venerdì 15 giugno 2012

l’Unità 15.6.12
Etica e politica
Vita, persona e unioni civili: il Pd discute sul documento
Riconoscimento delle coppie gay, no all’eutanasia politiche per la famiglia
Sul testo dissensi nel comitato
Pluralismo, libertà di cura, unioni civili
Ecco i passaggi fondamentali del testo licenziato ieri dalla Commissione Diritti del Partito democratico, guidata da Rosy Bindi
«L’integrità della persona deve essere rispettata anche quando essa non possa esprimersi»
«L’ultima parola sui trattamenti sanitari e sulla loro prosecuzione è di chi li sopporta»
Più forte sostegno alla famiglia e nuove garanzie per i diritti delle coppie omosessuali


Oggi è impossibile riflettere sul tema dei diritti personali senza tener conto del dato più dirompente che segna il nostro tempo: il vertiginoso aumento di potenza nelle mani dell’essere umano grazie alla rivoluzione tecnologica esplosa negli ultimi decenni. Oggi la nuova potenza della tecnica sta mettendo sempre più in crisi la distinzione tra «naturale» e «artificiale», consentendo alla tecnica di intervenire sugli stessi fondamenti biologici della nostra esistenza, dal momento del sorgere della vita fino ai confini con la morte. Per questo è essenziale incoraggiare, sostenere e rispettare il libero esplicarsi della scienza e dell’arte, ma al tempo stesso è del tutto evidente che tale immenso potenziale non possa essere lasciato alla nuda regolazione del mercato: se da un lato gli investimenti economici sono essenziali ai fini dello sviluppo della scienza e della tecnologia, d’altro lato la finalità della ricerca e l’utilizzo dei suoi risultati non possono essere definiti solo dall’aumento di ricchezza che essi possono produrre. (...)
L’integrità della persona deve essere rispettata sia là dove essa sia in grado di esprimere autonomamente la propria volontà, sia là dove ciò non possa accadere. Occorre darsi gli strumenti, anche legislativi, affinché la persona possa esprimere, anticipatamente e con forme e modalità adeguate e consapevoli, i propri convincimenti e la propria volontà per le situazioni nelle quali potrebbe non essere più in grado di esprimerli. Ed occorre adoperarsi per estendere la tutela delle libertà personali a chi, versando in stati magari anche solo transitori di incapacità ad esprimersi, è, come soggetto debole, maggiormente esposto al rischio di manipolazione e bisognoso di protezione e di rispetto. (...)
Per questo il Pd si è impegnato a combattere queste forme di violazioni della libertà personale, anche attraverso specifiche proposte, quali ad esempio quelle contro la violenza sulle donne, contro l’omofobia e la transfobia, contro la manipolazione genetica, contro le terapie e le cure non rispettose delle volontà di colui che le subisce, contro la tortura e a favore di un trattamento umano dei detenuti nelle carceri. (...)
DIRITTO ALLA CURA
Il Pd opera affinché il diritto alla cura debba essere garantito come esigibile da ogni persona, in ogni caso, specie da chi si trova in condizioni di povertà, materiale e relazionale, e di potenziale abbandono. Per questo afferma con convinzione la necessità che siano sempre assicurate prestazioni di cura adeguate a ciascun cittadino, in particolare agli indigenti. Ciò tra l’altro è suggerito dalla nostra Costituzione, che saggiamente all’art. 2, c. 1, considera la salute come «interesse della collettività», oltre che come «fondamentale diritto dell’individuo». Il diritto alla cura è declinabile anche come diritto ad essere sollevato dalla sofferenza con trattamenti palliativi, là dove non possa darsi altro rimedio, per ciò che la scienza e la tecnica allo stato consentono e nell’osservanza delle scelte della persona. È inoltre elemento coessenziale di questo diritto alla cura, e non è altro da esso in quanto connesso al diritto all’integrità personale, il diritto al rispetto delle scelte della persona, fin dove non si impongano esigenze collettive di tutela della salute. Nelle proposte del Pd, la necessità di preservare il rapporto di fiducia e l’alleanza terapeutica tra il medico ed il paziente, nel quadro delle relazioni familiari ed affettive che lo circondano, rispetta il principio per cui il convincimento libero e la volontà individuale di chi è curato non debbono subire prevaricazioni o pregiudizi; mentre va assicurato il diritto ed il dovere del medico di non impartire al paziente stesso, il quale pure solleciti o acconsenta, trattamenti finalizzati a sopprimere la vita, tenendo sempre fermo il principio che l’ultima parola sull’intrapresa dei trattamenti e sulla loro prosecuzione è di chi li sopporta.
Vi sono poi violazioni dei diritti fondamentali anche nell’ambito della sfera spirituale. Anche su questo piano si registrano mancati riconoscimenti della libertà di pensiero e di religione. Ciò riguarda la sfera della libertà religiosa, della libertà scientifica e artistica, della libertà della ricerca scientifica, ma riguarda anche la sfera della formazione della pubblica opinione che si sviluppa attraverso l’accesso ad una informazione libera e plurale e di una educazione aperta e pluralistica. In questo ambito il principio fondamentale non può che essere quello del rispetto e della promozione della libertà di coscienza del singolo, che è un valore frutto anch’esso della convergenza, sia pure dialettica, delle tradizioni religiose e secolari. Il riconoscimento della libertà della coscienza pone un limite fondamentale al potere politico e ai suoi strumenti coercitivi che devono arrestarsi di fronte alla sfera interiore dell’individuo, e per ciò stesso anche di fronte alla sfera dell’arte, della cultura, della scienza. La difesa di tale diritto all’inviolabilità della coscienza, il cui esercizio non può evidentemente essere riservato al solo spazio interiore di ogni individuo, deve conciliarsi con il principio di responsabilità sociale per i comportamenti influenti su altre persone e sulla società. Per questo i riconoscimenti delle differenze di comportamento imputabili a identità o scelte anche religiose, etiche o filosofiche, anche nelle forme di obiezione di coscienza giuridicamente garantita, devono inserirsi in un regime di compatibilità con l’adempimento da parte di tutti i cittadini degli obblighi di solidarietà sociale ed il rispetto dei diritti altrui. È compito delle istituzioni pubbliche, da un lato, riconoscere la libertà di coscienza anche dei propri operatori, dall’altro, garantire a tutti i cittadini la protezione e l’assistenza di cui hanno diritto. In questa direzione il Pd ha avanzato proposte a sostegno della libertà religiosa, a difesa di una informazione libera e plurale, a sostegno della libertà di ricerca.
LA FAMIGLIA
Vi sono infine mancati riconoscimenti e violazioni di diritti nell’ambito delle relazioni e delle organizzazioni sociali. La vita umana esiste solo (ed è pensabile solo) entro le forme della socialità. Queste forme – tra cui la famiglia è forma primaria – si costituiscono non solo sulla base delle scelte degli individui, ma anche sulla base della loro posizione e del loro rilievo sociale. La storia della famiglia testimonia questa evoluzione continua, legata al mutare delle condizioni economiche, ambientali, culturali, religiose, al cui interno un ruolo fondamentale è stato svolto dai grandi processi di emancipazione femminile. In questa evoluzione la cultura e gli ordinamenti giuridici hanno riconosciuto un’importanza crescente alla libera espressione dell’affettività personale, all’uguaglianza delle persone all’interno della famiglia e agli obblighi di solidarietà tra coniugi e tra genitori e figli. Si tratta di valori essenziali non solo alla vita personale, ma all’intera vita sociale. Per questo la Costituzione italiana ha inteso riconoscere e stabilire i diritti e i doveri della famiglia (artt. 29 e 30), nonché il dovere della Repubblica di agevolarla e sostenerla nell’adempimento dei suoi compiti (art. 31). Rispetto a questo dovere l’azione del governo italiano, anche e soprattutto negli ultimi anni, è stata largamente inadempiente e il Pd considera un obiettivo primario il dare piena attuazione a questo impegno costituzionale.
D’altra parte non si può ignorare che nella società contemporanea le dinamiche sociali ed economiche, da un lato, e, dall’altro, le libere scelte affettive e le assunzioni di solidarietà hanno dato vita a una pluralità di forme di convivenza, che svolgono una funzione importante nella realizzazione delle persone e nella creazione di un più forte tessuto di rapporti sociali. Per questo esse appaiono meritevoli di riconoscimento e tutela sulla base di alcuni principi fondamentali. Da un lato, nel principio della centralità del soggetto rispetto alle sue relazioni, così da riconoscere sia i diritti di ogni persona a dare vita liberamente a formazioni sociali, sia i diritti di ciascuno entro le diverse formazioni sociali. Dall’altro, nel principio del legittimo pluralismo, che implica il riconoscimento dei diritti e dei doveri che nascono nelle diverse formazioni sociali in cui può articolarsi la vita personale affettiva e di coppia.
Tale riconoscimento dovrà avvenire secondo tecniche e modalità rispettose, da un lato, della posizione costituzionalmente rilevante della famiglia fondata sul matrimonio ai sensi dell’art. 29 Cost. e della giurisprudenza costituzionale che anche recentemente ne ha dato applicazione, dall’altro, dei diritti di ogni persona a realizzarsi all’interno delle formazioni sociali, che si declinano oggi in un orizzonte pluralistico secondo quanto espresso dalla Corte Costituzionale: «per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» (138/2010). Il Pd, auspicando un più approfondito bilanciamento tra i principi degli articoli 2, 3, e 29 della Costituzione, quanto in specie alle libere scelte compiute da ciascuna persona in relazione alla vita di coppia ed alla partecipazione alla stessa, opera dunque per l’adeguamento della disciplina giuridica all’effettiva sostanza dell’evoluzione sociale, anche introducendo, entro i vincoli della Costituzione e per il libero sviluppo della personalità di cui all’art. 2, speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali.

l’Unità 15.6.12
Sinistra e società civile
La nociva teoria della separazione tra società civile e partiti
di Michele Prospero


Nelle accese polemiche scoppiate dopo le (talune) infelici nomine alle Authority, è tornata a risuonare con ritrovato vigore una antica litania contro la partitocrazia. C’è sicuramente qualcosa di stucchevole in un folto professionismo dell’antipartitocrazia che galoppa intrepido in una età di partiti assenti o precipitati in gravi dilemmi esistenziali. E tuttavia, dopo aver eliminato la fastidiosa coltre ideologica, ravvisabile nel lamento di chi maltratta i partiti come escrescenze e si promuove come il solo interprete autorizzato della società civile, resta comunque irrisolto il nodo del raccordo tra la funzione delle rappresentanze e le sfere dell’agire sociale.
È almeno da vent’anni che opera una secca contrapposizione tra la società civile e quella politica. La seconda Repubblica in origine è nata proprio in nome della società civile liberata che rifiutava la politica percepita come contaminata dal malaffare e conquistava le postazioni del potere senza più l’esigenza di ricorrere ai soggetti della mediazione. La rude società delle partite Iva, della microimpresa disseminata nei territori si incamminò con successo lungo la strada della autorappresentazione. E, per tutto l’arco del ventennio, ha retto la solida alleanza tra azienda e territorio padano visti come i soggetti di una autorappresentazione ostile al ceto politico.
Questa porzione potente di società spezzava la logica della mediazione politica e conquistava tutto per sé lo spazio pubblico di decisione, imponeva una sfacciata contaminazione di affari e potere. Contro una infinita serie di conflitti di interesse, sorgevano nel Paese delle sensibilità civiche attorno ai temi della legalità, della indipendenza della magistratura sfidata da leggi ad personam, della pulizia etica da imporre nell’amministrazione colonizzata ad ogni livello da cricche opache. Accanto ad una società civile arroccata al comando, sorgeva così una società civile di opposizione che assumeva nella sua agenda le richieste tipiche della cultura liberaldemocratica: separazione dei poteri, certezza del diritto, autonomia dell’amministrazione, riconoscimento del merito, nuovi diritti civili.
Fino a quando questa influente porzione (liberale) di società civile ha mantenuto ben salda la sua funzione di pungolo critico, da esercitare contro i ritardi della politica, e ha fatto ricorso a mobilitazioni intense senza però lasciarsi tentare dalle scorciatoie dell’autorappresentazione, ha intrattenuto con la sinistra un proficuo dialogo. Da ultimo, le vittorie alle amministrative in città simbolo come Milano, il trionfo nei referendum sull’acqua e sul nucleare, racchiudono proprio il concorso di autonome sensibilità civiche e la regia accorta e discreta dei partiti. Questo sentiero di cooperazione produttiva si è però interrotto, con una grave ricaduta sulle prospettive del rinnovamento della politica. All’origine della frattura c’è il difficile tragitto avviato con il governo di tregua che avrebbe dovuto favorire la ripresa della politica e invece ha accentuato nelle élite economiche e mediatiche i disegni di scomposizione del sistema. La momentanea sospensione della aperta polarità destra-sinistra in nome dell’emergenza, ha moltiplicato le spinte all’autorappresentazione che rendono assai precaria la tenuta dei partiti e la sorte del parlamentarismo. Un populismo dei ceti medi riflessivi alimenta la proliferazione di liste e partiti personali, e minaccia la prospettiva di una riorganizzazione efficace della rappresentanza politica.
La sinistra, con le opportune aperture alle istanze liberali (diritti, partecipazione civica), tenta ora di recuperare un cantiere abbandonato in maniera traumatica. Soprattutto in tempi di crisi sociale, la sinistra dovrebbe però conservare la consapevolezza che la società civile (della rete, dell’attivismo civico informato, delle professioni) è solo una parte (preziosa, certo) di una più ampia società che avverte un profondo disagio e potrebbe presto convertire la sua perdita di status in sostegno a forme inquietanti di alienazione politica. Mentre lancia dei segnali di recuperata attenzione alla società civile riflessiva, la sinistra non dovrebbe trascurare di essere un partito-società che, se non dà un senso alle incertezze che si abbattono sulle sue fasce di popolo, favorisce proprio tra i ceti marginali le uscite di tipo regressivo alla crisi di legittimazione ormai in corso.

l’Unità 15.6.12
«2013, niente condannati in lista»
L’odg Pd crea tensione a destra
Dell’Utri, Ciarrapico, De Angelis: i primi casi di «incandidabili» se il governo eserciterà la delega
di Susanna Turco


ROMA La legge anticorruzione passa, il nodo incandidabili resta. Ieri, il ministro della Giustizia Paola Severino ha salutato con favore l’approvazione dell’ordine del giorno del Pd che impegna il governo a provvedere, «entro quattro mesi» dall’approvazione della legge, ad adottare la delega che articola e rende applicabili le norme sull’incandidabilità contenute nel ddl anticorruzione. «I timori sull’impossibilità di procedere in tempi utili rispetto alle elezioni del 2013 mi sembra che siano stati così superati», ha detto la Guardasigilli.
Sulla possibilità di tenere fuori dal Parlamento già alle prossime elezioni chi è stato condannato in via definitiva, tuttavia, non tutti sono così ottimisti, soprattutto dopo le parole del capogruppo Pdl Cicchitto in Aula e i malumori del partito di via dell’Umiltà. La volontà di introdurre al Senato nuove modifiche è infatti chiara, così come lo è il conseguente allungamento dei tempi prima dell’approvazione della legge. Una dilazione che per il Pdl è tanto più desiderabile in quanto coinvolge appunto l’incandidabilità: la delega al governo su questa materia, infatti, era stata concepita e introdotta proprio dal Pdl al Senato quando il
centrodestra era ancora al governo, e poteva procrastinare all’infinito la sua traduzione pratica. Cosa che invece il governo attuale non pare avere nessuna intenzione di fare, dando al partito di via dell’Umiltà un altro grattacapo.
NEL CENTRODESTRA
Il disagio del centrodestra del resto si capisce anche, incrociando le norme appena approvate (e che però il governo dovrà ulteriormente definire) con i nomi dei parlamentari. Vien fuori che gli incandidabili (chi ha condanne definitive ad almeno due anni, per reati contro la Pubblica amministrazione, mafia, terrorismo e reati che nel massimo della pena superino i tre anni) proverrebbero in larghissima parte dalle file del centrodestra. C’è per esempio Marcello Dell’Utri, condannato a due anni e tre mesi per fatture false e frode fiscale nella gestione di Publitalia. C’è Aldo Brancher – che ieri si è astenuto al voto finale sul ddl – condannato a due anni per ricettazione e appropriazione indebita nell’ambito del processo sulla scalata Antonveneta (ha beneficiato dell’indulto, ma secondo i tecnici questo non sarebbe rilevante ai fini dell’applicazione della norma). C’è Marcello De Angelis, condannato a cinque anni per banda armata e associazione sovversiva come dirigente di Terza posizione. C’è Giuseppe Ciarrapico, che fra l’altro ebbe una condanna a quattro anni e sei mesi per il crack del Banco Ambrosiano. Antonio Tommassini, condannato a tre anni per falso nell’esercizio della sua professione di medico. Salvatore Sciascia, due anni e sei mesi per corruzione come manager Fininvest (nell’inchiesta aperta dal Pool mani Pulite nel 1994).
Ancor più chiara la difficoltà se si ripensa alle parole di Cicchitto di ieri a proposito della «maggior discrezionalità» che si dà ai magistrati. Senza dubbio, infatti, l’aver messo un paletto di legge – per la prima volta – sui criteri di candidabilità, è qualcosa destinato a condizionare la composizione delle liste elettorali e a produrre i suoi effetti non solo eventualmente nel presente (2013), ma soprattutto negli anni a venire.
Tra i parlamentari attualmente in carica, infatti, oggi sono condannati o indagati 53 deputati (fra cui 30 Pdl, 4 Lega, 6 Pd, 3 Udc) e 30 senatori (fra cui 20 Pdl, 2 Pd, 2 Udc, Lega). Chi oggi è sotto processo, o solo giudicato in primo grado, domani potrebbe divenire incandidabile: e lo diverrebbe per via di ciò che avviene nelle aule di giustizia. Figurarsi quanto può piacere questo a uno come Berlusconi.

l’Unità 15.6.12
Bersani a Monti: «Riprendiamoci la sovranità»
Il leader Pd: «Anche nell’emergenza bisogna alzare la testa»
Manifesto dei sindaci a favore del percorso indicato dal segretario e che porterà alle primarie
di Maria Zegarelli


ROMA «Bisogna riorganizzare i fondamentali, riprendere sovranità» e affiancare al rigore sui conti anche le misure per la crescita. Lo ha detto l’altro giorno alla Camera e lo ripete anche adesso, in occasione dell’Assemblea nazionale Pd sull’Agricoltura, il ministro per le politiche Agrarie Mario Catania è seduto in prima fila, ha da poco concluso il suo intervento. Pier Luigi Bersani richiama la politica ad esercitare il proprio ruolo e, rivolgendosi al ministro, esorta: «Anche nell’emergenza abbiamo bisogno che il sistema Paese cominci ad alzare la testa». Sottolinea: «Con Monti ci intendiamo larghissimamente, ma non si può dire che una volta è la crescita che manca, una volta è la riforma del lavoro, un’altra il debito perché i mercati leggono la realtà ma anche la creano e se hanno deciso di andare a prendere il predatore dalla savana decidono indipendentemente dal fisico dell’animale». E l’animale-Italia è sotto botta, morso dalla recessione. Per questo il segretario Pd invoca un «gesto politico» senza del quale «l’Europa non può uscire dal problema». Il Pd, come il Pdl, sa bene che dopo Monti l’emergenza sarà ancora lì e i problemi se li ritroverà sul tavolo chi andrà al governo, per questo il segretario dice che anche in questa «emergenza e in questa transizione» è necessario iniziare «a seminare idee su cui lavorare in continuità ragionando attorno a un orizzonte produttivo e a una missione Italia sui temi dell’ambiente della qualità e dell’innovazione». Saranno cruciali le prossime settimane e se qui in Italia «si tratta di trovare un po’ di risorse per la crescita, che è una parola grossa» ma almeno serve a contrastare la recessione, in Europa «ognuno si deve prendere le sue responsabilità». Bene che il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Shauble preveda «una ripresa per il nostro Paese a partire dal 2013, ringraziamo, siamo grati, però sappiamo di avere dei problemi». E tra questi c’è quell’enorme carico sulle spalle degli italiani dovuto alle manovre e al «salvaitalia», ragion per cui da qui in avanti «non possiamo massacrare chi è già in grosse difficoltà». Ovvio il riferimento alla spending review, «c’è modo e modo di fermare la recessione» e meglio sarebbe intervenire in modo oculato. «Abbiamo un problema di mercato delicatissimo dice cerchiamo di affrontare questo tema con equilibrio stando ben attenti a dove andiamo a mettere le mani. Non possiamo colpire i ceti che hanno bisogno di consumare». E bene anche l’annuncio della vendita dei beni pubblici, ma anche qui il partito democratico vuole vedere come sarà strutturata. «Se è quello che penso che sia, è una proposta venuta fuori dagli enti locali ed è una cosa positiva, ma va ben organizzata».
IL MANIFESTO DEI SINDACI
Ma dopo la direzione di venerdì, nel corso della quale Bersani ha annunciato la sua candidatura alle primarie, la macchina elettorale è partita. Mentre il sindaco di Firenze, Matteo Renzi sonda su quanti ma soprattutto chi lo appoggerà se dovesse decidere di sfidare il segretario, centinaia di suoi colleghi, sindaci, presidenti di Provincia e Regione, una scelta sembra l’abbiano già fatta. In un Manifesto, sottoscritto tra gli altri da Piero Fassino (Torino), Roberto Cosolino (Trieste), Virginio Merola (Bologna), Massimo Cialente (L’Aquila), Vasco Errani (Emilia Romagna), Gianfranco Ganau (Sassari), dedicano un intero passaggio alla Carta di intenti che Bersani ha lanciato durante la direzione. «Ci sentiamo coinvolti in questo percorso e vogliamo contribuire ad arricchirlo», dicono.
Quello degli amministratori è un Manifesto con il quale si dicono in campo per la sfida delle elezioni politiche per la vittoria del Pd. «La difficoltà crescente di trovare soluzioni concrete scrivono nel manifesto coinvolge direttamente noi sindaci che viviamo con angoscia questa fase perché abbiamo la percezione che la soluzione, se la si vuole trovare, sta nel ricreare una sana gerarchia dei valori delle cose e che la montante ondata populista può solo aggravare la disillusione dei cittadini in quanto non può dare soluzioni». E in un momento in cui la crisi morde soprattutto i Comuni con un taglio dei trasferimenti e il patto di stabilità che strangolano i margini di interventi, gli amministratori, puntano su «una sintesi alta tra la dimensione territoriale e la sfera globale». «Ce la possiamo fare sostengono nel documento se la politica nazionale assume il valore locale come fondante della sua riscossa e se con umiltà si accetta che spesso quello che accade a livello locale è importante perché assume carattere di valenza complessiva». Sindaci e presidenti di Provincia e Regione del Pd sanno che lo spettro da combattere alle prossime elezioni è l’astensionismo, l’antipolitica, il grillismo e la disillusione, tutto ciò che ha portato alla «profonda frattura che si è aperta tra la politica e i cittadini». Il percorso indicato da Bersani li convince e il Manifesto ha tutta l’aria di essere un appoggio alle primarie.
Il segretario dal canto suo sta pensando ad un incontro a luglio con tutti gli amministratori Pd.

Corriere 15.6.12
Il segretario «corteggia» gli amministratori locali
Renzi: ha un po' di paura
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nel Pd è già guerra per le primarie. Senza esclusione di colpi… anche bassi. Bersani, preoccupato per la grande kermesse che Renzi terrà il 23 giugno a Firenze, con gli amministratori locali a lui vicini, sta lavorando nel territorio per strappare consensi all'avversario. Ieri il segretario ha avuto un colloquio con Graziano Delrio: voleva il plauso del presidente dell'Anci alla sua candidatura. Ma Delrio ha nicchiato e non se n'è fatto niente.
Sindaci, presidenti di regione e di provincia sono comunque stati allertati dal responsabile Organizzazione Davide Zoggia. Hanno aderito all'appello di Bersani in diversi: tra i più noti Fassino, Zanonato, primo cittadino di Padova, e i sindaci di Bologna e l'Aquila Merola e Cialente. Si sono mobilitati anche i governatori di Emilia, Toscana e Basilicata, Errani, Rossi e De Filippo. Non hanno ancora sciolto le riserve e dichiarato pubblicamente da che parte stanno sindaci di peso come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano.
Comunque, per scrollare via l'etichetta di candidato dell'apparato del partito, che gli è stata cucita addosso, il segretario ha intenzione di valorizzare le esperienze dei dirigenti locali del Pd e di scipparne il più possibile a Renzi, ben sapendo che il sindaco di Firenze si muove soprattutto sul territorio, snobbando i palazzi della politica. Perciò Bersani ha in mente di tenere a luglio una grande assemblea degli amministratori locali. Ai quali, intanto, lancia questo messaggio: «I nostri uomini nelle realtà locali sono l'architrave della riscossa del Pd. Noi ce la possiamo fare se la politica nazionale, con umiltà, accetta che spesso quello che accade a livello locale è importante perché assume carattere di valenza complessiva. Sappiamo bene che nessuno può salvarsi da solo e che è tempo che nasca la stagione del merito e dell'onestà». E a questo proposito dallo staff del segretario fanno filtrare la voce secondo cui sarà cura del leader del Pd inserire nel governo prossimo futuro quegli amministratori locali che hanno governato bene nelle loro realtà.
Tutto questo attivismo del segretario, però, non sembra turbare più di tanto Renzi: «Mi sembra che al quartier generale ci sia un po' di paura», ironizza con i fedelissimi. E aspetta di vedere «nero su bianco» quali saranno le regole delle primarie: «Cercheranno di fregarmi, di inventarsi l'albo degli elettori e altri marchingegni per evitare che si voti liberamente. Ma sia chiaro: se si tratta di primarie finte, io non partecipo». Eppure anche Renzi sa che difficilmente il Pd potrà indire primarie che non siano più che aperte. E infatti ha già deciso quando annuncerà la sua candidatura: a metà luglio. Nel frattempo, aspetta la prossima mossa di Bersani. È convinto di sapere quale sarà: l'annuncio che i parlamentari con tre mandati alle spalle non verranno ricandidati, senza deroghe di nessun tipo. Significa fare fuori D'Alema, Veltroni, Bindi, Fioroni, Marini e tanti altri.

l’Unità 15.6.12
Intervista a Stefano Fassina
«Lavoro e diritti, basta parlare come broker di Wall Street»
«Occorre allentare subito la morsa dell’austerità. Rischia di portarci all’autodistruzione»
di Massimo Franchi


«Il lavoro come priorità strategica, lanciando un piano straordinario per giovani e donne». La seconda assemblea nazionale del lavoro del Pd si terrà oggi a Napoli. Stefano Fassina, responsabile economico, terrà la relazione.
Fassina, il calendario pone la vostra assise in un periodo assai delicato per il lavoro, tra la riforma al voto in Parlamento e la questione esodati...
«Cade in un periodo delicato in cui è sempre più evidente il nesso tra involuzione delle condizioni di lavoro e involuzione della democrazia. Per spezzare questo circolo vizioso il nostro impegno è racchiuso nel titolo scelto quest’anno: “Sviluppo sostenibile per la piena e buona occupazione”. Dobbiamo rimettere ordine tra variabili strumentali e obiettivi. Le variabili strumentali sono gli spread, i saldi di finanza pubblica; l’obiettivo è valorizzare la persona che lavora. Se continuiamo a parlare come broker di WallStreet saremo incomprensibili, in particolare per le generazioni più giovani».
Tra gli ostacoli più forti c’è l’austerità imposta a livello europeo. Come superarla?
«È necessario allentare la morsa dell’austerità che rischia di portarci all’autodistruzione. Dobbiamo dire la verità, l’inseguimento degli obiettivi di finanza pubblica fissati dal governo Berlusconi è incompatibile con lo sviluppo. Il rigore inseguito dall’Italia e lo sviluppo sono incompatibili. Quindi è necessario allentare la morsa dell’austerità in raccordo con la Commissione europea per far rialzare la domanda interna innanzitutto attivando gli investimenti in piccole opere pubbliche da parte dei Comuni. Sul tema degli esodati invece noi abbiamo già presentato in Parlamento proposte concrete per risolvere il problema e tutelare ogni persona e i diritti acquisiti».
L’altra emergenza che ogni mese viene messa in evidenza dai dati macroeconomici è la disoccupazione giovanile. Per voi è una priorità affrontarla, ma fattivamente quali proposte avanzate?
«Proporremo un piano per l’occupazione giovanile e femminile basato sull’allentamento del patto di stabilità interno fra Stato ed enti locali per impiegare i giovani e le giovani in particolare in progetti di lavoro per la cura del territorio e dell’ambiente. I giovani disoccupati saranno impiegati per periodi limitati con un trattamento analogo all’indennità di disoccupazione. Le risorse necessarie verranno solamente dall’allentamento del patto di stabilità e utilizzando Fondi europei».
Lei prima ricordava il legame tra lavoro e democrazia. Su questo aspetto come pensate di agire?
«Il tema della democrazia nei luoghi di lavoro è una nostra priorità. È necessario sanare il vulnus alla democrazia aperto dalla vicenda Fiat. Per questo noi ci impegniamo a riscrivere l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori per ridare la possibilità per i sindacati rilevanti di poter esercitare liberamente il loro ruolo in ogni azienda. In più cancelleremo l’articolo 8 dell’ultima manovra Berlusconi-Tremonti».
Il vostro programma punta molto sulla coesione e il dialogo sociale. Siete sicuri di riuscire a tenere insieme sindacati e imprese?
«Sì, perché saranno tutti protagonisti e attori centrali. Nel programma di “Ricostruzione dell’Italia” presentato da Pier Luigi Bersani le forze economiche e sociali del lavoro sono protagoniste. Noi consideriamo il rapporto con un arco ampio di forze strategico e decisivo».

il Fatto 15.6.12
La Fiom e il Terzo Stato
di Paolo Flores d’Arcais


Quello organizzato dalla Fiom sabato 9 giugno è stato un vero e proprio vertice pubblico di tutte le forze della sinistra. A discussione avvenuta, è doveroso trarne “bilanci e prospettive”. Primo. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ha presentato un vero e proprio programma di governo. È partito dalle condizioni dei lavoratori in fabbrica (il che significa anche in mobilità, cassa integrazione, precarietà, disoccupazione), dimostrando come non si cambino (in meglio) queste condizioni senza affrontare i temi della legalità, della rappresentanza, dell’informazione, della scuola, della ricerca, dell’ecologia, della “governance” europea... E su ciascuno di questi temi ha dato indicazioni assai chiare sull’orientamento che deve avere un programma di governo nel quale la parola “equità” non sia una beffa. Infine, e come logica conseguenza, Landini ha spiegato che per la Fiom è all’ordine del giorno la necessità che con questo programma si realizzi la rappresentanza elettorale-parlamentare di lavoratori, precari, disoccupati, pensionati… insomma del Terzo Stato. Che oggi non c’è. SECONDO. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha risposto no a tutti i punti programmatici qualificanti. Un no talvolta mascherato (“sull’articolo 18 abbiamo ottenuto una difesa sostanziale…”, e giustamente arrivano i fischi) ma nella sostanza inequivocabile. I due programmi, della Fiom e del Pd, sono diversi e perfino alternativi. Di Pietro ha già rivendicato i comportamenti del suo partito in linea con la linea Fiom (Ferrero e Diliberto, per quel che conta, l’hanno sottoscritta perinde ac cadaver), Vendola ha invece fatto lo slalom, con quel linguaggio fumoso che scambia per poesia. Ma alla fine dovrà decidere. Terzo. È possibile una convivenza tra le forze che queste due organizzazioni, Fiom e Pd, rappresentano? Oppure, anche in presenza della legge elettorale maggioritaria “Porcata”, è inevitabile che vadano alle urne divise, propiziando una vittoria delle destre? Naturalmente si può obiettare che un sindacato non può occuparsi di elezioni parlamentari, ma è evidente che quando, partendo dalle condizioni di fabbrica, si arriva – giustamente – a ritenere ineludibili determinati temi programmatici politico-generali, quel sindacato è obbligato a dare indicazioni elettorali. Tanto più che è diventato, per le sue lotte e la sua coerenza, un punto di riferimento per una opinione pubblica assai vasta (e per molte lotte della società civile). Quarto. Con l’attuale “Porcata” una divisione sarebbe ovviamente una iattura. Ma l’unico modo perché non si consumi è che l’alleanza elettorale che dovrebbe tenere unite Pd Fiom e altre forze sia affidata, per la scelta del programma e dei candidati, ai cittadini stessi. Primarie, insomma. Primarie vere. Bersani ha promesso le primarie, ma nel solito involucro di nebbia, cioè di ambiguità quanto alla sostanza. Perché ha parlato di primarie “aperte”, il che in buon italiano significa che può partecipare chiunque rientri nell’ampio e variegatissimo spettro del centrosinistra, ma uno dei suoi più “fedeli”, Stefano Fassina (da ultimo onnipresente nelle tv), ha spiegato che prima si decide il programma e poi solo chi lo sottoscrive può partecipare alle primarie. Non ha spiegato, però, CHI lo decide il programma, se le primarie devono essere “aperte”. Perché se il programma lo decide il Pd, o un vertice tra Pd e Vendola, anziché gli elettori stessi del centrosinistra, le primarie non sarebbero affatto “aperte” ma sarebbero “chiuse”, e anzi assai più “chiuse” della famose “case” prima che arrivasse la legge Merlin. Quinto. I vari “attori” della discussione a sinistra, o almeno qualcuno di essi, sono pronti a decidere su questo punto cruciale senza ulteriori ambiguità? Sono pronti a parlare secondo Matteo 5,37, “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”? Di Pietro, Vendola, e soprattutto la Fiom, sono decisi a porre la questione delle primarie-per-il-programma (oltre che per i nomi, evidentemente: ma legati ai programmi) in modo ultimativo? Se non lo fanno consegnano ai vertici del Pd (per altro rissosi e divisi) il patrimonio di credibilità fin qui accumulato, e dunque lo disperdono, poiché il risultato sarà milioni di cittadini di sinistra che si rifugiano nell’astensione o votano faute de mieux il movimento di Beppe Grillo. Come si potrebbe dar loro torto? Sesto. Forse già troppo tardi. Tuttavia il sondaggio realizzato da Pagnoncelli per Ballarò indica quali margini ancora sussistano: nelle primarie a sinistra il primo posto viene conquistato dal “candidato della società civile ancora sconosciuto”. In altri termini: se ci saranno primarie vere, e in esse ci sarà un candidato credibile della società civile (proposto o comunque “catalizzato” dalla Fiom, unico soggetto organizzato che abbia oggi l’autorità morale necessaria) potrebbe fermarsi il mare di consensi in emigrazione verso Grillo e non-voto, e potrebbe essere sventato il rischio della vittoria delle destre “decenti”, la cui nuova configurazione si va delineando (il partito cattolico di Passera-Bonanni benedetto da Bagnasco, la lista dei tecnici di Monti in tutte le varianti immaginabili, ecc.). INSOMMA: perché al governo vada l’alternativa della “democrazia presa sul serio” e del Terzo Stato “giustizia e libertà” è necessario che si pronuncino subito in modo “chiaro e distinto” Landini/Airaudo, Di Pietro, Vendola, ma anche gli intellettuali – presenti o meno al convegno – che rappresentano aree di opinione vaste e identificabili (“Libertà e Giustizia”, “Alba”, “Libera”, ecc.). E i sindaci, De Magistris in primis. Altrimenti per la sinistra ci sono solo le calende greche, come dire il giorno del mai.

l’Unità 15.6.12
Roma, dal 19 i big alla Festa
Videointerviste e dirette con l’Unità


Stavolta, dopo le polemiche dello scorso anno, sono andati “sul sicuro”. Niente gonne al vento. Per pubblicizzare la prossima festa cittadina dell’Unità dal 19 giugno al 22 luglio a Caracalla il Pd capitolino ha scelto una foto della cupola di San Pietro. Manifesto ideato da Livio Patriarca, 20 anni. Vincitore del “concorso di idee” bandito dalla Federazione cittadina. «Roma ce la farà», recita lo slogan stampato su un cielo color arancio, che prefigura il tramonto di Alemanno. È per quello che si lavora, all’ombra del Cupolone. Ma non solo.
«Mobilitarci, come ogni anno, con i volontari (dai 200 ai 400 ogni sera), gli stand, i militanti, è la nostra risposta a chi pensa che il Pd, come tutti i partiti, rappresenti solo la casta: noi siamo l’altra faccia della politica», scandisce Micaela Campana, responsabile dell’organizzazione. «Lavoriamo fianco a fianco con le associazioni, con i comitati di quartiere, con i movimenti», rivendicano il segretario romano Marco Miccoli e il presidente Patané. «C’è spazio per tutti nella nostra festa: popolare e di massa, come il Pd». Il cinema gratis, i menù con prezzi fissi a due anni, lo stand «Rainbow», con le famiglie «arcobaleno». E tanto spazio all’antimafia e alla solidarietà con le popolazioni terremotate dell’Emilia (parmigiano e prodotti delle zone terremotate tra gli stand), «senza dimenticare l’Aquila». I due palchi saranno intitolati a Falcone e Borsellino. Tra gli ospiti, Pietro Grasso con Zingaretti, Antonio Ingroia con Veltroni. Si comincia il 19 giugno con una serata dedicata a Mesagne (con il direttore dell’Unità). Ospiti il 14 luglio anche i ministri Cancellieri e Riccardi con Livia Turco (14 luglio). E poi Camusso, il segretario del Pd Bersani (l’11 luglio), D’Alema, Bindi, Finocchiaro.
Ci sarà anche l’Unità, ovviamente, con un suo stand, videointerviste, dirette in streaming. MA.GE.

il Fatto 15.6.12
Prendersi un pezzo della Rai: l’ultima tentazione dell’Ingegnere
De Benedetti confida nella privatizzazione dei tecnici
di Malcom Pagani e Carlo Tecce


Nei corridoi di Repubblica la chiamano “interpretazione verticale della filiera contenutistica”. Un rebus di facile risoluzione. Dopo la web tv e il digitale terrestre, la televisione generalista. Quella vera. Carlo De Benedetti crede alla trinità e sa far di conto. Osservando con relativa serenità l’approssimarsi dell’ultima puntata del Lodo Mondadori, progetta il futuro. La sentenza della Cassazione con relativa messa a bilancio dei 564 milioni di euro che al momento Berlusconi dovrebbe riconoscergli è alle porte e tramontata la passione per La7, De Benedetti starebbe pensando alla Rai. Un campo su cui, sconsigliato dalle partite sindacali e dalle fibrillazioni interne, avrebbe voluto giocare anche il gruppo Rcs. La tv di Stato in odor di privatizzazione e assediata dai paradossi è pronta a dimagrire. Dodicimila dipendenti, la raccolta pubblicitaria in depressione, un debito consolidato che a fine anno può sfiorare i 400 milioni (5 anni fa, era zero), ascolti mosci e offerta eccessiva. Quattordici canali tematici. Troppi. Soltanto la tedesca Zdf può permetterseli, contando, però, su 8,6 miliardi di canone, mentre viale Mazzini è incagliata a 1,7 miliardi. L'unica soluzione, e Mario Monti non è d'accordo, sarebbe quella di aumentare la tassa più odiata dagli italiani. POI C'È la stravaganza di aver investito 500 milioni di euro per il lancio delle nuove tecnologie e la rimanente elemosina per riempire di senso canali costretti al sistematico saccheggio delle teche. Un quadro desolante, al cui interno, si dipinge l’acquerello a tinte fosche della composizione del Cda. Per un candidato competente e caro all’ingegnere che si autoesclude, l’editorialista Giovanni Valentini, un treno con 7 carrozze da riempire. Sotto le pensiline, affollamento. Valentini declina l’invito “ringraziando tutti”. Poi spiega: “Scrivere a Zavoli mi pareva presuntuoso, ma entrare in Cda non mi sembra opportuno. Non ci sono condizioni operative per rilanciare una Rai dove il cancro si cura con l’Aspirina. La Gasparri è ancora legge e Bersani, che qualche giorno fa era d’accordo, ha cambiato idea. Predicando bene e razzolando male. La sua proposta di apertura alla società civile, spiace dirlo, suona come unasortadilottizzazione. Sarebbe stato più credibile se avesse adottato lo stesso criterio per le Authority, ma in quel caso preferì accordarsi con Casini”. Così ballano altri nomi. Quelli in quota Pdl. Antonio Pilati (ex Antitrust), Rubens Esposito (ex ufficio legale di Viale Mazzini), Giancarlo Galan (autocandidato, non manca mai), Giampaolo Rossi, il presidente di Rai Cinema, Franco Scaglia. LA LEGA desiste, l'Udc vuole un posto. Il Pd ha incaricato quattro associazioni della società civile di esprimere due nomi per vo-tarli in Cda. Dopo il sincero no di Valentini, i sindacati (Usigrai-Fnsi) sarebbero intenzionati a suggerire la scrittrice Lorella Zanardo. “Libertà e giustizia”, invece, potrebbe presentare una donna. Corrono Sandra Bonsanti e la sua fraterna amica Concita De Gregorio. In una parola, Repubblica. Che ora, non solo metaforicamente, potrebbe entrare in Rai. In Viale Mazzini meditano comunque rivoluzioni per rimodulare quella che chiamano “offerta per i telespettatori”, secondo un antico schema, in oasi recintate: un canale di intrattenimento (Rai1), uno col pubblico più fedele (Rai3), uno per le notizie (Rainews) e un paio per le serie televisive e i bambini (Rai4 e Rai Ragazzi). Il ramo secco è Rai2, quello più costoso e in concorrenza interna (con Rai4). De Benedetti riflette proprio sull'ipotesi più ardita, Rai2, ma è interessato anche ai canali tematici. Ufficialmente, interpellato dal Fatto, attraverso i suoi collaboratori nega con decisione: “Non esiste nessuna ipotesi di investimento televisivo da parte del Gruppo Espresso che continua la sua attività con le reti del gruppo”. In realtà De Benedetti sarebbe ingolosito dalla sinergia fra giornali, rete (presto il lancio di Huffington Italia) che, qualunque (previsto) riassesto della Legge Gasparri, trascinerà con sé nella prossima legislatura. De Benedetti è già proprietario di Rete A. Non potrebbe aggiungere frequenze. Ma ora che Monti ha spedito i tecnici in Rai per annaffiare le zone aride, tutto potrebbe cambiare. La cessione ripristinerebbe i parametri del servizio pubblico riallineandolo a quello europeo (30-35% di share) e liberando contestualmente nell’etere sette-otto punti. Ascolti. Soldi. Pubblicità. Ancore di salvezza. Persino per il Cavaliere e La7. I rapporti dell’area Repubblica con il governo Monti sono comunque in via di evangelizzazione. Il premier sarà l’ospite d’onore della tre giorni di Bologna e scambia lettere garbate con il fondatore, Eugenio Scalfari. COSÌ MENTRE sulla storia del quotidiano stasera in Emilia si proietterà un film Rai di Minoli (altra coincidenza), dove si decide davvero, Monti ha già fatto le sue mosse. Imponendo Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi come tutori di una Rai che va trasformata: promettono ordine, distanza dai partiti, lotta agli evasori del canone. Il ritornello che da anni fuoriesce da Palazzo Chigi. Al settimo piano di Viale Mazzini si aspettano rientri per 500 milioni di euro, e la vendita parziale di Raiway, la società del gruppo che detiene torri e tralicci, non può bastare. In attesa del miracolo, serve pragmatismo. Quello che fin dai tempi della Sme a Carlo De Benedetti non è mai mancato. Così l’opzione Rai prende forma. Non c’è stata privatizzazione italiana che non sia stata completata a prezzi da saldo. E lo sconto da praticare alla Cir, in questo caso, renderebbe del tutto velleitaria la tentazione di ieri. Entrare a La7 acquistandone il 40% per circa 300 milioni, spendere per l’emittente che a diventare Terzo Polo, proprio non riesce. La7 gode di ottima stampa e ha buoni (a tratti eccellenti) risultati del Tg di Mentana. Ma rimane ferma a un 3% di media che è poco per contare e quasi niente per competere. All’investimento iniziale, per gareggiare, esistere, dare ragione all’impresa e vincere le resistenze del figlio Rodolfo, l’ingegnere avrebbe dovuto aggiungere quasi il doppio. La piattaforma Rai metterebbe in circolo motivazioni differenti. Il partito di Rep. La sua (anelata) dimensione pedagogica. Ieri i sondaggisti lo stimavano a un incredibile 7%. Allargare il consenso è la frontiera moderna. Tentare dal piccolo schermo, l'antica regola di un avversario che l'ingegnere conosce bene.

Corriere 15.6.12
Rai, ecco gli «alieni» di Bersani. Trenta sigle per fare due nomi
Il tratto comune: la richiesta del ritorno di Santoro
di Paolo Conti


ROMA — «Lo dico con la massima franchezza. Le persone costrette a uscire dalla Rai per ragioni politiche, tra queste per esempio Michele Santoro, dovrebbero rientrare. Le discriminazioni in un regime di libertà sono odiose e inaccettabili». Così dice il professor Gennaro Sasso, filosofo, membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia», una delle quattro associazioni che hanno ricevuto l'invito a presentare due candidature della società civile per il nuovo Consiglio di amministrazione di viale Mazzini da parte del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Ancora Sasso: «Fatta qualche eccezione, l'attuale informazione Rai non è lo strumento di controllo e sorveglianza del potere politico che un servizio pubblico dovrebbe garantire... L'ascolto dei tg Rai è spesso demoralizzante».
Lunedì le quattro associazioni coinvolte (appunto «Libertà e giustizia» presieduta da Sandra Bonsanti, «Libera» di don Mario Ciotti, Il «Comitato per la libertà e il diritto all'informazione» e «Se non ora quando?») si incontreranno per cercare una sintesi in vista della Commissione di vigilanza convocata per giovedì 21 giugno. Operazione non facile, sulla carta. Per esempio «Se non ora quando?» non ha una singola coordinatrice. E il «Comitato per la libertà e il diritto all'informazione», che si riunirà sabato, nato il 3 ottobre 2009 in occasione della manifestazione per la libertà di stampa in piazza del Popolo, raduna a sua volta una galassia di ventisette sigle (tra cui, solo per citarne alcune, la Federazione nazionale della stampa, Mediacoop, Articolo21, Federazione dei settimanali cattolici-Fisc, Confcooperative-cultura, Slc-Cgil, Ugl, Arci, Acli, Tavola della pace, Popolo viola...). In tutto trenta referenti (ventisette per il Comitato più gli altri tre). Trovare un accordo su due nomi non si annuncia operazione semplicissima. Ma già ieri Sandra Bonsanti, per esempio, era al lavoro per organizzare una riunione di «Libertà e giustizia» e per contattare gli altri.
Dice l'attrice Lunetta Savinio, di «Se non ora quando?»: «Cosa vorrei da una nuova Rai? Tante cose. Il ritorno di Santoro? Certo, anche. Mi piacerebbe un'azienda più creativa, vitale, capace di scommettere e di osare, di rinfrescare i palinsesti con passione e inventiva. Spero che, formulando le candidature, si tenga conto della necessità di indicare persone competenti e di assoluta indipendenza». Aggiunge Roberta Agostini, anche lei di «Se non ora quando?», consigliere provinciale pd a Roma: «Santoro? Una Rai che epuri è inaccettabile. Urge poi che il servizio pubblico abbandoni una rappresentazione schematica e spesso volgare della donna». L'associazione «Libera» immagina «un servizio pubblico che sappia interessarsi alle storie, alle fatiche, alle speranze delle persone, delle fasce deboli, del volontariato».
Anche la politica tradizionale continua a occuparsi di Rai. Angelino Alfano, segretario pdl, difende il direttore generale uscente Lorenza Lei: «Noi chiediamo solo: perché è stata sostituita? La Rai è un'azienda, e un'azienda si valuta dai risultati aziendali: come direttore generale Lorenza Lei ha portato risultati soddisfacenti sia dal punto di vista dei conti sia del regolare funzionamento dell'azienda».
Il leader dell'Italia dei valori Antonio Di Pietro ricorda che sono possibili anche le autocandidature. Infatti c'è il curriculum spedito alla Commissione di vigilanza da Aldo Forbice, 40 anni di lavoro alla Rai: «Ora che si è deciso di contenere l'eccessiva ingerenza dei partiti nel servizio pubblico e di valorizzare le professionalità, io rientro in questo modello». Autocandidatura alla vigilanza anche da Alessandro Campi, politologo dell'università di Perugia.

Corriere 15.6.12
I cattolici, il partito e il ruolo del premier
di Roberto Mazzotta


Caro direttore,
nell'articolo molto condivisibile pubblicato dal Corriere della Sera, il professor Antiseri augura la fine della diaspora politica dei cattolici e la formazione di un partito sturziano di cristiani «liberali e solidali». Gli fa seguito, sempre sul Corriere, il ministro Riccardi con alcune osservazioni realistiche e necessariamente non conclusive. Vediamo se riesco a fare qualche piccolo passo avanti. Partiamo dal contesto. Io non partecipo alle rappresentazioni del carro di Tespi del catastrofismo. Penso però che conviveremo a lungo con un pesante rallentamento delle attività e abbiamo purtroppo ritrovato la povertà che eravamo riusciti a battere come malattia sociale. Una consumata abilità ha consentito di mettere in campo un Governo di persone per bene che alterna piccoli miracoli a modesti errori, ma il termine della legislatura è terribilmente vicino e il quadro dell'offerta politica è molto debole. È opportuno però non trascurare le positività su cui si potrebbe contare, come la nostra capacità di lavoro, di risparmio, di umanità. Vi è quindi una domanda immensa di buona politica. In queste condizioni se il cosiddetto «mondo cattolico» continuasse a rimanere disperso e quindi sostanzialmente assente, si macchierebbe di una colpa grave. È certo che la società italiana è ben diversa rispetto ai tempi di Sturzo o di De Gasperi. La realtà non è più la stessa e quella che Antiseri chiama con il suo umorismo semplificatorio «la truppa» oggi è tutta un'altra cosa. Però, attenzione c'è un però, l'esigenza di oggi non è quella di realizzare potenti schieramenti da contrapporre a «nemici» storici o politici, ma è quella di concorrere a colmare un vuoto che è diventato pericoloso e che porterà alla crisi civile, se non si troveranno rimedi. Occorre avviare un nuovo ciclo politico, mettendo come fattore comune l'impegno per tutelare le libertà personali e collettive, far vivere una società solidale, ricostruire le condizioni dello sviluppo e del lavoro. È un progetto possibile che ha come metodo l'apertura, come connotazione la laicità, come sostanza la ricchezza dei valori etici e civili ben presenti ed esemplari nelle storie politiche dei cristiani, dei liberali e dei socialisti che realizzarono la liberazione e la ricostruzione. Il forum delle Associazioni riunì l'anno scorso a Todi uno schieramento largo e omogeneo, le Acli e la Cisl, le cooperative e gli artigiani, i coltivatori diretti e le piccole imprese e con loro l'associazionismo cristiano che opera nel mondo della cultura, della comunicazione, della pratica religiosa per un primo confronto di propositi. Il mese scorso ha pubblicato un documento unitario, «Per la buona politica», e intende proseguire la sua strada di riflessione e di proposta. Si tratta di un lavoro prezioso che, se concorreranno le condizioni e le volontà necessarie, è in grado di assumere la consistenza di un progetto politico dotato di idee forti, aggiornate e aperte e sostenuto da strutture articolate e rappresentative. Ma quale progetto? La discussione è aperta e la strettezza dei tempi la costringerà a essere concludente. La mia convinzione è che si debba percorrere una strada in qualche modo già segnata. Il panorama delle forze politiche che hanno fin qui occupato la scena ha le caratteristiche che tutti vedono. D'altra parte gli interessi italiani sono nella bufera, al centro di una crisi europea che non consente vuoti di potere o manifestazioni di confusione politica. Né possiamo permetterci dal risultato elettorale della primavera prossima esiti simili a quello greco. Se fossimo previdenti, avremmo il dovere di assegnare alle forze riunificate e riattivate dall'associazionismo cristiano il compito di funzionare come elemento aggregante delle energie vive del Paese, favorendo un vasto rassemblement capace di chiedere agli elettori di dare una base forte e stabile di legittimità democratica alla continuità di un'azione di governo che possa essere efficace e credibile là dove è necessario e decisivo esserlo, a Bruxelles, a Berlino, a Washington. Possiamo convenire, essendoci guardati intorno, che il ruolo indispensabile di «federatore» di quel rassemblement spetti al capo del governo che porta il Paese alle elezioni e chiede ai cittadini di poter continuare un lavoro altrimenti lasciato a metà con l'autorevolezza che deriva solamente dalla volontà popolare. A un simile proposito, laico e riformatore, l'associazionismo cristiano saprebbe anche offrire una parte di nuova classe dirigente, preparata e pulita, già sperimentata nel lavoro sociale e civile in tutte le realtà del Paese. Un amico mi ha suggerito un bel verso di Hölderlin: «Là dove è il pericolo cresce anche ciò che salva». Dobbiamo crederci.

Corriere 15.6.12
L'apertura dello Ior ai giornalisti


Ior: cade un altro velo. Tra un paio di settimane un gruppo di quaranta-cinquanta giornalisti potranno partecipare ad un briefing che si terrà all'interno della cosiddetta banca del Papa. Si tratta di un'inedita apertura verso il mondo dei media. Come è avvenuto qualche tempo fa, con gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, il direttore generale della banca, Paolo Cipriani, offrirà un dettagliato quadro generale della struttura e delle operazioni della banca. Non sarà una vera e propria conferenza stampa, ma ci sarà un po' di tempo per domande e risposte. Sarà in ogni caso la prima volta che lo Ior sarà aperto ad un gruppo di giornalisti, dopo che Cipriani ha recentemente concesso un'intervista al Corriere della Sera, rispondendo ad alcuni dei più comuni interrogativi relativi allo Ior, come quello relativo a conti segreti cifrati e a conti intestati a politici italiani e stranieri. (Cipriani ha negato entrambi). Questo nuovo passo nell'impegno alla trasparenza, in corso in Vaticano in relazione alle finanze, è stato annunciato ieri da padre Federico Lombardi, il portavoce della Sala Stampa Vaticana. Sembra che non saranno però possibili riprese o dirette televisive o in streaming perché l'incontro sarà classificato come «di background».
M.A.C.

Repubblica 15.6.12
“Domenica cambieremo la Grecia” scontro finale prima delle urne
Un sondaggio dà il centro destra vincente e la Borsa vola
di Ettore Livini


ATENE E, SULL’ESITO delle elezioni, lui non ha dubbi: «Qui tutti vogliono cambiare. E per cambiare c’è un solo modo: votare Syriza», dice sventolando alla luce del tramonto la bandiera bianca della sinistra radicale ellenica sotto il palco di Omonoia dove Alexis Tsipras, il 38enne leader del partito anti-austerity che tiene con il fiato sospeso tutta l’Europa, sta per chiudere la sua campagna elettorale.
Atene, dopo tre anni da brividi in cui il Pil è crollato del 20% e la disoccupazione è volata al 22%, è arrivata al bivio finale: da una parte l’euro e lo zuccherino di 240 miliardi di aiuti targati Ue-Bce e Fmi. Assieme – conditio sine qua non – al calice amaro di un’austerity da brividi. Dall’altra la catarsi: il “no” ai paletti della Trojka con il rischio del ritorno alla dracma. Sommati, come temono da Bruxelles, a un effetto domino che rischia di travolgere tutto il Vecchio continente, trascinando nel baratro i paesi più deboli, Spagna e Italia in testa.
«Questo è un referendum», urla Dimitris in mezzo a tanti giovanissimi mentre “O bella ciao” in versione Modena City Ramblers rimbomba dagli altoparlanti in tutta la piazza. E’ vero. Il nuovo voto ad Atene è una sfida a due. «Da una parte il sì al memorandum che ci ha messo in ginocchio, dall’altra il nostro piano di rinascita nazionale», tuona dal palco, camicia bianca e niente cravatta (come tradizione) Tsipras. Da una parte lui, il volto nuovo della politica nazionale, «un abile demagogo come il vecchio Andreas Papandreou», ammette lo scrittore Nikos Dimou. Dall’altra, nelle improbabili vesti di principe azzurro della Ue, il “vecchio” (in senso politico) Antonis Samaras, leader del centrodestra di Nea Demokratia che contenderà a Syriza la vittoria alle elezioni. Primo punto del suo programma: la permanenza del paese nell’euro. E ieri un sondaggio segreto lo dava addirittura
in vantaggio (29% contro il 26% di Syriza), tanto che la Borsa di Atene ha brindato con un balzo del 12% La posta in gioco al voto di domenica, come ci ricordano i
mercati ogni giorno, è altissima. E la vera partita comincerà lunedì, quando una Grecia abituata per 37 anni all’alternanza tra i socialisti del Pasok e Nd dovrà provare a formare un governo di coalizione. Un pezzo del copione è già scritto: se vince il centrodestra, Bruxelles tirerà un sospiro di sollievo. Ma sarà costretta in ogni caso a fare qualche concessione ad Atene visto che anche i partiti pro-euro chiedono in un modo o nell’altro un ammorbidimento delle condizioni del salvataggio imposto dalla Trojka. «Dobbiamo rivedere tempi e modi», ha promesso ai suoi elettori Samaras. «Servono uno o due anni in più per fra quadrare i conti», sostiene il leader del Pasok Evangelis Venizelos che potrebbe essere l’ago della bilancia post-elettorale garantendo sostegno a un governo di salvezza nazionale.
Se a vincere sarà Tsipras e riuscirà pure a mettere assieme una maggioranza di sinistra «sarà tutta un’altra musica», garantisce Yorgos Mitsosakis sotto il palco del leader di Syriza. «Ricostruire la Grecia, cambiare l’Europa », recita lo slogan sullo sfondo
del palco, in un campo azzuro che fa tanto Forza Italia. Come? A spiegarlo è senza troppi giri di parole il programma del partito: «Il memorandum è carta straccia», ripete come un mantra il giovane leader dal palco. Atene smetterà di pagare gli interessi sul debito fino a un’intesa con i governi della Ue. Le banche verranno nazionalizzate, il salario minimo sarà rialzato del 22%, i contratti nazionali di lavoro – cancellati dalla Trojka – verranno ripristinati d’ufficio e i 150mila tagli nel settore pubblico imposti da Ue, Bce e Fmi saranno sostituiti da nuove assunzioni per rafforzare la macchina dello Stato. Sperando che la Ue, pur di non far crollare tutta l’architettura dell’euro, accetti di venire a patti con il nuovo governo senza chiudere il rubinetto degli aiuti.
«Non è un programma credibile – grida urbi et orbi da giorni Samaras -. E’ un libro dei sogni che costa 45 miliardi a un paese che di soldi non ne ha». Peccato per lui che un bel pezzo di Grecia, stanco dei vecchi partiti che l’hanno ridotta in queste condizioni (Nd compresa) abbia voglia di sognare senza pensare troppo ai costi. Dimenticando che senza il salvagente della Trojka, la Grecia dal 20 luglio non avrà più soldi per pagare pensioni e stipendi statali.
La realtà a dire il vero ha già iniziato a presentare il suo conto. Depa, la multitutility nazionale del gas e Den, quella elettrica, non hanno più quattrini in cassa. Le famiglie in crisi (i redditi dei dipendenti pubblici sono calati del 25%) non pagano le bollette e le forniture di idrocarburi – la maggior parte arrivano dalla Russia via Gazprom – vanno pagate. Morale: l’autorithy dell’energia è stata costretta a convocare una riunione d’emergenza per evitare che la crisi di liquidità delle sue grandi aziende finisca per lasciare la Grecia al buio.
Il Titanic ellenico naviga insomma in acque agitate verso un voto dall’esito incertissimo. E con i sondaggi off limits da una settimana, ognuno fa campagna elettorale a modo suo. I nazional- socialisti di Chrysy Avgi, ad esempio, stanno provando a combattere il previsto calo di consensi (dovrebbero scendere dal 6,95% al 4% circa) riaprendo nel loro stile la questione immigrazione. «Nessuno di noi si fida più a viaggiare da solo in metro nelle fermate tra Omonia e Kato Patissia», dice Ahmed, 22enne ex muratore rrivato due anni fa dal Pakistan. Tre fermate dove in poche settimane diversi clandestini sono stati attaccati e malmenati da misteriose – ma non troppo – squadracce di presunti giustizieri metropolitani di ultra destra.
Sia Samaras che Tsipras, per fortuna, hanno escluso alleanze con i neonazisti di Alba d’Oro. «Riusciremo a fare un governo da soli», assicura sorridendo Dimitris, ripiegando la sua bandiera mentre le canzoni di Patty Smith e del Boss Springsteen assieme all’intramontabile “El Pueblo Unido” - chiudono il comizio finale di Syriza. Domani toccherà a Samaras, che come inno per galvanizzare gli elettori ha scelto la colonna sonora de “I pirati dei caraibi”. L’Europa spera che la sfida finale della tragedia greca non finisca con il suo funerale. Magari sulle austere note mitteleuropee del Requiem di Mozart.

l’Unità 15.6.12
Rapporto di Amnesty: «In Siria crimini contro l’umanità»
di Virginia Lori


«Lo scioccante crescendo di uccisioni illegali, torture, detenzioni arbitrarie e distruzioni indiscriminate di abitazioni dimostra quanto sia urgente la necessità di una decisiva azione internazionale per fermare l'ondata degli attacchi, sempre più massicci e impuniti, delle forze armate e delle milizie governative shabiha in Siria». È l'appello lanciato da Amnesty International, che ha presentato il nuovo rapporto dal titolo Rappresaglie mortali con nuove prove delle ampie e sistematiche violazioni dei diritti umani e accusa il governo siriano. Per Amnesty si tratta di «crimini contro l'umanità e crimini di guerra, perpetrate nell' ambito di una politica di Stato destinata a compiere rappresaglie contro le comunità sospettate di sostenere l'opposizione e a intimidire e assoggettare la popolazione». Violazioni che l'organizzazione per i diritti umani ha potuto verificare sul posto, pur non ricevendo un'autorizzazione ufficiale da parte delle autorità locali a entrare nel Paese. Notizie allarmanti arrivano anche dall'Osservatorio siriano dei diritti umani secondo il quale i morti sono almeno 14.400 dal marzo del 2011, cioè dall'inizio della rivolta contro il governo Assad. Le vittime sono prevalentemente civili: secondo il presidente dell'Osservatorio, Rami Abdel Rahman, si tratta di «10.117 civili, 3.552 soldati e 807 disertori». Solo nell'ultimo mese, da quando è iniziato il cessate il fuoco con l'arrivo degli osservatori Onu in Siria, le persone rimaste uccise sono oltre 2mila.
Ieri gli osservatori delle Nazioni Unite in Siria hanno finalmente raggiunto le aree che sono state epicentro degli ultimi massacri. «Un forte odore di cadaveri» in una «città deserta» con gran parte degli edifici governativi incendiati. Questo è lo spettacolo che, secondo le loro prime testimonianze, si offerto ai loro occhi a Haffe, assediata e bombardata per otto giorni dalle forze governative. Ma i bombardamenti sono proseguiti su altri centri, in particolare a Homs e Daraa, con gli attivisti dell'opposizione che parlano di almeno 40 morti nelle ultime ore.
Una nota di ieri dalla casa Bianca riferisce di un presidente americano, Barack Obama, che«non vede l'ora di incontrare il presidente russo, Vladimir Putin, al G20 di Los Cabos» e precisa che nel corso dell’incontro bilaterale tra i due «si discuterà anche di Siria», nel tentativo di superare il veto russo ad una risoluzione Onu contro Assad.

Corriere 15.6.12
Saad Eddin Ibrahim

«La transizione ora si complica ma Piazza Tahrir non può morire»
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — «Ma quale colpo di Stato, le due sentenze dell'Alta Corte sono finalmente un segno che la legge e la magistratura sono rispettate anche in Egitto, sono un passo che nel lungo termine si rivelerà positivo per il nostro Paese e che tutti dovrebbero accettare proprio in nome della democrazia e della Rivoluzione». A schierarsi contro le proteste di gran parte dell'opposizione all'ancien regime e alla Giunta è, a sorpresa, il dissidente più noto dell'era Mubarak. Sociologo, accademico, nemico giurato dell'ex raìs che lo volle in carcere per anni proprio per le sue pubbliche accuse e lo costrinse poi all'esilio in Usa, Saad Eddin Ibrahim, 73 anni, era tornato in Egitto il giorno della caduta del regime, l'11 febbraio 2011. L'avevamo accolto all'aeroporto con i suoi sostenitori e aveva parlato di «grande vittoria del popolo», dell'«inizio di una nuova era».
Lo pensa ancora oggi, la Rivoluzione non è morta?
«No, il Paese non tornerà più indietro a quegli anni bui. Nemmeno se Mubarak tornasse raìs potrebbe dominarci come in passato. Ma i giovani di Tahrir, troppo idealisti, hanno fatto errori enormi. Non si sono organizzati e hanno demonizzato i leader, i partiti, la politica. Questo è il prezzo che ora pagano, una transizione più lunga di quanto tutti avremmo sperato. Ma il Paese si è svegliato, per la prima volta tutti s'interessano alla politica e la paura è stata abbattuta».
Non crede che Shafiq, a cui l'Alta Corte ha spianato la strada, sia un ritorno al vecchio regime?
«No, anche su questo dissento. E anzi lo voterò. Al primo turno avevo scelto il candidato socialista arrivato terzo, ora voterò lui perché temo molto di più una vittoria dei Fratelli Musulmani. Tra un laico e un religioso io non ho dubbi, anche se molti tra i miei amici e i miei compagni di lotta e perfino in famiglia non sono d'accordo. E conosco Shafiq: pochi giorni fa ho passato tre ore con lui e gli ho chiesto di impegnarsi su sette punti per me cruciali, dai diritti umani e alle libertà, all'impegno di lasciare dopo un mandato. Ha accettato, ufficialmente. E credo che sarà di parola».
Eppure la Giunta ha appena reintrodotto la legge che permette l'arresto di civili solo perché sospetti. Non è un pessimo segno?
«È negativo, certo. Ma in politica si chiede e si concede. Se vogliamo che i militari lascino il campo ai civili dobbiamo dare loro qualcosa, anche l'elezione di Shafiq è in parte una concessione perché i militari con lui non si sentiranno minacciati e si ritireranno progressivamente. E intanto è importante che il loro potere non sia assoluto. Accanto ai tre poteri tradizionali, il legislativo, il giudiziario, l'esecutivo che comprende anche la Giunta, ormai ne esiste un quarto, ovvero Tahrir. Quattro entità che si bilanciano, a volte una prevale sull'altra come è stato ora con il giudiziario, o si attenua, come è sempre ora per il Parlamento. Ma mai in modo duraturo. Anche le difficoltà di Tahrir non sono assolute. La Rivoluzione ha solo inciampato negli ultimi mesi, non è affatto finita».

Repubblica 15.6.12
La rivoluzione sequestrata dagli estremisti
di Tahar Ben Jelloun

LA SENTENZA della Corte Costituzionale egiziana di ieri ha annullato la vittoria degli islamisti in Parlamento. Ma, al di là di questo recente sviluppo, la domanda da porsi è perché le rivolte arabe abbiano comunque finora finito per favorire gli islamisti a discapito delle forze democratiche, nonostante i militanti religiosi non abbiano né promosso le rivolte né partecipato.
La prima ragione che salta agli occhi è l’assenza di democrazia in questi Paesi: organizzare delle elezioni è una tecnica, non una cultura ben assimilata. Nessun Paese arabo è ancora mai riuscito a diventare uno Stato di diritto. La seconda ragione sta nelle inquietudini suscitate dalla crisi economica e finanziaria che scuote il pianeta. La religione diventa un rifugio metafisico. Contro l’assurdità del denaro virtuale, contro la speculazione che manda in rovina milioni di famiglie, il musulmano esibisce la sua religione, si ripara dietro di essa come una protezione magica, e soprattutto tranquillizzante. L’islam è per natura conciliante, raccomanda la pazienza e il ricorso a Dio.
I tunisini e gli egiziani, per esempio, hanno scelto in maggioranza l’islam come cultura e identità: l’esercizio quotidiano di questa religione li fa star bene. Tutto nasce dal fatto che i dittatori che li hanno dominati per decenni erano percepiti come emanazioni della politica occidentale. L’Occidente nel suo complesso — Europa e Nordamerica — è considerato complice dei dittatori, ma anche origine di una cultura laica in conflitto con le tradizioni ancestrali di una società dove l’islam è sempre stato vissuto come una morale e come la fonte di un grande civiltà. La laicità è concepita dagli islamisti non come una separazione fra religione e Stato, ma come una negazione della religione, un ateismo mascherato che non ha il coraggio di dichiararsi apertamente. Il dibattito viene respinto in blocco. Esiste una società civile che fa della laicità il suo cavallo di battaglia, ma è minoritaria e viene combattuta con argomentazioni infondate e demagogiche, e in certi casi con violenza criminale.
Spazio all’islam allora, in quanto ideologia, morale, cultura e identità! Questo islam trionfante rassicura senza grande sforzo. Sul volto dei militanti e dei dirigenti islamisti si legge una soddisfazione beata. Sono felici. Hanno la sensazione che ormai più niente possa intralciare i loro progetti.
In Marocco esiste una società civile dinamica che considera l’islamismo solo una tappa nel processo di democratizzazione del Paese. Ben diversa è la situazione in Egitto, dove la rivoluzione non ha ancora partorito tutte le speranze della gente e dove la resistenza dei dimostranti, che vedono la rivoluzione sequestrata dai fanatici, è viva e per nulla rassegnata. Le elezioni presidenziali hanno dimostrato almeno una cosa: ogni voto conta e malgrado qualche broglio c’è stata incertezza fino all’ultimo. Truccare e orientare il voto a piacimento, come faceva prima Mubarak, ormai è impossibile. Gli islamisti hanno ottenuto solo un ottavo dei voti complessivi, ma subiscono la concorrenza dei salafiti, che vogliono l’applicazione immediata della sharia e l’intervento dello Stato nell’economia e sono nemici dichiarati dei cristiani copti. I loro militanti vengono dai quartieri poveri. Rispetto a loro i Fratelli musulmani appaiono come il male minore: vengono votati dai ceti medi e in campo economico sono liberisti. Mohamed Morsi, il candidato del partito, ha buone speranze di vincere il ballottaggio e in questo caso dovrà scendere a compromessi con i militari, che faranno di tutto per mantenere i privilegi economici concessi da Mubarak.
Nonostante una legge vieti agli esponenti del vecchio regime di presentarsi alle elezioni, il generale Ahmad Shafiq, ultimo primo ministro di Mubarak, è riuscito ad aggirarla e ora è al ballottaggio. Può contare sul sostegno plebiscitario dei copti e dei nostalgici del mubarakismo. I militari lo appoggiano: dallo scoppio della rivoluzione più di 12.000 giovani sono stati arrestati e condannati da tribunali militari speciali, e altri cittadini sono stati uccisi nel corso di proteste di piazza.
A prescindere da quelli che saranno i risultati finali, il popolo egiziano è consapevole che la tappa islamista sia ineluttabile. Quando si dovranno misurare con i problemi reali, perderanno credibilità, la delusione è scontata. Lo Stato di diritto non si introduce per decreto, si costituisce giorno dopo giorno, attraverso le difficoltà e le esigenze di una reale cultura democratica.
C’è un ultimo aspetto che favorisce la vittoria degli islamisti un po’ ovunque nel mondo arabo: la paura dell’islam in Europa è sempre più alimentata da politici e intellettuali che parlano di «fascismo verde» e di minacce per l’identità europea. Queste opinioni hanno confortato l’islamofobia latente, favorendo gli inquietanti successi dei partiti di estrema destra in Norvegia, Finlandia, Olanda e Serbia, senza parlare del successo del Fronte nazionale in Francia o di quello dell’Unione democratica di centro in Svizzera (26,6 per cento). La paura dell’islam è un buon alleato dell’estremismo e del razzismo. Alcuni islamisti usano gli stessi stratagemmi per rigettare tutto quel che viene dall’Occidente e mettono in scena le provocazioni che inquietano le popolazioni europee.
(Traduzione Fabio Galimberti)

La Stampa 15.6.12
Mosca, Putin non perdona la starlette che lo ha tradito
La polizia nella casa della Sobchak, la regina del jet set diventata dissidente
di Mark Franchetti


Come personaggio mondano più noto della Russia, Ksenia Sobchak non è nuova allo scandalo. Ha oltraggiato i conservatori con un reality show in cui i concorrenti facevano quasi sesso in diretta e una volta sulla tv nazionale ha esaltato i pregi della masturbazione nella vasca da bagno. Ma per anni i russi l’hanno ritenuta intoccabile dato che suo padre era il mentore politico di Vladimir Putin. E lei non ha mai smentito la voce ricorrente che il presidente russo fosse il suo padrino. Le cose appaiono molto diverse oggi, sei mesi dopo che Sobchak ha sorpreso fan e critici unendosi alle proteste anti-governative di piazza e re-inventandosi come un’aspra critica del Cremlino.
Dando il segno più evidente che Putin ha infine perso la pazienza con la figlia di colui che gli diede il suo primo incarico politico, pochi giorni fa una ventina di poliziotti armati hanno fatto irruzione nell’appartamento di Sobchak. Nel contesto di un giro di vite contro l’opposizione seguito all’inizio, il mese scorso, del terzo mandato presidenziale di Putin, la polizia ha anche perquisito le abitazioni di altri tre principali critici del Cremlino e li ha convocati per un interrogatorio.
Il raid di prima mattina a casa Sobchak è stato particolarmente sgradevole. Corpulenti poliziotti hanno impedito all’appariscente celebrità di vestirsi in modo appropriato e al suo avvocato di entrare nel palazzo prima che finisse la perquisizione dei suoi effetti personali.
Gli investigatori hanno letto beffardamente ad alta voce alcune delle sue lettere d’amore ai sogghignanti poliziotti mascherati a guardia dei locali che, almeno ufficialmente, sono stati perquisiti in relazione a una grande inchiesta su episodi di violenza a una manifestazione contro Putin il mese scorso.
Anche se Sobchak, 30 anni, non aveva nemmeno partecipato alla manifestazione, il suo passaporto è stato confiscato dagli investigatori che hanno anche sequestrato circa 2 milioni di dollari in contanti dalla sua cassaforte. La magistratura ha annunciato un’inchiesta per appurare se ha pagato le tasse su questa somma.
La più famosa donna contemporanea della Russia, Sobchak, che guadagna oltre 2 milioni di dollari l’anno principalmente come conduttrice televisiva, ha spiegato che teneva i soldi a casa perché non si fida delle banche. E che non doveva niente al fisco. Uno dei poliziotti le ha detto che il raid era stato fatto «per punirla per essersi messa con le persone sbagliate. »
«Questa è una vendetta politica - ha detto Sobchak -. È chiaro ed evidente che hanno rubato i soldi che ho guadagnato con il mio lavoro. E per fortuna non hanno messo droga nel mio appartamento». E poi: “Si sono comportati in modo del tutto illegale, da criminali. La cosa più sconvolgente è stata la sensazione di impotenza. Le mie mani tremavano. Ero alla loro mercé e mi hanno fatto sentire che potevano far di me quel che volevano. Stiamo assistendo alla trasformazione di un sistema autoritario in dittatura”.
Suo padre, Anatoly Sobchak, sindaco liberale di St Petersburg nei primi Anni 90, fu il capo e il mentore politico di Putin. Dodici anni dopo la sua morte, Putin parla ancora con affetto di lui. In un’imprevedibile metamorfosi Sobchak è passata da ragazza glamour nota per una serie di fidanzati ricchi, servizi fotografici espliciti e l’amore per il lusso a tagliente commentatrice sociale e politica. I suoi tweet e il suo blog hanno più di 300.000 seguaci.
«Il mio malcontento covava da tempo, ma ero combattuta tra la mia eterna gratitudine verso Putin come essere umano per come ha aiutato la mia famiglia e il mio crescente giudizio negativo per quello che sta succedendo nel Paese». Da allora è diventata ospite fissa ai raduni anti-Putin e durante le elezioni presidenziali ha lavorato come osservatore indipendente. Presenta anche due talk show politici televisivi ed è diventata una critica irriverente delle autorità.
«La società sta cambiando e voglio dare il mio contributo. Persone come me, cui è andata bene sotto Putin, ora si guardano intorno e si rendono conto che l’aria è soffocante, vogliamo una società più giusta». «Putin è fedelissimo a quelli che considera vicino a lui - ha detto un ex consigliere del Cremlino -, ma è anche spietato con quelli che pensa lo tradiscano. Agli occhi della macchina repressiva russa Sobchak è un bersaglio lecito ora che si è messa pubblicamente contro il Cremlino». «Le cose si sono fatte già molto serie - ha detto Sobchak -. Certo che fa paura, ma non vedo perché dovrei cambiare la mia posizione. La mia sola colpa è di aver espresso liberamente la mia opinione».
* Corrispondente da Mosca per il «Sunday Times» di Londra Traduzione di Carla Reschia

Repubblica 15.6.12
Europa, và a scuola da Keynes
di Amartya Sen


Provocando anzi condizioni di miseria, confusione e caos. E ciò per due ragioni. Innanzitutto, a volte anche le intenzioni più rispettabili mancano di lucidità: di fatto, i fondamenti dell’attuale politica di austerità, in un contesto di rigidezza come quello dell’Unione monetaria europea (in assenza di un’unione fiscale) non costituiscono certo un modello di coerenza e sagacia. In secondo luogo, un’intenzione fine a se stessa può confliggere con una priorità più urgente, che in questo caso è quella di salvaguardare un’Europa democratica e impegnata per il benessere sociale. Sono questi i valori per i quali l’Europa si è battuta per molti decenni.
È indubbiamente vero che alcuni Paesi europei avrebbero dovuto adottare da tempo comportamenti economici e gestionali più responsabili. In questo campo si pone però il problema cruciale dei tempi di attuazione: occorre distinguere tra le riforme varate in base a un calendario accuratamente calibrato, e quelle decise in condizioni di estrema urgenza. Nel caso della Grecia, va detto che al di là dei suoi problemi di accountability,
questo Paese non versava in una situazione di crisi economica prima della recessione globale del 2008. (Di fatto, il suo tasso di crescita è stato del 4,6% nel 2006 e del 3% nel 2007, per poi calare in maniera costante negli anni seguenti).
La causa delle riforme, per quanto urgenti, non si serve al meglio imponendo unilateralmente tagli repentini e brutali dei pubblici servizi. Questi interventi indiscriminati abbattono la domanda, e rappresentano quindi una strategia controproducente, anche a fronte degli elevati tassi di disoccupazione e della bassa produttività di un sistema imprenditoriale già decimato dal calo della domanda dei mercati. In Grecia, uno dei Paesi lasciati ai margini degli incrementi di produttività conseguiti altrove, gli interventi di stimolo economico attraverso strumenti di politica monetaria (o in altri termini, la svalutazione della moneta) sono oggi preclusi dall’esistenza dell’Unione monetaria europea; e al tempo stesso, il fiscal package
richiesto dai leader dell’Ue frena severamente la crescita. In tutta l’Eurozona, i livelli di produzione sono calati in maniera costante nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Le prospettive erano buie, a tal punto che molti hanno accolto come una buona notizia il dato di crescita zero riferito da uno studio recente sull’andamento del primo trimestre di quest’anno.
Di fatto, numerosi esempi storici dimostrano che la politica di risanamento più efficiente consiste nell’affiancare alle misure di riduzione del deficit gli stimoli per una rapida crescita economica, per generare un incremento dei redditi. Dopo la Seconda guerra mondiale fu proprio la crescita economica a consentire il rapido riassorbimento dei gigante-
schi livelli di deficit; e qualcosa di analogo accadde durante la presidenza di Bill Clinton. Anche
la riduzione del deficit di bilancio svedese tra il 1994 e il 1998, spesso decantata, ha potuto essere ottenuta in parallelo con un ritmo di crescita abbastanza rapido. Oggi avviene il contrario: ai Paesi europei si chiede di tagliare i propri deficit in un periodo di crescita stagnante, se non addirittura negativa.
Avremmo sicuramente molto da imparare da John Maynard Keynes, che aveva ben compreso il rapporto di interdipendenza tra Stato e mercato, anche se non prestava un’attenzione particolare ai temi della giustizia sociale o alpasso l’impegno politico che permise all’Europa di risollevarsi dopo la Seconda guerra mondiale. Fu quell’impegno a dar vita al moderno welfare e ai servizi sanitari nazionali, creati non a sostegno dell’economia di mercato, bensì per tutelare il benessere dei cittadini.
Ma al di là di Keynes, che non aveva approfondito il suo impegno sulle questioni sociali, esiste una tesi economica tradizionale secondo la quale l’efficienza dei mercati deve andare di pari
con l’offerta di servizi pubblici che il mercato stesso potrebbe non essere in grado di assicurare. In “The Wealth of Nations” (“La ricchezza delle nazioni”) Adam Smith (presentato a volte in maniera un po’ troppo semplicistica come il primo guru dell’economia di mercato) sostiene che un’economia «ha due obiettivi distinti ». In primo luogo, «assicurare alla popolazione abbondanti redditi o sussistenza – o più specificamente, porre i cittadini in condizioni di procurarsi tali redditi o mezzi di sussistenza; e in secondo luogo, fornire allo Stato o alla comunità entrate sufficienti per i pubblici servizi».
L’aspetto forse più inquietante dell’attuale malessere europeo è il fatto che l’impegno democratico è soppiantato dai diktat finanziari, imposti non solo dai leader dell’Ue e dalla Banca centrale Europea, ma indirettamente anche dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci.
Un dibattito pubblico partecipato – un «government by discussion », secondo l’espressione di teorici della democrazia quali John Stuart Mill e Walter Bagehot – avrebbe potuto identificare riforme appropriate, realizzabili in un lasso di tempo ragionevole, senza mettere a repentaglio le fondamenta del sistema di giustizia sociale europeo. Per converso, i repentini e drastici tagli ai pubblici servizi, nella quasi totale assenza di un dibattito per verificarne la necessità, l’equità e l’efficacia, hanno suscitato un senso di rivolta in ampi settori della popolazione europea, facendo il gioco delle ali estreme dello spettro politico.
La ripresa europea sarà possibile solo a condizione di affrontare due questioni di legittimità politica. In primo luogo, l’Europa non può consegnarsi alle tesi unilaterali degli esperti – o alle loro buone intenzioni – in assenza di un pubblico dibattito ragionato, e senza il consenso informato dei suoi cittadini. Dato lo scontento evidente dell’opinione pubblica, non c’è da sorprendersi se di volta in volta varie consultazioni elettorali hanno dimostrato l’insoddisfazione dei votanti, che hanno negato la loro fiducia agli attuali responsabili.
In secondo luogo, la democrazia e la stessa possibilità di una buona politica sono a rischio quando i leader impongono scelte inefficaci e vistosamente ingiuste. L’evidente insuccesso delle misure di austerità finora imposte si riflette negativamente non solo sulla partecipazione pubblica – che rappresenta un valore in sé – ma anche sulla prospettiva di giungere, in tempi ragionevoli, a una soluzione sensata.
Siamo davvero molto lontani dall’idea di un’«Europa democratica e unita» cara ai pionieri
dell’Unione europea.
L’autore è premio Nobel per l’economia (Copyright New York Times 2012 Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Stampa 15.6.12
Quei rimedi per la peste logici, coerenti, sbagliati
Un libro sulla battaglia contro il morbo nell’Italia del ’600: errori di metodo che insegnano qualcosa ancora oggi
di Carlo M. Cipolla


Storico dell’economia Il brano che qui anticipiamo è tratto da Il pestifero e contagioso morbo. Combattere la peste nell’Italia del Seicento , il libro di Carlo Maria Cipolla (foto) pubblicato negli Stati Uniti nel 1981 e finora inedito in Italia, in uscita il 21 giugno per il Mulino. Storico dell’economia che abbinava l’erudizione all’arguzia, autore nel 1988 del bestseller Allegro ma non troppo, Cipolla (1922-2000) ha insegnato nella University of California a Berkeley e alla Scuola Normale di Pisa. Tutti i suoi libri sono pubblicati dal Mulino.

Quando nel 1557-1558 una grave epidemia di influenza colpì la Sicilia, il dottor Giovanni Filippo Ingrassia, nel rivolgersi all’amministrazione di Palermo, ammoniva le autorità a non chiedere ai medici informazioni specifiche sulle terapie, «perché quelli havemo da provedere noi, et si potrà disputare altra volta; ma quanto a quello, che le Signorie V. ricercano da noi, cioè che possano essi provvedere all’universale».
In termini più chiari, la terapia doveva essere affare soltanto del medico, che era direttamente responsabile verso il paziente. Gli uffici della Sanità dovevano «provvedere all’universale», vale a dire alla collettività, in termini di prevenzione.
Le sfere di competenza, tuttavia, non erano e non potevano essere separate in modo così netto. I dottori si occupavano non soltanto della terapia ma anche della prevenzione, ed erano tenuti a fornire consulenza tecnica agli uffici della Sanità su tutti e due gli aspetti. Inoltre, poiché molto spesso le terapie correnti dimostravano di non aver alcuna efficacia contro la peste, gli stessi dottori erano propensi a dare maggiore importanza alla prevenzione che alla terapia. Durante l’epidemia del 1576 il medico genovese Giovan Agostino Contardo scrisse un breve trattato su Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste, nel quale rimarcava che in medicina «la parte preservativa è più nobile assai, e più necessaria che la curativa».
Sono concetti, questi, che danno una bella impressione di modernità. Purtroppo la loro applicazione risultava mal indirizzata e approssimativa, perché sull’eziologia del morbo infettivo prevalevano idee inadeguate. La convinzione predominante riguardo alla peste era che essa fosse originata da atomi velenosi. Che fossero generati da materia in putrefazione o emanati da individui infetti (persone, animali, oggetti), gli atomi velenosi infettavano l’aria salubre e la rendevano «miasmatica», vale a dire velenosa. Era proprio l’aria «corrotta» a costituire, secondo i dottori del Rinascimento, la condizione di base indispensabile perché scoppi un’epidemia di peste.
Oltre che mortalmente velenosi, gli atomi cattivi erano anche estremamente «viscosi»: si attaccavano agli oggetti, agli animali e agli esseri umani allo stesso modo che i profumi e i cattivi odori impregnano i tessuti e gli altri materiali. Se inalati o assorbiti da una persona o da un animale attraverso i pori della pelle, gli atomi pestiferi avvelenavano il corpo, causavano infermità e, in virtù della loro estrema malignità, nella massima parte dei casi portavano alla morte. Per contatto diretto o per inalazione, gli atomi potevano persino passare da oggetto a oggetto, da persona a persona, da un oggetto o un animale a una persona e viceversa. Ne conseguiva logicamente che il solo modo per evitare la diffusione della malattia era interrompere ogni contatto con persone, animali e oggetti provenienti da aree colpite dalla peste.
Nonostante la vaghezza del linguaggio, la teoria di base era semplice, logica e dotata di coerenza interna. Ma semplicità, logicità e coerenza non erano allora né sono mai garanzia di validità. In realtà il sistema teorico in questione non era molto più che ignoranza dogmatica. Dovremmo però badare a non ridere dei dottori del Rinascimento: ancora oggi, trecento anni dopo la rivoluzione scientifica, un’allarmante quantità di sedicenti scienziati sociali sembra credere che, se i propri modelli sono logici e coerenti, devono essere anche esatti. Com’è ovvio, le cose non stanno così. Il vero test di esattezza è l’osservazione, e questo è un fatto incontestabile, con alcune importanti condizioni.
L’uomo non è in grado di comprendere i fatti nuovi senza fare riferimento a un certo numero di concetti esistenti, e tali concetti inevitabilmente modificano il tipo di fatti che egli vede e il suo modo di vederli. Quando un ricercatore osserva la realtà, non opera nel vuoto, perché appartiene al proprio tempo e alla propria società. Persino le parole e i concetti che adopera hanno connotazioni specifiche che sono determinate dai suoi pensieri e dalla sua argomentazione, e non è mai immune da un sistema concettuale di riferimento presupposto in modo più o meno consapevole. Nemmeno il ricercatore più incline all’induzione parte mai da una tabula rasa .
In realtà, se il paradigma dominante è del tutto estraneo alla realtà sotto esame, è possibile che il ricercatore non si accorga nemmeno di quel che gli passa sotto gli occhi (come attesta la storia del microscopio nei primi secoli della sua esistenza) ; se poi nota il fenomeno, può essere indotto a scartarlo considerandolo irrilevante. Il fatto è che ciò che uno osserva è soltanto una particella infinitesimale della realtà, e quella particella acquista un significato soltanto se si adatta bene al mosaico cui appartiene. Se il mosaico giusto non c’è, se non c’è nulla a cui quella tessera minuta possa collegarsi, essa sembra insignificante e non veicola alcun messaggio. Solo il genio d’eccezione può concepire l’intero universo da uno sguardo a una minuscola particella. Se tutto ciò suona ridicolmente astratto, mi sia consentito di citare un episodio significativo che riguarda l’oggetto del libro.
All’inizio del secolo decimosettimo in Francia i medici che visitavano i malati di peste cominciarono a indossare una palandrana di toile-cirée, vale a dire di una sottile tela di lino rivestita di una pasta fatta di cera mescolata a sostanze aromatiche. Questo sinistro vestito divenne molto popolare, soprattutto in Italia, e durante l’epidemia del 1630-1631 venne spesso impiegato non solo in città come Bologna, Lucca e Firenze, ma anche in piccoli paesi della Toscana come Montecarlo, Pescia e Poppi. Allorché una nuova epidemia di peste devastò parte dell’Italia nel 1656-1657, il costume tornò a essere di uso comune a Roma e a Genova. L’idea che stava dietro alla confezione e all’utilizzo dell’abito cerato era che gli atomi velenosi dei miasmi non si «attaccavano» alla sua superficie liscia e scivolosa. E dal momento che il suo impiego sembrava funzionare e rispondere allo scopo, i medici del tempo trovarono in ciò una conferma alle loro teorie sul contagio e sul ruolo dei miasmi.
Padre Antero Maria di San Bonaventura (al secolo Filippo Micone) era un frate sveglio ed energico, che durante l’epidemia del 1657 venne incaricato della gestione del principale lazzaretto di Genova. L’esperienza gli insegnava che coloro che andavano a prestare servizio nei lazzaretti senza essersi mai infettati di peste in precedenza raramente mancavano di contrarre il morbo. Non aveva alcuna fiducia nelle precauzioni correnti, e circa l’abito di tela cerata, ecco cosa aveva da dire: «la tonica incerata in un Lazaretto, non hà altro buon effetto, solo che le pulici non si facilmente vi s’annidano».
L’osservazione del frate sull’abito cerato era corretta e coglieva il punto: quel costume non proteggeva la gente dai miasmi, la proteggeva dalle pulci. Con il suo commento il frate era giunto incredibilmente vicino a una scoperta straordinaria. Ma non la fece. Nel sistema di pensiero dominante le pulci erano animali fastidiosi ma innocui. Ne seguiva che, se l’abito serviva soltanto a proteggere dalle pulci, contro la peste era inutile. Come avrebbe potuto mai pensare, il frate, di sfidare l’intero sistema sulla base di una casuale osservazione riguardo alle pulci? Il sistema di conoscenze era universale e autorevole. L’osservazione sulle pulci era, al contrario, occasionale, quasi una battuta, e sembrò irrilevante anche a lui che l’aveva fatta. Accadde così che il sistema prevalse e l’osservazione andò perduta.

La Stampa 15.6.12
Sul tema del vuoto e dell’invisibile: «Invisible: Art about the Unseen 1957-2012»
Se non vedi l’arte puoi sempre immaginarla
Una singolare mostra a Londra gioca l’azzardo di 50 opere “invisibili”
di Massimo Melotti


Ci sono artisti che hanno sondato nelle loro opere l’invisibile sia come concetto che come linguaggio espressivo, quindi senza che l’«opera» sia necessariamente visibile. A loro è dedicata la mostra «Invisible: Art about the Unseen 1957-2012», aperta da martedì scorso al 5 agosto alla Hayward Gallery, a cura del direttore Ralph Rugoff. Presentare una rassegna di cinquanta lavori all’insegna dell’invisibilità può sembrare un azzardo. Percorrere un labirinto inesistente, seguendo le istruzioni in cuffia come propone Jeppe Hein o entrare in uno spazio stregato dall’incantesimo di una maga o ancora estasiarsi di fronte a un foglio di carta bianca che l’artista, Tom Friedman, ha fissato per mille ore nell’arco di cinque anni, creerà nel pubblico, quanto meno, qualche perplessità.
Una provocazione? Forse. In realtà l’arte cosiddetta invisibile fa parte di un lungo percorso. Walter Benjamin con il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, aveva colto l’unicità dell’opera d’arte, della sua «aura» e di come questa venisse messa in discussione dal nascere della società dei mass media. Un tema questo fondamentale che torna di attualità proprio nel momento in cui ci si appresta ad un’altra grande mutazione: quella del virtuale. La visione preconitrice di Benjamin viene riproposta in Aura e choc. Il volume, edito recentemente da Einaudi, curato da Andrea Pinotti e Antonio Somaini, raccoglie i principali studi del filosofo su arte e media. Se l’aura dell’opera d’arte si è sublimata nella sua serialità, a noi è rimasto lo choc a cui ci costringe la modernità.
Le arti visive di fronte alla fotografia, al cinema e poi ai nuovi mass media hanno privilegiato il «concetto» rispetto alla rappresentazione della realtà. Da qui nasce quel filone della ricerca artistica, che si colloca in parte nell’ambito della grande tendenza concettuale, e in cui la componente visibile dell’opera non è determinante o è stata abbandonata. Sulla forma prevale il concetto o il processo creativo, sino alle estreme conseguenze dell’invisibile.
Sono presenti in mostra artisti di varie tendenze, che dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, hanno operato in questo ambito: da Art & Language a Robert Barry, da Chris Burden, al nostro Maurizio Cattelan, da Tom Friedman a Carsten Höller, da Yves Klein a Yoko Ono (senza dimenticare Andy Warhol) solo per fare qualche nome. Ralph Rugoff vuole dimostrare che l’arte non tratta di oggetti materiali ma interviene sulla nostra immaginazione. Pertanto si richiede al visitatore una partecipazione particolare non più limitata allo sguardo, ma aperta al coinvolgimento e alla suggestione. Un antesignano dell’invisibile è ad esempio Yves Klein di cui in mostra sono presentati disegni di architettura, lavori e documentazione di Le Vide. Per il suo intervento a Parigi, Klein aveva allestito una sala della galleria completamente vuotacon le pareti verniciate di bianco e una bacheca vuota. Il vuoto accoglie l’energia creativa e ne esalta il gesto artistico. Al vernissage partecipano tremila persone tra cui Albert Camus che scrive sul libro delle presenze «Con il Vuoto. Pieni poteri». Un’altra antesignana storica è Yoko Ono, artista Fluxus, ma conosciuta anche per essere stata la moglie di John Lennon. Viene esposta l’opera Instruction Paintings dei primi Anni 60. Su alcuni foglietti dattiloscritti appesi al muro l’artista incoraggia il pubblico a creare un’opera d’arte con la propria immaginazione.
Di una generazione più recente (1954) è Bruno Jakob. L’artista svizzero da tempo ha volto la sua ricerca sui diversi metodi di realizzazione di opere invisibili. Alla Biennale di Venezia dello scorso anno, nella mostra Illuminations, curata da Bice Curiger, aveva esposto i suoi Invisible paintings, fogli bianchi con nuances lasciate da interventi effettuati con acqua e sapone, di incredibile delicatezza. Propone anche qui una ricerca con la quale il visitatore è invitato ad interagire più che un’opera conclusa.
Sul tema del vuoto e dell’invisibile come assenza e morte si cimentano in particolare James Lee Byars e Teresa Margolles. Cultore delle filosofie e delle religioni orientali, James Lee Byars appartiene alla storia della sperimentazione artistica. Le sue opere sono caratterizzate da una componente simbolica o esoterica. Ossessionato dalla morte, ha realizzato una serie di performance e installazioni che hanno come tema la sua dipartita come The Ghost of James Lee Byars. Il titolo del lavoro si rifà ad una mostra tenuta a Los Angeles nel 1969 e consiste in un tunnel buio attraverso il quale il visitatore deve camminare, passaggio simbolico verso una vita spirituale nell’aldilà. Più inquietante il lavoro di Teresa Margolles, messicana del 1963. Da tempo l’artista è impegnata con le sue opere nella denuncia della situazione sociale del suo Paese. Il pubblico deve attraversare una stanza avvolta da una sottile nebbia, creata da un umidificatore e ricavata dall’acqua usata per lavare le vittime di omicidi, prima dell’autopsia, in un obitorio a Mexico City,
Due sono gli italiani presenti in mostra: Gianni Motti che presenta Magic Ink del 1989, una serie di disegni realizzati con inchiostro simpatico che compaiono solo per qualche istante e Maurizio Cattelan che espone Untitled (Denuncia) del 1991. L’opera consiste, come dice il titolo, nel foglio rilasciato dalla Questura di Milano nel quale si attesta che l’artista è stato vittima di un furto di una scultura invisibile avvenuto nella sua abitazione. Qui in effetti gli artisti sono due Maurizio Cattelan e il funzionario che ha accettato la denuncia.