venerdì 8 giugno 2012

l’Unità 8.6.12
L’Anpi: no al presidenzialismo, difendiamo la Carta
di Alessandro Rubenni


«La chiamiamo festa, ma è una iniziativa politica. E per farla abbiamo scelto un luogo che parla da sé, con un concentrato simbolico fortissimo», annuncia il presidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Carlo Smuraglia. E di incontri e forum di carattere politico è ricco il programma della terza festa nazionale dell’Anpi, che quest’anno si svolgerà a Marzabotto dal 14 al 17 giugno. In quella terra di memoria dove in una settimana, nel ‘44, furono uccisi più di 700 civili, e dove da giovedì prossimo si attendono migliaia di persone, soprattutto tanti giovani, chiamati a raccolta intorno ai valori dell’antifascismo, della Costituzione e della democrazia.
«La memoria batte nel cuore del futuro» è infatti il titolo scelto come manifesto della festa, e non solo di questa. «Rafforzare la memoria insististe Carlo Smuraglia, che ieri a Roma ha presentato l’appuntamento insieme al sindaco di Marzabotto è un processo di grande attualità. La storia ci ha dimostrato come nelle fasi di crisi il distacco dalla politica possa sfociare nell’autoritarismo. Nei primi del Novecento fu la crisi economica e sociale a portare alle grandi dittature. E quello che sta succedendo oggi in Slovacchia, così come i rigurgiti neonazisti in Grecia, sono un campanello d’allarme».
Un tema, questo, che sarà al centro dell’appuntamento di Marzabotto con le iniziative organizzate per lanciare quella che l’Anpi vuole che diventi una grande campagna politica e culturale di contrasto ai rigurgiti di fascismo che si stanno manifestando anche nel nostro Paese. Questo insieme a una nuova riflessione su legalità e lotta alla mafia, affiancata alla richiesta di verità e giustizia per le vittime delle stragi nazifasciste in Italia. Con gli occhi puntati sull’udienza preliminare che si terrà il prossimo 15 giugno presso il tribunale militare di Roma per la strage di Cefalonia. Ben oltre 60 anni dopo.
«Migliaia di vittime ripete il presidente dell’Anpi non hanno ancora ottenuto giustizia, i procedimenti giudiziari sono stati bloccati dall’occultamento di documenti. Naturalmente è difficile pensare ormai che i risarcimenti possano essere individuali, ma noi continuiamo a chiediere giustizia e vorremmo che fossero utilizzati per progetti utili alla comunità, per corsi di formazione».
Ma la prossima quattro giorni (il programma è consultabile su www. festa.anpi.it) sarà anche l’occasione per parlare dei temi più attuali di politica interna. «Ultimamente in Parlamento c’è chi vuole il presidenzialismo e lo vuole far passare senza che nel Paese se ne parli o ci sia una vera discussione. A parte il fatto che in questo modo si sconvolgerebbe il nostro sistema, senza sapere bene come modificare i contrappesi costituzionali, ho l’impressione che più che altro questo sia un modo per non occuparsi della riforma elettorale. Noi non sentiamo l’esigenza del presidenzialismo, difendiamo l’architettura costruita attraverso la nostra Costituzione. Piuttosto occorre lavorare per cambiare il Porcellum», rilancia Smuraglia, che poi torna sulla data del 2 giugno e le polemiche annesse: «Parlamentari del Pdl propongono di accorpare la festività a quella del 25 aprile, ma è dimostrato come sia un luogo comune, usato in modo strumentale, dire che questo sarebbe utile all’economia. Mentre si tratta di festività sempre più sentite dalla gente».
Il sindaco di Marzabotto Romano Franchi, intanto, si prepara ad accogliere, dentro la festa, anche un incontro con diversi sindaci dei centri terremotati dell’Emilia.

l’Unità 8.6.12
Nel Pd è sfida sulle primarie aperte
Bersani: alle urne nel 2013 col patto dei riformisti
Alla direzione di oggi il segretario del Pd punterà sull’Europa
e sulla sfida al Pdl
Appello «per la ricostruzione» a progressisti e moderati Premiership? «Ci sono»
di Simone Collini


La proposta di un patto dei riformisti per la ricostruzione del Paese, un appello a forze moderate, movimenti, associazioni, personalità del mondo della cultura e dell’impresa a scrivere insieme l’agenda con cui andare alle elezioni del 2013. Ma questo, nell’intervento con cui oggi Pier Luigi Bersani aprirà la Direzione del Pd, arriverà dopo un ragionamento suI ruolo dell’Europa nella gestione della crisi, dopo aver ribadito la lealtà nei confronti del governo Monti, che deve però approvare subito le misure necessarie a far ripartire l’economia italiana, dopo aver risposto ad Angelino Alfano sulla possibilità di approvare entro i prossimi venti giorni una nuova legge elettorale. E in coda a tutto questo, e dopo aver anche ricordato che il Pd è «il perno» di ogni possibile alleanza di governo, arriverà la candidatura alla premiership, compresa l’apertura all’ipotesi di primarie aperte nel caso (auspicato) ci siano altri contendenti.
LEGGE ELETTORALE, SFIDA AL PDL
L’appuntamento di oggi, racconta chi ha letto l’intervento con cui il segretario aprirà il confronto col resto del gruppo dirigente del Pd, segnerà un importante punto di svolta. Perché Bersani lancerà un appello «largo» a forze progressiste ma anche moderate, a partiti ma anche associazioni, affinché stringano con i Democratici un «patto per la ricostruzione» che avrà come data di inizio la primavera 2013 e che dovrà poi essere mantenuto per l’intera prossima legislatura («che dovrà essere costituente»). Ma anche perché al di là dei ragionamenti sull’emergenza economica e su ciò che l’Europa e il nostro governo dovrebbero fare per superarla Bersani chiederà ai vertici del suo partito un mandato forte a verificare la possibilità di approvare entro le prossime tre settimane una nuova legge elettorale.
Il leader dei Democratici vuole rispondere ad Alfano, che ha proposto «un accordo» per superare il Porcellum «entro il terzo venerdì dalla Direzione del Pd». Bersani sottolineerà che ogni confronto dovrà avvenire in Parlamento, che il Pd è per il doppio turno di collegio ma è disponibile a discutere altri modelli di voto, purché siano fissati precisi paletti: che sia assicurata agli elettori la facoltà di scegliere i parlamentari e che sia garantita la governabilità.
Ma la sfida al Pdl sarà duplice, perché da troppo tempo vanno in scena veti, tatticismi, diversivi: è il caso della proposta di approvare una riforma istituzionale che introduca il semipresidenzialismo, a cui far seguire poi una riforma elettorale che porti al doppio turno. Per Bersani non si può però cambiare forma di governo attraverso un emendamento, non ci sono le condizioni per modificare una ventina di articoli della Costituzione in pochi mesi.
Se nei giorni scorsi un gruppetto di senatori Pd (Marco Follini, Giorgio Tonini, Enrico Morando, Umberto Ranieri) aveva proposto di confrontarsi con la proposta di Berlusconi, Bersani oggi chiederà ai vertici del partito un pronunciamento che ponga fine a una simile discussione prima ancora che il dibattito in Aula entri nel vivo.
Se superare il Porcellum è d’obbligo, sarebbe però per Bersani un errore impegnare il Parlamento in un dibattito che non approderebbe a niente (mentre una riforma in chiave semipresidenzialista potrebbe essere affrontata con profitto nella prossima legislatura) e che distoglierebbe l’attenzione dai problemi reali. L’Italia è tutt’altro che uscita dalla crisi, e sarà soprattutto su questo che il leader del Pd insisterà nell’intervento con cui oggi aprirà i lavori della Direzione.
IL RUOLO DELL’EUROPA E MONTI
Il ragionamento partirà dal ruolo che può e deve avere l’Europa nella gestione della crisi e si concentrerà sulle proposte avanzate dai progressisti europei (dagli Eurobond alla tassazione sulle transazioni finanziarie), sulla necessità di prendere decisioni vincolanti al vertice di Bruxelles di fine mese e su ciò che il nostro governo può fare per lavorare insieme agli altri partner e convincere chi, come la Germania, ancora mostra resistenze a correggere la rotta.
Allo stesso Monti oggi Bersani chiederà di accelerare sulle misure necessarie a far ripartire l’economia italiana (politiche industriali ma anche deroghe al patto di stabilità interna con i Comuni) e di fare bene attenzione a non prendere decisioni che rischierebbero di favorire anziché contrastare la recessione (l’ipotesi di un aumento dell’Iva non viene affatto visto di buon occhio dal leader del Pd, che teme un ulteriore calo dei consumi se in autunno dovesse essere adottata una simile misura).
Al governo guidato da Monti, però, Bersani ribadirà l’assoluta lealtà del Pd. Perché con Monti ha siglato un «patto» a cui non intende venir meno. Ma anche perché nei prossimi mesi, con i rischi che corre l’Euro e quel che sta attraversando l’Unione, in primis con i casi della Grecia e della Spagna, l’Italia ha bisogno di «stabilità» e sarebbe un grave errore «accendere altri fuochi».

l’Unità 8.6.12
Primarie, i dubbi e i sì «Ridiamo slancio al Pd»
La preoccupazione di «inchiodarsi»
per mesi. «Ma è una scelta coraggiosa, e anche una opportunità»
di Maria Zegarelli


«Ormai lo conosciamo bene, è fatto così. Ascolta tutti ma alla fine le decisioni le prende in solitaria», racconta un deputato mentre è in corso una riunione dei capigruppo sulla spinosissima questione del ddl anticorruzione. Pier Luigi Bersani, come anticipato da l’Unità, annuncerà le primarie di coalizione durante la direzione di oggi. Una decisione di cui ha parlato con tutti i dirigenti del Pd, l’ultimo incontro proprio ieri mattina con Rosy Bindi, il vice-segretario Enrico Letta e i capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro. Tutti gli hanno sconsigliato le primarie di partito, compreso Massimo D’Alema, perché è stato il ragionamento comune a molti questo significherebbe aprire un congresso e un dibattito tutto interno «che verrebbe vissuto come un’astrazione dalla realtà», come ha raccontato un parlamentare di Areadem. Senza considerare il rischio di lotte interne che porterebbero alle politiche un partito lacerato. In pista, infatti, non è detto che scenderebbe soltanto Matteo Renzi, nessuno potrebbe escludere, in quel caso, «il tana libera tutti».
LA STRADA OBBLIGATA
«A questo punto le primarie di coalizione sono una strada obbligata ma anche un’opportunità vera per coinvolgere movimenti, società civile e nuove energie attorno a quella che si presenta come l’unica alternativa di governo», spiega un bersaniano doc. E questa è anche stata la valutazione del segretario: aprire il partito per la formazione del programma, con l’appello alle forze civiche, agli intellettuali, ai movimenti, ma anche con una consultazione vera per la premiership, «mettendoci la faccia», non nascondendosi dietro una norma statutaria e puntando ad una piena legittimazione.
Arturo Parisi, non si sbilancia, chiede se questo voglia dire aver rinunciato alla riforma della legge elettorale: «Voglio ascoltare con attenzione cosa dirà in direzione perché voglio capire quale è il percorso che immagina ma è chiaro che se sono di coalizione sono contento». Accanto a lui Nichi Vendola si informa: «Parlerà di primarie di coalizione? Bene, benissimo». Anche perché Sel in caso contrario le avrebbe comunque lanciate a prescindere dal Pd, fanno sapere i suoi.
Per D’Alema se ci sono primarie di coalizione il Pd il suo candidato lo ha già ed è Bersani, ma l’unica dichiarazione che concede è per smentire un suo colloquio con un giornalista di un quotidiano secondo il quale era contrario alla chiamata ai gazebo.
Il tema è bollente tra i democrat in Transatlantico. «Facciamo le primarie? Ok, facciamole, vince Bersani, ma se Renzi prende il 30% poi quando si fanno le liste come ci regoliamo?», ragiona un onorevole al telefono senza rendersi conto dei taccuini aperti dei cronisti dando corpo al fantasma che aleggia nei pensieri di quanti vivono come un incubo l’eventualità anche soltanto di una buona affermazione di Renzi. Che cosa farà il sindaco fiorentino, come si piazzerà, quanto bisogna temerlo, soprattutto dopo l’assist di Confindustria? Bersani il problema sembra non porselo, ma di sicuro questa accelerazione nasce anche dal fatto che non aveva alcuna intenzione di dover rincorrere il rottamatore sulle primarie. E se lo Statuto prevede che il segretario Pd sia il candidato alla premiership nelle consultazioni di coalizione Bersani intende non appellarsi alla norma statutaria, «saranno comunque aperte a chiunque intende candidarsi», ha ripetuto durante gli incontri riservati di questi giorni.
«Le anticipazioni di Bersani sono molto coraggiose», commenta Ettore Rosato. «Con Bersani ne ho parlato più volte racconta Fioroni gli ho detto che devono essere primarie di area progressista, anche perché adesso non possiamo definirle in altro modo dal momento che la coalizione ancora non c’è». Ma Fioroni si aspetta di sentire soprattutto altro oggi: «Spero che cisipongaladomanda-ecisiadiala risposta su cosa deve fare il governo da qui ad aprile perché ci sono delle scelte politiche che vanno fatte. Ma non possiamo neanche giocare sul semipresidenzialismo: il rischio è che alla fine al Pd resta in mano il cerino della legge elettorale. È importante anche su questo avere una posizione e decidere, ad esempio, che se il Pdl bloccherà la riforma del Porcellum, ci si batterà per reintrodurre almeno le preferenze».
IL PROFILO RIFORMISTA
Walter Verini si sofferma poco sulle primarie, «sono sempre positive e se le facciamo devono essere aperte, molto aperte», ma quello che gli sta a cuore è il progetto politico e il profilo riformista del suo partito. «Intanto dobbiamo discutere di come rafforzare l’azione del governo Monti e di come condurre in porto la legislatura dice, ma spero che si parli molto di Italia, che si lanci un appello a tutti i riformisti del Paese affinché con il Pd si possa costruire un programma di governo candidando proprio il nostro partito a guidare il cambiamento del Paese, compresa la radicale riforma della politica».
«Non ho mai nutrito particolare passione per le primarie ma le ritengono strumento utile. Però se le dobbiamo fare le facciamo una volta, dice l’ex ministro Cesare Damiano quando si capisce quale sarà la legge elettorale e si delineerà il quadro le alleanze. Ma ogni partito deve indicare non più di un candidato». Secondo Damiano sarebbe come sparare con un’arma spuntata se il Pd arriva alle primarie di coalizione con più candidati.
Circola già una data, il 14 ottobre, la fibrillazione è altissima, non tutti hanno gradito la notizia, c’è chi dice che adesso inizia «il suicidio assistito perché da qui ad allora non si parlerà d’altro che di Renzi, Vendola e primarie, mentre il Paese sta andando a fondo».

l’Unità 8.6.12
Stavolta Renzi sarà in direzione: «Pronto a lanciare la sfida»
di Osvaldo Sabato


Il sindaco di Firenze preferirebbe le primarie di partito ma accetterà anche quelle allargate per non dare segni di debolezza Intanto prepara la squadra
Vedere Matteo Renzi alla direzione nazionale del Pd è un evento raro, non è proprio un habituè (con quella di oggi è la terza volta che ci va da quando è sindaco di Firenze). Ma quella odierna ha un peso particolare, perché il segretario nazionale Pier Luigi Bersani dovrebbe annunciare le primarie a metà ottobre, non è ancora chiaro se saranno di partito o di coalizione, ma per Renzi che negli ultimi mesi ha martellato il partito con una forsennata campagna mediatica sulla necessità di farle per la scelta del candidato premier è sicuramente un‘occasione da non perdere. E non la perderà, anche se ritiene che il posto giusto per il lancio delle primarie è l’assemblea nazionale di luglio.
In ogni caso lui oggi sarà a Roma e a differenza delle altre volte non sarà il convitato di pietra. Ci sarà, ma non parlerà, ascolterà le parole di Bersani e poi trarrà le sue conclusioni. Le primarie? «Le faccio solo se sono vere» ha ribadito l’altra sera a Roma stuzzicato dalle domande di Enrico Mentana durante la presentazione del suo ultimo libro “Stil novo”. «Le primarie migliori sono quelle del Pd, ma vanno anche bene quelle versione foto di Vasto. Decida Bersani» aveva aggiunto Renzi. Anche se per il sindaco rottamatore «quelle vere sono quelle di Milano e Firenze. Non quelle dove si sa già chi vince».
Renzi non lo dirà mai, facendolo darebbe un segnale di debolezza, ma lui preferirebbe le primarie di partito perché è convinto di giocarsi meglio le sue carte anche se non potrà contare sull’appoggio del presidente toscano Enrico Rossi «sono disciplinato, sto con Bersani». Chi non la pensa allo stesso modo è il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e lo ha fatto capire lui stesso benedicendo Renzi: «Se io fossi a Firenze voterei per lei» gli ha detto durante l’assemblea degli industriali fiorentini.
Chissà cosa avrà pensato la segretaria della Cgil Susanna Camusso, spesso in polemica con «il sindaco che la destra ci invidia» come recitava uno striscione sotto Palazzo Vecchio, apparso durante un corteo del sindacato nel settembre 2011. Quello slogan è stato poi stampato su oltre 200 magliette ed è diventato un account su Facebook.
«Che fai, se vinci le primarie ti dimetti da sindaco?» lo pungola Mentana «manco morto» risponde Renzi, che in silenzio però sta lavorando alla macchina organizzativa della sua campagna elettorale. Chi scalpita è l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori. Sarà lui insieme all’ex assessore Giuliano Da Empoli uno dei pezzi forti del motore di Renzi. Chissà se l’altro ieri a Roma prendendo un aperitivo con due dei protagonisti del «Big Bang» Gori e il vicepresidente di Mtv Antonio Campo Dall’Orto, Renzi, abbia iniziato a mettere a punto la sua campagna per le primarie. Indiscrezioni di stampa raccontano di un data-base già pronto con 50mila nomi da contattare e per battere Bersani punta a 1,7 milioni di preferenze da catturare attraverso dei mini comitati sparsi in tutta Italia nei comuni sopra i 15 mila abitanti. Lui è pronto e i suoi due libri hanno fatto da viatico girando in lungo e in largo la penisola. Anche così si conquistano consensi.

l’Unità 8.6.12
Salvatore Vassallo: «Il sindaco di Firenze? Solo se cambia lo statuto»
di Andrea Carugati


«Per consentire ad altri esponenti Pd oltre al segretario di partecipare alle primarie di coalizione occorre una deroga da approvare in assemblea»

Primarie di partito o di coalizione? Secondo Salvatore Vassallo, deputato e tra i padri dello statuto Pd, per decidere occorre partire dallo statuto vigente, e riflettere su «eventuali modifiche o deroghe da votare all’assemblea nazionale». Perché, ad oggi, un dato è chiaro: «Secondo lo statuto vigente, in caso di primarie di coalizione per il candidato premier, non ci possono essere altri candidati Pd oltre al segretario».
Dunque, contro Vendola, potrebbe correre solo Bersani e non, eventualmente, Matteo Renzi?
«Certamente, Bersani potrebbe candidarsi in quanto segretario in carica e vincitore delle primarie del 2009. E nessun’altro».
Che fare per consentire a Renzi, o altri, di partecipare?
«Serve una modifica allo statuto o una deroga, da votare in assemblea con un quorum prestabilito, che è la maggioranza assoluta dei 1000 delegati».
Se passasse la deroga, quanti iscritti Pd potrebbero partecipare?
«Bisogna ragionare seriamente su questo punto, per evitare una proliferazione di candidati del Pd. Nelle primarie locali ci sono dei quorum da raggiungere. Faccio un esempio: per i sindaci, gli aspiranti devono raccogliere il 35% delle firme dei delegati all’assemblea comunale del Pd, oppure il 20% degli iscritti di quel territorio».
Dunque Renzi dovrebbe raccogliere le firme del 35% dei delegati all’assemblea nazionale del Pd o il 20% degli iscritti? «Sono soglie molto alte su base nazionale. Diciamo che si potrebbero abbassare. Ma il principio resta valido».
E in caso di primarie di partito?
«Sono già regolate, perché si tratterebbe di un congresso anticipato. Il congresso Pd si articola su due livelli: prima il voto degli iscritti, poi il passaggio delle primarie. Al secondo turno, come è accaduto nel 2009, passano i primi tre arrivati, purché abbiamo superato il 5% nei voti degli iscritti, e comunque tutti i candidati che superano il 15%».
Un meccanismo un po’ farraginoso...
«Quando elaborammo lo statuto si era ragionato molto sull’ipotesi di ammettere al secondo turno solo i primi due. Forse è opportuno riaprire la discussione». Meglio primarie di partito o di coalizione? «Da un punto di vista formale Bersani ha piena legittimazione sia per fare il candidato premier, nel caso in cui il Pd corresse da solo o decidesse di scegliere i propri alleati dando per scontata la propria leadership, sia per correre come candidato unico alle primarie di coalizione. Ma, visto che la sua elezione risale al 2009, può decidere che quella legittimazione deve essere rilanciata da una nuova investitura popolare. Qui si pone una scelta tutta politica: rifare il congresso significa rilanciare la vocazione maggioritaria, scegliere la strategia e le alleanze del Pd dentro il congresso e un candidato che interpreti la linea più votata. Viceversa, le primarie di coalizione presuppongono che la scelta delle alleanze sia fatta prima. È chiaro che il nostro statuto è stato scritto in una fase in cui era forte la vocazione maggioritaria, per questo si decise di far coincidere il leader con il candidato premier».
È possibile fare prima le primarie del Pd e poi quelle di coalizione?
«Da un punto di vista formale sì, ma mi pare un percorso molto accidentato, probabilmente insostenibile. Sarebbe più opportuno fare una scelta tra i due modelli, consapevoli che hanno entrambi pregi e difetti, e che si tratta anche di una scelta su che tipo di Pd vogliamo».

l’Unità 8.6.12
Stefano Bonaccini: «I gazebo? Prima si decida che Italia che vogliamo»
di A.C.


Il segretario del Pd emiliano: «Sì al tetto dei tre mandati, bisogna rinnovare. Se resta il Porcellum noi faremo primarie per gli onorevoli»

«Primarie per i parlamentari se resta il Porcellum, tetto di tre mandati per deputati e senatori, con pochissime eccezioni, no alle liste civiche». Stefano Bonaccini, segretario del Pd dell’Emilia Romagna, modenese, in queste ore è impegnato con l’emergenza terremoto e la visita del presidente Napolitano. «Da questi territori, dai nostri sindaci, arriva un esempio di dedizione, una spinta morale ed etica, un contributo di fiducia di cui tutta l’Italia ha bisogno», spiega. Oggi sarà alla direzione del Pd di Roma.
Dunque sceglierete le primarie...
«Prima di tutto mi interessa capire quale proposta Bersani farà rispetto all’idea di Paese che vogliamo mettere in campo. In questi anni abbiamo parlato troppo spesso di nomi e cognomi e troppo poco di cose e di idee. Nella confusione dei nomi, abbiamo rischiato di non rendere chiara la nostra proposta. Mi aspetto che Bersani parli di una nuova Italia, che ridia speranza alle troppe famiglie e imprese che non ce la fanno più, in una nuova Europa, unita anche nelle politiche fiscali e concentrata sulla crescita».
Dalla sua terra arrivano sostegni alla proposta di Fassina sulle elezioni anticipate. «Ho moltissima stima di Stefano, ma non avrei usato quelle parole. Abbiamo sostenuto Monti dicendo “prima di tutto l’Italia”, ora non dobbiamo dare l’impressione di voler mandare a casa il governo. Piuttosto, lavoriamo pancia a terra per costruire proposte utili al Paese, come la nuova legge elettorale e le riforme istituzionali. Il Pd deve avere su questi temi la stessa forza che abbiamo avuto sull’articolo 18: imporre l’agenda e pretendere che, a un certo punto, gli italiani capiscano chiaramentechièafavoreechino».
Quale legge elettorale?
«Il doppio turno alla francese sarebbe lo strumento migliore, ma temo che con questo Pdl non otterremo grandi risultati. Qui in Emilia-Romagna la direzione ha approvato la proposta di primarie per i parlamentari: oggi, per rispondere alla crisi della politica, è necessario mettere la scelta nelle mani di migliaia di nostri elettori».
Primarie di partito o di coalizione per il candidato premier?
«Ripeto: da Bersani mi aspetto che indichi quale Italia vuole e un appello alle forze migliori della società. A quel punto si possono anche fare per le primarie. Di coalizione? Benissimo, ma prima va chiarito il nostro progetto per il Paese, attorno a cui individuare gli alleati possibili. In questa fase non mi interessano le foto, di Vasto o meno, ma il progetto del Pd».
Ritiene utile la nascita di liste civiche alleate col Pd?
«È il Pd che, in nome del rinnovamento, deve aprire porte e finestre alla società, alle forze intellettuali, al mondo del lavoro. La lista del Pd deve diventare il perno di un nuovo centrosinistra, aperto a tutti coloro, partiti e movimenti, che vogliono prendersi l’impegno di ricostruire l’Italia lontano da ogni populismo».
È giusto rispettare rigorosamente il tetto dei tre mandati per i parlamentari? In Emilia intendete farlo?
«Lo statuto prevede tre mandati. Oggi c’è bisogno di un profondo rinnovamento delle classi dirigenti, e non è una questione solo anagrafica. Per questo credo che rispettare quel limite sia cosa buona e giusta. Poi qualche singola deroga si può accettare, ma solo se non diventa la norma».

l’Unità 8.6.12
Costruire subito un nuovo centro-sinistra
di Lanfranco Turci e Fabio Vander


LE DIFFICOLTÀ IN CUI VERSANO LA SINISTRA E IL CENTRO-SINISTRA IN ITALIA E IN EUROPA VENGONO DA LONTANO. Hanno investito i fondamentali delle nostre politiche. A partire dalla democrazia, con la quale il capitalismo pure aveva dovuto trovare un compromesso durante tutto il «secolo socialdemocratico». Ma anche il lavoro che, in Occidente, grazie ai partiti e alle organizzazioni del movimento operaio aveva avuto la possibilità di organizzarsi, guadagnare diritti e tutele, accedere anche a responsabilità di governo gestendo Paesi e anche interi cicli politici, è oggi marginalizzato e subordinato alla logica del profitto.
Quanto all’Europa, il processo di unificazione, nato dagli ideali di pace e giustizia del Manifesto di Ventotene, ha oggi un profilo politico e istituzionale esclusivamente improntato ai dogmi liberisti, al primato dell’economia sulla politica. Basti pensare ai vincoli al deficit e al debito pubblico dei singoli stati, alle privatizzazioni e liberalizzazioni, alla riduzione del ruolo dello Stato, ecc. Solo un riorientamento in direzione antiliberista, come quello in corso da alcuni anni in diversi partiti socialisti europei, può avviare un’inversione di tendenza. La vittoria di Hollande è di buon auspicio, ma i riflessi in Italia tardano a manifestarsi. Anche i problemi politici del centro-sinistra hanno una storia. Nel 2008 ci siamo trovati di fronte ad un fallimento triplice: della sinistra radicale (Sinistra Arcobaleno), del partito unico di centro-sinistra (Pd), del centro-sinistra come coalizione (Ulivo) e come esperienza di governo.
Col risultato che per il dopo Berlusconi non abbiamo avuto soluzioni in termini di alternativa di governo, di coalizione, di programmi, di classe politica. Altrimenti si sarebbe potuto votare nel dicembre scorso e oggi avremmo un governo politico, investito democraticamente. In una democrazia che funziona, alle crisi politiche si risponde con la politica. Non con la «tecnica». Del resto anche fenomeni come gli «indignados», Alba o il «grillismo» sono la spia di un problema, non certo la soluzione. Come un errore è scambiare per «questione morale» quello che invece è questione politica, illudendosi di risolvere il problema tagliando un po’ di fondi ai partiti, qualche manciata di parlamentari ed elucubrando di «lista civica nazionale», di lista-Fiom e partito «di Repubblica». Bisogna costruire le condizioni di una alternativa di cultura politica e di modello di sviluppo. Non partiamo da zero. I capisaldi di una politica alternativa alla crisi, e alle politiche distruttive che la Germania e le destre stanno imponendo in Europa, sono noti: intervento attivo della Bce sui debiti sovrani e politica monetaria più espansiva, rilancio della domanda europea, a cominciare dalla Germania, project bond, comuni politiche europee fiscali, di welfare e di standard salariali, politiche industriali nazionali mirate all’ambiente e alle energie rinnovabili. Il tutto all’interno di una svolta nella costruzione di una Europa federale. Ma i nostri partiti sono all’altezza dei compiti? Pare a noi che il Pd non dovrebbe considerare l’appoggio al declinante governo Monti un alibi per non chiarire la sua prospettiva né tanto meno considerarlo la via per riqualificare la sua proposta politica.
Non minori le difficoltà della sinistra. Tutte le condizioni del Congresso di Sel del 2010 (le primarie da affrontare con il vento in poppa, la crisi del Pd del dopo-Veltroni, i sondaggi favorevoli, ecc.) sono venute meno. Noi continuiamo a pensare che la prospettiva della sinistra italiana dovrebbe essere la costituzione di un grande partito popolare, unitario, collegato al socialismo europeo, attraverso un processo di scomposizione e ricomposizione dei partiti esistenti, in cui un ruolo importante dovrebbe essere giocato da Sel e dall’area a vocazione socialista del Pd. Intanto però bisogna impegnarsi a costruire la «seconda gamba» del centro-sinistra, così da andare con il Pd, auspicando che in esso non prevalgano tentazioni centriste, ad un rapporto di concorrenza virtuosa a tutto vantaggio delle prospettive di vittoria del centro-sinistra. La recente proposta di Vendola di «Stati generali della Sinistra» può essere interessante, ma se intesa non come modo di pressione sul Pd, ma come proposizione di una sinistra nuova, unitaria e plurale. Vendola ha dichiarato recentemente che il programma di Hollande è il suo programma. Bene cominci a darvi seguito portando Sel a rafforzare l’ala sinistra del Pse! Alle prossime elezioni politiche sarà indispensabile un nuovo centro-sinistra da costruire subito e da presentare subito di fronte al Paese: come coalizione, come programma, come nuova classe dirigente.

il Fatto 8.6.12
Il momento della verità
di Paolo Flores d’Arcais


Oggi si riunisce la direzione del Pd. Domani, su iniziativa della Fiom e di fronte ai quadri sindacali di fabbrica, Bersani, Di Pietro, Vendola, e la società civile di “Libertà e Giustizia”, “Beni Comuni”, “Alba”, MicroMega, ecc., incroceranno gli argomenti su come dare rappresentanza parlamentare a chi oggi ne è privo, i lavoratori e il Terzo Stato. In altri termini, in due giorni, tutte le forze che si dichiarano (più o meno) di sinistra dovranno dare una risposta alle più urgenti e ineludibili questioni politiche. Perché anche traccheggiare o praticare lo slalom in stile doroteo costituirà una risposta: la peggiore.
Sembra che Bersani voglia proporre le primarie a ottobre (anche se D’Alema è contrario). Ma primarie di partito, cioè primarie fantoccio. Una miserabile resa dei conti tutta interna alla nomenklatura Pd, tra lui e il giovane/vecchio Renzi, in sostanza. Lo specchietto per le allodole potrebbe chiamarsi “primarie di partito aperte”. Un modo per evitare le primarie vere, di coalizione, in cui candidati dei partiti e della società civile si scontrerebbero ad armi pari, sotto il controllo di un comitato di garanti indipendente (come proposto dal prodiano Parisi e dal numero due della Fiom Airaudo).
Di Pietro e Vendola si piegheranno? O sulle primarie vere di coalizione porranno l’ultimatum, e se non le otterranno romperanno col Pd? Il tempo dei compromessi è finito, infatti. Le prossime elezioni le vince chi conquista la piazzaforte strategica dell’“antipolitica” (in realtà è così da Mani Pulite in avanti), l’establishment sta preparando le sue variegate destre camuffate, a sinistra siamo alla morta gora. L’immonda partecipazione Pd alla spartizione delle “autorities” indipendenti (sic!) ha regalato a Grillo e all’astensionismo qualche altro milione di voti.
Solo la Fiom ha ormai l’autorità morale per porre fine al cupio dissolvi della sinistra. Un sindacato ha il diritto di fare politica, fa politica la Confindustria, la fanno i banchieri, giustificarsi vorrebbe dire avere ingiustificabili complessi nei confronti di “lorsignori”. Ma oggi un sindacato come la Fiom, che battendosi per i diritti degli operai in fabbrica contro la tenaglia Marchionne/Berlusconi ha difeso i diritti costituzionali di tutti i cittadini, ha addirittura il dovere e il potere di fare politica. Esattamente come le Unions inglesi che un secolo e mezzo fa diedero vita al Labour Party. Rappresentando l’intero Terzo Stato, i suoi movimenti di lotta e di opinione. A meno di non pensare che Grillo (o in alternativa Monti) sia la soluzione.

il Fatto 8.6.12
Primarie e “mandati”. Non c’è pace per Bersani
Oggi la direzione nazionale del partito
E dopo tanti caminetti questra volta è a porete aperte
di Wanda Marra


Nello staff del segretario quella di oggi la presentano come la direzione della “svolta” per il paese. Espressione enfatica per presentare il fatto che Bersani si candiderà ufficialmente a premier: sono giorni, infatti, che lo annuncia, anche per disinnescare l’outing di Fassina e Orfini, i giovani della segreteria che hanno chiesto il voto a ottobre.
La vera svolta, però, sarà il fatto che per la prima volta da tempo immemore, i giornalisti potranno seguire il dibattito. Seppure non direttamente, ma da una tv a circuito chiuso. Questa volta il segretario vuole evitare che ci siano veline, fughe di notizie, retroscena. Bersani dunque annuncerà le primarie, anche se ancora non ha scoperto tutte le carte: saranno di coalizione? Sembra questa l’intenzione. E per di più il segretario non sarebbe intenzionato ad attaccarsi allo Statuto per impedire la partecipazione di altri membri del partito. A cominciare da Matteo Renzi che sono mesi che le chiede, ma che ieri ha fatto sapere che non parlerà in direzione (“Mi candido solo se sono vere”, ha dichiarato, riservandosi l’annuncio solenne in una situazione per lui mediaticamente più conveniente). In una riunione di ieri mattina tra Bersani, Rosy Bindi, Enrico Letta e Dario Franceschini la questione non è andata liscia: c’è chi pensa che primarie aperte siano troppo rischiose. E in effetti, come dargli torto visto come’è andata a Genova (con le due piddine detronizzate da Marco Doria) e a Palermo (dove sono finite tra brogli, accuse e la sconfitta di Rita Borsellino, candidata di Bersani)?
LA DECISIONE FINALE potrebbe essere rimandata all’Assemblea del 6 luglio. Un travaglio che potrebbe rivelarsi inutile se alla fine il potere di Monti si rivelerà così debole da andare ad elezioni anticipate. Le primarie vere incutono timore, perché spostano gli equilibri di potere interno. E non sono l’unico incubo. Pippo Civati, rottamatore prima con Renzi e ora in proprio, è intenzionato a ripresentare un ordine del giorno in cui chiede tre cose: primarie per il leader, primarie per i parlamentari e rispetto del limite dei 3 mandati parlamentari. Quel limite che lo Statuto prevede nero su bianco ma continuamente disatteso tra deroghe ed eccezioni. In tutto, sono 35 gli onorevoli Pd fuori statuto, ai quali andrebbero aggiunti altri 59 non ricandidabili, in quanto stanno svolgendo il loro terzo mandato. Il record, con ben 7 legislature, ce l’hanno Massimo D’Alema, Anna Finocchiaro e Livia Turco. Bontà sua, il Lìder Maximo avrebbe fatto sapere (come scriveva ieri il Corriere della Sera) di non essere intenzionato a ricandidarsi, volendo dare così prova della sua personale spinta al rinnovamento. Alla buonora. Fuori statuto, i big sono molti: con 6 legislature troviamo Franco Marini, Walter Veltroni, Anna Serafini (moglie di Piero Fassino), Giovanna Melandri. Con 5, ci sono, tra gli altri, Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti e pure Antonello Soro, fresco di nomina all’Authority per la privacy. A quota 4 sono in 21, tra cui Beppe Fioroni e Arturo Parisi. Tra i 59 che in teoria dovrebbero essere all’ultimo mandato c’è lo stesso Bersani, e poi Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Enrico Letta. “Sono due anni che presentiamo questo ordine del giorno a ogni assemblea di partito. E se non si vota in direzione, sono disposto ad accettare che si faccia alla prossima Assemblea, il 6 luglio. Ma sono tutti punti irrinunciabili”. Altrimenti? Liberi tutti. Ovvero la lista civica (che oggi Bersani pare intenzionato a ribadire in direzione, nonostante l’anatema di D’Alema che le ha accusate di “impoverire la democrazia”) “potrebbero votarla anche i miei parenti”, ha detto Civati.

La Stampa 8.6.12
Democratici verso il 2013
Primarie aperte Così Bersani sfida i “rottamatori”
Il segretario in campo, ci saranno Renzi e Vendola
di Carlo Bertini


ROMA Dopo uno psicodramma durato tre giorni tra i peones turbati dalla prospettiva di un congresso anticipato; e dopo una serie di vertici con i big, Bindi, Letta, D’Alema, Franceschini, lo stato maggiore del Pd sigla un patto faticoso con Bersani. Sempre più determinato a uscire dal recinto di un partito bersagliato come i suoi avversari dai colpi dell’antipolitica: la sfida che il segretario lancerà oggi in Direzione dunque sarà quella di candidarsi alla premiership, ma senza mettere in gioco i delicati equilibri di partito. Con un discorso «inclusivo», darà l’ok alle primarie senza indicare date e non limitate al Pd, bensì aperte a coloro che accetteranno un patto programmatico. Non solo a Renzi o a Vendola, ma anche «a chi manifesta la sua rabbia verso di noi, aprendo così porte e finestre e mettendosi in gioco con coraggio», spiega un dirigente Pd. Fedele al mantra «dobbiamo dimostrare che sappiamo assicurare la governabilità», Bersani lancerà la proposta di un patto per la ricostruzione del paese a progressisti, riformisti e moderati, a movimenti e liste civiche; che non esclude come base la foto di Vasto, da allargare però il più possibile ad altri innesti. E tra le opzioni valutate in questi giorni, ascrivibile al rango delle “tentazioni” (ma smentita dagli uomini del segretario), ci sarebbe pure quella di un Pd a vocazione maggioritaria apparentato con una grande lista civica nazionale; un assetto in grado di attrarre nella rete magari anche Casini, che risulterebbe molto più gradito a tutti i liberal e veltroniani ansiosi di liberarsi dalla morsa Vendola-Di Pietro.
Ma sono tutte ipotesi campate per aria fino a quando non si saprà se si andrà a votare o meno col porcellum: per decidere assetti e alleanze sarà fondamentale la variabile della legge elettorale. E per questo, d’accordo con i big, Bersani riproporrà il doppio turno al Pdl, per chiudere un accordo entro giugno e discutere di semipresidenzialismo nella prossima legislatura.
Dunque programmi, alleanze e modalità di scelta del premier sono subordinati a questa variabile, perché una cosa è se si vota con le sfide nei collegi, altra cosa se si dovrà puntare ancora al premio di maggioranza del porcellum.
Nel menù di Bersani è anche prevista la riconferma di lealtà, se pur condita di critica incalzante, al governo Monti fino al 2013 e la porta aperta ai moderati, ma soprattutto una visibile apertura a movimenti e nuove energie da canalizzare dentro la sfida del Pd, nella speranza di depotenziare la mina di Grillo.
«Noi abbiamo sempre detto che il percorso è cambiare la legge elettorale, scegliere un programma, vedere le forze che ci stanno e poi definire un candidato premier? Ecco non lo cambiamo», è l’argomento usato dalla Bindi. E per dare un’idea della fibrillazione sull’ipotesi di primarie chiuse al perimetro del Pd, in Transatlantico gli uomini vicini al numero due Letta facevano capire che prima di schierarsi dietro Bersani in un match a due con Renzi, avrebbero preteso garanzie su rinnovamento e linea politica. Insomma nulla è più scontato con le primarie alle porte. In tutto ciò, Renzi si candiderà il 22 giugno in un’assemblea con un migliaio di giovani e oggi sarà in Direzione ma non parlerà dal palco. «Io le primarie le faccio solo se sono vere», va dicendo in queste ore. «E le migliori sono quelle del Pd, ma vanno anche bene quelle versione foto di Vasto».

Corriere 8.6.12
Primarie aperte e addio Vasto Il leader pd scende in campo
E D'Alema non si ricandiderà, una sfida al ricambio chiesto da Renzi
di Maria Teresa Meli


ROMA — Ieri, il vertice istituzionale con i capigruppo di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, il vice segretario Enrico Letta e la presidente Rosy Bindi. L'altro giorno il caminetto ristrettissimo quanto segretissimo. Il segretario Pier Luigi Bersani procede come un treno.
Primarie a ottobre, per non dare modo al sindaco di Firenze Matteo Renzi di continuare con il suo tormentone. Nessun candidato del Pd ufficiale. Non Bindi, non Letta: nessuno scenderà in campo per sfidare il leader. È questa la decisione presa dai massimi dirigenti del Pd. Primarie aperte per risvegliare l'elettorato del centrosinistra. Su questo punto nessuno ha contrastato Bersani. Le riserve sono frutto di orgoglio ferito più che di una diversa visione politica. Oltre a Franceschini e Bindi, nemmeno Letta, che di mestiere fa il vicesegretario, o D'Alema, che da molti viene visto come il deus ex machina del Pd, sapeva della decisione del segretario di andare alle primarie di partito. Ed è questo che ha infastidito alcuni e fatto arrabbiare altri.
Comunque, una volta deciso il copione, ognuno ci si atterrà, senza se e senza ma. Nel caminetto segreto, però, si è parlato anche d'altro. Delle elezioni che verranno. Bersani ha detto la sua anche su questo e tutti, nolenti o volenti, si sono dovuti allineare. Il segretario ha spiegato che non gli dispiacerebbe andare al voto con il Pd collegato a una lista civica, senza fare un cartello elettorale con Sel e Idv. «Noi dobbiamo assicurare la governabilità», ha ribadito più volte il segretario. Come a dire: risuscitiamo la vocazione maggioritaria del Partito democratico e non imbarchiamoci nell'alleanza di Vasto, onde evitare di ripetere la sfortunata esperienza dell'Unione.
Ha le idee chiare, il segretario, ed è molto determinato. Sondaggi alla mano, è convinto che vincere alla Camera, con il premio di maggioranza, sarà una passeggiata. L'unica incertezza riguarda il Senato. Ma se non si dovesse strappare la maggioranza in quel ramo del Parlamento, allora si aprirà la porta del dialogo con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. D'Alema vorrebbe osare di più: una grande coalizione con dentro anche pezzi del centrodestra.
Pier Luigi Bersani, però, è un uomo pragmatico e non vuole perdersi dietro puzzle politici impraticabili. Naturalmente, si ragiona dando per scontato che resterà il Porcellum e che al massimo verrà fatta qualche modifica alla legge elettorale attualmente in vigore. Bersani ha messo una croce sopra il doppio turno: «Alfano dice che se c'è la volontà si riesce a varare la riforma entro giugno, ma è una posizione tattica, la sua. Peraltro con il Pdl che sta implodendo sarà difficile fare qualsiasi cosa».
Dunque i dirigenti del Pd si sono rassegnati o adeguati: seguiranno Bersani in questa sua avventura. Il nemico a questo punto sembra uno solo: quel Matteo Renzi che non rinuncia alla sfida, «purché siano primarie vere». Perché il sindaco di Firenze non si fida ancora.
Assimilata e digerita la mossa di Bersani sulle primarie, è un'altra uscita quella che in questo momento fa fibrillare il Partito democratico. È la decisione di Massimo D'Alema di non candidarsi alle Politiche che ha spiazzato tutti. Il presidente del Copasir intende togliere una freccia alla faretra di Renzi, che farà tutta la sua campagna in nome del rinnovamento e del rispetto della regola dei tre mandati. D'Alema, prima ancora che gli venga chiesto, lascia. Ma gli altri? Rosy Bindi, Walter Veltroni e Anna Finocchiaro — solo per citare dei nomi — che cosa faranno? Si ricandideranno per l'ennesimo mandato, davanti a un Renzi che insiste sul rinnovamento e a un D'Alema che ha fatto un passo indietro? Difficile, per loro fare finta di niente. Difficilissimo.

Corriere 8.6.12
«Orizzonte 2013». Patto Alfano-Bersani
Tavolo sulla legge elettorale e massimo sostegno a Monti
di Francesco Verderami


ROMA — Sapevano di doversi alleare prima di potersi sfidare, per questo Alfano e Bersani hanno stretto un patto che oggi renderanno pubblico. Perché di accordo si tratta, certo non di inciucio: sarà un percorso comune e parallelo che li porterà a dividersi quando si arriverà alla sfida elettorale. E come il leader del Pd annuncerà la scelta delle primarie davanti alla direzione, anche il segretario del Pdl proporrà lo stesso strumento di consultazione all'ufficio di presidenza convocato nelle stesse ore. Non è dato sapere se i due si troveranno a contendersi palazzo Chigi. Di certo oggi compiranno il primo passo per rimettere in movimento i loro partiti e cercare una nuova legittimazione popolare contro le pulsioni dell'anti-politica.
È chiaro a entrambi però che le primarie non possono bastare, che per restituire credibilità al sistema sarà necessario riaffidare ai cittadini il diritto di scelta dei parlamentari conculcato dal Porcellum. Ecco il motivo per cui l'altro ieri Alfano si è rivolto a Bersani invitandolo a chiudere «insieme entro tre settimane l'intesa sulla riforma della legge elettorale». Sapeva che l'appello non sarebbe caduto nel vuoto, infatti la risposta è arrivata a stretto giro: «Affare fatto. Discutiamo ed entro fine mese chiudiamo l'accordo».
Il capo dei democrat lo ripeterà oggi ufficialmente. E c'è un motivo se chiederà a suoi dirigenti «pieno mandato» per la trattativa: «Perché dev'essere chiaro a tutti che, qualora la nostra proposta di riforma a doppio turno non dovesse passare, comunque non ci terremmo l'attuale sistema di voto». Perché è chiaro che l'intesa — almeno sui tempi — c'è già: entro giugno andranno risolti gli aspetti tecnici della riforma, che si porteranno appresso un disegno politico con il quale garantire per un verso la tenuta del bipolarismo e per l'altro depotenziare l'impatto delle operazioni last minute, che rischiano di diventare il doping della politica.
Se hanno imparato a fidarsi l'uno dell'altro è perché non c'è più spazio per i tatticismi. O varano la riforma elettorale o si consegnano al fallimento: «E io sono stufo di sentir dire che siamo un Parlamento di nominati», annuisce il segretario del Pdl. Il sentiero è segnato: luglio servirà per approvare la nuova legge, lasciando magari per settembre il voto finale e alcuni dettagli delicati, come l'eventuale definizione dei collegi. Si vedrà se verrà varato un meccanismo completamente nuovo o se l'accordo si chiuderà con un restyling dell'attuale sistema. È comunque da quel momento che gli «alleati» Alfano e Bersani torneranno ad essere «avversari» nella competizione elettorale.
Ma questo è il nodo: quando si svolgerebbe la sfida? Entrambi, anche oggi, pur tra numerosi distinguo, rinnoveranno la lealtà dei rispettivi partiti a Monti, e ripeteranno che «l'orizzonte del governo resta il 2013». La crisi economica impone la linea politica. «Bisogna garantire stabilità in questa fase», spiega Bersani: «Saranno settimane dense di appuntamenti internazionali e si rischia di ballare come gli orsi». Il leader del Pd non nasconde «grande preoccupazione». D'altronde — gli fa eco Alfano — con le sorti dell'intero Occidente «appese a un filo, abbiamo il dovere di sperare» che i vertici «vadano bene».
Insomma, il sostegno alla mission (impossible?) del Professore sarà massimo. Non a caso il segretario democratico ha chiamato allarmato il collega del Pdl per i problemi sorti sulla legge anti-corruzione: «Angelino, in questi giorni non ci possiamo permettere fibrillazioni». Se è per questo neppure dopo c'è intenzione di staccar la spina a Monti, nessuno infatti intende fare regali all'altro.
Epperò, chiuso il dossier della riforma elettorale, se il governo non riuscisse a rilanciarsi, si aprirebbe di fatto una lunghissima campagna elettorale, che si concluderebbe solo in aprile. In vista delle urne, i partiti che oggi sorreggono l'esecutivo inevitabilmente sarebbero indotti ad alzare i toni della polemica, stressati peraltro dalle sollecitazioni delle estreme, e con il rischio di una gara al rialzo senza fine. Con un simile clima chi appoggerebbe l'aumento dell'Iva? L'analisi accomuna i vertici del Pdl e del Pd, consapevoli di non poter interrompere anzitempo l'esperienza del Professore.
Solo Monti potrebbe farlo, «accorciando» la durata della legislatura, magari sotto l'impulso di Napolitano a cui — è certo — verrà riservatamente sottoposta la riflessione che è bipartisan. Bersani su questo tema non si sbilancia, e come lui Alfano, secondo il quale «bisognerà guardare agli interessi del Paese».
Così i due segretari lasciano al capo dello Stato e al premier il delicato compito di dettare i tempi. Alleati per tornare ad essere avversari, hanno già tanti problemi da risolvere. Alfano soprattutto, chiamato a gestire un partito nella bufera, con il Cavaliere che oscilla tra l'idea di abbandonare e quella di rilanciare, avendo in testa l'opzione delle liste civiche da presentare e sessantamila responsabili di seggio da reclutare, indeciso se cambiar nome al Pdl o rottamarlo.
La lettera di Schifani al Foglio ha però cambiato lo scenario interno: l'operazione «verità» avviata dal presidente del Senato garantisce argini più solidi entro i quali il segretario può muoversi, sapendo di avere dietro di sé il gruppo dirigente che sette mesi fa lo tollerava appena. Così Alfano si appresta a lanciare le primarie davanti a un Berlusconi amletico, che leggendo in anteprima la lettera di Schifani ha commentato: «In alcuni passaggi coincide con il mio pensiero»...

La Stampa 8.6.12
Pdl e Pd in fuga dalla realtà
di Federico Geremicca


I sondaggi si susseguono impietosi. L’ultimo in ordine di tempo (a cura dell’Ipsos di Nando Pagnoncelli) conferma una tendenza che pare da mesi inarrestabile. Rispetto alle ultime elezioni politiche del 2008 il Pdl è ormai più che dimezzato (dal 37,4 al 17,2) e il Pd in forte calo, dal 33,2 al 25%. I due ex «partitoni», che all’epoca della sfida tra Berlusconi e Veltroni calamitavano assieme il consenso di quasi tre italiani su quattro (70,6%), oggi rappresentano meno di un italiano su due (42,2). Il crollo è di quasi trenta punti percentuali (28,4), inimmaginabile fino ad ancora un anno fa: e sotto le macerie sono rimaste sepolte non solo leadership e governi ma anche - come testimoniano le cifre - quella fallimentare forma di bipolarismo che ha di fatto plasmato il sistema politico italiano.
È da qui, forse, che bisognerebbe ripartire per salvare il salvabile, prima che sia troppo tardi. E invece quella cui si assiste è una vera e propria fuga dalla realtà. Minacce (non si capisce bene rivolte a chi) di elezioni anticipate, in una situazione che è se possibile - ancor più difficile di qualche mese fa; operazioni di puro marketing politico nel centrodestra, con metamorfosi fatte di cambi di nome e liste civiche dietro le quali mascherare l’impresentabile; impacci strategici, di rotta e di alleanze nel centrosinistra, che pare sul punto di riaprire una autoreferenziale, stantia e poco interessante battaglia sulle primarie: come, quando e aperte a chi.
Una fuga dalla realtà destinata a fallire, perché la realtà (le difficoltà economiche, la sofferenza sociale, la depressione crescente) è troppo ingombrante per lasciarsi metter da parte con qualche escamotage. Si era immaginato che la crisi del governo Berlusconi, la resa della politica e l’avvento dei tecnici potessero trasmettere al sistema dei partiti la scossa necessaria per fare quel che andrebbe fatto per ridisegnare l’intero sistema: invece niente. Si era poi scommesso che questo sarebbe accaduto dopo le ultime (e drammatiche, per i partiti) elezioni amministrative: niente nemmeno dopo quel voto, che pure ha segnato l’esplosione del movimento di Grillo e un’ulteriore crescita dell’astensione.
Oggi il quadro è quello della paralisi, con il centrodestra in piena dissoluzione e inchiodato al palo dalle ubbie e dalle incertezze di Silvio Berlusconi, e il centrosinistra che - sentendosi già vincitore delle prossime elezioni - è tutto un fremito di riposizionamenti, mosse tattiche e regolamenti di conti. Nei giorni duri dell’arrivo dei tecnici a Palazzo Chigi, le forze politiche avevano promesso che «mentre Monti governa noi ci dedicheremo alle riforme necessarie a modernizzare e rendere competitivo il Paese». Fu fatto anche l’elenco di ciò che veniva considerato prioritario...
E’ un elenco che gli italiani conoscono purtroppo a memoria: nuova legge elettorale, riduzione dei parlamentari, più poteri al governo, un nuovo bicameralismo, una legge sui partiti... Non si è fatto assolutamente nulla di quanto promesso: e mentre la clessidra scandisce implacabilmente il passar del tempo, in piena fuga dalla realtà c’è chi ha proposto (il Pdl di Berlusconi) di andare oltre, di far di più, di trasformare in pochi, pochissimi mesi l’Italia in una Repubblica semipresidenziale... A onor del vero, bisogna dire che stavolta quasi nessuno ci è cascato: nemmeno all’interno dello stesso Popolo della libertà.
La paralisi, dunque. E l’irresistibile tentazione di fuggire da una difficile realtà. Ma non si pensi che dentro questa sempre meno sopportabile melassa intanto nulla accada: infatti si difendono parlamentari da richieste d’arresto, se ne eleggono altri senza alcuna competenza in istituti di controllo e garanzia, si irride alla pazienza dei cittadini chiedendo loro l’invio di curriculum che non vengono neppure esaminati e si erode, si mina, l’operatività del governo, forse la cosa peggiore possibile in un momento così.
I partiti svolgono (dovrebbero svolgere) un ruolo importante, in un sistema democratico: nessuno lo nega. Sarebbe ora, però, di tornare a dimostrarlo. L’ultimo sondaggio Ipsos assegna a Beppe Grillo il 20% dei consensi, e dice che il 42% degli italiani non sa se e chi votare. Sono cifre che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di centrodestra e centrosinistra. Ma nulla accade, non c’è reazione, nessuna voglia di riscatto e di riscossa. E alla fine, in fondo, è proprio questo quel che preoccupa di più...

Repubblica 8.6.12
Primarie e limite ai mandati, la sfida di Bersani
Candidature a rischio per molti big. Di Pietro e Vendola: "Tra noi e Pd distanze incolmabili"
Oggi la direzione Il segretario vuole una gara di coalizione aperta ai "soggetti sociali"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Bersani non torna indietro. Oggi, nella riunione della direzione, lancerà le primarie. Aperte a tutti, a una coalizione larga che coinvolga anche la società civile, le associazioni fuori dalla politica, gli esterni. Ed è sempre più insistente la voce che metterà un altro paletto: il limite dei tre mandati parlamentari, come recita lo statuto. Con una deroga minima del 10 per cento, sempre secondo le regole del testo fondativo del Pd. Messa così significa che nella lista dei possibili "esodati" o meglio dei licenziati finiranno D´Alema, Veltroni, Parisi, Finocchiaro, Bindi, Melandri, Castagnetti, Marini, Turco e altri. Una rivoluzione. In qualche modo il segretario del Pd lo ha fatto capire in una pre-riunione che ha avuto ieri con il presidente, il vicesegretario e i capigruppo. «Per rispondere alle richieste dei cittadini dobbiamo dare un segnale di discontinuità rispetto agli ultimi 20 anni. E mandare avanti i giovani, tanti giovani», ha buttato lì il leader democratico.
Forse è solo un modo per mandare il messaggio. Per lasciare ai big il tempo di riflettere e decidere in autonomia. Anche perché tutto o quasi dipende dalla legge elettorale. Il "taglio" sarebbe ancora più necessario in caso di conferma del Porcellum , cioè del Parlamento dei nominati. E proprio la riforma del sistema di voto sarà al centro della relazione del segretario, come gli ha chiesto Massimo D´Alema accettando controvoglia il colpo di acceleratore sulle primarie. Ma la legge elettorale sarà oggetto dell´ultimatum di Bersani. Con tutti i problemi che si porta dietro dentro il Pd. Bisogna andare avanti sul progetto Violante cioè il modello tedesco? O si deve arrivare a una proposta simile al Mattarellum? Il compromesso del 70 per cento eletto con il collegio uninominale e il 30 con le liste bloccate sembra l´unico in grado di tenere. Ma «entro due settimane occorre una risposta del Pdl e dell´Udc», avverte Bersani. Dopo di che la partita verrebbe chiusa e il Pd si concentrerà sulle sue primarie, sulle alleanze e sul rinnovamento della classe dirigente.
Ma il pressing e le difficoltà non vengono solo da dentro per il Pd. Antonio Di Pietro e Nichi Vendola hanno tutta l´intenzione di condizionare la direzione di oggi. E lo fanno sfasciando l´alleanza in fieri. «Il Partito democratico ha lo stesso programma del Pdl. Se continua così le alleanze se le fa da solo. E le fa con Berlusconi». L´Idv contesta il Pd su tutti i fronti: nomine delle authority, voto su De Gregorio, ddl anticorruzione. «Invece di uscire a Vasto - dice ancora l´ex pm - mi sembra che Bersani abbia sbagliato imbocco e stia andando in un´altra direzione». Vendola non risparmia botte al Pd. E sembra muoversi in nuove direzioni. Parole, incontri, ma una strada sembra presa. Ad esempio quella dell´intesa con la lista Arancione di De Magistris, Emiliano e Pisapia. «Il voto sull´Agcom rende incolmabile la distanza dal Pd». Quindi occorre guardarsi intorno. Ieri il presidente della Regione Puglia ha incontrato il sindaco di Napoli. «Con De Magistris abbiamo parlato della necessità di mettere in campo un progetto politico forte per salvare il paese, della costruzione del polo di alternativa come di un grande processo di partecipazione di forze che vengono dall´esperienza di lotta e dei movimenti». L´allargamento della coalizione deve avvenire in questo senso. «Nel cantiere del centrosinistra i sindaci sono un valore aggiunto e vanno ascoltati».
A Grillo, all´antipolitica, agli alleati potenziali e a quelli che verranno oggi Bersani è chiamato ad offrire una risposta. La famosa alternativa. Lo farà con lo strumento delle primarie e questo segnale sarà bene accolto da Vendola. Che non aspetta altro. Un minuto dopo l´apertura ufficiale del Pd si candiderà e saluterà festoso la scelta del segretario. Basterà? No. Per quello Bersani punta a esporre 5 punti di un programma per il 2013 intorno ai quali ascoltare le risposte di tutti, della società civile, «di chi non si riconosce nel populismo e vuole ricostruire il Paese». Aprirà le porte, assicurano, lancerà dei referendum sui punti programmatici, chiederà una mano ai cittadini, alle associazioni. Dirà che il Pd è casa loro. Ma vedremo come saprà convincerli.

Repubblica 8.6.12
L’annuncio nei prossimi giorni. La macchina del sindaco-rottamatore: social network e banchetti
Renzi pronto al duello con il segretario in campo Gori e comitati in 700 comuni
Ha un database di 50mila nomi Da mesi gira l´Italia per presentare il suo nuovo libro
di Massimo Vanni


FIRENZE - Non sa ancora se parlerà alla direzione nazionale di oggi. Non ha deciso il giorno dell´annuncio ufficiale della sua candidatura. E se qualcuno glielo chiede, ancora gigioneggia: «Deve passare il progetto di una squadra». Ma dietro i sorrisi il sindaco Matteo Renzi già scalda i motori per le primarie. Di partito o di coalizione che siano: 700 comitati elettorali nei 700 Comuni italiani con più di 15mila abitanti, è il piano. Contattare e raggiungere con il proprio messaggio, attraverso comitati di almeno 10 persone ciascuno, i 37 milioni di italiani che vivono in centri di oltre 15mila abitanti.
È un progetto pronto da mesi. Rispolverato adesso in gran fretta dopo il via libera alle primarie annunciato da Bersani: la campagna sta per cominciare, se si toglie l´agosto restano sì e no cento giorni. E gli uomini-macchina di Renzi già scalpitano come puledri. A cominciare dall´ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, al fianco del sindaco fin dalla Leopolda dello scorso anno: l´imprenditore cresciuto nella scuderia di Mediaset ha respirato l´odore acre della disfida a Palermo, dove è stato inviato da Renzi per sostenere Davide Faraone (arrivato poi terzo). E se fosse per lui Renzi sarebbe in campo da tempo.
Il sindaco però può contare anche sullo scrittore Giuliano Da Empoli, assessore alla cultura nella giunta fiorentina fino al gennaio scorso, oggi a capo del prestigioso Gabinetto Vieusseux. E sull´apporto creativo di Antonio Campo Dall´Orto, vicepresidente di Mtv International, e del regista Fausto Brizzi, quello di "Notte prima degli esami", entrambi "figli" della Leopolda. Che solo lo scorso anno raggiunse la quota di 220mila persone collegate in streaming.
Già da solo Renzi è una formidabile macchina mediatica: i suoi fans su Facebook sono ormai a quota 127mila. Quasi altrettanti sono quelli su Twitter. La sua periodica Enews ha migliaia e migliaia di destinatari in tutta Italia. Mentre il database a disposizione, a quanto raccontano i suoi stretti collaboratori, conta 50mila nomi. Corredati di telefono e indirizzo email. Il frutto delle due Leopolde ma anche dei tour instancabili a quali da mesi il sindaco Renzi si sottopone in ogni angolo d´Italia per la campagna delle amministrative prima e per la presentazione del suo ultimo libro Stil Novo poi. Tutti contatti pronti per essere attivati al fischio d´inizio.
«I 700 comitati elettorali sono l´obiettivo minimo, almeno una ventina di milioni d´italiani vivono nei Comuni con meno di 15mila abitanti», si spiega dal quartier generale renziano. Che in questi giorni riflette su come organizzarsi per aggiungere all´impegno amministrativo quello politico. «Ma hanno capito a Largo Nazareno che con questo qui non si scherza? Bersani avrà pure i sondaggi favorevoli ma farebbe bene a non sottovalutarlo. Anche nelle primarie per il sindaco i primi sondaggi lo davano ultimo», si dicono i dirigenti del Pd toscano. Che assistono impotenti all´avvicinarsi inesorabile dello scontro.
Il primo assaggio sarà per il 22 e 23 prossimi. Renzi ha convocato a Firenze, non una Leopolda, ma la convention dei mille sindaci e amministratori: aveva ipotizzato un rinvio di due settimane, quando aveva appreso che Bersani aveva convocato per lo stesso fine settimana l´assemblea nazionale dei circoli (come del resto accadde l´anno scorso). Poi però ci ha ripensato e ha confermato invece la coincidenza. In segno di sfida.

Corriere 8.6.12
Gli ex psi: riportiamo in edicola l'«Avanti!»
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — «Bisogna riportare l'Europa in Italia e l'Italia in Europa». È all'insegna di questo slogan, che vuole significare il recupero di una riflessione non episodica sul ruolo delle grandi correnti politico-culturali, che i socialisti tornano alla ribalta. Domani infatti si terrà a Milano, nella sede della biblioteca di Critica sociale, in via Formentini, nel cuore di Brera, un incontro per avviare la campagna per fare tornare nelle edicole l'Avanti!, storica testata socialista al centro di una disputa, tornata nelle mani degli eredi di Bettino Craxi. Il progetto è curato dall'ex ministro Rino Formica e vi hanno aderito, tra gli altri, gli ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri, l'ex ministro Forte, Cervetti, Finetti, Benvenuto, Bobo Craxi. «L'obiettivo — dice Stefano Carluccio, direttore di Critica sociale — è lanciare una campagna di azionariato popolare per raccogliere almeno un milione di euro, con il quale consentire l'uscita del quotidiano Avanti! entro la fine dell'anno». L'idea che sta alla base del progetto è di creare un luogo di confronto aperto a tutte le componenti dell'arcipelago socialista. «L'uscita di sicurezza del socialismo largo», l'ha chiamata Formica con una allusione al titolo del recente saggio di Giulio Tremonti, il quale, sia detto per inciso, potrebbe partecipare all'incontro. Che cosa sia il «socialismo largo» lo spiega lo stesso Formica: «Intendiamo riprendere un'attività di revisione politica e ideale recuperando il senso strategico del socialismo: il revisionismo, la spinta costante a mettere in discussione i fondamentali ideologici che hanno impaludato la nostra democrazia e ne hanno impedito l'evoluzione». Per Formica questo schieramento va costruito «attorno ai valori solidali-identitari, sociali e nazionali». Non solo. «Questo fronte di società — argomenta ancora — deve confrontarsi e a sua volta intrecciarsi con i principi della sovranazionalizzazione della politica, con la logica mondiale dei processi sociali e politici».

Repubblica 8.6.12
Saviano: non mi candido, nessuno mi ha contattato
di Annalisa Cuzzocrea


Intervista all´Espresso: voglio continuare a fare il narratore, in passato mi avevano cercato da Berlusconi ai leghisti, dai finiani al Pd
"Le avances che mi sono state fatte avevano il solo scopo di capire quali fossero le mie reali intenzioni"
"Annunciare la mia presunta discesa in politica diventa strumento di diffamazione"

ROMA - «Sono un narratore», dice Roberto Saviano. Lo ripete, quasi dovesse provarlo, anche se ha fatto sempre e solo questo: scrivere, raccontare. Eppure, la stampa di destra continua a riempire pagine e pagine su una sua presunta candidatura alle prossime politiche. In un´intervista a l´Espresso - che gli dedica una copertina dal titolo «Chi ha paura di Saviano» - lo scrittore spiega ancora una volta: «Non ho mai voluto candidarmi a parlamentare, mai ambito a nessuna carica politica, né di sindaco, né di ministro, nonostante abbia avuto molte proposte». E ancora: «Non intendo in nessun modo costruire liste, non intendo dare appoggi esterni, non intendo costruire consenso in modo da dirottare voti. Il mio ruolo e il mio lavoro li ho sempre visti da una prospettiva diversa».
Racconta, Saviano, che nessuno di coloro che hanno scritto dei suoi intenti politici lo ha mai cercato. Non una telefonata, non un´e-mail. «Una mia risposta li avrebbe obbligati a essere netti, chiari, a non avanzare ipotesi». Per questo, hanno anche ignorato le smentite: quelle su Twitter, o nella rubrica l´Antitaliano ereditata da Giorgio Bocca sul settimanale. I social network le hanno accolte con scetticismo: «Sono proprio loro a dare il metro di quanto siano screditati non solo i partiti, ma tutta la sfera della politica. Annunciare la mia presunta candidatura diventa strumento di diffamazione: una carica pubblica che dovrebbe essere ambita, voluta e autorevole, viene invece percepita come diffamante».
Eppure di avances, negli anni, gliene hanno fatte, da Berlusconi a Fini, dai leghisti al Pd: «Non le ho avvertite come vere e proprie proposte, più come un modo per capire quali fossero le mie intenzioni. Per potersi tranquillizzare o eventualmente correre ai ripari». Non ce n´era bisogno, lui non si candida. Non per questo, però, rinuncia a pensare di politica. Riflette sul ruolo dei partiti, sulla strada che possono prendere per salvarsi dalla deriva demagogica: prima di tutto, «spalancare le porte alle nuove generazioni». Ricorda che Benjamin Franklin diceva: «Quando gli elettori percepiscono una mancanza di etica nella classe politica e un´eccessiva presenza di moralismo di facciata, si convincono di potersi sostituire a essa». «Le parole sono azione», aveva scritto pochi giorni fa. Per spiegarlo, elenca i suoi «riferimenti»: «Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Rocco Scotellaro, Danilo Dolci, Carlo Rosselli». Intellettuali che hanno unito cultura e impegno. Non necessariamente al servizio di una bandiera.

l’Unità 8.6.12
AgCom, meglio la trasparenza
Era meglio un’audizione pubblica dei candidati
di Massimo Luciani


Non tutte le reazioni alle recenti scelte parlamentari sulla composizione di alcune autorità sono state ragionevoli. In alcuni commenti, infatti, sembrava di cogliere l’idea che le Camere siano assimilabili a commissioni di concorso.

E che le stesse Camere siano chiamate a scegliere i migliori esclusivamente in base a criteri di “merito” o, per essere più precisi, di merito specifico, connesso alla non meno specifica esperienza nel settore di competenza dell’autorità. Non è così e non può esserlo. Se la legge ha affidato ad assemblee rappresentative una scelta relativa a persone, non lo ha fatto certo perché immaginava di aprire una procedura selettiva di tipo amministrativo, con tutte le garanzie formali e sostanziali che circondano vicende di questo tipo. Lo ha fatto perché ha ritenuto che il confronto parlamentare sia di per sé un modo per assicurare un contemperamento fra le varie sensibilità culturali e politiche e che proprio questo contemperamento sia una condizione del buon funzionamento delle istituzioni.
Ciò detto, però, è chiaro che quando le Camere sono chiamate a scegliere dei tecnici, quando questi debbono esercitare funzioni di regolazione di settori delicati dell’attività economica e sociale, quando queste funzioni di regolazione debbono essere svolte in modo terzo e indipendente, la politique politicienne non può essere il solo orizzonte di riferimento. Se un elemento di fiducia latamente “politica” non può mancare, è pur sempre l’idoneità allo svolgimento delle funzioni che dovrebbe essere al centro della scelta, pena la diffusione del sospetto che le autorità indipendenti non solo siano poco “indipendenti”, ma anche poco “autorità”. Che fare, allora?
Se la logica di procedure parlamentari di questo tipo non è quella del concorso, va da sé che il modello di soluzione che la stessa Costituzione ha imposto per il pubblico impiego non può essere adottato. Se, però, nemmeno il modello opposto della totale libertà della politica è ragionevole, la sola strada percorribile, mi sembra, è quella della trasparenza. Ottenerla non è difficile. Basterebbe affidare la titolarità dell’iniziativa della presentazione delle candidature ad un insieme chiuso di soggetti (ad esempio: un numero adeguato di parlamentari) e stabilire che si apra una procedura pubblica di audizione, nella quale, di fronte alle Camere, i candidati siano tenuti ad esporre la propria vicenda professionale e siano sottoposti ad un fuoco di fila di domande, volte ad accertare la loro preparazione, la loro indipendenza e perché no? la loro probità (e sono certo che non pochi di coloro che il Parlamento ha scelto sarebbero stati ben lieti di dimostrare in questo modo le proprie qualità). Scegliere un candidato asino che ha balbettato sciocchezze in sede di audizione si può sempre fare, certo, ma si dovrebbe essere pronti a pagare il relativo prezzo politico in termini di credibilità e di consenso.
Il punto, allora, è proprio questo. Un sistema di questo genere funziona solo a condizione che l’opinione pubblica sia consapevole, informata e interessata e che i mezzi di informazione le diano gli strumenti per ragionare e valutare, senza limitarsi a cavalcare l’impetuosa, ma comoda, onda dell’antipolitica. E qui sta la difficoltà, perché nel nostro Paese non sempre l’opinione pubblica ha dimostrato di sapere incalzare e fustigare la politica, non sempre si è sottoposta alla fatica di agire, prima di lamentarsi.
Una volta di più, i garanti dei diritti dei cittadini sono i cittadini: nessuna autorità indipendente, nessun tribunale costituzionale ci può salvare da una cattiva politica se ci addormentiamo e pensiamo che, tanto, c’è qualcun altro che può stare in trincea al posto nostro.

Corriere 8.6.12
Perché le nomine all'Agcom non rispettano la legge
di Milena Gabbanelli


Più delle parole contano i fatti. E i fatti dimostrano ogni giorno che i vertici di questa classe politica sono da archiviare, perché perseverano nel prendere decisioni contrarie all'interesse generale. Mercoledì il Parlamento ha scelto i nuovi commissari per l'Agcom. La legge richiede indipendenza e riconosciuta competenza nel settore, poiché senza indipendenza la competenza può essere utilizzata per favorire una parte contro l'altra, e senza competenza l'indipendenza è inutile e fonte di decisioni casuali. Da mercoledì un settore strategico per il nostro futuro come quello delle comunicazioni è nelle mani di Decina, Martusciello, Posteraro e Preto. L'indipendenza di Martusciello è dubbia, considerata la sua storia di ex dipendente Mediaset ed ex deputato Forza Italia, mentre la sua incompetenza specifica nel settore delle comunicazioni (sia sulle questioni tecniche che in quelle di prodotto), è pressoché certa. Idem per Preto (Pdl) e Posteraro (Udc). Decina (indicato dal Pd), pur essendo competente, è stato consigliere di amministrazione di Telecom Italia ed è, con le aziende di sua proprietà, consulente di moltissimi operatori soggetti alla vigilanza dell'Agcom. In sostanza 4 nomine che violano i requisiti di legge, e che danno vita ad un Consiglio pure squilibrato. È infatti ragionevole attendersi che su tutti i temi di interesse per Mediaset (la gara delle frequenze, le nuove regole sul diritto d'autore, il destino della rete Telecom) i commissari espressi dal Pdl abbiano un punto di vista favorevole all'azienda da cui proviene il commissario Martusciello. Quindi la maggioranza sarà saldamente nelle mani del commissario Posteraro scelto dall'Udc, indipendentemente dall'opinione del presidente (che deve ancora essere indicato dal premier Monti) e del commissario indicato dal Pd.
In sostanza il commissario Posteraro, con competenze limitate o assenti, deciderà sul futuro delle comunicazioni italiane. E questo dipenderà da dove si posizionerà Casini. Poteva andare diversamente se il Pd, dopo aver sbraitato per mesi su competenza e curriculum, avesse indicato e preteso due tecnici autorevoli, indipendenti e competenti. Avremmo ora la garanzia di affrontare nel merito ogni singola questione, e con un importante ruolo «super-partes» del presidente in caso di parità tra i membri di nomina parlamentare. Purtroppo non sarà così e ce ne accorgeremo molto presto.
Alla fine di agosto scadono i 120 giorni che il decreto fiscale del governo Monti ha concesso ad Agcom e ministero dello Sviluppo Economico per definire il destino delle frequenze da assegnare agli operatori televisivi. Meno di tre mesi per decidere: 1) come riorganizzare i 6 «multiplex» televisivi previsti dal «beauty-contest»; 2) per quanto tempo e con quali diritti d'uso assegnarle;
3) se assegnarle solo alle televisioni o anche agli operatori mobili, e infine come organizzare l'asta, cioè quanto farsi pagare. Dopodiché la mano passa al ministero dello Sviluppo Economico per la gestione della gara.
Decisioni urgenti e che condizioneranno pesantemente il panorama televisivo italiano. In che modo? L'Autorità potrebbe decidere di destinare le frequenze a nuovi operatori televisivi e non consentire la partecipazione alla gara di Rai e Mediaset. Potrebbe anche decidere di cederne una parte Tim, Vodafone, Wind e La3, che sarebbero certamente disposti a pagare cifre molto alte a fronte di un aumento del traffico e della qualità del servizio per i propri clienti. L'Agcom potrebbe, infine, decidere di utilizzare una parte dello spettro per soddisfare le legittime richieste di Centro Europa 7 e delle emittenti locali, o per tentare di porre rimedio alla disastrosa ricezione del digitale terrestre Rai che affligge centinaia di migliaia di abbonati del servizio pubblico.
Ma la maggioranza dei commissari potrebbe invece decidere di consentire la partecipazione alla gara di Rai, Mediaset e La7, ma non quella di Tim e Vodafone. La mancata partecipazione degli operatori di telefonia mobile ridurrebbe di molto il possibile incasso dello Stato. Ci sarebbe coì meno competizione nell'asta e verrebbero a mancare gli operatori più ricchi. A questo punto l'Agcom sarebbe giustificata a suggerire al ministero basi d'asta molto basse. Mediaset potrebbe dire «Visto? Le frequenze non le vuole nessuno», e comperarle per un tozzo di pane. Una bella beffa per tutti coloro che si sono battuti per evitare che le frequenze venissero assegnate gratuitamente. Mediaset potrebbe dire «Visto? Le frequenze non le vuole nessuno», e comperarle per un tozzo di pane. L'azienda di Cologno potrebbe utilizzare quei canali e, fra qualche anno, in presenza di una forte pressione europea per liberare lo spettro dalle trasmissioni televisive a favore della telefonia mobile, potrebbe pretendere un congruo rimborso economico o il diritto, di poterle utilizzare per la banda larga e fare concorrenza a Tim, Wind, Vodafone e La3, che l'anno scorso hanno speso più di un miliardo di euro a testa per assicurarsi frequenze analoghe. Come si può capire, due soluzioni dagli effetti economici diametralmente opposti per Mediaset e per i cittadini italiani. Bersani e il suo Pd hanno affidato la «golden share» su questa decisione nelle mani di una persona che, certamente, non ha mai sentito parlare di frequenze, «multiplex» e banda larga mobile.
A breve vedrà la luce una nuova autorità, importantissima e decisiva, quella dei trasporti, che vuol dire Cai, Ferrovie, Alta Velocità, tassisti, trasporti urbani. Qui i regolamenti devono essere ancora definiti. Ci aspettiamo che Monti stabilisca regole e requisiti più stringenti, che renda tutto il procedimento trasparente e garantisca un collegio realmente super partes. Per allinearsi con la parte più civile dell'Europa, più che ai cacciatori di teste, si potrebbe pensare ad un concorso europeo. Quello che non vorremmo vedere è un esperto in telecomunicazioni, o un transfuga dall'autorità per i contratti pubblici, decidere per esempio sulle regole di competizione fra Italo e Frecciarossa.

l’Unità 8.6.12
D’Alema: falsità su Gramsci per delegittimare i partiti
Il presidente del Copasir: «Vogliono delegittimare gli eredi delle culture politiche del dopoguerra» ...
A chi gioverebbe? «A élites tecniche e gruppi dominanti schierati contro i partiti di massa»
di Bruno Gravagnuolo


L’affondo al dibattito sul libro di Giuseppe Vacca con Anna Finocchiaro, Pierluigi Castagnetti e Roberto Gualtieri
La polemica sul Togliatti stalinista e sul Gramsci eretico è falsa, e politicamente strumentale». Verso la fine del suo intervento sull’ultimo libro di Giuseppe Vacca alla Biblioteca del Senato a Roma, Massimo D’Alema tira le fila del suo pensiero su Antonio Gramsci. E il cuore del suo ragionamento è questo: «Vogliono delegittimare le culture politiche del dopoguerra e i partiti che ne sono gli eredi». A vantaggio di che? «Antipolitica, partiti personali, esaltazione dei tecnici, troncando la possibilità che la democrazia possa esprimersi attraverso soggetti politici di massa».
L’affondo di D’Alema è stato uno dei momenti chiave di un dibattito su un tema non solo storiografico, ma politico a tutto tondo: Vita e i pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937, come da titolo del libro Einaudi di Vacca, presidente della Fondazione Gramsci. E a discutere del libro, stimolati dal direttore de l’Unità Claudio Sardo, oltre a D’Alema c’erano Roberto Gualtieri, storico e deputato europeo, Pierluigi Castagnetti dirigente Pd, e la senatarice Anna Finocchiaro. In chiusura poi, Vacca ha annunciato ufficialmente il via libera alla commissione del «Gramsci» sul presunto Quaderno gramsciano «scomparso», segnalato più volte dal linguista Franco Lo Piparo nel suo I due carceri di Gramsci (Donzelli). Commissione richiesta dallo stesso Lo Piparo dalle colonne del Corsera, che sarà presieduta da Gianni Francioni e di cui vi abbiamo dato ieri su l’Unità in anteprima la notizia. Ma torniamo al libro di Vacca. Due i nodi affrontati un po’ da tutti: il «giallo» del prigioniero nei suoi rapporti con Togliatti e il Komintern, e l’attualità delle categorie interpretative di Gramsci all’oggi.
Bene, giudizio quasi unanime sul primo punto: il libro di Vacca, che è anche una biografia-monografia di idee, chiarisce con nuovi documenti un punto cruciale. E cioè: Gramsci era convinto che Il Pc e Togliatti lo avevano danneggiato e compromesso, aggravando la sua posizione dinanzi al tribunale fascista. Ma in realtà, come riassume bene Gualtieri, la questione era diversa. Era la trattativa tra Urss e fascismo, da cui il prigioniero si attendeva la liberazione. La lettera di Grieco al prigioniero del 1928 non svela affatto il ruolo di «capo» di Gramsci ruolo arcinoto svela bensì che il Pci si stava attivando per la liberazione del detenuto e forse si preparava a vantarsene politicamente. Il che per Mussolini era inaccettabile (lo pensava Gramsci e glielo suggerirono gli stessi carcerieri). Sta di fatto che l’Urss non si attivò mai formalmente, perché quel Gramsci era un critico del Komintern e della sua politica «bloccarda» e da «stato guida monolitico». Morale le carceri erano due, fascista e indirettamente sovietica. In mezzo c’è il detenuto, la sua soggettività, la sua forza e i suoi sentimenti, come ha ricordato Anna Finocchiaro, dopo aver ripercorso l’idea originale gramsciana della rivoluzione gradualista in Occidente e non più «leninista».
Già, il «revisionismo» di Gramsci, su cui insisteva Vacca nel finale. Anche Castagnetti, che pure viene da tutt’altra cultura, lo riconosce quel revisionismo, pur nel rimarcare il «tratto post-ideologico del Pd». E si spinge al di là di Gualtieri. Quando afferma il carattere pregnante e attuale di luoghi e «categorie» gramsciane: «L’analisi del fascismo, come incarnazione storicamente determinata del populismo, tema attualissimo». E poi: il «nesso tra Costituente, pluralismo e “filosofia della prassi” autocritica e conflittuale, revisionista appunto». Che vuol dire? Nient’altro che questo: Gramsci fu un comunista che oltrepassò i confini del comunismo novecentesco. Autore dunque modernissimo, e a pieno titolo tra le fonti primarie del Pd, con le sue idee di conflitto, egemonia, emancipazione delle classi subalterne. E allora in conclusione, la «destructio» di Gramsci e Togliatti, salvando magari l’eresia «inerme» del primo, fa il paio a ben guardare con la cancellazione della cultura sociale cattolica, con la rimozione ad esempio della figura di Aldo Moro. A beneficio di chi? Come dice ancora D’Alema: «Lobbies, élites tecniche, gruppi dominanti vecchi e nuovi: contro i partiti di massa». A proposito, sapete cosa scriveva Gramsci in carcere di Sturzo e del Ppi di allora: «Sono l’unico partito liberale e popolare di massa...». Ecco, la nostra Costituzione nasce anche da questi pensieri... che da due decenni in qua cercano di sradicare.

l’Unità 8.6.12
Brindisi
«Questo significa che dobbiamo aver paura di tutto»
di I. Cimm.


BRINDISI Venti giorni dopo la strage all’istituto Morvillo-Falcone, gli studenti di Brindisi si accorgono che «ormai tutto può succedere», anche di essere obiettivo «di un nonno 68enne». «Il ventaglio di chi temere si sta allargando dicono “Io non ho paura” è solo uno slogan, che dimentichiamo quando voltiamo l’angolo e le volanti della polizia non ci possono più vedere». È solo un piccolo e frammentario quadro dello stato d’animo degli studenti dell’istituto professionale “Morvillo Falcone”, dove lo scorso 19 maggio un attentato ha provocato la morte di Melissa Bassi. Sono in pochi quelli che si fermano per rispondere alle domande, così come i docenti che abbassano lo sguardo e si allontanano. Tra i ragazzi alla fermata dell’autobus si rincorre la voce «l’hanno preso, ha quasi 70 anni». È proprio l’età del reo confesso Giovanni Vantaggiato, 68 anni di Cupertino, in provincia di Lecce, a far temere di più i ragazzi. «Sono venuta a prendere mia sorella – racconta Ilenia, 18 anni, del liceo scientifico Fermi – Andava in classe con Melissa e Selena. È molto amica di Selena, che conosco bene anch’io». La giovane spiega che «Selena mi ha detto che le hanno rovinato la vita. Io spero che invece le abbiano rovinato solo una parte della vita. Deve reagire, ha solo 16 anni, ci riuscirà».
Ma intanto la ferita dell’attentato non è solo aperta, «è sanguinante», spiega Francesco, 17enne. «Ci dicono di non avere paura, ma stiamo scherzando? Io sono terrorizzato e non mi vergogno di dirlo. Abbiamo capito solo una cosa, che chiunque può fare qualsiasi cosa, una bomba, un’aggressione». Ed è proprio questo il punto: «non sappiamo chi, quando e come può farci del male», conclude. Un pensiero diffuso tra i ragazzi, non solo della Morvillo. «Le manifestazioni sono una cosa importante – spiega Susanna, che quest’anno ha gli esami di maturità –.
Ci si incontra e si discute di come affrontare le cose. Ma sono aria fritta. “Io non ho paura”? Dico una cosa, durante la manifestazione del sabato successivo all’attentato io avevo paura che ci potesse succedere qualcosa. È importante reagire, ma da oggi so che un giorno potrei essere vittima di uno scippo, un’aggressione e perché no, una violenza sessuale».
Anche nel vicinissimo bar “Novecento”, dove ogni giorno i ragazzi si riuniscono all’uscita da scuola, hanno notato un cambiamento. Il titolare Francesco Montinaro è uno dei primissimi soccorritori delle ragazze vittime dell’attentato. «Si vede che hanno timore, ogni giorno si incontravano qui per chiacchierare prima di andare a casa. Ora non viene più nessuno, li vedi a passo svelto vanno via, si allontanano da scuola. In pochi minuti fuori l’istituto non c’è più nessuno».
Poi ci sono i genitori, diversi quelli all’esterno della scuola che attendono i figli. «Non mi fido dei mezzi pubblici – racconta Brizio, 39 anni, venuto da un paese della provincia per prendere la figlia al primo anno delle superiori chi lo sa cosa può succedere, e se c’è un pazzo? Perché tanto ormai non si capisce più niente, siamo arrivati all’assurdo che anche un possibile nonno, uomo di 68 anni, ha piazzato una bomba in una scuola. Quel “nonno” non si è fatto troppi problemi ad uccidere la sua “nipote”. È questa la verità. Se ne torna con me mia figlia, preferisco, non vorrei certo andarla a prendere all’obitorio un giorno».

La Stampa 8.6.12
Il killer anomalo. La solitudine del Male
Disarmati di fronte all’inconcepibile: la violenza stragista per la prima volta non è politica
di Antonio Scurati


Lo stragista può essere banale. Quando il complotto non spiega

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. Sfidano il tempo i versi del poeta. Ma vanno aggiornati. Così suonano adesso: ognuno sta solo sul cuore della terra ed è subito sera. In giorni come questo, infatti, non ci tocca nemmeno l’epidermico conforto del puntuto calore solare. La solitudine dello stragista. Questo sgomenta, più d’ogni altra cosa, nella verità riguardo alla strage di Brindisi.La verità, una volta appurata, non ci aizza, non ci mobilita, non riempie la piazza contro la minaccia. Ci agghiaccia. Non ci arma, simbolicamente, la mano democratica per fronteggiare l’aggressione fascista, golpista, mafiosa. Ci lascia, invece, disarmati. Disarmati e soli, ognuno con il proprio fardello da portare sotto l’azzurro, vuoto del cielo, in un’agghiacciante simmetria con la solitudine dello stragista. Sì, perché, una volta catturato, il killer spietato si è rivelato per ciò che era sempre stato e che sempre rimarrà: un solo uomo, un uomo solo. Il Male, in questo caso, non ha una storia, una genealogia, una strategia a spiegarlo, se non a giustificarlo - il Male ha qui soltanto un nome e un cognome: si chiama Giovanni Vantaggio, di anni 68, di mestiere benzinaio. Le date della sua infamia si segnano sul calendario privato di genetliaci, battesimi e onomastici, si scandiscono nel tempo angusto dell’insignificanza personale, non in quello grande - e magari non meno tragico - della vicenda di tutti.
Questo era, fino a ieri, per noi l’inconcepibile (e, infatti, ci siamo sconsideratamente affrettati a ipotizzare complotti, oscure trame eversive, offensive del crimine organizzato). Era inconcepibile che la violenza stragista potesse appartenere al tempo della cronaca e non a quello della storia. Per noi, fino a ieri, la violenza stragista era violenza politica. Politica o mafiosa (e, dunque, ancora una volta politica). Ogni volta che, di fronte a questo genere di violenza, si cercava la pista individuale, conducesse essa all’anarchico deviato o al folle esaltato, si poteva star sicuri che si trattava di un depistaggio.
Da oggi, invece, sappiamo che anche la radice della strage, perfino quella di una strage di innocenti per antonomasia, può essere cercata non negli angoli bui della storia, non nelle cospirazioni su vasta scala, non negli intrecci perversi tra crimini e politica ma nelle aberrazioni dell’ossessione privata, nelle serate tristi di un pensionato fallito che si alza faticosamente dal divano, spegne controvoglia la televisione - o la lascia accesa senza sonoro - e, a consuntivo di una vita ordinaria, deludente e malvissuta, scende in cantina a preparare un ordigno collegando tra loro tre di quelle bombole del gas che per trent’anni aveva cercato di rivendere con scarso successo.
Anche per noi, da oggi, perfino la violenza stragista potrà essere ricercata e temuta nella banalità del mero fatto di cronaca. E proprio per questo la verità sulla strage resterà oramai per sempre separata dal senso. Giù per questa china, il nostro mondo finisce con l’apparirci come una sterminata, nauseante, insostenibile distesa di dettagli insignificanti, di fatti diversi e sanguinolenti, irriducibili a uno scopo, a un disegno, a un’idea. La storia - fosse anche quella sciagurata e tragica - scade a psicologia, il ruggito dell’odio cosmico al velenoso squittio di un risentimento privato.
Scrivendo «noi», mi riferisco qui a noi europei, noi italiani. Sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti d’America, il secondo Novecento è stato a lungo segnato da stragisti solitari. La figura dell’individuo isolato che esce da un ossessivo anonimato per scatenare una violenza omicida che arriva a minacciare le fondamenta della società, o addirittura dello Stato, quella figura è tristemente tipica dell’iperindividualismo culturale americano. E ciò è vero tanto per lo stragista solitario con motivazioni politiche - si pensi a Unabomber - quanto per quello che agisce mosso solo da un risentimento personale. Non a caso - dalla Columbine High School al Virginia Tech - le stragi nelle scuole o nelle università, sono una malinconica stella nera in quella costellazione di individui che è la società statunitense: un unico uomo, confinato nella propria solitudine, ma capace, da quell’angolo buio, di odiarne a decine, a centinaia, capace da solo, passando attraverso il budello stretto della sua personale psicosi, di muovere guerra a un intero pezzo di umanità. Negli Stati Uniti d’America, perfino riguardo all’attentato politico per eccellenza, l’omicidio del Presidente Kennedy, a distanza di cinquant’anni, non si è sciolto ancora il dubbio se si sia trattato di una vasta cospirazione sovversiva o del gesto risentito di un singolo disadattato.
Fino a ieri l’altro, a voler immaginare dalle nostre parti una strage in una scuola, bisognava attingere a un immaginario mediatico americano. Poi, negli ultimi mesi, anche le cronache d’Europa hanno narrato di stragisti solitari che prendono di mira i luoghi dell’educazione e dell’istruzione di giovani o bambini (dai meeting nei campeggi norvegesi alla scuola ebraica di Tolosa). In quei casi, però, la mano dell’assassino era ancora armata da visioni politiche, se pur deliranti. Ora sappiamo che può anche essere armata dalla vendetta di un benzinaio fallito, protestato da un tribunale di provincia per debiti di poco conto in un mondo grande quanto l’orbe terrestre e piccolo quanto un pugno guantato di ferro.

Repubblica 8.6.12
Astuzia o follia, i misteri del movente "Forse il killer aveva un complice"
La rabbia per una truffa covata per anni e il giallo della data della strage
Per gli inquirenti potrebbe essere un sociopatico ma anche un abile dissimulatore
Esattamente un mese prima dell´attentato la condanna del suo "nemico"
di Carlo Bonini


ROMA - E dunque, perché? Le parole farfugliate da Giovanni Vantaggiato, un assassino due volte padre e due volte nonno - «Ero depresso», «Ce l´ho con il mondo» - non bastano evidentemente a mettere insieme un movente razionale, dunque "tollerabile". Al punto da convincere il procuratore di Lecce Cataldo Motta che in questa storia non possa ancora essere escluso un «complice», uomo o donna che sia, o addirittura un «committente». Scrive il magistrato nelle considerazioni che chiudono il decreto di fermo: «Vantaggiato ha ammesso la sua diretta partecipazione all´azione criminale ma non ha voluto indicarne il movente, assumendo un atteggiamento ai limiti dell´offesa all´intelligenza di chi lo interrogava, tendente evidentemente a occultare il concorso di altri», tanto da «lasciarsi sfuggire, nel corso dell´interrogatorio, l´uso del plurale con riferimento al trasporto ed alla collocazione del bidone con l´ordigno esplosivo. Si deve dunque ritenere il coinvolgimento di altri e si può altresì ipotizzare l´esistenza di un committente».
Vedremo se l´ipotesi camminerà. O se, al contrario, quel plurale è solo maiestatis e svela un delirio narcisista. Non fosse altro perché nessun dato obiettivo di indagine (testimonianze, celle telefoniche, telecamere) ha sin qui mostrato altre figure e potenziali complici sulla scena dello scempio. E perché l´apparente assenza di movente, in realtà forse non è poi tale. Ragiona una qualificata fonte investigativa che in questi 18 giorni ha lavorato al profiling dell´uomo cui si dava la caccia: «Delle due l´una: o Vantaggiato dissimula, per coprire un complice o un movente turpe, che lo costringerebbe a spiegare perché abbia deciso di colpire delle ragazze. O, al contrario, il movente sembra assente solo perché abbiamo a che fare semplicemente con un sociopatico. Un uomo che sovraordina le proprie decisioni alle conseguenze che i suoi gesti possono provocare. Uno stragista che non rivendica perché rimuove e perché valuta le proprie vittime come un incidente di percorso della sua rabbia». Un incubo, insomma, cui è difficile rassegnarsi e che sembra uscito dal deserto emotivo di un remoto outback americano o australiano e non da Copertino, Salento, Italia.
Certo, se qualcosa si è rotto nella testa di Vantaggiato, è storia degli ultimi quattro anni. Se «l´odio verso il mondo» ha un suo incipit, questo cade nel 2007, quando un imprenditore agricolo del brindisino cui ha fornito carburante, tale Cosimo Parato, lo truffa per una somma importante. Almeno 300mila euro. Vantaggiato, che per giunta per truffa sulle accise della benzina è stato in passato arrestato e condannato, chiede giustizia al tribunale penale di Brindisi. Ma, evidentemente, ritiene di non ottenerla, né nei tempi, né nei modi dovuti. Forse (e la possibilità sembra a questo punto una mezza certezza), prova innanzitutto a fare da sé. Perché un anno dopo, nel 2008, a Parato, in rapida sequenza, va prima in fiamme la sua Audi A8, e quindi gli salta in aria il box di casa. Guarda caso con la stessa tecnica e lo stesso ordigno (bombole di gas riempite di polvere pirica, come accerta l´inchiesta dell´allora pm di turno, De Nozza, lo stesso dell´inchiesta sulla strage). È un fatto che lui, Vantaggiato, aspetta per quattro anni una sentenza di primo grado che condanna Parato, ma non lo fa rientrare della somma di cui è stato truffato. Ed è un fatto che quel verdetto arrivi nell´aprile di quest´anno. Il 19. Che è poi esattamente il giorno di maggio che sarà scelto per la strage. Quasi in omaggio a un´oscena Cabala.
Ma c´è dell´altro. Almeno a grattare nei dati obiettivi che propone la parabola di quest´uomo e della sua famiglia. Negli ultimi quattro anni, gli affari della "Marchello Carburanti s.a.s.", l´azienda familiare dall´irrisorio capitale conferito (poco più di 50 mila euro), di cui è socia accomandataria la moglie Giuseppina Marchello (classe 1945), e soci accomandanti lui, Giovanni, e una delle figlie, Veronica (36 anni, una figlia piccola e un matrimonio finito alle spalle che l´ha costretta a tornare a casa dei genitori) vede gli affari improvvisamente contrarsi. La "metanizzazione" di Copertino è una sciagura per chi vende bombole del gas. Quanto quella di Brindisi, dove Vantaggiato pure ha diversi clienti. Compresa la scuola "Morvillo-Falcone" che, pare, gli debba ancora il saldo di una fattura. Forse, improvvisamente, Vantaggiato sente minacciati i tre locali ad uso negozio e il box di proprietà che ha acquistato nel tempo in Paese (come documentano le visure catastali) e magari anche il motoscafo da 50 piedi in legno che ha ancorato a Porto Cesareo. Basta a trasformarsi in un assassino che tira nel mucchio? «Potrebbe bastare - osserva un investigatore - Soprattutto se un uomo autocentrato come Vantaggiato, che ha conosciuto prima l´emigrazione in Germania e poi il benessere del ritorno, che ha fatto studiare le figlie per poi ritrovarsele disoccupate, ha avuto a un certo punto la sensazione, da truffato, che il mondo volesse togliergli all´improvviso tutto».

l’Unità 8.6.12
I documenti «segreti» del Vaticano
risponde Luigi Cancrini


Il giorno della visita del Papa a Milano, alla presenza di un milione di persone, è uscito l'ennesimo documento “segreto” trafugato in Vaticano che in realtà, come i precedenti, non ha svelato nulla di eclatante. È una lettera riservata al Papa di un cardinale sulle messe celebrate dai catecumenali. Dov'è lo scandalo?
di Lucio Skola

Ho cercato inutilmente anch’io di capire dove fosse lo scandalo evidenziato dai documenti segreti trafugati in Vaticano. L’unico dato reale, alla fine, mi sembra quello legato al fatto che il trafugamento ci sia stato e che esso sia stato utile a far capire all’esterno che in Vaticano come dappertutto ci sono gruppi di potere in lotta fra di loro. Su quali temi? Su temi che riguardano, sostanzialmente, i rapporti da tenere con organizzazioni come i neocatecumenali, che hanno con la Chiesa di Roma un rapporto non del tutto lineare. Di altro, mi pare, non c’è molto perché sui grandi problemi (dal divorzio all’aborto, dalla fecondazione assistita al ruolo delle donne nella Chiesa, dall’omosessualità al testamento biologico) ben poco c’è di segreto nelle posizioni del Papa e del Vaticano e perché nulla di fatto aggiungono i documenti “segreti” a quello che già si sa sui modi, a volte discutibili, con cui la Chiesa gestisce la sua quota di potere finanziario e la sua capacità di influenzare le scelte dei politici (italiani). Di cui il Papa probabilmente si occupa meno di altri. Nulla di nuovo e di importante. Con buona pace di chi pensa che il gossip e il pettegolezzo (o la maldicenza) siano il modo più intelligente oggi per affrontare questioni importanti e complesse come quella relative al ruolo che la Chiesa di Roma ha e potrebbe avere nel mondo di oggi.

La Stampa 8.6.12
Gotti, il memoriale doveva essere spedito a tre fedelissimi
Oltre al Papa i destinatari erano un giornalista, un avvocato e un amico
di Guido Ruotolo


Due pagine, il memoriale. E una risma di allegati. Di copie di mail, lettere, documentazione ritenuta importante per difendersi dai nemici interni e delle Sacre Stanze, e dalle contestazioni che il «tribunale» dello Ior, il cda, gli aveva rivolto nel processo che poi si è concluso con la sua destituzione.
Ettore Gotti Tedeschi, l’ex numero uno dello Ior defenestrato il 24 maggio, aveva paura di essere ucciso e per questo aveva consegnato una copia del memoriale alla sua segretaria, dandole indicazioni precise che nel caso in cui gli fosse accaduto qualcosa avrebbe dovuto far recapitare il materiale completo degli allegati a tre precisi indirizzi che corrispondono a quello di un giornalista, di un avvocato e di un suo amico personale. Un’altra copia, invece, era indirizzata al Pontefice attraverso il suo segretario particolare Padre Georg Gänswein.
Di certo, pochi giorni prima che fosse destituito, Ettore Gotti Tedeschi aveva chiesto udienza privata al Santo Padre (incontro che poi è saltato per ovvii motivi di opportunità). Il banchiere temeva per la sua vita perché aveva chiesto «trasparenza», perché voleva che anche la Banca Vaticana rispettasse la normativa internazionale sull’antiriciclaggio. Ma forse Gotti Tedeschi sospettava che alcuni conti anonimi e cifrati nascondessero identità di esponenti della criminalità mafiosa?
Nel carteggio telematico allegato al memoriale, vi sono anche mail scambiate con il segretario del Papa, don Georg, sul conflitto che lo contrapponeva al direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani. E con la segreteria di Stato, nelle quali ritornava e spiegava le ragioni perché si dovesse entrare nella «white list», dopo aver adottato le procedure antiriciclaggio.
Dopo i due interrogatori milanesi con la Procura di Napoli e con quella di Roma (il secondo giorno), per Ettore Gotti Tedeschi ha parlato il suo legale. Dalle indiscrezioni è emerso che lui si è difeso davanti ai magistrati ricordando di essere stato «una figura di vertice dello Ior»: «Non mi occupavo di conti».
Il suo legale, l’avvocato Fabio Palazzo, precisa che il memoriale e gli allegati sequestrati in due copie nel corso delle perquisizioni, «in realtà non sono altro che una documentata ricostruzione della bontà e della correttezza del suo operato nei tre anni di presidenza dello Ior. In questi appunti che sono stati definiti il memoriale, Gotti Tedeschi ha voluto replicare alle diverse contestazioni del cda dello Ior, alla base della sua rimozione».
L’avvocato Palazzo ricorda anche che la documentazione acquisita dalla Procura di Napoli - che a sua volta ha trasmesso ai colleghi di Roma il materiale Ior - è stata sequestrata dai carabinieri del Noe, «all’esito delle perquisizioni eseguite». E non dunque consegnate dall’ex presidente dello Ior alla magistratura. Va anche ricordato che gli investigatori hanno clonato i computer presenti nell’abitazione e negli uffici milanesi di Gotti Tedeschi.
Su tutta la documentazione Finmeccanica d’interesse della Procura di Napoli, e alla base della decisione di procedere con la perquisizione dell’abitazione piacentina e dei suoi uffici milanesi, l’avvocato Palazzo non è in grado di confermare l’avvenuto sequestro di contratti di finanziamenti da parte del Banco di Santander (di cui Gotti Tedeschi è il rappresentante in Italia) e le aziende del gruppo Finmeccanica: «In un armadio del suo ufficio - spiega il legale - sono stati sigillati 47 faldoni».
L’ex numero uno dello Ior è stato interrogato come testimone, ma essendo indagato di reato connesso dalla Procura di Roma è stato sentito alla presenza del suo legale.
La procura di Roma, infatti, gli ha contestato la violazione formale della normativa antiriciclaggio nell’ambito del fascicolo che ha portato, due anni fa, prima al sequestro e poi al dissequestro di 23 milioni di euro. Un operazione sospetto con il Credito Artigiano.
C’è poi un secondo fascicolo sempre aperto dalla Procura di Roma, che riguarda una quindicina di «operazioni sospette» di riciclaggio di denaro attraverso depositi Ior su banche italiane. In questo secondo fascicolo sarebbero coinvolti una decina di sacerdoti che avrebbero riciclato alcune centinaia di migliaia di euro. Tra loro Salvatore Palumbo, Orazio Bonaccorsi ed Evaldo Biasini (quest’ultimo appare anche nelle indagini sul G8) nonchè monsignor Emilio Messina.

Corriere 8.6.12
Ior, Gotti Tedeschi voleva inviare il dossier al Papa
Ai pm le mail con Bertone e sui conti della mafia
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Aveva tre destinatari il memoriale preparato dal banchiere Ettore Gotti Tedeschi «se dovesse succedermi qualcosa». E una copia doveva arrivare al Papa attraverso monsignor Georg Gaenswein. In tutto sono circa duecento pagine: un'introduzione di due cartelle, decine e decine di mail e altri appunti inseriti tra gli allegati, alcune pagine dell'agenda personale che documentano incontri e colloqui. In quelle carte sono indicati «gli amici e i nemici» dell'ex presidente dello Ior.
Ci sono le richieste di aiuto presentate nei momenti di difficoltà a numerose persone, comprese quelle più vicine al Pontefice come monsignor Gaenswein. Ci sono i resoconti degli scontri avuti con il cardinale Tarcisio Bertone e soprattutto con il direttore generale dell'Istituto per le Opere di Religione, Paolo Cipriani. Perché anche durante l'interrogatorio con i magistrati romani — il procuratore Giuseppe Pignatone e l'aggiunto Nello Rossi — Gotti ha ribadito di essere sempre stato «osteggiato perché volevo la trasparenza, soprattutto su alcuni conti». Un riferimento neanche troppo velato ad alcuni depositi «cifrati» che potrebbero essere in realtà riconducibili a esponenti della criminalità organizzata. E proprio questo spiegherebbe i timori che Gotti ha esternato prima a persone fidate e poi ai pubblici ministeri motivando la sua scelta di collaborare dopo il sequestro del memoriale: «Temo per la mia vita».
L'armadio con 47 faldoni
Dell'esistenza del memoriale Gotti aveva parlato nei giorni scorsi con alcune persone. È possibile che uno di questi telefoni fosse intercettato e che in questo modi i magistrati abbiano scoperto l'esistenza del carteggio. All'alba di martedì, quando i carabinieri del Noe sono entrati nel suo ufficio di Milano e nella sua casa di Piacenza per ordine della procura di Napoli, lo hanno sequestrato insieme ad altri documenti. Complessivamente, specifica l'avvocato Fabio Palazzo «si tratta di 47 faldoni che erano stipati in un armadio» e riguarderebbero anche le attività svolte quando era al vertice della Banca Santander, i contratti di finanziamento per le aziende del gruppo Finmeccanica, altri rapporti commerciali che passano proprio dallo Ior ma che nulla avrebbero a che vedere con il periodo durante il quale Gotti rivestiva la carica di presidente.
Quando gli viene chiesto conto del carteggio che secondo alcune indiscrezioni Gotti avrebbe addirittura voluto consegnare al Pontefice il banchiere chiarisce: «Ne avevo affidato una copia alla mia segretaria e le avevo detto che se mi fosse accaduto qualcosa avrebbe dovuto consegnarlo ad alcune persone che le avevo indicato: un mio amico, il giornalista Massimo Franco e un avvocato». Effettivamente una seconda copia viene consegnata ai carabinieri proprio dalla segretaria e Gotti esclude che in circolazione ce ne possano essere delle altre.
Lo scontro sui conti segreti
Ai magistrati romani Gotti chiarisce, come del resto aveva già fatto in passato dopo il sequestro dei 23 milioni transitati per lo Ior, che «io sono sempre stato al vertice, dunque non mi occupavo della gestione dei conti». Non nega però di non aver ottenuto risposta quando aveva chiesto di sapere a chi fossero intestati alcuni depositi che risultavano registrati in maniera cifrata. Un netto rifiuto era stato opposto dal direttore generale Cipriani «che è sempre stato contrario alla linea di trasparenza che volevo intraprendere». Il sospetto è che in realtà su quei conti ci siano soldi della mafia e proventi di altre attività illecite, comprese le tangenti pagate a politici e alti funzionari dello Stato. Ed è proprio per questo che Gotti evidentemente temeva «per la mia vita, ho paura che possano ammazzarmi».
Nell'introduzione del memoriale Gotti elenca «i passi da fare per entrare nella "White List" dell'Unione Europea» e le personalità che si oppongono. In questo contesto cita il cardinale Tarcisio Bertone, gli «altri oppositori», ma anche coloro che lo appoggiano, e allega le mail con i collaboratori di Benedetto XVI.
Molto altro si potrà scoprire analizzando il contenuto dei suoi computer. I magistrati hanno già copiato l'intero archivio informatico che sarà esaminato nei prossimi giorni alla presenza del legale e di un consulente. Poi Gotti dovrebbe essere nuovamente interrogato sia dai pubblici ministeri romani, sia dai napoletani. La sua collaborazione viene ritenuta preziosa, ma gli inquirenti appaiono convinti che i documenti consegnino elementi importanti per ricostruire numerose operazioni sospette.

il Fatto 8.6.12
Anche al papa il memoriale Gotti Tedeschi
La guerra dello Ior e la paura di Gotti Tedeschi di essere ucciso: “Consegnate il mio memoriale a Benedetto XVI
di Marco Lillo


Se mi succede qualcosa fate arrivare questo memoriale con tutte le carte allegate sulle questioni di cui mi sono occupato negli ultimi tempi al mio amico avvocato (...), al giornalista del Corriere della Sera, Massimo Franco e anche al Papa, tramite il suo segretario don Georg Ganswein. Queste erano le volontà apposte a margine del memoriale scritto da Ettore Gotti Tedeschi e trovato a Milano dai pm di Napoli. L’ex presidente dello IOR, rimosso all’improvviso dall’incarico era impaurito per la sua vita. Durante la battaglia durissima che lo aveva contrapposto alla Segreteria di Stato sulla questione della normativa anti-riciclaggio aveva consegnato alla sua segretaria una copia del memoriale con le carte più scottanti.
OLTRE all’originale, trovato in casa del banchiere a Piacenza, i Carabinieri del Noe coordinati dal capitano Pietro Raiola Pescarini, martedì hanno trovato una seconda copia nell’ufficio di Gotti Tedeschi presso la sede del Banco Santander di Milano in via Boito, a due passi dalla Scala.
I Carabinieri sono sobbalzati leggendo l’appunto: Gotti Tedeschi temeva davvero di potere essere ucciso. Lo si comprende dal livello dei destina-tari del dossier che aveva preparato per spiegare le ragioni di un’eventuale morte sospetta.
Il banchiere pensava di far conoscere all’opinione pubblica i retroscena delle lotte intestine del Vaticano mediante uno dei giornalisti più importanti del Corriere della Sera come Massimo Franco.
Il notista del principale quotidiano italiano negli ultimi tempi si era occupato a più riprese di Gotti e del Vaticano. Il giorno dopo la perquisizione era uscito sul Corriere un suo articolo nel quale si legge: “Gotti Tedeschi conosce ogni documento e i suoi avversari sanno che sa. Forse la spiegazione più plausibile è che aspetta un cenno dal Papa”.
E PROPRIO al Papa, Gotti voleva fosse consegnato il memoriale che in realtà si compone solo di due pagine più decine di fogli allegati che ne costituiscono la parte più esplosiva. Nell’introduzione sono schematizzati gli avvenimenti più delicati nei quali il banchiere aveva avuto un ruolo di protagonista o di testimone. In corrispondenza di ogni passaggio delicato, nel breve memoriale c’era un rimando a un documento o a un appunto che precisava nel dettaglio gli avvenimenti sommariamente descritti. I magistrati di Napoli hanno sequestrato nell’ufficio del Santander, oltre ai contratti dei finanziamenti elargiti dalla banca spagnola a Finmeccanica, anche un intero armadio contenente 47 faldoni, più due computer. Tutto questo materiale è stato sigillato ed è a disposizione degli inquirenti che però ne prenderanno visione solo nei prossimi giorni, alla presenza del difensore e dei suoi consulenti.
L’INCHIESTA dei pm napoletani Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio riguarda le presunte mazzette pagate secondo l’accusa (partita dalle rivelazioni dell’ex direttore centrale di Finmeccanica Lorenzo Borgogni) a Lega e Cl in occasione della vendita al governo indiano di 12 elicotteri Agusta Westland nel 2010. E per questa ragione tutte le carte che, invece, sono inerenti allo IOR, saranno trasmesse alla Procura di Roma dove è aperto dal 2010 un fascicolo che vede indagati il presidente Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani per violazione della normativa anti-riciclaggio. Da questa indagine ne è nata una seconda che vede indagati alcuni prelati per riciclaggio ma non il presidente Gotti Tedeschi. Proprio su questo secondo filone si concentrano il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Fava. E, proprio nell’ambito di questa indagine per riciclaggio, Gotti Tedeschi sta collaborando. L’ex presidente dello IOR non aveva un ruolo operativo e infatti a lui si contesta solo la violazione minore degli obblighi formali e non i singoli episodi, puniti più pesantemente, di presunto riciclaggio. Gotti ha accettato di parlare mercoledì scorso con i pm romani che avevano la copia del memoriale e delle lettere trovati dai colleghi napoletani sul tavolo.
L’AVVOCATO Fabio Palazzo però precisa che nel memoriale “Gotti Tedeschi non fa riferimento a nessun caso di riciclaggio, ma parla di come risolvere problemi relativi ai conti, adottando adeguate procedure anti-riciclaggio, che se applicate, avrebbero consentito al Vaticano di entrare nella white list, e che qualcuno aveva ostacolato, o comunque ne aveva criticato l'applicazione”. Per il legale dell’ex presidente dello IOR “Gotti Tedeschi non era a conoscenza di nessun caso di riciclaggio”.

il Fatto 8.6.12
Conflitto d’interessi
La sottile differenza tra cliente ed ex cliente


Quando uno dei maggiori penalisti su piazza, quale senza dubbio è Paola Severino, diventa ministro della Giustizia, il campo di gioco del conflitto d’interessi diventa impervio per forza di cose. E il caso Gotti Tedeschi ne è una dimostrazione esemplare. Due giorni fa l’agenzia Adnkronos faceva notare come l’ex presidente dello Ior fosse ancora difeso dallo studio Severino, per l’esattezza dall’avvocato Elisa Scaroina, nell’indagine per riciclaggio condotta dalla procura di Roma. Dettaglio imbarazzante, visto che il Guardasigilli, tra l’altro, veniva sollecitato da un’interrogazione parlamentare a valutare la correttezza dei magistrati nelle perquisizioni a casa e nello studio milanese di Ettore Gotti Tedeschi, suo cliente.
Ma c’era un’inesattezza. La stessa agenzia di stampa ieri mattina ha precisato come in effetti Paola Severino abbia sospeso ogni sua attività professionale dopo la nomina a ministro, cancellandosi dall’albo. In occasione delle perquisizioni dell’altro ieri il banchiere piacentino è stato assistito dall’avvocato Fabio Palazzo dello studio Pisapia (che sarebbe poi il sindaco di Milano).
MA PALAZZO non era mai stato il difensore di Gotti Tedeschi. È stato chiamato proprio martedì mattina, quando sono scattate le perquisizioni, e quando l’ex presidente dello Ior è stato interrogato nuovamente dai magistrati romani, quindi in veste di indagato, quindi con l’assistenza di un legale.
Agli uffici giudiziari romani fino a pochi giorni fa risultava ancora il nome di Paola Severino come difensore di Gotti Tedeschi, per la banale ragione che il ministro ha sospeso l’attività ma non lo ha notificato a tutti i titolari delle inchieste in corso su suoi clienti. È un fatto però che Palazzo, chiamato all’improvviso a occuparsi di un caso a lui ignoto, si sia rivolto proprio alla collega Scaroina per avere istruzioni e ragguagli. I legali dello studio Severino sono ancora quelli più addentro al caso, che effettivamente non aveva registrato importanti sviluppi nei sei mesi di vita del governo tecnico. E sono loro quindi a trasmettere il sapere specifico ai colleghi subentranti nella difesa di Gotti Tedeschi.
ORA È EVIDENTE che l’avvocato Severino, cancellando il suo nome dall’albo degli avvocati, ha radicalmente risolto - dal punto di vista formale - ogni ipotesi di conflitto d’interessi. Ma il mestiere del penalista-Guardasigilli è inevitabilmente complicato. Agli uffici del ministero, in via Arenula a Roma, sono state depositate le rogatorie (richieste di indagini all’estero rivolte alla magistratura di un altro Paese) connesse all’inchiesta romana per riciclaggio a carico di Gotti Tedeschi. E negli stessi uffici su cui oggi regna l’avvocato Severino stanno arrivando le rogatorie provenienti dal Vaticano per indagare in Italia sulla fuga di notizie dagli uffici della Curia e del Papa, l’intricata storia che vede al centro in questo momento proprio Gotti Tedeschi. Passaggi delicati per il Guardasigilli, forse addirittura imbarazzanti.

il Fatto 8.6.12
Lettere e note riservate: tutte le trame che infiammano Oltretevere


Veleni e inchieste, sospetti e corvi. Un vero e proprio Vati-gate. Il 10 febbraio il Fatto pubblica per la nota in tedesco sulle presunte rivelazioni dell’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, consegnata dal cardinale colombiano Dario Castrillón Hoyos al segretario del Papa, nella quale veniva ipotizzato un complotto omicidiario ai danni di Benedetto XVI. Qualche giorno prima, il 27 gennaio era uscita la lettera in cui l’ex segretario del Governatorato, monsignor Carlo Maria Viganò, denunciava furti nelle ville pontificie coperti dal direttore dei Musei Vaticani, monsignor Paolo Nicolini. Passa meno di un mese. È del 20 febbraio il memo concordato dall’ex presidente dello Ior Gotti Tedeschi con il ministro Tremonti, per attutire gli effetti sulle casse vaticane dell’offensiva europea contro le agevolazioni Ici. È stata pubblicata anche la lettera in cui l’ex direttore dell’Avvenire Dino Boffo minacciava il presidente della Cei Bagnasco di rivelare il ruolo svolto dal direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian nella pubblicazione degli articoli diffamatori nei confronti di Boffo da parte del Giornale di Feltri. Questi documenti sono riproposti, con l’aggiunta di altre carte riservate, nel libro di Gianluigi Nuzzi, di Chiarelettere.

il Fatto 8.6.12
Il riciclaggio vaticano. Le ombre sui quei 23 milioni


Gotti Tedeschi è iscritto nel registro degli indagati della procura di Roma per violazione delle norme antiriciclaggio in relazione alla movimentazione sospetta di 23 milioni di euro, sequestrati nel settembre 2010 e poi restituiti allo Ior. Si tratta di operazioni ritenute dagli inquirenti di piazzale Clodio caratterizzate da omissioni punite dalle norme antiriciclaggio. Per quella vicenda è tuttora indagato anche l'allora direttore generale Paolo Cipriani.

Repubblica 8.6.12
Gotti Tedeschi e il memoriale Ior "Sequestrato, non l’ho dato io" E il governo pensa alla scorta
Il banchiere ai pm: non seguivo i conti, ero al vertice
Nel pc prelevato dall’abitazione dell´economista le e-mail scambiate con il Pontefice
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO -Una scorta per Ettore Gotti Tedeschi. All´ex presidente dello Ior si sta pensando di assegnare una vigilanza armata dopo che l´economista, cacciato due settimane fa dal Consiglio di amministrazione della banca vaticana, ha detto ai magistrati che l´hanno interrogato per due giorni di temere per la propria vita.
I giudici hanno valutato come effettive le sensazioni espresse da Gotti. Già negli ultimi mesi il banchiere piacentino si era autonomamente dotato di una protezione privata. Ma ora del provvedimento si potrebbe occupare, vista la delicatezza del caso, lo stesso capo della Polizia, il prefetto Antonio Manganelli.
Per l´ex numero uno della banca del Vaticano gli interrogatori e la lunga perquisizione non sono stati indolori. I magistrati hanno portato via un´enorme quantità di materiale. Hanno sigillato un armadio con dentro 50 faldoni. E trovato le sue e-mail personali inviate direttamente al Papa.
«Non è vero però che fra i documenti sequestrati ci fosse anche un memoriale del dottor Gotti Tedeschi – precisa il suo legale, l´avvocato Fabio Palazzo - E inoltre il mio assistito non ha consegnato spontaneamente, cioè per sua decisione, alcun materiale: i pm di Napoli e Roma hanno acquisito tale materiale attraverso un sequestro da loro disposto». Dentro vi erano degli appunti di lavoro, spiega il legale, «che contenevano elementi utili per controbattere alle accuse che gli erano state fatte quando è stato sfiduciato nel suo ruolo di presidente dello Ior».
Nell´interrogatorio condotto a Milano dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dall´aggiunto Nello Rossi, Gotti ha spiegato: «Allo Ior ero una figura di vertice, non mi occupavo di conti». E sulle carte sequestrate l´avvocato Palazzo assicura che non si fa riferimento a casi di riciclaggio. Certo, dice, si parla dello Ior, di «problemi relativi ai conti, di procedure anti-riciclaggio che avrebbero consentito di entrare nella "white list", e che qualcuno aveva ostacolato o ne aveva criticato l´applicazione». Che dopo la defenestrazione dalla banca vaticana Gotti stesse preparando una contromossa a difesa della propria onorabilità, è dunque vero. Ma il destinatario del suo memoriale non erano i magistrati, ma più probabilmente i vertici del Vaticano. Emerge così, come è evidente da tempo, l´esistenza di un filo diretto di Gotti con la figura di Benedetto XVI. E lo scambio di e-mail con Benedetto XVI trovate ora a Gotti non sono una sorpresa. Il Pontefice gli aveva affidato, d´accordo con il Segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, l´obiettivo della "trasparenza", con il compito di adeguare il forziere vaticano agli standard normativi internazionali. Un mandato vissuto da Gotti Tedeschi come una vera e propria "mission".
E´ così poi maturata la determinazione di Gotti Tedeschi di cercare una sponda diretta nel Papa, reagendo al brusco siluramento e mettendolo a parte della propria verità. Parte delle carte da lui custodite sarebbero state destinate a Ratzinger, per confluire in un "memorandum" che di certo era nei suoi desideri. Gotti vorrebbe ora incontrare il Papa, in forma riservatissima. Ma c´è chi dubita che ciò possa avvenire, perché risulterebbe imbarazzante per il Pontefice.

Repubblica 8.6.12
A colloquio con Benedetto XVI tre cardinali e il segretario particolare: "Per il bene della Chiesa non emergano i dissidi"
Il Papa impone la tregua su Bertone "Ora l’unità, ma pronto a intervenire"


Sono escluse per il momento delle azioni plateali sulla Segreteria di Stato
Martedì sera prima gli incontri singoli con i porporati, poi la riunione a cinque

CITTÀ DEL VATICANO - Il Papa con Bertone. Ma solo per ora, e per ragioni tattiche. Se però le critiche dentro il Vaticano, all´interno della Chiesa italiana, e nell´opinione pubblica continueranno, allora Benedetto XVI non tarderà a far sì che l´incarico di Segretario di Stato cambi di mano.
E´ quello che è stato deciso in un incontro ristretto voluto dal Pontefice poche sere fa con un pugno di cardinali, assente Bertone, ma presente il segretario particolare del Papa, don Georg Gaenswein. Una riunione volta a sancire una tregua nelle divisioni fra Eminenze diverse e le loro cordate, a controllare il ciclone scatenato dai documenti interni diffusi sui media, e soprattutto a ricompattare le fila al vertice dell´Istituzione ecclesiastica così toccata dalla vicenda.
Gli incontri, perché in realtà sono stati più d´uno, si sono svolti la sera di martedì, due giorni dopo il successo della visita compiuta da Benedetto a Milano, ma anche dopo la bufera di polemiche esplose a livello mediatico sul cardinale Bertone. Vi hanno partecipato, all´interno del Palazzo apostolico, 3 porporati, padre Georg e, ovviamente, il Papa. Prima Joseph Ratzinger ha voluto parlare con le Eminenze uno per uno, da solo. Poi, li ha riuniti tutti e tre, alla presenza del suo segretario.
«I dissidi interni al Vaticano ci possono essere – vengono così riferite le parole del Pontefice durante la piccola seduta finale con i convenuti - però non devono emergere all´esterno. Noi dobbiamo pensare a ricompattare l´unità della Chiesa». La parola chiave del Papa è stata, anzi, questa: «Facciamo squadra per difendere la Chiesa». «Non i singoli – ha precisato ancora, guardando i suoi negli occhi – ma la Chiesa stessa». La sostanza del discorso di Ratzinger è che solo l´unione può far uscire integra l´Istituzione ecclesiastica da questo frangente difficile.
La decisione del Pontefice è, dunque, quella di riabilitare Bertone agli occhi dell´opinione pubblica, sostenendolo con più puntelli. L´ultimo in ordine di tempo: l´intervista rilasciata ieri all´Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Santa Sede, dal cardinale decano Angelo Sodano. Nell´articolo, il predecessore di Bertone alla Segreteria di Stato, con il quale in passato ha avuto non pochi motivi di attrito, affermava che fra i cardinali ci sono solo normali diversità di opinione. Dichiarazioni prudenti e improntate all´unità, che si accoppiavano per nulla a caso l´altro ieri con quelle del cardinale argentino Leonardo Sandri, un´altra Eminenza di peso ma senza particolari rapporti di condivisione con Bertone.
Che cosa ha assicurato il Santo Padre ai due esperti porporati, considerati fra gli anti-bertoniani? Che presto si occuperà lui stesso della Segreteria di Stato, e che la questione verrà risolta, ma con i tempi giusti. La scelta fatta da Ratzinger dimostra, ancora una volta, quanto il Papa sia a conoscenza, soprattutto ora, della gran parte dei meccanismi che girano intorno alla vicenda, e dei suoi protagonisti. Tuttavia il Pontefice ha escluso in modo tassativo l´ipotesi di intervenire adesso, in maniera plateale, nei confronti del suo principale collaboratore, suo amico da tanti anni. Una decisione che potrebbe risultare devastante, se fatta subito, per l´immagine della Chiesa nel mondo. Se ci si arriverà, Benedetto compirà questo passo senza clamore, secondo le tradizioni consolidate dell´istituzione, a tempo debito.
Ieri sera il Papa, che ha continuato nella giornata a monitorare la situazione interna, ha celebrato messa nella Basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma, per la solennità del corpo e del sangue di Cristo, il Corpus Domini. Ha poi presieduto la tradizionale processione eucaristica che, percorrendo via Merulana, ha raggiunto la Basilica di Santa Maria Maggiore.
Il giorno prima, nella lettera inviata ai parroci della Diocesi di Roma, il cardinale vicario Agostino Vallini aveva fatto un riferimento implicito alla vicenda dei "corvi", cioè i diffusori delle lettere segrete vaticane, scrivendo: «Rivolgo un invito particolare a partecipare numerosi a questo momento ecclesiale per ringraziare il Signore del dono inestimabile dell´eucaristia, per testimoniare pubblicamente la nostra fede e l´unità della Chiesa di Roma intorno al suo vescovo. In un momento in cui la sede di Pietro è fatta oggetto di gravi e ingiuste illazioni, che disorientano la gente, desideriamo elevare al Signore la nostra fervente preghiera per tutti, perché ci conceda il dono dell`unità e della pace».
(m.ans.)

La Stampa 8.6.12
Presunto contrasto fra l’Art. 4 e quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Embrione, la legge 194 all’esame della Consulta
Ricorso di un giudice minorile di Spoleto, il 20 giugno la decisione
di R. Cri.


Il 20 giugno la Corte Costituzionale valuterà la legittimità dell’articolo 4 della legge 194 sull’aborto. Il caso è relativo ad una ragazza minorenne ma secondo i costituzionalisti la norma in esame ha in realtà valore e ricaduta più ampia sul diritto di scelta della donna e potrebbe avere conseguenze anche sull’impianto della legge.
N. F. ha sedici anni, abita a Spoleto e accompagnata dal fidanzato minorenne si rivolge al consultorio, manifestando la ferma volontà di abortire senza coinvolgere nella scelta ai genitori. Il caso finisce davanti al giudice tutelare del tribunale accompagnato da una relazione dei servizi sociali che parla di una ragazza «motivata con chiarezza e determinazione». La minorenne, poi, si dice convinta di «non essere in grado di crescere un figlio» e nemmeno «disposta ad accogliere un evento che non solo interferirebbe con i suoi progetti di crescita e di vita ma rappresenterebbe un profondo stravolgimento esistenziale».
Letta la relazione dei servizi sociali il giudice con una sentenza del 3 gennaio decide di sollevare la questione della legittimità costituzionale della norma che definisce le circostanze che possono permettere l’interruzione volontaria della gravidanza. Il motivo? La facoltà prevista dall’articolo 4 di procedere volontariamente all’interruzione di gravidanza entro i primo 90 giorni dal concepimento comporta «l’inevitabile risultato della distruzione dell’embrione umano». Secondo il giudice, dunque, la norma sarebbe in contrasto con quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea del 18 ottobre del 2011 che stabilisce come l’embrione umano sia stato riconosciuto «quale soggetto da tutelarsi in modo assoluto».
Secondo il giudice, poi l’articolo 4 della 194 potrebbe essere anche in contrasto con altri articoli della Carta e, in particolare, quelli di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2), del diritto alla salute (articolo 32), della cooperazione internazionale (articolo 11) e del diritto all’assistenza sanitaria e ospedaliera (117). "Il caso riguarda una minorenne, ma per i costituzionalisti può avere valore più ampio La giovane aveva manifestato la volontà di abortire senza consultare i genitori"

Corriere 8.6.12
«Tutelare l'embrione» La legge 194 alla Consulta


ROMA — La 194 va all'esame della Corte Costituzionale. Che il prossimo 20 giugno dovrà decidere della legittimità dell'art.4 della legge sull'aborto del 1978, quello che stabilisce le circostanze in cui è consentita l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento. A sollevare d'ufficio il dubbio di costituzionalità della 194 è stato il giudice tutelare di Spoleto, nell'ambito di un procedimento riguardante una minorenne che chiedeva di poter abortire senza l'autorizzazione dei genitori. Il giudice ha ritenuto che la norma sia in contrasto con la sentenza della Corte di Giustizia europea del 18 ottobre 2011, che ha riconosciuto all'embrione umano lo status di soggetto giuridico, sin dalla fecondazione. Tale principio ha efficacia diretta e vincolante in tutti gli stati dell'Ue. Perciò la norma che consente l'interruzione di gravidanza, poiché lesiva del diritto alla vita, il primo tra i diritti inviolabili dell'uomo, sarebbe costituzionalmente illegittima. Di qui il rinvio alla consulta.

La Stampa 8.6.12
Amnistia, Pannella: “Sciopero della fame”


«Torno al mio sciopero della fame per l’obiettivo di una amnistia». Lo annuncia il leader radicale Marco Pannella. Tre gli obiettivi che si propone Pannella con la sua iniziativa: 1 «Far interrompere - come d’obbligo, immediatamente - la flagranza criminale in cui versa lo Stato italiano contro la sua stessa Costituzione, contro la legalità e la giurisdizione europea, contro patti internazionali stipulati, ratificati e costituzionalmente protetti, contro lo Stato di Diritto e i Diritti Umani». 2 «Garantire strutturalmente, immediatamente la radicale riforma della malfamata e vergognosa “Giustizia” italiana assicurandole una situazione strutturale che le imponga oggettivamente» la “ragionevole durata” di processi 3. «Risolvere, così, positivamente, quel che da decenni appare essere il massimo problema istituzionale e sociale italiano».

Repubblica 8.6.12
"Mélenchon il rosso come Hitler" Guerra dei falsi volantini in Francia
Scontro con Le Pen in vista delle politiche di domenica
di Giampiero Martinotti


PARIGI - Mélenchon "il rosso" truccato come Hitler in un falso volantino che circola sulle reti sociali: osservata con distacco dai francesi, la campagna per le politiche di domenica si nutre solo di aneddoti e narcisismi, primo fra tutti quello che oppone Jean-Luc Mélenchon, leader del Front de gauche, alla "pasionaria nera", Marine Le Pen. Candidati in una circoscrizione del Pas-de-Calais, nel cuore di quelle zone deindustralizzate in cui spopola il Fronte nazionale, i due si affrontano a pesci in faccia. Gli insulti volano bassi: Mélenchon tratta la Le Pen da «semi-demente», lei replica definendolo «un utile idiota».
Una guerra infiammata dai falsi volantini. La settimana scorsa, il Fronte nazionale ha distribuito uno pseudo-volantino di Mélenchon, scritto in francese e in arabo. Nel testo, una frase che "il rosso" ha detto veramente durante la campagna presidenziale: «Non c´è futuro per la Francia senza gli arabi e i berberi del Maghreb. Votate Mélenchon». Ventiquattr´ore dopo, in televisione, Marine Le Pen se ne assume la responsabilità: «È un colpo mediatico: avete mai visto un volantino che fa parlare così tanto?». Seguono le querele e nuove raffiche di insulti. E ieri il nuovo scontro. Stavolta, a quanto pare, non si tratta di uno stampato, ma di un volantino creato sulle reti sociali, in cui si vede un Mélenchon con i baffetti alla Hitler. Sullo sfondo l´ingresso di un lager e la solita (vera) citazione: «Il nostro obiettivo resta quello di battere l´Fn, di sradicarlo politicamente, ci passeremo il tempo che occorre fino a che avremo l´ultima parola». In basso una traduzione in tedesco maccheronico.
Altri falsi documenti circolerebbero in queste ore sulla rete. L´attenzione al duello fra i due populisti, l´esasperazione della loro battaglia per un seggio da deputato sono il riflesso di una campagna fiacca. Dopo la lunghissima sequenza presidenziale, cominciata in autunno con le primarie socialiste e conclusa il 6 maggio con l´elezione di François Hollande, il paese è stanco, dicono i politologi. Le politiche di domenica (con il secondo turno il 17) dovrebbero dare alla sinistra il controllo dell´Assemblea nazionale, necessario per governare. Unica incertezza: il Partito socialista, probabilmente, non avrà la maggioranza assoluta da solo. L´obiettivo di Hollande è di raggiungere i 289 seggi con gli ecologisti (presenti al governo) e senza dover dipendere dal più ostico Front de gauche di Mélenchon.
È un obiettivo a portata di mano, dicono i sondaggi: la sinistra non è maggioritaria nel paese, ma la destra democratica deve fare i conti con il Fronte nazionale, che le impedisce di fatto qualsiasi velleità. E la logica istituzionale vuole che il presidente appena eletto abbia una maggioranza parlamentare: di fronte a un risultato scontato, almeno in teoria, l´attenzione si sposta sulle spettacolari scintille tra i due populisti.

l’Unità 8.6.12
Pechino taglia i tassi
. È la prima reazione alla «recessione europea»
di Ga. B.


Per la prima volta da quando nel 2008 esplose la crisi finanziaria globale, la Cina ha abbassato i tassi d’interesse. Scendono al 6.31%, un calo pari a un quarto di punto percentuale. La mossa è orientata a rilanciare la crescita, così come l’altra scelta annunciata dalla Banca centrale, cioè la facoltà alle singole banche di offrire interessi più alti ai risparmiatori e tassi più bassi per chi intenda indebitarsi.
Abituata a ritmi di sviluppo intorno al 10% annuo, Pechino è preoccupata per il rallentamento in atto da un paio di anni, benché le previsioni per il 2012 restino ancorate ad un 8% che farebbe gola a qualunque altro Paese. Le autorità sono consapevoli del legame fra i problemi interni e la crisi mondiale, quella dell’area euro in particolare. Non a caso il Fondo sovrano cinese, China Investment Corporation (Cic), ha annunciato un taglio negli investimenti in titoli di stato europei. Lou Jiwei, presidente del Cic ha dichiarato: «Esiste il pericolo che l’Eurozona si spacchi. Quel pericolo sta
aumentando». Lou esclude per il momento che il Cic possa acquistare eurobond, qualora finalmente venissero istituiti: «Troppo rischioso». Pechino tuttavia è consapevole che l’aggravamento dei guai europei condizionerebbe negativamente anche la sua economia. Per questo non pensa affatto di ritirarsi dal Vecchio continente, ma piuttosto di concentrare gli investimenti verso industrie private e grandi progetti infrastrutturali.
Il governo cinese è costretto a ricalibrare continuamente le scelte di politica economica. In questo momento l’obiettivo principale è tornato a essere il rilancio produttivo. Ma l’altro grosso guaio da affrontare è l’eccesso di crediti inesigibili provocato dalla rottura della bolla speculativa edilizia. Per fare fronte a questo problema erano in programma vincoli più rigidi sulle riserve valutarie minime degli istituti bancari. Il varo di queste norme è stato rinviato per non minare l’altro obiettivo, cioè la crescita.

La Stampa 8.6.12
Pechino è bene attrezzata per superare la prima delle sue crisi finanziarie
di Edward Hadas


La Cina, come molti altri Paesi, affronta il rallentamento della crescita economica. Tuttavia, la riduzione di Pechino di 25 punti base sui suoi tassi di interesse di riferimento a un anno è un memento che la Repubblica Popolare può ancora contare su strumenti politici tradizionali. I legislatori altrove devono essere invidiosi.
Negli Stati Uniti, nella zona-euro, in Giappone e nel Regno Unito la crescita reale del Pil pro-capite negli scorsi quattro anni è stata prossima allo zero. I tassi di disoccupazione sono più alti che mai, ad eccezione che in Giappone e i Germania. I metodi da manuale degli aiuti pubblici sono stati distribuiti ben oltre il livello di sicurezza, secondo gli autori di questi manuali. I manuali andrebbero riscritti.
Anziché la forte ripresa e l’elevata inflazione previste, è in arrivo la seconda ondata globale di rallentamento della crescita. I legislatori si trovano in una posizione scomoda. Le condizioni economiche e finanziarie potrebbero peggiorare senza altri aiuti, ma un maggiore aiuto dello stesso tipo ha poche probabilità di essere davvero utile.
Nel frattempo a Berlino tutto procede. È vero, il tasso di crescita del Pil è sceso più in fretta del previsto. Tuttavia, le autorità possono reagire senza dover ricorrere a politiche di tipo sperimentale. Potrebbero di nuovo tagliare i tassi di interesse, e costringere le banche a fare più prestiti. La spesa sulle infrastrutture e i sussidi al consumo possono aumentare senza minacciare la solvibilità del governo. Alla peggio, qualcosa come 3 trilioni di dollari di riserve di valuta estera potranno essere convertiti per uso nazionale.
La Cina avrà bisogno di fortuna per evitare la prima crisi finanziaria senza essere ancora diventata un’economia completamente sviluppata. Eppure ha buone probabilità di successo nel suo tentativo di mantenere alto il tasso di crescita del Pil e rendere al contempo l’economia del Paese più libera dagli investimenti e dalle esportazioni. Il motivo principale di questa fiducia? In caso di contrattempi, Pechino può ancora contare sui vecchi manuali.

Repubblica 8.6.12
La scuola di Francoforte
Da Adorno alle banche ascesa e declino di una saga filosofica
di Maurizio Ferraris


Ma oggi, la città dove insegnò Horkheimer, è soprattutto la capitale della finanza
Due saggi sul famoso istituto della "teoria critica" che nel 2013 festeggerà i 90 anni
Dopo Habermas siamo arrivati alla terza generazione: è l´happy ending
Il modello francofortese ha trasmesso il senso di una cultura europea

Francoforte non è solo la sede della Banca Centrale Europea, o la città dove ogni ottobre si tiene la fiera del libro, ma ha anche legato il suo nome a una delle più famose scuole filosofiche del Novecento, l´Istituto per la ricerca sociale. La sede, un edificio in stile razionalista, è dalle parti della Fiera. Il direttore, dal 2001, è Axel Honneth (nato nel 1949), esponente della terza generazione della scuola e autore di una teoria del riconoscimento in cui confluiscono la dialettica di Hegel, la psicologia di Winnicott e di Mead e la biopolitica di Foucault. Con una particolare apertura nei confronti delle ricerche di Luc Boltanski, con cui condivide l´interesse sui paradossi del capitalismo, che si presenta, insieme, come società della conoscenza molto accogliente e come forza creatrice di progressive forme di esclusione. Così, i temi di ricerca vanno dalla disuguaglianza sociale alla sociologia e psicologia della famiglia, dalla teoria della società alla sociologia del diritto, dalla teoria del lavoro a quella dei media e dell´estetica. Mi è capitato di vedere i due gruppi al lavoro a Sofia, nel 2010, in un convegno internazionale sul futuro della teoria critica, e mi è parso di assistere allo happy ending di una storia filosofica spesso caratterizzata da forti incomprensioni tra Germania e Francia.
Ma conviene fare qualche passo indietro ponendosi due interrogativi elementari. Che continuità c´è tra l´istituto attuale e quello fondato nel 1923 da Felix Weil (1898-1975) e poi diretto dal 1930 da Max Horkheimer (1895-1973), su cui hanno riportato l´attenzione due libri usciti in Francia, intitolati entrambi L´Ecole de Francfort di Jean-Marc Durand Gasselin e di Paul-Laurent Assoun? E, a parte la coincidenza cronologica e tematica, che forse avrebbe suscitato qualche riflessione a Theodor Wiesegrund Adorno (1903-1969, che entra nell´Istituto nel 1938) sull´industria culturale e la sua tendenza alla standardizzazione, che cos´è questo movimento (di cui si potrà trovare una eccellente presentazione di Enrico Donaggio, La scuola di Francoforte, Einaudi)?
Intanto, sono per l´appunto tre generazioni, decisamente meno della scuola di Atene, ma comunque molto, 89 anni. Con l´ascesa al potere di Hitler l´istituto deve emigrare a Ginevra, di qui a Parigi e infine in America, prima alla Columbia University (dove viene coniata l´espressione "teoria critica" per non dire "marxismo"), poi in California. Alcuni suoi componenti non torneranno, come Marcuse catturato fascino californiano di La Jolla. Altri non ci arriveranno nemmeno, come Walter Benjamin (la cui appartenenza allo "inner circle" della scuola è ancora controversa), suicida nel 1940 in Catalogna, per timore di essere consegnato ai tedeschi. Altri, come appunto Horkheimer e Adorno, ritorneranno nel dopoguerra, dopo aver scritto nell´esilio americano un libro epocale, la Dialettica dell´illuminismo, che fa da pendant al Doctor Faustus di Thomas Mann, vicino di casa di Adorno a Pacific Palisades.
Già nella prima generazione le differenze erano grandi. Horkheimer (che nel dopoguerra sarà rettore a Francoforte) era un boss, fumava sigari e comandava a bacchetta Adorno, mi ha raccontato Gadamer tanti anni fa, ricordando che quando loro (lui, Karl Löwith e altri), da Friburgo dove studiavano con Heidgger, andarono per un convegno a Francoforte, si sentirono una massa di provinciali. La questione del "provincialismo" dei friburghesi è forse la via migliore per accedere alla caratteristica fondamentale della scuola di Francoforte. Heidegger aveva scritto nel 1934 un testo intitolato "Perché restiamo in provincia", in cui si vantava di avere rifiutato una chiamata a Berlino. Già poco inclini alla provincia, i francofortesi furono condannati a un ben più ampio cosmopolitismo dall´emigrazione.
Il filo conduttore che tiene insieme tutte le tendenze e caratteri dispersi nello spazio e nel tempo della scuola di Francoforte è proprio il fatto il riflettere l´anima estroflessa della Germania, quella della civiltà europea contrapposta al sangue e suolo. Il che significa anche una apertura al giornalismo e al saggismo. Habermas (nato del 1929), l´esponente più illustre della seconda generazione, collabora da sessant´anni esatti alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui nei primi anni Cinquanta pubblicava non solo articoli sugli esperimenti di Huxley con la mescalina, ma soprattutto, nel 1953, condannava apertamente gli aspetti inquietanti di Heidegger negli anni Trenta. Ed è a un allievo di Adorno come Rüdiger Safranski che dobbiamo Heidegger e il suo tempo, la biografia che nell´originale tedesco trae il titolo dai versi di Celan "La morte è un maestro tedesco", a cui oggi bisogna aggiungere un testo fondamentale come Heidegger, l´introduzione del nazismo nella filosofia di Emmanuel Faye (a cura di Livia Profeti, L´asino d´oro).
Al di là della politica, è una questione di stile. Heidegger si compiace di vedere l´intraducibile nel tedesco, mentre Adorno sostiene che "le parole straniere sono come gli ebrei nella lingua", e largheggia in espressioni inglesi e francesi. In tutto questo c´è anche molto radical-chic. Vedi le Lezioni di sociologia della musica di Adorno, che mi convinsero non solo del fatto che non avevo mai sentito musica, ma che non ne avrei mai sentita in avvenire, perché alla fine l´unico ascoltatore competente risultava essere qualcuno come il Barone di Charlus, nella Recherche. Vacanze a Silvaplana, ma in alberghi di prim´ordine, mica le topaie dove andava Nietzsche, il che darà il destro a György Lukács per ironizzare sul marxismo alla occidentale dei Francofortesi in un saggio intitolato "Grand Hotel Abisso".
Dovendo scegliere, però, molto meglio il radical chic che il sangue e suolo. Il gergo dell´autenticità (1964) è il saggio di Adorno dove si prende di mira l´ossessione dell´autentico ridotta a maniera e a mania in Heidegger. Un tema che si ritrova in La mano di Heidegger (1991) di Derrida. Qui si apre un capitolo importante per il cosmopolitismo francofortese. A lungo ignorandosi a vicenda, i francofortesi e filosofi francesi come appunto Derrida o Foucault erano oggettivamente congiunti dal riferimento alla triade Nietzsche-Freud-Marx. Alla fine si conosceranno. Habermas incontrerà Foucault a Berkeley poco prima della morte, Foucault dichiarerà la sua vicinanza alla scuola di Francoforte e Habermas definirà il pensiero di Foucault come "una freccia scagliata nel cuore del presente".
Le incomprensioni erano però tutt´altro che appianate. Nel 1985 Habermas pubblica Il discorso filosofico della modernità, molto critico nei confronti di Derrida, con il quale però avrà tutto il tempo per riconciliarsi. Sono stato testimone di quello che credo sia stato il primo incontro tra Habermas e Derrida nel 1999 a New York, propiziato da Giovanna Borradori che poi li metterà in dialogo sul post-11 settembre (Filosofia del terrore, 2003). Ho assistito anche alla conciliazione solenne, il 22 settembre 2001, a Francoforte, nel giorno del conferimento del Premio Adorno. Derrida tiene di fronte a Habermas un discorso su Benjamin, e aggiunge venti righe, scritte all´ultimo momento, in cui condanna la reazione di Bush all´attacco alle Twin Towers, e la sua iperbolica richiesta di una "giustizia infinita". Dopo la pace di Francoforte Habermas e Derrida apparvero insieme in L´Europa alla ricerca dell´identità perduta (La Repubblica, 4 giugno 2003), con Derrida ormai gravemente malato. Quando lo vidi mi disse che si era limitato a firmare il testo di Habermas (non ce la faceva più a scrivere) ma che approvava tutto. E, oggi, quando Francoforte è, per tutti, solo la Bce, cioè la capitale della finanza, l´Europa potrebbe, filosoficamente, rileggerlo.

Corriere 8.6.12
Il vero Nietzsche moralista e poeta
di Raffaele La Capria


Ogni scrittore alla fatidica età di ottant'anni sente che è arrivato il momento di fare un bilancio dei libri che ha scritto e delle idee di cui si è nutrito. Con questo libro dal titolo Il bue squartato e altri macelli (Mursia, pp. 302, 17), anche Sossio Giametta dà conto di sé e del proprio lavoro intellettuale. II «bue squartato» è Nietzsche, l'autore amato, tradotto, commentato da Giametta per tutta la vita. Dal «bue squartato» ogni interprete ha staccato una bistecca, e dunque troviamo il Nietzsche di Thomas Mann, quello di Musil, quello di Heinrich Mann, di Hesse, di Rilke, di Hoffmannsthal, di Zweig, e poi quello di Heidegger, di Jaspers, Deleuze, Klossowski, Bataille. E chissà cosa direbbe Giametta a proposito del Nietzsche pop, proposto da Arthur C. Danto, che rappresenterebbe per la storia del pensiero quello che Andy Warhol è per l'arte (sul «Corriere della Sera» di mercoledì). Probabilmente farebbe un salto sulla sedia e direbbe che in questa, come in tutte le altre interpretazioni, si vede più l'interprete che l'interpretato. E direbbe anche che sono interpretazioni parziali, e che «non fanno il bue che pascola nei prati della sua epoca». Invece è proprio quello che nel suo recente libro l'autore vuol farci vedere, e con ciò vuol dire che si è posto il problema del Nietzsche globale facendone il punto centrale della propria speculazione.
Quel che colpisce a prima vista in questo libro è l'abbandono di una lingua bruscamente filosofica e il desiderio di esporre il proprio pensiero con la beata leggerezza di uno stile semplice che si apre a ogni lettore, anche a quelli meno preparati. Ne vien fuori una narrazione autobiografica, quasi un romanzo di idee chiaramente esposte e a volte temerariamente affrontate, data la confidenza che l'autore ha con la sua materia. Che è non solo Nietzsche (è nota la sua collaborazione con Colli e Montanari all'edizione critica delle opere per Adelphi), ma anche Schopenhauer, Spinoza, Goethe, e tanti altri. Tutta una vita di studi e di «sudate carte» trova in questo libro un esito felice che si mostra soprattutto, come ho osservato, nella scrittura e nel coraggio delle proprie opinioni, anche quando sono «azzardate» e, come si dice, «scorrette».
L'autore non si tira mai indietro, neanche quando affronta problemi scabrosi come la pena di morte, o il comunismo, o la natura di Cristo e del cristianesimo, o quello di Nietzsche come «creatore del cuore spirituale del fascismo». Il suo libro è pieno di osservazioni sulla vita in generale, sulla filosofia, sull'arte, sulla letteratura, sulla politica, e si pone continuamente domande, cerca risposte, e ne dà di sorprendenti. Soprattutto sorprende, in uno studioso che si confronta con problemi così ardui, il candore, e a volte l'ingenuità di un ragazzo di ottant'anni, pieno di entusiasmo davanti alla scoperta del mondo. L'ingenuità appare soprattutto quando lo scrittore parla di se stesso e accenna ai propri tentativi letterari, ai dubbi e alle difficoltà da lui incontrate. A volte lo assale la preoccupazione che il lettore non abbia capito la portata delle questioni affrontate, e avverte: «La mia interpetrazione si distingue dalle altre»; oppure: «Quello che comunque nessun altro interprete ha visto e capito...».
Tra le cose non capite, c'è appunto il fatto che Nietzsche è una creatura della crisi storica del suo tempo, e della decadence della cultura del Novecento, è colui che l'annuncia, distruggendo i presupposti filosofici dell'epoca precedente, e diventa il profeta di una religione laica. È un effetto più che una causa. Ed è un moralista, uno dei grandi moralisti che costellano la storia della filosofia, come Agostino, Montaigne, Rousseau. Non è stato mai un filosofo metodico, non ha un suo sistema concettuale «ma si può dire che ha un sistema morale». E inoltre egli è «un moralista-poeta o un poeta-moralista, il moralista penetra nel poeta e il poeta nel moralista». E vi sono in lui due nuclei strettamente collegati. «quello poetico e quello scettico, l'uno positivo e l'altro negativo».
Quando Giametta parla di Nietzsche si sente «il lungo studio e il grande amore/ che (gli) ha fatto cercar lo (suo) volume», si sente una confidenza che a volte sembra eccessiva, e arriva al punto di confondere i propri problemi esistenziali con quelli del suo grande punto di riferimento. Per concludere vorrei indicare brevemente anche gli altri temi discussi in questo libro: il cristianesimo e la Chiesa, lo stile in generale, la politica di oggi e di ieri, i consigli da dare ai giovani pensatori; tutti dettati dall'esperienza di una vita, e pacatamente argomentati anche quando sono estremi.

Corriere 8.6.12
Ebrei italiani, la «grana» del Duce
La disputa sui connazionali arrestati dalle SS a Salonicco
di Gian Guido Vecchi


«L a Regia Ambasciata è stata incaricata di voler pregare il Ministero degli Affari Esteri del Reich affinché vengano annullati i provvedimenti erroneamente adottati e si provveda di conseguenza al ritorno alle rispettive residenze degli ebrei in questione che risultano deportati, al rintraccio degli smarriti, ed alla liberazione di quelli già internati in campi di concentramento». La nota dell'ambasciata italiana a Berlino porta la data del 14 maggio 1943 e segna l'inizio di un caso diplomatico tra il governo fascista e l'alleato nazista che per due mesi rimbalza tra Roma, Berlino e Atene e finisce pure sulla scrivania di Adolf Eichmann, «specialista» della Shoah, l'Obersturmbannführer delle SS che da marzo aveva organizzato la deportazione ad Auschwitz e Treblinka di 55 mila ebrei greci. Succede che i tedeschi, per «errore», hanno deportato da Salonicco anche degli ebrei italiani e il regime che nel '38 aveva approvato le leggi razziali non ci sta e protesta: li rivuole indietro, «in quanto il governo italiano si sente obbligato a proteggerli per motivi morali, patriottici o per interessi nazionali», informa la Regia ambasciata il 15 giugno '43.
Un carteggio straordinario che la storica Sara Berger — ricercatrice del Museo della Shoah in via di costituzione a Roma — ha rintracciato nell'Archivio politico degli Affari esteri tedeschi di Berlino. La lista degli ebrei rivendicati dall'Italia comprende 75 persone anche se «gli italiani veri sono una trentina, gli altri non hanno nazionalità ma li si fa passare per tali: console a Salonicco era Guelfo Zamboni, che nel '92 fu riconosciuto come Giusto delle nazioni dallo Yad Vashem», ricorda lo storico Marcello Pezzetti, tra i massimi esperti della Shoah nonché direttore del Museo di Roma.
Ma tra i 75 c'è una persona intorno alla quale ruota tutto il caso. Ha settantatré anni, si chiama Doudoun Levi Venezia ed è la nonna di Shlomo Venezia, autore del libro Sonderkommando, uno degli ultimi sopravvissuti delle squadre di prigionieri costrette a lavorare tra forni e camere a gas di Birkenau per ripulire e portare via i cadaveri: i Sonderkommando venivano periodicamente gasati, i nazisti non volevano testimoni, Shlomo sopravvisse perché faceva parte dell'ultima squadra prima della liberazione di Auschwitz.
Non aveva mai saputo di preciso cosa fosse accaduto a sua nonna. Solo a Salonicco vivevano più di 45 mila ebrei e quelli greci erano stati chiusi dai nazisti nel quartiere-ghetto Baron Hirsch. Ogni notte partivano i treni verso i campi di sterminio. Dalla deportazione erano risparmiati gli ebrei di altre nazionalità, italiani, spagnoli, portoghesi, turchi. Shlomo, come italiano, abitava appena fuori dal ghetto, ma una parte della famiglia, che non aveva nazionalità italiana, era finita a Baron Hirsch: «Non so nemmeno quando partirono». Nel ghetto era finita anche la nonna, che pure era ufficialmente italiana. Quando nel libro scriveva dei tentativi falliti di portarla fuori, non poteva sapere che proprio il nome della signora Doudoun Levi Venezia sarebbe stato al centro della crisi diplomatica fra i due governi ancora per poco alleati.
Fino all'8 settembre gli ebrei italiani sono ancora «protetti». Così l'ambasciata italiana a Berlino pone il problema, anche se all'inizio sbaglia a trascrivere il nome e scambia il cognome per la provenienza: «È stato segnalato ad esempio il caso della signora Davran, originaria di Venezia, vedova Levi». È interessante come nella lettera del 14 maggio '43 si legga che «è stata deportata in Polonia», fa notare Pezzetti: «In Polonia: il governo italiano sa di Auschwitz». Il console generale a Salonicco, Fritz Schönberg, si giustifica in un telegramma a Berlino del 28 maggio dicendo che la signora «non aveva potuto presentare alcun documento». Quando è arrivata la richiesta, scrive il 4 giugno all'ambasciata italiana il ministero degli Esteri tedesco, «la signora si trovava già nelle zone orientali». Le zone orientali: il luogo della Shoah. Ma l'ambasciata insiste e Eberhard von Thadden, del ministero degli Esteri tedesco, scrive il 19 giugno ad Eichmann: «In allegato troverà la lista finale, secondo quanto dicono, degli ebrei greci che sono richiesti dagli italiani... Gli italiani dimostrano, come noto, un grande interesse per la cittadina italiana indicata al numero 1 della lista, Dundun Venezia...».
Come si spiega tutto ciò? Pezzetti sospira: «Io credo che in generale la situazione sia questa: Mussolini, ogni volta che viene sollecitato da richieste tedesche di accelerare una "soluzione della questione ebraica", concede qualcosa agli alleati. Addirittura, già nell'agosto del 1942, dà un vero e proprio nulla osta alla liquidazione degli ebrei in Croazia. Poi, però, i militari e i diplomatici fanno dei passi concreti in senso contrario: per umanità o senso dell'onore, ostacolano di fatto la politica antiebraica».
Le carte finiscono qui. Con il telegramma del 19 giugno, che chiede ad Eichmann di «rintracciare» e «mettere a disposizione degli italiani» le persone della lista. Ma è tardi. La signora Venezia, partita a marzo, è stata uccisa all'arrivo. Nel Krematorium II, la catena di montaggio dello sterminio aperta proprio nel marzo del '43, il primo dei quattro grandi impianti con camere a gas e forni crematori oltre le baracche del «posto delle betulle»: Birkenau. Lo stesso Krematorium nel quale il nipote Shlomo Venezia, deportato a vent'anni dopo l'8 settembre, si sarebbe trovato a lavorare.

l’Unità 8.6.12
Studi a Harvard per Unabomber
Il matematico-killer tra gli ex allievi della celebre università
Negli Usa ha fatto scandalo il modulo dell’«Alumni Association» che ha compilato anche lui come laureato
Alla domanda sui risultati raggiunti ha risposto: otto ergastoli
di Michele Emmer


A CHE COSA SERVE L’UNIVERSITÀ? È UNA FABBRICA INUTILE DI LAUREE? OPPURE LA LAUREA FACILITA LA RICERCA DI UN LAVORO DI ALTA SPECIALIZZAZIONE E PROFESSIONALITÀ? Se ne discute non solo in Italia ovviamente. Uno dei modi per capire l’utilità di una laurea e l’eccellenza di una università è di raccogliere dati sui laureati tramite dei questionari da aggiornare regolarmente. Cosa che fa lodevolmente anche la Harvard's Alumni Association, l’associazione degli ex alunni della prestigiosa università. L’associazione ha inviato un questionario per aggiornare i dati ad un personaggio famoso. Domanda: quale è la sua occupazione? Risposta: prigioniero. Riconoscimenti avuti? Risposta: otto condanne all’ergastolo, da parte dalla Corte della California nel 1998. Quando la notizia è trapelata, l’Associazione ha confermato che il questionario era stato inviato a tutti gli ex studenti, compreso il personaggio in questione, Kaczynski. Si deplorava che le condanne all’ergastolo fossero state indicate come «risultati»: questo potrebbe aver causato angoscia a qualcuno». Ma chi è Kaczynski?
Theodore John Kaczynski nato il 22 maggio del 1942 è divenuto famoso con il nome di Unabomber. Bambino prodigio, accettato alla Harvard University all’età di 16 anni, si laureò in matematica, ottenne il dottorato all’università del Michigan. A 25 anni è assistente professore all’università di California a Berkeley. Presentò le dimissioni due anni dopo e si ritirò nel 1971 in una capanna nei boschi senza elettricità e acqua corrente. A partire dal 1978 e sino al 1995 inziò ad inviare pacchi bomba a diversi obiettivi, come università e linee aeree, con la motivazione che lo sviluppo industriale stava distruggendo il mondo selvaggio in cui viveva. Una sorta di eco-terrorista. Morirono 3 persone ed altre 23 rimasero ferite. Nel 1995 inviò ad alcuni giornali il cosiddetto Unabomber manifesto in cui dichiarava che le bombe erano uno strumento estremo ma necessario per portare all’attenzione della opinione pubblica la distruzione delle libertà umane dovute alle tecnologie moderne. Se il manifesto fosse stato pubblicato avrebbe rinunciato alle bombe. Il The New York Times e il Washington Post pubblicarono per interno il documento. Leggendo quel manifesto il fratello David Kaczynski vi riconobbe i pensieri di Theodore e lo denunciò consentendo alla FBI di catturarlo dopo anni di inutili tentativi. È il 3 aprile del 1996 poco fuori la città di Lincoln nel Montana, dove si trova la capanna dove vive Theodore Kaczinsky. Gli agenti del FBI circondano la capanna. Appare Kaczinsky, barba e capelli lunghi sulla porta. Fu condannato a sette ergastoli sfuggendo alla pena di morte perché si dichiarò colpevole.
PARAGRAFO 96
Nel manifesto al paragrafo 96 Unabomber scrive. «Perché il nostro messaggio arrivi al pubblico bisogna uccidere qualcuno». Il 10 febbraio 1987 piazza una bomba davanti ad un negozio di computer. Per la prima volta viene visto, ha una felpa con cappuccio, viene fatto un identikit. Passano alcuni anni senza bombe. Le investigazioni sono sospese. Ma il 22 aprile 1993, sempre in California a Tiburon, viene colpito un professore di genetica, Charles Epstein. Due giorni dopo alla Yale University David Gelentner e per la prima volta invia agli investigatori un numero 561-47-0287 che lo identifica, in modo che l’FBI sappia che è lui. Nel dicembre 1994 muore Thomas Mosser, decapitato dalla bomba. Ancora in California, a Sacramento 24 aprile 1995, muore Gilbert Murray, è l’ esplosione più potente che Unabomber abbia mai realizzato. Il 28 giugno 1995 il cosiddetto manifesto viene inviato al Washigton Post e al The New York Times. Il 19 settembre 1995 i due giornali pubblicano il manifesto composto di 37.000 parole. Lo legge anche David Kazinsky e riconosce alcune frasi che il fratello utilizza di solito. In particolare nel paragrafo 115 del manifesto si legge: «Il sistema deve forzare le persone a comportarsi in un modo che sia sempre più remoto dal comportamento usuale dell’essere umano. Ad esempio il sistema ha bisogno di scienziati, di matematici e di ingegneri. Un adolescente normale vuole passare il tempo in fattiva iterazione con il mondo reale». David fa esaminare le lettere del fratello da un esperto per avere un parere. E decide di andare all’Fbi a parlare con gli investigatori che si occupano del caso da quasi 20 anni. Il caso Unabomber è stato il più costoso nella storia della giustizia Usa. Per 20 anni ha eluso le ricerche della polizia e viene preso solo perché nel manifesto scrive delle frasi che al fratello sembrano familiari. Se fosse stato per l’Fbi il matematico killer non lo avrebbero mai preso. È detenuto in un carcere di massima sicurezza nel Colorado.
Il manifesto è visibile nel sito:
http://en.wikisource.org/wiki Industrial_Society_and_Its_Future#The_motives_of_scientists.

La Stampa 8.6.12
I fratelli Rosselli 75 anni dopo

Nel 75 anniversario dell’uccisione dei fratelli Rosselli si terrà domani a Firenze (ore 17, spazio QCR di via Alfani 101r) un incontro articolato in diversi momenti di riflessione, con la presentazione dei libri I fratelli Rosselli , a cura di Alessandro Giacone e Eric Vial (Carocci) e Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff di Amedeo La Mattina (Einaudi). Con gli autori ne discuteranno Ariane Landuyt, Sandro Rogari e Valdo Spini.