano tracciate le ultime carte del corvo
In casa del maggiordomo nuovi documenti e una lista di giornalisti
di Giacomo Galeazzi


CITTÀ DEL VATICANO Sono stati gli ultimi documenti passati all’esterno ad incastrare il corvo e i suoi complici. E ora quell’ultima, fatale fuga di documenti servirà come duplice prova: nel procedimento contro il maggiordomo e nella rogatoria per chi ha ricevuto da lui le carte trafugate. Ormai tra quanti indagano su «Vatileaks» nessuno crede che Paolo Gabriele sia soltanto un «capro espiatorio». Ad aggravare la sua situazione è il fatto che in casa la Gendarmeria gli abbia trovato, oltre alle carte riservate di Benedetto XVI, una lista di giornalisti destinatari dei documenti sottratti nell’appartamento papale. Da tredici giorni l’aiutante di camera di Ratzinger è detenuto in una cella di sicurezza della caserma vaticana e oggi sarà interrogato dal magistrato che gli contesterà l’accusa di furto aggravato.
Quanto finora appreso dai gendarmi e dai cardinali della commissione cardinalizia d’inchiesta, adesso dovrà essere messo a verbale (eventuali complici e mandanti inclusi). Per questo i tre porporati Herranz, Tomko e De Giorgi intensificheranno i colloqui con i prelati di Curia sospettati.
Per il momento il maggiordomo infedele rimarrà in isolamento in una cella di quattro metri per quattro. Troppo delicata è l’inchiesta e troppo forte il rischio di inquinamento delle prove. «È il momento dell’unità e la trasparenza non è un atto di cinismo - assicura il cardinal Bertone - Il Papa non si fa intimidire da attacchi feroci, mirati, organizzati, dilanianti». Le ultime consegne del maggiordomo sono state «pilotate» per individuare i nomi ora scritti sulle rogatorie al ministero di Giustizia. Una tecnica già risolutiva in un governo tecnico della Prima Repubblica contro le fughe di notizie economiche. I suoi avvocati assicurano che collaborerà ampiamente e hanno presentato l’istanza con la quale danno la disponibilità del loro cliente ad essere formalmente interrogato. Entra così nel vivo l’istruttoria condotta dal giudice Bonnet, che fa seguito all’istruttoria sommaria del promotore di giustizia, Picardi. Dopo l’interrogatorio è probabile la libertà vigilata. Sono caduti nel vuoto i tentativi di ridimensionare la sua responsabilità diffondendo dopo l’arresto altri documenti riservati. In Curia si ritiene che a farli circolare sia qualche complice del maggiordomo o qualcuno dei giornalisti il cui nome figura tra i destinatari delle carte. Per gli inquirenti le altre misteriose fughe di notizie non scagionano il maggiordomo, anzi «sono un boomerang» e farebbero parte di una strategia che punta a dare l’impressione che «Paoletto» non sia un corvo ma un capro espiatorio. Al contempo potrebbe essere anche un messaggio al detenuto per dissuaderlo dal collaborare. Come dire, «non ti abbiamo abbandonato».
La barca di Pietro può anche essere «in balia» di «avversari» e navigare su acque in tempesta, ma il Papa regge il timone sapendo che è «Dio che governa il mondo», ha assicurato domenica il Pontefice. «Corvi in Vaticano, avvoltoi fuori», titola «Famiglia Cristiana». E il portavoce papale, padre Federico Lombardi, sottolinea che da tempo «vengono pubblicati documenti anonimi e firmati» ed è evidente che «chi ha recepito questa grande quantità di testi se li gioca non con l’intenzione di fare tutto in una volta e di lasciarci tranquilli». Sul seguitissimo «Papa Ratzinger Blog» un autorevole osservatore di questioni ecclesiastiche come il vaticanista Salvatore Izzo dà voce all’opinione più diffusa nella Sacre Stanze: «Qui parliamo di furti e ricatti, di operazioni mediatiche teleguidate e volte a bloccare la pulizia che Benedetto XVI ha avviato e che tanto spaventa i vecchi apparati curiali». Facendo uscire ulteriori carte si vuole accreditare «la tesi del corvo che ritorna», mentre «a monte e a valle dei furti di Paolo Gabriele sono in pochi e nei verbali degli imminenti interrogatori del maggiordomo ci saranno i loro nomi, malgrado cortine di fumo mediatiche».

il Fatto 5.6.12
I desaparecidos e le colpe della chiesa argentina
La magistratura indaga sui colloqui con la dittatura Videla
di Horacio Verbitsky


La Chiesa cattolica argentina ha confermato dinanzi alle autorità giudiziarie l’autenticità del documento pubblicato da Il Fatto l’11 maggio avente per oggetto l’incontro segreto del 1978 delle gerarchie cattoliche al più alto livello con il dittatore Jorge Videla nel corso del quale si parlò dell’assassinio dei detenuti-desaparecidos. Documento redatto nel luogo dell’incontro e consegnato dallo stesso Videla alla Chiesa e che riguarda i crimini più gravi commessi nella storia dell’Argentina e tra le cui vittime figuravano due vescovi e una ventina di sacerdoti. E divulgato da cattolici indignati per la complicità con una dittatura sanguinosa.
SI TRATTA di una bozza scritta per informare la Santa Sede e prova che, almeno a partire dal 1978, la Chiesa sapeva che la dittatura militare uccideva i detenuti-desaparecidos e invece di denunciare la dittatura discuteva con il suo capo supremo in che modo manipolare le informazioni per arrecare il minor danno possibile alla giunta militare e all’Episcopato che riceveva richieste di aiuto dalle vittime. Una volta che il documento è stato reso pubblico, la magistratura ha chiesto all’Episcopato di consegnarlo e l’Episcopato non ha potuto negare la sua esistenza.
In occasione di un’udienza in tribunale, Videla ha detto che i detenuti-desaparecidos erano stati “condannati” e “giustiziati” e che questo metodo gli era sembrato più comodo perché “non aveva le conseguenze di una pubblica fucilazione” che “la società non avrebbe tollerato”. Altri ufficiali avevano già detto che si era ricorsi al metodo dell’eliminazione clandestina perché il Papa non avrebbe accettato le fucilazioni. Videla ha spiegato che non venivano pubblicati gli elenchi dei detenuti-desaparecidos perché contenevano errori e inesattezze e perché non c’era accordo tra le Forze Armate.
Peròduranteilpranzodel10aprile 1978 con il presidente e i due vicepresidenti dell’Episcopato, in un clima che il cardinale Juan Aramburu definì cordiale, Videla disse che “sarebbe del tutto ovvio affermare” che i desaparecidos “sono morti: si tratterebbe di varcare una linea di demarcazione e costoro sono scomparsi e pertanto non esistono. Comunque è chiaro che ciò solleva una serie di interrogativi in ordine a dove sono stati sepolti: in una fossa comune? E in tal caso chi li avrebbe sepolti in questa fossa? ”. Aggiunse che il governo non poteva rispondere “per le conseguenze riguardanti alcune persone”, vale a dire i sequestratori e gli assassini. Tuttavia nel 1982 il cardinale Aramburu continuava a negare i fatti: in un reportage a cura de Il Messaggero disse che non esistevano fosse comuni e che coloro che “venivano chiamati desaparecidos” vivevano tranquillamente in Europa.
Malgrado l’enorme importanza di questo tardivo riconoscimento, nessuna autorità ecclesiastica ha mai fatto il minimo riferimento alla questione.
Come se l’enormità del fatto avesse avuto l’effetto di ammutolire tutti, i quotidiani Clarin, La Nacion e Perfil hanno finto di non capire che la pubblicazione del documento era fondamentale per stabilire il grado di complicità della Chiesa cattolica con la dittatura militare e la sua politica criminale. Come mi ha raccontato il capitano della Marina Adolfo Scilingo, la pratica di giustiziare i detenuti-desaparecidos gettandoli da un aereo in volo fu approvato dalla gerarchia ecclesiastica che riteneva questo un modo cristiano di morire. La frase fa venire in mente quanto scrisse Heinrich Himmler per spiegare la costruzione delle camere a gas nei lager allo scopo di realizzare la “soluzionefinaledellaquestioneebraica”: era una forma “più umana”. Dimenticò di aggiungere: “Per i carnefici”.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 5.6.12
Tiananmen 23 anni dopo, arresti e censura
di Ga. B.


Per una casuale coincidenza numerica la Borsa di Shanghai si è involontariamente alleata ai dissidenti nel ricordare la data che il potere comunista vorrebbe cancellare dalla memoria collettiva: 4 giugno 1989, il giorno del massacro sulla Tiananmen. Al termine delle contrattazioni l’indice generale segnava ieri un meno 64,89. Sei come il mese, quattro come il giorno e ottantanove come l’anno in cui la Primavera di Pechino fu soffocata nel sangue. La censura cibernetica se ne è accorta subito, e ha bloccato ogni ricerca online legata al tema delle perdite azionarie.
Tradizionalmente attenti al significato recondito delle casualità numeriche, i dirigenti cinesi sono sicuramente almeno altrettanto interessati al linguaggio esplicito della diplomazia. E hanno reagito con evidente irritazione all’appello del governo americano affinché siano liberati i protagonisti della Primavera ancora detenuti.
In un comunicato il Dipartimento di Stato Usa esortava anche Pechino a «proteggere i diritti umani universali e dei suoi cittadini». Il ministero degli Esteri cinese ha manifestato «forte contrarietà» e ha ribadito il giudizio totalmente negativo sul movimento popolare per la democrazia del 1989, bollato per l’ennesima volta come «ribellione controrivoluzionaria».
Per prevenire ogni tentativo di commemorare il 23simo anniversario della strage, la polizia ha arrestato numerosi oppositori in varie città, da Pechino a Fuzhou a Guiyang. Ma soprattutto le autorità sono state solerti nel sabotare quello che sta diventando il loro principale nemico, la libera informazione e comunicazione delle idee su Internet.
Sul sito Sina Weibo, una sorta di Twitter cinese, gli hacker di Stato hanno rimosso gli emoticon relativi alle candele, simboli della tristezza funebre, la cui evocazione nell’anniversario della Tiananmen era considerata un chiaro riferimento alle vite spezzate dai militari di Deng Xiaoping.
Eliminati anche alcuni post in cui erano inserite foto di orologi indicanti l’ora esatta in cui ventitre anni fa ebbe inizio la repressione. Secondo Amnesty International le vittime furono più di mille.

La Stampa 5.6.12
L’America incalza la Cina “Liberate i prigionieri di piazza Tiananmen”
La Clinton: basta soprusi ai famigliari di quei manifestanti
di Paolo Mastrolilli


Memoria Migliaia di persone ieri sera sono scese nelle strade di Hong Kong per una fiaccolata commemorativa nel 23° anniversario del massacro degli studenti in piazza Tiananmen
Nuova alleanza Stretta di mano fra il segretario alla Difesa Leon Panetta e il primo ministro vietnamita Nguyen Tan Dung. Washington e Hanoi hanno stretto un accordo in funzione anti-cinese Gli americani potranno usare come centro logistico il porto di Cam Rah Bay visitato ieri per la prima volta dalla fine della guerra da un ministro della Difesa Usa
Simbolo «Tank Man» si para dinanzi ai T59 cinesi Nel 1998 la rivista «Time» incluse questo «Rivoltoso sconosciuto» nella lista delle «persone che più hanno influenzato il XX secolo»

La Cina rimane la principale preoccupazione geopolitica degli Stati Uniti. Lo dimostrano tre notizie che forse si sono allineate per casualità, ma vanno tutte nella stessa direzione: il messaggio del dipartimento di Stato in occasione dell’anniversario di Tiananmen, la visita del capo del Pentagono Panetta in Vietnam, e la costruzione di un nuovo cacciatorpediniere invisibile, pensato soprattutto per le missioni nel Pacifico.
La dichiarazione per la repressione di Tiananmen non si discosta da quelle fatte negli anni scorsi da Hillary Clinton, ma proprio questo è l’elemento significativo: Washington lavora con Pechino per potenziare le relazioni economiche e politiche, ma non molla sui diritti umani. Il testo infatti ricorda la «soppressione violenta delle dimostrazioni» e la «tragica perdita di vite umane». Quindi incoraggia «il governo cinese a rilasciare tutti coloro ancora detenuti per sentenze relative alla partecipazione alle manifestazioni; fornire informazioni pubbliche e complete sui morti, gli arrestati e gli scomparsi; mettere fine alle continue molestie contro i dimostranti e le loro famiglie». Quindi la dichiarazione va oltre Tiananmen, per chiedere alla Cina di proteggere i diritti umani universali e rilasciare tutte le persone detenute o perseguite in maniera ingiusta. Pechino ha sempre risposto a queste sollecitazioni denunciandole come ingerenze e ieri ha parlato di «accuse senza fondamento» e «interferenze negli affari interni cinesi», ma quest’anno è urtata anche dalla vicenda che ha portato negli Stati Uniti il dissidente Chen Guangcheng.
Mentre la Clinton faceva pubblicare questa dichiarazione, il collega del Pentagono Panetta andava in Vietnam, diventando il primo segretario alla Difesa che visita il porto di Cam Rah Bay dalla fine della guerra nel 1975. Laggiù gli americani avevano una base logistica fondamentale per le sue acque profonde. Ora chiedono di tornare ad usare questo scalo con le navi da guerra, e Hanoi è favorevole ad offrire ospitalità. Washington sostiene che la missione di Panetta non ha nulla a che vedere col contenimento della Cina, ma dal punto di vista geopolitico non ci sono molte altre ragioni per giustificare la convergenza col Vietnam sull’utilizzo strategico comune di questo e altri porti nella regione. Hanoi, infatti, ha antiche dispute con Pechino sul Mar Cinese Meridionale, e Washington è contenta di approfittarne per potenziare la sua presenza vicino alle acque cinesi. L’accordo con il governo vietnamita è stato sancito anche dall’apertura di tre nuovi siti, dove gli americani potranno cercare i resti dei 1.284 soldati ancora dispersi dal 1973.
Solo due giorni fa Panetta aveva annunciato l’intenzione di spostare il 60% della flotta nel Pacifico entro il 2020, e quindi ha detto che «per noi sarà particolarmente importante poter usare porti come questo». Tra due anni, nei nuovi scali aperti come Cam Rah Bay dovrebbe arrivare anche il cacciatorpediniere invisibile «DDG-1000», che il Pentagono sta sviluppando al costo di 3,1 miliardi per unità. É una nave con una chiglia speciale che produce pochissime onde, può avvicinarsi alle coste e alle navi senza essere vista, e possiede cannoni elettromagnetici capaci di neutralizzare i radar. Uno strumento utile per tenere a bada le ambizioni della Cina, sempre pronta ad attaccare Taiwan.

La Stampa 5.6.12
Bloccate parole e simboli della rivolta del giugno 1989
E sul Web Pechino censura “oggi” per cancellare “ieri”
di Ilaria Maria Sala


A 23 anni dal giorno in cui l’Esercito di Liberazione del Popolo stroncò nel sangue le rivolte studentesche del 1989, in Cina non si può ancora ricordare pubblicamente o riflettere sull’accaduto. Alla Borsa A Shanghai l’indice della Borsa ha segnato i numeri (64.89) della repressione di Tiananmen (4 giugno 1989) In chiusura l’indice è stato corretto
E una follia censoria si abbatte sul Web. Parole come «ieri», «oggi» e «domani» sono finite fra i termini proibiti sui siti di microblogging nazionali – detti «weibo» - e tutto quello che ricordava anche alla lontana i fatti più di venti anni fa era di fatto escluso dalle ricerche Internet.
A finire nel tritacarne della censura anche termini genericamente legati alle commemorazioni, fra cui «candela», «parco», «piazza», ma anche «sangue», «movimento», «passeggiare» (eufemismo per manifestare) e «popolo», le parole «quell’anno» e anche tutti i numeri legati alla data di ieri e a quella di 23 anni fa, nonché le loro combinazioni. Non solo: una sorprendente coincidenza ha voluto che proprio ieri la Borsa di Shanghai chiudesse con un ribasso di 64.89 punti. In Cina la data viene scritta mese/giorno/anno, ed ecco che il listino principale cinese ha chiuso dicendo alla nazione: 4 giugno 1989, la data che il governo, e i suoi alacri censori, vorrebbero cancellare a tutti i costi. Già qualche ora dopo ecco che i punti persi dal listino erano stati «ottimizzati» e corretti, per diventare 63.85. Troppo tardi: i «netizen» cinesi si erano già persi in congetture, chi tirava fuori la numerologia e il volere del Cielo, e chi sospettava la presenza di un coraggioso ex-studente del 1989 a capo della Borsa di Shanghai, che aveva manipolato ad hoc la cifra. Per chi proprio volesse lasciarsi suggestionare, bastava notare che in apertura lo stesso listino aveva 2364.98 punti, cifra che di nuovo conterrebbe i numeri «giusti» con anche un riferimento ai 23 anni da quando è avvenuto il massacro.
Come mostrano questi esempi, che se non trattassero di una tragedia sarebbero comici, i nervi, in Cina, sono a fior di pelle: come lo sono ogni anno, quando il governo cerca di imporre un’amnesia nazionale su un avvenimento impossibile da dimenticare, e anche più del solito. Il calendario politico cinese, infatti, prevede per il prossimo ottobre il 18° congresso del Partito Comunista, che dovrà gestire la successione decennale delle più alte cariche governative, che avviene dopo la purga dell’ex segretario di partito di Chongqing, Bo Xilai, e la fuga del dissidente Chen Guangcheng dagli arresti domiciliari.
Ad appesantire ulteriormente l’aria c’è stata la pubblicazione delle memorie di Chen Xitong, sindaco di Pechino nel 1989, che approvò l’intervento armato contro gli studenti di Tiananmen ma si è pentito, dicendo che il bagno di sangue era «evitabile». Naturalmente, anche lui, il suo libro e i suoi tardivi problemi di coscienza sono censurati dal web, e accessibili solo a chi sa aggirare la censura. O a chi vive a Hong Kong: l’ex-Colonia britannica infatti ieri ha commemorato il 4 giugno con una veglia a lume di candela, a cui hanno partecipato 180.000 persone.

il Fatto 5.6.12
In Cina. Come evitare la censura


Google dà suggerimenti ai cinesi sulle parole da usare o meno per evitare la censura del grande fratello nel paese del dragone. Normalmente quando in Cina si effettua una ricerca tramite il motore di ricerca di Google senza usare una vpn (ovvero un software, virtual private network, che consente di collegarsi ad internet tramite un ip straniero e quindi di sottrarsi al controllo) e si digitano parole considerate “sensibili”, la pagina non si apre e la connessione viene temporaneamente bloccata. Il nuovo servizio Google consente ora agli utenti di sapere in anticipo che stanno digitando parole vietate, aiutandoli a trovare un’alternativa prima di arrivare al blocco della connessione. Attraverso il nuovo sistema nel caso in cui un utente stia per avviare una ricerca usando un termine potenzialmente a rischio apparirà un avviso che dice che “l'utilizzo di questo termine potrebbe bloccare la connessione e che tale interruzione è estranea al controllo di Google”. A questo punto l’utente ha la scelta di continuare la ricerca, a suo rischio, oppure di cambiare la chiave. La mossa di Google di certo non piacerà al governo cinese.

l’Unità 5.6.12
Migliaia di donne turche a difesa della legge sull’aborto
Femministe curde, laiche e velate, hanno sfilato nella capitale contro Erdogan che vuole
punire l’interruzione di gravidanza come omicidio
di Alberto Tetta


Curde, femministe con i capelli grigi, militanti di sinistra, giovani mamme con le loro bambine in braccio, attivisti del movimento Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), personaggi dello spettacolo e qualche ragazza velata, una manifestazione colorata e plurale quella che ha portato in piazza alcune migliaia di donne domenica sera a Istanbul per difendere il «diritto a disporre del proprio corpo e all’interruzione volontaria di gravidanza».
A scatenare la loro rabbia le recenti prese di posizione di Recep Tayyip Erdogan: «L’aborto è un omicidio, uccidere una persona nel corpo della madre o dopo il parto non fa nessuna differenza» ha dichiarato lo scorso 24 maggio il premier turco. «Penso che la legge debba limitare il più possibile la pratica dell’aborto a parte in casi in cui sia strettamente necessario dal punto di vista sanitario» gli ha fatto eco il ministro della sanità Recep Akdag annunciando che entro giugno il parlamento turco discuterà una nuova legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. «Sono in piazza oggi perché da dieci anni l’Akp vede le donne come un nemico da combattere e fa politica usando il nostro corpo», spiega a l’Unità Aynur Seyrek, tra le organizzatrici della manifestazione. A riscaldare ancor di più gli animi prese di posizione come quella di Melih Gökçek esponente di spicco del partito di Erdogan e sindaco della capitale turca: «Perché il bambino deve pagare per l’errore compiuto da sua madre. La madre uccida se stessa», ha dichiarato hai microfoni di Samanyolu Tv, il presidente della commissione sanità al parlamento turco Cevdet Erdöl. Dal canto suo ha presentato a Unicef e Organizzazione mondiale della sanità una richiesta ufficiale perché «includano anche il feto nella definizione di bambino e ne difendano il diritto alla vita».
Secondo Eylem, una giovane transessuale attiva nel movimento femminista, per difendere i diritti delle donne servono forme di lotta ancora più radicali: «Dobbiamo impedire a un governo che per bocca del suo ministro della Sanità è arrivato a dire che vuole vietare l’aborto persino alle donne che rimangono incinta dopo essere state violentate, di cancellare in nostri diritti. Io e altre attiviste abbiamo già annunciato che se verrà approvata una legge che vieta o limita l’aborto inizieremo uno sciopero della fame ad oltranza fino a quando il governo non tornerà sui suoi passi».
SVOLTA AUTORITARIA
Quella di Istanbul è stata solo l’ultima di una serie di manifestazioni organizzate dalle donne in tutta la Turchia per difendere un diritto dato ormai per acquisito. È dal 1983 infatti che la legge turca permette l’interruzione volontaria di gravidanza fino alla decima settimana dal concepimento. Il 29 maggio a Eskisehir le donne che manifestavano contro le dichiarazioni del primo ministro sono state caricate dalla polizia davanti alla locale sede del partito di Erdogan e giovedì anche ad Ankara le forze dell’ordine hanno disperso il presidio «per la libertà di scelta» davanti alla sede del governo facendo uso di gas lacrimogeni.
E c’è chi in Turchia vede nell’inaspettata presa di posizione anti-aborto di Erdogan il segnale di una più ampia svolta autoritaria e conservatrice nell’azione del governo: «L’ossessione per l’alcol, le dichiarazioni sull’aborto, la retorica moralista, la gara a costruire moschee sempre più grandi, sono gli ingredienti di una nuova strategia politica adottata da Erdogan. scrive Ahmet Insel editorialista del quotidiano Radikal che nasce dall’unione tra l’agenda politica conservatrice dell’Akp e il programma nazionalista del Mhp (partito dell’ultra-destra all’opposizione, ndr), allo stesso tempo in nome del “interesse nazionale” passano leggi che proibiscono lo sciopero in alcuni settori produttivi consolidando un modello autoritario di economia di mercato».

il Fatto 5.6.12
Mubarak e la condanna del cane da guardia dell’Occidente
Il dittatore egiziano è stato il braccio armato contro gli islamici, che ora arrivano al potere con il voto
di Carlo Antonio Biscotto


Sabato Mubarak, per la morte di 850 persone durante le dimostrazioni della primavera del 2011, è stato condannato a 25 anni di reclusione che, quando hai 84 anni, equivalgono all’ergastolo e alla morte in carcere. Ma che ha fatto Mubarak, si chiede Robert Fisk sull’Independent? Non è forse stato il cane da guardia dell’Occidente per decine di anni? Non era forse uno dei principali protagonisti della “guerra al terrore” su commissione delle potenze occidentali? Di lui nelle cancellerie occidentali si è sempre parlato come di un “moderato”, di un amico, di un fedele alleato.
Quanto ad Assad, meglio sorvolare. La sentenza di condanna di Mubarak voleva essere anche un avvertimento per il dittatore di Damasco. Ma Fisk non dimentica il lavoro sporco fatto dai “moderati” Assad e Mubarak per conto degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di noi tutti. E ricorda i voli con i quali i presunti terroristi venivano consegnati all’Egitto o alla Siria per essere “interrogati” o, per meglio dire, torturati. Non si può fare a meno di pensare ad Arar, cittadino canadese, che da New York è stato spedito come un pacco a Damasco dove i torturatori per conto terzi hanno fatto il loro dovere. Insomma, i cosiddetti “arabi moderati” ci hanno sempre dato una mano. Salvo poi scaricarli quando non servono più.
A sorprendere non è la condanna di Mubarak, ma il fatto che il Tribunale del Cairo ha volutamente dimenticato 30 anni di autentico terrore, di torture, di repressioni sanguinose, di tirannia, di stupro dei diritti civili degli egiziani (che infatti sono tornati a occupare piazza Tahrir per protestare contro la sentenza, ndr). Non fosse stato per i cecchini della polizia di Stato che di notte in piazza Tahrir facevano cadere come birilli le teste dei giovani rivoluzionari, Mubarak l’avrebbe fatta franca e, quel che più conta, avrebbe ancora diritto all’aggettivo “moderarto”.
La verità è che – come ci ricordano Amnesty International e Human Rights Watch – numerosi diplomatici denunciavano da decine di anni quello che avveniva nelle carceri di Mubarak così come denunciavano la corruzione e la più totale mancanza di libertà di stampa sotto il governo di Mubarak. L’ex presidente egiziano della stampa si è sempre servito: per far stampare all’infinito i suoi discorsi, per vedersi immortalato accanto a Obama o al re di Giordania con i capelli abilmente ritoccati di nero con photoshop. Chissà perché i dittatori sono sempre così vanitosi?
Ora gli egiziani stanno con il fiato sospeso per sapere se a luglio Ahmed Shafik, già primo ministro di Mubarak, sarà il prossimo presidente o se invece la spunterà Mohammed Morsi leader della Fratellanza Musulmana, una organizzazione sempre osteggiata e combattuta da Mubarak. Il favorito sembra essere Morsi, ma la notizia è un’altra: i cristiani copti appoggiano Ahmed Shafik così come in Si-ria i cristiani siriani si sono schierati dalla parte di Assad. I cristiani sostengono i dittatori. Consolante, non c’è che dire.
Il fatto è che, come sottolinea Fisk, le rivoluzioni non hanno sempre il lieto fine. A Washington è molto forte il partito di chi fa il tifo per Shafik affinché ripristini le vecchie relazioni dell’Egitto con Israele. In realtà i falchi americani vogliono il ritorno alla dittatura senza Mubarak, in nome della “stabilità”, garantita dai militari, contro l’avventurismo rappresentato dai Fratelli musulmani. E sullo sfondo si agita, come sempre, la paura del “fondamentalismo islamico” e del terrorismo di matrice musulmana.
È molto probabile che, a dispetto di tutte le manovre e pressioni, l’Occidente tra qualche giorno debba fare i conti con Morsi alla presidenza del-l’Egitto. A quel punto toccherà al leader della Fratellanza musulmana dimostrare che un governo musulmano è in grado di gestire l’economia, stroncare almeno in parte il fenomeno della corruzione e garantire ai suoi cittadini pace, prosperità e libertà. Ma – si chiede Fisk – siamo certi che un ballottaggio Shafik-Morsi era quello che sognavano i giovani che l’anno passato hanno affollato piazza Tahrir rischiando – e spesso perdendo – la vita?

La Stampa 5.6.12
Israele, cresce l’insofferenza nei confronti dei clandestini
70.000 africani Ogni mese arrivano in Israele circa 2-3 mila clandestini
Il ministro degli Interni «I palestinesi e i migranti provocheranno il crollo del sogno sionista»
Incendiata una casa a Gerusalemme in cui vivevano alcuni eritrei
di Aldo Baquis


GERUSALEMME Un rumore sordo, di un vetro infranto. Poi il propagarsi di un fumo denso. Quindi la vista delle fiamme, che bloccavano la porta di ingresso. Il tentativo disperato di lanciarsi dalle finestre, che in parte però erano chiuse da sbarre. Questo il convulso risveglio notturno di una decina di clandestini eritrei, trovatisi prigionieri in una palazzina in fiamme, in quella che la polizia di Gerusalemme ha definito «una trappola di fuoco».
Si sono salvati per il rotto della cuffia. Tre sono rimasti intossicati, un quarto ha riportato ustioni. Gli altri hanno poi potuto leggere su un muro vicino una scritta perentoria: «Fuori dal rione».
Il quartiere in questione è Makor Baruch, nel centro della città, a pochi passi dal congestionato mercato ortofrutticolo di Mahané Yehuda. La via Yossef Ben Mattityahu (altrimenti noto come Giuseppe Flavio) all’angolo con la via Valero è fatta da stradine anguste, in un rione dove tutti si conoscono da una vita e mantengono il medesimo stile di vita: quello degli ebrei sefarditi e tradizionalisti.
Due mesi fa, con l’ingresso dei clandestini africani, l’atmosfera è decisamente cambiata. I nuovi arrivati dicono nel quartiere - hanno aperto un locale nella palazzina, si sono dati a schiamazzi notturni accompagnati da musica a tutto volume e da risse. Il riposo sabbatico - lamentano nel rione – «è andato a farsi benedire».
La condanna dell’incendio doloso è giunta ieri, immediata e decisa, sia dagli abitanti del rione sia dai dirigenti di Israele. «Episodi del genere - ha notato il ministero degli Esteri – sono inconciliabili con la storia del popolo ebraico».
Anche se l’attacco è stato presumibilmente condotto da estremisti di destra, il ministro per la sicurezza interna Aharonivic ha criticato esponenti politici populisti che negli ultimi tempi hanno alzato il tono contro gli immigrati clandestini dall’Africa, addossando loro fra l’altro un aumento del tasso di criminalità e la diffusione di malattie.
Alludeva forse anche al ministro degli interni Ely Yishai (Shas), in prima linea fra quanti esigono divieto assoluto di permessi di lavoro ed espulsioni in massa dei migranti africani: oggi 60-70 mila, ogni mese rafforzati da 2-3 mila nuovi arrivi clandestini, attraverso il Sinai.
Rappresentante degli ebrei sefarditi che spesso popolano i rioni popolari di Gerusalemme e Tel Aviv dove è più marcata la presenza dei clandestini, Yishai ha dichiarato a Maariv: «I migranti e i palestinesi assieme provocheranno presto il crollo del sogno sionista. Abbiamo creato uno Stato, e ora lo perdiamo, giorno dopo giorno. Sembrerò razzista, oscurantista oppure xenofobo, ma io agisco nella convinzione che non abbiamo un altro Paese. O noi, o loro».

Corriere 5.6.12
Rinasce il sogno russo: Transiberiana fino a Vienna
di Fabrizio Dragosei


Oggi i treni devono fermarsi al confine slovacco perché non usano lo scartamento europeo
MOSCA — L'idea alla base del progetto è senz'altro buona ed è condivisa anche dal vicepresidente della Commissione europea, l'estone Siim Kallas: migliorare le possibilità di utilizzare la ferrovia per trasportare merci tra l'Europa e l'Asia. Il metodo proposto dai russi suscita invece non poche perplessità: estendere il sistema ferroviario ex sovietico, quello basato sulla Transiberiana, fino alle porte di Vienna. Non è certo come abbeverare i cavalli dei cosacchi nelle fontane di San Pietro ma per qualcuno poco ci manca. I treni russi (compresi quelli militari) che usano uno scartamento più ampio di quello europeo oggi non possono viaggiare sulle linee oltre la vecchia cortina di ferro. Si devono fermare e devono modificare i carrelli per adattare le ruote allo scartamento di 1,435 metri (il loro è di 1,520 m). Un domani potrebbero invece arrivare immediatamente nel cuore del vecchio continente.
I più sospettosi sembrano essere i polacchi che, come è noto, con Mosca hanno una vecchia ruggine. Loro affermano che il progetto delle ferrovie russe non ha senso: esiste già una linea con lo scartamento russo che congiunge l'Ucraina alla città di Katowice, non lontana dalla frontiera con la Repubblica Ceca. Potrebbe essere ammodernata con modica spesa. Ma Katowice non è certamente Vienna e poi, sospettano a Varsavia, forse si tratta di un ennesimo tentativo di bypassare o isolare la Polonia. Esattamente come avviene con il gasdotto Nord Stream progettato e realizzato assieme da russi e tedeschi. Corre sul fondo del mare, evitando così i Paesi baltici e, appunto, la Polonia.
Non a caso a metà dell'Ottocento la Russia zarista scelse uno scartamento diverso da quello che si stava diffondendo in Europa quando iniziò a costruire il suo primo tratto di strada ferrata, da Mosca a San Pietroburgo. I generali temevano che le potenze dell'Europa centrale potessero usare i vagoni ferroviari per far avanzare rapidamente la fanteria e l'artiglieria.
Ed effettivamente un secolo dopo grazie allo scartamento diverso, la Wehrmacht incontrò non pochi ostacoli nella sua corsa verso Mosca contro il generale Inverno.
I toni bellicosi usati sempre più spesso da Putin e dai suoi luogotenenti non contribuiscono certo a tranquillizzare i contrari.
Anche i recenti accordi con la Bielorussia di Lukashenko (ribattezzato l'ultimo dittatore d'Europa) continuano a parlare di «difesa comune», di «risposta militare allo scudo missilistico americano». E se gli Stati Uniti insistono nel sostenere che la loro è una difesa contro l'Iran, a Mosca rispondono con la minaccia di schierare nuovi missili sempre più ad Occidente.
I capi delle ferrovie russe, le più grandi al mondo dopo quelle americane (86 mila chilometri con 960 mila dipendenti) affermano con decisione che si tratta solo di un progetto puramente commerciale. Le navi sono insuperabili per quanto riguarda i volumi e i costi, «ma noi potremmo essere molto più veloci: 14 giorni anziché 40».
E poi un discorso è unire città come Shanghai e Amburgo, situate sul mare. Ma per la Cina centrale, dove sono situate molte fabbriche di case europee (anche Bmw e Audi, ad esempio) la ferrovia potrebbe essere una soluzione interessante. Gran parte della linea, naturalmente, esiste già ed è quella che gli zar fecero realizzare per colonizzare a dovere (e per difendere militarmente) i possedimenti in Asia centrale ed Estremo Oriente. Fu proprio grazie alla Transiberiana (9.288 km da Mosca a Vladivostok, oggi percorsi in sette giorni) che Stalin poté schierare i suoi siberiani contro Hitler quando i servizi segreti gli assicurarono che il Giappone non lo avrebbe attaccato a est.
Un ramo della Transiberiana si congiunge con le ferrovie cinesi e continua fino a Pechino. A Occidente le linee a scartamento russo arrivano fino a Kiev in Ucraina e raggiungono la frontiera slovacca. Da lì potrebbero proseguire verso la capitale Bratislava per entrare poi in territorio austriaco e arrivare alla periferia di Vienna dove verrebbe creato un grande deposito merci. Merci totalmente pacifiche, giurano a Mosca.

Repubblica 5.6.12
Fanta Gramsci
La sua infanzia a fumetti dove Togliatti fa l’amico immaginario
di Simonetta Fiori

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Repubblica 5.6.12
Margherita Hack
“L’università è baronale e servile, ho preferito vedere le stelle all’estero”
“Con l’età la mia convinzione atea è cresciuta”
intervista di Antonio Gnoli

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Corriere 5.6.12
La paralisi intellettuale europea
In America si è indagato ben di più sulle cause della crisi
di Federico Fubini


La crisi del debito pubblico in Europa, ancora aperta, è stata anticipata da quella del debito privato negli Stati Uniti. Si potrebbe pensare a queste esplosioni di panico finanziario come a eventi gemelli, non fosse che fra le molte differenze ce n'è anche una che non ha molto attratto l'attenzione: la crisi americana ha già prodotto una serie di saggi e ricostruzioni che vanno ben oltre la pura cronaca dei fatti; molti di quei libri americani su Lehman o sul crollo dei mutui subprime approfondiscono i motivi dei protagonisti principali, scavano nelle cause meno superficiali degli eventi, ripensano alla teoria economica che dovrebbe spiegare ciò che è avvenuto e, spesso, non riesce a farlo.
In Europa no. La crisi è già vecchia di due anni e mezzo, ma non ha ancora generato un libro che cerchi di definire cosa è successo in un modo che sia, se non accettato, almeno discusso oltre i confini di ogni singolo Paese. Forse dipende dalle difficoltà — istituzionali, politiche — che oggi hanno gli europei a reagire come fecero gli americani all'inizio del 2009: tagliare le perdite, cauterizzare le ferite, cospargere di liquidità il sistema e cercare di ripartire. In Europa continua a mancare la parola fine, lieta o meno, e poiché voltare pagina sembra impossibile (per ora), le vecchie nazioni europee sono entrate come in una condizione di insicurezza cronica.
Anche per questo arriva con perfetta scelta di tempo la traduzione di uno dei classici della letteratura sulla crisi americana. L'ha scritto l'indiano Raghuram Rajan, professore di Finanza all'Università di Chicago ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale. In Italia, dove è uscito da Einaudi, è stato intitolato Terremoti finanziari. Come le fratture nascoste minacciano ancora l'economia globale (pp. 432, 21). La traduzione del titolo rinuncia a rendere l'originale in inglese che punta sul concetto centrale del saggio, Fault Lines, «Linee di faglia». L'idea di fondo di Rajan è che la grande crisi finanziaria occidentale sia stata prodotta appunto dalla frattura di placche tettoniche profonde dopo lunghe tensioni sotterranee. Le linee di faglia sono nella distribuzione sempre più sbilanciata del reddito nelle società avanzate, in quella del risparmio e dell'indebitamento fra queste ultime e le economie emergenti, e nella crescita abnorme del settore finanziario nell'intermediare gli squilibri fra eccesso di debito a Occidente e eccesso di risparmio a Oriente.
Con il rigore del ragionamento, Rajan mostra come negli Stati Uniti il debito (in primo luogo immobiliare) abbia progressivamente sostituito le carenze del welfare, mentre crescevano le distanze fra i redditi e fra i livelli di istruzione dei diversi ceti sociali. Gli incentivi creati dalle amministrazioni di Bill Clinton e George W. Bush a comprare casa, anche per chi non se lo poteva permettere, sono stati assecondati dalla deliberata disattenzione della Federal Reserve. Fino a quando il tessuto del debito si è strappato.
Rajan ha completato di recente la sua analisi, con un richiamo alla crisi europea in «Foreign Affairs». Ma già l'edizione italiana di Terremoti finanziari soddisfa molte delle domande di un lettore europeo, grazie al contributo di Franco Debenedetti. Nella sua prefazione, Debenedetti si chiede quali siano le «linee di faglia» — nell'interpretazione di Rajan — nell'area euro e in Italia. Con rigore, il manager-editorialista ne indica alcune che vanno oltre la pura contabilità del debito. Linea di faglia è «il disegno e il finanziamento del welfare» per molte delle democrazie occidentali, ricorda Debenedetti.
Che poi passa a mettere a fuoco, con un'amarezza che traspare solo fra le righe, quelle più propriamente nazionali. Fra queste ci sono le contraddizioni della nostra democrazia, voluta dopo il Ventennio con un premier debole in una pluralità di poteri che ha contribuito a generare un'amministrazione statale enorme e ostruzionista. «Bisogna rivedere il rapporto fra lo Stato e i cittadini», osserva Debenedetti. A suo parere, affidarsi ai tecnici può forse aiutare ma non basta: essi, scrive, «non risolvono — e forse aggravano — il problema del rinnovamento delle classi dirigenti, perché evitano la competizione per il consenso da cui scaturiscono modelli nuovi».

Corriere 5.6.12
«Ora una donna al Quirinale: Emma Bonino»
Luca Argentero, Sergio Castellitto, Alessandro Gassman, Remo Girone, Vinicio Marchionni, Filippo Nigro, Rocco Papaleo Claudio Santamaria, Emilio Solfrizzi, Gianmarco Tognazzi


Caro direttore,
le scriviamo in seguito alla recente dichiarazione del nostro amato presidente della Repubblica che auspica l'avvento al Quirinale, per il mandato successivo al suo, di una donna. Con grande tempismo e solita lungimiranza, il sito internet del Corriere della Sera ha condiviso con i propri lettori un sondaggio che proponeva al Paese di esprimersi per dare un volto e un nome alla personalità politica più adatta, a ricoprire, quel prestigioso ruolo. Non troppo sorprendentemente, gli ormai «maturi» e ben intenzionati lettori hanno scelto, in maniera forte e decisa, la vicepresidente del Senato Emma Bonino! Accadde la stessa cosa nel 1999 quando i migliori sondaggi vedevano Emma Bonino raggiungere il 76% di gradimento degli italiani, che riconoscevano il suo lungo ed inesauribile impegno politico e il profilo alto e internazionale, perfetto per rappresentare l'immagine della nostra gente nel mondo. Una piccola, grande donna, amante del diritto e indiscussa paladina dei diritti civili, che per le sue capacità ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo. Il Parlamento le preferì l'illustre Carlo Azeglio Ciampi, disattendendo ancora una volta il desiderio dei cittadini che avevano vissuto la campagna di «Emma for President» con grande speranza e dedizione. Difficile non pensare che se fosse per i cittadini, Emma sarebbe già da un pezzo presidente del Consiglio (e non solo della Repubblica) e su questa bellissima opportunità noi italiani dovremmo tutti riflettere, a partire dalla diretta interessata. Proprio in questo particolare momento storico, dove tutti siamo alla ricerca di etica, trasparenza e legalità, in poche parole buona politica! Sarebbe bello e rivoluzionario che, dopo tutte le vicende politiche che hanno attraversato gli ultimi 20 (forse 60?) anni della nostra storia, lasciando questo Paese sempre più fragile e in balia di se stesso, la politica cominciasse a intercettare e soprattutto rispettare questa grande voglia di partecipazione. Certo noi artisti possiamo fare poco. Forse, a volte, alcuni di noi sono, o sono stati, pigri e magari a ragion veduta, visti i risultati di innumerevoli fallimenti politici e di pseudo democrazia, poco interessati alle sorti del Paese. Questa volta, invece, vogliamo dare questo nostro piccolo contributo alla causa. Un messaggio al Parlamento, al Governo, alle forze politiche in campo, non abbiamo bisogno di rivolgerci all'Italia, che ha già parlato attraverso i sondaggi e che non perde occasione di manifestare il suo affetto a una donna che ci rende orgogliosi di essere italiani nel mondo! Queste dieci firme, di artisti emergenti e non, messe insieme in poco tempo ma con grandissimo entusiasmo da parte di tutti noi, sono sicuramente una piccola rappresentanza di «uomini che amano le donne» e ne riconoscono gli immensi meriti. La candidatura di Emma Bonino presidente non è solo un cambiamento «di genere» ma è ripristino di meritocrazia e di distanza da giochi di Palazzo e interessi di partito. È un grande e coraggioso passo avanti verso la riconciliazione tra eletti ed elettori.

Corriere 5.6.12
Se lo sport non salva dal male oscuro
I casi di Alessio e Giulia. Gli allenamenti, le endorfine e i suicidi
di Elvira Serra


Adesso si cercano le anomalie. Per capire dove e quando si è inceppato il meccanismo perfetto della vita un ventiquattrenne pieno di salute, «lo straniero» dell'Ambra di Poggio a Caiano, la sua squadra di pallamano, insomma quello che faceva la differenza, anche nella Nazionale alla quale era diretto la notte in cui si è ucciso alla stazione di Bologna. Alessio Bisori ha spiazzato tutti, la mamma Mirella, il babbo Leonardo, la fidanzata Laure, amici, compagni, allenatori che ripetono, uguali e increduli: «No, non lui. Era solare, amava scherzare».
Le anomalie. Beppe Tedesco da 48 ore non pensa ad altro. È il coach del Bologna United, dove Alessio ha giocato per quattro anni, fino alla scorsa stagione. Questa è la prima: «Ha scelto Bologna per farla finita, non può essere senza significato. Lui da qui voleva partire per altri lidi, aveva grandi ambizioni. Non voleva tornare a giocare a casa, a Prato. Ma ha sbagliato, era giovanissimo, avrebbe avuto altre opportunità». La seconda: «Da sette giorni non rispondeva al telefono agli amici più stretti, ma non ci siamo preoccupati perché era a casa dai genitori e c'era pure la fidanzata». La terza anomalia: «La lucidità spietata con cui ha deciso di raggiungere la Nazionale a Fasano non in aereo, ma in treno. Si è prenotato una stanza qui in città e ci ha lasciato le sue cose». La quarta: «Quando ci siamo allenati insieme, dieci giorni fa, si era lasciato scappare: "Non so dove giocherò il prossimo anno, non so cosa farò". Ma è abbastanza normale nel nostro settore che la campagna acquisti a inizio estate non sia fatta».
La verità è che Beppe Tedesco si deve arrendere all'unica cosa certa: «Non ho capito. Non siamo riusciti a vedere, né noi né quelli che gli stavano più vicino. E se è successo con lui, che non smetteva mai di scherzare, di prendere in giro i compagni, di manifestare l'affetto che nutriva e che voleva avere con abbracci infiniti, allora dobbiamo stare attentissimi a tutti gli altri».
Un'altra atleta, Giulia Albini. Aveva 30 anni. Era stata pallavolista di A2, ora faceva la fisioterapista in Svizzera, beach volley d'estate. Secondo la stampa turca si sarebbe gettata nel Bosforo, una settimana fa. Una versione che non ha convinto gli amici: troppo strano sparire così, raggiungere Istanbul da sola, senza avvisare nessuno. Anomalie, di nuovo.
Gli sportivi non dovrebbero essere l'espressione della parte più sana, più vitale, più energica della società? «Spesso si intende il mondo dello sport come privilegiato, ma è una comunità che ha le stesse dinamiche delle altre», prova a rispondere Giuseppe Vercelli, psicologo ufficiale del Coni per le Olimpiadi e docente a Torino. Come interpretare, allora, la scelta radicale di Alessio e Giulia? «Il suicidio è sempre legato a due cause. Una, la più frequente, è lo stato depressivo. L'altra è la sensazione di trovarsi in una situazione irrisolvibile: la morte diventa la soluzione definitiva a un problema temporaneo. Spesso, poi, chi ha interrotto l'attività agonistica non riesce a sostituire l'ex progetto sportivo».
Ma sono supposizioni, ipotesi, alibi per contenere l'ansia che questo gesto estremo produce. «L'attività fisica genera endorfine, con una conseguente sensazione di piacere. Tuttavia l'allenamento esasperato di un atleta di primo piano non ha necessariamente gli stessi risultati. E poi non dobbiamo dimenticare i sacrifici, pensiamo solo al dover lasciare la famiglia giovanissimi», sostiene il medico sportivo del Giro d'Italia Giovanni Tredici, professore alla Bicocca di Milano. E infine avverte: «La depressione non è affatto estranea mondo dello sport».
Ieri sera in Puglia la nazionale di pallamano si è allenata per il torneo di qualificazione agli Europei. Giocheranno a Bari da venerdì a domenica. Al raduno dovevano essere in venti, resteranno in diciannove. Dice il ct dell'Italia, Franco Chionchio: «Non ho chiamato nessuno per sostituire Alessio. Lui, per noi, è ancora qui».

il Fatto 5.6.12
Tutti i rischi che corre Giotto
di Chiara Frugoni


I rischi riguardanti la cappella Scrovegni sono almeno sei e in questo articolo affronterò solo i primi tre (il terzo in maniera incompleta): quanto influiscano sulla sua staticità le differenti fondamenta di abside e navata, con conseguenti crepe e fessure, la mancanza di messa in sicurezza sismica, l’allagamento della cripta. Rimangono da affrontare: la mancanza di sicurezza anti-attentati; la mancanza della messa a norma dell’impianto elettrico con le possibili conseguenze sugli affreschi, il dissesto che la costruzione in atto di due torri vicine alla cappella, con scavi profondi più di 30 metri potrebbe creare alla falda idrica che è in connessione con quella della cappella stessa.
Il terremoto che ha colpito e continua a colpire così duramente la regione emiliana non bada a confini geografici ed è giunto anche a Padova dove è crollato un pezzo di una vela della Basilica del Santo. Una toppa bianca spicca in mezzo al fondo blu decorato. Anche l’ala destra della chiesa è stata transennata. E la cappella Scrovegni? Le autorità il 30 maggio hanno assicurato che “la cappella è ok”, basandosi come sempre sul loro infallibile occhio o in alternativa, buon senso.
LA CAPPELLA, terminata nel 1305, era in origine saldamente integrata nel palazzo Scrovegni. Dopo l’abbattimento di quest’ultimo nel 1827, voluto dagli sciagurati ultimi proprietari, i nobili Gradenigo, per farne materiale edilizio, la cappella subì un primo dissesto, a cui concorse anche un ulteriore limite intrinseco all’edificio. La navata poggia infatti sulla cripta, che è ancorata sull’anfiteatro romano; l’abside, aggiunta dopo, poggia invece direttamente sul terreno. Abbattuto il palazzo, la cappella non più sostenuta dal palazzo, risentì delle differenti fondamenta. La crepa fra la navata e l’abside, segnalata fin dal 1835, ne è la prova. Per contrastare questa e altre crepe prodottesi nel tempo, nel 1967 si procedette a: sostituire “il tetto in legno con una nuova copertura in acciaio”, alla realizzazione di “un cordolo in cemento armato alla sommità delle pareti della navata” e alla sostituzione delle catene, spezzate e/o malandate. Così scrivevano nel 1998 il professore Claudio Modena e gli ingegneri Giovanni Lazzaro e Carlo Bettio dell’Università di Padova nel loro “Aggiornamento sulla statica della cappella degli Scrovegni”. Alla luce del terremoto di Assisi, dove proprio le capriate in cemento sostituite a quelle originarie in legno hanno provocato il tragico crollo delle vele, il rimedio dovrebbe indurre ad un riesame urgente della sua validità. Nel 1998 il prof. Modena posizionò sull’estradosso della volta 6 basi di misura per distanziometri, semplici apparecchi per misurare le variazioni di ampiezza delle fessure stesse ed eventuali scorrimenti. Fatte alcune prove il professore Modena concludeva per indicazioni in generale confortanti, “ma che lasciano aperti aspetti di dettaglio del comportamento statico che possono avere notevole importanza sulla conservazione degli intonaci affrescati, e che devono quindi essere approfonditi”. Quali furono gli approfondimenti? I distanziometri furono tolti e a tutt’oggi nessuno monitora le fessure e le crepe.
In assenza di qualsiasi altro strumento di valutazione del comportamento della cappella nei terremoti; in assenza di opere per la messa in sicurezza sismica della Cappella e di caratterizzazione sismica del sito, costerebbe poco il ripristino dei distanziometri e il loro sistematico controllo, che dovrebbero comunque coinvolgere l’intera cappella, cripta compresa.
LA CRIPTA, chiusa al pubblico, ha il pavimento – una gettata di cemento coperta di fango – costantemente invaso dall’acqua che emerge dalla falda sottostante. Per risolvere il problema del compromesso assetto idrogeologico è stato installato un rozzo vascone appoggiato alla parete ovest della cripta, all’interno del quale è collocata un’ulteriore vaschetta con due pompe che succhiano l’acqua in eccesso del pavimento. Attraverso un condotto la riversano nei condotti di smaltimento esterni, che comunque la rimettono nella falda in un giro senza sosta. I rigagnoli che scorrono sull’impiantito giungono a inumidire la base dei muri perimetrali con quale conseguenza sull’assetto strutturale della cappella, non si sa. O meglio, sempre le solite autorità dicono che non c’è alcuna conseguenza. Su quali dati? Mistero. Ma chi di noi, se avesse una casa il cui garage immediatamente sottostante fosse sempre allagato, starebbe tranquillo? Certo lo Scrovegni non aveva progettato di scender con gli stivali nella cripta dove nella volta si vedono le stelle dipinte da Giotto. È impossibile però apprezzare la bellezza della cripta perché sono rimasti in piedi i set-ti murari in mattoni che a intervalli ravvicinati, dovevano, durante l’ultima guerra, evitare che le onde d’urto delle bombe facessero crollare la cappella. (La Cappella era infatti segnalata sul tetto affinché i piloti dei bombardieri non la colpissero). Sempre il professor Modena nel 1998 scriveva che occorreva affrontare il problema dei “massicci setti murari presenti nella cripta, addossati alle pareti laterali e alle volte, e con esse ormai probabilmente interagenti”. Una possibilità molto pericolosa e che andrebbe esaminata nelle sue implicazioni. In questi giorni funzionari dell’Unesco stanno censendo i monumenti, sollecitati dal terremoto: a Padova trascureranno obbligatoriamente la cappella che a non è stata ancora dichiarata patrimonio dell’umanità: povero Giotto, che credeva di essere un grande pittore!

l’Unità 5.6.12
Ma quali zombie... In Usa non esistono
Agenzia federale in campo per dire «Nessun virus del cannibalismo»
Psicosi in America dopo alcuni casi di antropofagia Film e letteratura hanno spesso dedicato attenzione ai «morti viventi»: dal libro di Matheson alla pellicola di Romero
di Alberto Crespi


NEL LANCIO BATTUTO IERI DALL’ANSA DI NEW YORK CI SONO UNA NOTIZIA APPARENTE E UNA NOTIZIA REALE. Quella apparente è stata diffusa da un ente federale americano controllato dal ministero della Sanità, il «Center for Disease Control and Prevention» (alla lettera: centro per il controllo e la prevenzione delle malattie): non esiste un virus che provochi la condizione di zombie, quindi non è in corso nel Paese una «Zombie apocalypse» e nemmeno un’epidemia di antropofagia.
La notizia reale è quella che ha costretto il Cdcp a uscire allo scoperto: l’ultimo grido, negli Usa, sembra essere il cannibalismo. Tutto sarebbe cominciato una settimana fa a Miami, quando un tizio nudo ed evidentemente squilibrato ha assalito un senzatetto mangiandogli mezza faccia (l’assalitore è stato abbattuto dalla polizia, la vittima se l’è cavata ma rimarrà sfigurata). Martedì scorso, nel Maryland, uno studente di 21 anni ha ammesso di aver ucciso il proprio compagno di camera e di averne mangiato alcune parti del corpo. Sempre negli stessi giorni, in Canada, un ex attore porno avrebbe ucciso e divorato un giovane, per poi spedire pezzi della vittima per posta (l’agenzia non dice a chi, attenzione se ricevete pacchetti strani).
Di fronte a questa recrudescenza di agghiaccianti omicidi un ente federale si è sentito in dovere di rassicurare la popolazione: state tranquilli, è il messaggio, gli zombie non esistono. Un essere raziocinante risponderebbe: tante grazie, esistono i cannibali e quindi tanto tranquilli non si può stare. Ma evidentemente in America, quando si ragiona sull’influenza dei media sulla vita quotidiana e sulle coscienze delle persone, gli esseri raziocinanti non abbondano. Perché di questo si tratta: della percezione distorta che la società americana ha di simili crimini.
ANTICHI RITUALI TRIBALI
Partiamo dalle notizie. Sono episodi di cannibalismo. Avvengono da sempre. Il cannibalismo è per noi cittadini moderni e «civilizzati» un crimine abominevole, ma per certe culture del passato non lo era affatto. Era un rituale tribale e forse, chissà?, una forma di sussistenza. Come molti riti di un passato ancestrale, oggi risulta inaccettabile. Ma nessuno ha il diritto di essere moralista. Per i nostri civilissimi antenati che dominavano l’Europa fino a 1.500 anni fa gli antichi romani era prassi comune esibire i cadaveri smembrati dei nemici uccisi e assistere alla morte dei gladiatori negli stadi. Altri popoli ritenevano invece che divorare i nemici fosse un modo di impossessarsi della loro forza, quindi paradossalmente di onorarli.
Simili rituali vengono gradualmente rimossi dalla modernità, ma non scompaiono mai del tutto. Per comprendere la loro persistenza c’è una vastissima bibliografia, ma nessun libro è più utile di Uomolupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia di Robert Eisler, scritto nell’immediato dopoguerra ma tradotto in Italia (da Medusa) solo l’anno scorso. È un testo incredibile e inquietante, scritto non a caso da un uomo che aveva visto con i propri occhi gli orrori di Dachau e Buchenwald. Dopo averlo letto, non ci si Dopo averlo letto, non ci si stupisce più del fatto che di tanto in tanto le pulsioni sadiche e antropofaghe rifacciano capolino nelle psicologie meno strutturate.
I SERIAL KILLER DI LANG
Il fenomeno dei serial-killer (che molto spesso sono anche antropofagi) è diventato visibile in letteratura e al cinema solo dagli anni 30 in poi (il primo grande film su un serial-killer è M di Fritz Lang, 1931) ma è sempre esistito. L’America ne ha offerto un vasto campionario e Hannibal Lecter, il più celebre cannibale seriale del cinema, è solo l’ultimo arrivato.
Il fatto che alcuni casi di cronaca spingano il suddetto ente federale a puntualizzare che gli zombie non esistono è quindi bizzarro, ma non incomprensibile. La vera stranezza è il collegamento con gli zombie. Che non esistono, è ovvio, perché sono una fantasia che prende origine dai riti voodoo della cultura haitiana. Il primo film che parla di loro è L’isola degli zombies del 1932, con Bela Lugosi, che si svolge proprio ad Haiti: però vi si parla di morti apparenti, non di vere «resurrezioni». Il primo romanzo in cui invece i morti veri e propri tornano sulla terra è il celeberrimo Io sono leggenda di Richard Matheson, del 1954, al quale indirettamente si ispira l’altrettanto celebre film di George Romero, La notte dei morti viventi, del 1968. Da allora in poi, di zombie è piena la cultura pop: cinema, libri, fumetti. Il fenomeno non è paragonabile ad altri miti della tradizione horror: i vampiri e i licantropi sono come gli antropofagi, esistono anche se ovviamente non assomigliano per nulla ai propri corrispettivi hollywoodiani (e nel caso dei vampiri non sono né sexy né immortali). Diciamo, semplificando assai, che si tratta di comportamenti sessuali/criminali devianti che affondano le proprie radici nella notte dei tempi, quando l’uomo era ancora un «animale sociale» per il quale la magia, la stregoneria e l’occulto facevano parte della vita reale. Basta scorrere la mitologia greca tanto per rimanere in ambito occidentale per trovare, nascosti sotto l’apparenza del mito e della fiaba, tutti gli orrori in questione.
Gli zombie sono una versione postmoderna di queste mitologie: è come se la cultura pop, già ampiamente formata, sentisse l’esigenza di farsi mitopoietica, ovvero di costruire un mito «inedito» anziché di lavorare sull’eterno riciclaggio di miti antichi. Il problema, naturalmente, comincia quando il mito e la cronaca si confondono. La «rassicurazione» diffusa dal Cdcp sembra andare in questa direzione state tranquilli, gli zombie sono un’invenzione ma, analizzata con più calma, aumenta la confusione: affermare che l’ente «non è a conoscenza di un virus e di una condizione in grado di rianimare i morti o che esistano sintomi paragonabili a quelli degli zombie» somiglia pericolosamente a confessare che non si è ancora trovata una cura per il cancro, l’Aids o l’influenza aviaria. Che l’America abbia bisogno di sentirsi dire che l’antropofagia non è una malattia contagiosa è abbastanza sconcertante. Speriamo li becchino tutti, ’sti cannibali, prima che l’emulazione virus, quello sì, pericolosissimo si diffonda...

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