sabato 9 giugno 2012

l’Unità 9.6.12
Aut aut a Di Pietro: rispetto reciproco
Primarie aperte entro l’anno
La sfida di Bersani «Patto di governo e primarie aperte entro l’anno»
Mandato pieno per cambiare legge elettorale
Il segretario del Pd pensa a cessioni di sovranità tra alleati per garantire l’intesa e saldo ancoraggio istituzionale
di Simone Collini


Si candida a premier, annuncia primarie aperte, propone un patto di legislatura a tutte le forze democratiche e lancia un aut aut a Di Pietro. Bersani delinea il percorso che dovrà portare alle elezioni del 2013 e incassa un voto all’unanimità da parte della Direzione del suo partito. Al centro del ragionamento che fa il leader del Pd di fronte al resto del gruppo dirigente c’è la necessità di lavorare per una «ricucitura tra politica e cittadini». Il che vuol dire cambiare la legge elettorale, costruire un’alleanza che non sia un’«ammucchiata» e anzi garantisca governabilità, chiamare gli elettori a decidere chi dovrà essere il candidato premier alle prossime politiche. Che dovranno svolgersi la prossima primavera perché il Pd, come ribadisce il segretario, assicura lealtà al governo, a cui però chiede «un approccio meno ragionieristico» e non più annunci ma «qualche segno concreto» per fermare la crisi.
SUPERARE IL PORCELLUM
Per Bersani la priorità a cui devono dedicarsi i partiti, al di là del lavoro sulle questioni economiche e sociali, è superare il Porcellum, perché è chiaro che o un accordo viene trovato prima dell’estate oppure si tornerà alle urne con questo sistema di voto. Contatti tra il segretario del Pd e Alfano per far ripartire su un diverso binario la discussione sulla legge elettorale ci sono stati. Venti giorni è il lasso di tempo che si sono dati i leader di Pd e Pdl per convergere su un determinato modello. Bersani alla Direzione ha chiesto, e ottenuto, un pieno mandato a discutere partendo dalla proposta del doppio turno di collegio, ma con la disponibilità a cercare una possibile mediazione.
PATTO DI LEGISLATURA
Dipenderà in parte dal trovato o mancato accordo sul sistema di voto il modo in cui il Pd andrà alle urne, cioè se da solo o all’interno di una coalizione. Ma Bersani mette in chiaro fin d’ora che non intende impegnare il partito in un sistema di alleanze ad ogni costo. «Tocca al Pd prendere la guida del percorso di alternativa. Noi la proposta politica l’abbiamo da tempo e la teniamo ferma, centrosinistra di governo aperto a un patto di legislatura con forze democratiche e civiche moderate. Un patto di legislatura tra progressisti e moderati per la ricostruzione del Paese». L’idea di Bersani, nel far riferimento a un «centrosinistra di governo», è di chiedere agli eventuali alleati un «accordo di governabilità e una parziale cessione di sovranità». Ancora più in concreto significa che in caso di controversie fondamentali, i gruppi parlamentari decideranno a maggioranza, in una riunione congiunta, come votare in Aula. E non finisce qui. Fin d’ora Bersani mette non solo in chiaro che l’offerta è rivolta tanto ai partiti quanto ad associazioni, movimenti, amministratori e singole personalità del mondo della cultura e dell’impresa (già sono state fissate in agenda per dopo l’estate due iniziative per stringere i rapporti con questi mondi).
AUT AUT A DI PIETRO
Il leader del Pd precisa infatti che non tutti i partiti tradizionalmente alleati faranno parte anche questa volta della partita. «Al collega Di Pietro dico che c’è una ovvia condizione di base, il ri-
spetto reciproco e il saldo ancoraggio istituzionale. Veda un po’ se vuole insultarci o fare l’accordo, mancare di rispetto alle istituzioni della Repubblica o fare l’accordo. Le due cose assieme non possono stare. O l’una o l’altra». Il leader dell’Idv replica a distanza dicendo che vuole capire quale sia il programma del Pd «perché non intendiamo cadere nel tranello delle ipocrisie e della vendita di fumo». Parole che non piacciono a Bersani, che nella replica finale della Direzione rincara la dose: «Ci sono dichiarazioni di Di Pietro irraggiungibili per Grillo. C’è un limite a tutto».
PRIMARIE APERTE IN AUTUNNO
Oggi Bersani e Di Pietro saranno insieme, come anche Vendola, a un convegno organizzato dalla Fiom-Cgil sui temi del lavoro (ieri un gruppo di rappresentanti sindacali guidato da Ferrando del Partito comunista dei lavoratori è andato a contestare davanti alla sede del Pd al grido di «l’articolo 18 non si tocca»). Qui si capirà se la separazione tra Pd e Idv si può dare per assodata e anche se Vendola sfiderà Bersani alle primarie (manca l’ufficialità ma non ci sono dubbi). Il leader del Pd ha rotto gli indugi annunciando non solo che si candida alla premiership ma anche che entro l’anno si faranno primarie aperte per «far decidere ai cittadini» chi dovrà guidare la coalizione «dei progressisti e dei democratici»: «So di chiedere al mio partito un atto di generosità e il coraggio di una sfida. Conosco bene le contraddizioni, i problemi che dovremo affrontare. Ma ho sempre pensato che metterci al servizio di un processo più grande di noi non riduce né il ruolo né la forza del nostro partito». Diversi dirigenti del Pd, sia nei colloqui riservati che negli interventi, non hanno nascosto perplessità per la decisione del segretario. Ma Bersani è convinto che questa sia la scelta giusta: «Alla fine la democrazia è guardare la gente negli occhi e farla scegliere liberamente. Si dimostrerà che questo lo facciamo solo noi».

l’Unità 9.6.12
Sì unanime e mandato al leader per la riforma
di Maria Zegarelli


Franceschini: la candidatura di Bersani è la scelta giusta D’Alema: prima c’è il progetto per l’Italia. Il Pdl fa le primarie? Scelga il nostro stesso giorno...

Alla fine il mandato al segretario è pieno, unanimità nel voto della direzione. Il percorso indicato da Pier Luigi Bersani, e la sua candidatura, sono condivisi dai dirigenti del suo partito, pur con qualche dubbio sulla formula di nuovo conio, «primarie aperte», ma la sostanza convince tutte le anime democratiche, compreso Matteo Renzi, su cui sono accesi i riflettori in quanto (quasi) certo sfidante del segretario.
«Davvero una bella giornata», commentano dallo staff di Bersani. Quel percorso a tre tappe indicato dal segretario, dove il primo step non può che essere la legge elettorale, condicio sine qua non per passare al secondo e poi al terzo, unisce i democrat. Il segretario accetta la sfida lanciata da Alfano e dal Pdl: «Tre settimane e si decide se c’è l’accordo». Ed è evidente che qualche mediazione si dovrà fare, purché si cambi il Porcellum. E proprio alla legge elettorale resta appeso il destino delle alleanze e delle stesse primarie. Come il destino del governo Monti resta appeso al Pdl, perché dal Pd, pur con qualche critica, l’appoggio viene ribadito. Oggi più di ieri, dice Massimo D’Alema, dal momento che «i poteri forti lo hanno abbandonato». Poteri che non esitano ad alimentare l’antipolitica, che in Italia si fonda su due pilastri: «La fragilità del sistema politico democratico» e, appunto, «la disponibilità di una parte del ceto economico e intellettuale dominante a cavalcare questo fenomeno». Sostegno convinto ribadiscono anche Walter Veltroni, Dario Franceschini e Enrico Letta.
IL SOSTEGNO
«Bersani ha detto con chiarezza che si candida, è una scelta giusta dice Franceschini Lo sosterremo, non è l’avventura ma la competenza, il buon senso e la capacità di governo che servono al Paese». Beppe Fioroni avverte: «Se non riusciamo a cambiare il Porcellum almeno che si introducano le preferenze». «Peggio del Porcellum c’è solo il Porcellum con le preferenze ribatte Veltroni, arrivando in direzione a dibattito avviato. No, «peggio del Porcellum con le preferenze c’è il Porcellum con le primarie», sostiene Paolo Gentiloni.
Sulle primarie c’è chi chiede chiarezza e regole certe. «La proposta di Bersani dice il presidente del Copasir D’Alema è seria e convincente. Prima c’è il progetto per l’Italia, o tutto si riduce alla scelta del capo e poi la ligittimazione democratica di chi guida, le cose così sono nell’ordine giusto». E sulle primarie: «Ho posto da lungo tempo l'esigenza di regolarle, di farne non un evento salvifico, un camminare sui carboni ardenti, ma una forma organizzata e regolata di partecipazione democratica». E dal momento che anche il Pdl vuole farle, «facciamole lo stesso giorno così evitiamo che i loro elettori vengano a votare alle nostre».
Franco Marini invita alla cautela: «Vorrei parlare delle primarie aperte dopo la definizione delle alleanze. Perché altrimenti diventa difficile affrontare questo problema. L’idea di avere più candidati del Pd e figure che in astratto potrebbero essere quelle che guidano il Paese merita una ulteriore discussione». Soddisfatto Pippo Civati, «l’apertura alle primarie di coalizione è un nostro successo», cioè di chi come lui, Sandro Gozi e Paola Concia ha firmato l’ordine del giorno (ieri ritirato in vista dell’Assemblea nazionale) che le chiedeva insieme al limite dei tre mandati. Aggiunge che con Renzi si sta ragionando su una «sola candidatura nostra» e Renzi è al primo posto. Non è convinta Debora Serracchiani, vuole capire bene «di cosa stiamo parlando». Resta vaga anche sull’ipotesi di una sua candidatura.
IL CAMPO POLITICO
Resistenze, forti, su Antonio Di Pietro. Fioroni vede il rischio di una «dipietrizzazione vendoliana», gli ex popolari ne farebbero a meno, come Letta. Tutti concordi sul patto tra progressisti e moderati per un governo di alternativa e una legislatura costituente. Salutare e salvifica l’apertura alla società civile, ai movimenti, a tutto ciò che si muove nel ventre del Paese e che sta cercando rappresentanza. «La nostra proposta dice Franceschini deve essere quella di un’alleanza tra progressisti e moderati, tenendo presente che la prossima legislatura sarà dura e occorrerà dare un ampio consenso popolare al governo». Condivide l’«ispirazione della relazione» Veltroni, «non servono alchimie politiche in un momento in cui lo spaesamento dell’elettorato è molto profondo», aggiunge che «la ragione d’essere del Pd è il riformismo e noi dobbiamo essere all’altezza della soluzione perché altre non ce ne sono in questo momenti ma i vuoti in politica si riempiono». Per questo trova «assurda la discussione sulle liste civiche. Non siamo il partito dei contadini ungheresi, dobbiamo aprire il Pd e chiamare le forze e le energie dentro al Pd, ma se nasce qualcosa nella società si ha un rapporto, si ascolta, si sta attenti». Bene le primarie, sostiene Bindi, che dice «sì con convinzione» al percorso indicato da Bersani ma aggiunge che prima devono esserci il programma e le «scelte economiche e sociali». Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato, apprezza l’idea di arrivare alle primarie «alla fine di un percorso che veda in primo piano la costruzione di uno spazio politico aperto con il Paese». Anche Fassino che fa scintille con Rosy Bindi quando lo richiama al rispetto dei tempi è convinto che questa sia la strada. «L'amplissimo consenso sulla relazione di Bersani non è un fatto di facciata commenta Marina Sereni L'aver aperto alla stampa la nostra riunione non l'ha resa meno vera e seria e ha rimandato all'esterno l'immagine positiva di un partito in cui si discute e ci si confronta partendo dai problemi concreti dell'Italia».

Corriere 9.6.12
Bersani convince il Pd: sfida aperta, io mi candido
Renzi: bene le primarie. Da Prodi critiche sulle nomine: suicidio
di Al. T.


ROMA — Primarie aperte. Patto con i moderati. Reprimenda per Antonio Di Pietro. Apertura al Pdl sulla legge elettorale. Pier Luigi Bersani si candida ufficialmente a guidare il Paese, ma dal 2013 perché fino ad allora il Pd ribadisce la sua fedeltà al governo Monti. Al quale chiede «un approccio meno ragionieristico», meno annunci e «qualche segno concreto» per fermare la crisi. La relazione del segretario Pier Luigi Bersani di fronte alla Direzione del Pd segna la road map per i prossimi mesi ed è il frutto di una mediazione con le varie anime del partito e con i suoi big, da Massimo D'Alema a Enrico Letta a Dario Franceschini. Mediazione apparentemente riuscita, visto che alla fine la relazione viene approvata all'unanimità. Ma le grane non mancano mai e sulla Direzione incombe il giudizio durissimo di Romano Prodi, che al Corriere.it ha stigmatizzato la spartizione delle nomine delle Authority, alla quale ha partecipato anche il Pd: «La spinta al suicidio di questo partito non ha limiti».
Bersani nella sua relazione ribadisce e ufficializza, dunque, la sua volontà di correre alle «primarie aperte» per il candidato premier, primarie che si terranno «entro l'anno». Una posizione che ha provocato il plauso di Matteo Renzi, considerato il rivale in pectore di Bersani. Ma i dubbi non mancano e restano, come spiega il prodiano Giulio Santagata, molti «non detti». Lo stesso Bersani ammette che ci sono delle «aporie», delle contraddizioni. E D'Alema spiega: «Io non ho un'opposizione di principio alle primarie, ho posto da lungo tempo l'esigenza di regolarle, di farne non un evento salvifico, perché non possono essere solo la scelta del capo. Prima ci deve essere un progetto per l'Italia. Il modo in cui Bersani ha posto le cose è un modo serio, c'è prima la proposta politica, poi la legittimazione democratica». E aggiunge la sua opinione sul governo: «Una parte dei poteri forti gioca allo sfascio ed è curioso che Monti se ne sia reso conto: li ha delusi ed è anche per questo che ora noi dobbiamo sostenerlo».
Al Parlamento toccherà la riforma della legge elettorale, sulla quale Bersani sfida il Pdl: «Tre settimane e si decide se c'è l'accordo o no e lo si decide all'aperto: ai primi di luglio dobbiamo sapere con ragionevole certezza quale sarà la direzione». La proposta di una nuova legge va però «liberata da ogni condizionamento»: «Il semipresidenzialismo non è la nostra opzione. È legittima ma non praticabile in questa legislatura». Bersani riconferma la validità del doppio turno ma aggiunge: «Detto questo, noi non aggiungiamo "o così o ci teniamo il Porcellum". Non possiamo permetterci che a ogni passo di mediazione parta l'accusa di volerci vendere l'anima».
Bersani ha aperto a movimenti e liste civiche. E ha proposto «un centrosinistra di governo, aperto a un patto di legislatura con forze democratiche e civiche moderate». Quello che è certo è che «il Pd non starà fermo e cercherà di colmare quella faglia che si è aperta fra i cittadini e il sistema».
Quanto al leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro, Bersani non fa sconti: «Decida se vuole insultarci e attaccarci ogni giorno o fare l'accordo. Ogni giorno leggo una serie di dichiarazioni di Di Pietro che sono irraggiungibili persino per Grillo. C'è un limite a tutto». Replica il leader dell'Idv: «L'alleanza con il Pd noi l'abbiamo già fatta, ma prima di confermarla vogliamo capire qual è il programma reale».
Quanto alla vicenda delle nomine e ai giudizi di Romano Prodi, Bersani perde la pazienza: «Noi abbiamo una storia alle spalle, dove nessuno è innocente». Ma nel partito non tutti la pensano così. Anzi, le critiche si sprecano. Tanto che Stefano Fassina ironizza: «Se i critici sono così numerosi, chi ha votato le nomine?». Replica di Rosy Bindi: «Bastava la maggioranza semplice, sia nel gruppo che in aula, questo forse non ti è chiaro».

Corriere 9.6.12
La strategia: via Di Pietro e patto con l'Udc
Rottura con l'Idv: «E Vendola si decida» Nei piani il sì alla lista civica «anti-Grillo»
E in Sicilia le prove dell'alleanza con Casini
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani ha fatto la sua mossa. Vincendo le resistenze di Massimo D'Alema, i tentennamenti di Franco Marini e i timori dei «giovani turchi», il segretario si è riappropriato del partito. Con la legittimazione delle primarie, sarà lui il candidato premier e, soprattutto, sarà lui a gestire la linea del Pd. Perché, volenti o nolenti, tutti i maggiorenti di Largo del Nazareno saranno costretti a sostenerlo, a votarlo e ad affidargli un mandato pieno.
Non è un caso, dunque, che il più filo-bersaniano della compagnia sia il suo avversario, Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze plaude al «coraggio» del segretario: «Se le primarie saranno come le ha delineate Bersani, io farò la mia parte, aspetto solo di vedere le regole nero su bianco, perché non vorrei che alla fine spuntassero fuori i "correttivi" ipotizzati da personaggi come Marini e D'Alema». Ma il primo a non volere quei correttivi è il segretario del Pd. A lui come a Renzi conviene giocare la partita senza favori arbitrali. A quel punto ognuno otterrà il proprio obiettivo. Se anche perdesse, Renzi si accrediterebbe comunque come il leader del futuro, lastricando con una pietra tombale tutte le velleità e le ambizioni dei «giovani turchi». Bersani, in compenso, che è arci-sicuro di vincere, sistemerebbe l'annoso dilemma di chi comanda nella casa dei progressisti. Comanderebbe lui, con buona pace dei suoi colleghi di partito, che ieri sono usciti dalla Direzione con la faccia mesta, rilasciando poche e stentate dichiarazioni.
«Anche questa è fatta, abbiamo sistemato la pratica», ha detto ai fedelissimi Bersani, a riunione conclusa, sfoggiando il sorrisone delle grandi occasioni. Ma l'attivismo del segretario non si esaurisce certo qui. Il leader ha già in mente anche il futuro schema di gioco. Che prevede la rottura con Antonio Di Pietro. Quanto a Nichi Vendola, decidesse lui: o sceglie la governabilità e il Pd o, se si lascia attrarre dalle sirene di Grillo, sarà divorzio anche con lui. Il segretario non punta ad allontanare il Governatore della Puglia. «Guai a dipietrizzare Vendola», ripete ai compagni di partito. Ma il numero uno di Sel deve capire che non può tirare la corda più di tanto, altrimenti verrà tagliata.
Vendola è conscio dell'ultimatum e sta decidendo che cosa fare. «Mi candiderò alle primarie», spiega ai suoi. E poi? Poi chissà: «Se andassimo con Di Pietro prenderemmo un sacco di voti, ma a noi interessa la governabilità...». Quindi c'è il rischio che Di Pietro resti solo, perché Grillo, con cui pure si sente spesso e volentieri, difficilmente unirà le sue sorti elettorali a quelle del leader dell'Idv.
La rottura con Di Pietro non è un capriccio dell'ultima ora. È una mossa studiata a tavolino. Perché Bersani punta dritto sui moderati. A cui lancerà un appello prima delle elezioni. Già, perché il segretario non esclude, dopo il voto, un'alleanza con Casini. Ne ha parlato, qualche giorno fa, con il leader centrista e con Lorenzo Cesa. Ma è chiaro che una collaborazione con l'Udc non è praticabile se di mezzo c'è Di Pietro. Ecco il motivo per cui Bersani ha deciso di prendere le distanze dall'ex magistrato. Del resto, il segretario lo ha sempre detto: «Anche se dovessimo vincere, io non escludo la possibilità di stipulare un patto di legislatura con l'Udc». E sempre con l'Udc, nel laboratorio siciliano, il Pd potrebbe fare un nuovo esperimento, sostenendo, insieme a Sel, il candidato centrista alla presidenza della regione, Giampiero D'Alia. D'altra parte anche l'aver ceduto all'Udc il posto nell'Authority per le Comunicazioni, fa parte dello stesso schema.
Il leader del Partito democratico, con meticolosità, sta valutando i piani per il futuro. Dove c'è anche una lista civica che lo aspetta. È un'idea maturata nel corso di un incontro conviviale con Walter Veltroni ed Eugenio Scalfari. È uno strumento che Bersani prende in considerazione per arginare il «grillismo» imperante ed evitare il pericolo che troppi voti del centrosinistra finiscano al Movimento 5 Stelle.
Ma c'è un pezzo del puzzle del segretario che manca all'appello: la riforma elettorale. Il leader vuole farla a tutti i costi («altrimenti la gente non ce la perdonerà»), gli ostacoli, però, sono molti. Ieri Beppe Fioroni ha proposto di accelerare i tempi inserendo nel Porcellum le preferenze: «È il modo più rapido per cambiare questo sistema». E alla legge elettorale pensa anche Enrico Letta, che lancia la sua proposta in Direzione: «La priorità oggi è fare subito la riforma con un patto costituente per la prossima legislatura, che preveda l'impegno di chiunque vinca a non eleggere i presidenti delle Camere a maggioranza». E anche questo sembra un amo lanciato dal Pd all'Udc.

Repubblica 9.6.12
“Primarie aperte, poi alleati coi moderati” Bersani rilancia e rompe con Di Pietro
“Tonino peggio di Grillo”. Bordata di Prodi: suicidio sulle nomine
di Giovanna Casadio


ROMA Bersani rimprovera: «Non stiamo a togliere le castagne alla destra». (È la bacchettata a Fassina, e a chi vuole elezioni anticipate, dando sponda al Pdl). Annuncia: «Prendiamo il toro per le corna». (Rivolto ai “rottamatori”, che tanto hanno insistito sulle primarie). Propone infatti, il segretario del Pd: «Primarie aperte entro l’anno, io mi candido. E facciamo un patto di democratici e progressisti per l’Italia. Si va a votare nel 2013». Pressa quindi, su Alfano: «Il Pdl in tre settimane decida se c’è l’accordo oppure no sulla legge elettorale». Che è una priorità assoluta per il Pd, per ricucire il rapporto con i cittadini. È la road map bersaniana.
Viene approvata all’unanimità. Per il leader è «una bella giornata». La riunione della direzione dei Democratici è tra le più affollate: arriva Renzi, il rottamatore, probabile sfidante alle primarie; ci sono le “duellanti” genovesi Roberta Pinotti e Marta Vincenzi; Zavoli, perché si parla di Rai; anche Parisi, che segue però i lavori con i cronisti, in video a circuito chiuso, seduto sugli scalini. A guastare il clima piomba quel “boccone amaro” di Di Pietro. Il leader Idv, mentre la direzione è in corso, inizia il cannoneggiamento: «Il Pd non ci venda fumo, a scatola chiusa non ci accordiamo con nessuno», attacca l’ex pm, e denuncia ancora la spartizione nelle nomine per le Authority. Questa volta è rottura. La risposta di Bersani è tagliente: «Le dichiarazioni di Di Pietro sono irraggiungibili persino per Grillo. C’è un limite a tutto, su questo bisognerà che ci intendiamo ». Prima, a creare tensione nel “parlamentino” ci sono le accuse sulla spartizione delle Authority. Pesa il giudizio aspro di Prodi: «La spinta al suicidio di questo partito non ha limiti», è il j’accuse dell’ex premier «a chi ha avallato queste decisioni». Non è il solo. La rilancia Piero Fassino: «Sulle nomine voltare pagina». Rincarano Fassina, Orfini. E Sandra Zampa gela i big: «Prodi se n’è andato, ha chiuso con la politica, è l’unico che non è seduto qui dove invece ci sono esponenti che non vengono solo dalla Seconda ma anche dalla prima Repubblica. Serve rinnovamento». Lo stesso che chiedono i “rottamatori/ rinnovatori” di Civati, Gozi, Concia, Scalfarotto. Congelano il loro ordine del giorno, firmato pure da Renzi. «Bersani l’ha fatto suo — spiega Civati — la giudichiamo una vittoria». Comunque a luglio, nell’Assemblea dei mille si tratterà di cambiare lo Statuto sulle primarie. Il punto è: chiarirsi le idee su cosa sono, su chi partecipa. Bersani osserva che, se non si conosce la nuova legge elettorale, non si può parlare di coalizione e alleanze. Impazzano i “distinguo”. D’Alema,
soprattutto. Afferma di apprezzare Bersani però chiede «chiarezza sulle regole» e antepone: «Prima c’è il progetto, se no si riduce tutto alla scelta del capo». Vorrebbe le primarie lo stesso giorno di quelle del Pdl, «così gli elettori del centrodestra» non inquinano quelle del Pd. “Paletti” sulle primarie anche da Marini: «Riflettiamo bene su più candidati del partito». Così come Finocchiaro, Damiano, Realacci. Bindi: «Concentriamoci sul programma ». Veltroni si toglie qualche macigno (sulla bontà del “suo” Pd a vocazione maggioritaria) e invita ad accettare la sfida delle liste civiche. Gentiloni cita Fred Bongusto (su riforma elettorale: “tre settimane da raccontare...”). Fioroni pensa alle preferenze. No di Veltroni. Si spezzano correnti; scoppiano screzi subito contenuti. Violante ragiona sulle riforme. Franceschini pure. Letta: «Diamo la presidenza di una Camera a chi perde». Bersani la
spunta. Per ora.

Repubblica 9.6.12
Il sindaco di Firenze: anche se volessi farmi indietro, non potrei più
E per Bersani l’ipotesi Grillo è “una cavolata”
Da Renzi a Civati e Serracchiani sullo sfondo gli sfidanti del leader
di Goffredo De Marchis


ROMA Matteo Renzi prende tempo. Incassa il via libera alle primarie pronunciato da Bersani. Ma non risponde con un immediato «ci sono». «Voglio vedere prima le regole, non mi sono piaciute le distinzioni fatte da D’Alema e Marini. Aspettiamo». In realtà, sul terrazzo della sede del Pd parlando con un amico, conferma che correrà. «Anche se volessi tirarmi indietro, anche se non mi piacesse qualche regola nuova, anche se trovassero un candidato particolare per farmi perdere voti, non ho alternative. Devo partecipare, non posso permettermi la diserzione».
A Largo del Nazareno da giorni gira la voce che il sindaco di Firenze potrebbe rinunciare, «visti i sondaggi». Non è così, naturalmente. Significa solo che i primi veleni sono cominciati a circolare. «Alle primarie deve scorrere il sangue», diceva Prodi. Succederà anche stavolta. Dall’entourage di Renzi vengono diffuse notizie altrettanto “distruttive”: «Bersani si è già messo d’accordo con i big del partito, non si candiderà nessun altro del Pd». Come dire: il solito inciucio d’apparato. Schermaglie che continueranno fino all’apertura dei gazebo.
Bersani si troverà di fronte Renzi e molto probabilmente Vendola. Ma nessuno dei due principali competitor svela le carte limitandosi a salutare la novità come positiva. Sono già in pista invece Riccardo Nencini del Psi e Angelo Bonelli dei Verdi («le primarie siano soprattutto sul programma»). Bastano per rendere davvero aperte le consultazioni? Quello che si aspetta il segretario del Pd è il coinvolgimento della società civile, di esterni alla politica significativi. Se una lista civica deve nascere può farlo adesso sulla base di una competizione interna. E con un candidato che si confronta con gli altri.
Una nuova legge elettorale che permette di presentarsi da soli alle elezioni potrebbe far saltare tutto. Ed è quello che sperano alcuni che anche ieri hanno confermato il loro scarso entusiasmo per lo strumento. Come D’Alema e Marini. Ma oggi si discute già dei nomi in corsa. Debora Serracchiani, giovane europarlamentare, dirigente sicuramente non cooptata, viene indicata come possibile candidata di un’area del dissenso piuttosto vasta. Che va da Pippo Civati a Sandro Gozi, a Paola Concia. Rosy Bindi può essere tentata in virtù di un consenso vasto nel centrosinistra. Lo stesso Civati è un possibile concorrente e può rubare voti al suo amico Renzi. Rottamatori insieme, poi protagonisti di uno strappo traumatico, i due hanno molto in comune. Il sindaco di Firenze però ha costruito una rete forte sul territorio. «La mia candidatura sarà radicale e radicata», dice. Per evitare il rischio di essere incasellato come il semplice portabandiera dei giovani e dei social network.
Le regole arriveranno. Le primarie, soprattutto quelle decisive, sono un terreno fertile per tutti quelli in cerca di visibilità o di provocazioni. Beppe Grillo, che ormai non ha bisogno di farsi notare attraverso gli altri, sarà comunque escluso. A prescindere dal regolanento. «Non diciamo cavolate», è la risposta secca di Bersani all’ipotesi di una sfida con il comico. Marco Pannella non rinuncerà a lanciare un suo candidato o candidata. E il Pd viene dall’esperienza negativa di tante primarie perse sul territorio a vantaggio degli sfidanti interni. O dallo strappo di Leoluca Orlando a Palermo. Ma l’Idv è scomparsa dall’orizzonte democratico, non sembra più un alleato affidabile. Più delicato il ruolo che giocherà Romano Prodi nella partita. Può appoggiare Renzi e lo renderebbe ancora più competitivo. O scegliere Vendola. Con Bersani invece il feeling si è rotto da tempo. La battuta di ieri è solo una conferma.

l’Unità 9.6.12
Renzi passa ma non parla E ai suoi dice: «Sbagliato fare i registri degli elettori»
di Osvaldo Sabato


Come riuscire a essere il convitato di pietra pur essendo andato alla direzione nazionale del Pd. Che non avrebbe parlato si sapeva da giorni, ma spesso è ricorso al classico colpo di teatro per sparigliare le carte. Evidentemente quelle di ieri erano troppo importanti per cambiare il canovaccio che aveva in testa.
E così le uniche sue parole filtrate dal suo entourage parlano di un Matteo Renzi che ha «molto apprezzato» la relazione svolta ieri dal segretario Pier Luigi Bersani. Attraverso i suoi più stretti collaboratori ha manifestato l’apprezzamento per le parole del segretario, in particolare per il punto delle primarie aperte da tenersi entro l’anno. Poi attraverso Twitter il sindaco di Firenze è stato ancora più esplicito: «Bene Bersani che propone primarie libere: ci confronteremo su idee e sogni per l’Italia di domani. Mandando a casa chi ci ha ridotto così». D’accordo con D’Alema (forse è la prima volta) di fare lo stesso giorno le primarie del Pd e del Pdl ed ha confermato anche il no a ipotesi di registri dei votanti.
Ma dai suoi collaboratori trapela la sua preoccupazione per le posizioni espresse da D’Alema e Marini sulle primarie. Per la sfida alle primarie: manca l’ufficialità, ma ormai è certo che si candiderà, sfrutterà fino all’osso radio, televisioni e giornali per dire la sua. Insomma parla a tutte le platee, ma alla direzione nazionale, no. È successo anche ieri andando via dopo aver ascoltato Bersani. Mutismo assoluto, poi a sorpresa le sue parole sul web.
Per la verità Renzi ci aveva pensato il giorno prima sul Foglio di Giuliano Ferrara a dire cosa pensasse delle primarie, come le vorrebbe e quali potrebbero essere le tappe di avvicinamento al grande annuncio della sua discesa in campo. Potrebbe farlo anche nell’assemblea nazionale del Pd, convocata per il 6 luglio, tanto per far capire che si muove dentro il partito e per il partito. Oppure, come anticipa il Foglio, Renzi potrebbe pensare a una convention in stile obamiano per dire che farà parte della corsa. Ma per l’annuncio della sua candidatura, ormai più che probabile,
bisognerà ancora aspettare, soprattutto che vengano definite le regole per le primarie.
Il sindaco di Firenze punta a vincere, assicurano dal suo staff. Lui si sta organizzando per bene, la sua macchina elettorale è pronta, ma avvolta nel mistero più assoluto. Anche in questo caso non vuole svelare niente. L'idea è quella di puntare sugli amministratori e sui territori: potrebbe essere costituito un comitato elettorale in ognuna delle 700 città con oltre 15 mila abitanti. L’obiettivo è riuscire a catturare quel milione e mezzo di preferenze che, conti alla mano, potrebbero bastare per far vincere a Renzi la battaglia con Bersani. È a questo che punta: correre per vincere. «Noi siamo in campo non lo facciamo per partecipare, ma solo perché sappiamo che noi, oggi, in questa gara, possiamo vincere davvero», afferma il sindaco al Foglio. Insomma Renzi parla, parla ai media. Ma non alla direzione del Pd, dove da quando è sindaco ci è andato solo tre volte ed è rimasto sempre in silenzio.

il Fatto 9.6.12
Primarie disperate
Cercando la credibilità perduta i partiti maggiori annunciano consultazioni che li terrorizzano
PD Bersani rischia tutto e si candida
di Wanda Marra


I peones del Pd sono terrorizzati dalle primarie e dall’apertura alle civiche perché temono per la loro sopravvivenza”. Sono le 15 e 30 al Nazzareno, il sole cuoce e Gianluca Lioni, giovane dirigente democratico di ultima generazione (di anni ne ha poco più di 30) e di belle speranze fotografa l’atmosfera della direzione nazionale del Pd di ieri più di tante parole dette in chiaro nei vari interventi. Ieri è stato il giorno in cui il segretario ha fatto l’atteso (ma mediaticamente bollito) annuncio della sua candidatura alla premiership: “Faremo primarie aperte entro l’anno e io mi candiderò”. Mentre nel parterre serpeggia una certa nebulosa (“Che vuol dire aperte? Di coalizione? ”, si chiede il costituzionalista Salvatore Vassallo), comincia il lavoro degli esegeti bersaniani: “Aperte” vuol dire “aperte” a tutti, a chiunque voglia partecipare al “patto tra democratici e progressisti”, spiegano gli uomini dello staff. E dunque, “non solo ai partiti di un centrosinistra di governo ma ad associazioni, movimenti, liste civiche, sindaci e amministratori, singole personalità”. E dunque, sulla carta, a Nichi Vendola, come a Matteo Renzi, a Roberto Saviano, come a Concita De Gregorio o a un qualsiasi competitor. Poi, Bersani apre pure ai moderati, disponibili “a un patto di legislatura”. È il giorno degli esegeti, perché nonostante la direzione sia aperta (ma i giornalisti possono seguire i lavori solo da una tv a circuito chiuso) le dichiarazioni “in chiaro” raramente sono sembrate più paludate e meno leggibili. D’altra parte Bersani ha imposto la sua linea ai big: è pronto a misurarsi con chi vuole, per smarcarsi dalle opa dei big. E se il rischio di perdere per lui è alto (come hanno dimostrato tutte le primarie aperte del Pd), lo è anche per tutti gli altri, dagli alti dirigenti che temono di perdere potere a chi si gioca la ricandidatura. Bersani rilancia la questione legge elettorale, dando ad Alfano 3 settimane di tempo: “Noi vogliamo il doppio turno di collegio, ma siamo disponibili a parlare”. Questione non secondaria. La sua, infatti, è una relazione che mentre indica un “percorso” lascia più incognite che risposte. Il segretario chiede un voto, ma poi convoca per metà luglio un’Assemblea nazionale, il vero organo decisionale. E poi: le primarie si vogliono fare sì, ma con il voto a ottobre salta tutto; le consultazioni di coalizione hanno un senso se ci sarà il Porcellum, e dunque una coalizione; senza contare che per fare primarie aperte bisogna modificare lo Statuto, cosa che può fare solo l’Assemblea. Viene rimandato pure il voto sull’ odg di Pippo Civati (primarie per i parlamentari, primarie per la leadership e limite dei tre mandati). Lui mostra disponibilità (“Condivido la relazione del segretario, e dunque non forzo con un voto”) e la Bindi, che presiede, coglie l’occasione per tagliar corto (“Se parla in sede di modifica di Statuto”).
D’ALTRA parte, la paura fa (proprio) 90: sarebbero 94 i parlamentari Pd non ricandidabili. Dopodiché comincia la sfilza degli interventi. Non mancano i momenti di tensione. Come quando Piero Fassino alla Bindi che chiede rispetto dei tempi risponde: “Per te ne abbiamo avuto tutti tanto”, e poi continua a parlare. Stefano Fassina e Matteo Orfini evitano di riproporre la questione voto anticipato, ma si scagliano contro il metodo con cui sono state gestite le nomine dell’Authority: “Abbiamo fatto una figuraccia per assecondare un capriccio di corrente’, dice Orfini, con una stoccata a Franceschini. Commenti al vetriolo nei corridoi: “Però, pure lui c’aveva la sua di corrente”. Bersani nella sua replica sbotta chiedendo “toni accettabili”. Altro intervento che gronda polemica è quello di Sandra Zampa, ex portavoce di Prodi, ora deputata: “Prodi è l'unico che ha lasciato la politica mentre qui vedo gran parte della seconda Repubblica e qualcuno anche della prima. È venuto il momento del rinnovamento”, dice, mentre il Professore parla di “suicidio politico” del Pd. A proposito di rinnovamento, nessun annuncio da D’Alema che negli scorsi giorni aveva fatto sapere di non volersi ricandidare (dopo “sole” 7 legislature ).
Comincia il toto candidati alle primarie. Matteo Renzi non prende la parola, ma tutti lo danno per certo. Convoca Civati, perché “ci vuole solo un candidato di noantri”, spiega quest’ultimo. Che saranno solo due non ci crede nessuno. Pure la Serracchiani, mentre passa, annuncia che potrebbe correre. I dirigenti intervengono in appoggio al segretario tra mille distinguo, con Fioroni che dice no a primarie di partito e Letta che già chiede un patto di legislatura post 2013. Mentre Di Traglia, ilportavocediBersani, twittache è stata una bella giornata, si va stancamente alla replica. Nella quale sostanzialmente il segretario scarica Di Pietro, “irraggiungibile anche da Grillo, ma c’è un limite a tutto”. Il leader Idv aveva detto che “a scatola chiusa non ci accordiamo”. Vendola invece approva. Voto all’unanimità. Decisioni rimandate. E a guastare l’uscita ci pensa una contestazione al grido “Andate a lavorare”. Nel giorno dell’apertura, ancora un arrocco: nessuno si ferma a rispondere.

La Stampa 9.6.12
Partito democratico
“Gazebo e liste civiche” Dai big Pd ok a Bersani
Il piano in vista del 2013: mollare Di Pietro e al governo con Casini
Prima di arrivare al voto il segretario Pd lancerà un appello ai moderati per allargare l’alleanza a urne chiuse
di Carlo Bertini


ROMA La tensione si taglia a fette, ma finisce con un ok unanime alla candidatura di Bersani in «primarie aperte entro l’anno» la Direzione del Pd convocata per ratificare «la sfida». E la vera «conta» è rinviata all’assemblea nazionale di luglio. Quando si dovranno votare le deroghe allo Statuto per gli altri candidati del Pd come Renzi a correre nei gazebo e l’ordine del giorno dei rottamatori alla Civati sul limite dei tre mandati in Parlamento. Che, se approvato, chiuderebbe le porte a big come D’Alema, Veltroni, Finocchiaro, Melandri e a decine di altri dirigenti di tutte le correnti. Tanto che Bersani frena: porte spalancate ai giovani competenti «che non ci mancano, ma con buon senso, non si rinuncia al presidio di esperienze preziose per il partito». Tradotto in sala, come tana libera a tutte le deroghe possibili. Un tema che scotta, visti gli applausi alla bordata della prodiana Sandra Zampa, che fa notare come il Professore «è l’unico a non essere qui, quindi è venuto il momento del rinnovamento».
E il missile lanciato da Prodi sulla «spinta al suicidio del Pd» per la vicenda delle authority, dimostra che la tensione corre oltre il recinto di un summit che riserva siparietti frizzanti. Come quando Fassino
(duro al pari di Orfini e Gentiloni sulla vicenda delle nomine) rimbecca la Bindi che lo sollecita a chiudere l’intervento. «Ci vuole pazienza», sospira la presidente. «Con te ne abbiamo avuta tanta», reagisce stizzito lui e la Bindi esce dalla sala. O come quando Bersani stoppa i «giovani turchi» Fassina e Orfini sul voto a ottobre, avvertendoli che «fuori di qui nessuna sbavatura, le critiche restino entro i limiti dell’instabilità di governo, non possiamo levare le castagne dal fuoco alla destra». O come lo scontro tra Fioroni, Veltroni e Gentiloni sulla legge elettorale. Bersani la considera una priorità, «non ci terremo il porcellum», chiedendo di astenersi da accuse «di aver venduto l’anima al diavolo» se si trovasse una mediazione diversa dal doppio turno. Letta propone un patto costituente offrendo l’elezione di presidenti delle camere bipartisan per sbloccare l’accordo sulla legge elettorale. «Quando la tela di Penelope - dice Fioroni - non avrà prodotto nulla, si cambi una parola al porcellum: non più eletti secondo l’ordine di lista, ma secondo ordine di preferenze». Altolà di Veltroni, «la cosa peggiore è il porcellum con le preferenze». «No, la peggiore è il porcellum con le primarie», rilancia Gentiloni.
E’ solo una delle perplessità sulla sfida lanciata da Bersani. «Prima c’è il progetto per l’Italia e poi le primarie, altrimenti si riduce tutto alla scelta del capo, è l’ordine giusto», è la benedizione condizionata di D’Alema. Bersani chiarisce che il messaggio di fondo «è guardare le gente negli occhi, riunire progressisti e democratici per un patto di governo e poi le primarie per recuperare un rapporto tra politica e cittadini». Con una staffilata a Di Pietro che «lancia insulti peggiori di Grillo: se vuole un accordo la smetta».
Ma c’è un piano in vista del 2013 dietro questo scontro e cioè mollare l’ex pm, che ormai strizza l’occhio a Grillo, tenersi Vendola al fianco e tentare un patto con Casini. Di questo tenore: prima del voto Bersani lancerà un appello ai moderati per allargare l’alleanza di governo oltre i confini di quella sinistra che magari uscirà vincente dalle urne. Per una «ricostruzione del paese» che ha bisogno di una ampia maggioranza e di una pax sociale per affrontare la traversata nel deserto della crisi. «Tonino crede di intercettare i voti di Grillo e sbaglia: per quel mondo lì, anche lui fa parte del vecchio. E non si può costruire nulla con chi ti spara addosso ogni giorno», dicono dalle parti di Bersani. «Oggi il benservito a Di Pietro. Era ora», gongola Follini su twitter. Non è un caso poi che il leader Pd disegni «un centrosinistra di governo aperto a un patto di legislatura con forze democratiche e civiche moderate». Perché le porte sono aperte per quelle liste civiche che Veltroni invita a non vivere come una minaccia per un Pd a vocazione maggioritaria.
E la prospettiva di un Idv fuori dalla porta è la condizione che Casini pone per siglare un eventuale accordo di governo a urne chiuse. Si dice che il laboratorio di questo accordo nascerà in Sicilia. Dove ci sarebbe già un’intesa in fase avanzata per far correre l’Udc D’Alia candidato presidente alla Regione, con la benedizione del Pd e dei vendoliani.

La Stampa 9.6.12
I quarantenni pronti a sfidare il segretario
Candidati certi il “rottamatore” Renzi e il governatore della Puglia, Vendola
di Francesca Schianchi


ROMA Con un solo ordine del giorno abbiamo convinto sia Bersani che Alfano... ». Ride Giuseppe Civati, il consigliere regionale ribelle che da mesi portava avanti la sua «battaglia in solitudine» per indire primarie per il premier e ieri s’è visto riconosciuto il successo: «Hai vinto», gliel’ha detto pure Marini, mica una seconda fila.
Primarie aperte, annuncia Bersani, lui si candiderà e chi vuole ci stia. Già, ma chi vuole? Chi saranno i competitor del segretario democratico?
«Noi ci proviamo», garantisce Civati a nome dell’irrequieta frangia dei trenta-quarantenni, e ci mancherebbe, dopo tutta questa insistenza. Su quale cavallo punteranno, dicono che è ancora da discutere. Ma il sindaco di Firenze, il rottamatore Matteo Renzi, è praticamente già in campo, e «non per partecipare», diceva ieri sul “Foglio”: direttamente per vincere. Ma anche altri nomi si stanno discutendo nell’area giovani-che-voglionorinnovare, e lo stesso Renzi è in contatto con loro: Civati, o l’europarlamentare Debora Serracchiani, la pasionaria che scombussolò la dirigenza con un acceso discorso di critica, ultimamente con vena polemica un tantino prosciugata. «Andiamo alle primarie con le idee chiare sul metodo e sul merito», commenta burocraticamente per il momento.
«Se sono primarie aperte magari mi candido pure io: non ho nulla di meno di Renzi e Serracchiani», la butta lì tra il serio e lo scherzoso la deputata Paola Concia, paladina dei diritti gay. Nel 2009, l’area Pd più sensibile al tema diritti civili espresse un candidato alle primarie per la segreteria, il chirurgo dei trapianti Ignazio Marino. Ora, davanti alla nuova sfida, «cercheremo di capire insieme cosa fare», dice la Concia. Che si direbbe sia pronta a qualche sfida spericolata: «Mi sento come un giocatore in panchina sempre allenato ma che nessuno chiama a giocare», si è lamentata sull’“Unità”. Sarebbe almeno una donna candidata, come già fece Rosy Bindi nel 2007 contro Veltroni: ieri girava voce in Direzione che pure la vicepresidente potrebbe bissare la battaglia, ma pochi ci credono.
Ma primarie aperte significa anche extra Pd. Già si sa che si candiderà il leader di Sel, Nichi Vendola: lo ha ricordato qualche decina di volte, l’ultima un paio di giorni fa. Più freddo Di Pietro, il leader di Idv terzo protagonista della foto di Vasto, ieri ripreso duramente da Bersani: «Primarie? - ha commentato l’ex pm -. Non si possono fare se non sappiamo per cosa ci si candida».
Fuori dal Pd può significare però molto altro, in un momento in cui tanto si discute di liste civiche nazionali e aspiranti leader potrebbero sbocciare. Oggi per esempio il capo della Fiom Landini riunisce proprio Pd, Idv e Sel per parlare di lavoro: nega l’ipotesi del progetto di una lista Fiom, ma senza poi troppa convinzione. Da Sud, sindaci come Emiliano e De Magistris propongono un listone civico che possa essere quarta gamba del centrosinistra; fuori dai partiti fioriscono iniziative come “Alba” - alleanza lavoro beni comuni ambiente -, manifesto firmato da alcuni professori come Paul Ginsborg, Stefano Rodotà e Ugo Mattei, o la proposta fatta da Repubblica di una lista per la «legalità», di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi tirando in ballo lo scrittore anticamorra Saviano, che però ha passato l’ultima settimana a smentire un suo coinvolgimento.
E poi, vai a sapere se arriva un papa straniero. Ultimamente un nome è stato fatto: quello del ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca, economista, papà partigiano ex senatore Pci, appartenenza politica «a sinistra del Pd». Dicono sia l’ipotesi che più spaventa Bersani: a «Porta a Porta», a domanda se possa essere l’uomo nuovo del Pd l’ha cautamente definito «una persona seria, gli voglio anche bene». E Barca ha subito capito: «Un modo molto garbato e gentile per mettere da parte in maniera carina l’argomento».

La Stampa 9.6.12
Trucchi da fine legislatura
di Marcello Sorgi


Con una simultaneità mai vista prima, dai vertici di Pd e Pdl sono uscite due proposte simmetriche e contrapposte: primarie e liste civiche. In autunno quindi, secondo se lo scioglimento delle Camere sarà ordinario o anticipato, prima o poco prima delle elezioni, il popolo del centrosinistra e quello del centrodestra saranno convocati separatamente per decidere sui loro candidati premier, sui confini delle coalizioni che li sosterranno e sui programmi. E su questa base, subito dopo Pd e Pdl si rivolgeranno agli elettori, chiamati a votare per il nuovo Parlamento e per il nuovo governo. Contemporaneamente però - ed ecco la novità - sarà dato pieno riconoscimento alle liste che, pur non riconoscendosi negli stessi partiti, ritengono di concorrere nei due campi aggregandosi alle rispettive coalizioni.
Apparentemente, sembra un espediente abbastanza logico, mirato dichiaratamente a ottimizzare la raccolta dei consensi, in un’elezione in cui più forti s’annunciano le contestazioni e la forza d’urto dei movimenti dell’antipolitica, usciti vincitori dalla recente tornata di amministrative. Ma di fatto, è inutile nasconderlo, c’è un’evidente contraddizione tra primarie e liste civiche. Le prime, infatti, puntano a unire gli elettori di un campo e a contrapporli a quelli del campo opposto. Le seconde, al contrario, nascono per dividere o comunque per segnare delle differenze.
Facciamo un paio di esempi per chiarire. Se a Palermo le primarie del centrosinistra non si fossero concluse come sappiamo, con almeno due candidati dello stesso Pd in campo e l'intervento abbastanza dichiarato di pezzi di centrodestra per condizionarne il risultato, non sarebbe nata la lista Orlando che ha portato alla vittoria l’ex nuovo sindaco per la quarta volta. E se a Napoli un anno fa il Pdl avesse organizzato le primarie come adesso dice di voler fare, sarebbe stata scelta una candidata come Mara Carfagna piuttosto che Gianni Lettieri, l’uomo dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino che poi risultò sconfitto. Magari De Magistris, candidato di Di Pietro uscito a sorpresa come personaggio di rottura contro le primarie del centrosinistra che avevano designato il prefetto Mario Morcone, avrebbe vinto lo stesso. Ma certo la Carfagna gli avrebbe dato più filo da torcere.
Esempi come questi dimostrano che la forza dei ras locali - quelli che una volta, con disprezzo, D’Alema definì «cacicchi» - si misura sempre con le designazioni che vengono dal centro o dall’alto. Quando non riesce a prevalere, vedi i casi di Palermo o di Napoli, sfocia appunto in liste civiche. Le quali, se possono, cercano di vincere a dispetto di tutti, oppure negoziano i loro voti per ottenere vantaggi. Sono evidenti e ormai sperimentati i limiti, sul piano locale, di un simile meccanismo - sia pure perfettamente democratico, dal momento che per candidarsi basta raccogliere le firme, e che i partiti alle volte purtroppo si presentano con firme false. Ciò che finora non era stato provato, e invece lo sarà la prossima volta, è cosa possa accadere spostando le liste civiche, dalle contese cittadine e strapaesane, a quella nazionale per il governo.
Si può solo provare ad immaginare le conseguenze. Poniamo, anche se finora su questa materia Bersani s’è tenuto sul vago, che il Pd decida di far rispettare il limite dei tre mandati per le ricandidature dei deputati e dei senatori uscenti: cosa impedirebbe, magari non ai dirigenti importanti che in un modo o nell’altro saranno recuperati, ma agli altri che si sentono ingiustamente esclusi, di formare le loro liste civiche e correre nel proprio territorio accanto, ma anche contro, il partito che li ha esclusi? E poniamo - ma anche qui siamo nel campo delle ipotesi - che il segretario del Pdl Alfano, che aveva esordito con lo slogan del «partito degli onesti», decida di far seguire agli enunciati i fatti e introduca una regola per cui gli inquisiti devono restare fuori dalle liste del suo partito. Cosa vieterebbe ai numerosi parlamentari berlusconiani coinvolti in inchieste giudiziarie (a cominciare dal Cavaliere, leader maximo) di farsi le loro liste, e colorarle tra l’altro di venature garantiste a cui l’elettorato di centrodestra è sempre stato più sensibile?
I due esempi possono essere capovolti ed applicati - anche se non indifferentemente - all’uno o all’altro dei due partiti, entrambi alle prese con problemi di rinnovamento generazionale, di gruppi dirigenti usurati e litigiosi, di indagini di magistrati che hanno colpito esponenti molto importanti di una parte e dell’altra, oltre che di forte concorrenza di nuovi movimenti e della cosiddetta antipolitica. Ma la conseguenza comune e più diretta, destinata a colpire la coalizione vincente - ammesso che dalle prossime elezioni ne esca una che si possa definire così e sia in grado di ridare un governo politico al Paese - sarà che chiunque vinca si ritroverà alle prese con i problemi già emersi in passato di divisioni interne e scarsa governabilità, moltiplicati per il numero di radici locali delle numerose liste civiche che, in nome della nuova dottrina annunciata ieri, saranno associate al centrosinistra e al centrodestra.
Per questo, prima di aprire la strada a un’evoluzione così pericolosa della nostra già claudicante democrazia, occorrerebbe pensarci bene. Basterebbe riformare seriamente la legge elettorale, per evitarlo. Invece, al posto di rinnovarsi davvero, per gareggiare con i nuovi movimenti, nati e prosperati sulla loro crisi, i due maggiori partiti si preparano a legittimare tutto il «nuovo» (e spesso anche quello autodefinitosi tale) che non riescono a portare al loro interno e tutta la monnezza che non possono trattenere, a rischio di intossicazione, ma che temono, una volta espulsa, faccia perdere voti. Come coronamento della legislatura della Grande riforma (mancata), che doveva concludere finalmente l’interminabile transizione italiana, non c’è male.

Corriere 9.6.12
«Tutti pagano l'appoggio al premier: Pd al 26%, Pdl al 20,4%»
di Al. T.


ROMA — Partiti filo-Monti, più o meno obtorto collo, sempre più giù. Partiti e movimenti extra governativi, sempre più su. Ma il vero partito che acquista sempre più consistenza e spazio fino a comprimere e quasi soffocare gli altri è quello del non voto, che ha raggiunto la ragguardevole cifra del 42 per cento. Il sondaggio settimanale di Euromedia Research, l'istituto di sondaggi citato anche ieri da Silvio Berlusconi, non riserva notizie allettanti per i tre partiti che sostengono la maggioranza. Anche se i dati, si sa, sono molto meno oggettivi e più interpretabili di quanto sembri.
I due partiti che guidano il gruppo sono sempre il Pd, al 26 per cento, e il Pdl al 20,4. Cifra risicata per il Pd, che non è riuscito ad avvantaggiarsi del crollo del centrodestra. Cifra pessima per il Pdl, che in poco tempo dal 27 è precipitato al 20,4. Una caduta che non sembra arrestarsi e che si può interpretare in vari modi. Il primo, lo racconta Alessandra Ghisleri, titolare di Euromedia, secondo la quale sono state soprattutto le aspettative deluse dal governo Monti ad aver danneggiato i grandi partiti: «I cittadini si sono sentiti traditi. Alla velocità della manovra di dicembre non è corrisposta con altrettanta rapidità ed efficacia la fase due, quella della crescita. E molto ha influito anche la questione delle tasse, a cominciare dall'Imu. Ricordiamoci che siamo un popolo di proprietari di case». C'è poi un altro effetto ricordato dalla Ghisleri: «La fortissima contrazione delle percentuali del Pdl, su dati che si riferiscono a sondaggi di venerdì e sabato scorso, è dovuta anche alla sconfitta elettorale: in questo caso è normale che tutti salgano sul carro del vincitore e nessuno dichiari di votare per il perdente».
Silvio Berlusconi, naturalmente, preferisce sottolineare un'altra possibile interpretazione del crollo del Pdl, ovvero la sua decisione di «restare nelle retrovie». Ma il Cavaliere riferisce anche la segmentazione più precisa dell'elettorato storico del Pdl: il 36% continua a votare il Pdl, il 56% si è astiene e poco meno del 10% vota gli altri partiti. Per Berlusconi, dalla lettura dei dati si evince la volontà degli elettori del Pdl di «tornare ad avere un partito con un programma forte e costruttivo».
Tra le altre formazioni, appare sempre più forte l'ascesa del movimento Cinque stelle, fondato da Beppe Grillo, che si colloca intorno al 14 per cento. Udc e Lega restano rispettivamente al 6,5 e al 5 per cento, mentre nell'opposizione di centrosinistra in testa è sempre l'Italia dei valori (7), seguita da Sel (6) e Federazione della sinistra (2): complessivamente raggiungono il 15 per cento.
È chiaro, spiega la Ghisleri, che «in questo momento nessun partito è in grado di intercettare quell'area di non voto. È un'offerta ancora in attesa che arrivino soluzioni nuove e differenti. Non necessariamente da nuovi partiti, ma da una classe politica che torni a dare risposte e a essere credibile». Non aiuta, poi, secondo la ricercatrice, «la confusione che c'è ora nei partiti che appoggiano Monti. La presenza di voci favorevoli e contrarie alla politica economica dell'esecutivo sconcerta e provoca un appannamento dell'identità dei partiti. Mancano punti di riferimento e idee unificanti che consentano ai cittadini di riconoscersi nei vecchi partiti di riferimento».

l’Unità 9.6.12
Bufera sulle nomine delle Authority. Prodi: un suicidio
Dall’ex premier parole durissime, ma anche gli interventi in direzione non fanno sconti. Orfini: «Regalo ad Areadem». Fassino: «Non deve ripetersi più». Gentiloni: «Credibilità incrinata»
di M. Ze.


ROMA L’affondo è durissimo. Poche parole usate come una lama di ghiaccio che piomba al terzo piano del Nazareno mentre è in corso la direzione. «La spinta del suicidio di questo partito non ha limiti». È Romano Prodi che parla, dall’estero, e commenta le nomine alle Authority, argomento bollente. Anche qui. L’ex premier si rivolge ai vertici del Pd e «a chi ha avallato queste decisioni». Un suicidio. Ferita aperta tra i democratici, una vicenda da molti vissuta con grande imbarazzo e sono in molti a oggi e portarla ad esempio di tutto ciò che il partito deve evitare, «per coerenza», per «rompere con vecchie logiche», perché «il messaggio è stato devastante». Prodi, Piero Fassino, Paolo Gentiloni, Gianni Cuperlo, Sandra Zampa, Matteo Orfini, Debora Serracchiani...
LA FIGURACCIA
Durissimo il responsabile Cultura: «Abbiamo fatto una figuraccia per assecondare il capriccio di una corrente. Credo di capire dice Orfini riferendosi ad Areadem, la corrente di Dario Franceschini e ad Antonello Soro nominato alla Privacyche se un bambino fa un capriccio lo si mette in castigo. Noi invece gli abbiamo comprato un gelato». Poi si rivolge a Bersani: «Non puoi dire che quando c’è da fare le nomine è meglio farsi venire una febbre, perché sarai a Palazzo Chigi, lì di nomine dovrai farne tutti i giorni. Che fai, ti fari ricoverare? Non credo sia un bene per il Paese». Ne ha per tutti, compreso Massimo D’Alema che aveva definito una sciocchezza parlare di voto anticipato: «Quello che non funziona non è il meccanismo delle nomine, siamo noi, il modo in cui funzioniamo noi. Questo modo di far funzionare il partito è, questa sì, una solenne sciocchezza».
Areadem è sotto processo, l’avevano messo nel conto, «durerà ancora qualche giorno, poi la smetteranno», commenta un deputato. Irritazione quando la critica arriva anche da Piero Fassino. «Una vicenda come quella non deve ripetersidice il sindaco di Torino -, occorre partire dalle competenze e dalla professionalità solo dopo viene l’appartenenza. Questo è necessario per chi è chiamato a governare un pezzo di Paese». Paolo Gentiloni avverte: «Dobbiamo stare attenti a non fare scelte che incrinano la nostra credibilità. L’errore fatto sulle nomine alle autorità lo stiamo inesorabilmente pagando, Fassino lo ha detto in modo ineccepibile». «Parlano perché non è stato eletto il loro candidato, quello dei veltroniani», commenta un franceschiniano doc mentre si concede la pausa caffé che malgrado lo zucchero lascia l’amaro in bocca. Ignazio Marino spera che la pagina si volti davvero «una volta per tutte» considerato che «il Pd giustamente non parteciperà alle nomine del Cda della Rai». Abbandonare «per sempre le lottizzazioni», auspica. Sandra Zampa affonda il coltello nella piaga, difende Prodi non a tutti sono piaciuti i toni forti dell’ex premier -. Cita un’intervista di un dirigente del Pd senza farne il nome che aveva sostenuto: «Non credo che Prodi voglia andare al Quirinale». «Ci ha preso perfettamentereplica Zampa -. Prodi è l’unico che non è seduto qui, se ne è andato e ha chiuso con la politica mentre qui siede gran parte della seconda Repubblica e qualcuno anche della prima». Dal video a circuito chiuso arriva l’eco di un applauso solitario. Poi, la frase: «Abbiamo tagliato i vitalizi e non l’abbiamo neanche detto, ma vorrei sottolineare la differenza tra noi e chi è uscito e ora siede in un’autorità per sette anni solo perché dovevamo sistemare una persona». Ancora una volta l’obiettivo è Soro.
Arturo Parisi segue gli interventi seduto sulle scale al pian terreno del Nazareno, affianco ai giornalisti. Ogni tanto un sorriso ironico. «Non riesco a capire come si possa parlare del futuro saltando a piè pari dice, senza un accenno di autocritica, gli episodi vergognosi degli ultimi giorni. Non riesco a capire come si possa parlare di antipolitica senza stigmatizzare il contributo che alla antipolitica viene dalla politica».
Stefano Fassina si chiede: «Ma i parlamentari che hanno criticato la scelta dei candidati alle Authority perché le hanno votate?». Replica dal tavolo della presidenza Rosy Bindi: «Bastava la maggioranza semplice, sia nel gruppo sia in aula, questo forse non ti è chiaro». Bersani ascolta. Poi, replica: «Ho sentito molte critiche, raccomanderei che avessero un tono accettabile. Tutte legittime le critiche, dopodiché abbiamo una storia alle spalle per cui non c’è nessuno innocente. Devi trovare dei meccanismi che lo riducano al minimo».

il Fatto 9.6.12
La benedizione di Prodi: la spinta democratica al suicidio non ha limiti


La spinta al suicidio di questo partito non ha limiti”. Romano Prodi è all'estero, ma ha seguito passo dopo passo la polemica per le nomine alle Authority e ha affidato al Corriere.it   il suo commento riferito ai vertici del Pd, o comunque "a chi ha avallato queste decisioni". L’ex premier ha scelto un momento non casuale per far arrivare il suo anatema ai vertici democratici: la mattina in cui si riunisce la direzione. E Antonio Di Pietro rincara la dose: “Condivido e appoggio le dichiarazioni di Prodi sul Pd: la dirigenza del partito ha attivato una spinta al suicidio senza limiti. Infatti, quanto avvenuto in questi giorni nelle aule parlamentari è la dimostrazione di come la classe dirigente del Partito democratico non rappresenti le istanze che arrivano dagli elettori del centrosinistra"

il Fatto 9.6.12
Esclusivo
Vaticano. Le lettere a Bertone della lobby Usa
Una perizia psichiatrica per cacciare Gotti Tedeschi
“È inadatto, troppe manovre e denigrazioni degli altri” E ancora: “Ha l’accidia sociale”
“Disfnzioni psicopatologiche, Gotti Tedeschi va cacciato”
Guerra totale contro l’ex presidente dello Ior
Le lettere della lobby Usa a Bertone: “Inadatto a guidare lo Ior” Ma il banchiere avrebbe una lista dei conti dei vip laici
Una cena trappola per analizzarlo
“Scollamento dalla realtà e accidia sociale: è nocivo”
di Marco Lillo


La linea di contrattacco del Vaticano dopo la perquisizione e il primo interrogatorio all’ex presidente dello IOR è arrivata ieri
I documenti che pubblichiamo in esclusiva oggi sarebbero una buona base per un legal thriller dentro le mura leonine. Nemmeno John Grisham e Dan Brown avevano ipotizzato la seguente scena descritta in una delle lettere: Pietro Lasalvia, ‘psicoterapeuta e ipnoterapeuta’, come scrive nell’incipit della sua roboante carta intestata (nella quale prosegue vantando le seguenti specializzazioni: “psicoterapia occupazionale; perfezionato in psichiatria di consultazione, e clinica pscicosomatica; specializzazione in psicoterapia; iscritto nell’elenco degli psicoterapeuti presso l’Ordine dei medici; professore a contratto presso il corso di laurea nella professione sanitaria, seconda facoltà di medicina e chirurgia La Sapienza”) nel marzo scorso arriva a scrivere una sorta di diagnosi a scoppio ritardato sul conto del presidente dello IOR. Lasalvia è un medico che si occupa della salute sul lavoro dei dipendenti dello IOR ed è in ottimi rapporti con Paolo Cipriani, il direttore generale, il vero uomo forte dello IOR, che è in forte contrasto con Gotti Tedeschi.
La festa di Natale
Prima delle feste di Natale 2011 viene invitato a un rinfresco allo IOR e, casualmente, per tutta la serata osserva a sua insaputa il comportamento del presidente dello IOR sotto il profilo medico per poi stilare un rapportino che finisce però solo tre mesi dopo, caualmente quando infuria lo scontro su Gotti, tramite la direzione generale dello IOR, sul tavolo della Segreteria di Stato. Questa sorta di certificato diventa così un’arma che i nemici del presidente brandiscono sulla sua testa e che dà forza e fondamento medico ad altri due documenti che pubblichiamo: la lettera del segretario del consiglio dello IOR Carl A. Anderson e la missiva del vicepresidente Ronaldo Hermann Schmitz. Entrambe le lettere dei due uomini forti dello IOR sono dirette a Tarcisio Bertone e contengono accuse pesantissime a Gotti Tedeschi.
Complotto giudaico-massonico
Le due lettere sono scritte alla vigilia del consiglio del 24 maggio che segnerà la sfiducia e la cacciata di Gotti Tedeschi e sono indirizzate al ‘primo ministro’ del Vaticano per chiedere la testa di Gotti.
Nei giorni precedenti Gotti Tedeschi ha scritto una lettera al cardinale Tarcisio Bertone per affermare una tesi che non nasconde anche nei colloqui con alti prelati e personaggi delle istituzioni italiane. Il presidente dello IOR (che teme per la sua vita) sa di avere i giorni contati alla presidenza dello IOR. Con Bertone e i suoi referenti in Curia punta il dito contro un complotto massonico che vorrebbe farlo fuori. Indica anche i nomi dei suoi presunti nemici. Tra questi personaggi molto influenti non solo in Vaticano, come il notaio Antonio Maria Marocco di Torino, che in realtà è molto vicino al cardinale Tarcisio Bertone da decenni. Il presidente dello IOR poi cita l’avvocato Michele Briamonte dello studio Grande Stevens, che sarebbe secondo lui vicino alla lobby ebraica perché è uno dei fondatori della camera di commercio Italo-israeliana della quale per la verità fanno parte anche personaggi di primissimo piano della vita pubblica italiana. I rapporti sono tesi con Gotti Tedeschi da quando aveva fatto dichiarazioni imprudenti, secondo la Segreteria di Stato, con la Procura di Roma, ammettendo l’esistenza de conti cifrati nello IOR.
Un mistero custodito con cura per decenni era stato spiattellato in un verbale dal presidente della Banca più riservata del mondo.
La fine
Da quel momento la fine di Gotti è segnata. Poi c’è il braccio di ferro a dicembre del 2011 sulla legge antiriciclaggio e i rapporti si fanno ancora più tesi quando le carte escono sul Fatto. Ma la goccia che fa traboccare il vaso è quando il neo nominato presidente del Monte Paschi di Siena, Alessandro Profumo, va a fare visita a Gotti Tedeschi e gli riferisce di avere ricevuto confidenze da personaggi influenti in Segreteria di Stato che Gotti Tedeschi di lì a pochi giorni sarà fatto fuori. Come a dire: “non parlargli di cose delicate che ormai non conta più nulla”. Gotti Tedeschi viene fatto fuori il 24 maggio. Due giorni prima il vicepresidente Hermann Schmidt, che ora è diventato presidente scrive al Segretario di Stato Tarcisio Bertone: “Mi aspetto con fiducia che Sua Eminenza ponga fine immediatamente al mandato del presidente Gotti. Non desidero continuare a prestare servizio in un Consiglio con Gotti Tedeschi. Pertanto nel caso in cui il presidente non fosse sollevato dall’incarico dopo un voto di sfiducia da parte del Consiglio, rassegnerò le dimissioni entro e non oltre la fine di maggio 2012”. Nelle stesse ore il segretario del consiglio Carl A. Anderson scrive “Sono giunto alla conclusione, dopo molte preghiere e riflessioni, che Gotti Tedeschi non sia in grado di guidare l’Istituto in tempi difficili come questi”. Le due lettere vanno lette alla luce del comunicato stampa di ieri del Vaticano. Il bollettino della Santa Sede, dopo la premessa banale sulla “sorpresa e preoccupazione per l’inchiesta” lancia un avvertimento allo Stato italiano “la Santa Sede ripone la massima fiducia nell'autorità giudiziaria italiana che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall'ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate”. Poi, dopo la conferma dell’appoggio incondizionato al direttore generale dello IOR Cipriani, che Gotti Tedeschi avversava(“la Santa Sede conferma inoltre la sua piena fiducia nelle persone che dedicano la loro opera con impegno e professionalità all'Istituto per le Opere di Religione e sta esaminando con la massima cura l'eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e dei suoi organi”) arriva la parte più interessante, dedicata a Gotti Tedesch:. “Si ribadisce, infine, che la mozione di sfiducia adottata nei confronti del Prof. Gotti Tedeschi da parte del Consiglio di Sovrintendenza è stata fondata su motivi oggettivi, attinenti alla governance dell'Istituto, e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza, che anzi sta a cuore alle Autorità della Santa Sede, come allo IOR”.
Le perquisizioni
La linea di contrattacco del Vaticano dopo la perquisizione e il primo interrogatorio all’ex presidente dello IOR è arrivata ieri con un bollettino chiarissimo: Ettore Gotti Tedeschi non è stato cacciato dallo IOR perché voleva la trasparenza dei conti bancari e dei loro reali intestatari. I pm italiani non si azzardino a violare le prerogative dello Stato Vaticano andando dietro alle sue accuse, ai suoi memoriali, alle sue paure di essere ucciso e magari alle liste di conti correnti cifrati intestati ai vip laici che potrebbe avere compilato. Con il comunicato ufficiale emanato dalla Santa Sede ieri pomeriggio lo scontro tra Italia e Citta del Vaticano sale di livello.
25mila correntisti
E le carte che oggi pubblichiamo in esclusiva dimostrano quanto è duro lo scontro interno al Vaticano tra le due fazioni che si sono contrapposte sulla legislazione dei presidi contro il riciclaggio dentro la Città del Vaticano. La posta è enorme. Lo Ior amministra in depositi una cifra che dovrebbe oscillare attorno ai 9 miliardi di euro di patrimonio. Ci sono 25 mila correntisti laici e questa indagine della magistratura italiana rischia di svelare anche i nomi dei vip. La vera partita in gioco è quella dei “conti laici anomali”, quelli dei quali Ettore Gotti Tedeschi ha parlato con i magistrati.
Tra le carte sequestrate a casa e nel-l’ufficio del banchiere ci sono anche elenchi di nomi di personaggi importanti, anche della politica, che potrebbero avere il conto presso lo IOR. Quella lista trovata a casa di Gotti Tedeschi sarebbe frutto di una sua ricerca. Probabilmente non si tratta di carte ufficiali o di contabili bancarie con il timbro IOR, perché a quelle il banchiere non aveva accesso. Bensì di informazioni che probabilmente aveva raccolto informalmente. Comunque sia, quella lista fa paura perché potrebbe incrinare il muro di anonimato dello IOR. E ancora di più fanno paura Oltretevere le inchieste che potrebbero nascere dalle accuse dell’ex presidente dello IOR che pare disposto a collaborare. Per questa ragione ieri è arrivato i primo avvertimento, le lettere e i documenti inerenti all’attività della Banca del Vaticano non devono essere usate contro i manager IOR indagati dalla Procura di Roma, a partire da Paolo Cipriani. E non manca un messaggio per Gotti Tedeschi: la smetta di atteggiarsi a vittima della lobby ‘giudaico-massonica’ favorevole alla scarsa trsparenza bancaria. E non si azzardi a collaborare con i pm di Roma e Napoli, come sembra intenzionato a fare dopo essere stato scaricato da tutti Oltretevere, perché altrimenti ce ne sarà anche per lui.
Segrete stanze
La Segreteria di Stato ieri con il suo comunicato ha voluto lanciare il primo messaggio perché sia chiaro a tutti che il presidente dell’Istituto Opere Religiose non è entrato in lotta di collisione con il Segretario di Stato Tarcisio Bertone perché voleva svelare alle autorità italiane chi c’era dietro i conti cifrati della banca vaticana. Il banchiere è stato accompagnato alla porta il 24 maggio con una lettera del Cavaliere Supremo dell’Ordine dei Cavalieri di Colombo Carl A. Anderson perché non sapeva fare il presidente ed era anche un po’ fuori di testa. Così si regolano le faccende in Vaticano.

il Fatto 9.6.12
Il triplice attacco
“Così getta ombre sull’operato di Ratzinger”
Carl Anderson a Bertone: “Gotti abbandona le riunioni” (maggio 2012)


Sebbene abbia iniziato a prestare servizio come membro del Consiglio di Sovrintendenza solo di recente, da tempo sono consapevole dell’importanza dell’Istituto delle Opere Religiose rispetto alla missione della Chiesa Universale. Come membro del Consiglio, spero di poter fornire un punto di vista fresco e permeato dalla conoscenza del mondo finanziario degli Stati Uniti. In qualità di presidente e amministratore delegato dei Cavalieri di Colombo, che è la più grande compagnia di assicurazioni cattolica e che si occupa di raccogliere donazioni e soddisfare esigenze filantropiche in tutto il mondo, conosco l’importanza dello Ior come strumento della volontà del Santo Padre. Naturalmente lavoro a stretto contatto, quando ne vengo sollecitato, con la Segreteria di Stato per contribuire a realizzare le opere buone essenziali alla missione e alla reputazione della Chiesa. In questa luce, è stato con grande ansia e trepidazione che ho letto negli ultimi mesi le voci sull’Istituto, in particolare per quanto concerne l’interruzione dei rapporti bancari con istituzioni di grande rilievo quali la JP Morgan. Queste voci allarmano il mondo finanziario e il crescente scetticismo nei confronti dello Ior non è di aiuto, ma getta una luce negativa sull’opera del Santo Padre. Ciò che mi ha sconcertato e profondamente preoccupato in quanto membro del Consiglio, è la mancanza da parte dell’Istituto di una risposta all’altezza di queste affermazioni. E ora vengo alla parte triste della mia lettera. Sono giunto alla conclusione, dopo molte preghiere e riflessioni, che Gotti Tedeschi non sia in grado di guidare l’Istituto in tempi difficili come questi. Come ho avuto modo di dire ai miei colleghi del Consiglio, Gotti Tedeschi non ha saputo difendere l’Istituto con il necessario vigore e, non fosse che per questo, l’Istituto ne ha sofferto. DalmiopuntodivistadimembrodelConsiglio, a prescindere dall’attuale situazione, è mancata da parte del presidente una direzione e una progettualità, le sue occasionali comunicazioni a me dirette sembrano incentrate non sulla vita dell’Istituto, ma sulle manovre politiche interne e sulla denigrazione degli altri. Accanto a questa sciagurata retorica, c’è stato un comportamento via via più stravagante caratterizzato dal non fornire informazioni complete al Consiglio e, a volte, dal disertare o dall’abbandonare le riunioni del Consiglio. Non ho fiducia in Gotti Tedeschi ed è con grande riluttanza che informo Sua Eminenza che sarebbe per me un enorme sacrificio continuare a servire in questo Consiglio con Gotti Tedeschi. Lasciando da parte il mio personale disagio, e’ mia opinioneprofessionaleedimembrodel Consiglio nei cui confronti ho un dovere fiduciario e indipendente, che la permanenza in qualsivoglia forma di Gotti Tedeschi in seno all’Istituto, con ogni probabilità danneggerebbe l’Istituto e influirebbe in maniera significativa sulla possibilità di realizzarla sua missione.
Le garantisco che in occasione della riunione del Consiglio di Sovrintendenza del 24 maggio 2012, voterò la mozione di sfiducia che il vicepresidente Ronaldo Schmitz presenterà nei confronti del presidente Gotti Tedeschi. Così facendo sono certo di appoggiare la corretta decisione di Sua Eminenza e il modo in cui ha condotto la vicenda. (...)
Lo psichiatra Lasalvia: “È egocentrico e narciso” (18 marzo 2012)
Per completezza del mio intervento professionale sullo stress lavoro (...) per la valutazione di rischio stress correlato e con la sensibilità comunitaria per tale questione Le scrivo di seguito alcune riflessioni; Le devo inoltre dire che ho scritto solo ora perché la delicatezza dell'argomento ha determinato in me l'esigenza di una lunga ed attenta riflessione.
In occasione di un convivio organizzato dalla Direzione per salutare i dipendenti Ior prima delle Sante festività natalizie, sono stato da Lei invitato ed ho avuto l'occasione di sedere accanto al Presidente Gotti Tedeschi fino a quel momento mai conosciuto. Mi ha sorpreso il distacco dall'oggetto di tale situazione, cioè il materiale umano che vivificava l'organico Ior, e lo scollamento con la direzione che invece partecipava come un buon padre di famiglia a una occasione di unione tra la sacralità del contesto e la profanità del lavoro che si svolge quotidianamente. Inoltre il Presidente ha monopolizzato completamente la mia attenzione celebrando la sua persona con a mio avviso inopportune osservazioni sia sulla moralità dei dipendenti sia sulle capacità del clero. Devo dire che tutto ciò mi ha reso sbigotto soprattutto in funzione delle mie aspettative condizionate anche dalla bella presentazione che elegantemente Lei, Direttore, anche indirettamente mi ha sempre fatto.
Per la professione che svolgo e per l'incarico affidatomi non potevo esimermi ad evidenziarLe una certa incongruenza tra i tratti di personalità emersi, anche se in un colloquio occasionale e non strutturato, ed il delicato ruolo di rappresentanza che il Dr. Gotti Tedeschi ricopre; nel merito si sono evidenziati tratti di egocentrismo, narcisismo ed un parziale scollamento dal piano di realtà assimilabile a una disfunzione psicopatologica nota come “accidia sociale”, termine mutuato dalla letteratura cristiana ma che ben interpreta alcuni modelli comportamentali patologici secondo le attuali cognizioni del cervello sociale. La mia osservazione si è resa opportuna poiché come obiettivo professionale ho il compito di diagnosi, prevenzione e terapia dello stress lavoro correlato e tale situazione rappresenta sia per il soggetto, che tra l'altro non si è sottoposto al protocollo, sia per la comunità lavorativa una fonte di stress; in aggiunta, in un ottica di “unione” in cui il modello cristiano della famiglia ne è il principale volano tale scollamento potrebbe ingenerare confusione e quindi malessere.
In conclusione tali osservazioni non vogliono rappresentare una diagnosi ma un punto di osservazione professionale di cui mi è sembrato corretto dare rilevanza in relazione all’incarico che sto svolgendo ed in sintonia con la mia Fede Cristiana, sia per la salute dell’IFstituto che per la salute di ogni singolo costituente compreso il presidente.
Schmitz al Segretario di Stato: “Siamo in pericolo” (22 maggio 2012)
Le scrivo con il cuore colmo di pena. Faccio parte del Consiglio di Sovrintendenza delle Opere Religiose dal 2006. In questi sei anni di servizio ho assistito a meravigliosi progressi per ciò che concerne le Opere dell’Istituto e ho affiancato il direttore generale nel suo lavoro. Mi auguro di continuare a far parte del Consiglio nel prossimo futuro.
Tuttavia, come ho avuto modo di dire nella mia precedente corrispondenza, sono convinto che al momento l’Istituto si trovi in una situazione estremamente fragile e rischiosa. Le ho già in precedenza confidato con sincerità le mie preoccupazioni, ma ora ritengo che la situazione sia degenerata al punto di far temere un pericolo imminente.
Forse le mie parole potranno sembrare forti, ma le ho scelte con cura. Ho esaminato la posizione e la percezione dell’Istituto dalla prospettiva di chi opera nel campo della finanza internazionale da circa 45 anni e negli ultimi mesi ho raccolto con particolare attenzione fatti concernenti tanto il funzionamento quanto la rappresentanza dell’Istituto. È proprio in situazioni di pericolo come questa che una istituzione finanziaria deve avere una guida ferma e affidabile. A mio giudizio, il presidente dell’Istituto, Ettore Gotti Tedeschi, non ha le qualità necessarie per guidare l’Istituto. Inoltre ha aggravato la situazione con la sua inerzia e con la mancanza di lealtà nei confronti dei dipendenti e di trasparenza nei confronti del Consiglio. Di fatto nel momento in cui ci aspetta che un capo si faccia avanti e si metta al servizio, Gotti Tedeschi ha evitato o abbandonato gli incontri previsti dallo statuto del Consiglio semplicemente per non fare i conti con le questioni che vanno affrontate. Come Lei ben sa, in occasione della riunione del Consiglio dello Ior del 24 maggio prossimo è prevista la presentazione di una mozione di sfiducia nei confronti del presidente Gotti Tedeschi.
La mozione fornirà i presupposti di fatto sulla base dei quali la maggioranza del Consiglio dovrebbe rimuovere Gotti Tedeschi dalla carica di presidente e da membro del Consiglio dello Ior. Mi aspetto con fiducia che Sua Eminenza ponga fine immediatamente al mandato del presidente Gotti. Non desidero continuare a prestare servizio in un Consiglio con Gotti Tedeschi. Pertanto nel caso in cui il presidente non fosse sollevato dall’incarico dopo un voto di sfiducia da parte del Consiglio, rassegnerò le dimissioni entro e non oltre la fine di maggio 2012. Onestamente mi auguro che la mia carriera nel campo del sistema bancario internazionale e l’aver fatto il mio dovere in seno all’Istituto, convincano Sua Eminenza che va interrotto immediatamente il rapporto con Gotti Tedeschi e che questo è il solo modo per tentare di dare nuovo slancio all’Istituto.

il Fatto 9.6.12
Dal riciclaggio alla “cricca”: le due inchieste di Roma


Due le inchieste condotte dai pm di Roma, Nello Rossi e Rocco Fava. La prima vede indagato Gotti Tedeschi e il direttore generale dello Ior Paolo Cipriani. Nel mirino, 23 milioni movimentati verso il Credito Artigiano e destinati parte a J.P. Morgan Frankfurt, parte alla Banca del Fucino. Un’operazione sospetta, secondo i pm, che disposero il sequestro della somma. Ai magistrati Gotti e Cipriani spiegarono che si trattava di normale operazione di tesoreria. Ma i 23 milioni furono dissequestrati solo nel giugno scorso, grazie anche all’iter intrapreso dalla Santa Sede per dotarsi di una normativa antiriciclaggio. L'altra inchiesta coinvolge invece alcuni preti e le loro movimentazione di denaro in odore di riciclaggio. Tra questi don Evaristo Biasini, soprannominato “don bancomat”. Il suo nome comparve nelle indagini sulla “cricca”: il sospetto era che il sacerdote, ex economo della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo sangue e amico di Diego Anemone, costruttore romano al centro dell’indagine, custodisse fondi neri. In varie operazioni da lui annotate ricorre anche la voce Ior.

il Fatto 9.6.12
Santa Sede: i giudici italiani rispettino il diritto internazionale


Motivi oggettivi alla base della sfiducia a Gotti Tedeschi, ma anche “sorpresa e preoccupazione”. Lo ha ribadito ieri, in una nota della Sala stampa vaticana, la Santa Sede. “La mozione di sfiducia nei confronti di Gotti Tedeschi del Consiglio di Sovrintendenza” dello Ior è stata “fondata su motivi oggettivi, attinenti alla governance dello Ior, e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza, che anzi sta a cuore alle Autorità della S. Sede, come all’Istituto stesso”. La Santa Sede, sorpresa e preoccupata “per le recenti vicende in cui è stato coinvolto il professore”, “conferma inoltre la sua piena fiducia nelle persone che dedicano la loro opera con impegno e professionalità all’Istituto per le Opere di Religione e sta esaminando con la massima cura l’eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e dei suoi organi”. Poi un messaggio ai giudici: “La Santa Sede ripone nell’autorità giudiziaria italiana la massima fiducia che le prerogative sovrane riconosciute dall’ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate”.

Corriere 9.6.12
I conti dei politici nella battaglia dello Ior
«Lo Ior e i conti dei politici .Chiesi notizie, iniziò la guerra»
Il memoriale di Gotti: ecco i nomi dei miei nemici
di Fiorenza Sarzanini


La guerra interna allo Ior è cominciata «quando ho chiesto di avere notizie sui conti che non erano intestati ai prelati», ma a politici, faccendieri, costruttori, alti funzionari dello Stato e prestanome di boss. Lo scrive, indicando anche i suoi «nemici», l'ex presidente Gotti Tedeschi nel dossier affidato alla segretaria.

ROMA — Ha una precisa data di inizio la guerra interna allo Ior che si è conclusa con il licenziamento del presidente Ettore Gotti Tedeschi. Ed è lo stesso banchiere a fissarla nel memoriale che aveva affidato alla sua segretaria chiedendole di consegnarlo a tre persone «se dovesse succedermi qualcosa» e che voleva far avere anche al Papa. «Tutto è cominciato - scrive - quando ho chiesto di avere notizie sui conti che non erano intestati ai prelati». Depositi riconducibili a politici, faccendieri, costruttori, alti funzionari dello Stato. Ma anche a personaggi ritenuti prestanome dei boss della criminalità, come emerge da un'inchiesta avviata dalla procura di Trapani secondo cui all'Istituto per le Opere religiose potrebbero essere arrivati addirittura parte dei soldi del latitante Matteo Messina Denaro.
Nel dossier il banchiere sottolinea le forti resistenze incontrate e poi indica due persone che sarebbero in cima alla lista dei suoi nemici: il direttore generale dello Ior Paolo Cipriani e il giovane manager Marco Simeon, direttore di Rai Vaticano e responsabile delle relazioni istituzionali e internazionali di viale Mazzini, ritenuto uomo di fiducia del cardinale Tarcisio Bertone. E sono in molti a leggere nella nota ufficiale della Santa Sede che evidenzia «le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall'ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate» un avvertimento allo stesso Gotti. Una sorta di invito a non svelare, nella sua collaborazione con gli inquirenti, nulla che riguardi quanto accaduto all'interno delle mura leonine. Ma anche un altolà ai magistrati perché non sia utilizzato alcun documento ufficiale del Vaticano.
I nemici interni
Il sequestro del dossier composto da lettere, mail, appunti e resoconti di incontri che il banchiere ha raccolto nei due anni e mezzo trascorsi al vertice dello Ior certamente spaventa le alte gerarchie ecclesiastiche anche per le ripercussioni che può avere con la pubblicazione di nuovi atti. Nelle carte portate via dall'ufficio del banchiere i nomi dei suoi «nemici» ricorrono spesso. Non è un mistero che i rapporti con Cipriani non siano mai stati idilliaci e queste frizioni emersero già all'inizio dell'indagine avviata dalla procura di Roma che aveva disposto il sequestro di 23 milioni di euro transitati su un conto Ior ipotizzando nei confronti di entrambi l'accusa di riciclaggio. Dopo una atteggiamento iniziale di chiusura, Gotti si sarebbe mostrato disponibile alla collaborazione, mentre il direttore generale avrebbe ribadito la sua contrarietà a fornire elementi utili a individuare i titolari dei depositi e si sarebbe sempre espresso in maniera negativa sulla possibilità di fornire indicazioni anche su conti correnti che non risultano più attivi ma per i quali si potrebbero ricostruire le movimentazioni pregresse.
Un atteggiamento condiviso — sempre secondo Gotti — da Bertone e nelle carte il banchiere evidenzia l'avversità nei suoi confronti di Simeon, che nonostante abbia solo 33 anni è già stato responsabile delle relazioni istituzionali di Capitalia e Mediobanca. E vanta ottimi rapporti con il faccendiere Luigi Bisignani e con alcuni alti funzionari finiti agli arresti per corruzione nell'indagine sugli appalti dei Grandi eventi come l'ex provveditore alle opere pubbliche, Angelo Balducci. Sono tutti titolari di conti presso lo Ior e le verifiche patrimoniali effettuate nel corso delle inchieste avevano mostrato flussi di denaro che certamente transitavano su questi depositi.
I soldi della mafia
Una storia simile a quella scoperta dalla Procura di Trapani che agli inizi di maggio aveva inviato una rogatoria alla Santa Sede per chiedere elementi su due conti correnti da don Ninni Treppiedi, ex gestore delle casse della Curia ed ex fedelissimo del vescovo Francesco Miccichè, indagato per una serie di ammanchi. Il prete è stato sospeso a divinis, mentre l'alto prelato è stato sollevato dall'incarico «per non aver vigilato sull'operato del suo sottoposto». In realtà aveva iniziato a collaborare con i pubblici ministeri e c'è chi ritiene che sia questo il vero motivo della rimozione. Nell'istanza trasmessa alle autorità vaticane vengono specificati i motivi di necessità per l'accesso alla movimentazione dei due depositi ma non è esplicitato il sospetto che ha preso corpo nelle ultime settimane secondo il quale quei soldi sarebbero serviti a riciclare anche denaro proveniente da Matteo Messina Denaro.
Oltre agli ammanchi della Curia, l'indagine si concentra su una serie di investimenti immobiliari e vendite di beni ecclesiastici che potrebbero nascondere il passaggio di soldi a prestanome e la necessità di «ripulirli» attraverso il transito su società e istituti di credito non accessibili ai controlli diretti, come appunto è lo Ior. Adesso bisognerà scoprire se davvero, come lui stesso avrebbe sostenuto, Gotti aveva manifestato la volontà di assecondare almeno in parte le richieste delle autorità italiane. Oltre ai conti finiti nell'inchiesta di Trapani ci sono infatti una decina di operazioni sospette segnalate alla procura di Roma e sulle quali sta già svolgendo accertamenti la Guardia di finanza. Movimentazioni che portano proprio ai conti Ior intestati a preti e suore.

Corriere 9.6.12
Il Vaticano: fiducia che i pm rispettino la nostra sovranità
Richiamo alle norme internazionali
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — La Santa Sede scende in campo con decisione sulla vicenda Ior-Gotti Tedeschi. Con un comunicato stringato diramato ieri in serata dalla sala stampa diretta da padre Federico Lombardi, che non lascia spazio a repliche, il Vaticano si è espresso ufficialmente dopo tre giorni di silenzio sulle perquisizioni, gli interrogatori e i sequestri di documenti che sono stati eseguiti nei confronti dell'ex presidente dello Ior, da parte delle Procure della Repubblica di Napoli e di Roma. Dieci righe in tutto, articolate in tre punti, in cui viene ricordato ai pm italiani che la Santa sede è uno stato sovrano e i suoi funzionari e documenti godono delle conseguenti protezioni e immunità. La Santa Sede esprime fiducia che i pm rispettino il diritto sovrano, difende il vertice dell'Istituto, e ribadisce che la destituzione di Gotti non è legata in nessun caso alla trasparenza, ma a motivi oggettivi di non aver saputo svolgere il suo ruolo.
Il Vaticano fa sapere di aver «appreso con sorpresa e preoccupazione le recenti vicende in cui è stato coinvolto il professor Gotti Tedeschi». Ma al riguardo il comunicato mette in evidenza, subito dopo, la delicata questione della giurisdizione, lì dove sostiene che «la Santa Sede ripone nell'autorità giudiziaria italiana la massima fiducia che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall'ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate». Un'affermazione che si spiega con il fatto che è noto che l'ingente quantitativo di materiale sequestrato (47 faldoni di carte che l'ex presidente si era tenuto in casa), oltre al famoso memoriale messo a punto da Gotti sul caso della sua destituzione dall'incarico, e gli interrogatori cui egli è stato sottoposto, hanno a che fare in gran parte con l'attività dello Ior e di altri organi centrali dello Stato Città del Vaticano. Mentre alcuni carteggi riguardano lo stesso Pontefice. Il difetto di giurisdizione penale italiana nel sequestro dei documenti sullo Ior, trae origine dal fatto che lo stesso Ior è stato riconosciuto — con sentenza 17 luglio 1987 della Cassazione nel procedimento per il crack del vecchio Ambrosiano di Roberto Calvi — come ente centrale della Chiesa cattolica in base all'articolo 11 del Trattato del Laterano.
Nel secondo punto del comunicato è contenuta un'aperta difesa, pur senza nominarli, dell'onorabilità di alcuni professionisti che lavorano per lo Ior (gli avvocati Jeffrey Lena e Michele Briamonte), e dei suoi dirigenti (come il direttore generale Paolo Cipriani) che in alcune ricostruzioni finite sui giornali sono stati più o meno velatamente descritti come all'origine del presunto complotto per cacciare Gotti Tedeschi, se non addirittura a metterne in pericolo la vita (prospettando complicità con il crimine organizzato, gruppi di pressione e non limpidi interessi internazionali). La Santa Sede conferma invece «la sua piena fiducia nelle persone che dedicano la loro opera con impegno e professionalità all'Istituto per le opere di religione». Inoltre «sta esaminando con la massima cura l'eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e dei suoi organi». Cioè sta valutando se adire o meno le vie legali per contrastare diffamazioni e calunnie.
Il terzo punto, si ricollega al secondo: «ribadisce, infine, che la mozione di sfiducia adottata nei confronti del professor Gotti Tedeschi da parte del Consiglio di Sovrintendenza è stata fondata su motivi oggettivi, attinenti alla governance dell'Istituto, e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza, che anzi sta a cuore alle Autorità della Santa Sede, come all'Istituto stesso».
Nel memorandum «di sfiducia» votato all'unanimità da tutti i membri del board dello Ior contro Gotti Tedeschi, e ratificato «senza divisioni» dalla Commissione cardinalizia di controllo, il consiglio d'amministrazione della banca ha infatti contestato al banchiere nove punti di gravi inadempienze gestionali, tali da bloccare l'operatività dell'Istituto e rendere difficile il lavoro di adeguamento dello Ior alle normative internazionali e all'ingresso nella white list, oltre all'accusa di non saper giustificare la pubblicazione sui giornali di documenti della banca in suo possesso.

La Stampa 9.6.12
L’alt della Santa Sede: “L’Italia non indaghi più sulle carte dello Ior”
La Finanza ha avuto la delega per esaminare i documenti sequestrati a Gotti Tedeschi
Da Trapani richiesta di rogatoria su alcuni conti sospetti
Il Vaticano teme che ci possa essere la mafia e non risponde
di Guido Ruotolo


ROMA Lo scontro Il Vaticano sta prendendo sempre di più le distanze dall’ex presidente dello Ior, Ettore Gotti, che nei giorni scorsi ha messo alla berlina dirigenti e funzionari dell’Istituto vaticano Nel mirino Secondo Ettore Gotti (nella foto) il suo operato nello Ior avrebbe alimentato risentimento e preoccupazione «quando ho chiesto di vedere i conti laici... »
Eal quarto giorno, il Vaticano esce allo scoperto. Per esprimere il suo disappunto per le iniziative della magistratura italiana. Per prendere le distanze, che stanno diventando sempre di più siderali, con l'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi; per difendere i dirigenti e funzionari dello Ior messi alla berlina dallo stesso ex presidente della banca vaticana; per rivendicare, infine, la linea della trasparenza che sta a cuore allo Ior e alla Santa Sede. Dieci righe al vetriolo che mettono a dura prova la pazienza del Vaticano: «La Santa Sede ha appreso con sorpresa e preoccupazione le recenti vicende in cui è stato coinvolto il professor Gotti Tedeschi».
Erano piombati a Milano e a Piacenza i carabinieri del Noe, mandati dalla Procura di Napoli, per sequestrare i documenti a casa e negli uffici del professore Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior. Questo accadeva martedì. Poi i pm napoletani Woodcock e Piscitelli avevano iniziato a interrogare il professore e il giorno dopo erano arrivati a Milano anche il procuratore di Roma e il suo aggiunto, Pignatone e Rossi.
Il comunicato della Sala stampa aggiunge: «La Santa sede ripone nell'autorità giudiziaria italiana la massima fiducia che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall'ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate».
Il Vaticano vive la perquisizione e il sequestro delle carte Ior come un vulnus da sanare al più presto. Come se Napoli e Roma dovessero restituire ad horas quelle carte che attengono a uno Stato sovrano estero, il Vaticano appunto.
Che la tensione sia alta, lo dimostra anche il «caso» Trapani. Alla Santa Sede è arrivata una richiesta di rogatoria internazionale su un nominativo di un sacerdote siciliano, don Ninni Treppiedi, indagato - insieme ad altre 13 persone - per distrazione, vendita di beni ecclesiastici e anche calunnia e diffamazione contro il vescovo della città, Miccichè, che però è stato defenestrato per non essersi accorto dell'attività di don Ninni. Il timore è che dietro quei conti vi sia il boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Un timore raccolto nelle Sacre Stanze. Ma a quella rogatoria, il Vaticano non darà seguito. Non risponderà.
Nello stesso tempo, la Santa Sede pretende il rispetto della magistratura italiana nei confronti delle «cose vaticane». Ma la Procura di Roma lascia filtrare la notizia che il Valutario della Guardia di finanza ha avuto la delega per approfondire i temi sollevati dal memoriale e dagli allegati sequestrati al professor Gotti Tedeschi.
«Tutto è iniziato quando ho chiesto di vedere i conti laici... sono entrato così nel loro mirino... la mia posizione si è indebolita... Chi si contrapponeva? Il direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani, e Marco Simeon (segretario generale della Fondazione per i beni artistici della Chiesa, ndr). Gli elenchi dei conti laici? Non posso aiutarvi, non avrei potuto averli... ».
Scampoli di dichiarazioni dell'ex numero uno della banca vaticana ai pm napoletani Piscitelli e Woodcock e al procuratore e all'aggiunto di Roma, Pignatone e Rossi. La rappresentazione che dà di sé l'ex numero uno dello Ior è esattamente questa: «Io sono stato fatto fuori - esplicita agli inquirenti - e temo per la mia vita perché volevo la trasparenza». Lui, insomma, vittima sacrificale. Lui don Chisciotte e gli altri?
E' decisa la replica del Vaticano, che difende a spada tratta i Cipriani e Simeon chiamati in causa dal professore: «La Santa Sede conferma la sua piena fiducia nelle persone che dedicano la loro opera con impegno e professionalità all' Istituto per le Opere di Religione e sta esaminando con la massima cura l'eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e dei suoi organi». Chiedeva trasparenza e voleva gli elenchi dei «clienti» laici, Gotti Tedeschi. Tra i porporati che contano non si fa mistero di temere che in questi mesi Gotti Tedeschi si sia fatto sue liste di «proscrizione», insomma elenchi di possibili titolari di conti corrente. Di politici, personalità istituzionali, autorità finanziarie e bancarie ma anche di Stati che compaiono nelle «black list». Ma contro questa idea che il professore è stato licenziato perché voleva la trasparenza, la Santa Sede replica con furore che lui è stato sfiduciato per «motivi oggettivi attinenti alla governance dell'Istituto e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza che sta a cuore» allo Ior e al Vaticano.

Corriere 9.6.12
Lo scandalo scoppiato in Vaticano può inquinare i rapporti con l'Italia
I porporati hanno paura che l’ex presidente dello Ior abbia una lista di correntisti
di Marco Ventura


Una procedura penale nella Città del Vaticano, contro un individuo forse ancora detenuto, è di per sé un fatto grave. L'incidente sta però diventando gravissimo; l'Italia ne è seriamente minacciata. L'ordinamento vaticano è vero e proprio diritto, con codici e tribunali; ma il suo spirito e la sua architettura sono del tutto peculiari, ben lontani da ciò che in Europa si designa come Stato di diritto. Nella Città del Vaticano le norme possono essere derogate per una grave causa, non vige separazione dei poteri, non esiste controllo democratico né libertà di stampa. Soprattutto, su ogni atto incombe il potere assoluto del Pontefice che tutto può, in qualsiasi momento, senza esser legato da alcuna formalità. Perciò la Città del Vaticano s'è tenuta fuori dal sistema europeo di tutela dei diritti.
La diversità vaticana non è il frutto d'un capriccio, ma della natura stessa della Città del Vaticano, nata nel 1929 come strumento della Santa Sede, ovvero del Papa e dei suoi uffici, governo centrale della Chiesa di Roma. Non a caso il Trattato lateranense previde meccanismi per scaricare sulle autorità italiane situazioni in cui la natura della Santa Sede avrebbe reso imbarazzante l'uso della forza. Il contrasto tra natura spirituale e residuo potere temporale incombe ora sulle autorità d'Oltretevere: reggerà la pretesa che l'imputato deve sentirsi sicuro nelle mani di un ente, la Città del Vaticano, in difetto rispetto a standard ritenuti basilari in Europa?
Lo sconcerto internazionale è destinato a crescere. Se non interverrà presto la clemenza pontificia, le autorità vaticane sposteranno sempre più il peso e l'attenzione sulla giustizia italiana. Già oggi intimano ai nostri magistrati di non sfidare la loro sovranità nelle inchieste sulla finanza vaticana; domani potrebbero alzare la tensione o procedere con rogatorie e denunce in Italia contro i responsabili di Vatileaks, o ancora chiederci di custodire il maggiordomo incriminato. Sarebbe un naufragio giuridico e diplomatico; una fuga di denso petrolio nel mare già inquinato dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia.

Repubblica 9.6.12
Il Vaticano si cautela rispetto ai timori che tra i faldoni dell’ex presidente dello Ior ci siano documenti riservati riguardanti il Papa
Bufera sulle carte sequestrate a Gotti Tedeschi la Santa Sede: “I pm rispettino il diritto sovrano”
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO Scottano i documenti di Ettore Gotti Tedeschi sul Papa e lo Ior. E il Vaticano si cautela mettendo le mani avanti, tre giorni dopo il primo interrogatorio dell’ex presidente dell’Istituto per le Opere di Religione, e il sequestro fatto dai magistrati italiani delle carte tenute dal banchiere piacentino nell’abitazione e nei suoi uffici.
Ieri la Santa Sede in una dichiarazione ha fatto sapere di aver «appreso con sorpresa e preoccupazione le recenti vicende in cui è stato coinvolto il Prof. Gotti Tedeschi ». E il Vaticano «ripone nell’autorità giudiziaria italiana la massima fiducia che le prerogative sovrane riconosciute alla Santa Sede dall’ordinamento internazionale siano adeguatamente vagliate e rispettate».
È questo il punto centrale del comunicato. Tradotto in chiaro vuole dire che se fra le carte sequestrate dovessero esserci documenti riservati, per esempio riguardanti il Papa, devono essere trattati come prevede il diritto internazionale in quanto attività di un capo di stato estero. Le eventuali carte sul Pontefice vengono infatti giudicate come particolarmente «sensibili», assumendo una valenza enorme in un momento come questo, in cui si sono verificate copiose fuoriuscite di documenti dal Vaticano che hanno causato polemiche e accuse verso la Santa Sede.
Il Vaticano afferma poi di stare esaminando «con la massima cura l’eventuale lesività delle circostanze, nei confronti dei diritti propri e degli organi della Santa Sede». Infine, un affondo sull’ex presidente dello Ior, fino a pochi mesi fa, almeno in apparenza, del tutto in asse con la Segreteria di Stato, e adesso cacciato su due piedi con un comunicato di estrema durezza. La Santa Sede, si legge, ha ribadito che «la mozione di sfiducia adottata nei confronti del Prof. Gotti Tedeschi da parte del Consiglio di Sovrintendenza è stata fondata su motivi oggettivi, attinenti alla governance dell’Istituto, e non determinata da una presunta opposizione alla linea della trasparenza, che anzi sta a cuore alle Autorità
della Santa Sede». Insomma, Gotti Tedeschi non è stato di certo buttato fuori perché parlava di trasparenza mentre la Santa Sede no, ribadisce il Vaticano. Questo è accaduto, si afferma piuttosto, per una gestione giudicata come non più idonea. La nuova bufera appena iniziata attorno allo Ior preoccupa il mondo cattolico. «Credo che un segnale fortissimo — scriveva ad esempio ieri il “blog degli amici di Papa Ratzinger” con la sua curatrice “Raffaella” — potrebbe essere quello di chiudere la baracca ». Il quotidiano Avvenire ha inoltre anticipato la prefazione del segretario particolare di Benedetto XVI, don Georg Gaenswein, al libro “Gesù di Nazaret all’università” dello stesso Pontefice. Il Papa, scrive padre Georg, «non è un politico », e «nella Curia ha potato rami secchi». Un nuovo messaggio per mostrare l’unità della Chiesa in questo periodo travagliato.

Corriere 9.6.12
Terapia del dolore, Legge innovativa ma nessuno utilizza i fondi disponibili
di Mario Pappagallo


Ma che cosa si deve fare in Italia per cambiare la cultura della lotta al dolore? Nemmeno una legge, la 38/2010, che ha posto il nostro Paese all'avanguardia rispetto all'Europa (e rispetto al mondo per quanto riguarda il diritto alla non sofferenza dei bambini) ha smosso le acque.
Anzi si è impaludata, così come una corretta cura della malattia dolore. Legge ancora sconosciuta al 50% dei medici e alla quasi totalità dei cittadini-pazienti. E siamo a due anni dal suo varo.
Paradossale che, in tempi di vacche magre e di tagli, nemmeno i cento milioni annui finalizzati a far decollare i centri di terapia del dolore siano richiesti: mancanza di progetti. Ma forse la 38/2010 è ancora ignota, o ignorata, alle Regioni e alle aziende sanitarie? E quel testo completo e definitivo sulla terapia del dolore, disponibile gratuitamente su Internet e che non viene scaricato nemmeno per pura curiosità? Che cosa significa?
Si dovevano creare formazione e informazione, al contrario persistono deformazione culturale e disinformazione. Ed ali tarpate ad ogni tentativo di salto di qualità, a discapito non solo di chi soffre ma di tutti i cittadini, mantenendo in piedi un sistema italiano di cura del dolore diseconomico e arretrato.
I numeri diffusi dall'Unione Europea ne sono esempio: a fronte di circa 80 milioni spesi in un anno per farmaci oppioidi, i più indicati per le tipologie più severe di dolore, se ne destinano ancora 160 per preparati anti-infiammatori (paracetamolo, e non steroidei o Fans).
Non solo, altri 100 si bruciano per medicinali che servono ad alleviare i danni all'apparato gastrointestinale prodotti dai Fans. Spesso inutili per il dolore, senz'altro causa di ricoveri per gravi emorragie. E quindi causa di ulteriori costi per un servizio sanitario sempre più asfittico. Ma allora che cosa serve all'Italia per cambiare? O forse semplicemente non vuole cambiare: italiani nati per soffrire...

Corriere 9.6.12
«Il guerriero della luce agisce» Le note dell'assassino sul libro
In casa di Vantaggiato sequestrati anche i vestiti del video
di Fabrizio Caccia


BRINDISI — C'era un libro, sul comodino della sua stanza, nella bella villetta di via Vespucci, a Copertino. E molte pagine sottolineate. Un libro dello scrittore brasiliano Paulo Coelho, «Manuale del guerriero della luce». Poiché è buona regola degli investigatori quella di non trascurare nulla, durante la perquisizione — giovedì — l'hanno notato, aperto e lì hanno trovato qualcosa d'interessante, che forse c'entra con il movente della bomba preparata, innescata e fatta esplodere il 19 maggio scorso dal reo confesso Giovanni Vantaggiato, 68 anni, benzinaio.
«Un guerriero della luce — c'è scritto nel libro a un certo punto — non rimanda le sue decisioni. Egli riflette a lungo prima di agire. Considera il proprio addestramento, la propria responsabilità e il proprio dovere di maestro... Tuttavia, nel momento in cui prende una decisione, il guerriero agisce: non ha più alcun dubbio su ciò che ha scelto né cambia rotta... Un guerriero della luce, quando comincia, va fino alla fine». Parole suggestive, non c'è dubbio. Ma a impressionare gli inquirenti, tanto da decidere di sequestrare l'opera, è stata la chiosa, la nota a margine che Vantaggiato ha scritto accanto alle parole di Coelho: «Agire subito!!!». Tre punti esclamativi. L'Unabomber di Copertino, maniaco degli esplosivi, che l'altra notte in Questura a Lecce, sembrava quasi posseduto dal demonio, eccitatissimo, fanatico, mentre disegnava su un foglio a beneficio degli inquirenti il modo in cui aveva fabbricato la bomba, sembra come aver preso l'ispirazione dalle pagine dello scrittore brasiliano: «Il guerriero della luce si serve della rabbia per mostrare l'infinito valore della pace... si serve del fuoco per impartire una lezione sull'acqua... si serve della morte per mostrare l'importanza della vita...».
Se ad armare il suo delirio è stato questo, oltre alla crisi economica che lo strozzava negli ultimi tempi, lo si saprà forse oggi stesso, quando Giovanni Vantaggiato sarà interrogato davanti al Gip, a Lecce, per la convalida del fermo. Il suo avvocato, Franco Orlando, annuncia il pentimento dell'uomo («In carcere piange per Melissa, dice che il rimorso se lo mangerà per tutta la vita...»). Ma i magistrati, presumibilmente, chiederanno conto a Vantaggiato anche della bici-bomba che 4 anni fa quasi uccise Cosimo Parato, l'imprenditore agricolo condannato nell'aprile scorso dal Tribunale di Brindisi per una truffa da 342 mila euro ai danni proprio del presunto killer della scuola «Morvillo Falcone». Preparò lui pure l'ordigno del febbraio 2008?
Di sicuro, Vantaggiato mostra una notevole perizia da elettrotecnico, una passione forse coltivata già nei 20 anni in cui lavorò in Germania, in una fabbrica di Monaco di Baviera: giovedì scorso, oltre al libro di Coelho e a un manuale di chimica, gli uomini della squadra mobile di Francesco Barnaba gli hanno sequestrato in laboratorio vari pezzi di circuiti elettrici, tre batterie tipo scooter, lampadine, fili elettrici di diverso diametro, eppoi stagno, plastica e polvere in un barattolo. Ripensando a come ha raccontato, lui stesso, durante l'interrogatorio, di aver confezionato la bomba esplosa davanti alla scuola di Brindisi, e in attesa degli esami merceologici di compatibilità, sembra che gli inquirenti abbiano scoperto davvero l'antro del mago. L'officina della morte.
Non solo: dalla casa di Copertino sono state portate via una giacca, una camicia, un paio di pantaloni e delle scarpe marroni con la suola bianca, che sembrano combaciare perfettamente con l'abbigliamento dell'uomo che preme il telecomando nel video dell'orrore. Anche un paio di occhiali da vista, dalla montatura leggera, sembrano gli stessi di quella mattina.
Vantaggiato da mercoledì notte è recluso in una cella del carcere femminile di Lecce, settore Nido: in qualunque penitenziario maschile rischierebbe seriamente la pelle. La sua condanna a morte, in certi ambienti, sarebbe già stata emessa. È sorvegliato a vista, poco appetito e incubi. Ieri al suo avvocato, che lo conosce da 15 anni, ha chiesto di portargli solo «un cruciverba» per ammazzare il tempo. Nient'altro. La moglie Pina gli ha inviato un cambio di vestiti e un messaggio di fedeltà anche a nome delle due figlie: «Non ti lasceremo mai».

La Stampa 9.6.12
Oltre 150 nel 2012, più che i caduti al fronte
Usa, un suicidio al giorno fra i reduci dalle guerre
di P. DM.


WASHINGTON Nel corso del 2012, ogni giorno, un militare americano si è tolto la vita: tra le truppe in servizio attivo si sono registrati 154 suicidi per 155 giorni dell’anno, fino al 3 giugno scorso. Quasi il 50 per cento in più dei militari uccisi nello stesso periodo in combattimento in Afghanistan. Il tasso è cresciuto del 18% rispetto al 2011, e del 25% rispetto al 2010. Il Pentagono e i servizi per i veterani stanno tentando una serie di interventi di aiuto psicologico e medico per i militari che tornano dal fronte.
Lo stesso segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta, di recente ha inviato un memorandum ai dirigenti militari e civili del ministero, in cui definisce i suicidi «uno dei problemi più urgenti e complessi», e sottolinea la necessità di «continuare a lavorare per l’eliminazione di qualsiasi giudizio o discriminazione nei confronti di chi soffre di stress post-traumatico e altri problemi mentali».
Tra i più colpiti dai suicidi sono i soldati dell’esercito, seguiti da quelli dell’Air Force e della Navy, mentre ad aver registrato una seppur parziale diminuzione dei casi sono stati i marines.

Repubblica 9.6.12
Battaglia alle porte di Damasco Truppe ribelli tentano l’assalto


GUERRA di corsa, ieri notte, nei dintorni di Damasco: centinaia di ribelli hanno tentato l’ingresso nella capitale. Dalle periferie-satelliti di Douma, Harasta, Qaboun, è partita l’offensiva coordinata dai combattenti a colpi di razzi Rpg, mortai, fucili automatici. Lo scontro con l’esercito è proseguito nella notte: l’eco dei bombardamenti, dell’artiglieria è risuonato fin nel cuore della capitale. «Chiunque a Damasco legga questo messaggio, per favore si allontani dalle finestre»,
Twitter
s’ingorga di appelli. A Kossour, nel quartiere cristiano, il tuono delle armi arriva nitido. Lo stesso a Malki, quartiere residenziale. Nella città vecchia, a Bab Touma, i siriani sono svegli a tarda notte, attaccati al telefono: «No, la tv di Stato non ha ancora detto niente: le notizie ci arrivano da amici e familiari, al telefono». Gli scontri, raccontano, infuriano in villaggi nella zona della Ghouta, l’oasi verde che circonda Damasco. L’esercito ha bloccato piazza Abbassyin. «Non è qui nel centro della capitale», dice un residente di Malki. «Ma si sentono esplosioni da più direzioni. L’ultima ha scosso le pareti del mio appartamento ». «È la notte più spaventosa che Damasco abbia vissuto finora», dice un’altra. L’assalto dei ribelli è stato respinto. Verso l’una e mezzo del mattino torna il silenzio. Oggi si calcoleranno le vittime.
(a.v.b.)

Corriere 9.6.12
Sullo smog a Pechino la disfida del meteo tra cinesi e americani
Il governo vieta rilevazioni straniere
di Marco Del Corona


PECHINO — È un rito che buona parte della popolazione straniera di Pechino celebra ogni mattina. Controllare sullo smartphone o sul computer che aria fa. Buona? Moderata? Insalubre per alcuni o per tutti? Molto insalubre? O si scavalla quota 300 e si piomba nell'«hazardous», ovvero pericoloso? È l'ambasciata americana a diffondere su Twitter i dati sulle particelle Pm 2,5 rilevati dalle sue apparecchiature. L'informazione, poi, viene rilanciata attraverso altri siti non censurati e aiuta a capire se andare in bici, se far giocare i bambini fuori, se starsene in casa. Ebbene, è sul monitoraggio dell'aria di Pechino (e, analogamente, di Shanghai e Canton) che si sta consumando l'ennesima tenzone politico-diplomatica fra Stati Uniti e Cina.
Wu Xiaoqing, viceministro dell'Ambiente, è stato durissimo: «Monitorare e diffondere informazioni sulla qualità dell'aria in Cina spetta al governo. Le ambasciate violano le Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e consolari, oltre a violare le regole della Repubblica Popolare». In più, la Cina, dice Wu, è un Paese in via di sviluppo per il quale i severi standard occidentali, sono punitivi e non adeguati. In altre parole, l'ambasciata Usa, mai menzionata esplicitamente, opera in modo illegale. Una grave interferenza, benché ormai i dati Usa siano consultati anche da cinesi. Il dipartimento di Stato dubita invece che un «servizio per gli statunitensi che lavorano in ambasciata e che vivono in Cina» possa davvero «infrangere le leggi cinesi». «È solo un'informazione utile», visto che lì «l'inquinamento dell'aria è, francamente, un problema». Sullo sfondo, lo cronica perplessità che avvolge i dati prodotti da istituzioni cinesi, sospettati di essere manipolati secondo le convenienze. La stessa stampa cinese, peraltro, ammette le «discrepanze» tra certe valutazioni ottimistiche («leggero» inquinamento) e la lettura fornita dall'ambasciata.
Il Pm 2,5 è dunque l'ennesima fonte di attrito tra la Cina e gli Usa. Si cerca comunque di smussare qualche angolo: gli statunitensi ammettono di non avere pretese di scientificità, mentre il viceministro ha convenuto che l'aria in Cina spesso è di qualità disastrosa e ribadito che le autorità sono ben consapevoli delle emergenze ambientali. I parametri dei due indici, poi, non sono omogenei: attrezzature diverse, inoltre l'ambasciata ha un solo punto d'osservazione, presso l'angolo nord-est del Terzo Anello, una trafficatissima circonvallazione interna, mentre Pechino offre una media di diverse centraline. Il confronto si trascina da tempo (con un picco nel novembre 2010, quando l'indice schizzò a un «crazy bad», aria «pazzescamente cattiva»: uno scherzo per dire che si era veramente superato il tetto massimo). Tre anni fa, stando a Wikileaks, funzionari governativi si sarebbero lamentati con i diplomatici americani perché i dati, diffusi a Pechino a partire dal 2008, «confondono l'opinione pubblica». All'epoca il monitoraggio cinese si concentrava sul Pm 10, ritenuto meno dannoso del Pm 2,5, e ha permesso di dire che anche nel 2011 i giorni «di cielo azzurro» della capitale sono stati 250. Solo all'inizio di quest'anno, dopo una serie di pressioni popolari, si è cominciato a rilevare il Pm 2,5, con l'annuncio di estenderlo a molte altre città. Ma se la lite tra Cina e Usa ha la stessa velenosa tenacia dello smog di Pechino, a intossicarsi saranno le relazioni bilaterali.
Marco Del Corona

Corriere 9.6.12
Il mondo in crisi si arma sempre più. Usa e Cina leader delle spese militari
di Marco Nese


Il mercato delle armi va a gonfie vele. Nonostante la crisi economica, nel corso del 2011 sono stati spesi nel mondo 1.740 miliardi di dollari per l'acquisto di nuovi strumenti bellici, con un incremento dello 0,3 rispetto al 2010. Da oltre vent'anni la spesa militare internazionale cresce senza sosta, come testimonia il rapporto annuale dello Stockholm international peace research institute (Sipri), i cui risultati vengono presentati oggi a Roma. Gli Stati Uniti rimangono il Paese che investe la somma più alta nel settore degli armamenti, 711 miliardi di dollari, che rappresentano il 41 per cento del totale mondiale. Ma la nuova protagonista della corsa agli armamenti è la Cina che in un anno ha aumentato gli investimenti del 6,7 per cento con una spesa complessiva di 143 miliardi di dollari. Secondo gli analisti, la Cina arriverà a spendere 238 miliardi di dollari all'anno, oltre il 2 per cento del Pil, entro il 2015. In forte aumento anche la spesa militare della Russia che con 71,9 miliardi di dollari ha subito nel giro di un anno un balzo del 9,3 per cento. Seguono: Regno Unito (62,7 miliardi), Francia (62,5 miliardi), Giappone (59,3 miliardi), India (48,9 miliardi) e Arabia Saudita (48,5 miliardi).
Ci sono due aspetti preoccupanti. Il primo riguarda il tipo di strumenti bellici. Negli ultimi cinque anni sono aumentate del 24 per cento le acquisizioni di armamenti pesanti rispetto alle armi leggere. L'altro dato inquietante viene dal settore atomico. Russia, Stati Uniti e Cina stanno curando un forte ammodernamento degli arsenali nucleari. Mentre India e Pakistan non solo continuano a produrre materiale fissile, ma sviluppano nuovi sistemi in grado di trasportare armi atomiche. Si calcola che oggi nel mondo ci siano almeno 5.000 ordigni atomici. I Paesi europei sono impegnati nel contenimento dei budget militari, ma sono i maggiori esportatori di armamenti al mondo. Ne vendono più degli Stati Uniti e della Russia. Quanto all'Italia, nel 2011 ha speso circa 34,5 miliardi di dollari, ma secondo lo studio del Sipri, è una «spesa meno che trasparente».

Repubblica.it 9.6.12
Napolitano: il mio cammino verso il Quirinale
"Mito dell'Urss fu anche una prigione per il Pci"
L'intervista del direttore della Gazeta Wyborcza al presidente della Repubblica. Che ripercorre 70 anni di storia italiana e ricorda i grandi nomi della politica. Senza dimenticare l'autocritica. E sul futuro dice: "Per l'Europa non ci sono alternative all'unità. In Italia dobbiamo riaffermare il concetto di solidarietà"
di Adam Michnik

qui
http://www.repubblica.it/politica/2012/06/09/news/intervista_a_napolitano-36828968/?ref=HREA-1

Repubblica 9.6.12
Lezioni, blog e riviste, quanti canali filosofici
Dallo spazio sul Nyt alla trasmissione “Zettel”, ecco la nuova divulgazione
di Marco Filoni


La filosofia è un sapere underground. Non nel senso di clandestino, bensì una conoscenza percepita come appannaggio esclusivo di pochi adepti. Almeno fino a poco tempo fa, perché ora le cose stanno cambiando. Sembra, infatti, che, in assenza di altri saperi (e poteri) che spieghino davvero come funzionano le cose (Stato, morale, felicità, tanto per elencare qualche concetto che governa le nostre vite) i filosofi possano riuscire a farlo più degli altri. Così il New York Times ha aperto uno spazio sul suo sito (e l’ha chiamato The Stone) dove gli studiosi dibattono con i lettori, partendo da temi quotidiani per arrivare a Platone (chi deve insegnare ai ragazzi? I robot pensano bene o male? Che cosa significa il matrimonio tra persone dello stesso sesso?). Uno spazio pubblico che coinvolge sempre più persone – professori, ricercatori, studenti – partendo da spunti di attualità. Anche in Italia, tra festival e nuovi libri, si stanno sperimentando forme di riflessione su temi più popolari – la “popsophia”, di cui tanto si discute. Ma non solo. Tante ca- se editrici hanno scelto di fare collane ad hoc, per esplorare concetti chiave. “Futuro”, “Rispetto”, “Eroi”. Sono alcuni dei titoli che offrono un punto di vista per capire. Eppure non basta: forse è giunto il momento che la filosofia diventi overground, per citare Gaber. E per farlo può servire la divulgazione in tv. D’altra parte dopo la storia, che ha avuto grande successo, era naturale che qualcuno ci provasse anche con la filosofia. Da qui è nato Zettel – Filosofia in movimento, programma recentemente messo in onda su Rai Scuola, rilanciato in rete, attraverso il video-portale che la Rai ha dedicato alla filosofia (filosofia.rai.it) e che dal 15 sarà in onda su Rai3 prima del tg della notte. Prodotto da Rai Educational da un’idea di Gino Roncaglia e Silvia Calandrelli, Zettel si caratterizza per la mancanza di un conduttore che, come sua prerogativa, faccia da mediatore. La trasmissione invece è condotta direttamente da un filosofo, Maurizio Ferraris, che in studio dialoga con i suoi colleghi Mario De Caro e Achille Varzi (quest’ultimo in collegamento da New York, dove insegna) nonché con gli ospiti di ogni puntata. Non si tratta di un programma di storia della filosofia e nemmeno di divulgazione tesa a una pura semplificazione dei concetti. L’idea è quella di “fare filosofia”, ragionando su un tema astratto e trasportandolo nei suoi aspetti quotidiani o partendo dalla sollecitazione di domande reali (che cos’è la doppia vita? Qual è il ruolo della finzione? – con degli attori che sono chiamati a rispondere – oppure, è giusto avere paura? – con una ricostruzione del rapporto con il timore, dagli dei alle lacrime). Il tentativo è ovviamente quello di rimettere in circolo le grandi categorie filosofiche, spiegandole e facendo vedere come sono cambiate, tra ambiguità ed evoluzioni. Dalla Natura alla Percezione, dalla Memoria alla Morte, da Dio agli Animali, attraverso gli antichi e i moderni, cercando di rendere tutto il più chiaro possibile e mantenendo un costante rapporto con le scienze. Il titolo, Zettel, che in tedesco significa “foglietti” (tanto è vero che sullo schermo appaiono, spesso, dei post-it gialli con appunti per segnalare argomenti e interrogativi), è preso in prestito da un’opera di Ludwig Wittgenstein, grande filosofo del Novecento, forse il più telegenico fra tutti, prima della tv, di sicuro tra i più utilizzati per le citazioni, che, estrapolate dai suoi libri, fanno spesso molto effetto. Zettel è comunque un esperimento importante, come lo furono le prime trasmissioni di libri, davvero culturali. Altrove le cose funzionano così già da anni. Non solo per la carta stampata, visto che in Francia vende bene una rivista come Philomag, alta divulgazione che tiene insieme testi prestigiosi e provocazioni intellettuali (Come si può essere insieme socialisti e liberali? – perché si vede che le domande vanno sempre fortissimo), tanto da essere clonata anche dai tedeschi. Ma pure sullo schermo. Per esempio, in Germania, dal 2002 va in onda Il Quartetto filosofico, trasmissione condotta da Rüdiger Safranski e da Peter Sloterdijk (quest’ultimo ha appena annunciato che lascerà dal prossimo mese, sostituito da Richard David Precht), che sul canale ZDF, la seconda rete pubblica tedesca, e in una fascia di seconda serata, raggiungeva indici di ascolto molto buoni per un programma di filosofia – anche questo tematico e con due ospiti, oltre ai conduttori, che riflettevano ad alta voce. Così come è abbastanza seguito il canale americano online Philosophy TV (philostv.com), dove due filosofi dialogano collegati su Skype. Insomma, sembra che la filosofia possa funzionare in televisione. A volte è solo questione di tempo. Di tempi.

Sette del Corriere della Sera 8.6.12
«Volevano Gramsci nel centro-sinistra»
Oggi più che mai si discute dell’intellettuale
Fautore dello stalinismo o socialista democratico?
Le prove a favore della seconda ipotesi
di Giuseppe Tamburrano

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Sette del Corriere della Sera 8.6.12
Dopo la rivelazione su Sette del ruolo del socialista come tutor del pensatore sardo in carcere
Lombardi: «Caro Nenni, chiedo uno “sconto” al partito»

qui

Sette del Corriere della Sera 8.6.12
La pedagogia gramsciana
L’esperienza contro la pura obbedienza
di riccardo Pagano

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Sette del Corriere della Sera 8.6.12
Tra ortodossia e provincialismo
Ora persiono saviano discetta su Gramsci (senza sapere)
di Angelo d’Orsi


Sette del Corriere della Sera 8.6.12
Umberto Veronesi:
«L’attrazione tra uomo e donna? In futuro sparirà»
«Le differenze biologiche rimarranno ma col tempo si attenueranno
Il sesso non verrà meno, ma si svilupperanno altre forme di sessualità
Si apriranno nuovi scenari nei futuri assetti sociali. Non necessariamente negativi»
intervista di Vittorio Zucconi

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