lunedì 18 giugno 2012

Francia, la maggioranza assoluta ai socialisti
Grecia, la paura spinge a destra, Syriza è il secondo partito, oltre il 26%
Egitto, braccio di ferro in atto


l’Unità 18.6.12
Renzi attacca Bersani: «Aprire il Pd? Una furbata»
 La candidatura alle primarie: «Potrei essere io, una ragazza o qualcun altro...»
Ventura: «Parole poco responsabili»
di Maria Zegarelli


Ancora non ha deciso se candidarsi, «potrei essere io o un’altra persona, magari una ragazza», ma intanto Matteo Renzi, ospite di «In 1/2h» di Lucia Annunziata parla come fosse già in campagna elettorale. «Un leader deve scegliere, deve assumersi la responsabilità di farlo. Non dico “adesso apriamo una campagna di ascolto con le associazioni amiche che mi danno dei nomi e poi rifletto se appoggiarle o no”», dice in aperta polemica con il segretario Pierluigi Bersani che si è rivolto alle associazioni per le nomine Rai. Polemico anche su alcuni passaggi dell’intervista rilasciata dal segretario ieri a l’Unità, il sindaco di Firenze marca le distanze: «Quando scelgo una persona cerca di metterla competente, svincolata dalle tessere del partito, capace di fare le cose che deve fare».
Tranchant il commento sull’apertura alla società civile: «È peggio che una furbata o una captatio benevolentiae, io lo considero una persona seria e lo rispetto ma ha un’idea vecchia del partito, fatto di addetti ai lavori. Io la penso diversamente, non mi sento società incivile perché faccio il sindaco». L’aspirante premier individua una terza via, che vada al di là di «Berlusconi con il sorriso di plastica e la sinistra che ha sempre risposto con l’ombra cupa dalemiana della politica come una setta di addetti ai lavori che fa grandi inciuci». La terza via dunque eccola: un partito leggero con gente che fa politica «per un periodo limitato di tempo». Di Bersani apprezza la scelta di sostenere «il Governo ed è stato molto serio nel voler arrivare al 2013 e sono convinto che lo farà». Ma anche Monti, che pure era partito bene, «in questo momento è molto arenato».
Per sciogliere la riserva sulla sua candidatura il sindaco di Firenze spiega che vuole una gara vera, senza albo di partito e dice che se dovesse perdere non se ne andrà dal partito, «do una mano a chi ha vinto».
L’UMORE PD
«Vedo che c’è un certo protagonismo da parte di Renzi commenta Marina Sereni -. La scelta di chi deve guidare il campo progressista, vorrei sottolineare, non può prescindere da un’impegnativa riflessione su come si risolleva l’Italia e l’Europa». Per Sereni, invece, la linea tracciata dal segretario «è positiva, sollecita il nostro partito ad aprirsi e costruire la piattaforma per il futuro tenendo presente che c’è un grande bisogno tra la nostra gente, ma tra gli elettori in generale, di un confronto vero sui contenuti delle riforme e le soluzioni alla crisi di cui il prossimo governo dovrà farsi carico». «Fa una certa impressione commenta Michele Ventura sentire Renzi affermare che potrebbe candidarsi lui, un’altra persona o una ragazza. Ma ci rendiamo conto che stiamo parlando di chi si candida a governare il Paese in una situazione che fra un anno non sarà molto diversa da quella attuale. Si tratterà di rilanciare l’economia puntando su nuovi modelli e ci sarà bisogno di un nuovo protagonismo in Europa insieme alle altre forze progressiste. In momenti come questi c’è bisogno di statisti, anche se può sembrare un termine superato, e deve essere chiaro che non è un gioco la questione della leadership».
Walter Verini, che non commenta le parole di Renzi, dice di aver apprezzato molto quelle due parole attorno a cui ruota l’intervista del segretario. «Coraggio e apertura sono le parole chiave senza delle quali non esiste un Pd che si candida a governare il paese. I partiti sono decisi ragiona il deputato Pd ma devono sapersi nutrire della energie che ci sono all’esterno». Quello che si aspetta adesso, aggiunge, «sono gesti coraggiosi nel rinnovamento della politica che non passa soltanto attraverso le nuove classi dirigenti. Bisogna rompere con il correntismo, un male che divora quotidianamente il partito». E se è vero, come è vero che nella Conferenza di Napoli il lavoro è al centro del programma di governo del Pd, «è altrettanto vero che lavoro non è soltanto quello dipendente, c’è quello dei precari, delle partite iva, degli autonomi. Noi dobbiamo parlare a tutte queste categorie con la stessa incisività», conclude Verini.
Nel frattempo gli amministratori locali del Pd sono già con i motori caldi in vista delle primarie. Matteo Renzi ha chiamato a raccolta a Firenze, alla Leopolda, un gruppo di sindaci per dare un peso specifico agli amministratori dalle primarie invitandoli a dire per primi «che non basta più. Che c’è bisogno di altro. È tempo di cambiare». Ma la sua iniziativa è stata subito stoppata da quasi un centinaio tra sindaci, presidenti di Provincia e di Regione che invece scendono in campo proprio per sostenere il segretario.

La Stampa 18.6.12
“I partiti non riescono a parlare ai cittadini”
Barca: noi ci assumiamo la responsabilità delle scelte difficili
intervista di Fabio Martini


ROMA Nel rapporto tormentato tra il governo dei tecnici e la sua maggioranza, la richiesta da parte del Pd di un decreto legge a brevissima scadenza sulla questione esodati, di uno scambio secco con la questione del mercato del lavoro, non spiazza il ministro alla Coesione sociale Fabrizio Barca, una delle personalità più apprezzate dal presidente del Consiglio: «Proporre un accordo di questo tipo è una richiesta legittima. Naturalmente fare le cose male non è mai produttivo e dunque un eventuale decreto si potrà fare quando tutte le informazioni saranno disponibili. Diverso il caso della riforma del mercato del lavoro: il governo ha fatto una scelta sacrosanta e ora chiede che i tempi di attuazione siano rapidi».
Il leader del Pdl Alfano ha quasi deriso il provvedimento sulla crescita, sostenendo che la disponibilità reale è di un miliardo: quello tra governo e maggioranza le pare un rapporto esemplare?
«È un rapporto comprensibile, che si spiega anche con la straordinaria difficoltà che i partiti hanno nell’intrattenere un rapporto diretto con i cittadini: nel corso del tempo le loro organizzazioni si sono fatte liquide. Talora le forze politiche hanno la tendenza ad accomodare la critica generale, ad assecondarla secondo una modalità semplice, a volte anche scontata. Ma di questo non dobbiamo stupirci».
È la vostra missione?
«Siamo stati messi lì proprio perché sul governo si scaricassero le responsabilità, finendo per accreditarci tutte le cose che non vanno e in qualche modo non riconoscendoci quelle positive. Mi preoccupa molto invece un’altra questione: lo scarso livello di comprensione di alcuni provvedimenti, per la verità molto incisivi».
Quando le cose non andavano bene i governi dei partiti dicevano che c’era un problema di comunicazione, ultimamente lo diceva persino un mago del ramo come Berlusconi...
«E allora faccio un esempio. Nel pacchetto sviluppo c’è un provvedimento che è una sorta di rivoluzione: abbiamo stabilito che di ogni transazione che lo Stato fa con qualunque soggetto - sia esso un consulente, un acquisto o un progetto infrastrutturale - se dopo il primo gennaio non sarà dato conto del beneficiario, della motivazione del trasferimento e delle modalità contrattuali, quella transazione non sarà valida. Questo potrà incidere in maniera radicale sulla degenerazione tra Stato e privati per la grande trasparenza che consentirà».
Certo, i mass media saranno superficiali ma a comunicar bene non deve pensare anche il governo? Non pensa che per farlo ci vorrebbe più fatica e più umiltà nel ritenere che farsi capire è altrettanto importante che decidere?
«Sui giornali è stata introdotta la modalità delle schede riassuntive degli interventi che spesso hanno un tono un po’ apodittico, come se il mondo fosse cambiato da quelle norme e non dai comportamenti delle persone e dunque dalla attuazione delle leggi. Dopodiché, certo, anche il governo deve sapere comunicare».
Il governo lavora, ma senza un svolta in Europa, quasi tutto rischia di vanificarsi: Monti cosa dovrà contribuire a far accadere a fine mese a Bruxelles?
«Due cose molto importanti: misure che abbiano effetti immediati sulla crescita ed è possibile, ma anche dare una svolta al processo di unificazione delle politiche comunitarie».
Ministro, lei è spesso all’Aquila, dove è in corso un’esperienza originale di ricostruzione, che mette assieme forte impulso pragmatico e partecipazione popolare: un modello?
«Quando siamo stati incaricati di occuparci di questa questione, in febbraio, ci siamo subito resi conto che lo scoramento della popolazione era superiore rispetto alla situazione obiettiva. E abbiamo compreso che una percezione così negativa e una sfiducia così forte nello Stato traevano origine essenzialmente da un deficit di democrazia partecipativa. In altre parole, la gente non sentiva come proprio tutto ciò che accadeva».
“Complici” i mass media?
«In qualche modo sì: le immagini che rilanciavano i mass media diventavano per loro stessi la verità, quasi più della verità stessa. Col pericolo che su una popolazione sfortunata ed esclusa potesse determinarsi una sorta di ignavia. Abbiamo invertito questo processo e anche non si riguadagna in poco tempo la fiducia persa, diciamo che da parte dei cittadini c’è una apertura vigilata di credito».

La Stampa 18.6.12
L’ex tesoriere Lusi
«Tutto alla luce del sole Non ho truccato i conti»


«Tutte le spese sono alla luce del sole. Le mie spese venivano controllate. Io facevo tutto quello che mi era stato chiesto di fare». Lo dice Luigi Lusi intervenendo nella trasmissione di Maria Latella su Sky. «C’erano tre organi che controllavano»,afferma il senatore che si dichiara innocente dall’accusa di associazione a delinquere. «I revisori dei conti avevano in mano di tutto. È un po’ difficile dire che ho truccato i conti»,aggiunge. «Perché i politici sono contrari a svelare tutti i conti della Margherita?». E nega che sceglierà il patteggiamento perché «devo recuperare la dignità di fronte alla famiglia e al Paese. Voglio il dibattimento e dire quello che penso».L’intervista di Lusi ha scatenato gli avvocati della ex Margherita Madia e Diddi: «Continua nel suo pervicace tentativo di inquinamento della realtà». «Lusi vorrebbe far credere - sostengono i legali - di aver agito nell’interesse della Margherita e di aver eseguito un mandato alla luce del sole ma, evidentemente, egli dimentica che nei mesi scorsi quella stessa autorità giudiziaria nella quale dice di avere fiducia gli ha sequestrato alcuni appartamenti, due ville, oltre che due milioni di euro, e che tale ingente patrimonio era nella sua esclusiva disponibilità».

La Stampa 18.6.12
Ora anche il taglio dei parlamentari è a rischio
di Carlo Bertini


L’ avevano dato per fatto, questo parziale antidoto alla furia dell’antipolitica, e invece il famoso taglio dei parlamentari ora rischia di saltare insieme al tavolo delle riforme costituzionali. Il testo bipartisan «ABC» si è arenato in aula al Senato e mercoledì si vedrà che fine farà. Il Pd e l’Udc vorrebbero rispedire in commissione le proposte del Pdl sul semipresidenzialismo che stravolgono l’accordo stipulato a suo tempo dai tre leader, il famoso patto per le riforme: taglio del 20% dei parlamentari, sfiducia costruttiva del premier e nuovi regolamenti per sveltire le leggi. Ma al di là delle buone intenzioni sbandierate dal Pdl per procedere in aula con un voto su questo testo, che sarebbe il solo viatico per ricucire il clima e poter poi cambiare la legge elettorale, i loro avversari del Pd li accusano di fare melina, lanciando l’allarme sul fatto che entro giugno si deve chiudere la prima lettura o non se ne farà più niente. Che la sforbiciata - peraltro risibile di 183 parlamentari su 945 non sia affatto scontata, la dimostra il fatto che gli sherpa al lavoro sul nuovo accordo per la legge elettorale hanno già pronta la via d’uscita: se saltasse il pacchetto di riforme costituzionali e si volesse salvare solo il taglio dei parlamentari, in attesa di capire come finirà sull’unico punto cui nessuno rinuncerebbe a cuor leggero temendo gli strali di Grillo, si potrebbe fare una norma transitoria: in cui si condizioni l’applicazione del nuovo sistema di voto al numero degli eletti. Rinviando ad una norma successiva l’obbligo di adattare il nuovo sistema di voto ad un Parlamento sforbiciato di 508 deputati e 254 senatori o al solito parterre di 630 onorevoli alla Camera e 315 senatori. E le simulazioni sugli effetti di nuove leggi elettorali basate sul numero di 630 deputati, caso strano, sono le più gettonate in questi giorni...

Corriere 18.6.12
L'ex ministro Scotti: fui cacciato e su Cosa nostra si cambiò linea
Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu ministro dell'Interno
In quegli anni la mafia iniziò la strategia stragista con l'omicidio di Salvo Lima e l'attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone
Al Viminale gli successe Nicola Mancino
intervista di Fabrizio Caccia


Ex democristiano, Vincenzo Scotti, 78 anni, è stato uno dei politici più influenti della Democrazia cristiana
Fu eletto deputato per la prima volta nel 1968 e poi, dalla fine degli anni Settanta è stato più volte sottosegretario e ministro. Fra il 2008 e il 2011 è stato sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi

A Palermo, l'8 giugno scorso, è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo sulla vicenda della presunta trattativa fra la mafia e lo Stato

ROMA — «Premesso: sulla presunta trattativa Stato-mafia non dico una parola. Ci sono indagini in corso eppoi io ho già detto tutto nel mio libro, "Pax mafiosa o guerra? A vent'anni dalle stragi di Palermo". Una cosa, però, mi sento di dirla... ».
La prego, presidente Scotti...
«Credo sia giunto il momento di aprire una riflessione politica nel Paese, per affrontare la questione della "presunta trattativa" in modo laico, cioè senza pregiudiziali ideologiche e senza fare processi in piazza. La democrazia ha bisogno di trasparenza e di chiarezza».
Chiarissimo, presidente Vincenzo Scotti, classe 1933, vecchia volpe democristiana, nel secolo scorso soprannominato «Tarzan» per la sua indiscussa abilità nel «saltare» da una corrente all'altra del partito. Dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, Vincenzo Scotti fu il ministro dell'Interno della Repubblica. L'attacco della mafia allo Stato era in pieno svolgimento: con la strage di Capaci e, ancora prima, l'omicidio di Salvo Lima. L'8 giugno scorso, a Palermo, Scotti è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo.
Lei dice che è arrivato il momento di fare chiarezza. Ma come?
«Io credo che la politica debba evitare soprattutto che negli elettori, nei cittadini, cresca la sfiducia, che si alimenti l'idea di una Patria dei misteri. E questo, a proposito della presunta trattativa, si può ottenere chiarendo, già davanti alla Commissione antimafia, che cosa realmente accadde. E perché».
Qualcuno però dovrebbe farsi avanti...
«Non faccio nomi, ma sicuramente tutti i presidenti del Consiglio, i ministri dell'Interno e della Giustizia, tutti i capi delle forze dell'ordine e i responsabili della magistratura dell'epoca, diciamo tra il '90 e il '97, con un po' di coraggio potrebbero certamente contribuire a fare chiarezza. Anche perché la partita con la mafia è ancora aperta».
Ma ci fu o no la trattativa tra lo Stato e Totò Riina per evitare altre stragi?
«Non ho elementi per dirlo. Di sicuro dopo di me ci fu un cambiamento di linea, questo mi pare evidente. Lo ha detto Conso pubblicamente (Giovanni Conso, ministro della Giustizia nel '93, ndr): lui non confermò i 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr)».
E lei invece fu fatto fuori...
«Certi giudizi appartengono all'analisi storica, ma certamente mi hanno fatto fuori».
Chi? E perché?
«L'analisi storica... Già nel '91 ci fu un grosso punto di rottura con la mafia. Ricordo il decreto legge, davvero sul filo della legittimità costituzionale, con cui rimettemmo in prigione, io ero all'Interno, Martelli alla Giustizia e Andreotti premier, tutti i mafiosi del maxiprocesso tornati in libertà per una sentenza della Cassazione che dichiarava scaduti i termini della carcerazione preventiva. Cossiga, allora presidente della Repubblica, lo definì un mandato di cattura per decreto legge. Ma quello fu soltanto l'inizio. Prima delle stragi del '92 dichiarai in marzo lo stato d'allerta perché mi erano giunte precise informazioni, tra cui un memoriale del noto depistatore Elio Ciolini, depositato al tribunale di Bologna. In questo documento si faceva chiaramente riferimento alla mafia e a possibili stragi in arrivo. Nessuno mi credette».
E dopo Capaci lei tornò alla carica per rafforzare il 41 bis, senza aspettare l'insediamento del nuovo governo Amato. Ma il 28 giugno '92 si ritrovò ministro degli Esteri...
«Per questo dico che il problema non si può lasciare, con tutto il rispetto, alla magistratura. Il problema è politico e lo dobbiamo affrontare anche per rispetto di tutti quelli che hanno dato la vita, che hanno pagato col sangue la lotta alla mafia. Per questo è giusto farsi avanti, raccontare tutto quello che accadde, senza la paura di passare per traditori, perché comunque lo Stato la lotta alla mafia negli anni l'ha fatta bene e con ogni mezzo, non solo con la repressione ma con una legislazione modello. Però anche noi politici siamo esseri umani, non siamo robot e pur sapendo dall'inizio i rischi che corriamo ci portiamo dietro le nostre paure...».
Paure, misteri, veleni. Il suo successore all'Interno, nel '92, Nicola Mancino, in questi giorni è diventato un caso per aver chiesto aiuto al Colle in diverse telefonate...
«Non so valutare la sua reazione: di Mancino nel mio libro si parla bene, un uomo e un politico di grande livello, già presidente del Senato, sulla soglia del Quirinale... Certo tutte queste tensioni non aiutano la chiarificazione nel Paese».
E il presidente Napolitano ha fatto bene o male a intervenire sulla vicenda con la lettera inviata al Pg della Cassazione?
«Il presidente della Repubblica, per favore, lasciamolo stare. Lasciamolo lavorare tranquillo per il bene del Paese, perché la situazione è grave, c'è la crisi, la patria è in pericolo. Scherziamo con i fanti ma... ».

il Fatto on line 16.6.12
Trattativa Stato-mafia, Mancino chiamò il Quirinale per lamentarsi delle indagini

qui

Corriere 18.6.12
Il carcere duro revocato dal Guardasigilli

L'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, 91 anni, è indagato nell'ambito del fascicolo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Deve rispondere di false informazioni al pm, l'inchiesta su di lui è dunque sospesa in attesa almeno della sentenza di primo grado. All'epoca il Guardasigilli aveva revocato alcuni provvedimenti di carcere duro o di attenuazione dello stesso regime detentivo, il cosiddetto «41bis».

Repubblica 18.6.12
Mancino, scontro sulla lettera del Quirinale
L’inchiesta Stato-mafia. Di Pietro: indebite pressioni sui pm. Letta, Pd: basta insulti a Napolitano
di Corrado Zunino


ROMA— La trattativa tra Stato e mafia del 1992-1993, che a vent’anni di distanza torna a infiammare le istituzioni del paese, in queste ore rimbalza sulla politica italiana corrente. Si è scoperto, come ha raccontato ieri Repubblica, che tra novembre 2011 e aprile 2012 furono ben otto le telefonate dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, messo alle strette dalle procure di Palermo e Caltanissetta, a uno dei consiglieri del presidente della Repubblica, il magistrato Loris D’Ambrosio, per segnalare il suo problema e indicare lo scarso collegamento fra le procure inquirenti (c’è anche Firenze). Solleciti che non rimasero inascoltati. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo scorso 4 aprile fece inoltrare dal segretario generale una lettera di Mancino al procuratore generale della Cassazione. E sabato, di fronte alle polemiche sollevate dalla vicenda, il Quirinale con una nota ha spiegato: «Basta con le illazioni irresponsabili, la lettera era una richiesta al pg di valutare esigenze di coordinamento fra tre diverse procure».
Di buon’ora, ieri, Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei valori, ha scelto di attaccare dal suo blog il capo dello Stato. Ha scritto: «Preoccupa che ci sia stata una lettera di pressioni scritta da Napolitano al procuratore generale della Cassazione. In un altro paese ci sarebbe stata un’alzata di scudi della politica, ma in Italia i riflettori rimangono spenti e le inchieste giornalistiche sono additate come irresponsabili illazioni. Qui di irresponsabile c’è solo la convinzione che per qualcuno la legge sia più uguale che per gli altri e che la verità venga dopo la necessità di difendere i potenti di oggi e di ieri». Ancora Di Pietro: «Lo staff del presidente della Repubblica ha confermato che è prassi intervenire sulle autorità giudiziarie. Può il segretario generale della Presidenza della Repubblica informare il pg evidenziando che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato, sono “condivise da Napolitano”? ». Di Pietro ha annunciato, infine, un’interrogazione al ministro della Giustizia: «La verità deve essere cercata senza guardare in faccia né presidenti, né ex presidenti e senza interventi di sorta».
L’attacco di Di Pietro ha scosso l’ala moderata del Partito democratico. Il vicesegretario Enrico Letta ha replicato: «Il leader dell’Idv non lesina azioni e dichiarazioni che hanno il solo scopo di terremotare il già precario equilibrio istituzionale del Paese e di rincorrere Grillo in questa folle competizione a chi la spara più grossa. Per ora ha ottenuto di tagliare definitivamente l’ultimo ormeggio che lo teneva legato al Pd». E su Twitter ha parlato di «intollerabile a campagna denigratoria di Di Pietro contro Napolitano». Il capogruppo del Pdl alla Camera, Maurizio Gasparri, si è infilato nel varco aperto per dire: «Se vent’anni fa ci fu una trattativa tra Stato e mafia è bene che si conoscano i responsabili, ed è bene che si sappia chi vuole mantenere quella pagina oscurata».

Corriere 18.6.12
Accuse di Di Pietro sul caso Mancino Il Pd: «Intollerabili»
Il leader Idv: poteva il Colle investire il Pg?
di Giovanna Cavalli


ROMA — La presunta trattativa tra la mafia e pezzi di Stato tra il 1992 e il 1994 — su cui la Procura di Palermo ha indagato per quattro anni, chiamando in causa, tra gli altri, per falsa testimonianza, l'ex ministro dell'Interno ed ex presidente del Senato Nicola Mancino — continua a suscitare polemiche incrociate nel mondo politico. Dopo che sul Fatto Quotidiano si è adombrata una possibile azione di moral dissuasion da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sui magistrati. In risposta a pressanti telefonate dello stesso Mancino che chiedeva di non essere lasciato solo.
Dopo la smentita indignata del Colle («Illazioni irresponsabili e risibili»), che precisa di aver scritto al pg della Cassazione solo «per coordinare le indagini» e non per esercitare pressioni indebite, ieri il leader Idv Antonio Di Pietro è tornato ad attaccare con veemenza il Capo dello Stato: «Qui di irresponsabile c'è soltanto la convinzione che per qualcuno la legge sia più uguale che per gli altri, come se i fatti documentati si potessero liquidare senza risposta» scrive l'ex pm sul suo blog. «Purtroppo la triste conferma ci arriva dallo staff del Colle. Era nel ruolo di Napolitano scrivere al pg della Cassazione per chiedere di intervenire sulla questione? I cittadini devono sapere se settori dello Stato hanno operato e collaborato con la mafia e nessuno, dico nessuno, può ostacolare questa ricerca».
Reagisce con sdegno Enrico Letta, vicesegretario del Pd che parla di «intollerabile campagna denigratoria contro Napolitano». E aggiunge: «L'Italia ha bisogno di responsabilità e impegno, non di denigrazione e falsità». La conclusione più immediata è questa: «Con l'attacco volgare e insultante di oggi Antonio Di Pietro ha compiuto il salto di qualità finale, in folle competizione con Grillo a chi la spara più grossa. L'unico risultato concreto che ottiene è tagliare definitivamente l'ultimo ormeggio che lo teneva legato al Pd». Avete frainteso, sostiene Antonio Borghesi, vicepresidente Idv alla Camera: «Dal presidente Di Pietro non c'è stato alcun attacco al Capo dello Stato. La richiesta di trasparenza non va considerata attacco alla democrazia, anzi, è esattamente un appello al rispetto della stessa e delle istituzioni». Per Andrea Orlando, del Pd, invece c'era la precisa volontà di «gettare ombre ingiustificate su chi ha svolto e svolge un ruolo estremamente delicato: attribuire comportamenti a Napolitano estranei al suo ruolo istituzionale, o addirittura finalizzati a impedire l'accertamento della verità, ci pare da parte di Di Pietro un modo irresponsabile di alimentare il dibattito politico».
Punti di vista. «Possibile che qualsiasi riflessione agli occhi del Pd debba apparire come una minaccia all'equilibrio istituzionale?» si interroga il senatore Idv Stefano Pedica. «Pensare ed esprimersi liberamente è diventato un delitto?». Dal Pdl interviene Maurizio Gasparri, che rimprovera Di Pietro: «Prima di interrogarci sulle lettere di oggi, dico a chi come lui ha taciuto in tutti questi mesi, cerchiamo di mettere in luce le evidenti colpe di chi nel '93-'94 cancellò il carcere duro per i mafiosi». Ma poi invita il Colle a farsi parte attiva: «La trattativa ci fu e chi sa deve parlare. Il Quirinale scriva un'altra lettera, invitando i protagonisti a dire cosa fecero e perché. Vogliamo sapere e non staremo zitti». Si fanno sentire i familiari delle vittime di via dei Georgofili: «Vorremmo anche noi avere avuto in quel 1993 la possibilità di parlare con il Capo dello Stato di allora, perché intervenisse verso quelle istituzioni che elargivano benefici ai mafiosi detenuti».

Repubblica 18.6.12
“Intercettazioni necessarie temevamo che i politici concordassero le versioni”
Ingroia: ma sulle indagini non ci sono state interferenze
di Salvo Palazzolo


PALERMO — Antonio Ingroia, il coordinatore del pool che indaga sulla trattativa mafia-Stato, sostiene di essere ormai abituato alle «iniziative» dei suoi indagati eccellenti: «Purtroppo — spiega — è ormai una cattiva abitudine molto diffusa quella di cercare scorciatoie per affermare la propria innocenza. L’importante, però, è che non si verifichi alcuna interferenza e il corso delle indagini resti tale ».
Vuole dire che non l’ha sorpreso il pressing dell’ex ministro Mancino per fare intervenire addirittura il Quirinale nella sua indagine?
«Non mi sembra il caso che io commenti questo tipo di scelta strategica messa in atto da uno dei miei indagati».
Resta da capire se le pressioni del senatore Mancino, che non voleva essere messo a confronto con l’ex ministro Martelli, si siano manifestate in qualche modo sul vostro pool.
«Posso assicurare che la procura di Palermo si è sempre mossa senza condizionamenti o pressioni di sorta, basandosi solo sul convincimento che ci si è fatto sulle prove».
Mancino poneva al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, anche una questione più generale che prescindeva dalla sua posizione: un’apparente mancanza di coordinamento fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, che indagavano sui misteri del ‘92-’93. C’è stato davvero questo problema?
«Credo proprio di no, soprattutto nell’ultimo anno, quando le indagini di Palermo e Caltanissetta si sono avvicinate verso la conclusione. Ci si è mossi sempre nel rispetto delle reciproche competenze, senza sovrapposizioni, né interferenze. Trovo peraltro le conclusioni dei colleghi di Caltanissetta del tutto convergenti con quelle di Palermo».
Scorrendo le carte dell’inchiesta appena conclusa, un dubbio potrebbe sorgere: Mancino è stato intercettato mentre era solo un semplice testimone. Forse allora le sue preoccupazioni espresse al Quirinale, sull’invasività dell’indagine di Palermo, non erano poi così infondate.
«Abbiamo messo gli atti a disposizione delle difese, che potranno leggere le motivazioni dettagliate attraverso le quali sono state chieste le intercettazioni, poi autorizzate dal giudice delle indagini preliminari. Vi erano fondati sospetti che gli esponenti delle istituzioni che dovevano essere sentiti potessero concordare fra loro la versione da riferire. Ecco perché si è ritenuto di ricorrere a uno strumento di accertamento idoneo».
Ironia della sorte, le parole di Mancino intercettate sembrano essere state profetiche. Alla fine, le divisioni ci sono state, e all’interno del pool di Palermo: il pm Paolo Guido non ha firmato l’atto di chiusura dell’indagine. Su quali punti sono state le divergenze?
«Non mi pare che si possa parlare di divisioni: in ogni gruppo di lavoro è fisiologico che possano esserci posizioni diverse. Ma, in questo caso, non hanno riguardato l’impostazione dell’indagine, bensì la valutazione di singole posizioni. E non erano quelle di Mancino o Conso, sui quali c’è stata unanimità di vedute».
Unanimità che sembra non esserci stata per i politici Dell’Utri e Mannino: d’altro canto, il primo è stato già assolto definitivamente per i fatti successivi al 1992, e solo per quelli; il secondo è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Adesso, invece, sono accusati di aver avuto un ruolo nella trattativa, fra il ‘92 e il ‘94.
«Ho il massimo rispetto per le sentenze, ma le contestazioni a Dell’Utri e Mannino adesso sono altre. Ovvero, non si imputa di avere contribuito a rafforzare Cosa nostra. Dell’Utri, in particolare, viene chiamato in causa perché avrebbe fatto da tramite per alcune specifiche minacce di proseguimento delle stragi, pervenute al presidente del Consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi. Su questo tema nessun giudice si è mai pronunciato».
Un docente di diritto penale, Giovanni Fiandaca, sostiene però che non si possa contestare il reato di trattativa ai politici, che avrebbero potuto scegliere legittimamente di alleggerire la strategia antimafia per evitare altre stragi.
«Nessun politico è accusato di avere trattato con la mafia. Nella nostra ricostruzione ci sono piuttosto alcuni intermediari istituzionali. I destinatari finali, o presunti tali, non sono incriminati per concorso in trattativa: né Mancino, né Berlusconi sono stati accusati di questo reato. Mancino risponde solo di falsa testimonianza».
Quanto è ancora distante la verità sui misteri del ‘92-’93?
«Noi cerchiamo di fare il nostro dovere, per la parte di competenza che ci spetta. I colleghi di Caltanissetta e di Firenze indagano sulle stragi. C’è poi la commissione antimafia, che sta facendo un ottimo lavoro. Sono certo che ci sarà coesione fra tutte le componenti dello Stato, perché sia accertata la verità. Adesso però sarebbe necessario un atto di coscienza da parte di chi, all’interno delle istituzioni, conosce la verità e fino ad oggi ha taciuto».

Corriere 18.6.12
La filosofa e il medico (di Berlusconi): sfida per il San Raffaele
di Simona Ravizza


MILANO — L'ateneo sorge sotto la Cupola, in cima svetta l'Arcangelo San Raffaele: ma nelle aule dedicate da don Luigi Verzé a santi e sapienti, filosofi, medici e scienziati, adesso è tempo di faide. Una lotta che emerge chiaramente da email, lettere e raccomandate rimaste finora riservate. In palio c'è la guida della prestigiosa Università Vita Salute del San Raffaele. Il candidato in pole position è Alberto Zangrillo, docente di Rianimazione, nonché medico dell'ex premier Silvio Berlusconi, che — come anticipato dal Corriere lo scorso 24 maggio — è uscito vittorioso dalle primarie, istituite con lo scopo di individuare il rettore più gradito al corpo accademico. Ma la sua ascesa fa storcere il naso a chi — come la filosofa Roberta De Monticelli — vuol farsi promotore di una battaglia per l'etica e la trasparenza, tra filantropi annunciati e mai arrivati e ambizioni di potere. Ma non solo.
Già un mese fa, nel mezzo della lotta per la successione a don Luigi Verzé alla guida dell'ateneo, il professor Antonio Emilio Scala va all'attacco: «La raccomandata inviata in via Favre 6, a Chiasso, è ritornata indietro con l'indicazione: "Il destinatario è irreperibile all'indirizzo indicato". Resto tuttora in attesa di precisazioni». Lì, a Chiasso, doveva esserci la sede legale della Marcus Vitruvius Foundation (MVF), la pluriannunciata charity internazionale che avrebbe dovuto investire nell'ateneo un miliardo di dollari in cinque anni. E, invece, niente. Così proprio a quell'Alberto Zangrillo ora candidato a diventare rettore — e tra i principali sostenitori della MVF — la fantomatica sponsorizzazione inizia a costare le prime grane. Un nuovo colpo al medico del Cavaliere arriva, poi, dalle pagine del Corriere, con una lettera della stessa De Monticelli dove — anche se senza far nomi — la filosofa solleva la questione della charity e ricorda i dubbi sollevati sulla sua esistenza da inchieste giornalistiche.
Altra lettera di Scala il 13 giugno, nuova dose di veleno: «Le risorse di cui l'Università ha assoluto bisogno sono la competenza, la qualità e lo spirito di appartenenza dei suoi docenti, l'entusiasmo, l'applicazione allo studio e alla ricerca dei suoi studenti, l'opera intelligente e la disponibilità di tutto il personale non docente e non i miracolistici quanto improbabili interventi di fantomatici finanziatori».
Così Zangrillo, ieri sera al telefono, s'innervosisce: «Per favore basta con la charity — dice —. Era nostro dovere, come va ripetendo anche Clementi (Massimo, preside di Medicina, ndr), vagliare l'opportunità di ricevere fondi di origine filantropica. L'operazione, almeno per il momento, è andata male? Pazienza, ma ciò non ha nulla a che vedere con la mia candidatura a rettore. Io mi sono messo semplicemente al servizio di un'istituzione, la mia storia e il mio curriculum scientifico parlano per me».
Tutti contro tutti? L'Università Vita Salute, che conta quasi duemila iscritti tra Medicina, Psicologia e Filosofia, è stata l'ultima roccaforte del potere di don Luigi Verzé e dei suoi fedelissimi (i Sigilli). Due di loro, Raffaella Voltolini e Gianna Zoppei, da sempre le più vicine al prete manager, siedono nel consiglio di amministrazione dell'ateneo che dovrà scegliere il rettore verosimilmente entro l'autunno. Le altre cinque poltrone sono occupate dai presidi Massimo Clementi e Michele Di Francesco (in rappresentanza del senato accademico), dagli uomini di legge Ruggero Pesce (magistrato) e Emanuele Rimini (avvocato) entrati con l'accordo dei commissari del Tribunale fallimentare, infine c'è il presidente del cda, Antonio E. Scala (ex preside di Medicina, considerato vicino alle Sigille e in stretti rapporti con l'ex ministro Ferruccio Fazio). Numerose cordate, con un unico obiettivo: comandare l'Università del San Raffaele.
Non mancano le incognite legate all'ingresso di Giuseppe Rotelli al San Raffaele: il neoproprietario entrerà con suoi rappresentanti anche nel cda dell'ateneo, modificando magari gli equilibri di potere? Lo farà prima o dopo l'elezione del nuovo rettore? Una cosa è certa: «Il recupero organico dell'attività didattica universitaria — dice l'imprenditore nel suo discorso d'insediamento, lo scorso 16 maggio — sarà obiettivo prioritario della mia gestione».

l’Unità 18.6.12
La «Carta dei diritti» fa fare al Pd un bel passo avanti
di Luigi Manconi


Lo dico subito e senza tentennamenti: considero il documento «Per una nuova cultura politica dei diritti» elaborato dal Pd un notevole passo avanti. Per argomentare questa affermazione, parto da una premessa fatalmente (e un po’ ignominiosamente) autoreferenziale. Un secolo fa, intorno al 1995, presentai al Senato due proposte di legge, rispettivamente sul testamento biologico e sulle unioni civili. L’iniziativa suscitò appena una certa curiosità: ma sul piano legislativo, va da sé, non se ne fece nulla.
È un dato imprescindibile, credo, perché dà la misura, per un verso, di quali e quante resistenze incontri la volontà di legiferare su quelle materie; e, per altro verso, di quanto sia maturato l’orientamento dell’opinione pubblica e persino quello di una parte della classe politica tradizionalmente arretrata, se non sorda, rispetto a quelle istanze. Tuttavia, quell’esperienza di oltre tre lustri fa, ha anche un altro significato, che non riguarda solo la mia biografia. Militavo, all’epoca, in un partito che raccoglieva il 2-3% dei consensi così come mi era accaduto in fasi precedenti della mia vita (quando il consenso era persino più esiguo).
Nel frattempo, il mio estremismo culturale e la mia vocazione minoritaria non si sono attenuati tant’è vero che, oltre a militare nel Pd, mi trovo così spesso a mio agio con i radicali ma ho ritenuto che quelle questioni, per potersi affermare richiedessero due essenziali condizioni. La prima: che diventassero patrimonio condiviso di un soggetto politico di massa e tendenzialmente maggioritario; la seconda: che quei temi si traducessero in proposta di governo.
In altre parole, che problematiche considerate “intrattabili” finalmente potessero essere “trattate” e trascritte in norme, diventando legge. Per tante e antiche ragioni che richiamano la storia e la geografia, le culture nazionali e le residuali ideologie più resistenti di quanto si creda questo in Italia richiede un percorso incredibilmente faticoso, per giunta soggetto a periodici arretramenti. Ed è proprio questo che rende tuttora indispensabile che l’azione ispirata a principi rigorosi e a valori forti e intensi si esprima e trovi spazio all’interno di un partito di massa influenzandone se ne è capace l’agenda politica e ancor prima gli orientamenti culturali e la mentalità condivisa.
Ecco, penso che ciò stia avvenendo, sia pure lentissimamente, all’interno del Pd; ed è quanto è avvenuto, nel corso di un anno e mezzo, all’interno del Comitato che ha elaborato il documento in questione. Ciò vuol dire forse che in quel documento (o addirittura nel partito) sia prevalso il radicalismo libertario? Non scherziamo. È successo, piuttosto, che un punto di vista, qual è quello nel quale mi riconosco e che si manifesta su vari temi (fine vita, unioni civili, autodeterminazione individuale, garantismo penale, immigrazione...) abbia avuto agio di esprimersi, di modificare posizioni preconcette, di ottenere importanti adesioni e, infine, un significativo riconoscimento nel testo finale. Così che, oggi, se quel documento diventasse davvero qualcosa di simile ad una «carta dei principi» del Pd, questo impegnerebbe il partito ad assumere posizioni e a battersi per normative ispirate a un impianto culturale profondamente innovativo.
Meno statalista e più attento ai diritti individuali, meno autoritario e più sollecito verso le istanze della soggettività, meno collettivista e più consapevole della possibilità che tra garanzie sociali e garanzie della persona non esista una gerarchia rigidamente definita. Non è un’acquisizione di poco conto ed è il risultato di una riflessione che ha attraversato in profondità tutte le componenti del Pd. Ci si è arrivati non come usa dire «cedendo un po’» o «rinunciando ciascuno a qualcosa». Ci si è arrivati, piuttosto, lo dico senza la minima enfasi, attraverso un laborioso percorso che ha conosciuto successive approssimazioni, per giungere, infine, a un esito comune.
In questo quadro, va apprezzato come assai importante un documento, dove si trova affermata la piena dignità e autonomia delle opzioni personali nella sfera sessuale e la piena dignità e autonomia delle modalità di relazione che ne discendono; e dove si sostiene la necessità di «speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali».
Non può sfuggire che, qui, si prevede una tutela giuridica non solo per i diritti soggettivi, ma anche per quelli propri di una relazione di coppia. Non si parla di «matrimonio omosessuale»? Certo, non se ne parla, ma una «carta dei principi» deve affermare questi i principi, appunto e non indicare le soluzioni normative. Di più: l’interesse di chi al riconoscimento del matrimonio omosessuale tenda (e io tra questi) è proprio quello di disporre di un quadro culturale e morale in cui sia possibile iscrivere le forme legislative, che i rapporti di forza e la lotta politica e le maggioranze parlamentari consentiranno.

La Stampa 18.6.12
Vaticano
L’ex maggiordomo arrestato un mese fa indica laici e alti prelati
Corvi, il Papa conosce le loro identità
di Giacomo Galeazzi


«Vatileaks», il cerchio si stringe. Dagli interrogatori di Paolo Gabriele sono emersi mandanti e complici. L’ampia collaborazione dell’ex maggiordomo papale, detenuto da quasi un mese in una cella di sicurezza del Palazzo del Gendarmeria, ha portato gli inquirenti a individuare le responsabilità di laici e prelati. Sono così affiorati i nomi dei sospettati che la commissione cardinalizia ha riferito sabato al Pontefice e che già in settimana potrebbero essere resi pubblici. Alcuni capi dicastero e presuli emeriti (interrogati dai loro pari grado Herranz, Tomko e De Giorgi) non avrebbero fornito spiegazione ritenute sufficienti sulle fughe di notizie e il passaggio di documenti riservati. Le rogatorie per i cittadini italiani, invece, saranno necessarie solo per coloro che non si presenteranno spontaneamente ai colloqui quali persone informate dei fatti. Intanto movente e finalità configurano una sorta di «congiura di corte» orchestrata per mutare gli assetti del potere curiale in previsione del conclave. La magistratura ritiene che l’aiutante di camera del Pontefice abbia agito su ordine e indicazione di qualcuno, con l’aiuto di giornalisti amici e dipendenti della Santa Sede. E, come ribadisce il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, Paolo Gabriele non è un capro espiatorio. «Anche i tre porporati che indagano hanno ascoltato il maggiordomo trovato con le fotocopie della corrispondenza privata di Benedetto XVI», evidenzia l’agenzia cattolica Zenit. Per furto aggravato, Gabriele rischia otto anni di carcere, ma la sua posizione giudiziaria si è alleggerita da quando fornisce agli inquirenti circostanze e nomi. Il Papa segue da vicino l’evoluzione delle indagini. All’inchiesta penale si affianca il calendario di audizioni e accertamenti svolti parallelamente all’indagine dei magistrati e della Gendarmeria. Essendo al più alto livello, la commissione cardinalizia è l’unica autorizzata a indagare sui porporati. Sono stati sentiti prelati e laici. Altri sono in programma. Sabato il Pontefice ha voluto dare il suo personale «imprimatur» al prosieguo degli accertamenti. Intanto per il maggiordomo lo stato di custodia cautelare continua: il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet si è riservato la decisione sull’istanza di scarcerazione presentata per il loro assistito dagli avvocati difensori Carlo Fusco e Cristiana Arrù. Ora per lui riprendono gli interrogatori formali, «anche alla luce degli approfondimenti delle indagini e allo studio dei documenti effettuati in questi giorni», puntualizza padre Lombardi. E anche il fatto che i tre cardinali siano tutti «emeriti», liberi da incarichi pastorali o di Curia, e per di più ultra-ottantenni, quindi slegati da un futuro Conclave, indica come possano operare con le mani libere e col più ampio mandato. Sentendo quindi anche capi di uffici vaticani, compresi loro pari grado, senza problemi gerarchici. E infine riferendo direttamente al Papa, senza mediazioni di sorta.

La Stampa 18.6.12
In video a Dublino
Benedetto XVI parla di pedofilia


Lo scandalo della pedofilia ha «minato la credibilità del messaggio della Chiesa», e per il Papa «rimane un mistero» come sacerdoti e religiosi abbiano potuto «offendere in tale maniera». Nel video messaggio trasmesso ieri a Dublino a chiusura del 50/o Congresso eucaristico internazionale, Benedetto XVI ha parlato alle decine di migliaia di fedeli riuniti nella capitale di un Paese in cui la Chiesa è stata fortemente colpita dalla piaga degli abusi sui minori. Parlando della storia della Chiesa in Irlanda che «è stata una potente forza di bene nel mondo», il Papa ha sottolineato che «ringraziamento e gioia per una così grande storia di fede e di amore sono stati di recente scossi in maniera orribile dalla rivelazione di peccati commessi da sacerdoti e consacrati nei confronti di persone affidate alle loro cure».

l’Unità 18.6.12
I dati dell’UNHCR. Un mondo di rifugiati
Sono milioni: in fuga dalla guerra e dalla fame
Il dossier annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite racconta un universo parallelo tragico: l’esodo forzato di uomini, donne e bambini dai teatri della crisi
di Umberto De Giovannangeli


UN QUADRO INQUIETANTE. UN FENOMENO IN CRESCITA. IL 2011 HA FATTO REGISTRARE UN TRISTE RECORD RELATIVO ALLE PERSONE FUGGITE DAL PROPRIO PAESE: il numero di persone diventate rifugiate lo scorso anno è stato infatti il più alto dal 2000. È quanto emerge dal rapporto annuale pubblicato oggi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Nella pubblicazione «2011 Global Trends» l’Unhcr presenta informazioni e dati dettagliati sulla portata delle migrazioni forzate provocate da una serie di gravi crisi umanitarie, cominciate alla fine del 2010 in Costa d’Avorio e seguite da altre in Libia, Somalia, Sudan e altri Paesi.
Complessivamente 4,3 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie aree d’origine, 800.000 delle quali attraversando il confine dei propri Stati e diventando rifugiati. «Il 2011 ha visto sofferenze di dimensioni memorabili. Il fatto che così tante vite siano state sconvolte in un periodo di tempo così breve implica enormi costi personali per tutti coloro che ne sono stati colpiti», rimarca António Guterres, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati a capo dell’Unhcr. «Possiamo solo essere grati del fatto che nella maggior parte dei casi il sistema internazionale atto a proteggere queste persone sia rimasto saldo e che le frontiere siano rimaste aperte. Questi sono tempi difficili».
Difficoltà che spesso, troppo spesso, si trasformano in tragedie collettive. Alla fine del 2011 in tutto il mondo vi erano 42,5 milioni di persone tra rifugiati (15,4 milioni), sfollati interni (26,4 milioni) o persone in attesa di una risposta in merito alla loro domanda d’asilo (895.000). Nonostante l’elevato numero di nuovi rifugiati, la cifra complessiva è risultata inferiore al totale del 2010 (43,7 milioni), soprattutto per effetto del ritorno alle proprie case di un gran numero di sfollati: 3,2 milioni, la cifra più alta da oltre un decennio. Per quanto riguarda i rifugiati, nonostante un incremento nel numero dei rimpatri rispetto al 2010, il 2011 si trova comunque al terzultimo posto per numero di ritorni a casa (532mila) nell’ultima decade.
Considerato in un’ottica decennale, il rapporto evidenzia diverse tendenze preoccupanti. In primo luogo, il fenomeno delle migrazioni forzate colpisce numeri maggiori di persone a livello globale, con cifre annuali che superano i 42 milioni di persone in ognuno degli ultimi 5 anni. Inoltre, una persona che diventa rifugiato è probabile che rimanga in tale condizione per molti anni, spesso bloccato in un campo profughi o vivendo in condizioni precarie in un centro urbano: dei 10,4 milioni di rifugiati che rientrano nel mandato dell’Unhcr infatti quasi i tre quarti (7,1 milioni) si trovano in esilio protratto da almeno 5 anni, in attesa di una soluzione alla loro condizione. Una soluzione sempre più problematica.
Complessivamente l’Afghanistan si conferma il Paese d’origine del maggior numero di rifugiati (2,7 milioni), seguito da Iraq (1,4 milioni), Somalia (1,1 milioni), Sudan (500.000) e Repubblica Democratica del Congo (491.000). Circa i 4/5 dei rifugiati di tutto il mondo fuggono nei Paesi limitrofi. Ciò si riflette ad esempio nelle numerose popolazioni di rifugiati presenti in Pakistan (1,7 milioni), Iran (886.500), Kenya (566.500) e Ciad (366.500). Tra i Paesi industrializzati il principale paese d’accoglienza è la Germania, con 571.000 rifugiati. Il Sudafrica è invece il primo Paese per numero di domande d’asilo ricevute (107.000), confermando la posizione degli ultimi 4 anni. L’Italia, con 58mila rifugiati, presenta cifre contenute rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, in termini sia assoluti che relativi. In Francia, Paesi Bassi e Regno Unito i rifugiati sono tra i 3 e i 4 ogni 1.000 abitanti, in Germania oltre 7, in Svezia oltre 9, mentre in Italia meno di 1 ogni 1.000 abitanti. Per quanto riguarda le domande di asilo, nel 2011 sono state presentate poco più di 34mila domande. Un incremento, rispetto agli anni precedenti, determinato dagli effetti della Primavera araba e della guerra in Libia.
AIUTI AGLI SFOLLATI
Il mandato originario dell’Unhcr prevedeva l’assistenza ai rifugiati, ma nei suoi 6 decenni di vita l’Agenzia ha esteso l’attività includendovi anche l’assistenza a molte delle persone sfollate all’interno dei propri Paesi, alle persone apolidi coloro cioè che non hanno una cittadinanza riconosciuta e alle questioni relative ai diritti umani che accompagnano tali fenomeni. Il rapporto «2011 Global Trends» rileva che solo 64 governi hanno fornito dati sulle persone apolidi. Da ciò consegue che l’Unhcr ha potuto raccogliere cifre solo per un quarto degli apolidi di tutto il mondo, il cui numero è stimato in circa 12 milioni. Dei 42,5 milioni che alla fine del 2011 si trovavano in stato di migrazione forzata, non tutti rientrano nella competenza dell’Unhcr. Complessivamente il numero di rifugiati e sfollati assistiti dall’Unhcr 25,9 milioni è aumentato di 700.000 unità nel 2011.

Corriere 18.6.12
L'utopia tecnocratica delle origini non basta più ai cittadini d'Europa
di Ian Buruma


Ci sono idee eccelse che, come splendidi oggetti che racchiudono una bomba a orologeria, contengono sin dal loro concepimento un difetto fatale. E il sogno di un'Europa unita, sebbene lungi dall'essere esplosivo, potrebbe rivelarsi un triste esempio di questo assunto. Per capire la crisi in corso sarebbe utile rivolgere lo sguardo verso le origini intellettuali dell'Unione europea.
Tra i principali architetti dell'unione vi fu Jean Monnet, diplomatico ed economista francese, che trascorse gran parte della Seconda guerra mondiale a Washington, in veste di negoziatore per gli alleati europei. Dopo la sconfitta tedesca, si rafforzò in lui la convinzione che solo un'Europa unita avrebbe potuto scongiurare il ripetersi di un conflitto catastrofico in Occidente. «Non ci sarà pace in Europa - scrisse nelle sue memorie - «se gli Stati verranno ricostruiti sulla base della sovranità nazionale».
Quasi all'unanimità il continente europeo, stremato dalla guerra e davanti alle istituzioni in rovina delle nazioni devastate, si disse d'accordo. Solo gli inglesi, vittoriosi e con le loro vecchie istituzioni sopravvissute pressoché intatte, levarono una voce di dissenso.
In realtà, l'ideale di un'Europa unita risale molto addietro nel tempo. Se non proprio all'antica Roma, certamente al Sacro romano impero del X secolo. Da quell'epoca in poi, l'ideale europeo ha subito molti cambiamenti, ma due sono stati i temi costanti. Il primo, l'ideale di una cristianità unificata, con l'Europa al suo centro. Il duca di Sully (1559-1641) evocò una repubblica europea cristiana, cui avrebbero potuto aderire anche i turchi, se si fossero convertiti.
L'altro ideale si richiama all'aspirazione alla pace eterna. Nel 1713, un altro francese cattolico, l'Abbé de Saint-Pierre, pubblicò il suo «Progetto per la pace perpetua in Europa», che prevedeva un senato e un esercito europei, e pari diritto di voto agli stati membri più grandi.
In un certo senso, nella mente dei primi pensatori pan-europei, l'ideale di pace eterna confluiva in quello dell'unità di tutti i cristiani.
Dopo l'Illuminismo, l'universalismo religioso fu adottato senza problemi anche dai razionalisti. Lo statista francese dell'800, Alphonse de Lamartine, scrisse un'ode all'unità europea, nutrita di ispirazione razionalista, intitolata Marsigliese della pace. Non è difficile immaginare perché il concetto di un mondo pacifico e senza frontiere, dove le divisioni e gli scontri politici sono stati superati, esercitasse un tale fascino dopo la Seconda guerra mondiale. Molti videro nel nazionalismo che aveva devastato l'Europa l'espressione del Male assoluto. Solo un mondo libero dalla lotta politica poteva garantire una pace duratura.
Monnet era un tecnocrate convinto, che detestava il conflitto politico e credeva ciecamente nell'unità. (Nel 1940, quando Hitler appariva invincibile, Monnet giunse a suggerire a Winston Churchill di conglomerare Francia e Gran Bretagna in un'unica nazione).
L'ideale post-bellico di un'Europa unita incarnò davvero il sogno del pianificatore, una sorta di Utopia tecnocratica, che coincise, certamente per Monnet e per gli altri padri fondatori dell'Europa rinata dalle macerie della guerra, con un ideale nobilissimo, interamente positivo e pacifico. Il guaio dei tecnocrati, però, è quello di sottovalutare le conseguenze politiche dei propri progetti. Si lanciano sulla loro strada come se la politica non esistesse, o fosse un inconveniente trascurabile.
La recente dichiarazione di Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, sulle sue scarse simpatie per le sofferenze dei greci, perché avrebbero dovuto pagare le tasse, è stata ampiamente criticata non solo per la mancanza di tatto, ma anche per la profonda ipocrisia, poiché in quanto diplomatico la stessa Lagarde non paga tasse. Ecco, questo piccolo incidente illustra la tipica sensibilità di un tecnocrate autoritario privo del benché minimo fiuto politico. Le devastanti misure di austerità emanate a Bruxelles e a Washington da burocrati non eletti dal popolo offeso, non rappresentano solo una calamità sociale, ma anche una pericolosa minaccia alla democrazia. Quando i cittadini perdono la fiducia nelle istituzioni democratiche nate appunto per tutelarli, la società tutta rischia di scivolare verso l'estremismo.
E così, in mancanza di un miracolo, la bomba a orologeria contenuta nel nobile idealismo post-bellico si avvicinerà pericolosamente al momento critico. Abbiamo toccato i limiti dell'utopismo tecnocratico. Un'integrazione ancor più forte imposta a tutti tramite l'unione fiscale sarà pure la soluzione razionale all'attuale crisi finanziaria, ma essa incarna una risposta tecnocratica che non contribuirà in nessun modo a rendere l'Europa più democratica ma che, anzi, rischia di scatenare reazioni estreme.
Da tutto questo appare chiaro che la tecnocrazia funziona bene fintanto che la gente ne ricava benefici materiali, come è successo in Europa negli ultimi cinquant'anni, e come accade ancora oggi in Cina. Ma il meccanismo si romperà alla prima crisi. L'Europa ne paga già le conseguenze in questi giorni.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 18.6.12
Per fame o per soldi: l'epopea dei briganti
Un flagello estraneo al crimine organizzato che infuriò per secoli anche al Nord
di Sergio Rizzo


Preparavano i bagagli e salutavano le persone care. Ma prima di mettersi in viaggio non si dimenticavano di fare testamento. Nel Settecento e nell'Ottocento succedeva in tutta Italia, da Como alla Calabria. Lo raccontano testimoni del calibro dell'intellettuale campano Giuseppe Maria Galanti o dello scienziato e patriota lecchese Antonio Stoppani, a dimostrazione dei rischi ai quali si andava incontro allora per le strade italiane. Che non pullulavano certo di Tir, né di auto guidate il sabato sera da giovani ubriachi appena usciti dalla discoteca. Ma di briganti. L'Italia ne era piena. Ne è sempre stata piena, finché quello che viene definito il «fenomeno» del brigantaggio non fu stroncato dallo Stato unitario.
La formidabile galleria tratteggiata da Enzo Ciconte nel suo volume Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all'Ottocento, da poco in libreria per i tipi di Rubbettino, si chiude con il bandito Giuseppe Musolino, detto il «re dell'Aspromonte». Figura a suo modo epica e di fortissima connotazione popolare, al punto da ispirare Giovanni Pascoli per un'ode rimasta poi incompiuta, muore ottantenne nel 1956: dopo quarantacinque anni di carcere e dieci di manicomio. Difficile dire se fosse davvero l'ultimo dei briganti, ma è certo che con lui scompare un mondo che per secoli ha percorso una strada parallela a quella della storia d'Italia. Un mondo fatto di violenza, coraggio, viltà, lealtà, tradimento, avidità, corruzione, egoismo, solidarietà. E le cui origini sono del tutto sconosciute. Ma non le ragioni per cui la penisola italiana ne diventa il terreno fertile. Il fatto è che a partire dal Cinquecento l'Italia è attraversata da scontri sanguinosi, senza soluzione di continuità. Ed è seguendo il filo rosso del sangue e del denaro che il brigantaggio prospera, fino a diventare, nello Stato unitario, un vero e proprio contropotere.
«Nel 1559», racconta Ciconte, «la fine delle guerre d'Italia lascia sul lastrico un numero enorme di persone, abili a combattere, ma che non sono più abituate al lavoro dei campi. Molti di costoro forniscono schiere e schiere di fuorilegge radunati in bande. Non c'è da stupirsi che anche nel Veneto del Seicento molti delinquenti siano soldati, costretti a quella scelta per integrare la misera paga giornaliera». Ma se il fenomeno è diffuso in tutta Italia, è al Sud che tocca l'apice. «La Calabria del Cinquecento produce tanti briganti perché è in quel secolo che la condizione di vita dei contadini e dei diseredati spesse volte raggiunge punte di insopportabilità tali da spingere le popolazioni a scoppi irrefrenabili d'ira violenta contro i baroni e i signori locali». Alle rivolte spesso si univano anche i frati. Una situazione nella quale, ricorda Ciconte, «giganteggia la figura di Tommaso Campanella», che tuttavia non riuscirà a «instaurare una repubblica comunista e teocratica come quella immaginata nella Città del Sole».
Alcuni briganti sono abilissimi nell'utilizzare a proprio vantaggio i contrasti fra i poteri locali. È il caso dell'abruzzese Marco Sciarra, detto «Flagellum Dei»: nemico pubblico numero uno per lo Stato pontificio; protettissimo dalla Repubblica di Venezia. Né mancano i banditi che si fanno direttamente braccio armato dei potenti e dei nobili, qual è, per esempio, Francesco Marocco detto Tartaglia, ciociaro di Sora, al servizio di Paolo Giordano Orsini. Oppure Pietro Mancino, una specie di Francis Drake pugliese, che per conto dei francesi e del Papa è la spina nel fianco del Regno di Napoli.
Va da sé che per stroncare il brigantaggio non si esitasse a ricorrere a ogni mezzo. Ivi incluse le atrocità. «Di questi tempi è frequente», scrive Ciconte, «trovare agli angoli delle strade i cadaveri, o pezzi di essi, dei banditi orrendamente sfregiati e tagliati in quarti; è un fatto consueto, fa parte del panorama abituale perché tutti sono convinti che l'orribile spettacolo possa essere d'esempio». Un macabro rituale che si ripeterà per secoli, fino alla vigilia dell'Italia unita, nello Stato pontificio.
«Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d'una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un'accetta gli spaccai il petto e l'addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo». L'autore di questa sconvolgente descrizione altri non è che Giovanni Battista Bugatti, meglio noto come Mastro Titta: il boia del Papa che per ben 68 anni, dal 1796 al 1864, eseguì le sentenze capitali emesse dal tribunale dello Stato della Chiesa. Aveva 17 anni quando uccise il suo primo uomo, 85 quando chiuse una carriera durante la quale per ben 77 volte aveva squartato un cadavere: fosse quello di un brigante o di un semplice furfante.
Nemmeno le pene più atroci, come la tortura, né le leggi più infami avrebbero tuttavia spezzato il legame, inevitabile, fra briganti e alcuni strati popolari. Ci sono perfino momenti in cui le bande si fanno esercito «di liberazione». In alcune zone del Sud, come l'Abruzzo, i briganti combattono con i sanfedisti per restituire ai Borbone il regno che gli è stato sottratto dai rivoluzionari francesi. Tragica premessa per quella dolorosa pagina storica derubricata per lunghi decenni sotto la voce «repressione del brigantaggio», ma che in realtà ha assunto nel Mezzogiorno dopo il 1861 i contorni di una vera e propria guerra civile.
Nella ribellione al governo giacobino di Gioacchino Murat emergono banditi leggendari, che sono condottieri in piena regola: come Michele Pezza da Itri, detto «Fra Diavolo». Ciconte ci racconta che, con il momentaneo ritorno dei Borbone a Napoli, «mantiene il grado di colonnello, ottiene una pensione ed è nominato Duca di Cassano». Poi tornano i francesi e lo impiccano. Uno dei tanti. «Murat individua nel brigantaggio l'arma più importante usata da inglesi e borbonici contro il suo regno e decide di non accettare più quella situazione», spiega l'autore. Dà quindi una terrificante carta bianca al suo generale Charles-Antoine Manhès: «È una guerra di sterminio che voglio fare a questi miserabili». Ed è quello che accade.
Il problema si ripeterà quando arriverà l'esercito piemontese. Ma «non c'è bisogno dei soldi dei Borbone per accendere la rivolta», commenta Ciconte. «Molti li accendono i galantuomini che con la coccarda tricolore s'insediano nei posti di potere e comandano più di prima… Altri li accende la chiamata alle armi delle quattro classi più giovani e poi una successiva chiamata, per il solo Mezzogiorno, di 36 mila uomini con una ferma che ha durata quinquennale… I giovani meridionali non hanno alcuna intenzione di vestire la divisa del re piemontese. Molti per non fare il soldato si fanno briganti… I boschi pullulano d'altri giovani. Sono i soldati borbonici che rientrano nelle loro case… Gli ufficiali trovano un posto nel nuovo esercito, i soldati no… Ad essi s'aggiungono i soldati dell'esercito meridionale garibaldino che viene sciolto. Molti di loro diventeranno provetti capibanda». Ma senza subire, a quanto pare, il fascino della via mafiosa al crimine.
«Tra brigantaggio, mafia, camorra e 'ndrangheta», afferma Ciconte, «non c'è alcun nesso. In Calabria il brigantaggio non ha interessato l'attuale provincia di Reggio Calabria. In Abruzzo, Puglia e Basilicata ci sono stati briganti, non mafiosi. In Campania il brigantaggio interessa le province di Terra di Lavoro e dei Principati e non la città di Napoli, che è il cuore della camorra». In Calabria «lo scenario delle gesta brigantesche è identico a quello delle lotte contadine. Si può arrivare a dire che… briganti e moti contadini hanno scacciato da quelle terre la 'ndrangheta, ne hanno impedito la formazione».

Repubblica 18.6.12
Scalfari racconta Repubblica “Noi, tra politica e sentimento”
di Simonetta Fiori


C’è un clima di allegria nel grande salone medioevale che accoglie con una standing ovation Eugenio Scalfari. L’“allegria degli affetti”, quelli della sua estesa famiglia allargata che è il giornale. E “l’allegria delle opere” condivise insieme ai numerosissimi lettori e lettrici che ora sottolineano con il battimani i passaggi politici e sentimentali d’un lungo cammino. È una grande festa, questa che si svolge a Bologna, e non poteva mancare il fondatore di Repubblica, sollecitato sul palcoscenico da Concita De Gregorio. Un viaggio nella memoria dalle molte tonalità, civili e personali, che si svolge davanti a un’affollatissima platea sintonizzata sulle stesse corde. La questione morale. La politica intesa come servizio. L’Italia migliore che è rimasta minoranza. «Non sono mai stato comunista, la mia estrazione è diversa», dice Scalfari. «Ma in questi casi mi verrebbe da salutare con il pugno chiuso». Un paradosso per un liberale di sinistra? «Dico quel che sento», e ha la libertà per farlo. Nelle prime file ci sono alcuni dei suoi antichi compagni di viaggio, come Bernardo Valli, che arrivò in piazza Indipendenza pochi anni dopo quel 14 gennaio del 1976, quando dalla piccola rotativa “Goss” uscì il primo numero di Repubblica. E c’è Ezio Mauro che da sedici anni, nel maremoto dell’Italia, tiene il timone del giornale. Succede nelle feste di famiglia, ci si commuove un po’. Così quando Scalfari ringrazia il suo successore, «non posso dire che lo considero un figlio, ma quasi», e il pubblico partecipa con un applauso in crescendo, l’emozione prende il sopravvento. «Di solito gli ex direttori vengono mandati lontano, in qualche importante redazione estera. Io con Ezio mi sento tre volte al giorno». Abbracci, qualche lacrima. Ragione e passione, il giornale è anche questo. Il senso di una storia non può che essere corale. Così Scalfari ripercorre il suo viaggio straordinario – dal Mondo all’Espresso a Repubblica – pescando dalla memoria gli amici che non ci sono più. Peppe D’Avanzo. Miriam Mafai. Giorgio Bocca. Ecco la storia di un giornale che è anche la storia di un paese segnato da alcuni vizi costanti. Dall’“Italia alle vongole” contro cui s’impegnava il Mondo (l’antenato del quotidiano) all’Italia “insofferente alle regole”, “che non ha il senso dello Stato”, “che insegue interessi particolari e mai generali”, contro cui oggi combatte Repubblica. E il futuro, come scriverlo? Concita De Gregorio riconduce al tema del festival, e Scalfari fa piazza pulita di molti luoghi comuni radicati anche a sinistra. L’antipolitica? «La politica è ineliminabile, come la metafisica o la trascendenza. Necessaria, come lo sono i partiti. La stortura è che da decenni hanno occupato lo Stato. La vera riforma è questa: la disoccupazione delle istituzioni». Grillo e i grillini. «Da un po’ di tempo sento dire che Grillo è un cosa, i grillini un’altra. Non è così. Ma avete letto i programmi di Grillo? Vuole abolire i partiti e le banche. Un’assurdità, smentita dal suo stesso movimento che inevitabilmente si farà partito». Il governo Monti. «Anche tra i miei amici s’usa dire: i primi due mesi ero contento, ora però... Sono passati solo sette mesi. Noi abbiamo avuto governi che in dieci anni non hanno piantato un chiodo». La lista di Repubblica? «Alcuni la incoraggiano, altri ne sono terrorizzati. Sentimenti inutili, perché la lista non c’è». C’è la festa, quella sì. Il viaggio della memoria s’è concluso, Scalfari scende dal palco per raggiungere la moglie Serena e la figlia Enrica. La folla lo lambisce, una signora gli grida “grazie”. Sì, “grazie”, in tanti lo ripetono, una parola breve per dirgli molte cose.

domenica 17 giugno 2012

Corriere Salute 17.6.12
La forza d’animo che guarisce. La chiamano resilienza
È quella capacità di non farsi piegare dalla malattia
attingendo a una riserva interiore di coraggio e positività
Così si tiene stretta la vita e si migliora
Una risorsa da valorizzare
di Paolo Di Stefano


Quarantacinque anni fa la resilienza riguardava l'ambito dell'ingegneria e della fisica: quando un corpo era resistente agli urti, si definiva resiliente. Ma siccome i progressi scientifici cambiano il lessico e la semantica, oggi, per fortuna, la parola resilienza è estesa alla medicina. Ho detto quarantacinque anni fa perché nel 1967 mio fratello Claudio, che aveva poco più di cinque anni, è morto di leucemia acuta. Il 19 febbraio si è manifestata la malattia, con un'inspiegabile angina accompagnata da febbre, e domenica 9 aprile è morto. Un mese e mezzo di ricovero all'ospedale pediatrico Castelvetro di Milano, che oggi si chiama Buzzi. La sera in cui Claudio è stato ricoverato, non fu possibile a mia madre fargli compagnia: solo dal giorno dopo avrebbero sistemato un lettino anche per lei. La mattina dopo il bambino, che già aveva subìto i primi prelievi, la accolse piangendo: «Stai sempre con me». Quando si pensa al progresso, si immagina solo la conquista tecnica, ma anche il fatto che oggi non separerebbero mai mamma e figlio è segno di una grande evoluzione.
In quelle settimane, Claudio alternava momenti di stanchezza con lunghe fasi di allegria e vivacità: ascoltava le fiabe sonore e le canzoni di Sanremo, saltava sul letto, faceva capriole, giocava in camera. Faceva persino coraggio ai miei genitori, che conoscevano l'irrimediabilità della situazione. Se vedeva del sangue nelle feci, Claudio diceva a mia madre di non preoccuparsi: quel colore doveva essere il pomodoro che aveva mangiato la sera prima. Probabilmente mio fratello maturava una sua forma di resilienza, di resistenza psicologica alla malattia, della quale nessun medico allora si curava. Pensare che se tutto fosse avvenuto mezzo secolo dopo, Claudio, oltre a godere dei progressi scientifici, avrebbe anche messo a frutto le sue risorse psicologiche, dà molta tristezza per quel che avrebbe potuto essere e non è stato: ma anche il progresso ha i suoi ritmi naturali, non appare a comando. E sarebbe stupido accusare di crudeltà la cronologia delle biografie umane. Dunque, più che un'occasione perduta per Claudio, la resilienza è un'occasione trovata per tanti suoi coetanei che oggi guariscono.

Corriere Salute 17.6.12
Resilienza Più forti di prima dopo la malattia
Una «riserva interiore» consente una nuova vita. Migliore


Il filosofo Epitteto; i 700 neonati hawaiani dell'isola di Kauai, classe 1955; i 100 bambini curati nell'Oncoematologia pediatrica dell'ospedale San Gerardo di Monza, che hanno scritto in un libro la storia della loro vittoria sulla leucemia: c'è un filo rosso che li lega. Si chiama resilienza. Un concetto che nasce dalla fisica e indica la capacità di un materiale di resistere a deformazioni e urti senza spezzarsi, anzi tornando alla sua forma iniziale. Col tempo, la parola ha ampliato il suo campo di applicazione e sta vivendo un grande successo internazionale. Così si parla anche di resilienza tessile, cioè la capacità dei tessuti di riprendere la loro forma originaria. C'è la resilienza ecologica e quella biologica, ovvero la capacità di ecosistemi e organismi di ripristinare le proprie condizioni di equilibrio dopo un intervento esterno. C'è una resilienza informatica e persino una resilienza geriatrica. Ma soprattutto la resilienza è oggetto di studio della psicologia che, sul fronte clinico, l'ha declinata come capacità del malato di assorbire un «urto» come la malattia, senza però «frantumarsi» ma addirittura migliorando.
La psicologa Anna Oliverio Ferraris la definisce «forza d'animo» e spiega come sia il filosofo greco Epitteto sia l'imperatore filosofo romano Marco Aurelio, esponenti dello stoicismo, «insistono sul ruolo salvifico della forza interiore, di quella preziosa risorsa che ognuno deve cercare in se stesso e coltivare lungo tutto l'arco della propria vita». È questa la resilienza? Cerchiamo di capirlo meglio attraverso un altro elemento del nostro fil rouge allora, partendo dai ragazzi guariti di Monza. «I nostri ragazzi ci hanno insegnato che la crescita positiva dopo il trauma della malattia esiste veramente — spiega Giuseppe Masera, pioniere dell'approccio psicologico nel campo dell'ematologia infantile e a lungo direttore della Clinica pediatrica del San Gerardo di Monza —: per loro è stato come rinascere una seconda volta. Lo trovo affascinante. I pazienti ci dicono che la malattia ha insegnato loro a dare un valore diverso alle cose e all'esperienza della vita». Per questo Masera, con il grande oncologo di Philadelphia Giulio D'Angio, lancerà una proposta su una rivista scientifica internazionale: «Dobbiamo sensibilizzare gli oncologi a conoscere e promuovere un nuovo paradigma: dalla terapia globale e dalla prevenzione dei danni anche psicologici, alla promozione della crescita positiva. È poi necessario considerare la ricerca su questo tema: conoscere da un lato quali sono le caratteristiche individuali, dall'altro gli interventi più opportuni — a partire dalla diagnosi, durante la terapia, e negli anni successivi — che possano favorire la resilienza». Il punto di partenza e anche la sfida sta proprio qui. Possiamo imparare qualcosa da chi riesce a riprendere un nuovo sviluppo di buona qualità dopo un trauma, come sostiene lo psichiatra Michael Rutter, «padre» della psicologia infantile? E riprendendo un pensiero di Boris Cyrulnik (etologo e psicologo francese, tra i massimi studiosi di resilienza), «in quali condizioni interne ed esterne queste riprese di nuovo sviluppo sono possibili»? Se lo sono chiesti gli esperti riuniti lo scorso fine settimana a Parigi per il primo Congresso mondiale sulla resilienza.
«Si tratta di una questione molto affascinante, ma parecchio complessa. La resilienza è un processo, multidimensionale e multifattoriale» sottolinea Elena Malaguti, una delle prime studiose che ha introdotto in Italia le ricerche sulla resilienza e docente di Pedagogia speciale all'Università di Bologna, componente dell'Osservatorio internazionale sulla Resilienza di Parigi, presieduto dallo stesso Cyrulnik con il quale lavora da dieci anni. «La resilienza nasce dalle ricerche della psicologa Emmy Werner che per prima fece uno studio longitudinale alle Hawaii» racconta Elena Malaguti. Emmy Werner esaminò 698 neonati, l'intera leva del 1955, nell'arco di 40 anni. Il risultato più significativo fu che, a dispetto dell'esposizione a fattori di rischio legati alla nascita o all'ambiente, circa un terzo dei bambini considerati ad alto rischio erano diventati adulti premurosi, competenti e affidabili. In condizioni normali, ognuno è solo potenzialmente resiliente: «All'interno delle definizione di resilienza — spiega Antonella Delle Fave, docente di Psicologia all'Università Statale di Milano-Ospedale Sacco — è implicito il fatto che ci sia una cosiddetta "condizione estenuante o estrema" di grave pressione per cui allora si manifesta la resilienza. Ci sono cioè delle risorse che possono essere utilizzate nel momento della necessità e che si traducono in resilienza. Se però viene a mancare questa situazione estrema, non possiamo più identificare tali risorse come strumentali alla resilienza».
Resilienza come forza di reazione e di adattamento dunque. Innata, forse, o raggiungibile? «Non credo esista il gene della resilienza — riflette Elena Malaguti —. In generale, sarebbe opportuno parlare di "resilienza naturale" e di "resilienza assistita", ovvero degli indicatori, dei progetti e dei percorsi che possono essere intenzionalmente avviati ad esempio da genitori, educatori, soccorritori, infermieri, insegnanti. In presenza di un evento traumatico è opportuno individuare le strategie di coping, cioè la capacità di far fronte a un evento; i processi di empowerment, ovvero l'accrescimento e l'acquisizione di competenze, e il processo di resilienza, vale a dire la ripresa evolutiva. È come se fosse una scala». In fondo, assicurano gli esperti, basta imparare a salirci.

l’Unità 17.6.12
«Basta con annunci e bugie: misure eque per uscire dalla crisi»
In 200mila in corteo per chiedere al governo di cambiare rotta
Cgil Cisl e Uil: senza risposte saremo ancora in piazza
Poi tocca alla “meglio gioventù”: in campo le generazioni precarie
di Jolanda Bufalini


Scipione l’anticiclone africano rischia di incocciare sulle teste scoperte dei lavoratori giunti da tutta Italia, così parte puntuale, alle 10, il corteo da piazza della Repubblica a Piazza del Popolo nella Roma assolata: palloncini colorati di Cgil Cisl e Uil, striscioni delle categorie, pensionati e esodati, disabili disperati dalle strettezze che rendono più difficile una vita difficile. Il lungo corteo, 200.000 persone, ancora fluisce dentro la piazza, e ogni tanto si ferma per le foto ricordo, quando dal palco iniziano gli interventi. Fernando Mitrunio è uno studente di Brindisi, racconta il trauma della bomba che ha ucciso Melissa, studentessa in una scuola che ha vinto il premio della legalità, chiede scuole aperte fuori dall’orario delle lezioni, centri di aggregazione assenti dal territorio negli spazi di beni confiscati alla mafia. Vittorio Battaglia viene da Sant’Agostino, uno dei centri più colpiti dal terremoto emiliano. «C’è il giorno dopo dice Quando il problema è non morire sotto lo schianto di un capannone e non morire di fame, perché sei senza lavoro». E racconta: «Imprenditori che avrebbero potuto scegliere di andarsene sono rimasti e i lavorato rifanno quadrato intorno a quelle aziende». Placido Rizzotto, nipote del sindacalista socialista ucciso nel 1948: «Si dice che la mafia ha la memoria lunga. La famiglia Rizzotto e la Cgil hanno avuto la memoria più lunga, fino a ritrovare i resti, fino ai solenni funerali di Stato».
Nell’area intorno al palco segretari delle categorie e esponenti politici. Ci sono Cesare Damiano, Guglielmo Epifani, Stefano Fassina, responsabile economico del Pd che apprezza l’impegno unitario dei sindacati: «I lavoratori non comprenderebbero divisioni in un momento così». Nel corteo c’è anche Maurizio Landini, reduce dal corteo Fiom dall’incontro con il ministro Fornero. «Sacrosanto dicono alla Cgil per il contratto Finmeccanica».
Meno l’aver tirato dentro il tema esodati, «dando spazio al ministro proprio quando è sotto botta»
A PASSO DI GAMBERO
Sul palco è il momento dei segretari generali alla manifestazione sul «valore del lavoro», slogan semplice e antico, che doveva tenersi il 2 giugno. È stata rinviata, dirà Susanna Camusso, «perché abbiamo scelto di stare accanto ai terremotati. Siamo con loro perché non si spengano i riflettori ma si ricostruisca partendo da scuola e lavoro». E per farlo «con le regole che non sono un intralcio burocratico bisogna uscire dal patto di stabilità, non aumentare le accise».
Il primo a intervenire è Luigi Angeletti: «Il tasso di disoccupazione è a due cifre, non avremmo mai pensato di tornare indietro di 15 anni». Una volta si diceva «l’America vota per tutti, ora sembra che siano i tedeschi a votare per tutti gli europei».
Fisco, recessione e il problema degli esodati tengono banco. «Avevano detto manovra dura ma equa dice il segretario della Cisl Raffaele Bonanni ma non c’è stata equità e senza riforma fiscale, senza diminuire le tasse sul lavoro non c’è equità». La crisi c’è e «noi avevamo avvertito che stavamo entrando nel tunnel dice Susanna Camusso ma si sono persi quattro anni». Ora «L’Europa non deve diventare un alibi, si deve cambiare politica economica, non ci si può accontentare di piccoli provvedimenti che non mettono in moto nulla». Il segretario della Cgil chiede alcune cose concrete: «Il ministro dello Sviluppo chiami le imprese alla loro responsabilità sui tanti tavoli di trattativa aperti». E sul fisco: «Per colpire le grandi ricchezze e difendere il lavoro non c’è bisogno del permesso dell’Europa». «L’Imu continua Susanna Camusso non va bene, per la prima casa si paga di più che per i patrimoni immobiliari». E le partecipazioni pubbliche non devono servire a fare cassa «a cominciare da Finmeccanica».
Sugli esodati Angeletti e Bonanni picchiano duro sulla politica della ministra del Welfare: «Fornero smetta di fare interviste e risolva il problema». Camusso chiama in causa il governo: «Non ci appassiona la guerra dei numeri, esodati e persone in mobilità hanno diritto alla trasparenza e a una norma di principio per tutti». Bonanni: «Le leggi non sono retroattive e gli accordi per gli esodi sono stati fatti da imprese e lavoratori sulla base delle leggi vigenti».
DISOCCUPATI E NEET
Un cartello recita «Fornero è come il terremoto, crea ansia sul futuro». E ora l’ansia è legata ai tagli di spesa pubblica. «Si tagli dove c’è spreco, comprando ciò che serve e non favorendo le imprese criminali», dice Camusso. In Italia, dice Angeletti, ci sono «1200 aziende di trasporto pubblico locale con relativi cda, negli altri Paesi ne bastano 30». Quello che i sindacati non vogliono è che tutto si traduca in «tagli alle retribuzioni del pubblico». Sullo sfondo del corteo di ieri la discussione sullo sciopero generale, ma la scelta dei tre sindacati è la costruzione di un percorso, attraverso iniziative territoriali. Primo appuntamento il 20 con i pensionati, poi, a Napoli, il 2 luglio. E già ieri c’è stata la staffetta con «la meglio gioventù», i precari che si sono dati appuntamento a piazza Farnese nel pomeriggio. Denunciano un paese «che marginalizza le risorse migliori con il 36% di disoccupazione giovanile, 4 milioni di precari, 2 milioni che non studiano e non lavorano».
A conclusione, a piazza del Popolo esplodono potenti le note dell’Internazionale, non capita tutti i giorni.

La Stampa 17.6.12
Intervista
Subito lo stop di Fassina “Chiederemo modifiche Il governo ci ascolti”
di Paolo Festuccia


ROMA Le regole del mercato del lavoro non hanno la rilevanza che il presidente Monti gli attribuisce». Stefano Fassina, responsabile Welfare del Pd, torna ad invocare una serie di cambiamenti per la riforma del lavoro. Lo fa un attimo dopo che il capo del governo ribadisce che «è necessario approvare le nuove norme prima del consiglio europeo».
Monti chiede una svolta sul lavoro. E il via libera alla riforma, di fatto, entro una settimana. Lei cosa ne pensa?
«Penso che oggi il problema sia un altro. E cioè il livello di domanda aggregata drammaticamente carente. Eviterei, quindi, di attribuire al vertice europeo di fine giugno una portata palingenetica. Alzare troppo le aspettative rischia di determinare un effetto boomerang. Dalle nostre informazioni sappiamo che si potrà fare qualche passettino avanti, ma la strada è lunga».
Ma l’invito ad accelerare è ormai partito, come si comporterà il Pd?
Proprio perché abbiamo scelto di sostenere il governo Monti fino alla fine della legislatura e abbiamo a cuore l’interesse dell’Italia facciamo rilievi critici e proposte costruttive. Quindi, chiederemo delle modifiche. Poi saremo responsabili e ascolteremo le richieste del governo. Tanto, se non riusciremo a cambiare ora alcune norme lo faremo nella prossima legislatura».
Secondo il premier anche i più critici un giorno rivaluteranno la riforma: lei è chiaramente tra questi...
«Ci metta anche Confindustria in questo elenco insieme alle associazioni di categoria: dai sindacati alle imprese. Dubito che questa riforma verrà rivalutata. Forse lo faranno gli avvocati per i quali crescerà la richiesta di intervento, vista la tortuosità delle norme: dall’articolo 18 a quella sul contrasto alle dimissioni in bianco».
Dunque, non c’è proprio nulla che la convince...
«Ci sono anche punti positivi, come le norme sul contratto di apprendistato, ma molti altri vanno rivisti e cambiati. Come l’aumento dei contributi per i lavoratori parasubordinati e la loro sostanziale esclusione dagli ammortizzatori sociali».
Anche ieri al Cgil è tornata a parlare di rischi di conflitto sociale, le pare possibile un’opposizione così ferma?
«Il nodo è rappresentato dal combinato disposto dell’eliminazione dell’indennità di mobilità e la cancellazione delle pensioni di anzianità con l’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile, che comporterà l’espulsione di un elevato numero di lavoratori e, soprattutto, lavoratrici dal mercato del lavoro per 3,4,5 anni senza coperture».
Un nuovo popolo di «esodati»?
«Tecnicamente no, ma come condizione di vita sì. Perché resteranno senza chance di lavorare e senza pensione».
A proposito di esodati, Monti ha annunciato «presto una ricognizione» e misure adeguate. Si troverà una via?
«Al di là dei numeri, il ministro Fornero deve chiarire quali categorie di lavoratrici e lavoratori verranno salvaguardate. Ma soprattutto deve indicare le fonti per coprire i relativi oneri di finanza pubblica. La responsabilità politica dell’errore non può essere scaricata sulla prossima legislatura».
Lei come risolverebbe il problema?
«Chiedendo di più a coloro che hanno evaso e poi scudato 105 miliardi di euro. Non è chiaro perché si possa rivedere il patto con un operaio che ha lavorato quarant’anni e non quello con chi ha evaso ed esportato milioni di euro».
Ieri i sindacati hanno manifestato: chiedono equità e ascolto.
«Il governo dovrebbe dialogare di più con le parti sociali e non considerarle un pericolo corporativo da evitare, se si fossero ascoltate di più durante la preparazione del «salva Italia», forse avremmo evitato il dramma esodati».

Corriere 17.6.12
Protesta anti-premier dei centri sociali. Scontri con la polizia


MILANO — Cariche della polizia e parecchi momenti di tensione durante la visita del premier Mario Monti a Bologna. Due distinti cortei dell'area antagonista ieri pomeriggio hanno tentato di sfondare la «zona rossa» disposta intorno al teatro Arena del Sole di via dell'Indipendenza, dove il presidente del consiglio era ospite del Festival di Repubblica. La risposta delle forze dell'ordine sono state alcune cariche di alleggerimento, ma negli scontri sono rimasti contusi in modo lieve due carabinieri e dieci poliziotti, tra cui il questore vicario Errico Grazioso Fusco. Il questore Vincenzo Stingone, che ha definito «ineccepibile» la gestione dell'ordine pubblico, ha parlato di «azioni di contenimento», necessarie a non consentire che gli atti dei manifestanti «venissero a disturbare l'incontro». I cortei, appunto, erano due. Da una parte, circa 200 persone legate al centro sociale Tpo, dall'altra circa 400 militanti di collettivi diversi. Gli scontri sono partiti intorno alle 16. Entrambi i gruppi hanno cominciato a bersagliare le forze dell'ordine con bottiglie, uova e ortaggi. Poi, i tentativi di sfondare i cordoni a cui è stato risposto con alcune cariche. L'ultimo momento di tensione intorno alle 19, quando una colonna di blindati della polizia che stava lasciando la zona si è fermata nei pressi di piazza Re Enzo. Anche in questo caso, le forze dell'ordine sono state bersaglio del lancio di bottiglie, a poca distanza dal pubblico in fila per accedere all'area del festival.

l’Unità 17.6.12
Pier Luigi Bersani
«Al governo abbiamo dato la nostra disponibilità ad accelerare anche se molte norme non ci convincono, ma vogliamo una risposta sugli esodati»
«Al Pd chiedo di avere coraggio. Ora apriamoci»
di Maria Zegarelli


«Al mio partito chiedo di avere coraggio. Un partito di governo deve aprirsi, coinvolgere, ascoltare, ma poi deve decidere. Con nettezza». Chiede coraggio il segretario Pier Luigi Bersani, sulla collocazione europea, sui diritti, sul rinnovamento, sulle primarie. Al governo, invece, chiede cautela con gli annunci: «Mi sembra ci sia un eccesso di ottimismo sul decreto sviluppo».
Segretario, Monti ha detto che si è allargato il cratere della crisi. Siamo ancora sull’orlo del baratro?
«Fin qui abbiamo evitato di essere l’epicentro della crisi, di esserne i protagonisti come poteva essere sei mesi fa. Ora il nostro sforzo di allontanarci dal punto critico mostra molti punti interrogativi perché non sono emerse decisioni europee davvero solide ed è a rischio l’euro. Mi auguro che il vertice di giugno segni discontinuità».
Monti ha detto che, se il governo non ci arriva con la riforma del lavoro approvata, l’Italia rischia passi indietro.
«Noi abbiamo dato la nostra piena disponibilità ad accelerare, anche se molte norme, com’è noto, non ci convincono. Le cose dette a gran voce oggi e unitariamente dai sindacati noi le condividiamo. Chiediamo che in queste settimane arrivi una risposta seria ed efficace sugli esodati».
Alfano dice che nel dl Sviluppo c’è solo un miliardo e non ottanta. Anche lei ha espresso perplessità. Cosa non va? «Intanto parto dallo sforzo positivo che si è fatto. Ci sono delle novità, un insieme di iniziative giuste, credo però che ce ne sia qualcuna discutibile. Mi chiedo se la riorganizzazione del ministero del Tesoro, ad esempio, sia funzionale a una maggiore lotta all’evasione oppure no. E mi sembra poco credibile che gli incentivi alle ristrutturazioni edilizie vengano proposti riducendo la convenienza per interventi ambientali e con scadenza, troppo breve, a giugno prossimo. Ho sempre consigliato il governo sobrietà negli annunci perché i risultati si vedono soltanto in un secondo momento».
Lei ha detto che diventa sempre più faticoso sostenere il governo. Pensa al rischio, in termini elettorali, che si corre sostenendo misure impopolari?
«Noi abbiamo detto “prima di tutto l’Italia perché l’Italia è in emergenza” e l’emergenza non è ancora finita. Ma è certo più difficile sostenere questo esecutivo, perché è la situazione a essere più difficile anche al netto degli errori e dei limiti dell’azione di governo. Malgrado questo noi siamo leali, siamo lì e in questo frangente così delicato, dovendo accettare anche cose che non condividiamo, siamo nella condizione di dire chiaramente che durante questa transizione lavoriamo per l’alternativa, per una prospettiva di legislatura che abbia una maggioranza politica coesa in grado di dare una piega univoca alle scelte da fare». Lei ha annunciato primarie di coalizione. Non teme possano essere di difficile gestione se il Pd ci arriva con più candidati? «Invito tutti a non guardare i particolari ma l’insieme. Il punto principale ora è quella faglia tra politica e opinione pubblica, i particolari li vedremo in seguito. Abbiamo o no il coraggio di concentrare la nostra forza e il nostro patrimonio per rinsaldare il rapporto tra la grande area dei progressisti e la politica? In questo contesto persino le primarie diventano un particolare perché prima di tutto dobbiamo renderci conto che non è più una questione solo di partiti o tra i partiti. Il punto ineludibile è garantire governabilità attraverso una partecipazione molto vasta».
Pensa alle primarie perché c’è il rischio che si torni al voto con il Porcellum?
«In direzione ho messo la legge elettorale al primo punto di un percorso perché per noi questa è la priorità. Dobbiamo restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, quindi spero proprio che entro poche settimane si arrivi a un’intesa. Quanto alle primarie vedo che anche il Pdl ha scelto questa strada. Che facciamo, ci tiriamo indietro noi che le abbiamo inventate?».
Alfano ha parlato di tre settimane per la legge elettorale. Una è passata.
«Ci sono contatti costanti tra noi e mi pare ci sia l’intenzione di andare avanti. Purtroppo, e questo mi dispiace molto, il Pdl non vuole il doppio turno, che secondo noi resta la soluzione migliore. Ora anche il nostro mondo di riferimento deve capire che la priorità è cambiare il Porcellum, anche a costo di complicarsi la vita con le alleanze. In ogni caso la legge elettorale si discute con tutte le forze politiche, anche fuori dal Parlamento». Veniamo all’alleanza. Chi individua nell’area progressista di cui ha parlato in direzione?
«Penso a una perimetrazione del grande campo progressista con una dichiarazione d’intenti che mostri l’alternatività al populismo e alla destra. Mi riferisco a concetti basici: quale idea di democrazia abbiamo, quale Europa, come affrontiamo il grande tema dei diritti, del patto sociale e del lavoro. E questo punto di partenza deve coinvolgere non solo i partiti, ma singole personalità, associazioni, movimenti e amministratori. Alla fine di questo percorso apriamo la grande consultazione per avere un’indicazione chiara su chi dovrà guidare il governo del Paese riconnettendoci con la società. Il Pd a questo punto della storia italiana ha delle responsabilità, tocca a lui guidare la sfida e quindi avere coraggio». Coraggio per fare cosa?
«Per esempio nel dire senza incertezze che in Europa noi siamo, pur con la nostra individualità, nel campo dei progressisti. Ancora: il partito ha dei compiti che non esauriscono la politica. L’episodio della Rai non è un episodio: è la linea». Quando parla di coraggio si riferisce anche ai diritti civili? Il documento varato dalla commissione le sembra netto? «Mi riferisco anche ai diritti e quel documento, letto con attenzione, è una base di altissimo profilo che ci mette in grado di inquadrare le decisioni che dovremo prendere su una base molto solida. In quel documento c’è uno spazio enorme per decisioni anche più coraggiose che dovremo assumere con i nostri organismi prima e a livello istituzionale poi». Eppure secondo alcuni la lettera che lei ha scritto al gay pride era più avanzata. «Io sono stato più netto, alludevo già a una decisione ma la mia dichiarazione e questo documento non sono in contraddizione. Il documento è una base di partenza per una decisione che dovremo prendere. Stavolta si decide prima». Altro tema su cui i partiti si giocano la campagna elettorale è il rinnovamento. «Anche qui il Pd deve avere coraggio: dobbiamo mettere in campo forze nuove e credibili. Questo è un mio compito e non lo farò fare alla tv. Tocca al partito e all’area vasta dei progressisti selezionare una nuova classe dirigente, ce l’abbiamo e la manderemo avanti. E non ce l’abbiamo a caso, tutto è partito dal radicamento nelle amministrazioni locali e nei grandi settori di interesse sociale». Grillo sostiene che i partiti si stanno sgretolando troppo in fretta. Vi chiede insomma di dargli un po’ più di tempo...
«Di quali partiti stiamo parlando? Noi in questi anni abbiamo avuto troppi partiti personali e se il Pd mostra la tenuta che sta mostrando è perché, accettando la sfida della modernità, non rinunciamo all’idea che il partito è un fatto collettivo, che deve avere regole, trasparenza e meccanismi di partecipazione. A Grillo dico che ci misureremo sulla durata». A proposito di contraddizioni. L’Idv in Parlamento vi attacca e contestualmente vi chiede di stringere sull’alleanza. «A Napoli ieri De Magistris dal palco della nostra conferenza sul lavoro ha detto che bisogna andare ben oltre la foto di Vasto e credo che anche lui intendesse che si deve andare oltre i semplici rapporti tra i partiti. Con Di Pietro sono stato chiaro: non accetto da nessuno la pretesa del monopolio della morale. Spetta a lui sciogliere il dilemma di dove posizionarsi. Non abbiamo mai detto cose men che rispettose verso l’Idv. Se lui continua con questi attacchi, a volte piuttosto irritanti, di spazio non ce n’è».
Come intende gestire il dopo elezioni con i movimenti e le associazioni?
«So di essere considerato da alcuni “tradizionale” ma nei prossimi mesi, se toccherà a me guidare il percorso, vi stupirò. Credo molto nelle forze sociali, non solo i movimenti, penso anche agli amministratori. Il ruolo dei partiti è centrale, ma c’è uno spazio enorme per il civismo. Lascerò a tutti i soggetti esprimere la propria vocazione ma alla fine si decide. Solo così si governa».

La Stampa 17.6.12
Centrosinistra, lotta per la leadership
A vuoto l’appello di Renzi “Noi siamo con Bersani”
La lettera contro “l’usato sicuro” respinta da molti amministratori Pd
di Antonio Pitoni


Il sindaco di Firenze «I veri tecnici siamo noi che incontriamo i cittadini tutti i giorni»

ROMA Una lettera per la «rottamazione» e un manifesto per l’«usato sicuro». C’è l’ultima fatica epistolare di Matteo Renzi, indirizzata agli amministratori del Pd per invitarli al Big Bang di sabato prossimo nella sua Firenze. Con una «provocazione» che è tutta un programma: «I veri tecnici siamo noi. Perché la tecnica non è il contrario della politica: la tecnica è, dovrebbe essere, almeno, strumento a servizio della politica». Un invito, però, che a conti fatti, un gruppo di destinatari ha già declinato. In tutto una trentina, tra sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, che alla lettera di Renzi hanno risposto con un appello per sostenere Pier Luigi Bersani alle primarie del centrosinistra. Da Piero Fassino a Vasco Errani, da Zanonato a Cialente, da Merola a Scanegatti passando per Daniele Manca e Catiuscia Marini. C’è perfino la firma di Enrico Rossi, governatore della Toscana, in calce al manifesto che sponsorizza il «vecchio» segretario rottamando il «nuovo» sindaco di Firenze.
Insomma, prime importanti defezioni tra i grandi elettori naturali di Matteo Renzi, proprio nel giorno della chiamata a raccolta all’assemblea che, promette lo sfidante di Bersani, «non sceglierà un candidato alle primarie, ma candiderà gli amministratori per cambiare l’Italia». Già, proprio quegli amministratori tra i quali, evidentemente, c’è chi preferisce l’«usato sicuro» agli incentivi alla «rottamazione». E che non faranno parte della spedizione dei mille che il prossimo week-end affollerà il palazzo dei congressi a due passi dalla stazione di Santa Maria Novella. Dove il tema del rinnovamento sembra già destinato a monopolizzare la due giorni. «Non abbiamo scoperto oggi la spending review o il rigore amministrativo – scrive il sindaco –. Solo che siamo abituati a farlo mettendoci il cuore, l’anima, tutto noi stessi. C’è la casta di chi sta rinchiuso nei palazzi dell’amministrazione centrale e c’è l’anticasta di chi tutti i giorni incontra cittadini, parla, ascolta, sta nei mercati e nei centri anziani, nelle scuole e sui posti di lavoro». Critiche, ma anche proposte. «Non ci serve l’ennesimo cahier de doleances – prosegue Renzi –. E la nostra non può essere una terapia di gruppo di chi si racconta i rispettivi problemi, una sorta di seduta collettiva di amministratori anonimi». Con una spinta alla fiducia e all’ottimismo. «Noi possiamo e vogliamo restituire un orizzonte all’Italia – continua il capo rottamatore –. Che ha tanti problemi, è vero. Ma è un Paese fantastico, pieno di talenti e opportunità. Liberare l’Italia che già c’è, e che è decisamente più bella di come ce la raccontiamo: questa la prima missione».
Ci sono i meriti dei tecnici guidati da Monti, che hanno ridato «all’Italia quella credibilità che aveva perduto» evitandole «il destino della Grecia», e i doveri della politica. Che nel manifesto degli amministratori pro Bersani si riassumono più o meno così: «Siamo al cospetto di questioni irriducibili che richiedono di essere guardate in profondità e affrontate con la convinzione che l’impresa che andiamo ad affrontare richiede un passo saldo e determinato e un nuovo patto democratico per la ricostruzione e il cambiamento del Paese». E come nella lettera di Renzi, anche l’appello a favore del segretario nazionale del Pd, mette al centro gli amministratori locali. «La difficoltà crescente di trovare soluzioni concrete coinvolge direttamente noi Sindaci», nella ricerca di una soluzione che «sta nel ricreare una sana gerarchia dei valori» contro «la montante ondata populista» che «può solo aggravare la disillusione dei cittadini». La sfida tra Bersani e Renzi per evitarlo è già cominciata.

il Fatto 17.6.12
Rutelli chiude la Margherita: liquidazione al veleno
Assemblea a porte chiuse I soldi allo Stato (in parte)
Arturo Parisi il dissidente: “Un’occasione persa per capire perché si ruba”
di Stefano Caselli


Era il giorno per interrogarsi sulle condizioni che hanno consentito il caso Lusi, ossia il più grande saccheggio che la storia politica ricordi. E invece... ”. E invece l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi ha abbandonato, sbattendo la porta, l’Assemblea federale che ieri ha formalmente decretato l’estinzione della Margherita.
Onorevole Parisi, perché se ne è andato dopo nemmeno un’ora?
Era un’assemblea militarizzata contro il dissenso e preordinata a quello che è stato il risultato finale. Con una regia concentrata sul mondo dell’apparenza, che ha dimenticato il mondo della realtà. Ma se la vicenda Lusi non è stata aperta nel mondo della realtà, chi immagina di averla chiusa nel mondo dell’apparenza scoprirà presto quanto amara sia stata la sua illusione.
Dunque, è stato tutto un bluff?
Di certo il desiderio di ridurre tutto alla storia personale di un tesoriere infedele, risolta la quale tutte le cose tornano a posto, è fuorviante.
É stata decisa la liquidazione del partito e la restituzione del maltolto. Cosa manca?
La politica. Se il clima lo avesse consentito mi sarei permesso di ricordare che nessuno nasce ladro ma ognuno può diventarlo a causa delle occasioni. È appunto delle occasioni che avremmo dovuto discutere. Della enorme quantità di soldi pubblici che attraverso le leggi abbiamo messo nelle nostre mani, una massa di denaro che, in quanto pubblico, appartiene a tutti e a nessuno e tende perciò ad essere considerato come una possibile preda. Invece si è preferito cercare le cause e le soluzioni nella capacità delle norme di assicurare un controllo. Come se ci fossero norme che da sole potessero bastare. Non è forse una norma che il bilancio debba essere votato da una assemblea? Ma se quel bilancio viene presentato all’ultimo momento - com’è accaduto ieri all’Assemblea - in che misura si è in condizione di verificare la congruenza politica della spesa?
Allora è vero che non vi è stato consegnato il bilancio?
Quando me sono andato io non c’era. Poi forse qualcosa è stato distribuito, ma mezz’ora in più o in meno non cambia nulla. Se i partiti fossero lo strumento e la palestra di democrazia che dicono, dovrebbero anticipare al loro interno le prassi che noi proponiamo per la democrazia di tutti. Immagini se capitasse lo stesso in Parlamento o anche solo in un condominio.
Lei ha addirittura parlato di golpe...
I golpe democratici si avvalgono della democrazia per mettere sotto la minoranza di turno .
L’assemblea però ha votato quasi all’unanimità...
Per forza, c’erano meno di 100 delegati su 400, praticamente tutti d’accordo con Rutelli...
Una convocazione pilotata?
Onestamente non sono in condizione di dirlo. Ma che le modalità della convocazione non siano state impeccabili è stato riconosciuto dallo stesso Rutelli. Ma il problema non è tanto quello di chi non c’era, ma quello di chi era di troppo.
Cioè?
Vorrei sapere a che titolo Rutelli continua a presiedere un organismo di cui non condivide più nè le premesse nè le conclusioni.
Rutelli minimizza, dice di non ricordare un’assemblea che lei non abbia abbandonato polemica-mente.
In effetti purtroppo è già successo nel 2002. Nel congresso costitutivo di Parma. E forse dovremmo chiederci quanta parte della fine del partito fosse già scritta in quell'inizio. Battuta per battuta, potrei rispondere di non ricordare un’esperienza politica che Rutelli abbia concluso sulle stesse posizioni nelle quali l’aveva cominciata.

l’Unità 17.6.12
Anticorruzione, il ddl è un passo avanti. Giusto sostenerlo
di Antonio Ingroia


Tutti sappiamo che la credibilità della classe politica ha raggiunto negli ultimi anni la punta più bassa della storia della nostra Repubblica agli occhi degli elettori. Questo non è solo il risultato della crisi finanziaria che ha esasperato la sfiducia del cittadino nel proprio futuro. Ma che è soprattutto l’impatto della mai risolta “questione morale”, posta tanti anni fa da un dimenticato Enrico Berlinguer. Questione morale mai risolta a causa di ben precise scelte politiche, soprattutto dell’ultimo ventennio.
Un ventennio contrassegnato da una legislazione penale di privilegio, fino al paradosso emblematico delle leggi ad personam, che ha trasformato il volto del nostro sistema penale. Un sistema penale diventato sempre più ingiusto, con un processo rapidissimo nei confronti dei poveracci, e pachidermico nei confronti dei potenti, agevolati anche da una provvidenziale prescrizione brevissima. Tutto questo ha favorito il diffondersi della cultura della irresponsabilità. A monte e a valle. Impunità penale e irresponsabilità politica dei potenti, e questi modelli dall'alto della piramide sociale hanno incoraggiato ai livelli più bassi le forme più svariate di evasione ed elusione delle leggi statali . Questo stato di cose ha messo in fuga gli investitori stranieri, ed ha favorito appetiti mafiosi e interessi criminali di ogni sorta. L'etica della responsabilità si è definitivamente dissolto.
Ecco perché la sfida del governo Monti ponendo la fiducia sul ddl anticorruzione, un governo sostenuto peraltro da una maggioranza parlamentare variabile e anomala, credo vada apprezzata.
Nel testo di legge ci sono disposizioni che necessitano certamente di miglioramenti ed adeguamenti. Non tutto è ottimale. Ma non va trascurata la portata simbolica, di orientamento politico-culturale, che possono avere certe disposizioni in un dato momento storico.
In tal senso, l'introduzione del principio della incandidabilità dei condannati per delitti di mafia e di corruzione è certamente scelta assai significativa, che offre al Parlamento un'occasione storica. L'occasione di iniziare un percorso inverso rispetto a quello finora tracciato. Un’inversione di senso di marcia verso la cultura della responsabilità. Se si considera che questo Parlamento è lo stesso che, sotto il passato governo, ha approvato tante leggi ad personam e di privilegio, e che ha messo ulteriori tasselli a supporto della cultura dell'impunità, la sfida va ancora più apprezzata.
Certo, molta altra strada occorre fare.
Sarebbe sbagliato pensare che l'etica della responsabilità possa fermarsi a questo livello basilare. Ci aspettiamo che, oltre a porre rimedio, allo scandalo dei condannati che siedono ancora in Parlamento, la politica si appropri, secondo le più moderne culture democratiche, del principio di responsabilità politica. Un livello di responsabilità, cioè, che non deve attendere i tempi lunghissimi del giudizio penale per prendere atto dell'indegnità politica di un parlamentare che risulti, per certo, macchiato da fatti compromettenti l'onorabilità pubblica dell'alto consesso di cui fa parte, e a prescindere dalla rilevanza penale di tali condotte. E ci aspettiamo pure che, sull’onda di questo nuovo corso, si possa porre rimedio allo scandalo della giustizia lunghissima e della prescrizione brevissima, introducendo correttivi che consentano ai cittadini di sapere in tempi ragionevoli l'esito finale di processi al centro dell'attenzione pubblica, e che impediscano che la mannaia della prescrizione troppo rapidamente determini la morte della giustizia, e cioè la dichiarazione di prescrizione del reato. Insomma, siamo tutti consapevoli che il principio della incandidabilità non è la panacea di tutti i mali. Ma è certamente un mattone, il primo mattone di una nuova costruzione, la costruzione di un nuovo itinerario, per fare crescere la cultura istituzionale della responsabilità, per far crescere la fiducia dei cittadini. Per recuperare la credibilità delle istituzioni repubblicane tutte, comprese quelle politiche e quelle giudiziarie.

Corriere 17.6.12
Il 60% si astiene o sta con Grillo
I Cinque stelle oltre il 20%. Resiste soltanto il Pd. Pdl al 18,1%
di Renato Mannheimer


Come accade ormai da diverso tempo, il primo e più significativo dato che colpisce esaminando la distribuzione aggiornata delle intenzioni di voto per le forze politiche è quello concernente la numerosità dei cittadini disaffezionati ai partiti tradizionali. Che cercano, di conseguenza, una opzione diversa da questi ultimi, manifestando indecisione o intenzione di astenersi o — è il fenomeno più in crescita in queste ultime settimane — rivolgendosi a una forza nettamente antipartitica, quale è il Movimento 5 stelle. Nel complesso, coloro che assumono queste posizioni costituiscono circa il 60% degli italiani. Ma si tratta di un insieme assai composito. Ad esempio, gli elettori di Grillo sono tendenzialmente più giovani, mentre le classi di età più elevate tendono maggiormente all'astensione e all'indecisione.
Ancora, tra i simpatizzanti del M5S si contano molti studenti, impiegati e lavoratori autonomi, mentre casalinghe e disoccupati si rifugiano in maggior misura nel non voto. E, se molti simpatizzanti del M5s si definiscono di sinistra o centrosinistra, gli astenuti e gli indecisi tendono a non collocarsi politicamente. Sul piano dell'orientamento elettorale poi, la crescita di indecisi e astenuti potenziali pare dovuta maggiormente alla progressiva erosione del centrodestra e del Pdl in particolare. Mentre il M5s raccoglie oggi numerosi consensi da elettori che nel 2008 e nel 2009 avevano votato per il Pd, ma anche da molti ex leghisti e da ex tentati dall'astensione. Di conseguenza, la crescita del seguito per Grillo non ha portato ad una significativa contrazione degli indecisi e degli astenuti, ma si è in qualche modo affiancata a questi ultimi. Non solo: il M5s dispone oggi ancora di un ampio bacino di voti potenziali espressi da coloro che, pur non scegliendolo, dichiarano di prenderlo comunque in considerazione per una eventuale scelta futura: nell'insieme, il mercato elettorale attuale o potenziale di Grillo sta per toccare il 30%, vale a dire quasi un italiano su tre. Naturalmente, non è detto che tutti coloro che oggi dichiarano nelle interviste — magari per una reazione di protesta — di votare per Grillo, poi lo facciano davvero nel seggio elettorale. Ma già l'ampiezza delle intenzioni di voto costituisce un sintomo indicativo dell'attuale stato dell'opinione pubblica.
Tra i partiti che più hanno sofferto elettoralmente di questa situazione vi è certo il Pdl. Che ha visto una netta diminuzione nel tempo del proprio elettorato acquisito (oggi supera di poco il 18%, collocandosi al terzo posto tra i partiti italiani, ma secondo un altro sondaggio della Swg è collocabile al 15%), ma anche, contemporaneamente, di quello potenziale. Se nel 2009 quasi metà (45%) degli italiani dichiarava di «prendere in considerazione» il partito di Berlusconi, oggi questo pubblico di simpatizzanti si è ridotto poco sotto al 12%. Anche il Pd ha mostrato una — assai più lieve — contrazione di quanti affermano di «prenderlo in considerazione»: dal 42% del 2010 al 32% di oggi.
L'insieme di questi dati ci conferma dunque, al di là delle variazioni dei singoli partiti, il fenomeno più generale cui abbiamo fatto cenno più sopra: l'allontanamento di sempre più cittadini dalle forze politiche tradizionali. Ne consegue da un verso l'accrescersi della sfiducia (l'indice di fiducia nelle istituzioni è calato negli ultimi tre mesi da 44 a 40, mentre era pari a 48 nel novembre scorso) e dall'altro l'allargarsi della consapevolezza della difficoltà della situazione (quasi il 90% degli italiani giudica l'ultimo anno assai peggiore dei precedenti). Anche a causa di tutti questi elementi, una percentuale superiore alla maggioranza assoluta degli elettori del nostro Paese invoca, come si è visto, una alternativa più o meno radicale del quadro politico. Sin qui, però, i partiti in Parlamento non sembrano tenerne molto conto.

l’Unità 17.6.12
Un esempio di buona politica per un Paese moderno
di Vittoria Franco


Affrontare questioni etiche non è facile, ma abbiamo trovato una sintesi alta tra culture diverse. E questo è un grande risultato
Così si afferma il rispetto delle differenze e dell’autodeterminazione nelle scelte sulla salute

Non è facile oggi legiferare su questioni etiche. Non lo è perché una destra che ha dimostrato scarsa autonomia nel quasi ventennio in cui ha governato ha fatto aggravare ogni questione che in altri Paesi europei è già regolamentata da tempo, dalle unioni civili anche tra persone dello stesso sesso alla procreazione assistita, dal testamento biologico alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Con le maggioranze che si sono susseguite non si sarebbe mai raggiunto quel livello di capacità riformatrice degli anni 70 che ha rivoluzionato la sfera dei diritti civili col divorzio, la legge 194, la riforma del diritto di famiglia. Ma non è facile affrontare questi temi neanche per il Pd, un partito giovane, ma che è nato con una grande ambizione: riunire le culture riformatrici che hanno segnato la storia della Repubblica, forze laiche e cattoliche, credenti e non credenti.
Una scommessa difficile, che è entrata in crisi già in diversi momenti. Costruire un gruppo che ne discutesse in libertà, senza remore, per produrre una sintesi «alta» è stata una scelta coraggiosa. Se fosse fallita, sarebbe stato un boomerang che avrebbe compromesso la stessa vita del partito. Così non è stato. Abbiamo messo a disposizione degli iscritti e degli elettori, dell’opinione pubblica tutta, il frutto di una discussione lunga e approfondita, nella quale non sono mancati momenti di tensione, ma che costituisce un esempio di come sia possibile governare le differenze nelle scelte politiche. La nostra è l’epoca delle grandi rivoluzione tecnologiche e della ricerca genetica, che hanno modificato il concetto di «vita» e reso più labile il confine tra «naturale» e «artificiale».
Viviamo sempre più intensamente in società multiculturali, nelle quali si moltiplicano le concezioni del bene a confronto. Come può la politica legiferare su temi cruciali che riguardano la coscienza e le credenze di ciascuno rispettandole tutte e senza assumerne nessuna in particolare? Certamente, la nostra Carta costituzionale è una stella polare; garantisce eguaglianza, libertà, diritti individuali, coesione sociale. Ma le novità sono tali che richiedono strumenti nuovi. La cultura liberale, con John Rawls, ci insegna che sui temi di maggior conflitto si può decidere solo fino al punto in cui si registra condivisione. Questo il gruppo, ciascuno e ciascuna con le sue competenze, ha cercato di fare, indicare direttrici possibili, momenti più elevati di sintesi fra culture diverse, a partire dalla condivisione di un valore fondamentale: la centralità dell’essere umano e della sua dignità. Troviamo allora riconosciuti cultura e diritti delle donne, rispetto delle differenze, diritto alla legalità, autodeterminazione nelle scelte che riguardano la propria vita e la propria salute, riconoscimento dei legami differenti da quelli matrimoniali, «ivi comprese le unioni omosessuali».
Si poteva fare di più? Sicuramente. Su questioni specifiche ognuno avrebbe fatto scelte diverse. Io sicuramente sarei stata più esplicita sulla possibilità di ricerca su embrioni soprannumerari, che invece restano inutilizzati e inutilizzabili, che farebbe segnare progressi nella cura di molte malattie. Tuttavia, valorizzare il lavoro che il gruppo, col contributo di tutti, ha portato a termine è esempio di buona politica, un’apertura su un’Italia più moderna e inclusiva.

l’Unità 17.6.12
Sui diritti serve più coraggio
Non capisco la timidezza dei democratici sul testamento biologico e la ricerca sulle staminali
di Ignazio Marino


Il documento elaborato dal comitato Pd è un passo avanti, ma occorrono posizioni più nette,
a partire da temi come le unioni tra omosessuali

I diritti civili non sono una concessione. Questa è la chiave, l’essenza su cui si fonda uno Stato laico. Laicità significa riconoscere l’uguaglianza tra le persone, difenderne la parità e la libertà di scelta. Questi principi nei giorni scorsi mi hanno spinto a non accettare il documento finale elaborato dal comitato diritti del Partito democratico, un organismo che era stato creato nel febbraio 2011, dopo una lunga discussione promossa da me e da molti altri nell’assemblea nazionale di Roma. Il documento rappresenta un passo avanti rispetto al passato poiché il partito ha finalmente dimostrato una volontà di confronto che prima era mancata. Come tutti i democratici, credo in una società proiettata verso il futuro e basata su principi come la libertà, il rispetto, l’uguaglianza, il diritto. Per il Pd, che ha nel suo carattere distintivo il sostegno di questi valori, è fondamentale non fermarsi mai e operare scelte sempre più chiare e innovatrici, altrimenti le sue esitazioni diverranno la sua più grande debolezza.
Prendere una posizione netta su un tema specifico non significa negare le diversità o non ammettere il pluralismo e la libertà di coscienza. Significa solo non avere alcuna indecisione nel momento in cui c’è bisogno di schierarsi dalla parte della libertà e dei diritti civili. Viviamo un momento di grande difficoltà, in cui gli italiani stanno sopportando il carico di pesanti scelte economiche e fiscali; il lavoro e l’economia, dunque, sono due settori importantissimi, ma non dobbiamo cadere nell’errore di rimandare le decisioni sui diritti. Da che parte stiamo? Pensiamo che due persone che si amano, se sono dello stesso sesso abbiano il diritto di sposarsi? Io penso che dovremmo, come accade nel resto d’Europa, dove ben venti Paesi, dal Portogallo, alla Finlandia, dalla Francia alla Germania, alla cattolicissima Irlanda e alla Slovenia, hanno adottato normative che garantiscono e tutelano i diritti di tutte le coppie, comprese quelle omosessuali.
Il Pd ritiene che si debba garantire anche ai single e alle coppie omosessuali il diritto ad adottare un bambino? A mio parere, la capacità di crescere un figlio non è una prerogativa esclusiva della coppia eterosessuale, ma in alcune circostanze può avvenire con l’amore e l’affetto di un single o di una coppia gay. Ciò che è veramente essenziale nel concedere l’adozione è soltanto l’esclusivo interesse del minore.
Qual è davvero la nostra idea di famiglia? Io penso che la famiglia cosiddetta tradizionale sia una istituzione straordinariamente solida: non ha bisogno dunque di essere difesa con politiche restrittive o proibizioni, ma semmai da un welfare efficiente, da asili nido e fondi per l’infanzia.
Le aggressioni contro le donne e gli omosessuali si sono intensificate in questi anni e rappresentano un esempio odioso, inaccettabile, di discriminazione e violenza: credo perciò che il Pd dovrebbe pretendere adesso, subito, una legge che punisca in maniera esemplare l’omofobia, oltre a pretendere un inasprimento delle pene nel caso di violenza sulle donne. Non sono temi meno importanti dello spread, semmai hanno maggiore rilevanza, perché non riguardano aspetti contingenti al tempo che viviamo ma valori essenziali per un democratico, in ogni tempo.
Non comprendo, poi, le timidezze di alcuni settori del Partito democratico sul testamento biologico. La politica e i partiti eletti in Parlamento non devono scegliere se proseguire o interrompere le terapie, devono solo permettere a ognuno di noi di decidere con i nostri affetti, quali cure riteniamo appropriate per noi stessi e quali no. Io credo che una legge amica della
vita debba rispettare le scelte delle persone: coloro che vogliono tutte le terapie che esistono oggi e quelle che esisteranno domani, dovranno essere protetti e dovranno averle, mentre coloro che non le vogliono dovranno poter accettare liberamente la fine naturale della vita.
Infine, la scienza. L’umanità seguirà la propria evoluzione, anche senza l’endorsement della politica italiana. Se non riusciremo a comprendere e governare il cambiamento, lo subiremo. Come facciamo già con il turismo riproduttivo, nel caso della legge sulla fecondazione artificiale, e come avviene con la ricerca scientifica sulle cellule staminali. Negli Stati Uniti, una sperimentazione sull’uomo basata sull’utilizzo di cellule staminali di origine embrionale per curare alcune forme di cecità ha dato, poche settimane fa, i primi sorprendenti risultati positivi, permettendo ad una paziente colpita da degenerazione maculare della retina (la più importante causa di cecità nel mondo industrializzato) di ritornare parzialmente a vedere.
Di fronte a prospettive di questa portata, chi potrà opporsi all’utilizzo delle cellule prelevate dagli embrioni congelati nelle cliniche per l’infertilità, non utilizzati a scopo riproduttivo e destinati alla distruzione? Sono davvero convinto che sia urgente trovare un equilibrio tra il mondo della scienza e le diverse sensibilità etiche e religiose. La via peggiore è quella di ignorare o negare ciò che sta avvenendo e non stimolare un dibattito libero da pregiudizi ideologici e che conduca alle scelte migliori per la nostra vita e la nostra salute.

Corriere 17.6.12
«Coppie gay, ora Bersani vada oltre»
di M. Gu.


ROMA — «Bersani ha pronunciato una dichiarazione molto importante sulle coppie di fatto. Ma se ha l'ambizione di guidare e modernizzare questo Paese, deve dire con chiarezza che farà tutto quel che è possibile per dare gli stessi diritti che le persone hanno nelle altre nazioni europee».
Anche i matrimoni omosessuali?
«Sì. Anche le adozioni per una donna single e per una coppia non eterosessuale. Perché l'unico criterio che conta è il bene del bimbo o della bimba».
Ignazio Marino, senatore del Pd, ha pubblicato di recente «Credere e conoscere», un dialogo con il cardinale Carlo Maria Martini. La laicità è la sua bandiera. Nel 2009 ha sfidato Bersani alle primarie e ora, dopo che Pierluigi Battista sul Corriere ha lodato il segretario del Pd per il documento sul riconoscimento delle coppie di fatto, lo sfida sui diritti civili.
Non è già molto l'apertura di Bersani?
«Il fatto che il Pd abbia avviato una riflessione sui diritti è un fatto positivo, ma una esposizione dotta ed elegante non basta. Il Pd deve dire con semplicità da che parte sta. Vogliamo o no una legge contro l'omofobia? Vogliamo o no inasprire le pene per la violenza contro le donne?».
Potrebbero risponderle che adesso bisogna pensare allo spread.
«Ma questi temi hanno una rilevanza ancora maggiore, perché lo spread o la crisi del petrolio sono contingenti, mentre i diritti delle persone sono valori essenziali che un partito deve costruire e proteggere in ogni tempo».
L'anima cattolica del Pd frena. Fioroni ha ammonito Bersani...
«La famiglia tradizionale come la intende Fioroni è una istituzione così forte che non ha bisogno di essere protetta da leggi che proibiscano altri diritti. Il Pd non può non considerare i diritti delle persone che si amano, che devono essere garantiti a prescindere dall'orientamento sessuale».
L'Italia è pronta per le nozze gay?
«Il Pd non si deve far spaventare da espressioni come "matrimonio degli omosessuali". Parole come queste forse possono spaventare persone che si sono formate negli anni Cinquanta, ma non certo mia figlia di vent'anni o i suoi coetanei. Per loro è scontato che due ragazzi o due ragazze che si amano possano avere gli stessi diritti di una coppia etero».
E il testamento biologico?
«Sorprende la timidezza di alcuni leader del Pd. La gente invece non trova nulla di rivoluzionario in una frase come "non sono i partiti che vincono le elezioni a decidere come mi dovrò curare"».
L'eutanasia è il problema, non crede?
«Non parlo di eutanasia. Dico che se una persona vuole rinunciare a strumenti e tecnologie che cinquant'anni fa non esistevano e spegnersi naturalmente in casa propria, perché non dovrebbe avere questo diritto? Non è cattolicesimo? E c'è un'altra cosa...».
Prego.
«Un bimbo che nasce in Italia è italiano, punto e basta».

il Fatto 17.6.12
Indagine sulla trattativa Stato-Mafia
Il Quirinale è intervenuto
Il Colle definisce “risibili” e “irresponsabili illazioni” le rivelazioni del Fatto sulle pressioni di Mancino contro i pm di Palermo
Ma poi tira fuori la lettera della Presidenza della Repubblica al Pg della Cassazione: la prova dell’interferenza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo E alla fine la lettera è saltata fuori. È firmata da Donato Marra, segretario generale della Presidenza della Repubblica, ed è datata 4 aprile 2012. Destinatario: il Procuratore generale della Cassazione, nella fase di passaggio di consegne tra Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani. La rende pubblica il Quirinale in una nota emessa poco prima delle 19 di ieri: “Per stroncare ogni irresponsabile illazione sul seguito dato dal capo dello Stato a delle telefonate e a una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono”. A nome di Napolitano, Marra “gira” al pg della Suprema Corte le lamentele di Mancino, indagato a Palermo per la trattativa che “si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla cosiddetta trattativa”. Ma il Quirinale non si limita a una semplice trasmissione: Marra informa il pg che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato e tuttora rispettabile cittadino italiano, sono condivise da Napolitano. “Conformemente a quanto da ultimo sostenuto nel-l’Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il capo dello Stato – scrive Marra – auspica possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede, e quindi anche ai sensi delle attribuzioni del procuratore generale della Cassazione”. Spiega Marra alla fine della missiva che l’intervento del capo dello Stato è finalizzato a “dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali”.
NAPOLITANO in prima persona, dunque, scavalca il capo della Dna Pietro Grasso cui compete il coordinamento tra le procure e su una materia delicata e scottante come l’indagine sulla trattativa Stato-mafia investe, in modo irrituale e insolito, direttamente il pg della Cassazione. Che non ha poteri di coordinamento tra procure, ma solo quello di decidere sui conflitti di competenza eventualmente sollevati sulle inchieste in corso. Le preoccupazioni di Mancino e Napolitano sono legate alle indagini parallele delle Procure di Caltanissetta e Firenze che, fino a questo momento, hanno ritenuto “penalmente non rilevanti” le condotte dei protagonisti di quella stagione di dialogo dello Stato con Cosa Nostra. E convergono nel senso di indirizzarle verso un unico sbocco: quello “minimalista” che salvi i politici da ogni coinvolgimento penale. La lettera di Marra si conclude con il capo dello Stato che resta in attesa di informazioni (“il presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia”) dal Pg della Cassazione, per – spiega la nota del Quirinale – “pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato’’.
E se l’inchiesta di Palermo genera fibrillazioni sul Colle più alto, isolando di fatto i pm palermitani, lo stato maggiore di Magistratura democratica giura “a scatola chiusa” sull’innocenza dell’ex guardasigilli Giovanni Conso, spaccando la corrente: il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi si dice “incredulo e profondamente preoccupato”. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini esterna il suo “sentimento di stima a Conso che a 90 anni si trova inquisito”. Giovanni Palombarini, tra i fondatori della corrente, “senza bisogno di conoscere il fascicolo” è pronto a giurare sulla sua innocenza. Come fa a saperlo? “Lo so”. Parole che scatenano il dibattito nella mailing list della corrente, con una stragrande maggioranza di interventi di segno opposto: cioè a favore dei pm di palermo.
Lo Stato, diceva Leonardo Scia-scia, non può processare se stesso. Ma se proprio è costretto a farlo, perché i suoi più autorevoli esponenti sono accusati di avere dialogato con i boss stragisti Riina e Provenzano, il corto circuito istituzionale è assicurato. Se a parole tutti condannarono Pietro Lunardi per il suo “con la mafia si deve convivere”, ora che un’inchiesta prospetta una vera trattativa con Cosa Nostra, tutti si chiedono: è legittimo considerare personalità come Mannino, Mancino, Conso, alla stregua di criminali comuni? Ma anche: è legittimo un comportamento sanzionato dal codice penale solo perché giustificato dalla ragion di Stato? “Ragion di Stato e ragioni di giustizia dovrebbero essere in sintonia – ha sempre sostenuto il pm Ingroia – ma spesso non lo sono. In caso di divorzio tra le due succede che la ragion di Stato può costituire movente di un reato’’. La levata di scudi che determina l’isolamento politico, giuridico e interno alle toghe di un pugno di pm illusi di poter scandagliare con un’indagine giudiziaria la cattiva coscienza della politica italiana ripropone la domanda centrale, scomoda e imbarazzante: la magistratura ha il diritto-dovere di far salire sul banco degli imputati la scelta politica di unoopiùgoverni, quandoquesta è suggerita dalla gravità del momento?
È LECITO, insomma, trattare sottotraccia con la mafia se l’intento è quello di salvare la vita di esponenti politici minacciati anche a costo di sacrificare Borsellino e la sua scorta, e poi tanti innocenti a Firenze e Milano)? Dal mondo accademico arrivano le prime soluzioni: il docente Giovanni Fiandaca, già capo della commissione di riforma del codice antimafia, è scettico sull’efficacia dell’azione penale. E propone un’exit strategyextra-giudiziale, ricordando le commissioni di verità istituite in Sudafrica per riconciliare le parti e chiudere i conti con il passato al di fuori delle aule giudiziarie: “I protagonisti direbbero la verità in un clima più sereno, non punitivo”. Ma Cosa Nostra può esser trattata alla stregua dell’apartheid? “Fino a che – è il parere di Ingroia – ciascuno non farà di tutto perché la verità venga a galla, la democrazia non potrà mai diventare matura perché resterà ostaggio dei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia”.

il Fatto 17.6.12
I vertici dello Stato sapevano “Paolo aveva capito tutto”
Agnese Borsellino. “Alcuni potenti non hanno salvato neppure la dignità”
intervista di Sandra Amurri


Agnese Piraino Borsellino non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio? ”, rispose: “No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”.
A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi?
Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere.
Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone?
Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto.
Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati?
Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse.
Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi.
Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava.
Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”?
Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro.
Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra?
Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione.
Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo: ”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi, fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale?
Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono.
Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire?
Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale.

il Fatto 17.6.12
Da via D’Amelio alle stragi del ’93 fino all’indagine di Palermo


L’omicidio del magistrato antimafia Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Pochi giorni dopo la strage di Capaci, sarebbe partita la trattativa tra i vertici dello Stato e Cosa Nostra per far cessare la “strategia stragista”, in cambio di un’attenuazione dell’articolo 41 bis, che prevedeva misure carcerarie durissime contro i mafiosi. Due giorni dopo la strage, il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica al sedicesimo scrutinio. Un’elezione a sorpresa, visto che prima di Capaci la partita al Quirinale era giocata da Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. E la conferma che la strage aveva mutato per sempre anche la politica italiana. A portare avanti il dialogo segreto fra Stato e mafia sarebbero stati i carabinieri del Ros, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Secondo il figlio di questi, Massimo, al padre fu consegnato un “papello”, ovvero il documento in cui venivano espresse le dodici “volontà” di Cosa Nostra, con una lunga serie di richieste allo Stato. La prima era appunto l’attenuazione del 41 bis, rafforzato l’8 giugno 1992 con un decreto dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e dal Guardasigilli, Claudio Martelli. A inizio luglio, proprio Scotti viene “dirottato” alla Farnesina. Al suo posto viene nominato Nicola Mancino. Il 19 luglio, la strage di via D’Amelio, a Palermo. Una 126 imbottita di esplosivo salta per aria, uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Pochi giorni prima, Borsellino aveva interrogato Mutolo, poi aveva incontrato Nicola Mancino. La trattativa segreta, intanto, sarebbe proseguita. Dopo il ‘93 i boss avrebbero avuto un altro referente nelle istituzioni, l’attuale senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. La trattativa avrebbe avuto il suo culmine nel 1994: lo sostengono il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Fu proprio allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, secondo gli inquirenti, “prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite del suo stalliere Vittorio Mangano e di Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura”.

il Fatto 17.6.12
Si prega di non disturbare
L’imbarazzante silenzio della stampa italiana


Un ex presidente del Senato, indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia successiva alle stragi del 1992/’93, subito dopo essere stato ascoltato dalla Procura di Palermo telefona al consigliere giuridico del presidente della Repubblica per lamentarsi con Giorgio Napolitano dell’operato dei pubblici ministeri che indagano sulla pagina più inquietante degli ultimi vent’anni di storia repubblicana. Il consigliere giuridico Loris D’Ambrosio conferma tutto al Fatto Quotidiano. La notizia è enorme, eppure passa sotto silenzio.
Corriere e Repubblica, che per primi ne avevano scritto il 15 giugno, non ritengono di dare seguito alla vicenda. Su Stampa e Giornale nemmeno una riga. Una pagina intera su Libero (“Le pressioni di Mancino sul Quirinale”), ma il pezzo portante è un attacco ai pm che “si accaniscono” contro Dell’Utri. Desolato silenzio altrove. Non una parola nei telegiornali e una sola Ansa (Mafia: Fatto Q., Mancino chiamò colle. Gasparri: Chiarire”) fino alle 16,45 di ieri.
LA SVOLTA in serata, quando dal Colle giunge una nota: “In relazione ad alcuni commenti di stampa sul contenuto di intercettazioni di colloqui telefonici tra il senatore Mancino e uno dei consiglieri del presidente della Repubblica – si legge – si ribadisce che ovvie ragioni di correttezza istituzionale rendono naturale il più rigoroso riserbo, da parte dei consiglieri, circa i loro rapporti con il capo dello Stato. Parlare a questo proposito di ‘misteri del Quirinale’ è soltanto risibile”. A quel punto i telegiornali sono costretti a dare la smentita di una notizia che non avevano mai dato. Pazienza, in fondo è già accaduto in passato, quando – senza prima dar conto delle indagini per mafia a carico di Renato Schifani – ci si affrettò a diffondere la sua smentita.
Ste. Ca.

il Fatto 17.6.12
Antiriciclaggio, il Vaticano bocciato otto volte
Non segue le raccomandazioni del Consiglio d’Europa
di Marco Lillo


Il Vaticano è stato bocciato giovedì scorso agli esami scritti in una materia che storicamente pratica poco: l’anti-riciclaggio. E ora confida negli orali che si terranno a Strasburgo dal 2 al 6 luglio prossimo, per agguantare almeno una sufficienza risicata (il 4 luglio sarà esaminata la posizione del Vaticano). Il Fatto Quotidiano è in grado di anticipare le linee principali del rapporto Moneyval, il comitato degli esperti anti-riclaggio europei, consegnato giovedì scorso agli Stati membri dalla segreteria dell’organismo del Consiglio d’Europa. Sulle 16 raccomandazioni fondamentali in materia di anti-riciclaggio prescritte dagli organismi europei per l’inserimento all’interno della cosiddetta lista bianca degli Stati virtuosi, lo Stato Vaticano è stato bocciato otto volte su sedici.
LA VALUTAZIONE è stata effettuata sulla base delle 40 raccomandazioni sull’anti-riciclaggio e sulle nove raccomandazioni relative all’anti-terrorismo. Per ognuna di esse la disamina della situazione del Vaticano si conclude con un voto che può essere positivo, nel senso del rispetto della raccomandazione GAFI, con due gradazioni (compliant, cioè conforme, o addirittura largely compliant) oppure negativo con due gradazioni (non compliant; partially compliant).
Il rapporto è stato consegnato anche a Giuseppe Maresca, direttore dell’ufficio V del ministero dell’Economia e Finanze, per la “prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a fini illegali”. Lo Stato della Città del Vaticano, come un qualsiasi paradiso fiscale alla ricerca di una migliore reputazione, aveva chiesto e ottenuto nel-l’aprile 2011 di essere sottoposto alla valutazione di Moneyval. Lo scopo della Santa Sede era quello di essere posizionato nella “lista bianca” dei paesi affidabili per le loro procedure e normative. Una valutazione positiva permette infatti maggiore fluidità nei rapporti internazionali e avrebbe quindi favorito l’attività delle istituzioni finanziarie come lo IOR. Il rapporto è stato stilato da cinque esperti dei vari paesi più due membri del segretariato Moneyval e la parte più importante della valutazione è quella che riguarda le 16 raccomandazioni fondamentali sulle 49 complessive. La valutazione di otto delle 16 previsioni core and key, come le definisce il rapporto, è negativa cioè “non conforme” o solo “parzialmente conforme”. Ora, l’inclusione della Città del Vaticano nella lista grigia dei paesi poco affidabili durante l’assemblea plenaria di Strasburgo che si terrà dal 2 al 6 luglio, sembra sempre più probabile. A nulla sono serviti i trattamenti di riguardo agli ispettori quando sono venuti a Roma per studiare sul campo lo IOR: erano stati alloggiati nella residenzaSantaMarta, all’internodella Città del Vaticano, dove i cardinali sono ospitati durante il conclave. Ma la pace delle suite color pastello dell’ex convento ristrutturato alla fine degli anni Novanta e il silenzio dei giardini vaticani non sono riusciti a mettere di buon umore gli esperti europei al punto da ribaltare il verdetto negativo. Il rapporto raffronta le procedure in vigore all’interno dello IOR, l’Istituto per le Opere Religiose che tutti chiamano banca del Vaticano, anche se in realtà si comporta come una fiduciaria che scherma i suoi clienti, con le 49 raccomandazione elaborate dal GAFI, il Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale costituito a Parigi dal G7 per lottare contro il riciclaggio e il terrorismo.
IL MONEYVAL è il fratello minore del GAFI che si occupa di dare le pagelle agli Stati del Consiglio d’Europa o anche esterni (come Israele) che però chiedono di essere valutati da Moneyval per poi essere ammessi alle procedure semplificate al fine di snellire le operazioni bancarie dei loro istituti. Per questa ragione, nell’aprile del 2011 il Vaticano, che è un osservatore del Consiglio d’Europa anche se non ne fa parte, ha chiesto di essere valutato. L’obiettivo era quello di incassare i meriti della legge anti-riciclaggio voluta da Benedetto XVI in persona approvata nel dicembre del 2010 ed entrata in vigore proprio nell’aprile 2011. La valutazione era partita sotto i migliori auspici anche perché quella normativa istituiva un’autorità anti-riciclaggio interna al Vaticano, l’AIF, che avrebbe dialogato con l’UIF e le altre omologhe autorità anti-riciclaggio degli Stati membri e che avrebbe potuto raccogliere informazioni grazie ai suoi autonomi poteri di ispezione sullo IOR. Peccato che con una legge successiva del gennaio 2012, il Vaticano ha fatto una brusca marcia indietro. Così l’Aif, presieduta dal cardinale Attilio Nicora, ha perso i suoi poteri ispettivi a beneficio della Segreteria di Stato, diretta dal cardinale Tarcisio Bertone. I poteri congelati, secondo la nuova legge del 25 gennaio scorso, sarebbero stati riattribuiti dalla Commissione Pontificia con un regolamento che però non è mai stato emanato. Inoltre, con un’interpretazione caldeggiata dall’avvocato Michele Briamonte dello studio Grande Stevens e dal presidente del Tribunale del Vaticano, Giuseppe della Torre del Tempio di Sanguinetto, è stato stabilito che lo IOR non fornirà alcuna indicazione sui movimenti dei conti dei suoi clienti antecedenti all’aprile 2011. Una retromarcia che avrà fatto piacere agli illustri correntisti che hanno potuto così chiudere i conti prima della data fatidica dell’aprile 2011 (come ha raccontato anche Ettore Gotti Tedeschi ai magistrati) e che così hanno ottenuto per sempre il segreto sui loro affari, ma che però è costata molto cara al Vaticano. Almeno 4 delle 8 bocciature Moneyval potrebbero essere state influenzate proprio dalla nuova legislazione meno rigida. In particolare, il Vaticano è stato bocciato in cooperazione internazionale e non è un mistero che il flusso di informazioni tra le autorità finanziarie anti-riciclaggio del Vaticano e italiane (AIF e UIF) si è fermato; anche la bocciatura sulla supervisione dell’AIF sullo IOR è stata influenzata dalla cancellazione dei poteri ispettivi autonomi che ha di fatto impedito all’AIF di rispondere in modo esaustivo sui movimenti dei conti che interessavano alla Procura di Roma; Anche la bocciatura in “adeguata verifica” cioè le informazioni che devono essere richieste dagli intermediari finanziari per identificare i propri clienti e l’origine dei loro fondi potrebbe essere figlia delle modifiche normative, come anche la bocciatura sulla segnalazione delle operazioni sospette. Ora il Vaticano spera nella riunione plenaria di Strasburgo per convincere gli ispettori a modificare almeno qualcuna delle 8 bocciature.

il Fatto 17.6.12
Vatileaks: a rapporto dal Papa la commissione d’indagine


Benedetto XVI segue da vicino l’evoluzione delle indagini sulle fughe di documenti segreti e la loro pubblicazione sui media. Ieri pomeriggio, infatti, il Papa ha chiamato a rapporto i tre cardinali della Commissione da lui incaricata di “fare piena luce” sul caso Vatileaks, che hanno finora proceduto, con tanto di mandato pontificio, a un calendario di loro audizioni e accertamenti parallelamente all’indagine dei magistrati e della Gendarmeria. Il Pontefice ha ricevuto in Terza Loggia i tre cardinali, lo spagnolo Julian Herranz, giurista dell’Opus Dei, ex capo dicastero per i Testi legislativi, che presiede la Commissione, lo slovacco Jozef Tomko, ex prefetto di Propaganda Fide, e l'italiano Salvatore De Giorgi, ex arcivescovo di Palermo, per farsi relazionare direttamente sulle informazioni raccolte finora. E anche il fatto che la sala stampa vaticana abbia annunciato pubblicamente l’incontro testimonia che non si tratta certo di un passaggio di routine (Herranz riservatamente ha già visto più volte il Pontefice) e che l’attenzione sulla fuga e la pubblicazione delle carte segrete non si esaurisce con l'indagine penale e con l’arresto del maggiordomo.

Corriere 17.6.12
Maggiordomo e corvi a rischio scomunica per le carte sottratte
Interrogatorio per scoprire i complici
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Chi ha trafficato con i documenti del Papa rischia fino alla scomunica. Non è affatto detto che la vicenda dei «corvi» si concluda con l'inchiesta penale condotta dai magistrati vaticani. In settimana Paolo Gabriele — il maggiordomo che aveva in casa documenti rubati allo studio privato del Papa — sarà di nuovo interrogato, per gli inquirenti la fonte è «una» e negli ultimi dieci giorni hanno verificato e approfondito le sue dichiarazioni nei primi due interrogatori, l'attenzione si concentra su eventuali appoggi interni e contatti esterni. Ma oltre all'aspetto strettamente «penale-civile» che riguarda lo Stato della Città del Vaticano — il furto al Papa, la violazione della corrispondenza di un capo di Stato e così via — per la Chiesa c'è anche quello «penale-canonico». Le due cose non si sovrappongono e hanno tempi diversi ma il processo canonico, chiariscono Oltretevere, potrebbe seguire a quello civile.
La materia, in questo caso, è tuttora disciplinata da una «istruzione» approvata da Paolo VI il 4 febbraio 1974 e firmata dal suo Segretario di Stato, il cardinale Jean Villot. Si intitola Secreta continere, dalle prime parole del testo sul rispetto del «segreto pontificio». L'articolo III, paragrafo 2, prevede che «colui che è accusato di violazione del segreto sarà giudicato da una commissione speciale» costituita «dal cardinale preposto al dicastero competente», o «dal presidente dell'ufficio». Ma soprattutto spiega che «la commissione infliggerà delle pene proporzionate alla gravità del delitto e al danno causato». Il testo non indica alcun limite di pena e questo significa che potrebbe essere applicata come misura estrema anche quella più grave: la scomunica, in questo caso ferendae sententiae, cioè non automatica (latae sententiae) ma inflitta con un provvedimento.
Dal punto di vista canonico il caso è arduo, anche perché non se ne ricordano di simili. Il segreto pontificio tutelato dalla minaccia di scomunica (automatica) è quello del conclave, la scomunica è prevista anche per chi «usa violenza fisica» alla persona del Papa. Nel caso di Vatileaks si tratta tuttavia di un «segreto pontificio» violato in senso strettissimo, visto che sono documenti rubati al Pontefice. La situazione è così grave, del resto, che Benedetto XVI ha nominato fin da aprile, per fare «piena luce» sulla rete dei corvi al di là dell'indagine dei magistrati, una commissione di tre porporati che è presieduta dal cardinale Julián Herranz, è la sola ad avere avuto l'autorità di sentire anche cardinali e risponde direttamente al Pontefice: proprio ieri pomeriggio il Papa li ha ricevuti in udienza, per la prima volta in forma ufficiale, segno che il quadro della loro inchiesta è già abbastanza definito.
Le persone tenute al segreto, oltre a «cardinali, vescovi, prelati superiori, officiali maggiori e minori, consultori, esperti, personale di rango minore» e tutti quelli a cui è stato imposto, sono pure coloro che «in modo colpevole avranno avuto conoscenza di documenti e affari coperti dal segreto pontificio» e anche quelli che, «pur avendo avuto tale informazione senza colpa da parte loro, sanno con certezza che essi sono ancora coperti dal segreto pontificio», si legge nell'articolo II dell'«istruzione».
Almeno sulla carta, come si vede, lo spettro è ampio e potrebbe riguardare anche chi ha ricevuto i documenti. Come del resto è ampia, pure senza arrivare alla scomunica, la casistica delle pene. Ecclesiastici o laici possono subire anche la «privazione» o la «sospensione» dal proprio «ufficio», spiegano Oltretevere. Nel caso di chi «presta servizio» nella Curia romana, del resto, l'«istruzione» rimanda al regolamento generale della Curia del 30 aprile 1999: se la violazione del «segreto d'ufficio» comporta la «sospensione», all'articolo 76 si prevede il «licenziamento» per chi, tra l'altro, viola il «segreto pontificio». E basterebbe la solennità del giuramento in latino richiesto a «coloro che sono ammessi al segreto pontificio», come si legge in Secreta continere: «Sono cosciente che il trasgressore di tale segreto commette un peccato grave. Che mi aiuti Dio e mi aiutino questi suoi santi Vangeli che tocco con la mia mano...».
Sacerdoti o laici, non fa differenza. Se invece risultasse coinvolto qualche cardinale — si è parlato di due, ma la Santa Sede ha smentito — ne risponderebbe «direttamente al Papa». Nella storia, peraltro, ci sono stati porporati allontanati da proprio ruolo e, come caso limite, la vicenda del cardinale Louis Billot, che sosteneva l'Action française condannata dalla Santa Sede: fu richiamato da Pio XI e il 13 settembre 1927 uscì dallo studio del Papa senza zucchetto e anello cardinalizio.

Repubblica 17.6.12
Città martire sotto assedio. Le Nazioni Unite: “Troppi rischi”
Migliaia in trappola a Homs Siria, via gli osservatori Onu
di Alix Van Buren


L’ANNUNCIO del generale Robert Mood, capo della missione di pace Onu in Siria, che sospende le pattuglie degli osservatori perché «il rischio è troppo elevato », si accavalla al monito di monsignor Mario Zenari, il nunzio apostolico a Damasco: «In Siria è iniziata una discesa agli inferi». L’arcivescovo vuol dire che la riesplosione della violenza in questi mesi travolge tutto e tutti, uomini, donne, anziani, bambini, case e città, senza più distinzione e con strumentalizzazioni da entrambe
le parti. Di più: attizza l’odio tra fazioni politiche e tra minoranze religiose col pericolo che le ferite non si rimarginino per decenni.
Mood, il generale, non si rassegna: «Credo ancora nell’obiettivo della missione», dice e spiega che l’interruzione delle verifiche è solo temporanea, dovuta all’escalation della violenza negli ultimi 10 giorni.
Più o meno lo stesso ripete il nunzio Zenari: «Ho ancora fiducia in una pace futura». E là dove le potenze mondiali e i governi locali si rivelano o inetti o direttamente coinvolti, sono i cittadini, le prime vittime, ad afferrare le redini della propria sorte. A Homs, città martire, musulmani sunniti, alawiti e cristiani istituiscono un’assemblea per la riconciliazione, impegnati a ritrovare morti e rapiti, a convincere le fazioni ad abbandonare le armi. Questo, però, non ferma gli scontri fra l’esercito regolare e la brigata salafita Farouk dedita all’instaurazione di un emirato a Homs: 800 civili, sia cristiani sia sunniti, intrappolati a Bustan Diwan e Hamidiye, i quartieri più antichi dove sono asserragliati gruppi di combattenti, implorano una tregua per consentire i soccorsi e l’evacuazione dei civili rimasti: quasi tutti i cristiani (138 mila) sono già fuggiti. “Lasciateci andare, in nome di Dio!”, è l’appello riportato dall’agenzia vaticana Fides, secondo la quale i ribelli avrebbero respinto la supplica, nel timore di un’offensiva finale dell’esercito se quei quartieri

il Fatto 17.6.12
Ma chi sono i poteri forti?
di Furio Colombo

I poteri forti chi sono? Avrete notato che la domanda è formulata in modo strano. Avrei dovuto dire “che cosa sono”. Ma la prima riflessione mi porta a dire che non possono essere altro che persone, sia pure inserite (agenti o agite) in organizzazioni abbastanza grandi da contare e pesare. Mi sembra che il solo modo possibile per cercare e offrire una definizione sia seguire le persone, certe persone. Ci deve pur essere al mondo una scala di comando. Evidentemente quella di cui stiamo parlando si situa al di fuori della democrazia. Se fosse all'interno, in questo Paese o in un altro qualcuno l’avrebbe votato, dunque conosciuto e riconosciuto. Oltre che essere fuori dalla democrazia, un potere forte deve essere anche sopra la democrazia. Altrimenti non si capirebbe la condizione di ansia e timore che sembra coinvolgere tutti i governi. Praticamente ognuno di essi comunica la paura di una nuova incursione che potrebbe sconvolgere l'ordine trovato o l'ordine ristabilito dopo una fase di emergenza. Di questa emergenza si vorrebbe sempre dire (o meglio, capisci che i capi di Stato e di governo vorrebbero dire) che il peggio è alle spalle. Ma, dopo alcune frustrate prove di ottimismo, non ci provano più. Trovano più serio mettere paura perché è un atteggiamento più credibile. Nel senso che se le cose vanno peggio, l'avevi detto.
SE VANNO meglio, il merito è più grande. Resta il rischio di menar vanto, come è accaduto in Italia quando è sceso per un istante il famoso e temuto “spread” che divide il valore dei debiti italiani da quelli tedeschi. Per capire quanto sia seria la sindrome o malattia o “pericolo di contagio” basterà ricordare due fatti. Il primo è l'invocazione che il presidente degli Stati Uniti rivolge a Italia, Francia e Germania affichè non lascino cadere la Grecia. Segue l'elenco degli altri Paesi che si sfarinerebbero, dopo la Grecia, fino all'Italia. Segue la osservazione, scaramantica ma anche realistica, che a questo punto cadrebbero tutti. E infatti ecco la ragione della invocazione del presidente Usa. Sente, nel caso dei crolli a catena, il rumore di rovina che si avvicina al suo Paese, il famoso Paese-padrone celebre, un tempo, per la definizione di “imperialista”. Adesso se dite che la potenza America controlla i poteri forti, dovete prima spiegare come mai non può fare il miracolo per se stessa. Ma a questo punto dobbiamo confrontarci con la parola “contagio” di uso ormai quotidiano. Vuol dire che il mio crollo può provocare il tuo e così via, esattamente come una epidemia? Epidemia di che cosa? Forse si può definire così: anemia finanziaria, un violento e improvviso abbassamento di risorse per far fronte ai problemi, sia i più vecchi (il welfare) sia i più nuovi, ovvero la connessione mondiale della immensa tubatura che congiunge e raggiunge ogni angolo del mondo, portando e togliendo masse di ricchezza, senza regole o verifiche che nessuno ha mai chiesto o dato o voluto o consentito o capito (tranne i folli giovani detti un tempo “no global”, oggi “occupy”). Ricordate il film “Matrix”? I gestori (meglio chiamarli così che “poteri”) riuscivano a mostrare ai cittadini una realtà grandiosa tutta luci e benessere. Un gruppo di rivoltosi, dotati di tecnologia ancora più avanzata, erano in grado di mostrare il vero stato delle cose: desolazione e distruzione. Una sorta di profezia? Così anche “Cosmopolis” di Cronenberg, però più recente e preciso. Lungo il percorso di immense ricchezze che si accumulano senza esito e senza scopo, salvo che per un malato amore di gioco, e che si sciolgono senza depositare alcun risultato, sono in fila, come bare, (trovo la definizione in una nota critica di Davide Nota) le limousine bianche di un grande funerale che neppure i disordini e le rivolte possono fermare. Ma i poteri forti? Chi non ne può più va a stanare, nei cosidetti “palazzi del potere”, tutti coloro che finora, con più o meno lustro, hanno cercato di vivere vicino al potere. Spingono in strada le “caste” di un numero non ancora definito di livelli, amministrazioni, funzioni, assemblee e compensi. Sono tutti percorsi ciechi. C'è molto spreco ma non c’è potere, niente che possa far luce su ciò che sta accadendo o sul modo di far finire l'emergenza che sta portando danni a tutti e timore di “contagio” anche ai grandi governi. Allora vengono in mente alcune celebri organizzazioni mondiali che includono, a differenza delle “caste”, nomi illustri e potentissimi, capaci di far girare il mondo nel verso voluto. Si ripetono i nomi di Buildenberg e della Trilateral Commission. Ma anche senza avere letto i libri di Umberto Eco sui complotti (l'ultimo, “Il cimitero di Praga”, dimostra, usando, nel racconto, esclusivamente documenti veri, che non sai mai se e quando raggiungi il fondo di qualcosa che è veramente la causa di ciò che è accaduto) ti viene in mente che persino la P2, nel suo piccolo, aveva liste segrete, scoperte solo quando Gelli ha voluto che si scoprissero. Invece Buildenberg e Trilateral hanno sempre pubblicato l'elenco (completo di nomi e funzioni), dei partecipanti. I potentissimi comprendevano anche il consorte della Regina d'Olanda, a un certo punto indagato per corruzione. E la Trilateral ha avuto, fra i partecipanti, l'intero gruppo direttivo di Lehman Brothers, prima del crollo. Si tratta certo di “poteri più forti” di altri, però non al punto da scampare indagini giudiziarie e il fallimento, pubblico e non proprio onorevole, delle imprese partecipanti. Ma forse conta di più la domanda: quale potere in grado di disporre dei destini del mondo pubblicherebbe i nomi dei soci e consoci del progetto di dominio? È mai accaduto?
CI SONO dunque due percorsi, che restano aperti alla fine di questa riflessione. Il primo ci dice di una forza molto grande, molto segreta, molto profonda, molto lontana da verifiche indiscrete, capace di restare segreta in questo periodo della storia. La seconda è che chi era alla guida dell’autobus globale, illuso o esaltato dalla prima sperimentazione nella Storia del grande evento, ha perso il controllo, provocando incidenti a catena in cui sono coinvolti tutti, poteri forti, mezzi poteri, poteri deboli. Non so quale delle due risposte sia più drammatica. La prima: i “poteri forti” ci sono ma non li troveremo, non adesso. Non ne abbiamo alcuna idea o alcun contatto. Come Dio, non si mostreranno. La seconda: i poteri forti son un incidente di laboratorio, un virus fuggito dalle banche. E si sta ancora, affannosamente, cercando l’antidoto. Intanto circolano imbroglioni e Dulcamara. E anche dottori in buona fede, però a mani vuote.

Corriere 17.6.12
Grecia. Noi e loro
Dall'ideale democratico alla tirannide dei molti Il moderno lessico politico forgiato sull'Acropoli
di Luciano Canfora


Un bell'insegnamento del pensiero politico ateniese è che non si deve rischiare di cadere in schiavitù per debiti. Fu Solone (arconte nel 594/3 a. C.) a far sì che si affermasse questo principio. Egli cancellò i debiti per i quali il pegno era il terreno del debitore o addirittura la sua libertà personale. Il debito non può essere un'ipoteca su esseri umani e perciò, in nome della libertà, va cancellato. Questo principio coraggioso imbarazzerebbe molti «finanzieri» del tempo nostro nonché i responsabili delle strutture bancarie, che sull'altrui indebitarsi prosperano. Del resto una forte corrente di pensiero politico moderno, nella seconda metà del secolo XX, su impulso di una figura notevole come François Mitterrand, pose il problema della cancellazione del debito di alcuni Paesi del Terzo e Quarto Mondo. Fu una scelta schiettamente «soloniana» che, nel tempo, ha dato frutti positivi.
Solone seppe anche andare ad imparare dagli altri, da popoli di antichissima civiltà come gli Egizi. Una scelta — questa — che si pone agli antipodi rispetto all'autosufficienza miope. Solone fu anche allarmato preconizzatore dei rischi del potere personale, della «tirannide». «Tirannide» — termine che vive in tutte le civiltà politiche — è parola greca dal significato, in origine, non negativo. Indicò dapprima un ruolo di mediatore piuttosto che di despota. Caratteristica del «tiranno» era, in ogni caso, l'assunzione di un ampio potere, fondato su di un iniziale consenso ma ben presto protratto senza limiti di tempo e sorretto con strumenti quali la guardia del corpo armata e la violenza contro gli oppositori non remissivi. Solone previde questo sviluppo della «tirannide» che un abile demagogo, Pisistrato, era riuscito ad assumere in Atene (561-527 a. C. con un intervallo ed un plateale «rientro»). Inizialmente era stato lo stesso demo di Atene (il popolo sovrano) ad attribuirgli una guardia del corpo armata come strumento e garanzia di potere. Per noi «tirannide» è nozione totalmente priva di sfumature positive. Ed anzi, come afferma il nipote di Pericle, Alcibiade, parlando, da fuggiasco, al cospetto degli Spartani (415 a.C.), «la democrazia si è costituita e ha preso forma e nome, in Atene, come antitesi della tirannide» (Tucidide, VI, 89, 4).
Nel lessico ateniese «popolo» (demo) e «democrazia» sono sinonimi: anzi «popolo» è parola che indica al tempo stesso sia il soggetto sociale della democrazia (il popolo) che il regime politico fondato sul potere popolare (democrazia). Spesso si dimentica questa peculiarità lessicale, che è anche sostanza. La legittimità della democrazia ad Atene è fuori discussione nel momento in cui essa è la forma politica che si identifica con la comunità stessa.
Che la tirannide nascesse da un significativo consenso popolare era però fenomeno imbarazzante. I critici della democrazia ponevano perciò l'accento proprio sull'elemento tirannico insito, a loro giudizio, nella democrazia. Elemento tirannico che si presenta sotto due aspetti: la incontrollata imposizione di una volontà popolare (la «dittatura di maggioranza» che si pone al di sopra della legge) e la nascita dall'interno stesso del meccanismo assembleare-democratico di figure demagogiche particolarmente influenti e carismatiche, che realizzano di fatto una forma di «tirannide», o meglio di potere che gli avversari ritengono di poter definire tirannide.
Naturalmente tutto ciò appare a noi oggi come esperienza tutt'altro che remota, anzi senz'altro vivente e attuale. Oltre tutto le parole con cui tutto questo genere di fenomeni si esprime sono le medesime che adoperiamo noi oggi, e nelle più diverse lingue (democrazia in particolare è diventata sic et simpliciter anche parola turca). Ma una avvertenza è necessaria: la diretta gestione del potere da parte di una «assemblea popolare» (assemblea dei detentori della piena cittadinanza) è tutt'altra cosa rispetto alla procedura elettiva che produce una rappresentanza (cui, quando esisteva la piena sovranità nazionale, gli elettori delegavano il potere esecutivo). Resta il fatto che anche la viva percezione dei modi, talvolta sottili e graduali, onde un regime politico trapassa in un altro era ben viva nella teoria politica greca. Ciò si coglie non solo nella creazione di «doppi» negativi di forme politiche positive (monarchia/tirannide; aristocrazia/oligarchia; democrazia/oclocrazia) ma soprattutto nella descrizione del «ciclo», che è implicito già nel dialogo costituzionale erodoteo e culmina nella formulazione esplicita e quasi pedantesca di Polibio (nel VI libro delle Storie). Una formulazione talmente chiara e completa da apparire illuminante al Machiavelli che la immise di peso nel primo libro dei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio. Ma proprio questo arrovellarsi intorno al modo in cui la «volontà popolare» può lasciarsi deviare fino ad autodistruggersi è problematica nostra e sommamente moderna. Anche noi oggi sappiamo bene che il trapasso da un modello politico in un altro di segno ben diverso può avvenire per progressivi slittamenti, non necessariamente per bruschi salti.
Il pensiero politico greco si è anche posto il problema del valore di una nozione a prima vista solo numerica quale «maggioranza». I critici (ed erano numerosi) della procedura decisionale a maggioranza (cioè democratica) ponevano, in toni talora accesi talora pacati, la questione della competenza come pietra miliare da opporre alla mera legge del numero. Né si può dire che siano stati escogitati argomenti particolarmente convincenti in antitesi a tale obiezione. (Semmai si può osservare che Aristotele, nella Politica, approda alla svalutazione della «legge del numero» per altra via, quando osserva che democrazia non è il governo della maggioranza ma il governo dei poveri, i quali peraltro — soggiunge — spesso sono anche maggioranza). L'istanza ricorrente del necessario predominio della competenza era tipica della critica oligarchica alla democrazia (Platone, Crizia etc.). Di fatto però competenza era un modo eufemistico per dire ricchezza. In tempi a noi più vicini quella istanza divenne l'architrave della critica di parte liberale alla democrazia (per tutto il secolo XIX questa fu la contrapposizione dominante, specie in Europa). In tempi a noi ancor più vicini la prevalenza del principio democratico su quello liberale, affermatasi ad es. nelle codificazioni «costituzionali» del secondo dopoguerra, è venuta declinando, e ha ceduto il passo al ritorno in grande stile del predominio dei «competenti»: o di coloro che, intrinseci al mondo arduo della finanza, si pretendono tali.

Corriere 17.6.12
Oreste, Ulisse, Antigone: quei modelli che orientano ancora il nostro presente
di Eva Cantarella


Parlare dell'eredità che i greci ci hanno lasciato è il minimo che si possa fare, in giorni come questi. Quali che siano le condizioni, gli errori e le responsabilità di ciascuno di noi, sarebbe non solo ingiusto ma profondamente sbagliato dimenticare che senza quello che i greci ci hanno insegnato noi non saremmo quello che siamo. Il che non significa, sia ben chiaro, tornare a mitizzarli, come per troppo tempo si è fatto parlando dei loro presunti valori universali e della altrettanto presunta eternità di questi. Quel che dobbiamo fare, insomma, non è tornare a parlare della Grecia a proposito della quale, per intendersi, i libri di scuola parlano ancora, talvolta, di «miracolo greco». Di quella Grecia mitizzata la storiografia da alcuni decenni ha dimostrato l'irrealtà. È a un'altra Grecia che ci lega il nostro debito, quella vera, finalmente sottratta al mito, lontana e diversa da noi; ma nella quale affondano, tuttavia, alcune tra le più importanti conquiste del nostro pensiero, e le origini delle nostre istituzioni politiche e giuridiche. Come stanno a dimostrarci — tra l'altro — i loro miti. A cominciare da quello messo in scena da Eschilo, nel 458 a. C.: il mito di Oreste.
Agamennone, racconta Eschilo nell'Orestea, torna vittorioso dalla guerra di Troia. Sua moglie Clitennestra, diventata nel frattempo l'amante del cognato Egisto, con la complicità di questo lo uccide. A indurla a farlo, oltre alla smania di potere, sta il fatto che Agamennone ha ucciso la figlia Ifigenia, sacrificandola agli dei per ottenere un vento favorevole alla navigazione verso Troia, e tornando dalla guerra ha portato con sé una concubina, che Clitennestra uccide insieme a lui. Ma vendetta chiama vendetta, e Oreste, figlio di Clitennestra e di Agamennone, vendica il padre uccidendo la madre. Ed ecco le Erinni, le antiche dee della vendetta, esigere altro sangue in cambio del sangue di Clitennestra. Gli implacabili mostri, che stillano sangue dagli occhi, perseguitano Oreste, ovunque egli vada. Sino al momento in cui interviene Atena: a risolvere la questione, dice la dea, istituirò un tribunale, nel quale siederanno come giudici i migliori cittadini, estranei ai fatti e imparziali, che giudicheranno dopo aver accertato i fatti, valutando colpe e responsabilità. Il mondo della vendetta è finito. La narrazione mitica celebra l'avvenimento che ha segnato una tappa fondamentale della storia non solo di Atene, ma della nostra civiltà giuridica: non esiste responsabilità senza colpa regolarmente accertata da un organo giudicante.
Ma dal mito non vengono solo insegnamenti fondamentali come questo. In esso troviamo anche degli archetipi che ci accompagnano ancora, nei quali riconosciamo le motivazioni dei nostri comportamenti e le caratteristiche della nostra personalità.
Prendiamo ad esempio il mito di Ulisse. Itaca, come ben noto, è stata spesso intesa come una metafora: «Se cerchi la tua strada verso Itaca — scrive Kavafis, in una bellissima poesia — spera in un viaggio lungo,/avventuroso e pieno di scoperte./ I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli/non temere l'ira di Poseidone./…Non hai bisogno di affrettare il corso/fa che il tuo viaggio duri anni, bellissimi,/e che tu arrivi all'isola ormai vecchio,/ricco di insegnamenti appresi in via…». Non è volontà di un dio (come fu, per Ulisse, l'ira di Poseidone), a determinare il tuo viaggio: sei tu l'artefice della tua sorte — dice Kavafis — sei tu il padrone della tua vita. Quanti sono, oggi, gli Ulisse che affrontano pericoli apparentemente insuperabili, come fece Ulisse affrontando i Lestrigoni e i Ciclopi? Quanti sono coloro che si avventurano verso incontri con un inconoscibile che invece si può conoscere? Come Ulisse entrò nell'Ade, il mondo dei morti, noi, oggi, ci confrontiamo con le conquiste e i misteri delle scienze e della tecnologia. Ulisse è tra noi, Ulisse siamo noi, possiamo incontrarlo. Esattamente come incontriamo Antigone o Creonte, i protagonisti della tragedia più bella di Sofocle e, forse, di tutte le tragedie greche.
Nata dal matrimonio incestuoso tra Edipo e sua madre Giocasta, dopo la tragica fine dei genitori Antigone vive a Tebe, governata dallo zio Creonte, fratello di sua madre, ed è fidanzata con il figlio di questi, Emone. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, in lotta per il potere sulla città, si sono affrontati in battaglia e sono morti: Eteocle difendendo una delle sette porte della città, Polinice dandole l'assalto. E Creonte decreta: chi oserà dar sepoltura al suo cadavere sarà lapidato. Ma Antigone viola il divieto, per lei il dovere di dare sepoltura al fratello è più forte di ogni legge umana. E quando viene scoperta difende le sue ragioni di fronte a Creonte, che sostiene le proprie. Creonte afferma il dovere, anche per lui, di rispettare le «leggi scritte», che gli impongono di metterla a morte. Ma a queste leggi, dettate dal potere politico, Antigone oppone quelle «non scritte», vale a dire le regole etiche da lei sentite come imprescindibili.
Sono due sistemi di regole diverse: qui sta il dilemma tragico. Nessuno dei due contendenti ha ragione, nessuno dei due ha torto. O meglio: ambedue hanno ragione, ambedue hanno torto. Creonte è un politico con un forte senso dello Stato, Antigone non è non un'anarchica, ma rifiuta di rispettare una regola a suo giudizio senza fondamento etico. La tragedia si conclude, inevitabilmente, con la fine di ambedue i contendenti. Antigone, condannata a morire, si impicca. Il suo fidanzato, Emone, si uccide sul cadavere di lei. Alla notizia della morte del figlio si uccide anche Euridice, la moglie di Creonte: un uomo finito, ormai, moralmente annientato. Una storia, greca, anch'essa presente fra noi: la morte fisica di Antigone e quella morale di Creonte sono la fine inevitabile del conflitto che si ripropone quando un individuo, un gruppo, un popolo non riconoscono il fondamento etico di una regola di diritto, anche in un sistema legittimo e «giusto». Anche per questo i greci sono presenti tra noi, ecco perché senza di loro saremmo diversi.

Corriere 17.6.12
Da Byron a Foscolo, quando l'Europa romantica lottava (e moriva) per l'indipendenza di Atene
di Antonio Ferrari


Il più grande e celebrato è sempre l'inglese Lord Byron: del suo nome, adorato dai greci come un eroe della mitologia, c'è traccia autografa persino sulle pietre del tempio di Poseidone, nella magica cornice di capo Sounion, a meno di un'ora d'auto dal centro di Atene. Il più struggente è Eugène Delacroix, il pittore che fu il leader della scuola romantica francese: i suoi dipinti più ammirati e amati in assoluto sono «La Grecia sulle rovine di Messolonghi» (1826) e il «Massacro di Chios» (1824).
Ma non ci sono solo Lord Byron e Delacroix a contendersi il cuore di un intero Paese negli anni frenetici ed esaltanti della conquista della libertà. Ah, quanto genuino trasporto europeo e quanta passione romantica, all'inizio dell'800, per la Grecia, considerata non soltanto un Paese con una storia grandiosa, ma un prezioso e irrinunciabile valore collettivo! Soprattutto vi erano calore e partecipazione alla sua lotta per conquistare finalmente l'indipendenza, liberandosi dall'occupante turco che aveva obbligato la culla del pensiero classico, della filosofia, della scienza a sopportare i ceppi dell'oppressione ottomana. Il movimento filellenico, guida di una rivolta ideale, fu infatti l'elisir politico che attraversò quasi l'intera Europa, esaltata dalla rivoluzione napoleonica e assetata di grandi ideali e di nuovi equilibri.
È interessante e curioso, per esempio, che in quegli anni di travolgenti e contagiose passioni, si sia stretto un roccioso legame di fratellanza (che poi resisterà a prove assai più ardue nel secolo successivo, con la guerra insensata e fatale di Mussolini) tra la Grecia e l'Italia, unite entrambe da pulsioni indipendentiste e dal desiderio di creare una sorta di alleanza mediterranea. Quell'alleanza di cui sentiamo la lancinante mancanza oggi, con il predominio degli interessi del Nord Europa, convinto d'essere il baricentro, quindi l'esclusivo cuore pulsante dell'Unione.
Un uomo, un piemontese, un nobile italiano, diventato una bandiera di quel momento storico, il conte Santorre De' Rossi di Santarosa, cadde in Grecia combattendo, armi in pugno, per la libertà del Paese che era andato generosamente a soccorrere, e per cementare i primi vagiti del nostro Risorgimento. Lo ammazzarono sull'isola di Sfacteria, non lontano da Navarrino. Forse — così almeno raccontano i reporter dell'epoca — i vincitori ottomani lo avrebbero risparmiato se ne avessero avuto dei vantaggi. Ma il conte non era benestante. L'unica ricchezza erano il suo cuore e il suo coraggio di combattente e di resistente.
Santarosa, troppo spesso dimenticato, rappresenta in sostanza la presenza italiana all'interno di quella comunità liberale che riconosceva alla Grecia un ruolo essenziale per la cultura europea. Nasce così il filoellenismo, che si nutre della straordinaria influenza di un mondo intellettuale e borghese che non vede l'ora di mobilitarsi per sostenere una causa nobile. All'inizio dell'800, e precisamente nel 1819, uno dei massimi poeti italiani, Ugo Foscolo, diventò autorevole portavoce delle aspirazioni greche. La madre di Foscolo era greca, la terra e il mare che amava erano quelli della sua piccola Zante. Tuttavia, al di là dell'appartenenza familiare, vi era nel poeta, già celeberrimo nei salotti di tutta Europa, il desiderio di lasciare il suo sigillo nel corpo fragile di una causa giusta. A Milano, Venezia, Torino, Genova, Parigi e Londra i suoi straordinari Sepolcri, pubblicati in una prima edizione di 102 copie dall'editore-stampatore Nicolò Bettoni di Brescia, gli avevano assicurato una fama che diventerà quasi immortale. La produzione del poeta, assai contenuta rispetto agli altri grandi della letteratura italiana, era la preziosa dote della grandezza dell'autore. Estroverso, passionale, travolgente, infantile, a volte rancoroso, soprattutto nei confronti dell'uomo che in tante occasioni l'aveva trattato con affetto e comprensione quasi filiale: Vincenzo Monti.
Foscolo, da un episodio apparentemente marginale, cioè un cinico scambio, come spesso è accaduto nella storia, si schiera senza se e senza ma a fianco della Grecia. L'episodio è la cessione ai turchi, da parte degli inglesi, del villaggio di Parga, per ottenere come contropartita il protettorato delle isole dello Ionio. Foscolo, che adorava la sua terra materna, scrisse allora un duro ma colto e appassionato articolo sulla Edinburgh Review, confutando, punto per punto, la decisione di Londra, e trasformando Parga, villaggio frontaliero di dubbia fama (secondo i britannici) in una avanzata diga occidentale contro lo strapotere imperiale ottomano. In realtà, più che il contenuto, è rilevante un dettaglio: che in quel clima intellettuale davvero cosmopolita, un italiano si occupasse della causa greca scrivendo con competenza e prestigio su una rivista inglese.
In una prestigiosa e recente pubblicazione sul blog «La Storia contemporanea», si attinge ad una fonte assai importante. Si tratta del Risorgimento in esilio, a cura del professor Maurizio Isabella, tra i maggiori storici internazionali. Nel testo si parla con documentata profondità del dissidio dell'epoca fra filelleni italiani e inglesi, riguardo — ci risiamo — «alla gestione del denaro raccolto dal London Greek Committee a favore dei greci». Infatti, da un lato vi sono i leader inglesi, dall'altro gli italiani: «I primi — scrive Storia contemporanea — puntano a far sì che il denaro venga gestito direttamente dal Comitato, non fidandosi dell'uso che ne avrebbero fatto i greci. I quali invece, secondo gli italiani, dovevano gestire direttamente i fondi». In sostanza, «dietro lo scontro vi è l'obiettivo degli italiani di veder nascere un governo greco forte e indipendente; per gli inglesi, invece, la questione dell'indipendenza era assolutamente secondaria. Lo scopo era che in Grecia si affermassero i diritti civili».
Eppure, nonostante queste divergenze, è stato proprio un inglese a legare la sua vita e il suo destino all'indipendenza greca. Proprio quel Lord Byron, che fu celebrato in vita per i suoi eccessi (enormi debiti, storie d'amore travolgenti, scandali) ma anche per la sua incontenibile generosità. Morì durante la battaglia di Missolungi. Non colpito dal fuoco nemico ma da una malattia. Un'infezione fatale. Se ne andò giovanissimo, a 36 anni, come tanti eroi. Il suo nome è stato scolpito nel marmo, assieme a tutti coloro che contribuirono alla guerra per l'Indipendenza greca. È la lista di filelleni che il Museo storico di Atene mostra con fierezza ai visitatori. Oggi, in uno dei momenti più difficili della storia del Paese, la Grecia corre però un rischio serio, quello di dividere l'intero universo del 2012 in due squadre: filelleni e antielleni. Il significato è evidente: amici o nemici. Il sottinteso è altrettanto chiaro: chi ci critica duramente è un nemico. Come se tutte le ragioni fossero di Atene, e tutti i torti degli altri.

l’Unità 17.6.12
La polemica. Berlusconi e le ciabatte
A furia di dire che non esistono i fatti ma solo le interpretazioni ci si è arresi ai racconta frottole e agli imbonitori televisivi
Ferraris sostiene che la ciabatta è una ciabatta, così Berlusconi ha sostenuto che Ruby è egiziana
di Massimo Adinolfi


Manifesto del nuovo realismo, capitolo primo, paragrafo primo: «Dal postmoderno al populismo». Che non si dica dunque che il nuovo realismo di Maurizio Ferraris, su cui si discute accanitamente da un anno, non abbia un robusto coté politico. Difatti la tesi è: a furia di ripetere con Lyotard che i grandi racconti sono finiti, che l’oggettività è un mito, ci si è consegnati mani e piedi ai venditori di fumo.
A furia di dire che non esistono i fatti ma solo le interpretazioni, che la verità è violenta, che il sapere in realtà è un potere e che bisogna liberare il desiderio, a furia di cantilenare tutto ciò con Nietzsche o con Foucault, con Heidegger o con Deleuze, ci si è arresi ai racconta frottole, agli imbonitori televisivi: a Berlusconi, insomma. Perché è chiaro che senza i fatti, privati del potenziale critico contenuto nell’idea minimale, di buon senso, che i fatti ci sono eccome e son essi che anzitutto vanno stabiliti o ristabiliti, diviene possibile far credere qualsiasi cosa, se solo si hanno i mezzi a disposizione. Se poi a disposizione c’è il principale gruppo editoriale del Paese, se i mezzi sono soprattutto televisivi, se la storia che i fatti non ci sono si infiltra non solo nei talk show ma pure nei telegiornali, allora avete l’esempio perfetto di populismo mediatico. E di nuovo, quindi, Berlusconi.
Curioso argomento, quello con cui esordisce il nuovo realismo di Ferraris. Se i fatti ci sono, ci sono proprio perché non basterà ai filosofi antirealisti dire che non ci sono per farli scomparire: il nuovo realismo di Ferraris monta dunque una polemica inutile. E, d’altra parte, l’argomento che invita a valutare gli effetti nefasti dell’antirealismo postmoderno non è, esso stesso, un argomento realista, casomai pragmatista. Suona infatti così: siccome non ci piace Berlusconi come realizzazione del postmoderno (o addirittura del Sessantotto, che è la tesi di Mario Perniola e Valerio Magrelli, roba che uno vorrebbe ritornare ai mutandoni delle nonne, pur di non vedersi accusato di spalleggiare ideologicamente i bunga bunga del Cavaliere), siccome tutto questo non ci piace, allora lo respingiamo, lo rifiutiamo, e tanti saluti all’accertamento della realtà e allo stabilimento della verità.
Un momento, però. Per Ferraris, i fatti che sono al riparo dalle interpretazioni non sono né il populismo mediatico né gli intrattenimenti di Arcore, non il Sessantotto e neppure le interpretazioni revisioniste che se ne danno, ma i fiumi, i cacciaviti, le ciabatte. Proprio così: si tratta di quegli oggetti di taglia media che popolano il nostro mondo, di cui abbiamo quotidiana esperienza, e la cui realtà sarebbe stata messa in discussione dalla furia interpretativa dei filosofi postmoderni. Sia pure. Ma il passo dalle ciabatte alla vittoria elettorale del ’94 e alla seconda Repubblica è parecchio lungo, ed è difficile percorrerlo affilando le armi critiche solo su ciabatte e cacciaviti. Poniamo infatti per un momento che vi sia un accordo universale tra gli uomini (e soprattutto tra i filosofi), quanto al fatto che le ciabatte sono ciabatte e i cacciaviti cacciaviti: avremo fatto un passo avanti nella critica del berlusconismo? Ci saremo sbarazzati di colpo del populismo mediatico? Temo di no. Temo che mancheremo ancora di tutte le categorie sociali, storiche e politiche necessarie.
Non basta: temo che avremo compiuto nuovamente l’errore di pensare che il berlusconismo si spiega con le televisioni (quando se mai è vero il contrario) e, ironia della sorte, temo anche che avremo travisato i fatti stessi. Ricordate infatti la signorina Ruby Rubacuori, la nipote di Mubarak secondo il Parlamento italiano? Quale miglior riprova, si dirà, della tesi di Ferraris (e di Travaglio) che una volta scomparsi i fatti si può decidere a maggioranza qualunque cosa? In realtà, la vicenda dimostra esattamente il contrario: Berlusconi non si è mai difeso dicendo che siccome non esistono i fatti ma solo le interpretazioni, allora lasciatemi dire che la ragazza marocchina secondo me e secondo i miei zelanti parlamentari è egiziana. Nulla di tutto ciò: Berlusconi ha proprio sostenuto, alla lettera, che Ruby è egiziana (e nipote del Raís). Il senso di cosa mai sia reale, e di come le interpretazioni lo modifichino, non c’entra proprio nulla. Proprio come Ferraris sostiene che la ciabatta è una ciabatta, così Berlusconi ha sostenuto che Ruby è egiziana salvo che il primo dice il vero e il secondo no (a quanto risulta). Ma cosa c’entrano le interpretazioni? Berlusconi nega i fatti, non che i fatti siano fatti. Non credo si possa ricordare un solo caso in cui Berlusconi si sia accontentato di dire che dava la sua interpretazione di questo o di quello: no, lui dava numeri, macinava record, e soprattutto sosteneva che erano sempre gli altri a fraintendere e male interpretare.
Scagionato così il postmodernismo dalla colpa di averci regalato il Cavaliere per aver negato che esistano i fatti, forse potremmo tornare a ragionare di ciabatte. Le quali restano tali, assicura Ferraris, indipendentemente dai nostri sguardi e dalle nostre interpretazioni. Sia pure: concederemo anche questo. Ma come sguardi e interpretazioni si aggancino ai fatti, questo casomai è il problema della filosofia: come la realtà ci appare, e non solo che le ciabatte sono ciabatte e la realtà è reale (qualunque cosa significhi una simile tautologia). E siccome la realtà non cessa di apparirci sempre nuovamente, abbiamo davvero bisogno di un’ontologia: ma per questa incessante manifestazione del reale, non solo per le ciabatte, il cui caso possiamo forse dare per risolto.

Corriere La Lettura 17.6.12
E l'uomo incominciò a parlare
I linguisti hanno spesso rifiutato il confronto con il darwinismo ma le neuroscienze dicono che i due universi non sono separati
di Telmo Pievani


La disfida, non sempre cavalleresca, cominciò un secolo e mezzo fa. Nel 1866 la Società di linguistica di Parigi, appena fondata, vietò per statuto ai propri aderenti di alimentare discussioni circa le origini del linguaggio, in quanto infruttuose e senza possibilità alcuna di una trattazione affidabile. Nel 1872 l'interdizione fu confermata dalla Società filologica di Londra. Era stato lo stesso Alfred R. Wallace, co-scopritore della selezione naturale, ad affermare che l'evoluzione non avrebbe mai avuto alcunché da dire sulle facoltà superiori della mente umana come la coscienza e la parola, suscitando il disappunto del collega Charles Darwin. La peculiare proibizione parigina cadde nel 1876, ma allungò la sua ombra su tutto il Novecento, emarginando di fatto il tema e trasformandolo quasi in un tabù. Per una ripresa del dibattito bisogna attendere gli anni Settanta del secolo scorso, non senza affilate polemiche. Noam Chomsky sosteneva ancora nel 1988 l'impraticabilità di una visione evoluzionistica del linguaggio verbale umano, in quanto troppo complesso: un Rubicone qualitativo insuperabile tra noi e gli animali, chiamato sintassi, senza gradazioni né comparazioni possibili. Difficile però non chiedersi come possa essere emersa nella mente umana questa sublime e universale capacità innata: tutto in un colpo, come Minerva dalla testa di Giove? O come un effetto collaterale piovuto dal nulla? Altri, molto convinti delle proprie capacità esplicative come Steven Pinker, pensano invece che il linguaggio sia né più né meno che un istinto plasmato dalla selezione naturale, dunque questione chiusa: è un classico adattamento all'ambiente sviluppatosi gradualmente. Ma di storie così possiamo raccontarne a iosa. Per renderle credibili servono evidenze che almeno associno la facoltà linguistica all'apprendimento sociale e alla preparazione di manufatti. Nel frattempo, il paesaggio che circonda i contendenti è fortunatamente cambiato. Pensieri e parole non lasciano fossili, però genetica e neuroscienze stanno fornendo indizi sempre più interessanti sull'emergere del linguaggio da competenze gestuali o da vocalizzazioni, o da entrambe. La teoria dell'evoluzione si è aggiornata e non è più quell'arena gladiatoria, tutta geni e competizione, tanto amata da autori di successo come Richard Dawkins. Grazie agli sviluppi dell'etologia cognitiva e della paleoantropologia, comprendiamo meglio le parentele e le unicità che al contempo ci uniscono e ci differenziano dai nostri cugini più stretti, viventi ed estinti. Gli intrecci fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale allontanano l'idea di poter ridurre l'una all'altra. Possiamo cioè distinguere la facoltà di parola, e i correlati biologici che la sottendono, dall'origine delle lingue storiche, pur senza considerarli universi inconciliabili.
È tempo allora di incrociare i ferri, tra linguisti e non linguisti, su questioni aperte ben più interessanti rispetto al vano inseguimento del fatidico «gene del linguaggio». L'evoluzione è infatti ricerca di cause remote che, nella continuità del processo e fra mille contingenze inaspettate, hanno prodotto diversità e innovazione. Per esempio, la scoperta (italiana) del bellissimo fenomeno di risonanza cerebrale che ci permette di comprendere le azioni degli altri attraverso la nostra cognizione motoria, aiuta sicuramente a capire il linguaggio. Ma dai neuroni specchio visualizzati in un macaco bisogna passare a due persone che stanno parlando nella loro lingua, e non è facile. Le attività neurali coinvolte nel linguaggio hanno spesso una connessione con competenze senso-motorie più antiche. Questo lascia supporre che l'evoluzione abbia lavorato come un bricoleur, riutilizzando strutture già esistenti (forse legate a competenze gestuali e mimiche) e cooptandole per nuove funzioni. Quindi non solo adattamenti diretti, ma anche ingegnosi rimaneggiamenti in nuovi contesti (anche culturali). Gli alberi di parentela tra le popolazioni umane, ricostruiti attraverso le comparazioni genetiche, corrispondono abbastanza bene alle affinità tra le principali famiglie linguistiche, benché i due processi siano molto diversi. Gli idiomi non evolvono come le popolazioni biologiche, perché le innovazioni sono più rapide e i fattori socio-culturali (come una lingua di dominatori imposta con la forza) sono determinanti. Inoltre, la presunta maggiore o minore complessità di una lingua non ci dice quanto sia «primitiva». Ma allora perché i due alberi sono così simili? Difficile saperlo, dato che le testimonianze scritte non vanno più indietro di poche migliaia di anni, ma forse l'isolamento geografico è il tratto comune. Memori di mai sopite diatribe, i genetisti ora si spingono raramente a ipotizzare una monogenesi delle lingue. In un recente articolo su «Science», il biologo e statistico Quentin Atkinson ha però riacceso gli animi, mostrando che esiste una forte corrispondenza tra il calo della diversità genetica che si riscontra nelle popolazioni umane allontanandosi dall'Africa (a riprova del fatto che tutti gli esseri umani attuali discendono da un ristretto manipolo di pionieri africani, che poi, di piccolo gruppo in piccolo gruppo, si sono sparsi ovunque) e il calo della diversità dei fonemi nelle lingue parlate oggi in tutto il mondo. Anche il numero di fonemi diminuisce allontanandosi dall'Africa, come se le lingue di quei piccoli gruppi si fossero diversificate nello stesso modo. Tuttavia, i fonemi non sembrano una buona base statistica per questi calcoli e occorre verificarne altri. Per chi non voglia rassegnarsi al mistero, deve esistere un qualche momento dell'evoluzione in cui le facoltà cognitive umane hanno plasmato il linguaggio verbale. È plausibile che efficaci sistemi di comunicazione pre-linguistica fossero già a disposizione di altre specie del genere Homo. Il contesto ideale per coltivarli non furono le battute di caccia, ma le interazioni fra i cuccioli e le madri. Non sappiamo però quale tipo di linguaggio esibissero il Neanderthal e le altre forme umane che hanno vissuto fino a poche decine di migliaia di anni fa. Di recente è emerso però un indizio che colpisce. Homo sapiens è la specie umana che ha allungato più di ogni altra il periodo giovanile: questa fragilità ci ha regalato anni in più di apprendimento e di sperimentazione, a partire da una dotazione anatomica già moderna. In seguito gli Homo sapiens hanno incontrato altre forme umane e sono rimasti da soli dopo un'ultima espansione fuori dall'Africa (60 mila anni fa) da parte di gruppi che per la prima volta mostravano un comportamento cognitivamente moderno (arte, ornamenti, sepolture rituali, strumenti musicali). Che cosa avevano di tanto nuovo in mente questi nostri antenati così intraprendenti? Una rivoluzione culturale. Darwin ipotizzò che parole e pensieri si fossero evoluti insieme, ristrutturandosi a vicenda. Come ha notato l'evoluzionista Mark Pagel, forse proprio il linguaggio articolato è stato l'«arma segreta» che ha permesso la nostra diffusione in ogni angolo del globo, facendoci percorrere in solitudine l'ultimo miglio dell'evoluzione umana.

Il convegno
Il 25 e 26 giugno, presso l'Università di Milano Bicocca, la Società di linguistica italiana organizza un convegno in forma di «duello» tra linguisti e non linguisti: un confronto attorno alle origini del linguaggio e delle lingue storico-naturali, a quasi un secolo e mezzo dalla interdizione su questo tema voluta dalla Società di linguistica di Parigi e ribadita poi per molti versi dall'insigne studioso Noam Chomsky (nella foto), convinto che sia impraticabile ogni visione evoluzionista del linguaggio umano
I relatori
Partecipano alla discussione, tra gli altri: Tullio De Mauro, Emanuele Banfi, Irene Berra, Fabio Di Vincenzo, Annibale Elia, Lia Formigari, Stefano Gensini, Marco Mancini, Giorgio Manzi, Antonino Pennisi, Davide Pettener, Telmo Pievani, Paolo Ramat, Lorenzo Renzi, Emanuele Serrelli, Corrado Sinigaglia.
Info: www.societadilinguisticaitaliana.net

Corriere La Lettura 17.6.12
Dawkins smentito dal «gene altruista»
di Paolo Ercolani


Se c'è una cosa su cui i neuroscienziati e gli studiosi della natura umana concordano, è che dalla comprensione di cosa è l'uomo e come funziona la sua mente derivano i meccanismi sociali. Capire la natura dell'individuo, insomma, equivale a comprendere buona parte di ciò che sarà la società, composta appunto da individui. Darwin stesso scrisse che «la morale e la politica sarebbero molto più interessanti se venissero discusse come una qualsiasi branca della storia naturale».
Premesso questo, gli scienziati si sono poi divisi in due grandi scuole di pensiero: da una parte quelli che, sulla scia di Aristotele e del pensiero cristiano (San Tommaso fra tutti), ritengono l'uomo un essere «sociale» e quindi altruista, fisiologicamente disposto alla cooperazione con gli altri individui in vista di un bene comune; dall'altra coloro che si ispirano alla favola delle api di Mandeville, a un'interpretazione rigida e parziale della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith e al crudo realismo di Thomas Hobbes per delineare il ritratto di un uomo egoista, tutto concentrato sulla ricerca di benefici per sé e per la cerchia ristretta dei suoi affetti o alleati.
È superfluo notare che questa seconda interpretazione è stata fatta propria dai liberisti (Friedman, Hayek, Rothbard) per suffragare sul piano anche biologico la teoria di una società composta da individualisti votati al proprio tornaconto, che vedrebbe garantita la sua avanzata sul cammino dell'evoluzione umana grazie ai meccanismi spontanei del mercato.
Ma non è soltanto nel campo dell'economia che si è affermata questa teoria, visto che dobbiamo all'etologo Dawkins e al neuro filosofo Dennett, noti al grande pubblico per il loro ateismo convinto, la certificazione dell'uomo quale espressione genetica di un «io egoista». Appoggiandosi su basi scientifiche, hanno relegato su un piano oltremodo secondario la natura relazionale dell'essere umano.
Una visione parziale e riduttiva che viene smentita da un lavoro originale e molto accurato della studiosa torinese Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali. Culturalmente individualisti (Mimesis, pp. 463, 34,50), che sta per uscire in questi giorni nelle librerie. La scoperta dei neuroni specchio, quindi lo studio delle neuroscienze, ma anche della biologia e della fisica, conferma che gli individui non sono «mattoncini» irrelati e, in quanto tali, portatori di un «gene egoista», bensì delle strutture reticolari che li vedono in stretta relazione fra di loro e con l'ambiente circostante. Si può, insomma, tornare a pensare che è la natura stessa ad averci programmati come esseri sociali. La struttura, e il destino stesso di ognuno di noi, non possono prescindere da tutti gli altri. C'è materia abbondante per nuove riflessioni.

Corriere La Lettura 17.6.12
Italiani, baltici e slavi in divisa da SS: le reclute dell'«internazionale ariana»
Ai crimini nazisti parteciparono numerosi carnefici non tedeschi
Un dato innegabile che smentisce le tesi dello storico Goldhagen
di Frediano Sessi


Lo sterminio degli ebrei d'Europa fu veramente una conseguenza di quello che lo storico statunitense Daniel Goldhagen definì «l'antisemitismo eliminazionista» dei tedeschi? Già al tempo della pubblicazione del suo libro (I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori), molti storici, tra i quali Raul Hilberg, sottolinearono il fatto, dimostrato da documentazioni inoppugnabili, che allo sterminio degli ebrei e ai massacri razziali di molta parte della popolazione d'Europa contribuirono attivamente anche decine di migliaia di «carnefici» non tedeschi.
Ciò avvenne in particolare a partire dal giugno del 1941, data dell'invasione dell'Unione Sovietica da parte delle armate hitleriane e dell'inizio delle uccisioni di massa all'aperto, compiute dalle «Unità mobili di massacro» (Einsatzgruppen) naziste, cui si deve l'eliminazione mediante fucilazione di oltre un milione e 500 mila civili, in prevalenza ebrei. In quella fase centinaia di migliaia di giovani non tedeschi (lettoni, estoni, ucraini, uniti ad altri provenienti da Olanda, Francia, Belgio, Italia, Croazia, Ungheria ecc.) si arruolarono nelle forze armate tedesche, e in particolare nelle Waffen SS, per collaborare al disegno nazista di «riscrivere» la carta demografica d'Europa, eliminando dalla faccia della terra tutte le razze inferiori (le cosiddette «schegge di popoli», secondo una definizione di Heinrich Himmler) e dare il definitivo predominio agli «ariani».
Christopher Hale, con il nuovo saggio I carnefici stranieri di Hitler (Garzanti), utilizzando fonti e studi in gran parte già noti, ma dispersi in pubblicazioni dedicate a singoli aspetti regionalistici del problema, ci consegna una sintesi storica del fenomeno, che accende una luce inquietante su quella parte d'Europa complice delle SS nelle procedure di sterminio degli ebrei e nell'accanimento contro partigiani, prigionieri di guerra e popolazioni civili. La sua ipotesi di lavoro, molto suggestiva, si sofferma ad analizzare lo scontro sotterraneo tra la visione della guerra di annientamento e conquista di Hitler e i progetti di Himmler, capo supremo delle SS. Secondo Hale, Himmler osservò e promosse con grande interesse i movimenti nazionalisti dei Paesi conquistati; a partire dal 1941, immaginò «una futura Europa delle SS che avrebbe fatto a meno del Partito nazionalsocialista e del suo leader Adolf Hitler, e sarebbe stata suddivisa in tante province governate dalle SS». Per eliminare gli ebrei, liquidare gli indesiderabili e gli oppositori, «germanizzare» ogni angolo d'Europa, arrivare con il tempo a estendere il predominio del Reich sul mondo intero, occorreva, secondo Himmler, reclutare gruppi etnici non tedeschi e, attraverso di loro, anche mediante un percorso di formazione militare e fidelizzazione alla causa, riprodurre «sangue germanico». Questa forma di nuovo reclutamento poteva essere realizzata solo dalle sue SS.
L'attuazione del piano ebbe inizio, dapprima, con i popoli nordici della Scandinavia e dell'Olanda, per estendersi in seguito ad altre etnie, anche in ragione dell'avanzamento delle conquiste nell'ambito della «scienza razziale» nazista. Fu così la volta degli estoni, dei lettoni e dei lituani. Un arruolamento nei battaglioni di polizia delle SS e nelle divisioni militari delle Waffen SS, secondo i tecnocrati della razza, avrebbe accelerato il processo, portando in breve tempo una parte di popoli non tedeschi a essere al livello dell'uomo ariano germanico.
Gli italiani coinvolti, per la maggior parte volontari, furono non meno di diecimila e il loro reclutamento, affidato al Generalmajor delle Waffen SS Peter Hansen (che diresse il centro di addestramento per italiani a Münsingen), ebbe inizio già dall'ottobre del 1943 (a solo un mese dall'occupazione dell'Italia). Non tutti i volontari italiani passarono per il centro di addestramento di Münsingen, o furono impiegati con compiti di polizia (rastrellamenti, fucilazioni, rappresaglie, arresti di ebrei e partigiani); una parte fu inviata sul fronte orientale, già in via di disgregazione. Almeno duemila finirono a difendere Budapest, a fianco delle croci frecciate (i fascisti ungheresi), di fronte alle armate sovietiche che avanzavano verso ovest. Per molti di loro, scrive Hale, «entrare nelle SS tedesche era la reazione a un'umiliazione nazionale, e una scelta conseguente a dei valori ideologici condivisi».
Il saggio, che contiene una sintetica ricostruzione del contesto storico e di tutti i fronti di guerra che videro impegnate queste SS non tedesche, rappresenta oggi un ulteriore strumento per comprendere come lo sterminio più efferato del nostro Novecento sia stato possibile, in realtà, perché tanti europei collaborarono con i criminali nazisti.

Corriere La Lettura 17.6.12
il Marxismo relativista di Bogdanov


«Ci hanno fatto viaggiare per migliaia di verste per portarci su un sassolino», commentò uno degli operai russi arrivati a Capri, nell'agosto 1909, per partecipare alla scuola di partito organizzata dallo scrittore Maksim Gorkij e dai filosofi Anatolij Lunacharskij e Aleksandr Bogdanov. Su quel corso, durato sei mesi, la storica Paola Cioni, direttrice dell'Istituto italiano di cultura a Francoforte, ha scritto il saggio Un ateismo religioso. Il bolscevismo dalla Scuola di Capri allo stalinismo (Carocci, pp. 160, 17, prefazione di Cesare G. De Michelis), che illumina un aspetto cruciale nella storia del Novecento: l'affermazione del bolscevismo nella versione leninista, che già alle origini conteneva le premesse per la costruzione di una società chiusa e totalitaria. Paola Cioni, prima di narrare l'esperienza caprese, illustra il dissidio tra la concezione dell'avanguardia rivoluzionaria, pronta a imporre la sua volontà alle masse, e il marxismo antiautoritario e relativista di Bogdanov, studioso che nella rivoluzione del 1905 era diventato un leader popolare tra le masse e stimato da diversi intellettuali. Per Bogdanov, le cui teorie Paola Cioni accosta alle analisi del Gramsci maturo, l'emancipazione del proletariato non poteva essere opera di minoranze violente, ma doveva essere una conquista graduale, da ottenere anche con la cultura e la diffusione di una nuova concezione del mondo. Attento al pensiero moderno, teorizzatore dell'Empiriomonismo, basato sul rifiuto della superspecializzazione e sul dialogo tra i vari aspetti del sapere, Bogdanov divenne il nemico numero uno di Lenin, che in Materialismo ed empiriocriticismo fece il suo maggiore sforzo teorico per affermare la dialettica materialista e lo storicismo marxista nella versione che sarebbe divenuta ortodossa. Interessanti, nella storia raccontata da Paola Cioni, sono anche le vicende personali, a cominciare da quella di Gorkij, passato da una scelta libertaria a essere sostenitore di Stalin.

Corriere La Lettura 17.6.12
Il mandante è il romanzo
Assassini che si ispirano a narratori Ultimo caso: il delitto di Brindisi
Un appunto su un libro di Paulo Coelho forse scritto da Giovanni Vantaggiato riapre la questione
l’omicidio di John Lennon, il caso di Cogna, i deliri del killer di Oslo
di Paolo Di Stefano


Un intenso saggio di Ezio Raimondi ricorda che c'è un'etica della lettura: leggere significa necessariamente mettersi in comunicazione con l'altro, con una diversità; l'atto di leggere comporta la disponibilità ad ascoltare, a rispettare la voce dell'autore. Nel silenzio e nella solitudine della lettura si ritrova un dialogo con l'altro e con se stessi, lasciando che il pensiero e l'immaginazione vadano dove vogliono. È un'idea molto democratica di letteratura, perché in questa prospettiva ciascuno stabilisce con essa una libera relazione, come con un altro essere umano.
D'altra parte, però, come nelle relazioni umane appunto, può accadere che a questo equilibrio ideale si oppongano condizionamenti di varia natura, per esempio psicologica. C'è ovviamente un ricco repertorio nel complicato processo di causa-effetto tra il messaggio di un libro e la sua lettura: non ci si può meravigliare che un romanzo rosa provochi commozione, che un thriller generi terrore, che un giallo produca curiosità e attesa, che un racconto satirico faccia ridere, che i (falsi) Protocolli dei savi di Sion sollecitino comportamenti antisemiti. Così, che Francesca da Rimini confessi che la sua passione adultera con Paolo Malatesta è nata dalla lettura delle avventure amorose di Ginevra e Lancillotto, non deve poi tanto stupire. Si tratta di un caso di identificazione e di empatia, per cui il bacio narrato sulla pagina stimola l'imitazione nei lettori. Per questo «Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse...».
Ci si sorprende un po' di più, semmai, quando il critico Cesare Garboli rivela, in un saggio sulla Morante, di aver letto tutto Sade (sottolineato tutto) «non solo con turbamento, ma spesso in erezione». Non perché le tecniche di perversione non possano (qua e là) eccitare, ma per la (presunta) durata dell'effetto in corrispondenza con la quantità immane delle pagine. Se in questo caso restiamo nell'ordine dell'ammirazione o di una moderata incredulità, in altri, quando il rapporto di azione-reazione è del tutto imprevisto, si rimane sconvolti più che sorpresi. Prendiamo il caso dell'attentatore di Brindisi: pare che Giovanni Vantaggiato, grande appassionato di Paulo Coelho, abbia vergato un appunto tra le pagine del Manuale del guerriero della luce. Una frase: «Agire subito», che insinua il sospetto che l'istigazione a delinquere sia arrivata direttamente da quella lettura.
È vero che siamo di fronte a uno scrittore che ha fatto di quella sorta di neo-esoterismo panteistico, così vicino alla temperie della New Age, la sua immensa fortuna. Pur tuttavia, la frase di Vantaggiato, presa in sé, risulta perfettamente in linea con le parabole e le sentenze che compongono l'accozzaglia spiritualistica del Manuale (in cui tutto viene affermato e negato insieme). Laddove, per esempio, Coelho descrive il suo fantomatico «guerriero della luce» come colui che «non teme di sembrare folle», invitandolo a essere eroico, a impugnare la spada contro il nemico, a indossare un'armatura e a «non abbassare la testa», suggerendogli che «ci sono momenti in cui la forza si mostra più efficace della strategia». Certo, si dirà che la metafora o l'allegoria dovrebbero invitare il lettore minimamente ragionevole alla cautela, ma preso alla lettera da una mente squilibrata, il vademecum dello scrittore brasiliano rischia di rivelare a posteriori una «complicità» davvero esplosiva.
Diciamo che quel libro si presta a diventare una specie di mandante involontario. Recensendo un famoso trattato di Dionisio Longino, Andrea Zanzotto faceva presente che «(il sublime) fa giocare gli aspetti più profondi della nostra personalità, come se noi fossimo protagonisti impegnati all'interno della favola o del dramma». Il sublime asseconda l'identificazione più cieca nelle menti fragili. Forse per questo, la letteratura «fantasy» si offre con facilità a una adesione in chiave di mitomania. Si pensi a Gianluca Casseri, il killer di estrema destra che due anni fa con una Magnum 357 uccise due senegalesi a Firenze: si scoprì che era stato folgorato, da giovanissimo, sulla via di Lovecraft e di Tolkien (Le chiavi del caos).
Non è solo la cattiva letteratura a generare mostri (come sembra ritenere un commentatore su Twitter della vicenda Vantaggiato-Coelho). Le cose sono più complicate. L'empatia è una delle caratteristiche della buona letteratura oltre che di quella pessima. In fondo, i romanzi cavallereschi che leggevano i due adulteri danteschi non erano affatto male. Allan Felix, impersonato da Woody Allen, esce dal cinema, dopo aver visto Casablanca, credendosi Humphrey Bogart, con tutte le conseguenze del caso. Nessuno (tanto meno il suo autore, per quanto consapevole) può prevedere le ripercussioni di un'opera d'arte o di una boiata pazzesca nell'inconscio individuale del fruitore. Il boss mafioso Matteo Messina Denaro, sentendosi un capro espiatorio, dichiarò di essere diventato «il Malaussène di tutto e di tutti». Era sorprendentemente un lettore di Pennac.
Il padre del giovane Holden Caulfield, J.D. Salinger, non avrebbe mai e poi mai immaginato che il suo protagonista, per quanto arrabbiato e timido come i criminali in potenza, potesse diventare l'ossessione di due delinquenti: l'omicida di John Lennon, Mark David Chapman, e John Hinckley jr., l'attentatore di Ronald Reagan. Sono collegamenti inspiegabili, come la copia de Il Piacere di Gabriele D'Annunzio presente nel pacco-bomba depositato il 27 dicembre 2003 nella casa bolognese di Prodi. Una scelta casuale? Chi può dire se nella storia «sensualistica, ferina e decadente» (aggettivi di Croce) dell'aristocratico Andrea Sperelli ci fosse un segnale oscuro dei delinquenti. Più facile che il romanzo che «arma» la mano criminale sia un giallo, un noir, un thriller che attraverso le condizioni psicologiche dei personaggi finisce per creare un effetto di suggestione e di più o meno intenzionale rispecchiamento. Gianfranco Stevanin, il serial killer veneto che uccise sei donne nel 1994, costrinse criminologi e periti a leggere Facile da uccidere, il thriller dello scrittore statunitense John Katzenbach, reperito nella stanza dell'indagato: furono scoperte inquietanti analogie con i comportamenti perversi del protagonista, il fotografo Douglas Jeffers, e persino con le modalità dei massacri messi in atto.
L'Fbi arrivò a stabilire che fu Joseph Conrad, il suo autore più amato, a ispirare Theodore John Kaczynski, il fantomatico Unabomber americano, per i suoi 23 attentati: anzi, dopo 18 anni di caccia sarebbe stata proprio la lettura de L'agente segreto a mettere sulla giusta pista gli investigatori, che intuirono la somiglianza tra il chimico pazzo del romanzo conradiano e l'anonimo terrorista, al punto che l'opera di Conrad fu sottoposta a un'analisi serratissima. Al momento dell'arresto si scoprì che in effetti nella capanna del Montana in cui si era segregato Kaczynski c'era una copia de L'agente segreto; che Unabomber conosceva a memoria il romanzo e che aveva pernottato in un motel della California firmandosi «Conrad». L'intreccio della finzione coincideva perfettamente con quello della cronaca nera, compresi molti particolari minimi. Un caso estremo di identificazione patologica. Più modestamente (e professionalmente), invece, James Perry, autore di un triplice omicidio nel '93, si era limitato a seguire alla lettera le istruzioni di Hit Man. Manuale del perfetto omicida, che consigliava di sparare alle proprie vittime dritto negli occhi, di derubarle per confondere la polizia e di smontare la pistola disperdendone i pezzi prima di fuggire in auto. Il giudice condannò l'esecutore alla pena capitale e costrinse la Paladin Press — che aveva pubblicato quell'istigazione a delinquere in forma di libro — a risarcire i parenti delle vittime con molti milioni di dollari.
Dieci anni fa a Cogne, nei giorni dell'omicidio del piccolo Samuele, si disse che sua madre, Annamaria Franzoni, teneva sul comodino Agnes, il romanzo dello svizzero Peter Stamm che porta un'epigrafe del poeta Keats: «Eppure gli uomini ammazzeranno anche nei giorni sacri». Ma l'indizio principe stava in un brano sottolineato alle pagine 136-137: «Come il bambino ci aveva diviso, così la sua perdita ci rimise insieme. Il dolore ci unì più di quanto avesse potuto fare la felicità». La trama del romanzo ha poco a che fare con la tragedia di Samuele. Narra l'innamoramento a Chicago tra un giornalista elvetico e una studentessa di fisica, e di una maternità mancata in seguito a un aborto auspicato da lui: finale tragico con la ragazza morta su una spiaggia. In quelle settimane il libro divenne un bestseller nella Val d'Aosta, non se ne trovava una copia. C'è anche un voyeurismo letterario, oltre che televisivo.
Non solo i potenziali assassini si lasciano ammaliare dalla letteratura, per fortuna. Però quando accade che una parola, una frase, un brano, un'immagine si insinuano in una mente malata o criminale fino a diventare un'ossessione, l'effetto può essere devastante. Come nel caso del norvegese Anders Behring Breivik, lo sterminatore di Oslo che su Facebook citava la sua bibliografia ideale: Il principe di Machiavelli, 1984 di George Orwell, le opere di Tolkien e qualche frase del filosofo John Stuart Mill. Tra cui questa: «Una persona dotata di una fede ha una forza sociale pari a novantanove che hanno solo interessi». Si sa, ogni pensiero estrapolato da un capolavoro, persino dalla Bibbia, puoi farlo diventare quel che vuoi. Il nero diventa bianco, e il bianco diventa nero. In alcuni casi nero su fondo nero.

Repubblica 17.6.12
Rinnovare i  partiti, liberare le istituzioni
di Eugenio Scalfari


QUESTA mattina si sta votando in Grecia e tra poche ore conosceremo il risultato, ma hanno sbagliato quanti (ed io con loro) hanno attribuito al voto il valore d’un referendum pro o contro l’euro e pro o contro l’Europa. Non è affatto così. Tutti i partiti greci, quelli tradizionali e quello di opposizione (socialista massima-lista), non vogliono affatto uscire dall’Unione europea e abbandonare la moneta comune. Quanto agli elettori, essi sono perfettamente consapevoli che tornare alla dracma sarebbe un disastro di proporzioni immani; un sondaggio pre-elettorale prevede addirittura una vittoria dei partiti tradizionali, quelli cioè che si sono assunti la responsabilità del rigore tedesco, il che è tutto dire.
La Grecia quindi non se ne andrà dall’euro a meno che non sia la Germania a sbatterla fuori. Molti pensano che quest’ipotesi sia probabile: ucciderne uno per educarne cento; ma io non credo che sia così. Non solo è improbabile ma è addirittura impossibile. Sarebbe un esercizio di accanito sado-masochismo che un grande popolo non può permettersi. Il popolo e le classi dirigenti tedesche non possono permetterselo ed è inutile ricordarne il perché, stampato nella memoria del mondo intero a caratteri indelebili.
Però c’è un però: anche se l’esito del voto greco non potrà essere utilizzato dagli speculatori come pretesto, ne troveranno certamente altri per proseguire il loro attacco all’eurozona, ai debiti sovrani più esposti e alle banche più fragili.
Del resto hanno già cominciato, con la Spagna prima e con l’Italia poi. L’obiettivo finale è la disarticolazione dell’eurozona, l’isolamento della Germania, la cancellazione d’ogni regola che miri a incanalare la globalizzazione in un quadro di capitalismo democratico e di mercato sociale.
Ormai è evidente che questa è la posta in gioco. Altrettanto chiara è l’identità delle forze contrapposte. Da un lato ci sono le principali banche d’affari americane che guidano il gioco, le multinazionali, i fondi speculativi, le agenzie di rating, i sostenitori del liberismo selvaggio e del rinnovamento schumpeteriano. Un impasto di interessi e di ideologie che noi chiamiamo capitalismo selvaggio e che loro nobilitano chiamandolo liberismo puro e duro.
Queste forze della speculazione hanno una capacità finanziaria enorme ma non imbattibile. La controforza è guidata dalle Banche centrali. Nei loro statuti è garantita la loro indipendenza e la ragione sociale prevede per tutte la tutela del valore della moneta e il corretto funzionamento del sistema bancario sottoposto alla loro vigilanza. Ma il compito implicito è anche lo sviluppo del reddito e dei cosiddetti “fondamentali” tra i quali primeggiano il risparmio, gli investimenti, la produttività del sistema e l’occupazione.
Le Banche centrali dispongono anch’esse di mezzi imponenti di contrasto, mezzi a loro immediata disposizione in caso di necessità e di emergenza. E poiché l’ala ribassista si scatenerà al più presto per non lasciar tempo ad accordi politici che affianchino al rigore lo sviluppo, le Banche centrali dovranno far mostra di tutta la loro potenza di fuoco per impedire la devastazione dei tassi d’interesse e l’ondata di panico che può rovesciarsi contro gli sportelli delle banche. Dovranno insomma impedire che si stringa la tenaglia sui debiti sovrani, che metterebbe a rischio gli Stati dei quali le Banche centrali sono una delle più importanti articolazioni. Indipendenti ma certo non indifferenti e non neutrali quando si tratti di vita o di morte non solo di uno Stato ma d’un intero sistema continentale.
Il panorama delle prossime settimane si presenta dunque molto movimentato. A mio avviso – ripeto quanto scritto la scorsa settimana e che vado scrivendo ormai da vari mesi – l’esito finale sarà positivo perché non è pensabile che uno dei continenti più popoloso, più culturalmente avanzato e più provvisto di esperienza storica decida di suicidarsi. Ma certo egoismi nazionali ed errori di tattica renderanno lungo e faticoso il guado verso un solido approdo di stabilità, rilancio dell’occupazione e uscita dalla deriva della recessione.
* * *
Tra gli errori di tattica che direttamente riguardano il nostro Paese è emerso nei giorni scorsi il problema degli esodati. In un contesto sociale già molto agitato dai sacrifici necessari per contrastare l’attacco dei mercati e dalla caduta del potere d’acquisto dei ceti più disagiati, il tema di quasi 400mila lavoratori di circa sessant’anni d’età privi sia di lavoro sia di pensione è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo: un dramma umano che si aggiunge a quello ancora più vasto dei giovani anch’essi in larga misura privi di protezione sociale e senza prospettive di futuro.
Il ministro Fornero ha sbagliato il tono della risposta al documento redatto dall’Inps accusando i dirigenti di quell’ente di provocazione voluta e quindi dolosa. Quanto al predetto documento che formula in 390mila la cifra complessiva degli esodati, il ministro l’ha definito impreciso e di dubbia interpretazione.
Come si vede il giudizio del ministro sull’operato dell’Inps in questa occasione è dunque molto duro ma contiene tuttavia un nucleo di verità. La massa degli esodati dovrebbe essere infatti classificata con molta attenzione per quanto riguarda il tipo di contratto originario che li legava al loro datore di lavoro, le cause e le modalità della loro uscita da quel contratto e i tempi precisi in cui quest’uscita diverrà operativa. L’Inps non ha approfondito come probabilmente avrebbe dovuto questa classificazione. Ha semplicemente diviso i 390mila in due categorie: i “prosecutori” e i “cessati”. I primi secondo l’Inps ammontano a 130mila e sono quei lavoratori che hanno deciso di porre fine al rapporto di lavoro anticipatamente utilizzando le finestre a loro disposizione e continuando a pagare i contributi volontari fino a maturazione della pensione. I “cessati” sono stimati a 180mila e la causa della cessazione sono stati accordi aziendali di prepensionamento con uno “scivolo” che accompagnava il lavoratore al pensionamento. Accordi aziendali tuttavia che sono stati fortemente modificati in peggio dalla riforma pensionistica che ha spostato in avanti da cinque a sette anni la pensione adottando il metodo contributivo per tutti.
Queste specificazioni che si trovano nel documento dell’Inps non sono tuttavia sufficienti a parte l’attendibilità delle cifre il cui ordine di grandezza è comunque fortemente superiore a quanto finora ha previsto il governo.
Manca nel documento la natura del contratto originario e mancano anche quei lavoratori coperti dalla cassa integrazione come rimedio estremo al già avvenuto licenziamento per fallimento o cattivo andamento dell’azienda. Manca infine la data nella quale il licenziamento già deciso e notificato al dipendente diventerà operativo.
La Fornero è sempre stata consapevole dell’entità del fenomeno. Lo dichiarò pubblicamente nel momento stesso in cui annunciava la riforma e garantì che i lavoratori colpiti sarebbero stati protetti man mano che la perdita di lavoro si fosse verificata. Ebbi l’occasione in quei giorni di incontrarla proprio per approfondire questa questione. Ricordo che mi ripeté l’impegno preso e le modalità di copertura. «Questa “tagliola” tra la data attesa per la pensione e quella prolungata dalla riforma non scatterà subito per tutti. Adesso è scattata per un gruppo di lavoratori che abbiamo valutato in circa 50mila» così mi disse allora «e abbiamo provveduto per loro anticipando la scadenza pensionistica. Agli altri penseremo quando la cessazione del rapporto di lavoro diventerà operativa».
Questa sua posizione gradualistica è stata riconfermata nei giorni scorsi di rovente polemica conclusa con una mozione di sfiducia personale al ministro presentata dalla Lega e da Di Pietro. La mozione non considera che una copertura preventiva di un debito dalle cifre ancora incerte iscrive quella posta passiva nella contabilità nazionale “sopra la linea”, il che significa che va ad aumentare
ulteriormente l’ammontare del già gigantesco debito pubblico.
Ciò che il ministro dovrebbe fare ora con la massima urgenza è di chiarire e indicare cifre certe rinnovando l’impegno alla loro copertura nella data corrispondente allo scatto della “tagliola”. Che la pubblicazione del documento Inps abbia acceso un incendio di rabbie aggiuntive è un fatto incontestabile che poteva essere evitato non nascondendo le notizie ma dandole in modo sommario e quindi impreciso.
* * *
Ogni Paese europeo deve fare la sua parte per mettersi in sintonia con l’obiettivo finale che è quello di costruire uno Stato federale di dimensioni continentali.
Noi italiani ne abbiamo molto di lavoro da fare ma un punto domina su tutti gli altri: si chiama questione morale.
Enrico Berlinguer – l’ho già più volte ricordato – pose questo problema spiegando che in Italia la partitocrazia aveva stravolto il dettato costituzionale e il governo dei partiti aveva occupato le istituzioni, nessuna esclusa. Bisognava dunque liberarle, restituendole alla loro funzione di organi di governo depositari dell’interesse generale e non dei pur legittimi interessi particolari. Stato di diritto, separazione dei poteri, interesse generale rappresentato dal complesso delle istituzioni, forze politiche guidate da una propria visione del bene comune da sottoporre al voto del popolo sovrano.
Questo modello non aveva assolutamente nulla di comunista e stupì molto vederlo fatto proprio dal leader del Pci. Probabilmente Berlinguer usò la questione morale come risposta alla esclusione del Pci dall’alternarsi al potere delle forze costituzionali a causa della guerra fredda.
Sia come sia, quel tema fu posto e colse un aspetto essenziale della crisi italiana. Ora la sua soluzione non solo è matura ma necessaria.

Corriere 17.6.12
Domenica 17 Giugno, 2012
Ora il partito ha la sua eroina: una donna cinese nello spazio
di Marco Del Corona


PECHINO — La Cina che, laggiù in basso, le appare piccola, da oggi si sente in realtà più grande e più forte. Liu Yang è la prima astronauta — anzi, «taikonauta» — nella storia della Repubblica Popolare e il suo volo, spiccato ieri alle 18.37 locali dalla base di Jiuquan (nel Gansu, lembo meridionale del deserto del Gobi), è anche il più complicato della storia spaziale cinese. La missione della navetta Shenzhou 9 non solo è la quarta che prevede l'impiego di un equipaggio dopo quelle del 2003, 2005 e 2008 (il primo cinese nel cosmo fu Yang Liwei) ma il doppio aggancio con la base spaziale Tiangong 1, uno automatico e uno manuale, più le attività previste dai tre membri della spedizione ne fanno una svolta tecnologica e psicologica cruciale per Pechino.
Liu Yang ha 33 anni. In un Paese dove la propaganda lancia cicliche campagne a base di slogan e figure edificanti, la pilota dell'aeronautica militare offre un nuovo volto intorno al quale coagulare l'orgoglio nazionale. A maggior ragione mentre si intensificano le ipotesi di una donna nel comitato permanente del Politburo che sarà deciso in autunno: secondo diverse ricostruzioni Liu Yandong, possibile numero 4. I compagni di missione di Liu Yang sono più esperti. Il comandante Jing Haipeng, 46 anni, aveva volato con la Shenzhou 7 mentre il colonnello Liu Wang era stato addestrato insieme al primo taikonauta una quindicina d'anni fa. In confronto Liu Yang, che pure si è esercitata per 16 ore al giorno, è una novellina. Benché abbia in curriculum 1.680 ore di volo da pilota di cargo militari, non è stata selezionata che nel 2010 per condurre, senza essere una scienziata, esperimenti medici.
Per ironia della sorte, il suo viaggio cade a 49 anni esatti dal lancio della prima donna nello spazio, la sovietica Valentina Terechkova. Prima di partire Liu Yang ha ringraziato il marito per il supporto che le ha dato e ha voluto «ringraziare la madrepatria per quest'occasione»; ha definito la sua chance «una grande fortuna concessa a pochi» ma ha dedicato un pensiero a chi si dedica alla famiglia, che giudica un privilegio d'analoga importanza. Il numero uno della gerarchia comunista, il presidente Hu Jintao, si è congratulato dalla Danimarca a lancio avvenuto, mentre prima aveva impartito la sua benedizione il numero due, Wu Bangguo, leader del Parlamento.
Si sa che a Liu Yang sarà garantita, in quanto unica donna, un po' di riservatezza e di intimità. Lei ha aggiunto che vorrà «sentire il viaggio nel cuore, per osservare la Terra, dare uno sguardo migliore alla nostra meravigliosa patria». I tre si sono portati un film di Tom e Jerry «per distrarsi un po' dopo tanto lavoro» e ciascuno ha scelto quello che preferisce: il comandante Jing un genere di dialoghi teatrali serrati chiamato «xiangsheng» (assai apprezzato anche dai taxisti), l'altro ufficiale Liu Wang un po' di musica classica, la taikonauta Liu invece un programma didattico della tv di Stato. L'esperienza del primo cinese nello spazio, 9 anni fa, e quella dei lanci successivi hanno raffinato le dotazioni della cambusa. I tre hanno a loro disposizione un'ottantina di cibi diversi, con salse vigorose (peperoncino compreso) per contrastare l'attenuazione del gusto che l'agenzia Xinhua segnala tra i disagi della permanenza nello spazio. Tè al limone, latte, barrette di cioccolata fanno parte del menu.
L'avventura della Shenzhou 9 viene presentata come propedeutica alla conquista della Luna ed è cominciata mentre i media annunciavano trionfanti che un mezzo sottomarino, il Jiaolong, aveva raggiunto venerdì i 6.671 metri di profondità nella Fossa delle Marianne, un record per la Cina. Conquista doppia: lo spazio e gli abissi. Ma quello che a Pechino conta soprattutto è che, grazie alla maggiore Liu Yang, l'altra metà del cielo non sia più necessariamente l'altra.