lunedì 11 giugno 2012

l’Unità 11.6.12
Francia, la gauche verso la maggioranza in Parlamento
Maggioranza a sinistra nel primo turno. Astensione in crescita. Royal: «C’è margine per lavorare»
Un successo per Hollande che evita la coabitazione
«La destra sognava una rivincita e non l’ha avuta, un segnale forte anche per Italia e Germania»
di Umberto De Giovannangeli


La Francia guarda a sinistra. Non solo per l’Eliseo ma anche per l’Assemblea Nazionale. La prima proiezione diffusa da Tf1 dà alla sinistra di governo (Ps più Verdi) una forbice tra 275 e 315 seggi all' Assemblea nazionale contro i 230-270 della destra. Le prime proiezioni degli istituti Sofres e Ipsos a livello nazionale danno l'Ump dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, primo partito con il 35,4%, il Partito socialista subito dopo con il 34,7%, in un testa a testa il cui esito si saprà solo a tarda notte.
I Verdi, alleati potenziali dei socialisti, ottengono il 5,3%, il Front de gauche il 6,5% ma il partito del presidente Hollande mantiene la speranza di ottenere la maggioranza assoluta di seggi, fissata a 289. Il Front National di Marine Le Pen otterrebbe il 13,6% dei voti, Francois Bairou con il 3% dei suoi MoDem si gioca il suo stesso seggio a Pau. Gli scontri triangolari al ballottaggio sarebbero soltanto una quindicina. La “valanga rosa” non c’è stata, ma dalle urne esce premiata la “maggioranza presidenziale”.
NOTTE ELETTORALE
Con il voto di ieri, «i francesi hanno dato il loro sostegno al cambiamento» promesso dal neo presidente socialista, Francois Hollande: ad affermarlo è la segretaria socialista, Martine Aubry, commentando in diretta su France 2 i primi risultati delle elezioni legislative.«La gauche ha aggiunto ha ottenuto un risultato molto più elevato rispetto al 2007». Aubry ha quindi lanciato un forte appello agli elettori a recarsi alle urne nel secondo turno di domenica prossima. «I giochi non sono ancora fatti», ribatte Jean Francois Copè, segretario dell'Ump. Copè ha quindi garantito che l'Ump «non farà nessuna alleanza con il Fronte Nazionale» di Marine Le Pen e ha lanciato un forte appello alla mobilitazione, in vista del secondo turno del 17 giugno. A parlare è anche l’ex ministro degli Esteri, Alain Juppé, sindaco Ump di Bordeaux che non si è candidato alle legislative.
Le proiezioni del primo turno, afferma Juppé in diretta Tv, danno «una prospettiva di vittoria del Ps» alla quale «noi non ci rassegniamo». L'ex titolare del Quai d’Orsay sottolinea che la bassa affluenza (hanno votato fra il 57 e il 60% secondo le varie stime), rappresenta la potenzialità di «una forte mobilitazione» al secondo turno. Il voto è molto importante per il governo guidato da Jean-Marc Ayrault, nel quale 24 ministri rischiano il posto candidandosi: se non saranno eletti, la regola vuole che lascino il posto di ministro. A rischio ce ne sono almeno cinque o sei. Secondo le prime indicazioni, sarebbe stato eletto al primo turno Laurent Fabius, che quindi non rischia il posto di ministro degli Esteri, mentre è a rischio la titolare della Cultura, Aurélie Filipetti. A passare al primo turno è anche il ministro per gli Affari europei, Bernard Cazeneuve. In serata, a brindare è lo stesso premier: Jean-Marc Ayrault eletto al primo turno a Nantes con il 56.43%.
Segolene Royal, ex candidata socialista all'Eliseo nel 2007, non ce l'ha fatta ad essere eletta al primo turno all'Assemblée Nationale che punta a presiedere. L'ex compagna del presidente Francois Hollande ha raccolto a La Rochelle il 29%. Decisivo per il suo mancato trionfo è stato il 25% ottenuto dal candidato dissidente del Ps, Olivier Falorni che ha preso il 25%. Royal, presidente della regione del Poitou-Charentes, dovrà ora chiedere il sostegno di Falorni, se vorrà battere il 17 giugno l'esponente dell'Ump, Sally Chadjaa, al 25%. «Dobbiamo impegnarci tutti per allargare la maggioranza per il cambiamento», ha detto Royal a scrutinio ancora in corso. Débacle per Jean-Luc Melenchon: il leader del Front de gauche non sarà al secondo turno contro Marine Le Pen che affronterà il candidato socialista, Philippe Kemel (16,99%). Il 17 giugno, quindi, Le Pen – che in nottata ha lanciato un appello per una «ricomposizione» della destra francese potrebbe riuscire ad entrare all'Assemblea Nazionale. In attesa dei risultati finali, un dato resta comunque certo, ed è l'astensione record che si attesta intorno al 43%. Il sistema elettorale francese, maggioritario a doppio turno, prevede che se nessuno supera oggi il 50% andranno al ballottaggio di domenica prossima tutti i candidati che avranno superato la soglia di sbarramento del 12,5%. Le luci rimangono accese per tutta la notte nelle sedi dei partiti. C’è chi si lecca le ferite, chi si prepara alla sfida dei ballottaggi. In attesa dello scontro finale, l’Eliseo può ritenersi soddisfatto: lo spettro della coabitazione non si materializzerà. Il cambiamento prosegue.
L’obiettivo primario dei socialisti era conquistare la maggioranza assoluta, ora lei parla di una maggioranza plurale: cosa un po’ diversa dalla “valanga rosa”. «Non abbiamo mai nascosto che puntavamo alla maggioranza assoluta. Ma allo stesso tempo consideriamo un successo l’affermazione di uno schieramento che comprende, assieme al Ps, tutte quelle forze che hanno contribuito alla vittoria di Hollande. La cosa che più conta è avere una nuova Assemblée Nationale che non ostacoli il cammino del cambiamento indicato da François Hollande, ma che al contrario dia un contributo decisivo nell’attuare un programma riformatore, in particolare nel campo sociale, dell’istruzione, della giustizia. Puntiamo ad una netta maggioranza presidenziale. I primi dati confortano questa aspirazione. D’altro canto, la destra sperava in una rivincita elettorale: non l’ha avuta».
In queste elezioni erano impegnati direttamente 24 ministri del governo guidato da Jean Marc Ayrault. Chi non sarà eletto, dovrà rinunciare alla carica ministeriale.
«Da quanto ci risulta, sono davvero poche le situazioni in bilico. Ma la notte è ancora lunga e parlo sulla base delle prime indicazioni. Mi lasci aggiungere, che 24 ministri hanno messo in gioco se stessi in una verifica diretta, immediata, con i cittadini. Ritengo questo un atto di buona politica, che rafforza il legame tra le istituzioni, chi è chiamato a rappresentarle, e la società civile». L’affluenza alle urne è stata molto inferiore a quella registrata nel primo turno delle presidenziali.
«Questo scarto era prevedibile, anche perché l’elettorato aveva percepito pienamente che la posta in gioco nello scontro tra Hollande e Sarkozy andava ben oltre il ritorno di un socialista all’Eliseo, investendo scelte fondamentali per il futuro della Francia. Ora è necessario provare a rilanciare con ancora più forza l’effetto-Hollande nei ballottaggi. Mi lasci aggiungere che questo risultato è anche un messaggio che va oltre i nostri confini nazionali e riguarda le forze di sinistra e progressiste europee: il ciclo conservatore si sta esaurendo. I progressisti possono tornare a guidare l’Europa. Oggi in Francia, nel 2013 in Italia e Germania».

l’Unità 11.6.12
In Francia rivince la sinistra
David Assouline: «Hollande rafforzato, Il cambiamento anche»
intervista di U.D.G.


David Assouline è professore di storia, 53 anni, parigino di origini marocchine, portavoce e membro della segreteria nazionale del Partito socialista francese

«Francoise Hollande aveva chiesto un nuovo sostegno al cambiamento. Ebbene, dai dati in nostro possesso possiamo dire che il messaggio è stato raccolto. E alla grande. La gauche è nettamente in testa. Non ci sarà una coabitazione. L’effetto-Hollande ha prodotto un risultato di straordinaria importanza. Ora dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi per consolidare questo successo nei ballottaggi di domenica prossima. La posta in gioco è altissima: avere nella nuova Assemblée Nationale una forte e coesa maggioranza presidenziale. Una maggioranza assoluta. Possiamo farcela: è questo il segno prevalente del primo turno. Il segno di una vittoria straordinaria». A parlare così è David
Assouline, portavoce e membro della segreteria nazionale del Ps.
Sulla base dei primi dati e delle proiezioni, qual è il segno prevalente di questo primo turno delle elezioni legislative? «Occorrerà analizzare il voto circoscrizione per circoscrizione, in vista dei ballottaggi, ma i primi dati indicano una sinistra in crescita, in tutte le circoscrizioni. E di una destra che subisce una sconfitta che va oltre le previsioni della vigilia: ciò riguarda in primo luogo il Front Nationale di Marine Le Pen. E in questa crescita complessiva, il Ps ottiene un risultato importante. Possiamo avere, per usare le parole di Hollande, all’Assemblée Nationale una maggioranza forte numericamente e coesa politicamente. Il cambiamento esce rafforzato da questo primo turno. Nel futuro della Francia non vi sarà la coabitazione».
L’obiettivo primario dei socialisti era conquistare la maggioranza assoluta, ora lei parla di una maggioranza plurale: cosa un po’ diversa dalla “valanga rosa”. «Non abbiamo mai nascosto che puntavamo alla maggioranza assoluta. Ma allo stesso tempo consideriamo un successo l’affermazione di uno schieramento che comprende, assieme al Ps, tutte quelle forze che hanno contribuito alla vittoria di Hollande. La cosa che più conta è avere una nuova Assemblée Nationale che non ostacoli il cammino del cambiamento indicato da François Hollande, ma che al contrario dia un contributo decisivo nell’attuare un programma riformatore, in particolare nel campo sociale, dell’istruzione, della giustizia. Puntiamo ad una netta maggioranza presidenziale. I primi dati confortano questa aspirazione. D’altro canto, la destra sperava in una rivincita elettorale: non l’ha avuta».
In queste elezioni erano impegnati direttamente 24 ministri del governo guidato da Jean Marc Ayrault. Chi non sarà eletto, dovrà rinunciare alla carica ministeriale.
«Da quanto ci risulta, sono davvero poche le situazioni in bilico. Ma la notte è ancora lunga e parlo sulla base delle prime indicazioni. Mi lasci aggiungere, che 24 ministri hanno messo in gioco se stessi in una verifica diretta, immediata, con i cittadini. Ritengo questo un atto di buona politica, che rafforza il legame tra le istituzioni, chi è chiamato a rappresentarle, e la società civile». L’affluenza alle urne è stata molto inferiore a quella registrata nel primo turno delle presidenziali.
«Questo scarto era prevedibile, anche perché l’elettorato aveva percepito pienamente che la posta in gioco nello scontro tra Hollande e Sarkozy andava ben oltre il ritorno di un socialista all’Eliseo, investendo scelte fondamentali per il futuro della Francia. Ora è necessario provare a rilanciare con ancora più forza l’effetto-Hollande nei ballottaggi. Mi lasci aggiungere che questo risultato è anche un messaggio che va oltre i nostri confini nazionali e riguarda le forze di sinistra e progressiste europee: il ciclo conservatore si sta esaurendo. I progressisti possono tornare a guidare l’Europa. Oggi in Francia, nel 2013 in Italia e Germania».

La Stampa 11.6.12
L’Assemblée svolta a sinistra
Francia: i socialisti verso la maggioranza assoluta
L’onda lunga di Hollande
di Alberto Mattioli


Al primo turno delle elezioni legislative francesi i socialisti verso la maggioranza assoluta. Sfonda il Front National nel collegio di Marine Le Pen, vicina all’elezione all’Assemblea Nazionale. Sconfitto Mélenchon, leader della gauche estrema. Non crolla il partito di Sarkozy.

Il partito di Hollande dovrebbe riuscire a ottenere la maggioranza assoluta all’Assemblée : secondo le proiezioni avrebbe tra i 293 e i 323 seggi
L’estrema destra di Marine Le Pen ottiene il 14% al primo turno, ma le previsioni sui ballottaggi indicano che potrebbe eleggere al massimo 2 deputati
Il partito della destra perde voti rispetto alle precedenti legislative e secondo le proiezioni sui ballottaggi non dovrebbe superare i 248 seggi in Parlamento
Buon risultato per i Verdi, anche se probabilmente non saranno determinanti per la maggioranza assoluta: avranno 15-20 deputati
Il Front de Gauche, con il 6,5%, avrà 13-18 seggi
François Hollande, presidente francese, all’Assemblée potrebbe contare su una maggioranza composta esclusivamente da socialisti
Mélenchon, doppiato da Marine Le Pen nel Nord (42% a 21%), getta la spugna
Tutti i ministri verso l’elezione
Ségolène Royal a rischio: sfiderà un socialista al 2° turno

Non è la valanga rosa che François Hollande voleva e probabilmente sperava, ma è un successo. Il primo turno delle elezioni per rinnovare l’Assemblée nationale è il terzo delle presidenziali: la Francia conferma la sua svolta a sinistra. Per capire le sue vere dimensioni, insomma il numero dei seggi, bisognerà aspettare i ballottaggi di domenica prossima. Però la destra «repubblicana» dell’Ump ex sarkozysta non crolla e quella estrema del Front national si conferma terza forza. È certo che all’Assemblée ci sarà una maggioranza di sinistra e molto probabile che la sinistra moderata, il Ps da solo o con i Verdi, potrà fare a meno di quella radicale.
Le percentuali danno il Partito socialista a poco meno del 35%, i Verdi al 5 e il Front de gauche dei comunisti non pentiti al 7. Totale, circa il 46,5%. L’Ump è al 34, il Fn al 14%, molto più delle ultime legislative ma meno del 17,9% raccolto alla presidenziali dalla sua candidata, Marine Le Pen. I centristi del MoDem sono praticamente spariti. L’unica vittoria certa, indiscutibile e del resto ampiamente prevista è quella degli astensionisti: è andato a votare il 57,5% dei francesi.
Adesso tutti pensano al secondo turno. Si vota nelle circoscrizioni dove nessun candidato ha ottenuto almeno la metà più uno dei voti. Al ballottaggio vanno i primi due classificati e tutti i candidati che abbiano ottenuto almeno il 12,5% dei suffragi, calcolati però sul numero degli iscritti e non su quello dei votanti. Visto l’astensionismo record, questo significa che per andare al ballottaggio bisogna aver ottenuto, a seconda dei collegi, dal 19 al 21%. Il secondo turno è l’incubo dell’Ump, in imbarazzo in quelle circoscrizione dove la sfida sarà fra un candidato di sinistra e uno del Fn. Finora la linea è stata quella di chiedere agli elettori di non votare né per l’uno né per l’altro, ma i capi del partito sono divisi: la decisione definitiva verrà presa oggi. Invece, in caso di sfida fra un Ump e un Fn, i socialisti voteranno per il rappresentante della destra «repubblicana».
Quanto alla circoscrizione più mediatizzata di Francia, quella di Hénin-Beaumont, nel nord, Marine Le Pen ha stracciato il tribuno comunista JeanLuc Mélenchon, arrivato addirittura terzo dopo il candidato socialista, Philippe Kemel. Le Pen ha il 42% dei voti e molte possibilità di entrare finalmente il Parlamento. Mélenchon, al 21, ha già annunciato di rinunciare al ballottaggio a favore di Kemel, al 23,5. Marine non si è limitata a «doppiare» il suo arcinemico, ma l’ha anche sbeffeggiato: «Si è dimostrata la disconnessione totale fra Mélenchon e l’elettorato popolare, che non ha aderito alla sua campagna brutale e bobo», dove «bobo» sta per «bourgeois bohème», insomma i fighetti di sinistra. Poi la signora ha lanciato un’Opa sull’intera destra: lei la chiama «ricomposizione». La famiglia incassa anche l’eccellente risultato della vispa nipotina Marion Le Pen, che a Carpentras, nel sud, è in testa con oltre il 34% dei voti.
Tutti i ministri sono o stati eletti al primo turno o lo saranno al secondo, scampando quindi alla regola ribadita dal premier Jean-Marc Ayrault: chi è battuto si deve dimettere. Ma il caso più strano è quello di Ségolène Royal a La Rochelle, dove il cacicco locale del Ps, Olivier Falorni, si è candidato contro di lei prendendo appena il 3% di meno (32 a 29). Quindi al secondo turno il ballottaggio sarà fra i due socialisti. L’Ump ufficialmente raccomanda ai suoi elettori di astenersi; in realtà farà votare Falorni per fare un dispetto a Ségolène. E portarle via non solo lo scranno da deputato ma anche la poltronissima di presidentessa dell’Assemblée, che il suo ex compagno Hollande le aveva già promesso.

Corriere 11.6.12
«Pronti a lavorare anche con i radicali della Gauche»
Jack Lang: «Premiata la serietà del presidente»
di Stefano Montefiori


PARIGI — Signor Lang, è contento?
«Sono molto soddisfatto, sia per il mio risultato personale sia per quello del Partito socialista. I francesi hanno parlato e hanno ribadito di volere la sinistra al governo. La vittoria alle Presidenziali non è stata certo un caso. Ora dobbiamo realizzare quel che abbiamo promesso».
Jack Lang, grande ministro della Cultura di François Mitterrand, a 72 anni si è rimesso in gioco presentandosi nella II circoscrizione dei Vosgi dove è nato (a Mirecourt, cinquemila abitanti). Ieri sera i primi risultati lo davano nettamente in testa davanti al deputato uscente Gérard Cherpion (Ump), in grado quindi di strappare alla destra un suo feudo tradizionale.
A che cosa dovete questa vittoria, lei e il Partito socialista?
«Per quanto riguarda me, ho condotto una campagna molto intensa, quattro mesi di contatto diretto con i cittadini. Non era affatto scontato arrivare in testa perché questa circoscrizione appartiene all'Ump da dieci anni, e qui al primo turno delle Presidenziali Marine Le Pen era arrivata al primo posto (al secondo turno è giunto primo, sia pure di misura, Sarkozy davanti a Hollande, ndr). Secondo i sondaggi domenica prossima dovrei riuscire a vincere anche al secondo turno e conquistare il seggio. Più in generale, è molto importante assicurare al presidente una maggioranza parlamentare e un governo con la forza e la convinzione di mettere in pratica le sue riforme. La coabitazione, in questo momento così delicato, anche da un punto di vista internazionale, per la Francia sarebbe stata un disastro».
L'affermazione alle Legislative è merito anche dell'effetto di trascinamento di Hollande?
«Senza dubbio, il presidente ha cominciato benissimo il suo quinquennio. È una persona seria, ispira fiducia. Quanto a me, mi piace pensare che la mia personalità abbia contato. I cittadini ormai mi conoscono, sanno che posso garantire una certa efficacia quando esercito delle responsabilità. E ho cercato di parlare dei problemi concreti».
Quali sono i temi su cui ha puntato di più?
«Questa è una zona dove le delocalizzazioni hanno fatto disastri, aumentando la disoccupazione e snaturando il territorio. I cittadini si sono sentiti abbandonati dallo Stato, quando le aziende chiudevano le fabbriche e spostavano la produzione a migliaia di chilometri da qui. Nei Vosgi, come nel resto della Francia, gli elettori pensano oggi che la sinistra possa proteggerli meglio. Penso che il mio risultato rappresenti bene quel che propone il Partito socialista, e quel che si aspettano i francesi».
Su scala nazionale come vi muoverete adesso?
«Abbiamo già stretto un'alleanza elettorale con gli ecologisti, e non vedo problemi a collaborare con il Front de Gauche di Mélenchon, se necessario. Ma è logico che una maggioranza già ai socialisti da soli renderebbe le cose più facili. Comunque la vittoria è della sinistra, questo è l'importante».
In vista del secondo turno la destra potrebbe rompere il «cordone sanitario» eretto da decenni contro il Front National?
«Non lo so, non sta a me fare previsioni, certo mi pare che nell'Ump crescano le voci di quanti sono tentati da un'alleanza con l'estrema destra rinnovata, almeno apparentemente, di Marine Le Pen. Penso che entro domenica prossima ci saranno forse accordi alla luce del sole, e sicuramente patti sotto banco tra Ump e Front National».
Ségolène Royal non fa mistero di puntare alla presidenza dell'Assemblea nazionale, ma ci sono voci che la riguardano. Quel posto interessa anche a lei?
«È troppo presto per dirlo, aspettiamo domenica prossima e i risultati finali. Sarà una decisione collettiva, ci penseremo. Comunque, perché no?».

Repubblica 11.6.12
Jean-Marie Colombani: “Il presidente non ha più alibi e i comunisti potrebbero aiutarlo”
“All’Assemblea nazionale avrà la maggioranza e non potrà sbagliare”


«FRANÇOIS Hollande potrà contare su una solida maggioranza. Ora non ha più alibi per sbagliare». A tarda sera, mentre alcuni risultati del primo turno delle politiche sono ancora incerti, Jean-Marie Colombani scommette già su una «bella vittoria» del neopresidente socialista. Scongiurato lo spauracchio della coabitazione con la destra. Anzi, per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, sottolinea l’ex direttore di
la sinistra sarà maggioritaria in tutte le principali istituzioni della repubblica francese: Presidenza, Assemblea nazionale, Senato, regioni.
Eppure, secondo le prime stime, i socialisti non hanno stravinto.
«La maggioranza alla sinistra sarà garantita se i risultati si confermeranno anche al secondo turno. Rimane da capire se il partito socialista
potrà governare da solo, o se avrà bisogno dei Verdi, con i quali però ha già siglato un accordo. La peggior ipotesi per Hollande sarebbe dover chiedere il voto ai deputati del Front de Gauche».
Il leader gauchiste Mélenchon è stato sconfitto nel collegio simbolico di Hénin-Beaumont.
«La sua candidatura in quel collegio elettorale rappresentava un diretto attacco al partito socialista, che aveva il suo proprio candidato. Ha perso. Ora, con la leadership di
Mélenchon indebolita, i deputati comunisti potrebbero anche voltargli le spalle e chiedere di entrare al governo».
Quando ci sarà la resa dei conti nella destra post-Sarkozy?
«Aspetterei a dire addio all’ex Presidente. Per come lo conosco sono anzi convinto che abbia una gran voglia di tornare. La battaglia politica si combatterà in autunno tra Jean-François Copé e François Fillon, che è in posizione di forza. Ma, ripeto, un evenutale ritorno in
campo di Sarkozy non è escluso e cambierebbe gli equilibri».
«L’astensionismo, simile a quello del 2007, ha colpito di più la destra. Molti elettori dell’Ump hanno scelto di astenersi, decidendo che non valeva la pena rischiare una coabitazione, in una situazione difficile come quella che attraversa la Francia».
Non c’è stato neanche il trionfo del Front National?
«I sondaggi hanno sovrastimato la previsione, sulla scia del successo di Marine Le Pen un mese fa. Invece si è confermata una regola elettorale francese. Alle elezioni politiche i partiti minori hanno un risultato sempre inferiore a quello delle presidenziali. Questo non esclude che il Front National domenica possa riuscire a far eleggere dei deputati».
L’astensionismo ha colpito la destra. Molti elettori non se la sono sentita di rischiare una coabitazione

Repubblica 11.6.12
Ora Hollande ha le armi per trattare sugli eurobond e i “niet” della Merkel
di Bernardo Valli


A FIANCO dell’emergenza, che nelle ultime ore ha condotto all’eccezionale concessione di cento miliardi alle banche spagnole, la cancelliera ha suggerito, e non era la prima volta, di varare un cantiere di riforme istituzionali essenziali. Riforme destinate a centralizzare i meccanismi di armonizzazione, di controllo, di gestione e di valutazione delle politiche di bilancio. Le quali implicherebbero un sostanziale trasferimento di sovranità da parte degli Stati della zona euro. Angela Merkel non propone all’Europa una brusca svolta federalista, e ancor meno un super Stato federale, ma certo un passo avanti nell’integrazione. E questo, al di là della non esclusa intenzione di allungare i tempi per una vera politica di crescita, è un chiaro impegno europeista della cancelliera. Non si vuole rafforzare un’Unione essendo rassegnati a un suo naufragio provocato dal fallimento dell’euro.
La proposta della Merkel ha sollevato tra gli economisti indipendenti qualche obiezione per l’implicita nascita di un’Europa a due velocità, ma ha suscitato un’ampia approvazione
tra coloro che, come il governatore della Banca centrale europea, ritengono che la gestione della moneta unica suppone una politica di bilancio comune. Ma sul piano ufficiale non ci sono state risposte. E il silenzio rivela un evidente imbarazzo.
Il 23 maggio, al vertice europeo informale, riferendosi agli eurobonds, che significherebbero la mutualizzazione dei debiti sovrani, François Hollande ha dichiarato che se per i tedeschi essi rappresentano un punto d’arrivo, per lui sono invece un punto di partenza. La traduzione è che prima di accettare gli eurobonds, e i carichi che implicherebbero, Angela Merkel vuole creare meccanismi di controllo sovranazionali, poiché non si confida la carta di credito a qualcuno del quale non si possono controllare le spese. Hollande pensa invece che la mutualizzazione dei debiti sia un’emergenza da promuovere subito, senza aspettare le lunghe trattative necessarie per riformare le istituzioni.
È evidente che rilanciando l’idea di “unione politica” Angela Merkel ha ubbidito alla vecchia regola tattica, secondo la quale la miglior difesa è l’attacco. Ma la sua idea trova una breccia nella nuova presidenza francese, poiché sia François Hollande sia il suo ministro delle finanze, Dominique Moscovici, sono da sempre europeisti convinti.
Il neo presidente è cresciuto all’ombra di François Mitterrand e di Jacques Delors, che sono stati storicamente all’origine dell’euro. Ma nel governo socialista ci sono anche ministri, come quello degli esteri, Laurent Fabius, che hanno votato “no” al referendum sull’Europa del 2005. E l’idea che il trasferimento di sovranità nazionale e quindi il necessario ritocco della Costituzione possano condurre a un nuovo referendum provoca comprensibili incubi, in coloro che, come i socialisti, hanno appena conquistato l’Eliseo, dopo  diciassette anni di astinenza.
La Francia è gelosa della propria sovranità nazionale ed è refrattaria a cederne ulteriori pezzi all’Unione europea come chiede Angela Merkel. Nell’attesa dell’esito delle elezioni politiche François Hollande doveva mantenere il silenzio per non urtare i suoi elettori euroscettici, sovranisti, e non compromettere il risultato.
Quello del primo turno, annunciato ieri sera, sembra avergli garantito al ballottaggio di domenica prossima la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale. Egli potrà quindi disporre a partire dal 17 giugno (prima del mini vertice del 22 a Roma con Merkel e Monti, e di quello europeo del 28-29 giugno a Bruxelles) di un potere molto esteso: la sinistra controllerà per quella data l’Assemblea nazionale, avendo già quello del Senato, delle regioni (meno una, l’Alsazia) e delle principali città di Francia (meno Marsiglia, Bordeaux e Nizza). È una situazione che gli dà una stabilità eccezionale e la libertà di affrontare i problemi europei più scottanti con un’ampia libertà di manovra. Anche quella di contrastare gli umori nazionali nel trattare con Angela Merkel la proposta di una “unione politica” più stretta, e la conseguente rinuncia a porzioni di sovranità nazionale. In cambio della quale potrebbe ottenere quel che chiede sul fronte della crescita. O perlomeno ridurre i “niet” della cancelliera.
Se in Francia si irrobustisce la posizione di François Hollande, campione della crescita, in Germania la posizione di Angela Merkel è tutt’altro che promettente. Al Bundestag dispone di una maggioranza confortevole (19 voti) ma il 27 febbraio, quando si doveva approvare il secondo piano di aiuto
alla Grecia, 26 deputati di destra si sono astenuti o hanno votato contro. Angela Merkel ha fatto passare la legge con il sostegno della sinistra. E i sondaggi lasciano intravedere una futura “grande coalizione” con i socialdemocratici dopo le legislative del prossimo anno. Di fatto questa sembra già in funzione. Ma la situazione resta politicamente confusa e si riflette sul comportamento non sempre chiaro della cancelliera. La quale si dimostra tuttavia più aperta alle richieste degli altri europei.

l’Unità 11.6.12
Classi dirigenti, immobilismo e declino
di Michele Ciliberto

Nel nostro Paese manca una moderna classe dirigente. Ed è interessante come Ferruccio De Bortoli ha riconosciuto e affrontato ieri il problema nell’editoriale del Corriere della sera.
Si tratta di una questione assai seria, che riguarda il destino dell’Italia. E non possiamo certo limitarci a descrivere questa situazione, e a deplorarla, senza cercare di capire le ragioni che stanno alla base della decadenza delle classi dirigenti italiane.
Anzitutto, siamo di fronte a una crisi dell’Italia nella sua generalità. In secondo luogo, è una crisi che viene da lontano. In terzo luogo, è determinata dal fatto che nel nostro Paese è venuta meno la mobilità sociale e, con essa, anche una seria e fisiologica circolazione delle classi dirigenti. Mobilità e circolazione, del resto, sono fondamentali perché una nazione possa avere le energie e la forza necessarie per guardare, con occhi nuovi, davanti a sé e progredire. Circolazione e ricambio, invece, stanno venendo meno perché in Italia, almeno dalla fine degli anni Ottanta, la politica vive una crisi da cui non è ancora riuscita a sollevarsi, generando una separazione tra «governanti» e «governati» quale mai si è avuta, per estensione e profondità, nella vita della Repubblica.
Si possono individuare molte ragioni di questa negativa dinamica, certo, resa ancora più grave dalla crisi internazionale, dalle nuove sfide che sono state poste alle nostre classi dirigenti, dalla loro incapacità, salvo poche e importanti eccezioni, nel reggere il confronto con la globalizzazione. Qui però mi limito ad indicarne una, tipica della storia italiana, che negli ultimi quarant’anni si è però potenziata in modo straordinario, sia a destra che a sinistra. Mi riferisco a quella vera e propria struttura della nostra vita nazionale, che è il «trasformismo». Viene da molto lontano e, certamente, è generato da una particolare morfologia delle nostre classi sociali, dalle modalità specifiche del nostro sviluppo. Ma non mi fermo, ora, su questo.
Mi interessa piuttosto rilevare che il trasformismo non è mai stato così forte nella vita della Repubblica come negli ultimi vent’anni, con la presa del potere e l’affermazione di Silvio Berlusconi quale figura centrale della vita politica italiana. Con un paradosso a prima vista inspiegabile: Berlusconi si è infatti presentato come profondo innovatore dei costumi politici nazionali e come sostenitore di un moderno bipolarismo, in grado di porre su nuovi basi la politica italiana, favorendo la costituzione di schieramenti alternativi, chiamati volta per volta al governo sulla base del consenso elettorale.
Tutte chiacchiere: all’ideologia del bipolarismo ha corrisposto una pratica politica di carattere strutturalmente trasformistico. E quando dico questo non penso agli Scilipoti o alla campagna acquisti degli ultimi mesi; mi riferisco a un tratto costitutivo del berlusconismo fin dalle origini e alla conformazione che, per suo impulso, la politica italiana ha assunto negli ultimi anni, incidendo a fondo, e direttamente, anche nella crisi e nella decadenza delle classi dirigenti nazionali.
Come ci è stato spiegato dai classici del pensiero politico, la circolazione, e il ricambio, delle élite richiedono infatti competizione, lotta, conflitto. Berlusconi ha proceduto invece in modo opposto: assorbendo, e integrando, nel proprio schieramento, a volte in modo molecolare, a volte in forma più larga (fino a coinvolgere interi partiti ), tutte le forze disponibili nell’arco politico italiano. Ed è riuscito in questo garantendo, in un momento di massima crisi dei soggetti politici tradizionali, continuità del loro potere, stabilità, staticità dei ruoli e delle gerarchie sociali. Mentre si cianciava di competizione, di merito, di primato dell’individuo, l’Italia è precipitata, progressivamente, in uno stato di progressiva stagnazione, di immobilismo e, di conseguenza, di forme di corruzione pubbliche e private mai viste prima, almeno in questa forma, con una crisi profondissima del ruolo della politica, della circolazione delle classi dirigenti, del mutamento e del ricambio sociale.
Il problema che De Bortoli solleva giustamente viene di qui, è un effetto diretto del ventennio trascorso. Ma se questo è vero appare anche chiara la via maestra da seguire per rimettere in moto la nazione. Bisogna costruire un ethos repubblicano che mantenendo intangibili, e anzi sviluppandoli, il principio dell’eguaglianza e il primato del lavoro affermi il valore del mutamento e del ricambio sociale, l’importanza decisiva della circolazione delle élite e, in questo quadro, anche il valore della competizione e del conflitto (se si può ancora usare un termine messo al bando) a patto, naturalmente, che, come prescrive la Costituzione, tutti siano messi in grado di competere e di farsi valere.
È solo in questo nuovo quadro generale che può essere posto, e affrontato, anche il problema della formazione delle nuove classi dirigenti . Ma nulla di tutto questo potrà essere, non dico fatto, ma iniziato se non si stabiliscono nuovi canali di comunicazione tra «governanti» e «governati» , cioè nuove forme di partecipazione. Questo è oggi, da ogni punto di vista, il problema decisivo perché coincide con il problema della democrazia italiana.
Bersani ha rilanciato recentemente le primarie come mezzo utile in questa prospettiva. Né è ora il caso di insistere sulla complessità, e anche sulle «ambiguità», di questo, pur importante, strumento. Alla luce di molte esperienze fatte esse vanno ripensate e predisposte in modi nuovi, se si vuole che generino un accrescimento della partecipazione e della democrazia, e non il contrario, come a volte è accaduto. In ogni caso bisogna dare atto al segretario del Pd di avere avvertito la profondità e l’urgenza del problema, avviando una riflessione importante anche in relazione al problema delle modalità di formazione, in Italia, di nuove classi dirigenti.

l’Unità 11.6.12
«Zoccoli duri» più piccoli. Urgono scelte coraggiose
Sembra che da più parti ci sia la volontà di cambiare il Porcellum
È doveroso farlo, per il bene comune
La fedeltà alle forze politiche è in crisi
L’attuale legge elettorale complica tutto
di Carlo Buttaroni, Presidente Tecné


Com’era prevedibile, passate le amministrative, è iniziato il secondo tempo di una partita il cui fischio finale coinciderà con le elezioni politiche della prossima primavera. Nei prossimi mesi, tutto può ancora accadere e gli scenari sono molto diversi tra loro. E l’evoluzione potrà essere in meglio o in peggio: iniziamo dal quadro peggiore, cercando in questo modo quasi di esorcizzarlo. Esso è rappresentato da un arroccamento istituzionale delle forze politiche, con la grande maggioranza dell’opinione pubblica schierata da una parte – quella del non voto o del voto di protesta e i partiti dall’altra. Sarebbe un autogol incredibile da parte di questi ultimi, segno della mancata percezione ed elaborazione dei segnali provenienti dagli elettori.
La prospettiva positiva, invece, propria di chi fa del bene comune la mission indiscussa, è sicuramente rappresentata, da un lato dal rientro in campo delle forze politiche, rinnovate nelle persone, nelle forme e nei modi, e, dall’altro, dagli elettori consapevoli che possono tornare a scegliere rispetto a offerte politiche chiare e praticabili.
Naturalmente in all’interno di questi scenari, non bisogna sottovalutare l’istinto di conservazione, che traspare anche dalla vischiosità che segna il dibattito intorno alla riforma del sistema elettorale. Se ne parla da ogni parte, innalzando sempre più l’asticella del grado di difficoltà, fino a proporre modifiche degli assetti che richiedono iter costituzionali talmente difficoltosi e lunghi da renderli di fatto irrealizzabili, mentre il tempo a disposizione diminuisce con l’inesorabilità di un conto alla rovescia.Il rischio concreto è che il tempo scada senza che alcuna decisione sia stata presa, dando così forma a
un «meglio virtuale», nemico reale del bene comune.
Certo è, però, che gli elettori non sembrano propensi a proseguire nell’accanimento terapeutico per mantenere in vita un sistema che non ha più nulla da offrire. I dati della ricerca Tecné sui flussi di consenso, in questo senso, sono eloquenti nel momento in cui evidenziano che gli «zoccoli duri» del consenso ai partiti é ormai talmente assottigliato da intaccare la carne viva della democrazia. Nel contempo, una buona parte di quell’area potenziale che ruota intorno alle forze politiche sarebbe comunque pronta a recarsi alle urne, purché motivata a farlo da buone ragioni. I numeri, infatti, evidenziano il sentimento di attesa da parte degli elettori rispetto alla possibilità di poter scegliere; un atteggiamento, quindi, proattivo e non di allontanamento dalla politica come, troppo spesso e in maniera impropria, è stato interpretato l’astensionismo crescente degli ultimi anni.
INCIDERE NEGLI INDIRIZZI DI GOVERNO
Un desiderio di politica e una volontà di incidere negli indirizzi di governo che ha, però, bisogno di nuove modalità attraverso cui esprimersi. Ed è questo ciò che ci si attende dalle forze politiche: un atto di responsabilità, che definisca le regole per dare avvio a una riforma del sistema di rappresentanza.
Un avviare il processo di cambiamento dalle fondamenta, quindi, non una realizzazione troppo rapida che rischierebbe di diventare più simile a un prefabbricato troppo debole per sorreggere il Paese. Per una riforma profonda, com’è quella di cui ha necessità L’Italia, c’è bisogno di tempo, e i pochi mesi che ci separano dalle elezioni non sono sufficienti. Ciò che si può fare, in un così breve periodo, è dare corpo e sostanza a quegli strumenti che consentano ai cittadini di scegliere, com’è appunto la legge elettorale.
È qui che occorrono fatti concreti e reali più che soluzioni ipotetiche e ideali. Sempre che non si voglia lasciare al governo Monti l’onere di trovare una soluzione alla questione. Nel qual caso, i partiti si dovrebbero limitare ad adottarla, anche se sarebbe singolare che un governo tecnico si faccia promotore e creatore della legge più politica che ci sia.
In ogni caso, tra le soluzioni prospettate, sembra molto difficile un ritorno al sistema uninominale, considerati i tempi tecnici necessari al disegno dei collegi; né sembra probabile e auspicabile il ritorno a un sistema proporzionale, che significherebbe mettere indietro le lancette dell’orologio, alzare il rischio d’ingovernabilità del Paese e abbandonare il bipolarismo che ormaifapartepersinodellinguaggiopoliticocomune, tanto che i cittadini ormai dividono i partiti secondo la collocazione nel centrosinistra o nel centrodestra.
Se si vuole essere realisti e raggiungere un risultato, lasciare a tempi migliori le grandi riforme, e rimanere su una formula proporzionale corretta, che garantisca un premio di maggioranza, assegnando, però, i seggi all’interno di circoscrizioni elettorali di dimensioni minori rispetto a quelle attuali. Ciò permetterebbe di abbassare il numero di parlamentari da eleggere in ciascuna circoscrizione, riducendo, di fatto, il numero di candidati di ciascuna lista.
ELETTORI ED ELETTI
Circoscrizioni più piccole e meno candidati vuol dire ridurre la distanza tra elettori ed eletti, con il duplice vantaggio di dare peso alle forze politiche maggiori, senza disporre però il sistema verso forme bipartitiche che non appartengono alla storia e alla cultura del nostro Paese, e conservare quote di rappresentanza anche per i partiti minori. Altro elemento da non sottovalutare è che la riduzione della dimensione territoriale delle circoscrizioni, sulle quali agirebbero meno candidati, significherebbe altresì tagliare anche i costi delle campagne elettorali.
C’è poi il tema della scelta dei parlamentari. È inaccettabile il ritorno alle urne con le liste bloccate previste dalla legge in vigore. Di per sé, le liste bloccate non sono un’assurdità se contemplano pochi candidati, ma diventano un ossimoro della democrazia se composte di 40 persone, dove l‘ordine all’interno della lista (primo, secondo, terzo, ecc.) corrisponde alle probabilità di diventare parlamentare. Un ordine definito dai partiti stessi. È’ evidente che questo modello distorto rappresenta solo una nomina dapartedelleleadershippolitiche, soltanto legittimata dal voto popolare. A questo si somma l’assurdità delle candidature in più circoscrizioni, sistema grazie al quale si correggono eventuali incidenti di percorso. Infatti, poiché i parlamentari eletti contemporaneamente in più circoscrizioni devono optare necessariamente per una soltanto, quando un candidato risulta escluso in quanto «primo dei non eletti», può essere fatto rientrare, in maniera del tutto discrezionale, se il pluricandidato opta per una circoscrizione elettorale diversa.
Ci sono casi di politici illustri usciti dalla porta principale e rientrati subito dalla finestra proprio grazie al sistema delle opzioni. Per ovviare a questi problemi, basterebbe eliminare la possibilità di candidarsi in più circoscrizioni e reintrodurre un sistema di selezione basato sulla preferenza.
PICCOLI AGGIUSTAMENTI
Osservati nel complesso, si tratta di piccoli aggiustamenti che, in attesa di una riforma più profonda del sistema politico, darebbero maggiore peso alla rappresentanza e una forza diversa al voto degli elettori. È evidente, però, che neppure il miglior sistema elettorale del mondo può migliorare un sistema politico affannato. Al massimo, può rendere più efficienti le assemblee elettive dando più slancio all’azione di governo. Ma ciò che fa la differenza rimangono le idee, i progetti e l’impegno per farle diventare realtà.
In questi giorni, mentre Mario Monti convocava un consiglio dei ministri per esprimersi sulla vicenda delle nomine che ha gonfiato le vele della politica di vento contrario, i partiti hanno iniziato a discutere sull’assetto che porterà alle elezioni. A pochi metri di distanza, a Roma, si è riunita la direzione del Pd e l’ufficio di presidenza del Pdl: Berlusconi e Bersani.
SEGNALI DI UNITÀ
Il primo ha lanciato segnali di unità per contrastare la sensazione crescente di un «rompete le righe» che aleggia in area Pdl e parla di riforme elettorali. Bersani fa di\ più: lancia le primarie per l’autunno, annunciando che si candiderà in una competizione aperta, puntando su un patto di legislatura che possa tenere insieme la sinistra e i moderati dell’Udc. E anche nel Pd le riforme tengono banco. Sempre a Roma, il giorno dopo, la Presidente della Regione Lazio, Renata Poverini, tiene a battesimo Città Nuove. Un discorso di oltre un’ora, denso di contenuti e di citazioni: da De Gasperi ad Al Gore, da Pericle al premio nobel per l’economia Amartya Sen. E lancia una raccolta di firme per reintrodurre le preferenze.
Tutti parlano di legge elettorale e sembra che i segnali della volontà di cambiamento stiano arrivando da più parti. Ora cambiarla è un dovere assoluto: per il bene comune. Speriamo.

Repubblica 11.6.12
I partiti e le sfide del Grillo-Montismo
Il post-berlusconismo, oggi, ha due eredi, due volti, due modelli. Monti e Grillo. Diversi e anche di più
di Ilvo Diamanti


QUASI alternativi. Eppure complementari, simmetrici. Interpretano le due principali risposte alla crisi della “democrazia del pubblico” all’italiana. Dove il rapporto con la società è mediato dai media tradizionali, in primo luogo la televisione. Dove i partiti sono “personali”, più che personalizzati. Prolungamenti del leader. Dove il leader si presenta ai cittadini, pardon: al pubblico e agli “spettatori”, in modo “immediato”, più che diretto. Imitandone i vizi assai più delle virtù. Dove, nella selezione della classe politica e dirigente, non importano le qualità etiche. Semmai quelle estetiche. Conta l’immagine. Contano i rapporti — professionali, di interesse, personali e di varia natura — con il “Capo”. Conta la fedeltà al leader, ben più della competenza. Il PMM: il Partito Mediale di Massa, creato da Berlusconi. Ha rimpiazzato la partecipazione sociale con i sondaggi. I valori e l’identità con il marketing politico.
Questo modello non funziona più. Perché la distanza fra la realtà mediale e quella reale è divenuta insostenibile. La narrazione della vita ha perso il contatto con la vita. E, alla fine, i cittadini si sono stancati dello spettacolo della politica. Non sopportano più di essere spettatori e attori, al tempo stesso, di un irreality show frustrante.
Così è finito il Berlusconismo. Abbandonato dai fan. Ma dal suo declino non ha tratto grande vantaggio l’opposizione. I partiti di centrosinistra. Troppo invischiati nel passato e nel presente. Come nel 1992, dopo Tangentopoli.
Sono emersi, invece, due soggetti (in parte) nuovi.
Monti, anzitutto. Una risposta politica “dall’alto”. Perché interpreta la domanda di competenza e di autorevolezza delle classi dirigenti. È il governo degli esperti, voluto dal Presidente e legittimato dal Parlamento a causa dell’impotenza dei partiti. Monti. Non imita la “gente comune”. Non ne sarebbe capace. Anche se cerca la complicità dei talk tivù Pop-olari, non è facile assumere un profilo Pop annunciando misure im-Pop-olari. Monti: interpreta la Politica senza — in qualche misura “contro” — i partiti. E senza i Media. Non a caso a capo della tv pubblica ha posto tecnici. Con poche esperienze televisive. (Sollevando il risentimento del PMM, per cui la tv è tutto). Monti. Il suo potere è legittimato dalle competenze e dalla fiducia di cui dispone presso i mercati. Internazionali. Che pesano anche sul consenso popolare.
Grillo e il Movimento 5 Stelle (M5S) costituiscono la risposta “dal basso”. Alla crisi politica del Berlusconismo, ma anche ai limiti del Montismo. Dal Basso, perché il M5S veicola la domanda di partecipazione espressa dai movimenti e dai comitati, sorti intorno a rivendicazioni locali e sociali legate ai beni comuni. Perché promuove nuovi leader, giovani, attivi nella società. Perché intercetta la contestazione e la protesta contro “l’Alto”: i Partiti e i loro gruppi dirigenti. Contro le oligarchie dei partiti e contro i partiti ridotti a oligarchie. Grillo e il M5S sono “alternativi” al Berlusconismo, anche se ne ereditano alcuni tratti. Anzitutto, la capacità di gestire la comunicazione e la personalizzazione. Grillo è un professionista, un attore della scena mediatica — e teatrale. Da molto più tempo di Berlusconi. Ma ha abbandonato la televisione. Per necessità oltre che per scelta. È andato nelle piazze. E ha sperimentato la rete e i Social Network, che realizzano una comunicazione “orizzontale”. Servendosi della consulenza di “esperti” e professionisti della Rete, come Casaleggio. Il M5S è una sorta di nuovo modello di Network politico. Che mette in comunicazione molti, diversi luoghi — o meglio, “siti” — sociali e locali. Ma Grillo e il M5S sono l’antipartito — oltre che l’Anti-Berlusconi. Alternativi al Montismo. A sua volta, espressione della Politica dall’Alto.
In mano ai tecnici. Ai poteri economici e finanziari. Interni e internazionali. Mentre i giovani del M5S, come ha sostenuto Grillo, intervistato da Gian Antonio Stella: “Hanno dietro i più bravi consulenti della rete. Fiscalisti, urbanisti, geologi, esperti di bilanci. Tutta gente che si mette a disposizione gratuitamente. Con un entusiasmo che gli altri se lo sognano”.
Monti e Grillo: sono entrambi “dentro” e “fuori” la democrazia rappresentativa.
Dentro. Monti, ovviamente. Perché occupa ruoli istituzionali importanti, già da molti anni. Prima e dopo l’avvento del Berlusconismo. E perché la sua azione, oggi, è legittimata dai partiti e dal Parlamento degli eletti (o, meglio, dei “nominati”). Grillo e il M5S: perché agiscono mercato politico. Competono alle elezioni — oggi ammini-strative e domani legislative — per eleggere i loro candidati. Nelle istituzioni rappresentative. Perché danno visibilità e rappresentanza a domande politiche e a componenti sociali, altrimenti escluse, comunque ai margini.
Fuori. Perché entrambi sono emersi “fuori” dai canali tradizionali della democrazia rappresentativa. I partiti e la classe politica. Fuori dai media che caratterizzano la “democrazia del pubblico”. Di cui Monti sottolinea l’incapacità di governare. Grillo e il M5S: l’incapacità di “rappresentare” — e di far partecipare direttamente — i cittadini.
È il Grillo-Montismo. Diagnosi e denuncia del male che oggi affligge la Politica e la “democrazia rappresentativa”. Entrambi anti-partitici e post-berlusconiani. Due risposte, peraltro, anch’esse parziali. Perché le istanze partecipative espresse da Grillo devono dimostrare di essere in grado di “governare” e di aggregare le diverse componenti e i diversi interessi della società. Perché l’aristocrazia di governo espressa da Monti e dagli esperti deve, comunque, guadagnarsi il consenso dei cittadini, oltre a quello, incerto, dei mercati. E il consenso dell’opinione pubblica, misurata dai sondaggi, resta elevato. Ma è instabile e in sensibile calo, rispetto a due mesi fa. Mentre il consenso elettorale — l’unico che conti nelle democrazie rappresentative — dipende dalla disponibilità dei tecnici di “mettersi in gioco” alle prossime politiche. In una lista — nuova o tradizionale. Così, ad oggi, Monti deve affidarsi al “consenso” del Parlamento dei — vecchi — partiti.
Il Grillo-Montismo annuncia, dunque, cambiamenti profondi. Come e forse più dei primi anni Novanta. Una stagione instabile, dove le fratture e le idee politiche tradizionali rischiano di essere fuori tempo. E all’alternativa fra destra, centro e sinistra o fra liberismo e laburismo si sostituisce quella, fluida e indefinita, fra vecchio e nuovo. Che non è certamente nuova, ma resta quanto mai attraente e dirompente.

Corriere 11.6.12
Legge elettorale, il tavolo tecnico non è ancora stato convocato
di Dino Martirano


ROMA — «Credo che ci siano molte cose in dirittura d'arrivo: la riforma del mercato del lavoro, approvata da un ramo del Parlamento, adesso all'esame dell'altro; ma anche le riforme istituzionali e la riforma del finanziamento pubblico dei partiti. Sono cose non da poco». Il presidente della Repubblica non la cita direttamente ma è ovvio che il pensiero del Quirinale è rivolto anche alla riforma elettorale che i leader dei partiti, a questo punto, intendono portare a casa «entro tre settimane». Eppure all'impegno di varare una legge lampo prima dell'estate — confermato da Angelino Alfano e da Enrico Letta — pochi credono. Tant'è che per questa settimana ancora non è stato convocato il tavolo tecnico intorno al quale da mesi si arrovellano i rappresentanti dei partiti (Violante, Bressa, Quagliariello, La Russa, Bocchino, Pisicchio, Adornato). L'intreccio con il dibattito al Senato sulle riforme costituzionali è infatti troppo stretto e l'ultima mossa del Pdl sul semipresidenzialismo complica non poco l'iter del testo approvato in commissione a Palazzo Madama. In aula, il termine per gli emendamenti scade stasera alle 20 e a questo punto — come dice Franco Frattini che parla di «momento della verità» — non è escluso che già domani qualcuno chieda all'assemblea dei senatori di rinviare il testo in commissione: «Un pacchetto di emendamenti che implica la modifica di una dozzina di articoli della Costituzione non è poca cosa se lo innestiamo sul nostro testo....», osserva il presidente della prima commissione Carlo Vizzini. Ancora ieri Fabrizio Cicchitto (Pdl) ha detto che «semipresidenzialismo e doppio turno devono camminare di pari passo» offrendo al Pd «la sfida del confronto per arrivare a cambiare l'attuale legge elettorale nei tempi indicati dal segretario Alfano». Ma il cammino delle riforme è tutto in salita: «Il semipresidenzialismo — incalza Vizzini — comporta infatti il varo di almeno altre tre leggi: vanno regolate, con norma costituzionale, le ineleggibilità e la possibilità assegnata a un quarto del Parlamento di ricorrere alla Consulta per verificare la costituzionalità delle leggi; con legge ordinaria, poi, vanno fissate le regole per il conflitto di interessi...». E qualora si raggiungesse l'intesa sulla forma di governo capace di sbloccare la nuova legge elettorale, come raccomandato da Luciano Violante, ci sarebbero da disegnare i nuovi collegi: «Un'operazione — osserva Pino Pisicchio che è un tecnico della materia — molto delicata. Che può richiedere anche tre mesi».

l’Unità 11.6.12
Stefano Rodotà: «Bene le primarie, prevalgano le idee»
«Apprezzo molto le aperture di Bersani e anche l’insistenza sui beni comuni ma è indispensabile un pieno coinvolgimento della società civile»
intervista di Maria Zegarelli


«Apprezzo le aperture fatte da Bersani, le apprezzo molto, anche perché, mi creda, le primarie da sole, senza un vero coinvolgimento della società civile nelle scelte per il bene comune non bastano». Il professor Stefano Rodotà parla da un osservatorio per certi versi privilegiato: in modo «un po’distaccato, ma non indifferente». Un po’ distaccato, spiega, perché da tempo ha deciso di non ricoprire ruoli politici, «il motivo per cui ho rifiutato le proposte di candidatura, anche in Europa, è proprio questo: poter dire la mia in assoluta libertà».
Professore, il Pd lancia la sfida: primarie aperte. Secondo lei possono essere uno strumento per riappassionare alla politica e alla partecipazione?
«È vero che in questi anni c’è stato un elemento di antipolitica ma a mio giudizio è stato fatto un errore analitico considerando che tutto ciò che era fuori dal circuito ufficiale della politica fosse antipolitca. Non so neanche se si è trattato di un errore o di una convenienza politica per potersene liberare senza fare i conti con quello che si muoveva nella società. Nella società, invece, lo ripeto da tempo, non c’è solo antipolitica, ma un’altra politica e penso a quanto avvenuto nella seconda metà del 2010 e nel 2011».
Si riferisce ai movimenti?
«Mi riferisco a “Se non ora quando?”, alla grande mobilitazione che ha fatto sì che si scegliessero sindaci non indicati dai partiti, come a Milano e Napoli, per intenderci e poi ai movimenti referendari per l’acqua, contro le leggi ad personam e il nucleare. È un’altra politica, che è stata anche vincente, rispetto alla quale non c’è stata abbastanza attenzione. Per questo dico che soltanto le primarie, in quanto strumento tecnico, non sono sufficienti».
Ma Bersani ha annunciato il coinvolgimento della società civile, intellettuali, movimenti, anche per il programma di governo.
«Apprezzo molto l’apertura di Bersani, come ho apprezzato molto alla vigilia dei referendum la sua decisione di schierare il Pd, pur conoscendo le grandi resistenze che c’erano. Quello che bisogna evitare è quanto è avvenuto dopo, non soltanto da parte del Pd, sia chiaro, in Parlamento. Era stata individuata una nuova agenda politica alla quale non si è data attenzione, anzi c’è stato un vero boicottaggio istituzionale volendo cancellare i risultati dei referendum. Ora, in vista delle elezioni politiche l’agenda politica va scritta di nuovo e bisogna capire se anche quei temi posti allora entrano tra le priorità. A me piace molto vedere in televisione il segretario del Pd con dietro la scritta “Italia bene comune”. I beni comuni sono l’istruzione, la scuola, l’acqua, facciamoli entrare nell’agenda politica del governo dell’alternativa». Lei è tra i sottoscrittori del Manifesto di Alba, il nuovo soggetto politico degli intellettuali. Siete pronti a scendere in campo con una lista civica?
«Io sono tra i sottoscrittori, è vero, ma ho spiegato che a me interessa la discussione e non piacciono due cose: l’atteggiamento pregiudizialmente antipolitico e una certa pulsione a far diventare Alba un soggetto che produce una lista. A me interessa partecipare alla discussione, e infatti ero presente all’iniziativa della Fiom e sarò presente a tutte quelle che consentono di riaprire quel dibattito sull’agenda politica che sinora è mancato. Una identificazione, tra molte virgolette, di tipo partitico-movimentista, come movimento organizzato con Alba non ce l’ho».
Ma si sente chiamato in causa, o quanto meno la interessa questo percorso individuato dal segretario Pd sul coinvolgimento delle forze migliori della società civile?
«Ho sempre dato la mia disponibilità, a volte non gradita, ma ad un certo punto ho deciso di lasciarmi coinvolgere soltanto in imprese limpide, che non hanno zone d’ombra. Mi interessa partecipare ad una discussione in piena libertà, le adesioni formalizzate negli ultimi anni non mi hanno convinto». Proviamo a tirare le somme. Primarie e dibattito aperto sul programma possono essere una formula in grado di riappassionare i delusi e porre un freno all’astensionismo?
«Me lo auguro davvero, non servono più operazioni di ingegneria istituzionale. Ci vuole un forte contenuto politico, molto netto. Ho apprezzato molto, perché vedo che va in questa direzione, quanto ha detto Bersani sulle coppie gay. Tutta la questione dei diritti civili, ma direi dei diritti più in generale, è stata sommersa dall’ondata economicistica, ben prima della crisi economica. Su questi temi c’è stata una incapacità del centrosinistra di trovare una sua linea e la sua riconoscibilità, come schieramento, era offuscata dal fatto che non si potesse decidere. I cittadini non riuscivano a capire quale fosse la posizione e la strada indicata per il riconoscimento di questi diritti».
Quindi l’appello che lei lancia è alla chiarezza e al coraggio delle posizioni?
«I cittadini in questo momento di grande insicurezza e indeterminatezza sul futuro chiedono alla politica di avere delle posizioni chiare sui temi che si intendono affrontare. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo una terribile regressione culturale, tutto quello che va nella direzione di rimettere al centro i contenuti, la realtà, i diritti delle persone, certamente fa guadagnare fiducia. Esistono movimenti, iniziative e gruppi che non si pongono fuori dal sistema istituzionale. Per questo le istituzioni non possono non accogliere questo bisogno di partecipazione».

l’Unità 11.6.12
«Dialogo positivo, non ci sarà lista Fiom»
Landini apprezza le aperture di Bersani e Vendola su alcuni temi del confronto
Fassina: su articolo 8, rappresentanza e politica industriale ci sono già nostre proposte di legge
di Massimo Franchi


Una parte sostanziosa del programma di coalizione sul tema del lavoro. Il giorno dopo gli Stati generali della sinistra convocati dalla Fiom si possono delineare molti punti comuni tra le richieste dei metallurgici della Cgil e gli impegni di Pd e Sel. Il tutto mentre tramonta (se mai è esistita) la possibilità di una lista Fiom, sebbene rimanga in piedi la possibilità che singoli esponenti del sindacato decidano il “grande salto”: «Noi non mandiamo nessuno nelle liste», ma «se uno si candida in politica va via dal sindacato, come sempre è stato», ricorda Landini che ribadisce ancora una volta la volontà «di rimanere a fare il sindacalista».
Il segretario generale della Fiom sabato ha strappato impegni importanti sia da parte di Nichi Vendola e, soprattutto, da parte di Pier Luigi Bersani. Il segretario Pd, per la prima volta anche nelle vesti di candidato alla guida della coalizione dei progressisti, ha risposto punto per punto alla piattaforma della Fiom, tanto che Landini gli ha pubblicamente riconosciuto «l’onestà di essere venuto a dire le cose che il Pd ha fatto e quello che intende fare».
Bersani ha dunque snocciolato i punti in comune fra Pd e Fiom: la necessità di «una legge sulla rappresentanza» e «la cancellazione dell’articolo 8» della manovra estiva 2011 che rende possibile derogare dai contratti nazionali a livello aziendale (la norma chiesta da Marchionne a Sacconi), più le forti critiche a Fiat e Finmeccanica e nel contempo la necessità del ritorno di una politica industriale.
A spiegare meglio nel merito le idee del Pd è il responsabile economico Stefano Fassina, vero pontiere fra la Fiom e il partito. «L’abrogazione dell’articolo 8 l’abbiamo già depositata con una proposta di legge in Parlamento, così come abbiamo proposto di ritornare al testo originario dell’articolo 19» dello Statuto (quello “usato” dalla Fiat per escludere la Fiom) e «di accompagnare con una legge un accordo tra le parti sociali sulla rappresentanza sindacale». Sulle politiche industriali «l’impianto è quello del piano “Industria 2015” che considera strategici per il Paese settori che oggi rischiamo di perdere», sottolinea Fassina. Il tutto in un’ottica europea: «Su Fiat e Finmeccanica se fossimo stati al governo non saremmo stati inermi: come hanno fatto perfino governi conservatori, avremmo costruito le condizioni per sostenere gli investimenti in Italia».
Sul piano delle alleanze, se da un lato la Fiom si chiama fuori («A noi interessano i contenuti e non faremo alcuna mediazione fra le varie posizioni, non è il nostro compito»), ma comunque non manca di sottolineare come Grillo («che non è antipolitica e con il quale vogliamo avere un dialogo») non abbia il tema del lavoro come priorità («Non so cosa pensa delle nostre proposte»); dall’altro Stefano Fassina osserva come anche sul terreno del lavoro, la posizione dell’Italia dei Valori non è in sintonia con il Pd: «Di Pietro si è limitato a dire: “La piattaforma della Fiom è la nostra”. Raccogliere passivamente la piattaforma di qualsiasi interlocutore rischia di essere un atteggiamento opportunistico. Noi invece, pur nella consapevolezza delle differenze su alcuni punti, cerchiamo di costruire un dialogo e la platea della Fiom di sabato credo lo ha capito».
Nel Pd intanto si allargano gli appelli a favore del programma Fiom: «La piattaforma è piena di spunti condivisibili e va presa in considerazione per le prossime scadenze parlamentari», sottolinea Vincenzo Vita.
Da parte sua la Fiom incassa l’indubitabile successo di sabato, ma resta guardinga: «Vogliamo che gli impegni si traducano in politiche concrete», spiega Landini, e non rinuncia «a continuare a chiedere cambiamenti, per esempio sull’articolo 18, che possono essere fatti anche in questo Parlamento». E, a questo proposito, domani si terrà l’incontro tra le segreterie di Cgil e Fiom, chiesto da quest’ultima nell’ultima assemblea nazionale di Montesilvano.

Corriere 11.6.12
Bankitalia, il confronto dei redditi. Operai meno 3,2%, autonomi più 15%
di Roberto Bagnoli


ROMA — Nel primo decennio dell'euro sono aumentati i redditi dei professionisti e dei lavoratori autonomi mentre quelli degli operai e dei commessi sono diminuiti. L'ultima crisi invece ha colpito tutti, eccetto pensionati e statali. La relazione annuale di Bankitalia conferma quanto già emerso alcuni mesi fa da uno studio dell'Ocse: tra il 2000 e il 2010 le retribuzioni reali dei nuclei con capofamiglia operaio, commesso o apprendista sono scese del 3,2%, mentre quelle con capofamiglia lavoratore autonomo sono aumentate del 15,7%. Una differenza dunque del 20% tra le due categorie di impiego che porta la media nei due lustri ad una crescita dei redditi ad appena il 6,2%. Stabile quelli del pubblico impiego.
«I dati di Bankitalia ci dicono che c'è un problema di impoverimento del Paese, e soprattutto di progressiva disuguaglianza dei redditi». Così la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, ha commentato la ricerca degli economisti di via Nazionale. «Il rigore — ha continuato — non ci permetterà di uscire dalla crisi, bisogna sostituire queste politiche di rigore con politiche di investimento e redistribuzione del reddito». Devono essere «tassati di più la ricchezza e i grandi patrimoni — ha concluso Camusso — e bisogna alleggerire il peso fiscale sui lavoratori dipendenti, i pensionati e le basse retribuzioni».
Un quadro che conferma quanto già conosciuto a livello europeo e che all'Italia dei Valori suggerisce di predisporre un vero e proprio «piano per il lavoro». «Le cifre di Bankitalia e le stime Istat sulla disoccupazione giovanile dimostrano quanto sia sempre più urgente e non più rinviabile — ha affermato il responsabile lavoro Maurizio Zipponi — un piano nazionale per il lavoro che stabilisca un semplice criterio: a parità di lavoro deve esserci parità di salario». Per l'ex sindacalista Fiom «il governo Monti, invece, ha pensato esclusivamente alla parità tra banchieri e a sottoporre il controllo dell'economia reale al mondo dei poteri forti e delle banche».
Continuando nell'analisi dello studio di Palazzo Koch emerge che, se si osserva solo il periodo della crisi (dal 2007 ad oggi), il calo è consistente non solo per il reddito reale disponibile delle famiglie di operai (da 14.485 euro del 2006 a 13.249 del 2010, con un -8,5%) ma anche per quello delle famiglie di dirigenti (passate da 35.229 euro del Duemila a 43.825 del 2006 e a 38.065 del 2010, con un calo negli ultimi quattro anni considerati del 13,1%). Anche i lavoratori autonomi, commercianti, artigiani liberi professionisti sono passati da 28.721 euro del 2006 a 26.136 euro del 2010 con una riduzione del 9%. Hanno invece tenuto, dal 2006 al 2010, i redditi reali delle famiglie di impiegati, quadri e insegnanti (da 21.344 euro a 21.311) mentre hanno avuto un lieve avanzamento i redditi dei nuclei con capofamiglia pensionato (da 18.579 a 19.194 e un +3,3%). Il reddito medio disponibile delle famiglie era nel 2010 di 22.758 euro in media nel Centro Nord e di 13.321 euro nel Sud e nelle Isole.
Anche l'Ugl ha reagito. «E' l'ennesima dimostrazione che il ceto medio basso si è impoverito — ha detto il segretario generale Giovanni Centrella — e che bisogna fare qualcosa di concreto per invertire questa tendenza, a partire da una riforma fiscale, passando per il decreto sviluppo». Centrella ha poi ricordato che il suo sindacato «nel mese di giugno ha avviato una campagna di raccolte firme su due petizioni popolari per l'abolizione dell'Imu sulle prime case, escluse quelle di lusso, e per detassare le buste paga di operai, impiegati e pensionati, ricorrendo anche al criterio del quoziente familiare».

Repubblica 11.6.12
Giovani per la pensione, vecchi per un posto a 40 anni con l’incubo della disoccupazione
Gli annunci di lavoro nell’87% dei casi sono per gli under 44
Sono cresciuti dell’8% i contratti a termine per i 40-49enni
di Roberto Mania


SCARTI a 40 anni. Scarti dopo aver perso un lavoro e non riuscirne a trovare un altro. Scarti. Quella degli over 40 espulsi dal mercato del lavoro rischia di diventare presto una nuova emergenza sociale. Perché non ci sono solo i giovani precari del lavoro. Secondo alcune stime sarebbero quasi un milione e mezzo i disoccupati e gli scoraggiati cosiddetti “maturi” (età media 45 anni), troppo giovani per la pensione, troppo vecchi per una nuova occupazione stabile. Con una differenza: i giovani possono tornare (e in molti casi lo fanno) alla famiglia d’origine, i “vecchi” hanno moglie e figli da mantenere e un mutuo da pagare.
Il 65% dei disoccupati over 40 è capofamiglia, l’80% è uomo. È una vita che finisce quando si viene licenziati a 40 anni e passa. Ne comincia un’altra dominata dall’incertezza. Meno del 5% ritrova un lavoro solido. Non si torna più indietro. È uno sconquasso, anche emotivo. Gli esodati, nuova categoria sociale prodotta dall’ultima durissima riforma delle pensioni, ci hanno mostrato un pezzo del fenomeno in carne ed ossa che altrimenti sarebbe rimasto in chiaroscuro. Come in tutti questi anni mentre in silenzio si ingrossavano, dalla fine degli anni Novanta, le file degli over 40 senza lavoro: disoccupati, mobbizzati, scoraggiati, precari, discriminati, sommersi, invisibili, poveri e, infine, abbandonati. Gli ultimi figli del baby boom, vittime della globalizzazione che ha dettato anche i tagli al welfare state nazionale. Aggrediti nella propria identità. Perché «il lavoro - ha scritto il sociologo Luciano Gallino - non è soltanto un mezzo di sussistenza. Il lavoro rimane ed è destinato a rimanere per generazioni un fattore primario di integrazione sociale ».
IL TURN OVER
A metà degli anni 80 l’economista torinese Bruno Contini studiò il processo di sostituzione del personale all’interno delle aziende italiane attraverso la leva dei contratti di formazione e lavoro, incentivati dagli sgravi fiscali e contributivi. Parlò allora di “old out, young in”: i giovani assunti al posto degli anziani espulsi. Quasi un patto tra padri e figli, un patto non proprio raffinato, ma un patto.
«Oggi non ha più senso parlarne - dice Contini - . Oggi continuano ad esserci gli old out, ma non ci sono più i giovani che entrano nelle imprese. Da più di dieci anni a questa parte, il ricambio è scarsissimo. Gli over quaranta senza lavoro sono uno dei nuovi soggetti della precarietà. Molti di loro sono entrati nel mercato del lavoro con i contratti flessibili, e sono rimasti precari ». Stefano Giusti è un cinquantenne. Vive a Roma. È il presidente di Atdal, l’associazione per la tutela dei lavoratori over 40. È laureato in sociologia. Nel 2004 si ritrova senza lavoro: chiude la società con cui collaborava. «Nessun problema, mi dissi. Figuriamoci se non trovo un altro lavoro! Mi sbagliavo. Cerco, ma non trovo nulla per quasi un paio d’anni. Qualunque lavoro. Faccio il cameriere, l’addetto dei call center, il giardiniere. Faccio di tutto, ma non tutti mi vogliono. Un giorno vedo un cartello affisso sulle vetrine di un negozio di calzature: “Cercasi commesso”. Eccomi! Il titolare mi chiede il curriculum e quando glielo porto mi fa:
“Ma lei è laureato. No, non me la sento di prenderla”». Perché l’85% dei disoccupati over 40 - secondo Atdal - è in possesso di una laurea o di un diploma di scuola media superiore. Sa usare il computer e conosce l’inglese. Ma alle aziende non interessa: è vecchio. Qualche anno fa la Sda Bocconi ha effettuato una ricerca sugli annunci di lavoro pubblicati sui quotidiani. Quasi il 43% delle inserzioni indica un vincolo anagrafico e nell’87% dei casi è inferiore ai 44 anni. In media si cerca personale con un’età compresa tra i 24 e 34 anni. Gli altri sono out. Ma gli annunci che escludono gli anziani sono contro le leggi europee recepite in Italia e che vietano le discriminazioni anche per l’età.
UOMINI A RISCHIO
Per gli uomini è peggio che per le donne. Perché gli uomini non sanno gestire l’insuccesso sociale. Molti ricevono la lettera di licenziamento ma non lo dicono a nessuno, nemmeno alla moglie. Fingono di continuare a condurre la vita precedente. Raccontano innanzitutto a se stessi una grande bugia che allunga e complica il recupero dopo lo shock della perdita del lavoro. «Che - spiega Laura Menza, psicologa del lavoro, impegnata da anni tra i disoccupati maturi - è un trauma pari a
quello di un lutto. I disoccupati maturi hanno una serie di responsabilità sulle proprie spalle: la famiglia, i figli da mantenere, spesso i genitori anziani da sostenere. Privati del lavoro non possono più affrontare queste responsabilità. È la perdita di una parte di sé. All’inizio c’è l’incredulità e, soprattutto tra gli uomini, si coltiva un senso di colpa: ho perso il lavoro, è colpa mia. C’è un senso di vergogna. Si frantuma la propria identità. Si perde l’autostima».
Quello che rimarcano di più i disoccupati over 40 è il senso di abbandono che sono costretti a vivere. Le istituzioni evaporano perché nei fatti i centri per l’impiego non funzionano e il sostegno al reddito (cassa integrazione o mobilità) non è per tutti (solo un lavoratore su quattro è protetto). «Per l’azienda sei diventato un nemico dopo che gli hai dato tutto per anni », dice Aurelio D., 55 anni, che per una cessione di ramo d’azienda (settore delle consulenze) si è ritrovato senza niente dalla sera alla mattina. E il sindacato? «Quando sei licenziato non c’è più il sindacato ». Resta, anche in questo caso, la famiglia nei casi in cui l’altro coniuge lavora. E la famiglia regge se c’è «una situazione ben strutturata», spiega ancora Menza. Altrimenti si frantuma, pure sul piano affettivo. «Almeno nel 30% dei casi finisce con la separazione». Poi c’è la rete informale, i rapporti di amicizia, quei pochi fili che non si rompono e tengono in collegamento gli ex colleghi. «Ora lavoro all’Università - racconta Giusti -. Ho trovato un contratto a termine grazie alla segnalazione di un mio amico. Scado a luglio. Poi si vedrà».
TREND IN CRESCITA
Pure l’ultimo Rapporto dell’Istat certifica che i contratti a termine crescono tra gli adulti: nel 2011 la quota dei 30-39enni sul totale degli occupati a termine è stata pari al 12,6 % e quella dei 40-49enni all’8,8 % (erano, rispettivamente, il 7,7 e il 5,3% nel 1993). Nella maggioranza dei casi, l’over 40 licenziato si trasforma da dipendente a partita Iva forzata, diventa consulente. Si mette in proprio. È un modo per ricostruirsi un’identità sociale. Spesso per non rivelare di essere disoccupato. Da qui lo scarto tra i numeri dell’Istat che per gli over 40 registra nel suo ultimo Rapporto 846 mila disoccupati (erano 540 mila nel 1993) e le stime di Atdal che parla di almeno 1,5 milioni.
Inviare il curriculum non serve a niente. Lo sanno tutti, eppure tutti lo fanno. Marco N. ha 54 anni, da quasi dieci è in cassa integrazione a zero ore. È un informatico che non ama l’informatica. Il suo sogno professionale rimane quello di fare il ferroviere, «macchinista, operatore, qualunque cosa tra i binari». «Ho mandato il curriculum a Ntv di Montezemolo anche in inglese. Nessuna risposta: vogliono solo giovani». Il paradosso, nel continuo sordo declino italiano, è che questi over 40 senza lavoro sentono di contare meno, nel dibattito pubblico, dei giovani precari. Eppure l’età media dell’elettore italiano coincide proprio con la loro. «Ma noi - sostiene Aurelio - non blocchiamo il traffico ferroviario, non saliamo sui tetti, non incendiamo i cassonetti. Noi siamo invisibili».

l’Unità 11.6.12
Caro Vendola, è il Pd il luogo dei progressisti
Su di noi c’è un’ Opa ostile lanciata da quanti non vogliono il cambiamento: equità, solidarietà, giustizia sociale. Non serve tirarci per la giacchetta
di David Sassoli

Presidente europarlamentari Pd

Caro Vendola,
noi «il luogo dell’agire collettivo legato alla cultura progressista», come hai spiegato ieri a l’Unità, l’abbiamo già costruito. E proprio perché progressista è un partito di centrosinistra che lavora per un governo di centrosinistra. Hai annunciato di voler lavorare con il Pd, partecipare alle primarie, rompere con «gli spettacoli molto tristi» che in passato hanno azzoppato il governo dell’Unione. Sono parole che in tanti hanno pronunciato anche venerdì, nel corso della nostra direzione, riconoscendoti serenità di giudizio rispetto all’esagerata e imprudente animosità proposta da altri partiti del nostro schieramento che ogni giorno ci insultano.
Se il tuo punto di vista è chiaro, non possiamo però accreditare ipotesi sbagliate. Il governo Monti non è il nostro governo, ma il paese oggi non ne può fare a meno. Una condizione di emergenza più volte ribadita dal presidente del Consiglio, che si è spinto anche oltre le tue valutazioni, indicando i rischi che la crisi arrivi a deformare la natura dei regimi democratici, come ha sostenuto il 15 febbraio scorso intervenendo all’Europarlamento. Il nostro sforzo di condizionamento «non è solo generosissimo», come l’hai definito, ma è il tratto della nostra moralità nelle condizioni date. Prima viene il paese, poi la nostra convenienza e la nostra soddisfazione, secondo quel «principio di non appagamento» che vogliamo coltivare per lavorare per una società libera dal bisogno e dall’umiliazione.
In questa legislatura, il Parlamento non ha mai lavorato tanto come in questi mesi: nessun provvedimento del governo, come sai, vi è uscito come vi è entrato, e i parlamentari del Pd, pur essendo minoranza, non solo hanno condizionato, ma hanno profondamente cambiato scelte che ci apparivano sbagliate e ingiuste. Abbiamo constatato quanto sia pesante l’eredità della destra; quanto difficile navigare con marinai che remano in senso contrario.
Sì, hai detto bene, lo sforzo del Pd è generosissimo. Certo, c’è tanto da raddrizzare. Il riformismo che noi proponiamo al paese implica forti discontinuità, ma senza rinunciare alla fatica di accompagnarlo nei momenti difficili. Cosa sarebbe per l’Italia presentarsi al Consiglio europeo di fine mese in condizioni di instabilità interna? E quale ruolo potrebbe giocare l’Italia, nel momento in cui alcuni segnali di ripensamento cominciano ad arrivare da quei paesi che si sono rivelati più ostili nel favorire politiche di solidarietà e di governance europea?
Cogliere i segni dei tempi, rilanciare anche le pur minime aperture, è dovere della politica. Anche noi vogliamo crescita e rafforzamento del welfare. Sono le due facce della nostra proposta, di cui in tanti hanno paura. Sul Pd, non ti sfuggirà, c’è un’Opa ostile lanciata da quanti non vogliono il cambiamento, che tradotto significa equità, solidarietà e giustizia sociale. Tirarci per la giacchetta, dunque, non serve. Non serve annunciare «partiti unici» della sinistra, perché non ci saranno; non serve rappresentare gli altri come noi vorremmo che fossero: non serve attribuire ad altri vocazioni a propria immagine e somiglianza. C’è una laicità che dobbiamo recuperare e che consiste nel non chiedersi più da dove veniamo, ma solo dove vogliamo andare. Il Pd lavora per un’alleanza fra progressisti e moderati, perché il compito di ricostruzione è talmente impegnativo da non consentire autosufficienze.
Questa indicazione è stata affermata con chiarezza e accolta dalla nostra direzione all’unanimità. È una responsabilità che sentiamo forte, e non da ora che il tempo delle scelte si avvicina. Lo stesso è stato detto e accolto per quanto riguarda le primarie, che ci saranno e dovranno essere il luogo della sincerità, per far emergere, con più chiarezza, cosa diciamo al paese e cosa vogliamo per i cittadini. E anche per riconoscerci in una premiership condivisa, nel tempo della frantumazione, del vaffaday, degli incendi che infiammano l’Europa, del tramonto degli Stati-nazione. Cordialmente

l’Unità 11.6.12
Bersani: ora riscossa morale. «Come chiedeva Berlinguer»
Il segretario del Pd fa propria la sfida del leader del Pci. Dopo la Direzione massimo impegno sulle riforme
di M.Ze.


La riscossa civica e morale del Paese. Parte da qui, Pier Luigi Bersani, per ricordare il segretario del Pci Enrico Berlinguer. Nel «tempo in cui il Paese» è chiamato a questo salto in avanti, Berlinguer «rappresenta un riferimento importante da non dimenticare». Il segretario del Pd richiama «i tratti essenziali, quelli che ne hanno caratterizzato il percorso umano e politico, e che hanno fatto di lui un esempio di buona politica, riconosciuto e stimato al di là delle appartenenze politiche». Esempio quanto mai necessario oggi, con la politica e i suoi rappresentanti vissuti come lontani, esempio da evitare, da una fetta sempre maggiore di cittadini. «Berlinguer ha incarnato dice Bersani un’idea di politica alta, nella quale gli ideali non si allontanavano mai dai valori etici. Questo ha fatto di lui l’emblema di una politica al servizio del bene comune che svolge con responsabilità e dignità il suo ruolo». Per questo aggiunge, del pensiero e dell’agire di Berlinguer è necessario trasmettere «l’essenziale» alla generazioni e l’essenziale in un momento in cui la sfiducia sembra avere la meglio, sono «onestà, moralità, sobrietà».
Non è un caso che il segretario richiami il bene comune. Quello stesso bene comune in nome del quale ha spiegato il suo appoggio al governo Monti e la strada per la costruzione dell’alternativa il cui programma di governo non può che essere quell’idea di bene comune attorno alla quale sono chiamati a ritrovarsi quanti vogliono siglare il Patto di legislatura a cui ha fatto riferimento durante la direzione di venerdì scorso. Il cantiere è già aperto, il percorso tracciato è stato condiviso da tutti i dirigenti del partito e in qualche modo ha già iniziato a dare i primi frutti. Segnata la distanza con Antonio Di Pietro e un rapporto positivo con Nichi Vendola, il Partito Democratico adesso punta soprattutto ad arrivare nel giro di tre settimane ad un punto di certezza sulla legge elettorale, non a caso la prima tappa di quel percorso a tre indicato da Bersani. «Cambiare la legge elettorale in tre settimane? È possibiledice Luciano Violante, uno dei tecnici che segue la pratica per i democratici, in un’intervista al Corriere -: ma è necessario che i segretari dei partiti di maggioranza concordino prima su come procedere rispetto al cambiamento della forma di governo». E in questo senso sarà fondamentale capire quanto il Pdl e Angelino Alfano siano davvero interessati a cambiare le regole del gioco o piuttosto ad alzare la posta sul semipresidenzialismo ora per puntare a rimandare tutto alla prossima legislatura.
Intanto cresce la preoccupazione di Antonio Di Pietro che teme di restare nell’angolo. «Negli ultimi giorni molti dirigenti del Pddicemi hanno accusato di offenderli con le mie critiche, come se la questione riguardasse il galateo e buona creanza invece della politica. A mio parere questo è solo un modo di “buttarla in caciara” per non affrontare i problemi che l’Idv pone».
Nichi Vendola prende le distanze dall’attacco frontale dell’ex pm e si dice pronto a mettersi in gioco con le primarie aperte mentre Bersani usa toni ultimativi: uno scenario che spiazza il leader Idv. Preoccupato anche Matteo Renzi, che già intravede gli ostacoli che dal Pd potrebbero arrivare sul suo tentativo di scalata. Franco Marini e Massimo D’Alema hanno avvertito sulla necessità di regolare le primarie e di valutare il rischio che correrebbe il Pd arrivandoci con più candidati. «Bersani ha tutti i numeri per vincere», dice Beppe Fioroni, che vede nell’impostazione di Bersani «un richiamo fortissimo a quell’idea di Moro di allargare il campo per dare inizio ad una grande stagione riformatrice per cui è necessario un forte consenso». Intanto, però, bisogna superare il primo step: la legge elettorale.

Corriere 11.6.12
I dubbi del premier (e dentro il Pd) sulla linea di Bersani
Il rischio paralisi e i timori del Quirinale
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sulla Rai Pier Luigi Bersani non arretra. «Noi non indicheremo nessuno, non faremo proprio niente»: continuava a ripetere ancora ieri il segretario del Pd. E anche di fronte alle richieste informali di fare i nomi di due tecnici di area, il Partito democratico ha opposto un rifiuto.
Del resto, i ragionamenti che il leader del Pd va facendo in questi giorni con i suoi sono questi: «Finché non c'è la riforma della governance al vertice della Rai potrebbe esserci anche Einstein e non cambierebbe nulla». Eppure le pressioni cui è sottoposto il segretario sono molte. Una parte del Pd ritiene che con la linea della fermezza il segretario si sia cacciato in un vicolo cieco. Lui però non la pensa così: «Se noi lanciamo questa sfida, voglio vedere che fa il Pdl. Si nomina il consiglio d'amministrazione da solo? Bene, ci offre un argomento in più nella campagna elettorale».
I sondaggi rivelano che l'atteggiamento del leader del Partito democratico non dispiace all'elettorato di centrosinistra. E questo è un motivo in più per spingere Bersani ad andare avanti. Ma riuscirà a portare avanti la sua battaglia fino in fondo? Raccontano che Giorgio Napolitano non gradisca un comportamento che potrebbe portare alla paralisi della Rai. Il presidente della Repubblica se ne è lamentato con lo stesso Bersani. E anche Mario Monti è perplesso: «Non capisco l'atteggiamento del segretario del Pd». Però, quando il capo del governo, l'altro giorno, aveva preannunciato ai leader della sua maggioranza le nomine che aveva deciso di fare, Bersani lo aveva avvertito: al massimo il suo partito poteva consentire l'elezione della presidente del cda per non bloccare tutto, ma niente di più.
Per questa ragione, per smuovere Bersani dalla sua posizione, ieri si è tentata una manovra a tenaglia da parte dell'Udc e di quella fetta del Pd che non approva la scelta del segretario. Al leader è stata offerta una soluzione che gli avrebbe consentito di rientrare in gioco senza avere l'aria di dare il «contrordine compagni». Prima Beppe Fioroni ha proposto che sia il governo a procedere a tutte le nomine del cda Rai: «Giustamente hanno voluto commissariare la tv di Stato e allora a questo punto vadano fino in fondo, scelgano anche gli altri sette consiglieri». Poi è stata la volta di Pier Ferdinando Casini che ha avanzato la stessa proposta, dopo aver dato atto che le resistenze di Bersani nascono da «motivazioni alte e nobili». D'altra parte, il leader del Partito democratico ieri ha detto di sentirsi «garantito dal governo», quindi perché non accettare questa soluzione?
Quelle parole di Bersani hanno fatto sperare i sostenitori dell'accordo: il governo indica dei nomi che vanno bene sia al Partito democratico che al Pdl e con questo compromesso all'italiana si esce dal guado della Rai. Quanto alla riforma della «governance» se ne discuterà nella prossima legislatura, quando, probabilmente, i numeri saranno più favorevoli al centrosinistra. Ma Matteo Orfini, responsabile del Pd per il settore Rai non sembra aprire uno spiraglio nemmeno di fronte a questa soluzione: «Anche in questo caso non voteremmo lo stesso. Possono metterci pure Bill Gates, ma senza cambiare governance è inutile». Già, però gli azionisti su proposta del ministro dell'Economia dovrebbero modificare i poteri di presidente e direttore generale. Basterebbe? Sarebbe un «segnale», dicono a Largo del Nazareno. Non sufficiente, però, sottolinea Orfini: «I cambiamenti dello statuto non possono comunque confliggere con la legge Gasparri, quindi o si cambia quella o è tutto inutile, com'è inutile avere un consiglio d'amministrazione così congegnato».
Orfini, che è in continuo contatto con il segretario, non recede dalla linea dura. Ma, come si diceva, il pressing nei confronti di Bersani è fortissimo. Dentro il partito è in corso una discussione accesa. C'è chi accusa il leader di lasciare tutto in mano al Pdl, c'è chi è d'accordo con le scelte di Monti. Ai veltroniani, per esempio, non dispiacciono le nomine fatte dal presidente del Consiglio. Paolo Gentiloni si dice «soddisfatto perché finalmente c'è una svolta». Veltroni ricorda che fu proprio lui a ipotizzare «una Rai modello Bankitalia». Il suo braccio destro e sinistro Walter Verini avanza una nuova ipotesi per cercare di convincere il segretario ad ammorbidire la linea: «Perché il Pd non lancia una sfida in costruttivo alle altre forze politiche, proponendo di nominare tutti insieme sette personaggi di straordinario livello culturale, slegati dai partiti? Questo per superare l'attuale impasse, poi riformeremo la governance».
Ma questa è una partita che il Pd non gioca da solo. Nel Pdl monta la rivolta contro Gianni Letta che, previa consultazione con Silvio Berlusconi, ha dato il via libera a Gubitosi. Perciò al Partito democratico devono tenere conto anche delle possibili mosse del centrodestra, che potrebbe avere tutto l'interesse a lasciare le cose così come sono.

Corriere 11.6.12
Primarie, è un «doppio slalom» I segretari e l'incognita outsider
Le paure dei democratici. Gara inedita nel centrodestra
di Alessandro Trocino


ROMA — Sembra passato un secolo da quando, nel 2006 a Orvieto, Massimo D'Alema gelò chi voleva far nascere il Pd con le primarie: «Un partito non nasce con la fila davanti ai gazebo». Le primarie, già sperimentate nel 2005, con il voto plebiscitario per Romano Prodi, sono ormai la regola per il centrosinistra. Il dibattito tra partito solido, con il suo apparato irremovibile, e partito liquido, è archeologia. L'onda antipolitica ha travolto le resistenze. E anche il partito personale per eccellenza, il Pdl berlusconiano, si appresta ad archiviare l'investitura dall'alto. La febbre delle primarie contagia tutti e così, tra settembre e ottobre, Pd e Pdl potrebbero andare al voto per scegliere il candidato premier. Con regole, però, ancora misteriose e molte ambiguità. Che si scioglieranno solo quando sarà decisa la partita sulla nuova legge elettorale, se mai si farà.
Per il centrosinistra i candidati già ci sono: il segretario pd Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi e il leader di Sel Nichi Vendola. Manca tutto il resto. Bersani è stato generico, parlando di «primarie aperte» non «di coalizione». Ambiguità deliberata, non solo perché la coalizione ancora non c'è. Ma anche perché si attende la legge elettorale: se passasse un sistema che non prevede l'obbligo preventivo di coalizione — per esempio, il parlamentarismo con un sistema corretto alla spagnola — tornerebbe in auge la vocazione maggioritaria, con primarie di partito; altrimenti sarebbero primarie di coalizione.
Tra i dirigenti restano le resistenze. Troppe le sorprese. Il popolo del Pd non sempre sceglie il candidato di partito. Il primo incidente fu nel 2005, quando in Puglia Vendola sconfisse il pd Francesco Boccia. Da allora gli outsider si sono moltiplicati: da Pisapia a De Magistris, fino agli ultimi, Orlando e Doria. Salvatore Vassallo propone primarie a doppio turno: «Soltanto così i candidati riformisti non si eliminerebbero tra loro». Il politologo vorrebbe anche le primarie per legge: «Così si voterebbe lo stesso giorno, mettendo fine alle polemiche sulle invasioni di campo degli elettori dell'altro schieramento».
Nel centrodestra, la gara è agli inizi. Contro il segretario Angelino Alfano potrebbero esserci Daniela Santanchè e l'ex ministro Franco Frattini. Ma anche Gianni Alemanno, Renata Polverini e Giorgio Stracquadanio. E, se sarà accettato, anche Francesco Storace. Il quadro è ancora fluido e molte sorprese sono possibili. Tra le altre, l'eterno ritorno di Silvio Berlusconi. O un accordo su primarie plebiscitarie per Alfano.
Le primarie determinano anche equilibri e rapporti di forza nei partiti. A sfidare Walter Veltroni, nel 2007, scesero in campo Rosy Bindi ed Enrico Letta. Non per contendere davvero la leadership, ma per avere una rappresentanza di corrente nel partito. Per il motivo opposto, cioè per non contare i propri voti, non si presenteranno gli ex dirigenti di An, partito la cui consistenza elettorale è oggi probabilmente inferiore al peso effettivo nel Pdl.
Quel che è certo è che, se ci saranno, per il Pdl saranno una mezza rivoluzione: «Chi se le sarebbe mai aspettate solo un anno fa?», chiede retoricamente Osvaldo Napoli, che le apprezza. E che sottolinea un altro aspetto: «Le primarie metteranno in difficoltà Casini, costringendolo a schierarsi per non restare fuori dai giochi». Ma il punto rimane sempre lo stesso: che primarie saranno? Perché, come avverte Giuliano Ferrara, possono essere «una truffa grottesca»: saranno importanti solo se saranno vere e se «non saranno una variante di quel grande marketing politico che fu rivoluzionario nel 1994 e che ora rischia di risultare una minestra riscaldata».

Corriere 11.6.12
Unioni gay, se la legge fa scandalo solo in Italia
Altrove, dagli Usa alla Francia la politica ha trovato intese
di Pierluigi Battista


Sembrava una scivolata di Obama, e molti attendevano la scena dei repubblicani pronti ad azzannare l'incauto presidente democratico. Ma l'uscita sui matrimoni gay non ha provocato il prevedibile sconquasso. L'ala repubblicana più intransigente e ancorata alla difesa arcigna dei «valori» della tradizione ha gridato allo scandalo, ma Mitt Romney ha reagito con inaspettata mansuetudine, fino a dirsi addirittura favorevole alle adozioni gay. Ecco, in Italia un conflitto così soffice sarebbe impensabile.
Perciò la proposta di Bersani di scongelare l'ipotesi di una legge che riconosca le coppie gay suscita nei suoi antagonisti un'apprensione acuta, peraltro sconosciuta proprio nel mondo moderato, conservatore, più ostile al «disordine» che una legge del genere sembrerebbe destinata a creare. Il conservatore Cameron, anzi, di leggi che sancissero l'unione civile tra coppie dello stesso sesso si è fatto esplicitamente promotore. Dopo lo scossone di Zapatero, le manifestazioni oceaniche inscenate dai cattolici a Madrid, l'oltrepassamento di una frontiera che in Italia sembrava davvero inavvicinabile, i Popolari al governo non appaiono così smaniosi di smantellare il lascito zapateriano. In Germania Angela Merkel non è favorevole alle coppie gay, ma non è nemmeno disposta ad alzare barricate per impedirne il riconoscimento. In Francia i celeberrimi Pacs sono un terreno accettato sia dalla sinistra che dalla destra moderata dell'ex presidente Sarkozy. In Italia no. In Italia serbiamo ancora memoria di ciò che accadde con i Dico proposti nell'era breve del secondo governo Prodi. Con il centrodestra al potere, le voci per un riconoscimento delle coppie di fatto, eterosessuali e omosessuali, sono minoritarie e ogni volta sovrastate dal coro indignato di chi mai e poi mai si direbbe disposto a deflettere dagli irremovibili principi di una morale tradizionale che ripudia ogni atto di convivenza non santificato da un vincolo matrimoniale.
A differenza di ciò che avviene in molte altre nazioni, in Italia lo scontro sulle coppie di fatto, e sul riconoscimento di quelle gay in particolare, appare una linea divisoria ancora molto forte che separa i due schieramenti. Voci cattoliche perplesse sulle coppie di fatto sono presenti nel centrosinistra, da Rosy Bindi alla maggioranza degli ex Popolari. Nel Terzo polo la divaricazione è invece netta tra l'anima democristiana e quella decisamente più «laicista» di Fini. E voci nient'affatto ostili con veemente contrarietà ideologica alle coppie di fatto affiorano anche nel centrodestra, da Renato Brunetta e Mara Carfagna. Ma i due grandi blocchi coincidono più o meno con il bipolarismo conosciuto negli anni di questa agonizzante Seconda Repubblica. In altri Paesi in cui il bipolarismo è una costante sperimentata nei decenni ed è più forte che da noi, il tema delle coppie gay non è così incandescente e «divisivo». Nell'Italia che conosce un bipolarismo debole, le coppie gay sono quasi un tabù impronunciabile. E se si esclude l'area laica e radicale che su questi temi si muove con una familiarità culturale sconosciuta a una sinistra di provenienza comunista storicamente meno attenta alla tutela dei diritti civili, nel Pd si fa fatica a scivolare su un terreno fatalmente destinato a creare attriti e tensioni con i vertici della Chiesa cattolica. Ora però, i cambiamenti irreversibili della mentalità e del costume sembrano finalmente aver aperto una breccia anche nel riluttante Partito democratico. Che alcuni diritti minimi, dalla pensione di reversibilità al subentro nei contratti di affitto fino alla possibilità per il convivente di avere voce in capitolo nelle cure del «compagno» in difficoltà sanitarie, debbano essere riconosciuti, sembra acquisito nel modo di pensare della società civile. E non è detto che anche proposte più audaci, fino alla codificazione del matrimonio gay, sarebbero necessariamente accolte con diffidenza dalla maggioranza del popolo italiano. Ora, dopo un periodo di silenzio e di imbarazzo, questi temi rientrano nell'agenda politica con la proposta di Bersani. In Italia sarà scandalo. Altrove non lo è: una specialità nazionale.

Corriere 11.6.12
Cattolici, cresce la voglia di partito. Ma i leader per ora disertano
di Dario Antiseri


La diaspora politica dei cattolici, seguita vent'anni fa al collasso della Dc, li ha resi presenti ovunque e inefficaci dappertutto.
Forse, allora, alla fine degli anni Ottanta, non si poteva fare altro: dare testimonianza dei propri ideali in qualsiasi raggruppamento ci si fosse accampati. Solo che questa strategia, avallata anche da figure di primo piano della gerarchia ecclesiastica, si è rivelata progressivamente e ineluttabilmente perdente su tutti i piani. Calpestate le più elementari esigenze della famiglia, lasciate morire di inedia le scuole libere, ingoiata tutta una serie di nefandezze a cominciare dalla più indecente e illiberale delle leggi elettorali, spallucce su scandali a ripetizione, difesa ostinata di vergognosi privilegi... e mai un rappresentante politico di area cattolica che abbia avuto un sussulto di dignità dando le proprie dimissioni. Pronti a genuflessioni davanti al padrone di turno, il bavaglio spalmato di miele ha reso taciturni anche i più loquaci.
Colpevolmente silenti o comunque inutili su tutto, non mancano, però, figure di spicco del mondo cattolico che si sono messe ad esercitare le loro ugole nel coro dei cantori contro Grillo. Ma si rendono conto costoro che Grillo lo hanno creato e lo ingrossano giorno dopo giorno proprio le ingiustizie, i soprusi, gli sprechi, i privilegi, i furti, la catena di leggi ad personam, nomine di incompetenti a posti istituzionali nevralgici, misure sbagliate e prese da un Parlamento nominato da quattro Caligola? Non c'è una politica e un'antipolitica; c'è solo una politica cattiva e una politica buona. E se quella di Grillo è antipolitica, essa è solo la conseguenza immediata e diretta di quella antipolitica, cioè di quella cattiva politica, di cui sono stati e sono pervicacemente capaci i partiti che oggi siedono in Parlamento.
Non è vero che c'è fuga dalla politica; c'è piuttosto fuga dalla politica di questi partiti. Il ministro Andrea Riccardi in una recente intervista ha ribadito che «i partiti sono decisivi per la democrazia». Giusto. Ma qui la domanda è inevitabile: gli attuali partiti sono decisivi per la vita o per la morte della nostra democrazia? E il governo tecnico di Monti non è forse un epitaffio sulla politica di partiti miopi, incapaci di soluzione per i problemi più urgenti — e affollati da «clarinetti» che coprono miserabili interessi con sproloqui sul «bene comune»? Ebbene, in questo deserto il fatto più sconcertante è la sostanziale assenza del mondo cattolico sulla scena politica. E tutto ciò, nonostante i ripetuti inviti del Papa e del cardinale Bagnasco a che i cattolici, soprattutto i giovani, impegnino le loro energie in vista di una politica rinnovata. Tuttavia, si seguita ad insistere sull'idea che non ci debba essere un partito di cattolici.
È chiaro che è illusorio pensare a un partito capace di aggregare tutti i cattolici, se non altro perché non c'è più quel «nemico» che riuscì a tenere insieme la maggior parte di loro negli anni dal dopoguerra in avanti. In ogni caso, se non è pensabile un partito di tutti i cattolici, appare sempre più necessario un partito di cattolici liberali, un partito sturziano di cattolici liberali e solidali sotto il segno della Dottrina sociale della Chiesa. Per tutto ciò, tra tanti cattolici — e lo dico con cognizione di causa — ha destato una non gradita sorpresa l'idea di Riccardi per il quale «non serve il partito dei cattolici». Egli ha parlato di «condensazioni» e di «credenti che saranno una rete radicata tra la gente». Riccardi, proprio lui che — con la sua esperienza, le sue capacità organizzative e con quanto è riuscito a realizzare con la Comunità di Sant'Egidio — a Todi e dopo Todi molti, e a ragione, vedevano e vedono ancora come uno degli assi portanti del nuovo partito! È davvero sorprendente che un dotto storico dei fatti del passato ponga dei divieti alla storia del futuro. Ci si richiama continuamente a Sturzo, ma Sturzo un partito lo fece. E De Gasperi, con un partito di ispirazione cristiana, ha salvato l'Italia.
E ora ci si invita a «condensarci», vale a dire a seguitare a fare gli «ascari». È proprio soltanto questo ciò che il mondo cattolico è in grado di offrire oggi all'Italia? Certo, in politica si può perdere, ma è meglio perdere con truppe fedeli che vincere in funzione di mercenari magari beneficati e comunque sempre irrisi. La realtà è che c'è un mondo cattolico vastissimo e sano, fatto di persone oneste e generose che, politicamente non rappresentato, si rinserra, per usare un'espressione di Galli della Loggia, nell'ergastolo politico di «masi chiusi». In due parole: la truppa è pronta; disertori appaiono essere i generali.

l’Unità 11.6.12
VIGNETTA BOBO IMPICCATO
Le false accuse di Scalfari
di Claudio Sardo


Come è noto ai lettori, l’Unità ha criticato con severità e, ritengo, con serietà di argomenti le recenti nomine all’AgCom e all’ufficio del Garante della privacy. Il giorno del voto alla Camera il vicedirettore Luca Landò ha scritto un commento in prima pagina con il titolo: «Le giuste proteste».
E il Corriere della Sera, nel sottolineare le nostre riserve alle scelte del Pd, ha ripubblicato venerdì la vignetta di Staino con Bobo impiccato dopo le nomine: «Prima che mi consegnino a Grillo, me ne vado da solo». La professionalità e l’indipendenza dei due collegi risulta inferiore alle aspettative, mentre la logica dello scambio ha penalizzato anche la trasparenza delle scelte. Le colpe maggiori per il vulnus inferto agli organi di garanzia ricadono certamente sul Pdl (che ha eletto figure imbarazzanti) ma, visto il risultato finale, neppure il Pd può sottrarsi alle proprie responsabilità. Queste le valutazioni de l’Unità che i lettori conoscono. Ieri però a sorpresa Eugenio Scalfari ha lanciato i suoi strali contro il nostro giornale, accusandoci niente meno di teorizzare una supremazia partitocratica sugli enti “terzi” chiamati a garantire il controllo e l’efficienza della Pubblica amministrazione. Una falsità. Una mistificazione incomprensibile. Tanto più che il fondatore di Repubblica prende di mira, in particolare, un bell’articolo del professor Massimo Luciani (pubblicato su l’Unità dell’8 giugno), nel quale si denunciava un grave deficit di «trasparenza» nel procedimento indicato dalla legge italiana per la nomina all’AgCom e alla Privacy e si suggeriva di seguire l’esperienza del Congresso statunitense, laddove le nomine di garanzia vangano affidate al Parlamento. «Quando le Camere sono chiamate a scegliere dei tecnici ha scritto Luciani lapolitique politicienne non può essere il solo orizzonte di riferimento». E per questo occorre rafforzare la trasparenza, ben oltre le procedure da noi solitamente utilizzate. Negli Stati Uniti i candidati vengono sottoposti a veri e propri interrogatori dalle commissioni parlamentari, e ad essi vengono formulate domande scomode, e anche impertinenti: scegliere un candidato impreparato, o che dice sciocchezze, a quel punto può diventare un pesante costo aggiuntivo per il parlamentare o per il suo partito.
È questa, secondo Scalfari, la «stupefacente» difesa dell’intervento politico dei partiti, di cui sarebbe colpevole l’Unità? Il fatto che uno dei più prestigiosi costituzionalisti italiani, qual è Massimo Luciani, proponga di seguire l’esempio americano è un cedimento alla partitocrazia, tale da sollevare addirittura una «questione morale»? Gli argomenti di Scalfari sono talmente oscuri da non far intravedere alcuna proposta positiva con la quale confrontarsi. Ritiene che le Authority debbano essere assimilate alla magistratura ordinaria? In questo caso, la scelta dei garanti avverrebbe all’interno dell’ordinamento giudiziario, ma siamo sicuri sarebbe il giusto profilo per le Autorità indipendenti, a cui vengono riconosciuti margini di discrezionalità politica maggiori che ad una normale funzione giurisdizionale?
C’è ovviamente un’altra strada per escludere il Parlamento: affidare la scelta ai governi pro-tempore. Scalfari si mostra soddisfatto delle nomine Rai compiute da Mario Monti. Lo sarebbe stato anche se a decidere fosse stato Berlusconi? Siccome non si può pretendere cambiare la norma a secondo del colore politico di un esecutivo, è davvero la soluzione governativa la più idonea per ripristinare quell’autonomia, quel bilanciamento dei poteri, quell’indipendenza necessaria ad un profilo di terzietà che tutti noi avvertiamo oggi così carenti?
Ovviamente di tutto ciò è giusto discutere senza pregiudizi. E non c’è dubbio che la proliferazione delle Authority nell’ultimo ventennio non sia stata sempre convincente. Tuttavia, per evitare che la demagogia risulti alla fine la sola vincitrice di ogni problema complesso, forse non sarebbe male concentrare le attenzioni sulle modalità concrete per «costringere» il Parlamento entro dinamiche più virtuose. Il proposito di cancellare dal Parlamento la politica e la mediazione non appare plausibile (anzi, suona un po’ reazionario). Ma per evitare che si ripetano esiti imbarazzanti, come quelli della scorsa settimana, occorre modificare qualcosa. Il diritto è procedura. E la procedura non garantisce di per sè la qualità di una scelta. Ma senza procedura, nella confusione e nel discredito, saltano i presupposti di una democrazia, di uno Stato di diritto.
Noi vogliamo una procedura migliore. E non ci arrendiamo all’idea che il Parlamento sia delegittimato ad esprimere un «garante». Accettare questo vuol dire darla vinta al populismo e al presidenzialismo di Berlusconi. A noi piace invece la nostra Costituzione che attribuisce al Capo dello Stato (eletto dalle Camere riunite) il più alto potere di garanzia.

Repubblica 11.6.12
Bertinotti : “Le occasioni mancate”
di Alessandra Longo


L’ultimo libro di Fausto Bertinotti (con Dario Danti) si chiama «Le occasioni mancate » (Edizioni ETS) e sarà presentato a Roma giovedì prossimo. E’ un riassunto dei principali appuntamenti mancati della sinistra con la storia: nel 1991, nel 2001 (anno di violenza soggettiva, di gruppo e terroristica, da Erica e Omar al G8, all’11 settembre), nel 2011. Una data, un’occasione mancata. Nel ’91, la strada “sbagliata” (secondo Bertinotti), presa dal Pci con la Bolognina; nel 2001, le energie del Genoa Social Forum lasciate deperire dalla stessa Rifondazione; e nel 2011 l’ultimo elemento di freschezza, non ancora colto in pieno: le rivolte arabe e i movimenti contrari alla «globalizzazione neoliberista ». Sviste, errori (o presunti tali) della sinistra in sole 90 pagine. Davvero uno sforzo di sintesi.

l’Unità 11.6.12
Violenza sulle donne
Subito i finanziamenti per il Fondo nazionale
di Delia Murer


ACCELERARE L?ITER PER L’ADESIONE DELL’ITALIA ALLA CONVENZIONE EUROPEA sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e ripristinare la dotazione del Fondo nazionale per i progetti di prevenzione e repressione del fenomeno. Sono questi i principali impegni che abbiamo chiesto al governo con una risoluzione, approvata all’unanimità dalla Commissione Affari sociali della Camera. Una risoluzione unitaria, partita dalla volontà delle deputate del Pd, e costruita con lo sforzo di tutte le forze politiche, per lanciare un messaggio chiaro al governo: su questo tema è ora di aprire una fase nuova, di reale attenzione e di efficace contrasto.
L’ultima indagine Istat, risalente all’ormai lontano 2006, ha dimostrato che le donne italiane tra i 16 e i 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita sono stimate in 6.743.000. Circa un milione di donne ha subito stupri o tentati stupri e che il 14,3% delle donne ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal partner. Nella quasi totalità dei casi, le violenze non sono denunciate: il 96% delle donne non parla con nessuno delle violenze subite. Numeri allarmanti che chiedono risposte precise e veloci. Nel marzo 2010 il Parlamento europeo ha approvato una relazione sulla violenza contro le donne in Europa che indica l’aspetto più critico del fenomeno: la violenza avviene spesso tra le mura domestiche, in famiglia, e quasi mai la vittima ha la forza di denunciare; solo quando la violenza arriva ai figli, generalmente, il muro d’omertà si rompe.
Ma il danno indiretto recato ai bambini, nell’arco dei primi 15 anni di vita, è tale da indurre i figli a negare il desiderio di formare una famiglia e di avere una relazione sana di coppia. Una vera e propria reazione a catena che diventa emergenza sociale. Il nostro Paese deve dare piena e concreta attuazione al Piano nazionale antiviolenza. Occorre un approccio che non si limiti solo e soltanto all’aspetto repressivo, anche se l’inasprimento delle pene e la certezza della loro applicazione sono necessari. Bisogna fare un lavoro culturale sul rispetto della persona e dei diritti umani inviolabili; scomporre l’idea, purtroppo diffusa, del corpo femminile come un oggetto in vendita; costruire politiche fondate sulla prevenzione, protezione e rieducazione e quindi proposte immediate, quali ad esempio l’inquadramento giuridico e il potenziamento dei centri antiviolenza, il ruolo centrale della Medicina di base e dei presidi sanitari, sentinelle irrinunciabili, con personale formato e strutture adeguate, per proteggere la vittima di violenza che abbia avuto la forza di rivolgersi ad una struttura ospedaliera. In questo specifico campo, particolare rilevanza assume l’esperienza dei codici rosa nei Pronti soccorsi, già operativa in alcune Asl, da estendere a tutto il servizio sanitario.
Con la risoluzione abbiamo inoltre segnalato la necessità che governo e parlamento uniscano sforzi ed intenti per predisporre rapidamente una legge organica sul tema della violenza contro le donne nella quale si definisca la violenza di genere e violenza assistita (in presenza di minori) conformemente agli standard internazionali, che contempli e coordini sia interventi di tipo penale e repressivo, sia azioni integrate volte alla prevenzione culturale e sociale del fenomeno.
Per fare tutto questo si rende indispensabile tornare a dotare di finanziamenti adeguati il Fondo contro la violenza alle donne, in modo da dare copertura continuativa ai servizi, oggi aperti spesso solo grazie ai sacrifici delle associazioni.

La Stampa 11.6.12
Violentatori liberi, lei si uccide Gli amici: un film per denunciare
Vicenza, i ragazzi sul set: il suo dramma non deve ripetersi
Le violenze sulle donne sono per violenza fisiche e sessuali spesso opera dei partner
di Antonio Salvati


Una sceneggiatura che parla di paura e di angoscia. Quelle di ragazzi come loro, nemmeno maggiorenni, che si portano dentro e fuori gli sfregi che una violenza sessuale lascia. Sono dodici, dai 16 ai 17 anni, quelli che hanno voluto tradurre su carta prima e in immagini poi una realtà drammaticamente sconosciuta ai più. Anche perché la loro esistenza è stata lambita da una storia vera, nera come le strade dei paesini del Nord Est lasciate al buio per cercare di far quadrare i conti del Comune.
Un’amica che subisce una violenza vede uscir fuori di galera i suoi aguzzini e decide che serve a poco denunciare e combattere. Così si uccide, seppellita due volte: dall’indifferenza e da quella cappa di complice ignoranza che proprio i suoi amici hanno cercato di squarciare. Si chiama Black Out, il film scritto e interpretato dai ragazzi della Movie’s Geyser, un gruppo di volontari che utilizza le professioni e le professionalità del cinema per progetti di creatività e aggregazione, e prodotto da Sole e Luna Production.
Due numeri per capire un fenomeno strisciante che inquina qualsiasi comunità: 15, a volte 20, casi di violenza denunciati ogni giorno (circa 6000 casi l'anno) ; stime per difetto visto che solo il 10% delle donne denuncia. Zitte per paura, per vergogna, per timore di pene non certe. Perché è la paura il denominatore comune di tutte queste storie: la paura che le sei ragazzine del gruppo hanno palesato durante gli incontri della Movie's Geyser. Timore di uscire da sole, di affrontare il buio delle strade, di indossare una minigonna. Terrore di bere una birra spillata in un locale perché dentro può esserci qualche sostanza stordente.
Discussioni che hanno coinvolto questo manipolo di coraggiosi ma anche le loro famiglie, trasformando il tutto in confronto generazionale. «Noi cerchiamo di dare ai ragazzi un modo per comunicare - spiega Giorgia Lorenzato, presidente della Movie's Geyser - soprattutto con il mondo adulto che, a detta loro, è spesso sordo alle loro esigenze». Così, una sera durante uno di questi dibattiti, una ragazza del gruppo ha chiesto di essere accompagnata a casa perché aveva paura di attraversare le strade buie del suo paese. «Sono stati soprattutto i maschi ad impostare un lavoro sulla violenza sessuale - prosegue la Lorenzato Così abbiamo deciso di farli confrontare con esperti del settore per fare capire loro la dimensione del fenomeno».
Sceneggiatura completata nel settembre scorso e primo ciak a Bassano del Grappa nel mese di dicembre. Qualche mese fa, con il premontato del film, il regista Manuel Zarpellon (uno dei volontari dell'associazione) ha lanciato un appello tramite Linkedin, per cercare un appoggio al progetto. E’ nata una gara di solidarietà nel mondo delle professioni: Lorenza Somogyi Bianchi ha offerto la comunicazione, Marco Testoni ha realizzato la colonna sonora e la canzone originale, Edoardo De Angelis ha effettuato l'elaborazione della lirica della canzone originale.
Ora Black Out è su Facebook, alla ricerca di adesioni per arrivare ai distributori con numeri in grado di destare interesse. Quasi contemporaneamente è nato lo slogan «AAA testimonial cercasi», per cercare volti e voci noti per spot radio e tv. Il gruppo Virgin ha espresso la sua disponibilità come diversi doppiatori di professione. «Questa esperienza - conclude Giorgia Lorenzato - mi ha colpito. Il fatto che proprio i maschi abbiano cercato di scrollarsi di dosso gli stereotipi che spesso, e con troppa facilità, gli sono affibbiati, mi fa credere ancora di più che ne è valsa veramente la pena». «Noi ci abbiamo messo la faccia - hanno detto i ragazzi di Black Out - Aspettiamo che gli adulti facciano lo stesso».

Corriere 11.6.12
«La scarcerazione dello stupratore. Lo Stato risponda»


Cara ministra Severino,
addolorata, allibita e infuriata ho letto con sgomento sul Corriere della Sera di ieri che l'ex caporale dell'esercito che è accusato di aver stuprato e quasi ucciso una giovane ventenne, tre mesi fa all'Aquila, ha avuto gli arresti domiciliari. Da quando si è diffusa la notizia, abbiamo ricevuto centinaia di mail, il mio telefono ha squillato in continuazione, tutte le volontarie, le amiche e gli amici della nostra associazione ci manifestano con un'onda irrefrenabile il loro dolore e la loro incredulità. Mi chiedono non solo di dare solidarietà e aiuto alla giovane vittima, ma di porre a lei, signora ministra, preparata, competente e stimata, alcune domande. Sono 25 anni che operiamo al fianco delle vittime, invitandole innanzi tutto a denunciare. Una percentuale bassissima (i nostri dati dicono l'8%) di donne trova il coraggio di farlo. Ci dica, signora ministra, dopo una decisione simile con quale animo possiamo continuare il nostro lavoro? Tre mesi fa questa giovane ventenne non solo è stata stuprata, ma ha rischiato di morire. Oggi il nostro sistema giudiziario consente gli arresti domiciliari all'accusato, infliggendo alla vittima un ennesimo terribile dolore. Con che forza possiamo dire alle donne di denunciare e a questa ragazza di credere nella giustizia?
Come possiamo, ministra Severino, trovare ancora motivazioni in questa lotta immane se non sentiamo vicino a noi una giustizia degna di questo nome? E come può il fenomeno della violenza non restare sommerso e venire alla luce in tutta la sua profondità, se questo è il messaggio che diamo alle donne e agli uomini, ai giovani e alle giovani del nostro Paese?
In un momento cosi duro per la nostra società, noi abbiamo il dovere di rispondere con fermezza a situazioni simili o di mettere in campo nuovi strumenti, se evidentemente quelli esistenti non sono adeguati. Se questo non accadrà continuerà la barbarie del femminicidio, della violenza domestica, degli stupri e di tutte le forme di violenza sulle donne che, nella nostra civilissima Italia, hanno numeri spaventosi. Signora ministra, quale sarà il suo impegno per non farci sentire mai più così umiliate e umiliati? Qual è l'impegno del Governo e del Parlamento? Chiudo questa mia lettera, con un abbraccio alla vittima che in questo dramma si è sentita sola, non protetta dalla giustizia ed ha perso fiducia nel nostro Paese. A questa ragazza diciamo che noi del Telefono Rosa ci siamo, siamo pronte ad aiutarla. Ma è lo Stato che questa volta non può restare in silenzio e fermo.
Maria Gabriella Carnieri Moscatelli
Presidente Ass. Nazionale Telefono Rosa

Corriere 11.6.12
Corvo, stretta dei magistrati sul movente
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — La domanda è: perché? Per quanto gli interrogatori del maggiordomo del Papa, il presunto corvo responsabile al momento unico dei leaks vaticani, conoscano una pausa e non riprenderanno se non tra qualche giorno, l'indagine sulla fuga di notizie e di documenti riservatissimi finiti sulle pagine di libri e giornali non si ferma e — dicono in Vaticano — conosce una «fase di approfondimento» a livello documentale, sia sulle carte detenute illecitamente da Paolo Gabriele, provenienti direttamente dall'appartamento del Pontefice, sia sui verbali delle deposizioni degli interrogatori formali cui è stato sottoposto lo stesso indagato.
Si studiano anche altri «elementi probatori» emersi finora. Alla ricerca, innanzitutto, del movente dell'operazione Corvo. Ben più concretamente dell'ipotesi di «scenario» (mettere in difficoltà il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e provocarne la sostituzione). Gli inquirenti sono alla ricerca cioè delle cause scatenanti e delle finalità concrete di quella che appare come una ben organizzata fuga di carte. La «gestione» della pubblicazione degli atti risponde infatti ad un ben preciso timing in relazione a scadenze della vita della Chiesa (il ricambio ai vertici dell'Istituto Toniolo, ad esempio, o piuttosto alle vicende interne alla vita dello Ior) o anche alla ampia situazione sociale e politica italiana. Si è giunti dunque a un momento decisivo, per il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet e per il promotore di giustizia Nicola Picardi. Anche perché così potranno essere decisi eventuali altri accertamenti.
Nel mirino degli inquirenti restano i contati e le amicizie che l'uomo intratteneva assiduamente fuori e dentro il Vaticano. Fonti ben informate hanno parlato di almeno due cardinali con cui di tanto in tanto Gabriele parlava e si confidava. Poi anche alcuni laici, almeno quattro o cinque, tra cui sicuramente un giornalista, che vedevano il maggiordomo del Papa, a volte anche nei bar fuori della città leonina, raccogliendo da lui racconti, informazioni, dettagli.
I magistrati vogliono capire se è in questo contesto che è maturata l'idea di Gabriele di cominciare a fare fotocopie di documenti cui aveva accesso nell'appartamento del Pontefice. Cioè, se sia stato uno dei suoi «contatti» a spingere il maggiordomo a tradire la fiducia del Papa e della Santa Sede. I magistrati li potrebbero perciò ascoltare come testimoni e nel caso non si presentassero spontaneamente, procedere alle rogatorie in Italia.
Altrettanto potrebbe accadere allo stesso Gianluigi Nuzzi, autore del bestseller «Sua Santità». Durante l'Angelus, Benedetto XVI ha nuovamente esortato «all'unità» della Chiesa, e collegandosi in tv con i cattolici polacchi, riferendosi a Bertone, ha sottolineato che essi in questi giorni commemorano il pellegrinaggio compiuto da Giovanni Paolo II 25 anni fa, «con il mio segretario di Stato».

Corriere 11.6.12
Peter Stein
«L'onda anti-tedesca è anche colpa nostra ma è ingiusto evocare l'orrore del Reich»
di Maria Serena Natale


La Germania del calcio che sabato ha battuto i portoghesi a Leopoli proprio non gli è piaciuta. «È una squadra molto giovane, sarà pure tra le favorite del campionato ma soffre troppo la mancanza d'esperienza». Tedesco che ha scelto di vivere in Italia, osservatore attento dei siparietti della politica, lui che al teatro vero ha dedicato la vita, il regista Peter Stein non è mai tenero con chi sbaglia schema. «Ci sono sempre due piani di verità che si sovrappongono — dice al Corriere —, una prospettiva immediata e un orizzonte storico più ampio. È assurdo che a questo punto della crisi nessun governo si concentri sul secondo».
Dal Mediterraneo sale un'onda anti-tedesca che mescola l'insofferenza al rigorismo di Berlino e l'accusa di egoismo a un Paese che ha sì sacrificato la forza del marco ma ha anche tratto grandi benefici dall'unione economica e monetaria. La Germania è destinata all'isolamento?
«Un certo sentimento anti-tedesco nei Paesi del Sud Europa non è una novità e va rafforzandosi. Si è innescata una spirale irrazionale che fa perdere di vista la legittimità di argomentazioni elementari, è naturale che i cittadini tedeschi chiamati a fare sacrifici e prestare denaro si domandino quando potranno rivedere i loro soldi e vogliano garanzie dai Paesi che fin qui non si sono messi al passo con il mercato globalizzato. Categorie come egoismo e isolamento però sono superate, ora si tratta di politiche economiche e regole comuni. I risultati ci dicono che quelle in vigore non funzionano e vanno cambiate».
Pensa che la Germania perno degli equilibri europei saprà gestire il cambiamento?
«Finora, a differenza di altri Paesi, ha saputo modernizzare l'economia, ristrutturare la pubblica amministrazione e lo Stato sociale, ma non è stata in grado di indicare una rotta che fosse praticabile per tutti. Dall'esplosione del caso Grecia tre anni fa sono sempre stato in disaccordo con le scelte della Merkel. Non ha senso concedere prestiti e poi porre condizioni troppo dure, se i tedeschi vogliono far parte di un'Europa unita devono trovare il modo di adattarsi a situazioni che sfuggono al loro controllo. Ciononostante è inaccettabile che circolino caricature della cancelliera con i baffetti di Hitler e allusioni al Reich. Quel passato non c'entra, qui è in gioco il futuro dell'Europa».
Non teme che questo clima di contrapposizione faccia sentire i tedeschi di nuovo sotto processo mettendo a repentaglio il doloroso lavoro di scavo nel passato e il faticoso superamento dell'«Unbehagen», quel disagio che Freud per primo aveva diagnosticato alla modernità?
«Il rischio c'è, ma non nel breve termine. Per ora i tedeschi sanno di aver lavorato bene e non vacillano nella coscienza collettiva che hanno costruito. Il processo di elaborazione del lato buio della nostra storia non si è mai concluso ed è tenuto costantemente in vita dalle istituzioni. Il pericolo semmai è eccedere nell'autocompiacimento per i risultati ottenuti e credere di poter fare a meno dell'Europa. Secondo recenti sondaggi il 52 per cento dei tedeschi vorrebbe tornare al marco, dimenticando che la moneta comune ha favorito le esportazioni e dato impulso alla crescita del Paese. Un Paese che tra qualche anno, visto il livello di esposizione delle sue banche, potrebbe trovarsi nella stessa situazione della Grecia. Siamo tutti legati a doppio filo e nessuno ha il diritto di salire in cattedra. L'Unione Europea è al fallimento e i piani di salvataggio non bastano, ciascun governo dovrebbe essere disposto a cedere parte della propria sovranità, rivedere il concetto di interesse nazionale e fare tabula rasa per cercare insieme agli altri nuove soluzioni».
Europa anno zero?
«Abbiamo l'opportunità di ricominciare da capo. Il nucleo originario di quest'Europa in macerie fu la comunità del carbone e dell'acciaio: l'Unione nasce come mercato comune, è costitutivamente economica. C'è della follia in questo».
Follia nell'aver rinviato la costruzione di un senso di appartenenza a un progetto comune?
«Sì, bisogna ripartire dalla cultura e dal sentimento comune, da un'unione politica ed emotiva. Purtroppo gli uomini non imparano dagli errori del passato e i cicli si ripetono, ce l'ha insegnato Eschilo, è la tragedia greca».

Corriere 11.6.12
Immigrazione clandestina anche nello Stato di Israele
risponde Sergio Romano


Mi piacerebbe avere più ragguagli sulla notizia apparsa sui giornali internazionali riguardante una legge del governo di Israele che ordina la partenza di 25 mila immigranti africani per ridurre l'immigrazione che «minaccia la natura eminentemente ebrea».
Alberto Poldi

Caro Poldi,
La legge è stata proposta durante i lavori di una commissione del Knesset (il Parlamento israeliano) da due deputati del partito Likud, Danny Danon e Miri Regev. Dovrebbe fissare il numero degli immigrati clandestini che il governo ha l'obbligo di espellere ogni mese e il primo ministro Benjamin Netanyahu sarebbe pronto a iniziare con l'espulsione di 10 mila sudanesi. Ma occorre attendere che la Corte suprema si pronunci sulla materia. Oggi le leggi vigenti consentono alle autorità israeliane di raccogliere i clandestini per tre anni in campi di custodia costruiti in prossimità delle frontiere. Ma per meglio controllare il fenomeno, il primo ministro ha promesso la costruzione lungo il confine israelo-egiziano di una rete d'acciaio alta 5 metri e lunga 240 km. Ha altresì aggiunto, tuttavia, che esistono convenzioni internazionali firmate dal Paese e che il governo deve rispettarle.
Gli immigrati clandestini in Israele sono circa 70 mila (più o meno l'1% della popolazione israeliana) e provengono soprattutto da due Paesi dell'Africa dove si combatte: il Sudan e l'Eritrea. Non è sempre facile, quindi, distinguere il migrante sociale che parte alla ricerca di un lavoro e colui che cerca di salvare se stesso e la propria famiglia fuggendo da un Paese dove i diritti civili sono minacciati da milizie combattenti o governi autoritari. Il fenomeno è diventato più grave dopo le rivolte arabe del 2011. Prima delle grandi dimostrazioni di piazza Tahrir, l'esercito egiziano era in grado di controllare il deserto del Sinai e la frontiera con Israele. Oggi ha altri compiti più pressanti e ha sguarnito un'area che è diventata per molti aspetti una terra di nessuno.
Come in Italia anche in Israele, l'immigrato clandestino suscita le reazioni ostili di una parte importante della popolazione, ma s'inserisce abbastanza facilmente nel mercato nero del lavoro e degli alloggi. Gli eritrei e i sudanesi si sono installati soprattutto nei quartieri meridionali di Tel Aviv, hanno trovato un impiego, sia pure precario e male retribuito, dividono una squallida stanza con altri compagni di sventura. A Gerusalemme, negli scorsi giorni, in uno di questi appartamenti, abitato da una decina di immigrati, è scoppiato un incendio, provocato probabilmente da chi ritiene che la loro presenza rappresenti una minaccia per lo Stato ebraico. È questa la ragione per cui lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, in un articolo pubblicato da La Stampa del 5 giugno, propone che per i lavori meno desiderabili, ma pur sempre necessari, vengano almeno impiegati i palestinesi della Striscia di Gaza. Questa decisione, sostiene Yehoshua, potrebbe dare un contributo alla normalizzazione dei rapporti con Gaza. Ma troverebbe probabilmente sulla sua strada l'opposizione degli stessi gruppi che chiedono una legge per l'espulsione dei clandestini africani.

La Stampa 11.6.12
Siria, un curdo eletto leader dell’opposizione
Svolta nel Cns: “Assad disperato, l’Onu usi la forza”
di Maurizio Molinari


Ma la Russia insiste per una conferenza internazionale coinvolgendo l’Iran
Il raiss perde consensi anche fra i cristiani che finora erano rimasti prudentemente neutrali

Il Consiglio nazionale siriano sceglie un curdo come leader lasciando intendere la volontà di staccare le minoranze etniche e religiose dal regime di Bashar Assad. La riunione del maggior organismo dell’opposizione siriana, svoltasi a Istanbul, ha indicato l’accademico Abdulbasset Sieda, 56 anni e residente in Svezia, al posto del dimissionario Burhan Ghalioun, criticato per i metodi autoritari e soprattutto sfidato dalla crescente influenza dei Fratelli musulmani. Subito dopo il voto,
Sieda ha detto che la dittatura di Assad «si regge sulle sue ultime gambe» appellandosi alle Nazioni Unite affinché «usi la forza per proteggere i civili dalla minaccia di annientamento». Da qui la richiesta a «Russia, Cina e Iran» di «meditare con attenzione il sostegno al regime perché la volatilità è tale da mettere a rischio non solo la regione ma il mondo interno». Rivolgendosi in particolare a Teheran, principale alleato militare di Assad, Sieda ha chiesto di «permettere che la situazione in Siria rispetti la volontà del popolo siriano» e dunque cessino le interferenze.
I riferimenti alle capitali più vicine a Damasco tendono a contrastare con il passo compiuto da Mosca, il cui ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha proposto a Washington di creare un gruppo di contatto sulla Siria, sul modello di quanto fatto nel 1995 per la Bosnia, includendovi anche l’Iran. Il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha respinto l’ipotesi e le parole di Sieda sostengono tale rifiuto.
Ciò che più conta nel cambio della guardia alla guida del Consiglio nazionale siriano è l’identità etnica del nuovo leader perché assegna ai curdi un ruolo di spicco negli equilibri politici in Siria. Fino a questo momento l’opposizione ha trovato largo sostegno nella maggioranza sunnita della popolazione mentre le minoranze hanno sostenuto il regime di Assad, che è alawita. I curdi, residenti in gran parte nelle regioni del Nord, compongono il 10 per cento della popolazione e sono dunque la minoranza più importante. Se finora hanno preferito non schierarsi nelle tensioni fra sunniti ed alawiti, la scommessa dell’opposizione sembra essere quella di spingerli a staccarsi da Assad, puntando in questa maniera a innescare un domino capace di convincere anche gli altri gruppi, dai circassi ai cristiani, a compiere scelte simili.
D’altra parte, un’inchiesta della tv «Nbc» ha testimoniato l’esistenza di primi segnali di dissenso fra gli stessi alawiti, che rimproverebbero ad Assad gravi errori nella gestione della crisi. La scelta strategica di puntare sulle minoranze per minare ciò che resta del potere di Assad venne per la prima volta suggerita da un intervento di Hillary, pronunciato il mese scorso con l’intento di indicare una soluzione capace di «evitare la guerra civile». Resta da vedere quali saranno gli equilibri fra Seida e il governo Ankara, che da sempre vede con sospetto il rafforzamento delle ruolo politico dei curdi negli Stati confinanti.

La Stampa 11.6.12
Polvere, black out e cantieri In Nepal transizione senza fine
L’ex regno è governato ora dai maoisti, nel caos Cina e India si contendono l’influenza
di Ilaria Maria Sala


Sono anni che non si riesce ad approvare la Costituzione e a novembre si torna a votare
In città manca spesso la luce e le strade non sono asfaltate nemmeno nelle vie della capitale
I cinesi continuano l’espansione ma il Paese vive in buona parte con gli aiuti economici dell’Onu

KATHMANDU La prima cosa che, letteralmente, salta agli occhi a Kathmandu, è la polvere. Centinaia di persone cercano almeno di non respirarla e indossano mascherine di cotone spesso, che poi nel corso della giornata cominciano a dare noia e vengono spostate, attaccate al mento come una strana barba fitta e corta. Ma la polvere non si lascia scoraggiare per così poco, si deposita sulle mascherine, sui vestiti, si intrufola fra i capelli e nelle borse, e rende beige tutti gli innumerevoli cani randagi della città, e anche i bambini che giocano per la strada. L’intera città è ricoperta di cantieri, che qui non sono quelli giganteschi ed ottimisti della Cina. Anzi, spesso distinguere fra cantieri e macerie è arduo, e l’uno può tramutarsi nell’altro senza che ci sia stato nulla di completato nel mezzo.
Dopo ormai 23 anni di cambiamento politico, guerriglia, riforme rimaste incompiute, e il passaggio da monarchia a repubblica (senza dimenticare la carneficina nella famiglia reale, quando uno dei possibili eredi al trono sterminò l’intera casata), fino ad arrivare all’attuale situazione di crisi permanente, quasi tutti quelli che sono passati dal potere sono tornati a casa con le tasche un po’ più gonfie, e ancora nessuno ha pensato ad asfaltare le strade della capitale. Quelle fuori dalla capitale, invece, o sono rese agibili da capitali cinesi (Pechino è molto incline ad aumentare il suo potere nel Paese), o non sono costruite affatto, e le strade del Nepal restano percorse da un’accozzaglia di mezzi a motore, pedoni, biciclette, mucche, capre, ed alcuni muli. Nei centri urbani, chi può acquista generatori elettrici, dato che la corrente non è garantita per tutta la giornata, i black out sono moneta quotidiana, e i fili dell’elettricità pendono sulle strade come matasse arruffate, di utilità incostante.
L’arrivo al potere dei maoisti, nel 2006, avvenne dopo una lunghissima e sanguinosa guerriglia che prese la capitale, e il Nepal tutto, per sfinimento, e molti, stanchi di guerra e di governi corrotti, si erano rassegnati pensando che chissà, dopo che tutto era fallito, non sarebbe potuto andare peggio. «Il Nepal sta attraversando una situazione politica ed economica molto difficile», dice Hari Juhang, attivista politico da molti anni, «al momento, siamo molto preoccupati per la nostra stessa esistenza».
A Patan, un’ex-capitale reale ora assorbita da Kathmandu, Bikash Shahi, che gestisce un piccolo negozio di tè, pesa le foglie fragranti per i clienti con attenzione, ma una conoscenza recente: «Prima lavoravo nei gioielli, e avevo un business che funzionava molto bene: esportavamo anche in Italia», racconta senza grande emozione nella voce, «ma i maoisti pretendevano troppi soldi, abbiamo smesso». Il business di famiglia si è così trasformato dai rubini al tè, un prodotto meno vistoso che non ha attirato ulteriori seccature, ma ha molto ridotto le ambizioni.
Il futuro resta incerto. Una lunga Assemblea Costituente non è riuscita ad approvare la Costituzione entro il tempo limite per ben quattro volte e il primo ministro Baburam Bhattarai, che aveva caldeggiato l’idea di una federazione lungo linee etniche (sancendo così un tribalismo non privo di pericoli) ha dichiarato che si andrà alle urne in novembre, ammesso che vengano risolti in tempo i problemi giuridici e amministrativi che renderebbero il voto impossibile. Le ultime settimane sono state caratterizzate da manifestazioni e scioperi frequentissimi, alcune proprio contro Bhattarai, preso di mira in particolare dai suoi compagni combattenti, che trovano che il potere gli abbia fatto perdere di vista la necessità di una «rivoluzione permanente». Ma la frammentazione politica sembra creare sempre nuovi schieramenti: «Abbiamo combattuto per la democrazia», commenta Juhang, «ma per adesso abbiamo solo molti partiti politici e non la democrazia».
Non che il Nepal sia a corto di chi lo vuole consigliare: stretto fra l’India e la Cina, che si contendono il Paese (Pechino, in particolare, per non lasciare che diventi una terra franca per i tibetani), e oggetto di mille progetti Onu per lo sviluppo, è al 149esimo posto nella scala dei Paesi sviluppati, ma deve il 3,4% del suo Pil agli aiuti internazionali. All’Hotel Summit, su una delle colline che circondano la città, si possono vedere le jeep del personale Onu e origliare i discorsi dei consiglieri della Banca Mondiale, ma tutta questa attività sembra produrre solo un’economia parallela, che continua a toccare poco e niente il resto della popolazione il cui reddito pro capite è di 490 dollari Usa all’anno. E sorprende quasi vedere come, in mezzo a questo polverone costante, sia reale che politico, le persone continuino a lavorare, a studiare e cercare di costruirsi un futuro migliore, dando prova di una pazienza difficile da concepire.

La Stampa 11.6.12
Cile, tensione al raduno dei nostalgici
L’omaggio a Pinochet finisce con feriti e arresti
di Paolo Manzo


È finita con violenti scontri, numerosi feriti e arresti la giornata dedicata alla memoria dell’ex dittatore Augusto Pinochet. Organizzata nella capitale Santiago, dove era in programma la visione di un documentario celebrativo su Pinochet nel teatro Caupolican, l’incontro di nostalgici della dittatura era già da giorni sulla bocca di tutti.
I parenti delle vittime si erano mobilitati chiedendo inutilmente alla giustizia di bloccare l’incontro ideato dall’Associazione 11 settembre, che prende il nome dalla data del colpo di Stato che nel 1973 portò al potere Pinochet e alla morte di Salvador Allende. Al documentario hanno invece assistito circa 4mila simpatizzanti tra cui il sindaco di Miami Tomás Regalado e il Lord inglese David Montgomery, in rappresentanza di Margaret Thatcher. Per il presidente dell’Associazione, Juan Gonzalez, un ex colonnello dell’esercito, l’obiettivo del documentario è stato «mostrare la verità al Cile» mentre per il nipote del dittatore, il quasi omonimo Augusto Pinochet Molina, addirittura «un atto per rendere onore alla storia». «Un’iniziativa politica del pinochetismo criminale più duro», invece per Lorena Pizarro, presidente dell’associazione «Familiari dei detenuti scomparsi».
Di certo c’è che fuori dal teatro ieri, sin dalla mattinata, gli scontri tra supporter ed oppositori della dittatura sono stati duri e che, per sedarli, le forze dell’ordine - tra cui 500 uomini dei corpi speciali hanno dovuto usare gas lacrimogeni e idranti. Così come è certo che i cileni torturati dal Pinochet furono almeno 37 mila, quelli assassinati dalla sua dittatura oltre 3 mila mentre decine di migliaia, per evitare la morte, dovettero lasciare il Cile.

Corriere 11.6.12
Ancora una strage di cristiani in Nigeria: la guerra di religione è un pretesto
di Marco Ventura


I feriti e i morti di un'altra domenica di sangue nelle chiese nigeriane ricordano che i cristiani sono un obbiettivo in molte parti dell'Africa e dell'Asia. I cristiani sono spesso un modello di fede universale integrata nella cultura locale, di libertà da antiche schiavitù e d'identità aperta e dinamica, di spinta allo sviluppo, di riconciliazione tra un passato coloniale da non dimenticare e un presente globale in cui rinegoziare una nuova collaborazione con il Nord del mondo.
I cristiani sono un obbiettivo perché ciò che accade loro fa rumore in Occidente. Perché colpendoli il terrorista spera di affascinare e intimidire la sua gente. Lo schema della guerra di religione, crede il fondamentalista omicida, massimizza il profitto: è un prodotto che vende bene tanto tra gli occidentali quanto in casa. Nel mondo globale, la guerra di religione è la strada più breve e più comoda. Una cortina fumogena al riparo della quale è possibile ogni traffico d'armi, ogni speculazione sulle risorse, ogni manovra di potere. Ogni assalto allo Stato e all'esercito. È questo il gioco degli assassini. Ce lo dice in faccia il leader di Boko Haram, il gruppo islamico colpevole degli attacchi di ieri. Abubakar Shekau propina la versione falsa di una Nigeria scientificamente divisa per religione in un Sud cristiano e in un Nord musulmano. E sfrutta lo schema: ammazziamo i cristiani perché i cristiani ammazzano noi.
A questo gioco bisogna opporsi. È l'invito che ha rivolto al popolo nigeriano e all'opinione pubblica mondiale John Onaiyekan, arcivescovo romano cattolico di Abuja. Boko Haram non rappresenta i musulmani nigeriani, ha dichiarato Onaiyekan sei mesi fa; in Nigeria non vi sono guerre di religione in corso, non esiste un Nord soltanto musulmano opposto a un Sud cristiano.
In larghe parti del Paese, musulmani e cristiani convivono nel lavoro, nelle scuole, persino nelle famiglie. Contro la violenza, ha gridato il vescovo ai media, c'è bisogno di analisi profonde, di una comprensione attenta dei moventi e dei contesti. Occorrono l'intelligenza e la forza dei veri credenti.
 
Repubblica 11.6.12
Sudan
Nella terra di nessuno si combatte per il petrolio

di Giampaolo Cadalanu


È la ricchezza del giacimento di Heglig, in arabo “dattero del deserto”, a spingere nuovamente alle armi il Nord e il Sud
Lo scontro rischia di provocare una crisi umanitaria. E intanto i colloqui di pace richiesti dall’Onu sono interrotti
TESCHWEEN (al fronte fra i due Sudan) Il fuoristrada Toyota del Sudan People Liberation Army frena in una nuvola di terra rossa e si ferma nello spiazzo fra il tank T-72 e le due batterie di lanciarazzi puntate verso nord. I mortai da 102 millimetri sono più indietro, fra le acacie, le mitragliatrici sono sparse ovunque, nascoste appena da qualche straccio. Le postazioni sono tutte qui: buche rotonde, larghe meno di due metri, per ripararsi dalle granate. Scarpe abbandonate, qualche brandina coperta di polvere, casse di munizioni, acqua arroventata dal sole, benzina, fagioli, lenticchie, e per il comandante il lusso di una tendina da campeggio. È il fronte di Teschween: a meno di un chilometro, oltre i cespugli spinosi della terra di nessuno, ci sono le forze di Khartum.
I soldati che scendono dal pianale del Land Cruiser sono almeno una quindicina, compreso il ragazzino in ciabatte infradito che si aggrappa con aria smarrita al suo kalashnikov. Ha 18 anni, garantisce il generale Abraham Jongroor Deng: «Tutti noi siamo pronti a difendere il nostro paese e quello che ci appartiene». Compreso il petrolio che sta sotto i nostri piedi, quellodelvicinoimpiantoGreater Nile Petroleum, all’interno del Sud Sudan, fermo da mesi, e quello dei pozzi di Heglig, appena pochi chilometri più a nord, in mano alle truppe di Omar al Bashir.
Sulla mimetica inamidata l’ufficiale esibisce la testa di un rinoceronte, simbolo della brigata Rhino. È lo stesso che campeggia nella bandiera gialla al di là dello stagno, l’ultima prima della terra di nessuno. Qui la pista sterrata finisce in un fossato, appena scavato dalle forze sudanesi per fermare eventuali sortite del Spla verso nord. Ma gli uomini della brigata Rhino sembrano tranquilli: «Possiamo riprenderci Heglig quando vogliamo».
“Dattero del deserto”, questo significa in arabo il nome del giacimento conteso. I sud-sudanesi lo avevano occupato dopo aver rintuzzato un attacco del nord, e hanno persino deciso di ribattezzarlo Panthou, usando cioè la stessa parola, ma in dialetto Dinka. Poi però la comunità internazionale ha fatto pressioni, chiedendo una ritirata immediata. I giornali africani raccontano di una telefonata durissima fra il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, e il presidente sud-sudanese, Salva Kiir Mayardit. Alla fine il governo di Juba ha preferito richiamare i soldati da Heglig e lasciare il giacimento. Così almeno raccontano la battaglia gli uomini dell’Spla: ovviamente la versione dell’altra parte è del tutto diversa. Kamal Marouf, capo delle forze armate di Khartum, racconta di aver costretto alla fuga i sud-sudanesi, che avrebbero lasciato sul campo 1200 morti. Se il Spla ha addirittura prodotto un Dvd dove compaiono le postazioni del nord abbandonate e i cadaveri degli “arabi” abbandonati al sole, il Nord invece ha invitato il corrispondente di un’agenzia stampa, che racconta di aver visto «alcuni corpi» di sud-sudanesi colpiti dall’aviazione del nord. Per ora nessuno è in grado di chiarire come sia andata in realtà.
Sulle ragioni invece non ci sono dubbi: è la ricchezza del sottosuolo che spinge alle armi. Persino sull’uniforme del generale James Gatluak, al comando dello stato di Unity, è ricamato un pozzo di estrazione: è la mostrina della divisione battezzata senza ironia “Petrol”. Gatluak non ha incertezze: «A nord di Heglig, nella zona di Karsana e Keliak, ci sono ancora i cippi di delimitazione della regione, messi dagli inglesi prima che il Sudan ottenesse l’indipendenza ». Come dire: il giacimento deve essere considerato patrimonio del sud, quale che sia l’indicazione geografica concordata ai tempi dell’accordo di pace del 2005. Quell’intesa aveva spianato la strada alla divisione del paese, sancita poi dai sudanesi del sud con un voto quasi unanime al referendum del gennaio 2011. Ma i confini non erano stati discussi fino in fondo, se all’inizio il prezioso “dattero del deserto” sembrava rimasto al regime di Khartum e ora invece compaiono nuove mappe che lo attribuiscono al Sud.
Non è una correzione da poco, perché i pozzi di Heglig pescano nel giacimento più grande dell’intero Sudan. Questo petrolio è prezioso soprattutto per la Cina, alleato fraterno del regime di Khartum ma in buoni rapporti anche con Juba. Ed è proprio Pechino che gli analisti indicano come possibile mediatore e forse persino come regista del conflitto. Lo scontro nasce dai diritti di transito del petrolio estratto a Sud sull’oleodotto del Nord,c onsiderati troppo pesanti dal governo di Juba. Ma per ora l’unica conduttura disponibile è quella controllata dal regime di Bashir: l’alternativa, che punta verso Est e arriva al porto di Mombasa, per ora è ancora in fase di progetto. Ed è proprio il ruolo cinese nella costruzione del nuovo oleodotto che Salva Kiir era andato a discutere a Pechino quando Khartum ha lanciato i bombardamenti aerei oltre confine. Almeno, queste sono le motivazioni ufficiali. C’è chi sostiene, però, che il presidente del Sud Sudan volesse accertarsi di godere dell’amicizia cinese. In altre parole, si può pensare che Bashir non avrebbe lanciato i bombardieri Mig e Antonov, annullando la prevista trattativa sui diritti di transito del greggio, se non dopo il via libera dell’alleato più potente.
Ma quale che siano le reali motivazioni geopolitiche, anche una guerra divampata solo a metà, come questa, rischia di diventare presto una catastrofe umanitaria. «I rifugiati sono già oltre trentamila », dice Davide Berruti, responsabile di Intersos, l’Ong italiana impegnata ad assistere le persone in fuga verso Sud. La crisi è aggravata dalle prospettive economiche: da gennaio il Sud Sudan ha smesso di estrarre il petrolio, che valeva il 98 per cento degli introiti di Stato. Nelle scorse settimane dagli uffici della Banca mondiale è filtrato un rapporto che definisce il governo di Juba «analfabeta finanziario» e lancia l’allarme: se la produzione nonriprende,ilSudSudanandràal fallimentoentropochimesi.Situazione complicata anche a Khartum, dove il ministro delle Finanze Ali Mahmud al-Rasul ha ricordato che il mancato accordo con il Sud è costato già 2,4 miliardi di dollari.
I colloqui di pace richiesti dall’Onu, sotto l’egida dell’Unione africana, sono interrotti: forse più che la diplomazia è la stagione delle piogge a fermare i combattenti. Ma a Bentiu, capoluogo dello stato di Unity, ci si fanno poche illusioni. «La guerra può ripartire da un momento all’altro», sottolinea il vicegovernatore Michael Chiangjiek. Vicino al ponte che collega Bentiu con Rubkona, strada essenziale per i rifornimenti e l’aeroporto, le tracce nere del bombardamento sono ancora evidenti. Gli ordigni dei Mig hanno mancato l’obiettivo principale, uccidendo un bambino fra le baracchette del mercato. Poco più in là, al comando dell’Spla, i militari ricordano con fierezza che la popolazione ha accettato il richiamo patriottico, sacrificando un decimo della busta paga per finanziare lo sforzo bellico. E compare l’orgoglio nazionalista del paese appena nato. Ricorda sorridente un sergente della brigata Rhino: «Sudan vuol dire terra dei neri, quindi che c’entrano gli arabi?». Dopo tutto, dicono i politici di Juba, la guerra civile con il Nord dura da decenni. Insomma: pensiamo a finire il nuovo oleodotto, la pace può attendere.

l’Unità 11.6.12
Scienza
Alle origini della civiltà
L’arte sofisticata dei sapiens? Nacque in Europa. Ecco perché
Nella cava di Geissenklösterle sono stati ritrovati flauti e perline che secondo l’inglese Highman sarebbero stati realizzati circa 42mila anni fa

La nuova datazione potrebbe riscrivere la nostra storia culturale
L’Homo sapiens e i Neandertal si sarebbero incontrati e reciprocamente contaminati
di Pietro Greco


IL TESORETTO È COSTITUITO DA OTTO FLAUTI IN OSSO O IN AVORIO, DA UNA SERIE DI PERLINE SCOLPITE A MANO, DA UNA SERIE DI STATUETTE CHE RAFFIGURANO CAVALLI E BISONTI, una che propone la figura di un essere metà uomo e metà leone, un’altra di una donna dalle curve piuttosto pronunciate. È stato rinvenuto anni fa nella cava di Geissenklö sterle, in Germania, ed è stato datato a 35.000 anni prima dei nostri giorni.
Ma nelle scorse settimane l’inglese Thomas Higham, dell’Università di Oxford, ha scritto con i suoi collaboratori un articolo sul Journal of Human Evolution in cui propone di anticipare la data della creazione di quegli oggetti di almeno 7.000 anni. Applicando la nuova tecnica dell’ultrafiltazione, di cui è grande esperto, e rimuovendone le sostanze contaminanti dei campioni contenenti carbonio radioattivo, Higham ha calcolato che quei flauti, quelle perline e tutti gli oggetti in miniatura sarebbero stati confezionati tra 43.000 e 42.000 anni fa.
Lo spostamento della data sembra avere un carattere meramente tecnico. Tale da appassionare solo qualche esperto di analisi al radiocarbonio. Invece rischia di riscrivere la storia culturale di Homo sapiens. La nostra storia.
Ecco perché.
Fino a qualche tempo fa tutto appariva chiaro e, soprattutto, senza problemi. L’uomo moderno era arrivato in Europa meno di 40 millenni or sono: esattamente 38.500 anni fa, puntualizzano João Zilhão, dell’università inglese di Bristol e Francesco D’Errico, dell’università francese di Bordeaux in France. Proveniva dal Medio Oriente ed era passato per il «corridoio del Danubio». Portava con sé una cultura artistica – plastica manifestazione di un pensiero sofisticato, astratto e simbolico – diffusa tra i sapiens sia in Africa sia in Asia. Le prime espressioni di questa tensione artistica (per esempio l’uso di perline ricavate da ossa di animali o da corni d’avorio) si erano manifestate in Africa molto tempo prima, circa 100.000 anni fa. Si erano poi evolute in maniera graduale e omogenea. Tant’è che circa 35.000 anni fa – all’epoca della vecchia datazione del tesoretto di Geissenklösterle – i sapiens di tutto il mondo in maniera sorprendentemente sincrona inaugurano l’inedita e meravigliosa stagione dell’arte rupestre.
TRACCE GENETICHE
Quando sono giunti in Europa i nostri antenati diretti hanno trovato i Neandertal. Anche loro sono capaci di creazioni artistiche. Ma meno sofisticate. L’arte dei Neandertal, pensavano gli antropologi, non ha nulla a che fare con l’arte dei sapiens provenienti dall’Africa e passati per il Medio Oriente. Forse anche in virtù delle loro superiori capacità cognitive i sapiens si stanziano in Europa, mentre i Neandertal rapidamente (e un po’ misteriosamente) si estinguono.
Bene, se Higham e i suoi collaboratori hanno ragione, questa storia deve essere completamente riscritta. Anche alla luce di due nuovi dati, emersi negli ultimi mesi. Da un lato il gruppo di Stefano Benazzi, dell’università di Vienna, ha dimostrato che la Grotta del Cavallo, giù in Puglia, era frequentata da Homo sapiens già 45.000 anni fa. I nostri antenati, dunque, sono giunti in Europa molto prima di quanto si credesse. Inoltre, come ha dimostrato il gruppo di Svante Pääbo, i sapiens si sono incrociati con i Neandertal. Alcune nostre antenate, in particolare, hanno partorito figli nati dal loro incontro con maschi neandertaliani. E oggi noi portiamo le deboli tracce genetiche di quegli incontri d’amore. Se ne ricava che in Europa i sapiens e i Neandertal si sono conosciuti e reciprocamente influenzati.
La nuova datazione degli oggetti di Geissenklösterle porta, dunque, molti antropologi a proporre una nuova storia culturale dei sapiens. L’arte sofisticata, quella che produrrà le splendide pitture rupestri, non è nata contemporaneamente in tutto il mondo, circa 35.000 anni fa, tra tutte le popolazioni dei sapiens, ma è nata in Europa, almeno 7.000 anni prima, e dal nostro continente si è poi diffusa in tutto il mondo.
Ma perché proprio in Europa?
Per due ragioni. La prima è che la densità demografica dei sapiens in Europa avrebbe immediatamente raggiunto e superato quella di altre parti del mondo e avrebbe creato una massa critica adatta allo sviluppo di un pensiero più complesso. La seconda ragione è che la cultura dei sapiens e quella dei Neandertal si sarebbero reciprocamente contaminate. Generando, sia per imitazione sia per competizione, un salto.
Sarebbe stato l’incontro ravvicinato con l’«altro», dunque, a creare le premesse per lo sviluppo della nostra civiltà. E l’Europa sarebbe stata il crogiolo di questa «contaminazione creativa».
Non sappiamo se questa narraione sia vera. Probabilmente occorrerà trovare nuove prove per corroborarla. Ma certo è evocativa. E in ogni caso dovrebbe insegnarci qualcosa.

Corriere 11.6.12
La democrazia totalitaria di Rousseau
Il modello dell'assemblea continua consegna il potere all'uomo forte
di Giuseppe Bedeschi


Un'esposizione nella sua Ginevra
Da venerdì, 15 giugno (vernissage giovedì 14, alle 18, con visita commentata) si inaugura al Musée d'Ethnographie di Ginevra la mostra «C'est de l'homme que j'ai à parler. Rousseau
et l'inégalité». Resterà aperta sino al 23 giugno 2013. In esposizione disegni, incisioni, maschere, vestiti, fotografie e libri che ricordano il filosofo del «Contratto sociale», nato a Ginevra il 28 giugno 1712 e morto a Ermenonville il 2 luglio 1778.

In Italia l'interesse per il pensiero politico di Rousseau è sorto abbastanza tardi. Chi consulti un repertorio bibliografico troverà ben poco sul grande ginevrino, in lingua italiana, nella prima metà del Novecento: un libro di Solazzi sulle Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, del 1907; un saggio di Del Vecchio Sui caratteri fondamentali della teoria politica del Rousseau, apparso su una rivista nel 1912; una monografia di Sciacky (Il problema dello Stato nel pensiero di Rousseau) del 1948 e una di Saloni (Rousseau) del 1949. A ciò si possono aggiungere il breve profilo che Gaetano Salvemini dedicò a Rousseau nel suo libro su La Rivoluzione francese (1905) e le poche pagine di Benedetto Croce sul ginevrino negli Elementi di politica (1924). Veramente poco, dunque, rispetto agli studi apparsi in quel periodo non solo in Francia, come è ovvio, ma anche in Inghilterra (con opere come quella di Cobban) e in Germania (è del 1932 il fondamentale saggio di Cassirer, Das Problem J.-J. Rousseau).
In realtà, un interesse profondo per Rousseau è sorto in Italia solo nella seconda metà del Novecento, con il diffondersi impetuoso del marxismo. Il filosofo che avviò la rivalutazione marxista del ginevrino fu Galvano Della Volpe, seguito dai suoi allievi (Umberto Cerroni e Lucio Colletti). Nel 1957 Della Volpe pubblicò un libro che ebbe un buon successo (ne uscirono varie edizioni): Rousseau e Marx. In quest'opera Della Volpe vedeva in Rousseau il pensatore che aveva distrutto il quadro teorico del liberalismo (in quanto aveva rifiutato la democrazia rappresentativa o delegata e aveva rivendicato una democrazia diretta) e che aveva posto l'esigenza di una società nuova, incardinata non più sull'«astratto diritto borghese», bensì sul riconoscimento sia dei bisogni sia dei talenti degli individui.
Portando avanti questo filone interpretativo, Umberto Cerroni (nel suo Marx e il diritto moderno, 1962) attribuiva a Rousseau il merito di avere avviato la crisi della dottrina dei diritti naturali, potenziandone la componente più strettamente politica e risolvendo il Giusnaturalismo non già nel «garantismo» dei diritti individuali, bensì nella creazione di una comunità politica tendenzialmente egualitaria, coesa e organica.
Ma il saggio che doveva dare la più vigorosa interpretazione marxista di Rousseau fu quello che Colletti pubblicò nel 1968 (e che ebbe larghissima diffusione): Rousseau critico della «società civile». Qui Colletti sosteneva che i concetti centrali della concezione politica di Marx erano già stati svolti dal ginevrino. Infatti Rousseau non solo aveva invalidato l'idea cristiana della «caduta», del peccato originale, ma aveva mostrato che l'uomo, originariamente buono, era stato guastato dall'iniqua organizzazione della società e che quindi il problema della rigenerazione dell'uomo veniva a coincidere con il problema della rigenerazione della società. Secondo Colletti, il ginevrino aveva dato un formidabile contributo alla teoria politica socialista, con la sua percezione precisa del fatto che la società borghese moderna è fondata sulla concorrenza, sulla opposizione e sul contrasto degli interessi e che dunque in essa i rapporti sociali sono in fondo rapporti a-sociali; con la sua concezione dello Stato come di uno strumento costruito dai ricchi a difesa dei loro privilegi; con il suo rifiuto dei cardini dello Stato liberale borghese: la divisione dei poteri, la rappresentanza (poiché la «volontà generale» è inalienabile, dunque non è delegabile, e il popolo deve esercitare direttamente la propria sovranità).
Perciò nel quadro tracciato da Rousseau (sottolineava Colletti), il vecchio Stato doveva essere distrutto e si doveva costruire una società nuova, o piuttosto una comunità, profondamente solidale, coesa e organica, la quale doveva autogovernarsi attraverso l'esercizio della democrazia diretta o assembleare, come nelle antiche poleis greche a reggimento democratico. (È certo singolare che Colletti non ricordasse una significativa ammissione di Rousseau: che la democrazia diretta poteva essere realizzata solo nei piccoli Stati, non nei grandi: una ammissione che riduceva di molto l'applicabilità della sua teoria, come sottolineò Paolo Rossi in un suo saggio introduttivo agli scritti roussoviani pubblicati da Sansoni nel 1972).
Naturalmente, restavano fuori dal quadro tracciato da questi studiosi marxisti le considerazioni che, a proposito di Rousseau, erano state formulate dal pensiero democratico-liberale italiano. Nel suo libro La Rivoluzione francese 1788-1792 Salvemini, tracciando un ritratto del ginevrino, aveva parlato di «infiltrazioni totalitarie» e aveva criticato la sua idea di una «società perfetta» e di una «unanimità infallibile». Alla teoria roussoviana Salvemini contrapponeva l'idea di una democrazia in cui «la maggioranza abbia il diritto di governare ma abbia il dovere di rispettare nella minoranza il diritto di critica e quello di diventare alla sua volta maggioranza».
Era un punto, questo, sul quale insisté molto Luigi Einaudi. In un discorso su Rousseau pronunciato all'Università di Basilea nel 1956 (poi raccolto nelle Prediche inutili), egli sottolineò diversi aspetti inquietanti dell'idea roussoviana di «volontà generale». Einaudi ricordava che nel Contratto sociale si legge che il popolo è «una moltitudine cieca, la quale spesso non sa ciò che vuole, perché raramente conosce quel che è bene per lei». E affinché la «volontà generale» possa affermarsi occorrono, secondo il ginevrino, due condizioni: che non ci siano partiti ad alterare il giudizio dei singoli (poiché i partiti sono veicoli di interessi particolari e non generali) e che ci sia una guida (il famoso «legislatore», sul tipo di Licurgo) che educhi profondamente gli uomini, che trasformi la loro natura, che adegui la loro volontà alla ragione. Solo in questo modo i cittadini riuniti sono in grado di esprimere la «volontà generale». E chi dissente da essa deve piegarvisi, deve ammettere di essersi sbagliato, deve riconoscere la Verità. Dunque, osservò Einaudi, in questa concezione il cittadino che dissenta dalla maggioranza non ha il diritto di propugnare le proprie opinioni e quindi non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e di modificare le leggi. In questo modo però, diceva Einaudi, Rousseau ha teorizzato uno Stato totalitario, con conseguenze esiziali: «Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano: ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare».
Questo appassionato dibattito su Rousseau è vivo ancora oggi. A trecento anni dalla nascita del grande ginevrino, il suo pensiero continua a dividere le menti nella perenne discussione sui principi e sulle regole della democrazia.

Corriere 11.6.12
Difendere l'Insegnamento del latino non è una battaglia di retroguardia
di Luciano Canfora


Sembra di retroguardia la «battaglia del latino». E invece non lo è affatto: tutti i rami del sapere hanno pari dignità. Solo i parvenus pensano che scienze cosiddette dure più lingua inglese bastino a formare cittadini consapevoli e ceti dirigenti capaci di pensare. Potremmo osservare che nella lontana Cina è appena terminata la stampa dell'edizione bilingue (latino e cinese) del Corpus iuris giustinianeo. La Cina infatti, volendosi dotare di un apparato giuridico moderno e organicamente strutturato, ha preferito il diritto romano al «Common Law» anglosassone. Solo agli ignoranti notizie di questo genere non fanno impressione.
Il balbettío che anni addietro inneggiava alle «tre i» non porta lontano: semmai abbrutisce. Archivi e biblioteche d'Europa (e degli Usa in quanto approdo di ingenti materiali bibliografici di pregio trasmigrati nel tempo, in varie guise, dall'Europa) pullulano di testi, manoscritti e a stampa, in latino e anche in greco o bilingui. Un bel problema per bibliotecari e archivisti. Chi, tra qualche decennio, saprà decifrare almeno il frontespizio di una cinquecentina o di una secentina o intendere il contenuto di un documento della cancelleria papale, la volta che latino e greco saranno scomparsi dal corso di studi?
Il 12-14 aprile scorsi si è svolto a Torino un importante convegno promosso dal Miur e dal Liceo Internazionale di Ivrea (diretto da Ugo Cardinale) sullo stato di salute delle lingue classiche nelle scuole d'Europa. Gli atti appariranno presto presso il Mulino. Hanno parlato autorevoli docenti di Spagna, Francia, Belgio, Germania, Inghilterra, Finlandia, Russia, Grecia, Ungheria e Italia. È risultato che l'unico Paese dove il curriculum liceale comporta, non ridotto a capricciosa opzione, lo studio di latino e greco è l'Italia. Da noi però già qualcuno vuol buttare fuori il latino dal liceo scientifico: una vera volgarità, degna delle menti che partorirono, per l'università, l'infame tre + due, ormai riconosciuto da tutti come una tragica buffonata. Ben vengano dunque gli appelli francesi di cui ha detto ieri Avvenire. Possono giovare a noi: difficilmente produrranno un ripristino, in Francia o altrove, della completezza formativa di cui la conoscenza delle lingue e civiltà antiche è parte necessaria.

Repubblica 11.6.12
Ecco la magica via di luce così Augusto in 13 minuti si trasformava in un dio
Scoperto il sentiero sacro dal Pantheon al suo mausoleo
di Carlo Alberto Bucci


ROMA — Gaio come il nome che gli aveva dato Cesare quando lo adottò, elegante come la statuaria imperiale l’ha tramandato quale padre della Pax romana, Ottaviano Augusto si fa circonfondere dal raggio di sole che entra a mezzogiorno dal cerchio aperto nella cupola del Pantheon. È il giorno del suo compleanno e, seguendo idealmente la scia luminosa, il principe percorre in 13 minuti netti i 750 metri che lo portano al suo Mausoleo. Giusto in tempo per assistere all’ingresso del sole nella tomba di famiglia lungo il percorso che dalla terra porta al cielo. «Ossia ai 44,4 metri di altezza del Mausoleo dove era collocata — spiega Paola Virgili — la statua dell’imperatore al sommo di un’ascensione iniziata con l’apoteosi di Romolo proprio nel punto dove Augusto fece poi costruire il Pantheon in Campo Marzio».
Solidi scavi e misurazioni dei reperti trovati, più un pizzico di suggestione astrologica tenuta prudentemente a freno in vista di studi successivi, sono alla base della nuova ipotesi dell’archeologa romana che ha scavato e indagato per anni i resti del Mausoleo fatto erigere da Augusto di ritorno dalla conquista dell’Egitto nel 29 a.C. E che ora si appresta a pubblicare il suo lavoro mettendolo però in relazione con gli scavi da lei eseguiti davanti all’altro monumento fatto erigere nel 27 in Campo Marzio da Augusto insieme con suo genero Agrippa, il celeberrimo Pantheon.
Era il 1995 quando Virgili, allora alle dipendenze della Sovrintendenza comunale, poteva scendere sotto il livello di calpestio della piazza del Pantheon e trovare 11 gradini di due scale che portavano al Pantheon di Augusto, prima che nel 118 il suo successore Adriano lo ricostruisse integralmente. «Ho dimostrato che anche il tempio di Augusto si apriva verso Nord, in direzione del Mausoleo, e non in quella opposta. E sono convinta che la celebre “rotonda” fosse già nell’edificio augusteo».
La posizione e la forma del Pantheon sono fondamentali per questa ipotesi. E la critica è divisa. Alcuni studiosi continuano a ritenere che il tempio di Augusto fosse invece di pianta rettangolare e aperto verso sud. L’idea della cupola col foro di luce al centro è funzionale all’idea di un rito solare compiuto da Augusto nel passaggio dal Pantheon al Mausoleo, dalla vita terrena a quella eterna. Spiega Virgili: «Il 23 settembre, giorno del suo compleanno, alle 12.13 il sole entra dall’omphalos e disegna un cerchio di luce sulla porta del tempio. Io mi sono fatta questo film, ossia che Augusto in quel momento iniziasse un percorso lungo il mezzo miglio romano che distanziava i due monumenti. Sono 750 metri da percorrere camminando in 13 minuti. Perché passato quel lasso di tempo il sole entra nella porta che conduce al centro del Mausoleo».
Oggi, sepolta sotto metri di terra e interrotta da case e chiese barocche, quella strada di luce è indicata, sostiene la studiosa, dai resti delle piazze che Augusto fece costruire dai suoi architetti davanti ai due monumenti e che i suoi successori coprirono con altri piani di calpestio mantenendone però l’orientamento. «Le pietre delle piazze indicano una direzione che è fuori asse rispetto all’ingresso dei rispettivi edifici. Perché questo disassamento? mi sono sempre chiesta. Poi ho capito: le due piazze sono in asse tra di loro, e sono i punti di partenza e di arrivo di una strada che le collegava. Anche gli obelischi di età flavia/ adrianea sono ortogonali a tale asse».
Nella stesso ampio, e allora vuoto, Campo Marzio, Augusto fece del resto erigere una gigantesca Meridiana che, con l’obelisco oggi a piazza Montecitorio, segnava le stagioni e i giorni del suo impero. E il 23 settembre, equinozio d’autunno, giorno del suo compleanno da condividere niente di meno che con Romolo, l’obelisco disegnava un’ombra lunga che andava a toccare proprio la testa del leggendario gemello fondatore dell’Urbe. «Siamo dentro un complesso piano urbanistico e simbolico in un discorso fatto di corpi di fabbrica e di scultura, di immagini che parlavano al popolo più e meglio dei testi scritti» sottolinea l’archeologa.
Con l’architetto Alberto Mancini, Virgili ha realizzato la tavola con la ricostruzione del
Mausoleum Augustiper i due volumi dell’Atlante di Roma di Andrea Carandini in libreria da domani (Electa). Rispetto alle altre ipotesi ricostruttive del sepolcro, quella di Paola Virgili proietta nel 3D la misurazione di tutti gli elementi superstiti rimasti attaccati al nucleo originario del monumento dopo secoli di spoliazioni, crolli, superfetazioni e demolizioni. E propone un disegno che si impone per un monumentale muro di cinta più alto di quanto si pensasse, superato il quale si entrava in una catena di anelli concentrici: per tre corridoi anulari, e non due come precedentemente si credeva, coperti da volte non fatte di leggero calcestruzzo ma di candido travertino («in nessun altro edificio romano a noi noto esiste qualcosa di simile», spiega Virgili). Materiali sempre più preziosi mano a mano che si arrivava verso il nucleo centrale del monumento di famiglia. In un’ascesa lungo le scale elicoidali che contornavano il pilastro centrale portando all’urna con le ceneri del principe. E in cima, «come fosse una colonna coclide», la statua dell’imperatore. Bello come il sole.

l’Unità 11.6.12
Deficit dell’attenzione e iperattività: tre storie
Il lungometraggio di Stella Savino intreccia le vicende di Adhd Rush, Hour, affetti da una patologia di cui si sa ancora poco
di Cristiana Pulcinelli


ARMANDO HA 19 ANNI E VIVE A ROMA. ZACHE NE HA DIECI E VIVE A MIAMI. LINDSAY VIVE A NEW YORK E HA 21 ANNI. TUTTI E TRE HANNO AVUTO UNA DIAGNOSI DI ADHD, il deficit dell’attenzione e iperattività. Tutti e tre sono in cura farmacologica.
Per un’ora e mezza le loro storie si intrecciano in Adhd, Rush Hour, un lungometraggio di Stella Savino, giovane regista napoletana, girato con la consulenza scientifica di Stefano Canali, docente di Storia delle neuroscienze, e presentato in anteprima al Bari Film Festival.
Savino ci porta nel mondo dei pazienti: Armando racconta la sua paura di soffrire di uno sdoppiamento della personalità quando assume il farmaco, sua madre spiega orgogliosa come le prestazioni scolastiche di suo figlio siano migliorate da quando decise di andare in Svizzera per acquistare i farmaci evitando di entrare nel registro italiano. La mamma di Zache piange ricordando quando le mastre della materna le dissero che suo figlio non sarebbe potuto più andare a scuola se non lo avessero fatto curare. Ma nel film parlano anche i pediatri, gli storici della medicina, i neurologi e i sociologi.
UNA COMUNITÀ DIVISA
Quello che emerge è che ancora non si sa cosa sia veramente l’Adhd. Da più di 50 anni la comunità scientifica si divide su questa patologia. La diagnosi di Adhd viene fatta in base ad alcune espressioni comportamentali: il bambino non sta fermo, non riesce a stare seduto sulla sua sedia, giocherella con le mani e i piedi, corre, si arrampica, ha difficoltà a giocare, è distratto, parla troppo, non riesce a stare in silenzio, quando gli si parla sembra non ascoltare, ha difficoltà ad aspettare il proprio turno, interrompe o si intromette nelle comunicazioni con gli altri... La cura? Due farmaci sopratutto: atomoxetina (nome commerciale Strattera) e metilfenidato (nome commerciale Ritalin, Concerta). Due farmaci che possono avere gravi effetti collaterali. A seconda del paese in cui si vive, la probabilità di vederseli prescrivere è più alta o più bassa.
Negli Stati Uniti l’uso è molto diffuso, di pari passo con la diagnosi di Adhd che viene fatta anche a bambini di appena un anno. Un dato che preoccupa anche l’Onu che «invita le nazioni a valutare la possibile sovrastima dell’Adhd e a frenare l’uso eccessivo del metilfenidato».
Il film, girato tra Italia, Stati Uniti, Svezia e Inghilterra, fa emergere i dubbi e le perplessità, le speranze e le paure che ruotano intorno a una diagnosi ancora poco chiara. Adhd, Rush Hour è prodotto da Pmi e distribuito da Microcinema.

Repubblica 11.6.12
Bologna 14-17 giugno
Dagli studi sul Dna una rivoluzione sentimentale e politica
Vi racconto l’uomo che verrà più buono grazie alla nanoscienza
di Umberto Veronesi


LA SCIENZA trasformerà il futuro e la vita dell’uomo, lo ha sempre fatto e lo farà ancora di più. Le religioni resisteranno, ma è la scienza che traccia la via del domani e ne detta l’agenda: le evoluzioni sociali e intellettuali che vivremo, avranno origine da un progresso scientifico. Da bambino ho vissuto il passaggio dall’illuminazione a gas a quella elettrica.
E HO visto il modello familiare e sociale trasformarsi drasticamente. Da adulto ho vissuto la nascita e l’esplosione dell’era digitale, che ha ancora più radicalmente cambiato i rapporti fra uomini e fra uomo e ambiente. Ora siamo nell’era del Dna: non solo abbiamo decodificato il mistero della vita, ma stiamo imparando a riprodurlo.
Già più di dieci anni fa Michel Houellebeck nel suo libro Le particelle elementari (che Oskar Roheler ha trasformato in un bel film) raccontava di un biologo che era riuscito a ricostruire artificialmente il Dna umano in laboratorio, precipitandoci nella riflessione cruciale di come l’umanità saprà utilizzare questo straordinario progresso. E la verità è che ancora oggi siamo per lo più spiazzati eticamente e giuridicamente. Ma non ci possiamo sottrarre a questa prova, perché se qualcosa è scientificamente ipotizzabile, prima o poi qualcuno la realizzerà. L’incertezza è soltanto quando e come, e la sfida è fare in modo che sia realizzata a puro vantaggio dell’uomo. Gli scienziati sono ottimisti perché la scienza ha costantemente migliorato la nostra vita, sin dai tempi della sua nascita, quando la divisione delle proprietà terriere tra agricoltori, per aumentare la produzione di cibo, ha dato origine alla geometria.
Scrive Nicholas Negroponte, uno dei maggiori innovatori del nostro tempo: «Il mio ottimismo non è alimentato da un’anticipazione su nuove scoperte o invenzioni. Trovare una cura per il cancro o l’Aids, scoprire un modo accettabile per controllare la crescita della popolazione, inventare una macchina che respiri la nostra aria e beva l’acqua dei nostri oceani restituendole purificate, sono sogni che possono avverarsi oppure no. Non occorre aspettare nessuna invenzione ». L’orizzonte più vicino è segnato dalla nanoscienza, che ci permette di ricostruire il nostro mondo nella dimensione del nanometro, un milionesimo di millimetro, la dimensione della natura. Presto potremo avere nuove forme di cattura dell’energia solare con circuiti nanometrici fotovoltaici mischiati alle vernici delle case, avremo microspie diffuse negli ambienti con uno spray, disporremo dei respirociti, microorganuli iniettabili nel sangue, che assorbono enormi quantità di ossigeno, tanto che con un’iniezione di respirociti potremo correre per tre ore senza respirare. L’impatto sociale della nanoscienza sarà enorme: intellettuale, educativo, artistico, sentimentale, passionale, politico. Ma la società nanoscientifica sarà una società migliore.

Repubblica 11.6.12
Facebook. La crisi del settimo anno
Dal flop di Wall Street alla fuga degli “amici”: sei milioni solo negli Usa
Facebook, un amore al tramonto arriva la crisi del settimo anno
di Angelo Aquaro

Il titolo perde in Borsa, gli “amici” lasciano, la pubblicità non cresce. Il social network più celebre è in difficoltà. Ma è ancora leader
La pubblicità non decolla e la rivalità di Google è sempre più forte.
Le azioni hanno perso il 30% Sei milioni di americani sono usciti dal sito. C’è chi si chiede se è iniziato il declino di Facebook.

La crisi di Facebook arrivò, come in tutte le storie d’amore che si rispettino, con il fatidico settimo anno. Prima ancora del flop di Wall Street. Prima ancora degli impietosi racconti di Mark “Tirchio” Zuckerberg che non riusciva a farsi amico più neppure un cameriere: lasciandogli di mancia, in viaggio di nozze pochi giorni fa a Roma, quella cifra che pericolosamente riecheggia il margine di profitto dell’ex social network delle meraviglie — zero. La crisi di Facebook arrivò, come in tutti i disastri che si rispettino, tra gli allarmi inascoltati dai soliti furbetti, capitanati dai banchieri senza scrupoli che da Goldman Sachs a Morgan Stanley pregustavano già il 2.2 per cento che avrebbero portato a casa sulla “quotazione del secolo”. La crisi di Facebook arrivò, come in tutti i gialli che si rispettino, con quell’indizio nascosto così bene da essere sotto gli occhi di tutti, secondo quella lunghissima tradizione che dalla Lettera rubata di Edgar Allan Poe rivive appunto in un articolo sbandierato su una rivista non proprio sconosciuta, Forbes, e intitolato senza possibilità di equivoco alcuno: “La fine di Facebook”. Anche la data è da brivido: 15 giugno 2011. Esattamente un anno fa.
D’accordo, adesso che il valore delle azioni del social network è crollato da 42 a 25 dollari, a quasi un mese dal disgraziato debutto al Nasdaq, 18 maggio, siamo tutti bravi a parlare di crisi. Ma a Tim Warstall, lo studioso dell’AdamSmithInstitutedi Londra, bastò una semplice riflessione per predire un anno fa la fine. E che cosa notò il buon Tim? Che per la prima volta nella storia del social forum sempre più gente sceglieva di uscirne: sei milioni solo negli Stati Uniti, quasi un milione in Inghilterra. «Facebook continua ancora a crescere in pagine visitate e numero degli utenti. Ma come dimostrano i nuovi dati, sembra che ci sia una sorte di limite a questa crescita: e i limiti non sono il numero delle persone del pianeta o il numero delle ore che possiamo dedicarci al giorno». Il limite, spiegava, è dato dal fatto che esiste gente che Facebook «l’ha usato, l’ha provato e ha concluso: uhm, grazie no, non fa per me. E questo è proprio quello che Facebook, Mark Zuckerberg e i vari azionisti non vorrebbero che si scoprisse alla viglia della quotazione».
Un anno dopo, la profezia di Forbes
risuona ancora come una campana a morto. Ma davvero la crisi del sogno nato otto anni fa in un dormitorio di Harvard rischia di essere irreversibile? Aveva davvero ragione Ben Mezrich, l’autore del libro che fu trasformato in un film da Oscar, The Social Network, a intitolare “Miliardari per caso” la sua inchiesta? E come ritorna ancora più attuale, oggi, quel sottotitolo: “La fondazione di Facebook. Un racconto di sesso, denaro, genio e tradimento”. Dove all’alba del 2012, al tradimento da Ben attribuito a Zuckerberg — la “truffa” a quei Gemelli Winklevoss che gli avevano chiesto di costruire un software che raggruppasse gli studenti dell’università — andrebbe aggiunto il tradimento degli amici di tutto il mondo: magari attratti dai social network contendenti.
Intendiamoci: il Faceflop in Borsa ha una natura prettamente tecnico-finanziaria. Sì, c’è stato l’incredibile guasto al software del Nasdaq, la piattaforma che aveva rubato quell’Ipo, Initial Public Offering, ai rivali del New York Stock Exchange di Wall Street. Per più di
mezz’oralaborsatecnologicanon è riuscita a quotare correttamente l’azione: e l’incognita ha creato panico tra gli operatori che non sapevano più quanto stavano pagando quel titolo impazzito. Risultato: centinaia di milioni di danni presentati dagli investitori, in testa il colosso svizzero Ubs che reclama perdite per 350 milioni di dollari — e adesso ha addirittura denunciato il Nasdaq.
Ma al di là del guasto c’è appunto il giudizio del mercato. I 40 dollari di azione avrebbero significato per Facebook una quotazione da 100 miliardi di dollari: la metà di Google, un quarto di Apple. Ma Google, per esempio, ha un giro d’affari di 40 miliardi, e profitti che sono esattamente di un decimo. Mentre Facebook ha un giro d’affari mica della metà, ma di neppure un decimo di Google: 3,7 miliardi. E i profitti, beh, sui profitti si discute ancora, con quel miliardo sbandierato e poi in tutta fretta subito ammainato tra le cattive notizie: gli introiti in caduta della pubblicità sui telefonini, le spese sostenute per rispondere a Yahoo che l’accusa di furto di brevetti, la scoperta che quasi un quarto dei ricavi arrivano dal social game Zynga, che minaccia un giorno sì e uno no di andare in proprio... E al peggio sembra non esserci fine. Il Wall Street Journal proprio ieri ha calcolato che la figuraccia in Borsa ha provocato il fuggi fuggi delle altre compagnie hi-tech pronte a quotarsi: dando vita al più lungo periodo di astinenza da Ipo — finora 3 settimane — mai visto a Wall Street negli ultimi anni.
La crisi di Facebook sembra però travalicare il solo, si fa per dire, disastro finanziario che ha fatto perdere al titolo in venti giorni il 30percentodelvalore:conunavelocità inversamente proporzionale a quella che in meno di un anno l’aveva portato a collezionare da 700 milioni a 901 milioni di utenti in tutto il mondo. Il punto è unaltro:davvero,comeavevapro-
fetizzato un anno fa Forbes, è proprio la febbre da social forum a non bruciare più?
Qui per la verità gli esperti di si dividono: mai come oggi, in realtà, il social è di moda. Il fatto è che non si vive (più) di solo Facebook. E non soltanto perché in campo è sceso proprio un gigante come Google nel timore che la creatura di Zuckerberg diventi per il web quello che il motore di ricerca è stato negli ultimi dieci anni: il più grande collettore di pubblicità. Ok, i numeri al momento sono incomparabili: il social network di Big G ha da poco superato la soglia dei 100 milioni di utenti contro il miliardo a portata di click per la compagniadiMenloPark.Maèl’idea che c’è dietro a potersi rivelare, alla lunga, vincente: il social network a fasce concentriche. Contro il mare magnum di Facebook, Google Plus propone circoli più o meno grandi che raccolgono di volta in volta solo amici, solo parenti, solo colleghi e via di seguito. È la stessa filosofia insomma che sostiene il proliferare dei cosiddetti private network: da FamilyLeaf a Pair. Cioè piattaforme che come i nomi stessi suggeriscono sonoriservateall’usodeisolifamigliari o — incredibile ma vero — della sola coppia. Antisocial network: il futuro passa da qui?
Come se non bastasse, a tirare le orecchie al povero ma mica tanto Zuckerberg, che col flop in Borsa ha visto scendere la sua fortuna daglioltre20apocomenodi15miliardi di dollari, ci s’è messo pure un osservatore acuto come Thomas Friedman. Il giornalista più ascoltato da Barack Obama ha alzato il velo sull’ennessimo flop: avete notato, ha osservato dalla sua tribuna sul New York Times, come tutti gli entusiasmi che il social forum aveva suscitato durante l’Arab Spring si siano affievoliti di fronte all’incapacità di contrastare il deficit di democrazia seguito alla rivolta? Una riflessione riassunta da quella domanda che ora campeggia come l’ultima condanna: che fine ha fatto la rivoluzione di Facebook?
Per carità. Nessuno si sogna, adesso, di addossare a un ventottenne smanettone chiamato Mark Zuckerberg, svernato nella provincia di New York e poi finito fuoricorso ad Harvard, perfino le sorti della democrazia mondiale. Ma se ogni crisi — come la teoria della complessità insegna — altro non è che una concentrazione di problemi, non c’è dubbio che Facebook stia attraversando un periodo di crisi. Solo passeggera?
«Credetemi: in tre, cinque anni Facebook sembrerà un altro mondo» giura a Repubblica David Kirkpatrick, il più accreditato studioso in materia, l’autore di Facebook, la storia:
«Internet evolve continuamente, i sistemi sono sempre più fluidi: e magari tra qualche anno non lo chiameremo più neppure social forum». Ma crisi o non crisi c’è un punto fondamentale che non dovremmo dimenticare: «Facebook è ormai un mezzo di comunicazione a tutto tondo: e probabilmente solo il sorgere di un altro mezzo di comunicazione potrà soppiantarlo. Voi ne vedete all’orizzonte qualcuno?».
Sì, la fine di Facebook arrivò, come in tutte le storie d’amore che si rispettino, con il settimo anno. Ma un anno dopo, un miliardo di amici sono ancora pronti a dirsi “mi piace”.

Repubblica 11.6.12
L’annuncio al Festival di Pietrasanta
A settembre il Meridiano di Scalfari


LUCCA — Si intitolerà La passione dell’etica e uscirà a settembre il Meridiano Mondadori di Eugenio Scalfari con 100 pagine di autobiografia e una raccolta di 86 fra articoli e interviste tra cui quelle a Federico Fellini e a Enrico Berlinguer. L’annuncio è stato dato dallo stesso fondatore di Repubblica ieri, al Festival Anteprime di Pietrasanta, in uno degli incontri più seguiti della rassegna organizzata dal comune della città con le case editrici Einaudi, Electa, Frassinelli, Mondadori, Piemme e Sperling & Kupfer. «Mi sento più filosofo e poeta che letterato» ha detto Scalfari. E, a proposito della sua storica intervista a Berlinguer sulla questione morale, ha ribadito che «ci sono troppi partiti nelle istituzioni » e che «abbiamo avuto a che fare con un grande bugiardo fino a poco tempo fa».