martedì 19 giugno 2012

l’Unità 19.6.12
La Francia e l’agenda europea «Ora Hollande ha pieni poteri»
I commenti della stampa dopo la vittoria dei socialisti
L’onda rosa 106 deputate su 280 eletti
di Umberto de Giovannangeli


Il presidente «normale» ha poteri assoluti. «Re François» ha conquistato la Francia. Una prima pagina rosa per oltre la metà, proprio come il nuovo Parlamento francese: così celebra la vittoria alle legislative il quotidiano francese Liberation, con il titolo «La sinistra regale». Anche sul conservatore Le Figaro, schema del parlamento con maggioranza assoluta al Ps in prima pagina, con il titolo «La Francia in rosa di fronte alla crisi». Libération, nell'editoriale «Ipermaggioranza», si chiede se la road map dei prossimi cinque anni è quella di «riformare dal pavimento al soffitto il famoso “modello francese”: se dovesse essere così scrive il quotidiano sarebbe opportuno, anzi imperativo, informarne il Paese adesso che tutte le elezioni sono vinte. Tanto più che, preso davanti ai partner europei, l'impegno di riportare in equilibrio i conti pubblici non lascia dubbi sul punto d'arrivo.
«Pieni poteri a Hollande» titola su tutta la prima pagina il quotidiano francese del pomeriggio Le Monde, con un grande grafico della nuova Assemblea nazionale a maggioranza socialista. «Fra i capi di Stato e di governo europei si legge nell'editoriale “Una responsabilità storica di fronte all'Europa” François Hollande è oggi quello che dispone nel suo Paese della più fresca e incontestabile legittimità popolare. La tradizione monarchica francese ha degli inconvenienti, ma oggi presenta un grosso vantaggio: conferisce al capo dello stato margini di manovra inediti, una libertà d'azione sul fronte europeo che la maggior parte dei suoi colleghi costretti in difficili coalizioni o da contropoteri locali potenti, non hanno».
Le elezioni legislative hanno assegnato al Ps una maggioranza assoluta di 314 seggi su 577. Il nuovo esecutivo potrà fare a meno dell'appoggio dei Verdi (17 seggi), che comunque sono dentro al gabinetto, e della sinistra radicale (10 seggi).
VALANGA ROSA
Sono 155 le donne elette nella nuova Assemblea nazionale francese, secondo i dati definitivi delle elezioni politiche dell’altro ieri: un record storico. Su 577 seggi in tutto e con 422 uomini eletti, le donne rappresentano dunque il 27%, mentre erano il 18,5% (107 elette) nel 2007. Una donna inoltre potrebbe essere eletta per la prima volta al posto ambito di presidente dell'Assemblea. Era stato l'obiettivo della socialista Ségolène Royal, battuta nella circoscrizione di La Rochelle. Ieri è stata l'ex ministra della Giustizia, Elisabeth Guigou, a presentare la sua candidatura per questo ruolo. Nonostante il risultato incoraggiante, la ministra delle Pari Opportunità, Najat Vallaud-Belkacem, intervenuta su France Inter, ritiene che la Francia «ha ancora molto lavoro da fare in materia. Fintanto che non ci sarà uguaglianza e una migliore rappresentazione delle donne in Assemblea ha detto non potremo mai essere totalmente felici dei risultati».
Anche se il sogno della Royal è sfumato, la Vallud-Belkacem spera che sia comunque una donna a presiedere l'Assemblea: «Sarebbe un segnale molto forte». In dettaglio il partito che ha inviato il più alto numero di donne in Assemblea è il Ps, con 106 deputate su un totale di 280 eletti. Appena eletta, l'Assemblea nazionale sarà convocata per una sessione straordinaria che darà il colpo d'avvio alle prime riforme. Il premier Jean-Marc Ayrault non minimizza la difficoltà del compito del governo, che dovrà riuscire contemporaneamente a risanare i conti pubblici, ritrovare la crescita e rilanciare l'occupazione. Una quadratura del cerchio di difficoltà «immensa». «Nulla sarà facile. Nulla ci sarà regalato», dichiara il capo del governo.
Ayrault ha rassegnato ieri le dimissioni per essere immediatamente re-incaricato da Hollande di formare un nuovo governo, la cui composizione dovrebbe essere annunciata giovedì, ma per la quale non sono attese grandi sorprese, dato che tutti i ministri hanno passato il test delle legislative.

l’Unità 19.6.12
L’Italia e la Grecia. Gioire perché vince la destra?
La folle politica europea ha strangolato i socialisti e rimesso in sella i responsabili del disastro
di Michele Prospero


Gli elettori hanno una memoria corta. Anche gli interpreti però non scherzano nella rapida rimozione delle più scomode realtà. Certe letture del voto greco, esaltato come un mitico trionfo della causa europeista, lasciano davvero perplessi.
Il leader di Nuova Democrazia è considerato in patria, e dalla stessa area liberale del suo partito,come un mastino della rissa politica e non certo come un sottile ragionatore, con una qualche abilità da statista. La grande euforia è per questo fuori luogo. Quando iniziarono le dure politiche del rigore, la destra tuonò minacciosa contro le inique manovre pretese dall’èlite tecnocratica. È perciò un abbaglio presentare come l’ultima bandiera della causa europea queste misere forze conservatrici elleniche, che non pagano nulla per gli errori giganteschi commessi. Quando erano al governo, hanno falsificato i conti e condotto a lungo delle politiche irresponsabili. Una volta passate all’opposizione, hanno strillato con toni demagogici per mistificare la realtà esplosiva che proprio loro avevano creato.
Se davvero il voto è stato un referendum sull’Euro, allora era preferibile appoggiare, e non denigrare, la richiesta di Papandreu di convocarla davvero una consultazione che avrebbe avuto un senso politico di sostegno all’Europa. Ma la Germania, che adesso preferisce interferire con spudoratezza nelle dinamiche elettorali interne di un Paese, e però si arrocca nella negazione di un soccorso attivo per lenire le sofferenze di una nazione, liquidò in malo modo la pretesa mano debole dei socialisti. Il principale risultato politico del cancelliere tedesco è stato quello di aver radicalizzato le scelte e tramortito i socialisti. A chi oggi brinda per una cupa prospettiva weimeriana schivata sul filo del rasoio, bisogna sempre rammentare che a fare il miracolo è stato solo una alchimia del congegno elettorale. Senza il cospicuo premio di maggioranza, Weimar (con la sua triade funesta: radicalizzazione, frantumazione, ingovernabilità) era ancora dietro l’angolo. Le forze che daranno luogo al nuovo esecutivo non superano infatti il 43 per cento dei voti. La maggioranza degli elettori è quindi andata ancora una volta ai partiti euroscettici.
Le urne greche (o il referendum irlandese) non sono state affatto una legittimazione popolare allo scambio indecente tra modici aiuti e grandi riforme (cioè sacrifici per l’opera, già in partenza brutta e impossibile, di tagliare di 40 punti il debito pubblico entro il 2020). Intanto, ridurre l’ideale europeo ad una scelta così tragica, e quindi fare della paura della catastrofe la molla principale delle scelte di voto, è già il fallimento della politica.
Molti commentatori hanno scritto che ad Atene ha vinto la razionalità. Ma non si capisce che razionalità è mai quella che, sul filo tagliente della paura, induce il cittadino a dover optare un declassamento dopo l’altro e una manovra recessiva dopo l’altra tra prospettive ambigue che nascondono qualcosa di ignoto e di imponderabile. La sinistra radicale, una coalizione di protesta molto eterogenea e senza agganci con i socialisti europei, non aveva la forza e l’esperienza per giocare un ruolo di contrattazione che o diventa europeo o è solo di testimonianza. La destra che ha vinto non può certo cullare illusioni perché il timore che ben presto si ripresenterà l’emergenza l’accompagnerà come un incubo. La crisi non è stata affatto arginata e le minacciose risposte della signora Merkel il giorno dopo il voto non promettono nulla di buono.
Il vero punto da cogliere, e che certi interpreti vorrebbero invece occultare, è che qualsiasi fosse stato l’esito del voto, la politica ad Atene era già stata messa sotto scacco. La paura di crollare subito o di rinviare il decesso solo un po’ più in là, ha fatto per ora la differenza. Ma la battaglia non è finita. Se l’esito del voto greco viene preso a pretesto per negare l’evidenza, e cioè che l’equazione sacrifici infiniti e aiuti con contagocce è fallace, il cammino per un governo politico (cioè europeo) della crisi accumulerà ulteriori, drammatici ritardi. La democrazia non è in grado di vincere gli agguati dei mercati senza costruire politiche omogenee in grandi spazi continentali.
Il dato politico da rimarcare è che la partita vera non si gioca più a Madrid o ad Atene o a Dublino, ma nel laboratorio politico europeo. Se il disegno assurdo del memorandum (che è la causa della crisi, perché i costi eccessivi del debito vanificano gli sforzi immani dei paesi per rialzarsi) viene scambiato per il trionfatore delle urne greche si commette un errore madornale. Questa cecità è in grado ancora di produrre catastrofi.

l’Unità 19.6.12
Bindi: non previsti dalla Costituzione i matrimoni gay


«Ci atterremo ai contenuti della Costituzione e a una consolidata giurisprudenza che non prevede il matrimonio per le coppie omosessuali. Sulla scia del lavoro fatto escludo che il programma del Pd conterrà questa proposta», dice Rosy Bindi in una intervista ad Avvenire. Ma precisa: «Avvertiamo il dovere di regolare unioni di fatto e di individuare, senza confusioni con la famiglia fondata sul matrimonio, i diritti e i doveri personali che ne derivano». A distanza, però, il presidente Arcigay, Paolo Patané, contesta: non è vero che la Costituzione «non prevede» il matrimonio gay: non c’è alcun «impedimento» in merito, «quello di Bindi è un rifiuto ideologico».

l’Unità 19.6.12
Persona e diritti. Ora il Pd ha una base comune più solida
I principi della nuova «carta etica» saranno punto di riferimento per l’apertura del dibattito pubblico e per future iniziative legislative
di Pierluigi Castagnetti


Concordo con Pier Luigi Bersani che il documento sui diritti, varato dalla commissione presieduta da Rosy Bindi, «è una base di altissimo profilo che ci mette in grado di inquadrare le decisioni che dovremo prendere». Bisogna ricordare infatti che il mandato assegnato al gruppo di lavoro non era quello di elaborare proposte di legge, ma definire finalmente una matrice culturale non semplicemente «ibrida», ma «comune», in cui possano riconoscersi i militanti e gli elettori del Partito democratico.
Un lavoro non facile perché, non dimentichiamolo mai, il Pd non è un partito creato in un laboratorio politologico attorno a un manifesto predisposto da qualche ottimato sceso da Marte, ma è nato nel fuoco di una dura battaglia politica, in cui si confrontano progetti politici alternativi di governo della modernità. Si riconobbe sin dall’inizio che su alcuni temi si sarebbe dovuto lavorare ancora per cercare una sintesi, non di mera mediazione, ma di chiara indole creativa, insomma un passo in avanti rispetto al passato. L’idea era, ed è, quella di mettere in dialogo i diversi approcci culturali e antropologici presenti nel partito per ricavarne un «prodotto culturale» nuovo su cui, come ho già detto, ognuno possa non soltanto riconoscersi ma anche sentirsi arricchito e aiutato ad allargare il proprio orizzonte di partenza.
Un compito non facile. All’inizio non era garantito l’esito e, se giudichiamo la qualità della nuova «carta dei diritti», possiamo dire che il tentativo è riuscito. Nel documento non ci sono infatti né reticenze né rinvii.
Si poteva fare di più? È sempre possibile fare meglio, ma io penso che sia stato fatto molto, al punto da sorprendere tanti osservatori esterni che non sono soliti fare sconti al Pd, o altri che non sono più abituati ad attendersi dai partiti prodotti culturali solidi e innovativi. Mi piacerebbe che, almeno in questa fase, non fossimo proprio noi a svalutare ciò che siamo stati capaci di fare, anche solo dimostrando di non cogliere gli elementi di novità pressoché «unica» nella pubblicistica di partito. Fare cultura, fondare un pezzo tanto delicato e difficile di sostrato culturale, non è frequente, soprattutto in un tempo in cui anche la politica si sta abituando a pensieri istantanei e immediati, cioè privi di mediazione con ciò che ci circonda e ciò che ci attende.
Il lavoro della commissione Bindi costituirà, infatti, non soltanto una base per successive iniziative legislative che vogliano intrecciare e rispondere alle domande nuove sul piano dei diritti, ma un lessico culturale ed etico contemporaneo attorno a cui formare classi dirigenti post-ideologiche, e far discutere tutta la società. Sottovalutarne o snaturarne il significato sarebbe grave errore.
Dopo e con questo documento potremo dialogare, infatti, anche nei gruppi parlamentari con minori reciproche diffidenze, potremo guardarci negli occhi e considerare soluzioni anche diverse agli stessi problemi, poiché tutti si parte da una nuova base comune, e non più da precedenti ideologie e preconcetti.
Se tutti noi riconosciamo oggi la centralità della persona, l’unità indiscutibile fra corpo e personalità del soggetto umano, il valore essenziale della famiglia come cardine sociale non a caso voluto dalla Costituzione, la inviolabile e assoluta importanza della vita umana, la conciliabilità indiscutibile fra il diritto all’uguaglianza e il riconoscimento delle differenze, e se tutti insieme ribadiamo il valore della laicità come approccio mentale ai problemi oltre che come contesto istituzionale e formale in cui dare soluzioni agli stessi, se tutto ciò accettiamo come patrimonio comune, il Pd avrà realmente fatto un passo in avanti importantissimo nella definizione della propria identità.
Un patrimonio che comprende anche il riconoscimento e il rispetto delle ulteriorità e delle diversità che ancora permanessero tra noi e che rappresenterebbero, a quel punto inevitabilmente, solo un «residuo» e non un’alterità radicale.

l’Unità 19.6.12
Non è più tempo di ambiguità. È necessario scegliere
Serve più coraggio e questo non significa essere estremisti, ma dare risposte chiare al Paese su temi come quelli che riguardano le unioni omosessuali
di Anna Paola Concia


Serve più coraggio e questo non significa essere estremisti, ma dare risposte chiare al Paese su temi come quelli che riguardano le unioni omosessuali
Ho partecipato a tutte le riunioni del comitato diritti del Pd presieduto da Rosy Bindi in questo anno, così come lo hanno fatto in molti. Ma non tutti; chi lo ha fatto ha dimostrato una volontà vera di confrontarsi. A partire dal professor Nicoletti, l’estensore del testo, che ringrazio. Il dibattito all’interno del comitato è stato vero per molti di noi, sincero, a volte duro e per molti, non per tutti, figlio di una grande onestà intellettuale. I componenti venivano da storie e anche da esperienze diverse. Erano presenti professori universitari tra cui Aldo Schiavone e Claudia Mancina, che è una dirigente del Pd ed è stata a lungo parlamentare, Luigi Manconi, anche lui politico di lungo corso, dirigenti politici come Ettore Martinelli e poi tanti di noi che oggi siedono in Parlamento, come Barbara Pollastrini, Ignazio Marino, Gianni Cuperlo, Marina Sereni, Margherita Miotto, Pierluigi Castagnetti.
Sensibilità diverse, ma unite dall’appartenenza a un partito e con la volontà comune di costruire una idea di società, di comunità, rispondente ai sogni e ai bisogni di cittadine e cittadini.
Una volontà non priva di ostacoli, ma la volontà è già una buona cosa.
A volte nel confronto tra noi ci siamo arenati, a volte abbiamo avuto la sensazione di non farcela a costruire una posizione comune, a volte ci siamo sentiti più vicini.
In molti interventi apparsi in questi giorni su questo giornale e su altri, ricorre l’espressione «passo avanti». Mi viene un po’ da sorridere e mi viene da rispondere: e ci mancherebbe altro! Dovevamo fare passi indietro? Siamo stati chiamati appunto per fare passi avanti, cari amici e amiche. Siamo stati chiamati per stabilire un percorso, per tracciare una strada, per formulare principi dentro i quali un grande partito progressista dovrà dare risposte al grande tema dei diritti civili e delle libertà.
E qui viene il punto; il documento, nella sua filosofia, ha il grande limite di essere un testo «col freno a mano tirato». Non è coraggioso, ed essere coraggiosi, per favore, non vuol dire essere estremisti, laicisti, ma essere chiari, risoluti, e avere nel cuore e nella testa la volontà di costruire un Paese migliore, migliore per tutti. Vuol dire avere a cuore la laicità delle istituzioni, vuol dire non volere lo Stato etico, ma volere etica nella politica. Lo ha detto anche Bersani nella sua intervista di domenica su questo giornale: c’è bisogno di decisioni più coraggiose rispetto al documento. E su un punto mi voglio soffermare per spiegare meglio la mia posizione. L’ho detto esplicitamente nell’ultima riunione e lo ripeto da sempre (e lo stesso Nicoletti ha dovuto riconoscerlo): non siamo riusciti a sciogliere il nodo politico della distanza che, in questo anno di lavoro, ha diviso me e un gruppo di altri da Rosy Bindi e altri: io sono favorevole ai matrimoni omosessuali e lei è favorevole ai Dico, ovvero ai diritti individuali.
Fino all’ultima riunione ho sollevato la questione insieme ad altri, supportata dalle parole di Bersani: bisogna riconoscere le coppie omosessuali e dare diritti e doveri alle coppie.
In quel testo non è scritto chiaramente, anzi c’è scritto altro.
Per questo non ho condiviso il fatto che sia stato licenziato così.
Non a caso Rosy Bindi domenica su Avvenire sosteneva che bisogna riconoscere i diritti individuali. Non solo, affermava di essere «scientificamente» contro le adozioni gay! Ma che libri ha letto? Lei ci legge questo? Allora io ci leggo che si può fare il matrimonio omosessuale e le adozioni. No, cari amici e care amiche, non è questo il metodo e alla presidente Bindi l’ho sempre detto. Ora il nodo è esattamente questo, nodo tutto politico. E il Pd ha il dovere nelle sue sedi assembleari di sciogliere questo nodo, come altri presenti in questo documento. Noi dobbiamo fare proposte chiare al Paese, su questo come su altri temi; è finito il tempo delle ambiguità. È il tempo delle scelte e se questo tempo comporterà discussione, dibattito politico all’interno del partito, ben venga, tutta salute. E alla fine democraticamente su quelle scelte ci conteremo.

Repubblica 19.6.12
L’economia e i diritti civili
di Chiara Saraceno


I diritti civili e di libertà sono secondari rispetto a quelli sociali ed anche alla sola, certo importantissima, sicurezza economica? Solo chi è sicuro di arrivare a fine mese può permettersi il lusso di rivendicare il diritto al riconoscimento dei propri diritti di libertà? Le argomentazioni di Fioroni contro l’impegno di Bersani a fare della questione del riconoscimento delle coppie omosessuali un tema della agenda politica del Pd sembravano suggerire proprio questo. «Le persone che incontro non mi chiedono di coppie gay e di testamento biologico... Vogliono sapere di fisco e di esodati, di occupazione e di misure per la crescita », aveva dichiarato, infatti, Fioroni, collocandosi in un’ultra-secolare tradizione di politici di ogni colore e orientamento che, di fronte alle rivendicazioni di diritti e di riconoscimento da parte di gruppi discriminati, hanno opposto questioni di priorità. Di volta in volta si tratta della priorità della questione operaia rispetto alla parità tra uomini e donne, della priorità dello sviluppo rispetto alla riduzione delle disuguaglianze, della coesione sociale, familiare, di gruppo etnico o religioso rispetto alla libertà degli individui che ne fanno parte. E l’elenco può continuare.
Occuparsi in primo luogo dei bisogni materiali delle persone può sembrare un atteggiamento ragionevole. Ma stabilire una graduatoria tra diritti di libertà e bisogni di sussistenza rischia di ridurre i primi ad un lusso di cui si può fare a meno. Non solo, comunica l’idea che i diritti civili, propri, ma soprattutto degli altri, siano materia secondaria, comprimibile a piacere, secondo le proprie priorità e non il fondamento essenziale di ogni altro diritto. È altamente probabile che gli individui e le famiglie non si interroghino ogni giorno sulle questioni dei diritti degli omosessuali, o sul diritto ad essere lasciati morire con decenza e in pace, o al ricorso alla riproduzione assistita, o a tempi di ottenimento del divorzio decenti. La sicurezza e l’insicurezza economica, come offrire ai propri figli un futuro non troppo incerto, come affrontare la fragilità della vecchiaia sono certamente temi più quotidiani. È giusto che costituiscano una parte consistente dell’agenda politica. Ma questo non significa che debbano prevalere su, o siano in alternativa alle questioni di libertà personale e civile. Un’agenda politica deve essere capace di integrare entrambe le dimensioni, soprattutto in periodi in cui l’insicurezza economica rischia di far cancellare molte altre questioni, a partire da quelle della democrazia, dei rapporti tra poteri più o meno forti e tra politici e cittadini per finire a quelle della intolleranza, della mancanza di rispetto per gli altri da sé.
Il documento sui diritti preparato da una apposita commissione del Pd sembra andare proprio in questa direzione. Esordisce, infatti, dichiarando che: «Un partito democratico non può non riaffermare che tra i diritti cosiddetti civili e quelli cosiddetti sociali e del lavoro c’è un rapporto di mutua implicazione: la natura a un tempo singolare e relazionale di ogni persona fa sì che la tutela dei primi non possa prescindere dai secondi, e viceversa». Non solo, si parla di coscienza del limite, di diritto mite, di pluralismo delle visioni etiche. La posizione di Fioroni sembra quindi isolata. Ma è proprio vero? Temo di no. Il documento, chiaramente frutto di molte mediazioni, non è stato votato dalla commissione che lo ha redatto, a motivo di forti dissensi su punti cruciali, sul modo di affrontare proprio quei diritti che Fioroni ritiene secondari, in particolare il diritto delle persone omosessuali a veder socialmente e legalmente riconosciuto il proprio diritto a fare famiglia e il diritto a rifiutare non solo le cure, ma anche l’idratazione e l’alimentazione forzata. Su questi due punti il documento, o glissa, o si avvita in una serie di dinieghi e limitazioni che riducono fortemente ogni possibilità di effettivo riconoscimento.
Dopo aver proclamato enfaticamente per diverse pagine la necessità del dialogo e del pubblico dibattito, su questi specifici punti, quelli che appunto richiedono maggiore coerenza tra proclamazione del rispetto per la persona, la sua libertà, integrità e valore, la commissione non è stata in grado di raggiungere un consenso. La decisione circa le ulteriori mediazioni e compromessi da fare è stata affidata a Bersani, o forse a qualche procedura di votazione a maggioranza. Un segno della persistente difficoltà del partito ad affrontare laicamente i diritti di libertà, non appena si esca dal sentiero stretto di quanto è acquisito tradizionalmente.

Repubblica 19.6.12
Adolescenti, eroina e farmaci un progetto contro le fragilità
di Vanessa Cappella


Gli adolescenti italiani sono nella top ten europea per il consumo di alcol e droghe, attestandosi in alcuni casi addirittura sopra la media: a rivelarlo è un’indagine condotta dall’Istituto di Fisiologia Clinica Cnr di Pisa nell’ambito della ricerca Espad 2011. Secondo i dati, il 36% dei nostri sedicenni fuma regolarmente sigarette (contro il 28% dei coetanei europei), il 21% ha provato almeno una volta la cannabis (contro il 17%), il 63% ha bevuto almeno una volta alcol nell’ultimo mese (contro il 57%): tuttavia, a differenza del resto d’Europa, non spopola la pratica del binge drinking, ovvero bere solo per ubriacarsi. Cresce invece l’assunzione di psicofarmaci e sedativi senza ricetta medica, che coinvolge il 10% dei sedicenni
italiani contro il 6% degli europei, mentre per l’uso di sostanze stupefacenti illegali i nostri adolescenti rientrano nella media del 6%. Secondo l’inedita ricerca Ipsad, condotta dal-l’Istituto di Fisiologia Clinica Cnr sulla fascia di età 15-64, sono diminuiti in Italia i consumatori di cannabis, cocaina, stimolanti e allucinogeni, ma aumenta il numero di chi sperimenta eroina, in endovena, fumata o sniffata, senza diventarne necessariamente consumatore abituale. È soprattutto per queste persone che Federserd, l’associazione degli operatori per la cura delle dipendenze, ha lanciato il progetto Star, volto a migliorare e ampliare la rete di accoglienza dei Ser.T (Servizi per le Tossicodipendenze).
«I due terzi dei nostri pazienti soffrono di disturbi da eroina: è preoccupante che altrettante persone invece non si facciano curare», afferma Alfio Lucchini, presidente di Federserd. «Il nostro dovere è allora quello di facilitare l’accesso alle terapie e far capire quanto sia importante
investire sul recupero e la prevenzione». Tra le nuove dipendenze, in Italia è in fase di decollo il gioco d’azzardo: dati Ipsad rivelano che nel 2008 il 37,8% delle persone tra 15 e 64 anni aveva giocato d’azzardo almeno una volta nella vita, ma
nel 2011 la percentuale arriva al 44,3%. Gratta e Vinci, scommesse sportive, poker e simili esercitano grande attrazione sui giovani tra i 15 e i 19 anni, coinvolgendo, solo nel 2011, circa un milione di ragazzi e ragazze, di cui 650mila minorenni.
In 150mila, secondo Espad Italia, rischiano la dipendenza. «Nei periodi di crisi economica, le fragilità si moltiplicano», denuncia Pietro D’Egidio, direttore del Ser.T di Pescara e segretario esecutivo di Federserd. «Più persone fragili vuol
dire più malati, anche gravi, soprattutto in un momento in cui lo Stato utilizza le dipendenze in maniera non etica e non rinuncia a un euro dei 10 miliardi incassati nel 2011 con il gioco d’azzardo patologico».

Repubblica 19.6.12
Oggi torna in aula il nuovo testo di legge
Il divorzio più lungo del mondo
di Maria Novella De Luca


«Siamo stati insieme vent’anni, abbiamo avuto due figli, meravigliosi. Poi, un giorno, era l’estate del 2000, Marco mi ha detto che era finita, nella sua vita c’era un’altra donna, una nuova passione. In fondo me l’aspettavo, se un amore si esaurisce lo si capisce in due, ma i bambini erano ancora piccoli, credevo fosse giusto restare insieme per loro. Ci abbiamo messo 8 anni a dividere le nostre vite, abbiamo sofferto, litigato, ma sono stati i tempi della legge e del tribunale di Napoli a far diventare il nostro divorzio un calvario». Storia di Sara, di Marco e di tutti gli altri. Storie di un’Italia dove per divorziare ci vogliono 4 anni se tutto va bene, e chissà quanto se le cose si mettono male. Avvocati, giudici, due sentenze e migliaia di euro. «Perché la legge prima di tutto ti impone tre anni di attesa — aggiunge Marco, oggi risposato e di nuovo padre — come se la fine di un amore, che si spegne anno dopo anno, fosse qualcosa che si può recuperare

Divorzio breve, si ricomincia. Da oggi si torna in aula. Ma nulla è scontato, dopo il fallimento della votazione di tre settimane fa, naufragata sotto l’assalto di una nuova formazione trasversale di “paladini del matrimonio”, che vedono nell’accorciamento delle cause di separazione, una minaccia all’istituto della famiglia. (Il nuovo testo prevede infatti che gli anni di separazione passino da tre ad uno se nella coppia non ci sono figli, e da tre a due in presenza figli minori, con la divisione immediata dei beni comuni). Eppure 40 anni di statistiche, dal 1970 ad oggi, hanno dimostrato che le ricomposizioni tra “ex” sono davvero rare. E oggi ogni mille abitanti si contano 297 separazioni e 181 divorzi, mentre i matrimoni in media non durano più di 15 anni, e tra le coppie più giovani spesso la coppia si rompe alla crisi del settimo anno. Tanto che l’Istat da tempo ha creato una banca dati sulla “instabilità coniugale” degli italiani. I quali ormai fuggono all’estero, in Romania soprattutto, 6 mesi e il divorzio è fatto e trascritto in Italia, racconta l’avvocato Luca Ruggeri, studio a Frascati specializzato nel nuovo business del divorzio comunitario. «Per l’intera procedura, assistenza in Italia e all’estero, chiediamo 2800 euro, viaggi esclusi. Le richieste aumentano di giorno in giorno, ma noi come studio accettiamo soltanto coppie senza figli, perché in presenza di minori le cose diventano più complicate». «Coppie che ci hanno ripensato? In oltre sessant’anni ne ricordo soltanto una, forse due, e di divorzi ne ho seguiti a migliaia. Quando si arriva alla separazione, quando si bussa alla porta dell’avvocato, non si torna più indietro. E quei tre anni di attesa, quell’assurda pausa di meditazione in attesa del divorzio, non è mai servita a nessuno. È soltanto una cappa di piombo che provoca danni a tutti». Le parole di Cesare Rimini, il più famoso degli avvocati matrimonialisti italiani, ma anche scrittore e narratore, non lasciano spazio a dubbi: l’attuale legge sul divorzio è pessima, non funziona, è punitiva e di certo non serve a rincollare i pezzi, anzi i cocci, di un amore. Ma attenzione, mette in guardia Rimini, con il disincanto di chi teme anche questa volta il naufragio della discussione sui veti del voto cattolico. Il nuovo testo che l’aula dovrebbe votare «non è granché», visto che prevede, se ci sono figli minori, due anni di separazione prima di poter chiedere il divorzio. «Credete forse che i bambini quando i genitori si dividono calcolino i mesi che passano tra una sentenza e l’altra? Per loro l’unica cosa che conta è la serenità. E prima le situazioni si definiscono meglio è. Bisognerebbe eliminare i due gradi di giudizio, arrivare al divorzio immediato. O almeno che ci sia soltanto un anno di separazione per tutti, figli o non figli». Invece il mondo di chi si lascia è un mondo di attese. Migliaia di giorni che si trasformano in an- ni. E se il divorzio non è consensuale, il terreno di scontro può diventare infinito, una guerra dei trent’anni in cui ognuno resta prigioniero dell’altro, i figli si trasformano in “migranti” dell’affido congiunto, e tutti comunque si ritrovano più poveri. Alla Lid, Lega italiana per il divorzio breve, associazione radicale che prende il nome dalla famosa Lega fondata da Marco Pannella negli anni Settanta, ogni giorno arrivano decine di storie. «Molte raccontano una vita sospesa — spiega Diego Sabatinelli, segretario della Lid — e c’è una grande attesa per la riforma della legge. Anche se il vero cambiamento, così da sempre chiedono i radicali, sarebbe arrivare al divorzio immediato e in un unico giudizio». Vite sul filo. Come quella di Simona che ha 35 anni, vorrebbe un figlio, ma il suo compagno Daniele, che di anni ne ha 50, si è separato da poco, e l’attesa perché lui sia “libero all’anagrafe”, come dice Simona, “sembra infinita”. «Daniele non tornerà mai con sua moglie, se tutto va bene riusciremo a sposarci soltanto nel 2016, ma fino al divorzio il suo patrimonio non potrà essere svincolato da quello della moglie, lui è un impiegato, io ho un lavoro precario, così per noi è quasi impossibile fare un progetto, pensare di comprare una casa. Certo non aspetteremo la sentenza per avere il nostro bambino, ma questo accanimento contro chi vuole divorziare mi sembra davvero ingiusto». Invece la Camera, dove oggi il nuovo testo verrà votato, potrebbe decidere che la legge va bene così, che il divorzio deve restare “lungo” e fermo alla riforma del 1987, quando i tempi della separazione passarono da 5 a 3 anni. Allargando sempre più la distanza tra la politica e le persone, visto che secondo un sondaggio Eurispes di pochi giorni fa, l’82% degli italiani è favorevole, anzi auspica, un accorciamento dei tempi del divorzio. Martina Pesce ha soltanto 30 anni e si definisce oggi “ragazza madre” di Alessia, ragazzina sveglia con gli occhi neri. «Aveva il doppio della mia età, e l’ho amato con tutta l’irragionevolezza dei diciott’anni. Quando l’ho lasciato mi ha imposto una separazione giudiziale tremenda, tanto che per chiudere non ho preteso nulla, ho perso anche la casa che mi avevano lasciato i miei genitori... Ma Alessia non è riuscito a portarmela via». E parla di avvocati squali, di tribunali inaffidabili e di periti incompetenti Gaetano, ex dirigente d’azienda, oggi retrocesso a quadro dopo un lungo periodo di mobilità, nel pieno di una separazione burrascosa, e che soltanto pochi mesi fa, dopo 4 anni, è riuscito e rivedere i propri figli. Una storia dove la perdita degli affetti si somma oggi alla povertà, come per molti padri separati. «In questa battaglia, dal 2008 ad oggi, ho perso tutto, beni, proprietà, per anni non ho potuto fare il padre, e ogni mese per vivere mi restano in tasca non più di 300 euro. Ma al di là delle guerre personali, chi divorzia si ritrova intrappolato in un sistema di attese e di rinvii, e così la vita va in pezzi».

Repubblica 19.6.12
Se l’amore finito ha bisogno di tempi brevi
di Michela Marzano


“E vissero per sempre felici e contenti!”. Nelle fiabe, dopo mille peripezie, tutto finisce bene. “Lui” e “lei” si incontrano, si sposano, hanno tanti bambini e si vogliono bene per sempre. Nelle fiabe appunto. Dove l’amore è perfetto perché “lui” o “lei” sono capaci di darci tutto quello che vogliamo, corrispondono alle nostre aspettative, non ci deludono, non ci tradiscono, non cambiano… Peccato che nella vita le cose siano molto più complicate. E che quel “per sempre” si scontri spesso contro il muro della realtà. Una realtà fatta di incomprensioni e di tradimenti. Di cambiamenti e di sconfitte. Perché “lui” non è capace di ascoltarci e di capirci, torna a casa sempre più tardi, è nervoso e sfuggente. Perché “lei” assomiglia sempre di più a sua madre, non ha nessuna fiducia in se stessa, si occupa solo dei bambini… E allora, dopo un po’, ognuno vive separatamente. Oppure si litiga per qualunque cosa e la vita comune
diventa un inferno.
Non perché uno dei due sia “colpevole”. Non perché si prenda il matrimonio alla leggera. Non perché nel mondo contemporaneo non esistano più valori. Solo e banalmente perché la vita è così. È complicata e difficile. E poi si cambia. Ognuno di noi cresce, matura, si trasforma. E talvolta non ce la fa proprio più a continuare a vivere con la stessa persona. Anche se quando ci si era sposati si era sinceri. Anche se la volontà di costruire una famiglia insieme c’era tutta. Allora perché non separarsi e non divorziare? Perché trascinarsi e rovinare tutto, anche i ricordi più belli della vita in comune?
Dopo l’introduzione nel 1970 del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano e il referendum del 1974, anche in Italia è possibile sciogliere giuridicamente il vincolo matrimoniale. Oggi, con la proposta di un “divorzio breve” si tratta solo di rendere le procedure più flessibili e meno complicate. Un passo ulteriore, ma necessario, per tutti coloro che si trovano ad affrontare questo momento di lacerazione, come accade già nella maggior parte dei paesi europei. Perché nonostante tutto, non si divorzia mai a cuor leggero. Esattamente come non ci si separa facilmente. Che si tratti di una separazione o di un divorzio, è sempre un momento di rottura. E non è certo la presenza o l’assenza di ostacoli giuridici che determinano o meno la fine di una storia d’amore. Talvolta l’amore è finito da tempo, e il divorzio è solo un atto formale. Talvolta anche dopo il divorzio, alcune persone non riescono a fare il lutto della perdita dell’altro e continuano a non separarsene psicologicamente.
Divorziare significa prendere atto che la vita in comune non è più possibile. Significa “perdere” una persona che si è amata, e che forse si ama ancora. Significa lasciarsi alle spalle quel progetto di vita in cui si era creduto e per il quale ci era sicuramente battuti a lungo. E quindi anche “perdonarsi” e “perdonare” per quella storia ormai finita, che niente e nessuno può far continuare. Anche quando sarebbe meglio, spesso per motivi materiali, restare insieme. Oppure anche per i figli, come si sente dire ancora oggi. Come se per i figli fosse meglio assistere alle scenate tra i genitori, oppure all’indifferenza reciproca che talvolta si installa in una coppia e che spegne, poco a poco, ogni passione.
Separazione e divorzio fanno parte della vita. È così. Perché accade che le cose finiscano. E non sono certo le regole che impongono anni di separazione prima di chiedere un divorzio che possono funzionare come un deterrente. Al contrario. Aspettare anni prima di poter presentare una richiesta di divorzio rischia di rendere i rapporti tra i due coniugi ancora più tesi, e di inasprirne talmente le polemiche che, prima o poi, uno dei due rischia di crollare. Certo, non tratta di introdurre una procedura lampo, come nel 1792 in Francia, quando bastava che il marito andasse in comune e chiedesse il divorzio per ottenerlo. Si tratta solo di permettere a due persone che non vogliono (o non possono) più restare insieme di mettere fine al proprio matrimonio in tempi ragionevoli. Senza per questo immaginare che il divorzio sia semplice. Non lo è mai, anche quando è “breve”. Anche se permette di prendere atto da un punto di vista giuridico della fine di una storia, prima di cominciarne una nuova. Perché l’amore, anche se tra due persone non c’è più, dura per sempre. E anche se, a differenza delle fiabe, non è perfetto, è pur sempre il motore della vita. Anche quando cambia forma. Anche quando si rivolge ad un’altra persona.

l’Unità 19.6.12
Bertone attacca: giornalisti come Dan Brown
In un’intervista a Famiglia Cristiana la risposta del segretario di Stato alle «calunnie» di Vatileaks
«Inaccettabile la pubblicazione delle lettere al Papa. Conflitto tra libertà di stampa e privacy»
La versione del cardinale su Gotti Tedeschi: «Allontanato per i rapporti deteriorati»
di Roberto Monteforte


«Corvi e Ior... solo calunnie». È la risposta del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone alla campagna mediatica sulla guerra di potere e gli intrighi che si starebbe consumando Oltretevere. Rompe il riserbo il più stretto collaboratore di Benedetto XVI che di questa campagna è stato il principale bersaglio con l’obiettivo di un suo allontanamento. In una intervista rilasciata in esclusiva al settimanale Famiglia Cristiana, Bertone definisce «meschinità», «menzogne», «calunnie», «favole e leggende sulla vita della Chiesa» le cose scritte in questi mesi. Altro che lotta per la trasparenza e la pulizia in Vaticano. Per il segretario di Stato con la pubblicazione di documenti riservati, sottratti anche al pontefice, si esprimerebbe, invece, una «volontà di divisione che viene dal maligno» che persegue l’indebolimento della Chiesa, proprio perché «è una roccia che resiste alle burrasche». Ma, assicura, «questo tentativo è destinato a fallire». Così passa all’offensiva il cardinale segretario di Stato. Non a caso l’Osservatore Romano rilancia in prima pagina la sua intervista. È con i giornalisti, in particolare quelli italiani, che polemizza Bertone. Ritiene che si sottovaluti o nasconda l’azione positiva della Chiesa. Vi è chi arriva ad imitare lo scrittore Dan Brown, «ad inventare favole o a riproporre leggende». Ma, assicura, falliranno. La Curia e la Chiesa intera resterà unita attorno al Papa. Questa unità è fondamentale per il porporato che non a caso richiama l’intervista dello stesso tenore rilasciata all’Osservatore dal decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano considerato suo avversario e riferimento del «partito diplomatico» nella Curia romana. «Nessuna lotta di potere in Curia. C’è un clima di comunione» assicura il segretario di Stato che non nasconde il «momento faticoso» che vive la Chiesa. «Nessuno di noi intende nasconderne le ombre e i difetti» ammette il segretario di Stato. Lo fa ricordando il costante invito del Papa «alla conversione di vita e alla purificazione». Descrive un pontefice addolorato per il coinvolgimento del suo maggiordomo, Paolo Gabriele l’unico indagato per il caso «Vatileaks». Papa Ratzinger che «vuole si fatta totale chiarezza», assicura Bertone, ha «provato dolore non soltanto per il tradimento di una persona di famiglia e perché sono stati trafugati dei documenti, ma anche perché la normale e legittima dialettica che deve esistere nella Chiesa assume il volto di una contrapposizione che sembra voler dividere tra amici e nemici».
Quindi lancia il suo attacco per la pubblicazione delle lettere indirizzate al Papa definito «un atto immorale di inaudita gravità». Vi vede non solo una violazione del diritto alla privacy sancito dalla Costituzione italiana, che andrebbe tutelato non meno del diritto di cronaca, ma una minaccia anche «per il diritto dei cattolici di manifestare liberamente il proprio pensiero». Sullo Ior e sulle ragioni dell’allontanamento del presidente Gotti Tedeschi ci tiene a puntualizzare che «non lo si deve a dubbi interni riguardo alla volontà di trasparenza, ma al deterioramento dei rapporti tra i consiglieri, a motivo di prese di posizione non condivise». Ai responsabili dello Ior conferma piena fiducia.

il Fatto 19.6.12
Bertone si appella alla legge italiana ma il Vaticano non la rispetta


Meschinità e menzogne”. Il cardinale Tarcisio Bertone tenta di liquidare così le inchieste giornalistiche che negli ultimi mesi hanno portato alla luce vicende che riguardano il Vaticano culminate con l’arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele. Secondo Bertone i giornalisti dovrebbero soppesare “la reale consistenza dei fatti” e smetterla di “imitare Dan Brown” e in Italia “si continua a inventare favole e riproporre leggende”. Perché poi l’articolo 15 della Costituzione italiana non deve essere riconosciuto anche ai cristiani che scrivono al Papa? Sarebbe invece saggio riflettere sul rapporto tra libertà di espressione e “diritto alla privacy”.
In un’ampia intervista a Famiglia Cristiana, il cardinale Bertone condanna l’immagine di una Chiesa in cui regnano intrighi e scontri di potere, opposte cordate, cardinali in lotta tra loro e addirittura implicati nel complotto per “la conquista di un fantomatico potere”. Il Papa, ricorda, ha parlato di “calunnia”, e “forse occorrerebbe fare una catechesi su questo vizio, per recuperare il senso della ricerca della verità” e “della proporzione dei fatti”.
“CI TROVIAMO in un momento faticoso e nessuno di noi intende nascondere ombre e difetti della Chiesa”, ma la Chiesa “è unita attorno al Papa”, e “una roccia che resiste alle burrasche” e “punto di riferimento per milioni di persone e istituzioni nel mondo”, e “per questo si cerca di destabilizzarla”. “Io – spiega – sono al centro della mischia, e vivo queste vicende con dolore”, visto il “tentativo accanito e ripetuto di separare, di creare divisione tra il Santo Padre e i suoi collaboratori, e tra gli stessi collaboratori”: c’è “qualcosa di iniquo” nel voler “colpire coloro che si dedicano con maggior passione e anche maggior fatica personale al bene della Chiesa”.
Un invito a non parlare di Chiesa, in pratica. Con tanto di morale sull’articolo 15 della Costituzione che garantisce la libertà di segretezza della corrispondenza, dimenticando ovviamente il diritto di cronaca e di informazione. “Se chi scrive al Papa vede violato un proprio diritto costituzionalmente garantito in Italia”, quello alla privacy, argomenta Bertone, “qualche problema bisogna pur porselo”. O la Costituzione “prevede cittadini di serie A e di serie B? Si può invece invocare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensierò, previsto dall’articolo 21, per abbattere un altro articolo della medesima Costituzione? É giusto mobilitare l’opinione pubblica in difesa della Costituzione soltanto a fasi alterne? ”.
LE “FASI alterne” appaiono però quelle adottate da Bertone e Lombardo nel decidere se tenere conto o meno delle leggi dello Stato italiano. Bertone è stato sin da subito contrario a fornire informazioni alla Banca d’Italia e ai pm italiani sui movimenti dei conti Ior precedenti al 2011, insieme al direttore generale dello Ior Paolo Cipriani e dai due potenti avvocati del Vaticano, l’americano Jeffrey Lena e l’italiano dello studio Grande Stevens, Michele Briamonte. Fu Ettore Gotti Tedeschi a opporsi al segreto voluto da Bertone. Gotti Tedeschi è stato poi allontanato dallo Ior. Ma non è stata una decisione che va “contro la trasparenza”, dice Bertone nel-l’intervista a Famiglia Cristiana, ma è una storia di “deterioramento di rapporti tra i consiglieri” della banca vaticana. Certo è che adesso Bertone, che invoca il rispetto dell’articolo 15 della Costituzione, potrà collaborare attivamente con i pm.
Sulla mancanza di trasparenza, del resto, anche Moneyval si appresta a bocciare l’azione del Vaticano, come scritto da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano. Ieri padre Federico Lombardi ha dovuto precisare che sulla vicenda “la ricostruzione del Fatto non la si può prendere come oro colato”. (da.ve.)

Corriere 19.6.12
L'estrema autodifesa del Segretario di Stato
Le parole di pietra e di troppo di Bertone
di Massimo Franco


Le parole del Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, al settimanale Famiglia Cristiana, sono sorprendenti nella loro durezza. Ma vanno soprattutto comprese. Riflettono la condizione psicologica di un «primo ministro» vaticano segnato dagli scandali che hanno sfiorato lui e alcune persone che gli sono vicine. E, senza volerlo, lasciano affiorare la sua inquietudine per le notizie che potrebbero essere contenute nel memoriale trovato dalla magistratura a casa dell'ex presidente dello Ior, Ettore
Gotti Tedeschi. Il tentativo di scaricare solo sui giornalisti vicende nate e marcite nei meandri della
Curia richiama le tesi più viete su un complotto contro la Santa Sede.
Ma si tratta di una versione opinabile, vista l'origine delle rivelazioni: nonostante l'opacità e la strumentalità dell'operazione dei «corvi» vaticani. Forse, la chiave per capire la sua autodifesa estrema sta lì dove denuncia «il tentativo accanito e ripetuto di separare, di creare divisioni tra il Santo Padre e i suoi collaboratori, e tra gli stessi collaboratori». Si coglie l'eco attutita delle richieste di dimissioni contro Bertone, e delle voci su contrasti crescenti fra lui e monsignor Georg Gänswein, segretario personale di Benedetto XVI: dissapori che in realtà l'offensiva degli ultimi mesi avrebbe fortemente ridotto e riassorbito in nome dell'esigenza di difendere il papa e la Chiesa. E il fatto che il segretario di Stato additi senza citarlo anche monsignor Georg conferma la volontà di serrare le fila, di arroccarsi contro i «nemici».
L'accusa ai giornali di «inventare favole e riproporre leggende», e di «cercare di destabilizzare» il Vaticano sembra funzionale a questo schema. Quando il segretario di Stato si definisce «al centro della mischia» e dice di vivere queste vicende «con dolore», c'è da credergli: è infatti considerato uno dei personaggi-chiave per capire il conflitto in atto da anni Oltretevere e fra Curia e Conferenza episcopale. Dall'avventura dell'ospedale San Raffaele ai progetti frustrati di un maxi polo sanitario, fino alle convulsioni dello Ior, Bertone è stato una stella fissa di ogni manovra e di ogni operazione finanziaria. E i suoi avversari interni non hanno perso occasione per imputargli una gestione ritenuta ora disinvolta, ora maldestra: oltre alla protezione offerta ad alcuni personaggi a dir poco screditati.
Anche i documenti riservati filtrati dall'Appartamento papale insieme a lettere imbarazzanti per lo spaccato umano che rivelano, sono stati visti come una controprova della sua inadeguatezza: forse perfino in maniera ingenerosa. Eppure, in questa fase è difficile trovare in Vaticano qualcuno disposto a giurare sul dimissionamento di Bertone da qui a fine anno, quando compirà 78 anni: l'età alla quale fu fatto dimettere il predecessore, Angelo Sodano. E il segretario di Stato attacca la violazione dell'articolo 15 della Costituzione che difende la segretezza della corrispondenza, per la pubblicazione delle lettere destinate al papa. Dietro si indovina anche una larvata irritazione nei confronti della magistratura: soprattutto per il sequestro del memoriale di Gotti Tedeschi. Anche se nell'intervista a Famiglia Cristiana Bertone assicura che il siluramento del presidente dello Ior non va letto come un atto «contro la trasparenza» finanziaria.
Lo spiega invece come conseguenza di un «deterioramento di rapporti tra i consiglieri»: spiegazione verosimile e insieme riduttiva. Che i rapporti al vertice della banca vaticana fossero peggiorati da tempo è una tesi diffusa, e probabilmente fondata. Ma questa versione, si aggiunge, va completata segnalando l'irritazione per una gestione accusata di compromettere la sovranità della Santa Sede sull'altare della trasparenza finanziaria. Insomma, troppi riflettori sulle operazioni e i conti dell'Istituto per le opere di religione. Le incognite di ritorno sull'inserimento dello Ior nella «white list», la «lista bianca» delle banche virtuose riconosciute come tali a livello mondiale, sono un'ipoteca imbarazzante dopo quanto è successo.
La mossa di Bertone sembra dettata da un disperato bisogno di uscire dall'angolo e trovare sponde e alleati, fermando chi da tempo invoca un suo passo indietro. Il segretario di Stato conta sui malumori contro i giornali, i magistrati italiani e i «traditori», di quanti sono convinti che si vogliano solo mettere in cattiva luce lui e monsignor Georg: i due principali collaboratori di Benedetto XVI. Non è infrequente ascoltare affermazioni secondo le quali la lealtà verso il papa «è mediata dalla lealtà verso il segretario di Stato». Ma questo non aumenta la chiarezza, anzi. L'esigenza di alzare un muro a protezione del papa si sovrappone al sospetto che una parte del mondo stretto intorno a Bertone faccia quadrato anche per difendere se stesso.

Corriere 19.6.12
Lo Ior e l'antiriciclaggio Ecco il rapporto degli ispettori Moneyvall
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — Ior e antiriciclaggio, il Vaticano se la potrebbe cavare. Il rapporto degli ispettori di Moneyvall (il gruppo regionale del Gafi, cioè l'agenzia mondiale di contrasto al riciclaggio del denaro sporco) assegna infatti alla Santa Sede una valutazione negativa in 8 dei 49 criteri standard in base ai quali viene attualmente valutata la trasparenza finanziaria di un Paese. Otto (dei 16 punti Key&Core, cioè cruciali), sono stati infatti giudicati partially compliant, «parzialmente aderenti», agli standard, o «no compliant» cioè «non aderenti». Ma il punteggio complessivo assegnato al Vaticano dal rapporto ispettivo Moneyvall — che verrà discusso a Strasburgo il 4 luglio — rimane pur sempre al di sotto dei 10 punti negativi.
Solo quando viene raggiunto questo limite, il paese che ha chiesto a Moneyvall di entrare nella white list (il Vaticano in questo caso) non l'ottiene e anzi viene trasferito alla valutazione del temibile Ircr del Gafi, copresieduto dall'italiano Giuseppe Maresca (responsabile dell'ufficio V del ministero dell'Economia per la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a fini illegali) e dall'americano Daniel Glaser. L'Ircr ha infatti il potere di sottoporre il Paese che passa sotto il suo controllo ad una procedura rigida di ottemperanza di tutti i criteri, che dura due anni, ed eventualmente può stabilire il deferimento dello Stato in una piuttosto affollata, per la verità, grey list di Paesi (della black list fanno parte solo Iran e Corea del Nord).
Quindi, il Vaticano, in base alle anticipazioni che circolano del rapporto che è stato consegnato a tutti i paesi aderenti ed osservatori, potrebbe avercela fatta, anche se il lavorio diplomatico è tuttora in corso e la decisione verrà presa a Strasburgo.
L'Ircr è in sessione in questi giorni a Roma, insieme ad altri gruppi del Gafi. Seicento tra funzionari e dirigenti di alto rango, e alcuni ministri del Tesoro, provenienti da 187 paesi, (oltre ai 34 paesi aderenti, la Commissione europea, il Consiglio dei Paesi del Golfo e gli otto gruppi regionali) sono riuniti nella capitale italiana per il Plenary Meeting che si apre ufficialmente domani, ma che sotto la presidenza italiana di Giancarlo Del Bufalo, già da domenica sta finendo di mettere a punto i nuovi criteri antiriciclaggio cui ciascun paese dovrà sottostare (scenderanno di numero a 40 in tutto). Ci sarà anche l'avvio dell'esame dei rapporti presentati da paesi aderenti, come Argentina e Turchia, che non hanno ancora applicato le raccomandazioni. «La presidenza italiana che ha anche conseguito l'obiettivo di far proseguire operatività al Gafi in quanto tale, in scadenza a fine 2012 lavorerà fino al 2020, allargando la sua competenza al finanziamento illegale delle armi di distruzione di massa», dice Del Bufalo.
Moneyvall in ogni caso è un organismo indipendente dal Gafi «e considera una scorrettezza anticipare i contenuti dei suoi rapporti prima dell'assemblea», ha dichiarato ieri il portavoce della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi.
Almeno 3 degli 8 criteri su cui la nuova legge antiriciclaggio varata dal Vaticano nel gennaio 2012 (sulla quale è stato molto polemico l'ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi) non ha raggiunto la «sufficienza» sono particolarmente «sensibili». Riguardano infatti i punti 35, 36 e 40 degli standard relativi alla cooperazione internazionale. I nodi sono innanzitutto, l'introduzione nella nuova legge di un cosiddetto «veto» politico da parte della segreteria di Stato vaticana alla richiesta di collaborazione internazionale, in pratica la non automaticità della collaborazione stessa con gli altri paesi. Secondo: la mancanza di un regolamento d'ispezione che permetta all'organismo di controllo vaticano, cioè l'Aif, ispezioni sullo Ior. Terzo: il diniego per quanto riguarda l'accesso «storico» ai movimenti dei conti dei clienti Ior, antecedenti al 1 aprile 2011. Quest'ultimo punto riguarda tuttavia più che gli organismi che monitorano i flussi finanziari, (questo è il lavoro svolto per le banche italiane dall'Uif della Banca d'Italia) le istruttorie aperte dalla magistratura italiana, su segnalazione dell'Uif per fatti del passato, in particolare dalla Procura di Roma). Si tratta cioè di un aspetto che coinvolge l'assistenza giudiziaria tra Italia e Vaticano che si esplica attraverso il meccanismo delle rogatorie.
Su questi tre punti, l'Italia però «non intende mollare la presa», dice una fonte qualificata. Ciò vuol dire che si supererà il livello di guardia che farà scattare la bocciatura a Strasburgo, innescando il controllo dell'Ircr? Non tanto questo, si sostiene, in relazione all'ormai prossimo giudizio di Moneyvall (dove il nostro Paese è solo osservatore, la presidenza è assegnata ad un russo e i quattro membri provengono da Romania, Polonia, San Marino e Malta). «Quanto piuttosto in relazione all'operatività dello Ior con le banche italiane».

Corriere 19.6.12
Un progetto liberale per laici e cattolici
di Carlo Calenda, Benedetto Ippolito, Andrea Romano (Italiafutura)


Caro Direttore, Andrea Riccardi coglie un punto fondamentale quando scrive, a proposito della necessità di un nuovo incontro tra laici e cattolici, che «più che di riesumazione di foto dai libri di storia (anche gloriose) c'è bisogno di grandi e coraggiosi disegni per un'Italia che faticosamente si avvia nella complessa globalizzazione».
È opportuno aggiungere che la gravità della crisi italiana, con la profondità delle ferite che il corpo sociale della nostra nazione sta sopportando, non consente di immaginare scorciatoie ispirate solo al buon senso e alla moderazione. Nessun cenacolo di ottimati, anche se animato dalle migliori intenzioni, può davvero pensare di rappresentare di per sé la risposta al drammatico bisogno di ricostruzione civile e democratica che attraversa l'Italia e che rischia di tradursi in formule tanto accattivanti quanto populiste e distruttive. Come scrive Riccardi, occorrono «forze politiche repubblicane capaci di guidare l'Italia in una nuova stagione e di evitare lo scivolamento nell'abisso». Un nuovo incontro tra laici e cattolici potrà e dovrà essere il motore di queste nuove forze: a patto di non immaginare la riesumazione di un modello di partito identitario cattolico che non ha più alcuna ragion d'essere nella stagione storica che viviamo, priva com'è delle costrizioni geopolitiche internazionali e delle dinamiche politiche nazionali che hanno accompagnato nel nostro Novecento la strada del confessionalismo di partito.
L'incrocio storico tra la crisi italiana e la stagione post-secolare, nella quale i cattolici giocano ormai la propria partita a tutto campo e senza la protezione del partito unico, chiede che laici e credenti si ritrovino intorno al valore più ampio della libertà individuale. Quel valore che il cattolicesimo liberale riconosce pienamente come proprio: perché il tema cristiano della persona è l'idea di un essere umano la cui natura individuale è aperta alla socialità senza declinare immediatamente nello Stato, ma dovendo diventare elemento trainante delle istituzioni pubbliche. Il cattolico ha una fede e dunque una verità, ma deve poter compiere il proprio percorso consapevole e responsabile solo ed esclusivamente partendo dalla libera socialità e senza chiedere alla politica alcuna forma di garanzia legata alla specifica appartenenza religiosa.
Quello stesso valore di libertà individuale è d'altra parte il vero tesoro che attende di essere riscoperto dai laici orientati a una nuova stagione di impegno pubblico e civile. Libertà di crescita economica, innanzitutto, nella convinzione che l'Italia meriti ben più della conservazione di assetti di welfare e di potere ormai inadeguati a reggere la potenza distruttiva della crisi. E se la sinistra tradizionale scommette sul ritorno a un passato che non tornerà è possibile riunire intorno al tema della crescita chi condivide la scommessa sulla riduzione del carico fiscale su lavoro e produzione, sul welfare come motore di mobilità ascendente capace finalmente di valorizzare il potenziale di donne e giovani includendoli dentro un sistema da cui fino ad oggi sono stati esclusi, sull'abbattimento della spesa pubblica e sulla drastica riduzione del ruolo dello Stato.
C'è davvero una grande distanza tra questi temi e le idee cattoliche della crescita come prodotto della libera iniziativa della persona, della sussidiarietà come capovolgimento dei rapporti di sudditanza tra Stato e cittadini? Noi crediamo che non vi sia alcuna distanza reale. E per questo siamo convinti che proprio attorno al tema della libertà individuale possano ritrovarsi quei laici e quei cattolici disponibili ad abbandonare le schermaglie ideologiche da cui è ancora intossicato il nostro dibattito pubblico. Non certo per coltivare la piccola velleità di un piccolo e nuovo partito confessionale, ma per animare quel grande disegno di ricostruzione civile, repubblicana e popolare di cui l'Italia avrà bisogno tra pochi mesi quanto la parola tornerà agli elettori. Per questo è urgente accantonare i tavoli più o meno confessionali, i cenacoli più o meno riservati per aprire con coraggio e trasparenza un cantiere che coinvolga forze sociali e culturali insieme alle esperienze più significative di questo governo. Un processo finalmente aperto, alla luce del sole e rivolto ad incidere con profondità nella vicenda politica italiana dei prossimi anni.

La Stampa 19.6.12
I francescani a Passera “L’uomo vincerà la crisi”
Il ministro arrivato a sorpresa domenica sera ad Assisi si adegua allo stile e trascorre la notte in una piccola cella
di Giacomo Galeazzi


L’inizio non è dei più incoraggianti. Tra le auto blu dei relatori e i turisti in fila all’alba per gli affreschi di Giotto, si infila un predicatore apocalittico. Scalzo e strizzato in un sacco di iuta. Tuona contro la corruzione dei costumi e vaticina l’imminente fine del mondo. Momenti di imbarazzo, finché accetta di spostarsi di qualche metro e l’insolito forum finanziario può alzare il sipario.
A giudicare dai temi in programma Assisi sembra Cernobbio, poi però l’astratto diventa concreto e tornano di casa l’economia sociale di mercato e la dottrina sociale della Chiesa. Il bene comune al posto del profitto individuale (la ricetta anti-crisi lanciata otto secoli fa da San Francesco) accomuna il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, i frati del Sacro Convento e una folta rappresentanza di politici (Rutelli, Bindi, Quagliariello), sindacalisti, leader di associazioni cattoliche ed economisti che si sono dati appuntamento nella cittadella della pace.
Ma tradizionalmente ad Assisi i gesti dicono più delle parole e così a conquistare i seguaci del Poverello è stata soprattutto la “giornata particolare” del superministro. Certo il suo intervento al convegno sulle strategie contro la recessione è stato apprezzato. Sono state condivise dalla platea in saio le positive valutazioni del voto greco, la concertazione per la crescita e la riforma del mercato del lavoro, l’impegno per la crescita e per mantenere i conti pubblici in ordine. Però è valsa più di qualunque dissertazione la condotta “claustrale” di Passera, che a sorpresa ha bussato alle porte del monastero già domenica sera, ha trascorso la notte in una minuscola cella e poi ieri mattina di buon ora si è raccolto in preghiera sulla tomba di Francesco. Prima che arrivassero ospiti e convegnisti, si è immerso in un “question time” fuori programma con ciascuno dei quattro rami dell’ordine. Dall’Onu dei religiosi (70 frati da 20 nazioni) sono piovute domande, consigli, richieste. All’ex banchiere è stato ricordato che nel ‘400 furono i francescani a creare il primo monte di pietà con gli strumenti necessari al mercato come la partita doppia. «Poi è stata la rivoluzione industriale a sostituire la logica del profitto individuale a quel bene comune che ora deve tornare l’arma principale contro la crisi», precisa il garante del terzo settore, Stefano Zamagni.
Padre Enzo Fortunato raccomanda a Passera di temperare il capitalismo con la fraternità e il custode Giuseppe Piemontese gli dona la croce di San Damiano («sappiamo il peso delle sue responsabilità»). Quasi come un monito spunta ovunque l’immagine di San Francesco che si spoglia di ogni bene davanti al padre mercante Pietro. Un messaggio di sobrietà che, al termine del dibattito, in refettorio troverà plastica rappresentazione nell’austero desco: pasta al sugo, carne coi fagiolini, frutta di stagione.
Quando guidava Banca Intesa, Passera ha finanziato l’illuminazione della Basilica per la visita del Papa e i concerti di Natale, ma ieri ha dovuto riconquistarsi la fiducia «politica» dei frati che al termine sul sagrato ne elogiavano «il linguaggio semplice, propositivo» confidando che «farà tesoro delle indicazioni». «Io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare, voglio che tutti lavorino - garantisce il ministro-. L’Italia spingerà l’Europa a muoversi nella direzione della crescita e del rigore».
Infine un appello che è musica per i frati che qui accolgono cortei e marce di ogni colore: «l lavoro si crea con la crescita economica sostenuta e sostenibile. Il francescanesimo ci aiuta a capire le ragioni che hanno portato alla crisi attuale».

La Stampa 19.6.12
Così gli italiani sono diventati un popolo di fedeli “fai da te”
Gli atei sono fermi all’8 per cento, ma il 70 va in chiesa solo per matrimoni e funerali
Il 63,4% del campione si dichiara «spirituale ma non religioso»
A messa dichiara di andarci il 30,1%, in realtà ci va soltanto il 18,5 %
di Andrea Tornielli


La ricerca E’ stata monitorata con analisi e sondaggi un’area della Sicilia considerata rappresentativa del Paese La novità I giovani sono «la prima generazione incredula»: considerano Dio irrilevante in un mondo dominato da lavoro, denaro, affetti

Gli atei veri e propri, in Italia, non arrivano all’8 per cento. E più del 70 della popolazione frequenta la messa soltanto in occasione di matrimoni e funerali e può essere quindi qualificata come «lontana» dalla Chiesa.

È la via italiana alla secolarizzazione quella che emerge da una ricerca curata dal sociologo Massimo Introvigne, fondatore del Cesnur, insieme a Pierluigi Zoccatelli, intitolata «Gentili senza cortile. “Atei forti” e “atei deboli” nella Sicilia centrale».
Si tratta della quarta ricerca sull’indifferenza religiosa che il gruppo di lavoro ha prodotto monitorando con sondaggi e analisi un’area della Sicilia corrispondente alla diocesi di Piazza Armerina e comprendente città e paesi delle province di Enna e Caltanissetta. Un territorio variegato di duemila chilometri quadrati, dove si trovano centri industriali e aree rurali, e che i parametri confermano essere rappresentativo della realtà italiana.
Il dato più significativo della ricerca riguarda la mancata crescita, negli ultimi vent’anni, degli atei: sono fermi al 7,4 per cento. Di questi, solo il 2,4 per cento possono essere definiti «atei forti», cioè in grado di motivare il loro ateismo con ragioni ideologiche: sono più presenti «tra le persone più anziane e meno istruite, dove sorprendentemente è ancora forte anche un ricordo dell’ateismo comunista».
Il rimanente 5 per cento, gli «atei deboli», sono meno ideologici ma considerano comunque Dio e la religione come irrilevanti in un mondo dove contano il lavoro, il denaro e le relazioni affettive: sono più numerosi fra i più giovani, in quella che don Armando Matteo ha chiamato «la prima generazione incredula», e fra le persone più colte. Se si proietta il numero degli atei sul totale della popolazione italiana, si può affermare che si tratta di circa tre milioni di persone. Il loro numero però rimane pressoché costante dal 1990 a oggi.
Oltre agli atei «forti» e «deboli», esistono «i lontani dalle forme istituzionali della religione», che non si proclamano atei, ma si dichiarano credenti o anche cattolici. Sono il 63,4 per cento e si tratta di persone che professano un cattolicesimo meramente culturale, dato per scontato senza porsi ulteriori interrogativi sui contenuti della fede e senza preoccuparsi dell’incoerenza sul piano della pratica.
Questi «lontani»riuniscono le persone che si dichiarano «spirituali ma non religiose», con posizioni influenzate anche da mode culturali come quella del New Age o di filosofie orientali; e quanti «credono, ma non partecipano attivamente alla vita religiosa». Se sommati agli atei veri e propri, arrivano al 70,8 per cento. Esiste dunque una solida maggioranza di italiani che o professano l’ateismo, o sono indifferenti alla religione, o professano una fede fai-da-te mettendo insieme diverse credenze.
Nella ricerca si è cercato di indagare anche sulle cause che hanno fatto a poco a poco allontanare così tanti italiani dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica. Dai risultati emerge che le ragioni ideologiche, come ad esempio l’idea che la scienza renda superata la religione, sono assolutamente minoritarie. Mentre ai primi posti nelle risposte c’è la sensazione che la religione abbia poco da dire sui problemi concreti della vita di ogni giorno. Come pure è presente il rifiuto degli insegnamenti morali delle confessioni religiose. Mentre appare particolarmente significativa la crescita di un’ostilità verso il cattolicesimo motivata dagli scandali della pedofilia dei preti e dalle ricorrenti polemiche sulle ricchezze e sui privilegi fiscali della Chiesa.
La ricerca ripropone anche un dato che mostra la discrepanza tra le dichiarazioni rese durante le interviste telefoniche circa la partecipazione alla messa domenicale e la partecipazione effettiva, che i ricercatori hanno potuto sondare monitorando tutte le celebrazioni nell’area interessata in un determinato giorno. A fronte di un 30,1 per cento di dichiarazioni, si è riscontrata una presenza reale nelle chiese del 18,5 per cento.

La Stampa 19.6.12
Chiesa, la sfida degli atei deboli
di Franco Garelli


Quanto sono veritieri i dati sulla religiosità in Italia? Che valore dare alle dichiarazioni di molti italiani che ancor oggi continuano a definirsi cattolici? Perché tante persone sembrano di fatto indifferenti nei confronti della religione anche se non hanno il coraggio di definirsi atei o agnostici?
Ecco alcuni interrogativi su cui ruota il dibattito pubblico sulle sorti della religione nella società avanzata, che appassiona sia gli studiosi dei fenomeni religiosi sia gli uomini di chiesa. Perché al di là delle apparenze, oltre la superficie, si coglie in ampie quote di popolazione una distanza tra le intenzioni e il vissuto religioso che pone non pochi problemi di interpretazione.
Proprio questo tema è al centro della recente e interessante indagine che Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli (che dirigono il Centro Studi sulle Nuove Religioni di Torino) hanno condotto in un’area del Sud, che si presenta come un caso studio emblematico di ciò che accade non solo in quella regione ma in tutto il Paese. In effetti, i dati sulla religiosità di quell’ambiente (la Diocesi di Piazza Armerina, una delle 18 diocesi della Sicilia, che si estende tra le province di Enna e Caltanissetta) riflettono la geografia religiosa di molte province italiane. Ancor oggi, pur in un contesto in cui crescono le altre fedi religiose, oltre l’85% della popolazione continua a definirsi cattolica, 1/3 della gente va regolarmente in chiesa tutte le domeniche, più della metà dichiara un’elevata fiducia nella chiesa. Ovviamente il legame religioso di molti non è particolarmente costringente e rispecchia quell’individualismo del credere (o quel «fai da te» religioso) che è tipico dell’epoca attuale. Tuttavia è assai più diffusa la propensione a «pensarsi» come persone religiose che a ritenersi distanti o estranei dai valori religiosi. In effetti, gli atei o gli agnostici dichiarati sono un’esigua minoranza, circa l’8% dei casi.
La novità del lavoro di Introvigne e Zoccatelli è di andar oltre questo scenario, chiedendosi quanto siano lontane dalla fede e dalla chiesa molte persone che pur continuano a mantenere un qualche legame con la religione della tradizione. In altri termini, il panorama nostrano non si compone soltanto di «atei forti», palesemente ostili o indifferenti alla religione, vuoi per ragioni ideologiche vuoi per deficit ecclesiali (oggi ingigantiti dallo scandalo dei preti pedofili). A fianco dei non credenti incalliti e di vecchio stampo, vi è la categoria molto più estesa degli «atei deboli», disinteressati o apatici nei confronti di un orizzonte di fede nonostante che alcuni di essi non siano privi di dubbi e di crucci esistenziali. Questo «ateismo pratico» (o ateismo «di fatto») sarebbe - a detta dei due autori - assai più esteso nel paese di quanto rilevato dalle statistiche, dal momento che tracce di esso si riscontrano in quella maggioranza di italiani che non spezza il legame con la religione cattolica pur standosene ai margini. Gente, dunque, «lontana» dagli ambienti ecclesiali, non ostile nei confronti della religione, ma mai coinvolta; la cui indifferenza religiosa è perlopiù legata al fardello della vita o all’eccessiva attenzione dedicata al successo personale e ai bisogni materiali. Si tratta di soggetti che spesso affermano cinicamente che denaro, amore e carriera sono obiettivi ben più importanti della religione.
La grande sfida per il cattolicesimo (ma anche per altre religioni storiche) è dunque rappresentata dalle nuove forme di ateismo e di indifferenza religiosa. Ecco il messaggio del lavoro di Introvigne e Zoccatelli, a cui essi giungono anche guardando a ciò che avviene in altre nazioni europee. La quota degli atei (forti e deboli) è in sensibile diminuzione in Russia, mentre si mantiene elevata nella Repubblica Ceca e in Germania Est; ma essa risulta in aumento non soltanto nelle società europee più laiche (come la Francia) ma anche in quelle nazioni - come l’Italia - in cui la religione è interpretata da molti più come un retaggio della tradizione che come una risorsa spirituale.

l’Unità 19.6.12
Morte di parto. L’Italia è la maglia nera d’Europa
di Pino Stoppon


Più di ogni altro Stato europeo. In Italia la mortalità per parto è altissima. Colpa dell'età sempre più avanzata delle neo-mamme. A contraddire la classifica stilata dalla rivista «Lancet» nel 2010 è l'Istituto superiore di sanità, che ha studiato 5 regioni rappresentative del 32% delle donne italiane in età fertile con criteri diversi: oltre ai certificati di morte dell'Istat, ha usato le schede di dimissione ospedaliere. Così il valore non è più di 4 morti ogni 100mila nati vivi, ma di 11,8, il 63% in più, contro una media dell'Europa occidentale di 7-8. Lo studio, condotto dal Reparto salute della donna e dell'età evolutiva del Cnesps-Iss, ha raccolto i dati dal 2000 al 2007 di Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia. Tra il 2000 e il 2007 in queste Regioni sono stati registrati 1.001.292 nati vivi e 260 morti materne con un’età media di 33 anni. La mortalità materna è 3 volte più alta in Sicilia (24,1) rispetto a Toscana ed Emilia Romagna (7,6), ma influiscono anche fattori come l'età e il taglio cesareo. Per le donne con gravidanza oltre i 35 anni il pericolo di morire è doppio, mentre è triplo per chi fa il taglio cesareo, anche se in molti casi il cesareo è indicato per donne a rischio per patologie. Anche il basso livello di istruzione e la cittadinanza straniera sono associati a un maggior rischio di mortalità. «Il valore di 11,8 non è un dato nazionale, ma di queste 5 regioni, ed è una valore medio tra i paesi sviluppati occidentali spiega Serena Donati, ricercatrice Cnesps-Iss L'Europa dell'Est ha valori peggiori dei nostri, mentre Francia e Danimarca migliori. La Gran Bretagna è poco migliore di noi con 11,4. Il 50% delle morti è evitabile, in parte perché legate a casi di emorragia ostetrica, preeclampsia e tromboembolia, che possono essere ridotte». Le cause più frequenti di mortalità sono emorragie e disordini ipertensivi in gravidanza in caso di complicazioni legate al parto, e neoplasie, patologie cardiovascolari e i suicidi tra cause indirette (malattie preesistenti o insorte durante la gestazione e da essa aggravate). Per Nicola Surico, presidente della Società italiana di Ginecologia e ostetricia (Sigo), «questi dati non sono una sorpresa. L'età avanzata delle partorienti, soprattutto in chi ricorre a procreazione assistita, è in crescita e molte donne non vengono studiate adeguatamente prima della gestazione.

La Stampa 19.6.12
Con il turno unico rischiamo di ritrovarci come la Grecia
di Marcello Sorgi


Oltre a stabilizzare, per quanto possibile, il paesi dell’eurozona in vista del vertice del 28, i risultati delle elezioni in Grecia (e in diverso modo anche quelli francesi) spingono a riflettere anche sul presente e sul futuro prossimo dell’Italia. In Grecia infatti, dopo aver vinto con poco più di un terzo dei voti, il leader del centrodestra Antoni Samaras si accinge a formare un governo con i socialisti, usciti molto ridimensionati dalle urne, e se possibile con i partiti minori, lasciando all’opposizione la sinistra radicale, giunta seconda con un quarto dei voti. Ma i partiti che dovrebbero allearsi con Samaras - che solo in coalizione con i socialisti avrebbe la maggioranza di 162 seggi su 300, e con gli altri toccherebbe i 200 non lo danno affatto per scontato. Chiedono che anche la sinistra estrema sia associata al governo, per condividere le responsabilità dei sacrifici che dovranno essere imposti ai cittadini greci. Il leader della sinistra, Tsipras, naturalmente non ci pensa proprio.
Un quadro del genere, capovolto, ma con la costante della sinistra che resiste al peso delle scelte impopolari, e con la necessità di associare il centrodestra, potrebbe crearsi alle prossime elezioni anche in Italia, specie se la tendenza che da mesi i sondaggi preannunciano, dando un Pd in vantaggio rispetto al Pdl, dovesse portare il centrosinistra a vincere, ma a non essere pienamente in grado di far accettare ai suoi alleati (in particolare a Vendola) il peso delle decisioni anticrisi che anche il prossimo governo dovrà continuare a prendere. Di qui a prevedere che la guida del governo possa restare affidata a Monti, e che anche la maggioranza che lo sorreggerà non sarà troppo diversa da quella attuale, il passo è breve.
La lezione francese invece è diversa ed è sempre legata al sistema a doppio turno che, dopo aver determinato il passaggio da Sarkozy a Hollande, ha assegnato ai socialisti una larga maggioranza all’Assemblea nazionale, neutralizzando l’ondata di protesta del primo turno e riducendo a due, dicasi due, i parlamentari eletti del Front national di Marine Le Pen. Vale per i nostri leader che si sono dati tre (ormai due) settimane per cambiare la legge elettorale. Magari (tutti se lo augurano) non finiremo come La Grecia.
Ma se la nuova legge che dovrebbe sostituire il Porcellum sarà ancora a turno unico, molto probabilmente non avremo un governo politico come quello francese.

Corriere 19.6.12
Quei figli della crisi europea sedotti dalla destra xenofoba
Dai neonazi di Alba d'oro agli ultra nazionalisti nordici
di Pierluigi Battista


Quelli della greca Alba d'oro sono nazisti che non si nascondono. Sono violenti, brutali, razzisti. Non si vergognano della svastica. Porteranno però il loro folto drappello nel Parlamento greco sospinti da un forte voto giovanile, da una cieca rabbia sociale che considera troppo «di sistema» persino l'estrema sinistra antieuro che pure ha conquistato quasi il 27 per cento. La reazione più sciocca sarebbe quella di liquidarli come un lugubre residuo del passato. Sono il presente invece. E rischiano di essere il futuro, se la pigra euroburocrazia priva di anima democratica non la smetterà di liquidare come populismo ogni richiamo alla sovranità popolare.
L'estrema destra in Europa è un fenomeno variegato, riconducibile ad unità solo con un'ipersemplificazione che acquieta la coscienza ma interpone un velo sui fenomeni di rigetto che la crisi dell'euro stanno producendo. Il fenomeno lepenista in Francia non è nuovo, ma è nuova la sua base sociale, che spesso coincide con la parte più marginale e diseredata della società, ed è nuovo il vastissimo seguito giovanile, che le società gerontocratiche e immobiliste care all'establishment europeo non riescono a comprendere e che invece un proclama di secessione con cui la gioventù messa ai margini sfida élite logore ed esauste. E in Germania, come ha scritto Der Spiegel, l'estrema destra oltranzista e nazistoide miete consensi ed esercita il suo potere intimidatorio anche verso la cancelliera Merkel. Chi critica, sia pur con ottimi argomenti, Angela Merkel, deve però tener conto che anche lei ha un elettorato in subbuglio, ispirato a un oltranzismo nazionalista che vuole rifiutarsi di pagare con valuta tedesca i debiti degli spendaccioni europei, per lo più identificati con la parte meridionale e mediterranea dell'Europa, quella meno incline ad accettare i parametri della potenza teutonica. Le democrazie europee possono morire per un eccesso di austerità e di rigore. Ma la democrazia tedesca potrebbe pagare un caro prezzo sulla sua destra xenofoba e intollerante se si mostra troppo accomodante con chi ha dilapidato la ricchezza con la spesa facile e gli immensi sprechi del passato.
Certo è difficile e paradossale mettere nello stesso calderone i nazi greci che, vera nemesi della storia, si richiamano alla mitologia del Terzo Reich in odio all'Europa e alla Grecia «germanizzate» e il partito di Le Pen oppure i partiti nazionalisti e antisistema che si fanno largo persino in Gran Bretagna, o la cintura di ultradestra che dal Nordeuropa alla Scandinavia promette di rifarsi a ideologie di stampo nazionalsocialista per dare una parvenza di ordine a forme semiparanoiche di rifiuto del Sistema, cioè della democrazia così l'abbiamo storicamente conosciuta. Ma è un fatto che stiamo assistendo a un'inversione di una tendenza che sembrava irreversibile. Prima i partiti del centrodestra moderato riuscivano a tenere a bada una frangia estremista più o meno forte ma pur sempre confinata in un recinto infetto. Oggi è il centrodestra moderato, in tutta Europa, a soffrire di spinte centrifughe che, assieme alla mediazione politica, rifiutano il mercato e la democrazia, la finanza, il capitalismo, la società aperta e liberale.
Figli della crisi che travolge l'occupazione e il benessere degli europei? In parte sì, ma accontentarsi di una parte della spiegazione per decifrare il tutto dell'avanzata dell'estrema destra in Europa, dalla Francia alla Grecia, dalla Germania all'Olanda e alla Scandinavia, può risultare anche molto consolatorio. Anche in Italia c'è una sacca dell'elettorato di destra che ha bisogno di trovare uno sbocco a risentimenti e disagi, nelle fasce giovanili soprattutto. Non è detto che una Lega Nord di opposizione non possa recuperare una parte dell'appeal perduto con le grottesche vicende che hanno coinvolto la famiglia e il clan bossiani. O che il partito di Storace non possa avvantaggiarsi di una protesta molto dura che però non si indirizzerà mai verso gli approdi della sinistra. Sono solo ipotesi. Ma è difficile pensare che l'Italia, all'indomani della vittoria elettorale in Grecia, e con la conferma sostanziale di una radicata e diffusa simpatia lepenista in Francia, possa essere esente da questo fenomeno, anche grazie alla liquefazione del Pdl, sinora in grado di assorbire anche le pulsioni più estremiste: si è aperta in Europa una nuova, inedita storia.

l’Unità 19.6.12
Trattativa Stato-mafia, i miei dubbi sull’inchiesta
Verità storica e verità giudiziaria non sempre coincidono.
È giusto che per fatti lontani sia la magistratura a stabilire il Vero?
di Giovanni Pellegrino


La chiusura dell’indagine palermitana sulla trattativa Stato-mafia ha suscitato, come era prevedibile, perplessità e polemiche, soprattutto una volta che anche Giovanni Conso è risultato indagato per false dichiarazioni ai pubblici ministeri.
Un autorevole esponente di Magistratura democratica (Rossi) non ha avuto remore nel manifestare tutto il suo sconcerto per l’accusa rivolta da suoi colleghi ad una personalità, che è stata sicuro punto di riferimento civile ed etico per almeno due generazioni di giuristi e di operatori pratici del diritto.
In una prospettiva più generale uno dei maggiori penalisti italiani (Giovanni Fiandaca) ha sottolineato l’impossibilità già in astratto di contestare a vertici politici di aver discrezionalmente deciso di alleggerire l’applicazione concreta di misure antimafia per evitare altre stragi da parte dei corleonesi. Le polemiche sono salite di tono, poiché del materiale indagativo reso pubblico fanno parte intercettazioni di telefonate di Nicola Mancino agli uffici del Quirinale, che ebbero quale esito l’invio da parte del segretario generale della Presidenza di una lettera, che segnalava al Procuratore generale della Cassazione l’opportunità di un coordinamento delle indagini delle Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, che sembravano allora muoversi su medesime vicende in direzioni contrastanti.
Nel silenzio (per ora) di Grillo, Antonio Di Pietro non ha perduto tempo e ha annunciato un’interrogazione al ministro della Giustizia, perché in sede giudiziaria «la verità deve essere cercata senza guardare in faccia né presidenti, né ex presidenti e senza interventi di sorta».
La posizione di Di Pietro ha trovato un pendent in una lunga intervista rilasciata dal coordinatore del pool, che indaga sulla trattativa Stato-mafia a Repubblica. Antonio Ingroia non ha contestato la posizione di Fiandaca, assicurando che «nessun politico è accusato di aver trattato con la mafia», accusa rivolta soltanto ad intermediari anche istituzionali della trattativa. Per parte mia osservo che Cesare accettò la trattativa con i pirati che lo avevano rapito, ma il pagamento del riscatto non gli impedì successivamente di catturarli e di tagliare loro la testa!
Sul piano di una ragionevole ricostruzione del difficile periodo non sarebbe quindi irragionevole supporre che, accertata la finalità cui tendevano i vertici mafiosi dell’epoca, in sede politica ci si sia assunta la responsabilità non di accogliere le loro inaccettabili richieste (abrogazione dell’art. 41 bis, revisione del maxiprocesso), ma soltanto di rallentare temporaneamente l’applicazione della norma per aver tempo di stroncare i corleonesi, come poi in effetti è avvenuto. Si sarebbe trattato in buona sostanza di un arretramento tattico, che non intaccava la strategia di fondo, ma era funzionale ad assicurarne il successo. Mi domando però come sarebbe stato possibile assumere questa decisione discrezionale, di cui Ingroia non contesta la legittimità, se una intelligente attività indagativa non avesse fatto emergere quale era il fine, cui Riina e Provenzano tendevano.
Certo è comunque che ai vertici politici non viene contestata la trattativa, ma soltanto addebiti minori relativi all’atteggiamento da loro assunto nel corso dell’indagine: falsa testimonianza per Mancino, false dichiarazioni al pm per Conso.
Destinatari della più grave tra le accuse sembrano essere quindi Dell’Utri e Mori, e cioè persone già oggetto di indagini anteriori, dei cui esiti giudiziari i magistrati palermitani non sono forse soddisfatti. (Se fosse lecito un esercizio di ironia in una vicenda così delicata, verrebbe voglia di commentare: Dell’Utri/Mori 2: la vendetta!).
Comunque sia di ciò, dopo aver sottolineato che non ha riguardato le posizioni di Conso e Mancino il dissenso di uno dei componenti del pool (Guido), che non ha sottoscritto l’avviso di conclusioni delle indagini, Ingroia ha comunque concluso la sua intervista con l’auspicio che «sia accertata la verità sui misteri del ’92-’93».
Mi domando se non sia legittimo in qualche modo dubitare che l’accertamento del Vero sia fino in fondo compito proprio dell’Autorità giudiziaria, stante il principio di civiltà giuridica espresso dalla formula in dubio pro reo. A questo aggiungo che, con riferimento a fatti lontani nel tempo (dalla difficile stagione del ’92 e ’93 ci separano ormai vent’anni e cioè il tempo di una generazione), la verità che secondo Ingroia e Di Pietro sarebbe compito della magistratura accertare, attiene al piano della storia, mentre tutti sappiamo che verità storica e verità giudiziaria non sempre coincidono (altrimenti dovremmo concludere che il Nazareno e Socrate erano colpevoli!), come hanno dolorosamente dimostrato gli esiti assolutori, cui sono pervenute le indagini pur molto accurate e professionali sulle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia. È in ogni caso doveroso concludere che se l’accertamento della verità è compito proprio della magistratura, questo non può essere affidato che alla forza dei giudicati finali.
Il rilievo conduce al cuore del problema: quante probabilità effettive sussistono che l’indagine palermitana, a valle dei tre gradi di giudizio, si concluda con giudicati di condanna? Ad emergere è quindi un problema antico, e cioè la sostanziale indifferenza, che nell’assumere determinate iniziative la magistratura inquirente ha rispetto agli esiti finali dell’indagine. È questa una caratteristica tutta italiana, perché in altri sistemi accusatori il titolare della prosecution è tenuto per dovere istituzionale innanzitutto a domandarsi quali siano i costi finanziari dell’indagine e del successivo giudizio, quali siano i costi sociali dell’una e degli altri, e soprattutto quali siano le possibilità concrete che l’iniziativa dell’accusa approdi a giudicati finali di condanna. Da noi avviene tutto il contrario, se è vero, come è vero, che ad una indagine, con forte impatto di destabilizzazione politica, il magistrato inquirente diede il nome di Why not?. Se il nome è la cosa, commenti ulteriori risultano superflui.
Anche gli eventi recenti confermano quindi come sia sempre più urgente una riforma complessiva del sistema d’accusa, che, nella riconosciuta impossibilità per la magistratura inquirente di dare un esito indagativo a tutte le notizie di reato, non consenta comunque agli inquirenti di farsi scudo del principio (ovviamente astratto) dell’obbligatorietà dell’azione penale come canone sostanzialmente deresponsabilizzante.
Ovviamente le responsabilità della mancata riforma ricadono per intero sul ceto politico, che da oltre un ventennio continua a misurarsi con un problema così delicato nell’ottica miope di una convenienza di breve periodo, alternando garantismo e giustizialismo in un grottesco balletto delle parti, per cui è sempre opportuna (fondata o infondata che appaia) l’iniziativa indagativa, che riguarda il proprio avversario. Non a caso nella recente vicenda Maurizio Gasparri ha formulato l’auspicio che l’indagine giudiziaria sappia «mettere in luce le evidenti colpe di chi nel ’93 e ’94 cancellò il carcere duro per i mafiosi».

La Stampa 19.6.12
Stato-mafia, da Mancino pressioni anche su Grasso
Nelle carte dell’inchiesta le telefonate intercettate dell’ex ministro
Il procuratore: ma la legge è sempre rimasta uguale per tutti
di Riccardo Arena


Le stragi Gli attentati a Falcone e Borsellino fanno da sfondo alla trattativa tra Stato e mafia che prese le mosse secondo i pm di Palermo per allentare la tensione dovuta alle bombe del ’92-93

Andava in pressing su tutti. O ci provava. Sul consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Sul procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito. Persino sul procuratore di Palermo, Francesco Messineo. E indirettamente sul capo della Direzione nazionale antimafia, Piero Grasso. Era preoccupatissimo, Nicola Mancino. «Tormentato» dall’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia, nella quale, fino a qualche giorno fa, l’ex ministro dell’Interno era un semplice testimone. Ora è indagato proprio per falsa testimonianza al processo Mori, ma dalle pieghe dell’inchiesta e dalle intercettazioni vengono fuori altri sospetti, veleni, misteri.
Il 5 marzo Mancino parla al telefono con D’Ambrosio: teme il confronto in aula con Vincenzo Scotti, suo predecessore al Viminale. «Posso parlare col presidente (Napolitano, ndr) che ha preso a cuore la questione – dice D’Ambrosio – ma mi pare difficile che possa fare qualcosa. L’unico che può dire qualcosa è Messineo. L’altro è Grasso. Ma il pm Nino Di Matteo in udienza è autonomo. Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata…».
D’Ambrosio a più riprese assicurerà di parlare col procuratore nazionale antimafia, di avergli già detto qualcosa, di doverlo incontrare. Alla fine, però, il risultato sarà una lettera riservata, indirizzata al pg della Suprema Corte, con la quale Piero Grasso dirà di potersi limitare al coordinamento, già attuato con riunioni fra i pm. È insomma, o sarebbe, una sorta di trattativa nella trattativa. Persino il Colle è stato costretto ad intervenire, nei giorni scorsi, per precisare che le telefonate di Mancino, all’epoca non ancora indagato, portarono il Quirinale a sollecitare Esposito ad attivare i propri poteri di coordinamento tra le Procure. In modo da evitare che a Palermo, Firenze e Caltanissetta, sugli stessi argomenti della trattativa Stato-mafia del ’92-93, si raggiungessero risultati diametralmente opposti. Grasso ieri ha ulteriormente precisato che potere di avocazione delle indagini, se non c’è inerzia o violazione delle direttive da parte dei titolari, il procuratore nazionale non ne ha.
Nell’inchiesta, Mancino non è l’unico ad essere preoccupato. C’è ad esempio Ezio Cartotto, uno dei consulenti che contribuirono alla nascita di Forza Italia, tra il ’92-93 e il ’94. Chiamato a deporre dai pm, per prima cosa telefona due volte a una tale Marina, segretaria di Silvio Berlusconi. Il 7 febbraio la Dia lo segue e scopre che Cartotto va in una delle residenze dell’ex premier, ad Arcore. Per fare cosa? Il 16 aprile è il generale Mario Mori che chiama un’altra segretaria, Anna: lavora con il presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni.
Torniamo a Mancino. Che ha un contatto pure con Nello Rossi, uno dei leader di Magistratura democratica, intervenuto nei giorni scorsi (assieme ai colleghi di corrente Giuseppe Cascini e Giovanni Palombarini) per criticare i pm di Palermo proprio sull’indagine e sul coinvolgimento del novantenne ex guardasigilli Giovanni Conso. È il 15 marzo: alle 9,04 Mancino chiama Esposito; alle 9,35 parla pure con Rossi. Le cui dichiarazioni hanno scatenato la bagarre nella corrente di sinistra dei giudici, di cui fa parte anche il coordinatore del pool del capoluogo siciliano, Antonio Ingroia.
Il tanto temuto confronto in aula non si farà: ma del resto il tribunale non ne aveva ammesso nemmeno un altro, in precedenza. E il pressing non sembra entrarci molto. Mancino aveva comunque insistito pure con lo stesso capo della Procura di Palermo: l’intercettazione del colloquio non è stata trascritta. Sia Messineo che Grasso negano pressioni. «La legge – dice il procuratore nazionale – è sempre rimasta uguale per tutti, così come attestato dagli stessi inquirenti».
In marzo Esposito chiede a Caltanissetta l’ordinanza con cui i pm nisseni hanno riscritto la storia delle stragi, parlando anche di trattativa: i magistrati del pool coordinato da Sergio Lari sostengono che i politici non ebbero responsabilità penali ma, appunto, politiche. Ogni ufficio giudiziario dunque sembra andare sempre più per i fatti suoi. Parte la richiesta ufficiale di Mancino per un intervento chiarificatore: il nuovo pg della Cassazione e il suo vice, Gianfranco Ciani e Pasquale Ciccolo, «hanno voluto una lettera così fatta per sentirsi più forti», spiega D’Ambrosio. Dopo che Esposito chiede gli atti, Mancino lo ringrazia: «Io sono chiaramente a sua disposizione – risponde l’alto magistrato, oggi in pensione – Prima o poi io e lei ci parliamo. Può venire a trovarmi quando vuole». Mancino ironizza: «Guagliò, così, come vengo, vado sui giornali».
D’Ambrosio fu anche dirigente del Dap negli anni caldi della trattativa. Al telefono dice a Mancino di non spiegarsi come mai alle carceri fosse arrivato il vicedirettore Francesco Di Maggio. La cui nomina fu agevolata da un decreto «ad hoc», che forzò la legge e «che fu scritto nella stanza di Liliana Ferraro... Secondo me, lei (Mancino, ndr) non ne ha saputo niente». L’ex capo della Polizia, Vincenzo Parisi, e Di Maggio sono morti: fossero vivi, sarebbero sotto inchiesta. E forse lo sarebbe anche l’ex presidente Scalfaro, scomparso nei mesi scorsi. Sentito dai pm, per due volte, D’Ambrosio ha prima detto di non ricordare. Quando gli hanno contestato la telefonata, ha spiegato. Cosa, non si sa ancora.

La Stampa 19.6.12
Il Quirinale e la mossa legittima
di Carlo Federico Grosso


Tutti speriamo che l’autorità giudiziaria sia messa, finalmente, nella condizione di far luce sulla trattativa che si presume intercorsa fra mafia e Stato nella primavera del 1992. Tutti confidiamo che i responsabili dei reati siano individuati e condannati. Permane d’altronde intatto lo sconcerto di fronte al fatto che tanti politici che sapevano siano rimasti per tanti anni silenti e che, soltanto ora, fra reticenze e sussurri, qualcuno cominci a raccontare.
La vicenda, com’era inevitabile, a causa della sua enorme rilevanza politica e criminale (Borsellino sarebbe stato assassinato proprio per la sua opposizione alla trattativa; le stragi di Firenze e Roma sarebbero state la reazione alle incertezze dello Stato), non poteva non lasciare dietro di sé, ad ogni passaggio, sciami di polemiche e di veleni.
Da ieri l’altro la polemica sembra lambire il Capo dello Stato a causa di una lettera che egli ha fatto inviare il 4 aprile 2012 dal segretario generale della Presidenza al procuratore generale presso la Cassazione, concernente una doglianza, ricevuta dell'onorevole Mancino, sul fatto che non fossero state, fino ad allora, adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari.
Che cosa scriveva in quella lettera il segretario generale? Trasmettendo la lettera a sua volta inviata a Napolitano da Mancino, egli precisava che «conformemente a quanto da ultimo sostenuto nella Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato auspica che possano essere adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure sulla base degli strumenti previsti dal nostro ordinamento, al fine di dissipare le perplessità che possono derivare da gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali».
In termini burocratici, si sollecitava dunque, semplicemente, il procuratore generale della Cassazione ad assicurare, per quanto possibile, l’opportuno coordinamento delle indagini, allo scopo di evitare che iniziative discordanti potessero danneggiarle. Ed allora, che c’è di strano? Il Capo dello Stato, nella prospettiva di una proficua collaborazione istituzionale, ha sollecitato, semplicemente, il procuratore generale presso la Cassazione ad esercitare con tempestività ed efficienza i suoi poteri di controllo in una materia particolarmente incandescente quali sono le indagini sulla trattativa mafia-Stato.
Si badi che l’esercizio dei poteri di sorveglianza sollecitati al procuratore generale della Cassazione sono specificamente riconosciuti dalla legge. L’art. 106 del d. lgs. n. 106/2006 dispone che «il procuratore generale presso la Corte di Appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto, ed invia al procuratore generale presso la Cassazione una relazione annuale» (ovviamente per consentirgli un’adeguata sorveglianza) ; l’art. 104 del d. lgs. n. 159/2011, sotto il titolo «attribuzioni del procuratore generale della Cassazione in relazione alla attività di coordinamento investigativo», dispone a sua volta che «il procuratore generale presso la corte di Cassazione esercita la sorveglianza sul procuratore nazionale antimafia». Il procuratore nazionale antimafia ha sicuramente il potere di dirigere e coordinare le attività investigative delle Direzioni distrettuali antimafia; egli è tuttavia soggetto, a sua volta, a specifica sorveglianza da parte del procuratore generale presso la Cassazione, la massima autorità requirente del Paese.
Il Capo dello Stato, nei suoi interventi in materia di giustizia, aveva d’altronde manifestato più volte preoccupazione sul fatto che indagini collegate potessero avere sviluppi non adeguatamente coordinati; e già altre volte aveva opportunamente allertato il procuratore generale in questo senso (si può ad esempio ricordare il suo intervento nel momento in cui era scoppiato un grave conflitto fra le procure generali di Catanzaro e Salerno). È pertanto naturale che anche questa volta abbia potuto, in piena legittimità, rivolgersi alla massima autorità giudiziaria competente a sorvegliare il funzionamento delle procure per sollecitare interventi funzionali al miglior esercizio possibile dell’attività giudiziaria.
Dato il tenore della lettera, non è d’altronde vero che si siano verificate indebite pressioni sul procuratore generale, non è vero che sia stato scavalcato il Capo della Dna, nulla, nella lettera, fa lontanamente pensare che essa tendesse a salvare in qualche modo i politici.
Che su questa vicenda si sia imbastita una polemica di tal fatta, è segno tristissimo della crisi in cui annaspa il nostro Paese.

il Fatto 19.6.12
Le tre inchieste su stragi e mandanti occulti


La Procura di Palermo ha appena concluso le indagini a carico dei capimafia Bagarella, Brusca, Gioè, Riina e Provenzano, degli ufficiali del Ros Subranni, Mori e De Donno e dei politici Mannino (che avrebbe dato il via alla Trattativa dopo l’omicidio Lima) e Dell’Utri (che ne avrebbe garantito la prosecuzione). Sono accusati di “violenza e minacce a corpo dello stato”. In questa stessa inchiesta sono indagati anche Nicola Mancino (falsa testimonianza) e Massimo Ciancimino (calunnia e concorso esterno). A Palermo, in una seconda inchiesta, è indagato per false dichiarazioni al pm anche Giovanni Conso, che fu ministro della Giustizia dal 12 febbraio del 1993 al 16 aprile 1994. A Caltanissetta, intanto, proseguono le indagini sul movente della strage che costò la vita in via D’Amelio al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. Sui mandanti occulti delle stragi di mafia, infine, lavora anche Firenze, la cui inchiesta ha portato alla condanna di Francesco Tagliavia quale esecutore materiale della strage di via dei Georgofili.

il Fatto 19.6.12
“Intervenire su Grasso”
Lo suggerisce a Mancino il consigliere del Colle, D’Ambrosio
E il Procuratore antimafia viene convocato in Cassazione
di Marco Lillo


Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva il braccio destro di Napolitano, Loris D’Ambrosio, a Nicola Mancino. Poi aggiungeva: “Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. Non erano millanterie. Alla fine le pressioni del Quirinale hanno prodotto un risultato: il procuratore nazionale antimafia il 19 aprile è stato convocato dal procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani per sentirsi chiedere il coordinamento tra procure che piaceva a Mancino.
L’assedio è fallito solo grazie al gran rifiuto di Grasso, raccontato a Sandra Amurri sotto. Ogni giorno emergono particolari inquietanti sul comportamento della Presidenza della Repubblica nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992-’93. Sabato scorso il Colle era stato costretto a tirare fuori dal cassetto la lettera inviata al procuratore generale della Cassazione dal segretario generale della Presidenza del Consiglio, Donato Marra: “Il Capo dello Stato auspica – scriveva Marra allegando una lettera di Nicola Mancino in tal senso – che possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure (...) e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate”. Ora si scopre che – dopo quella lettera pg della Cassazione Gianfranco Ciani ha esaudito i voleri di Mancino e Napolitano convocando proprio Grasso. Per comprendere l’epilogo della manovra quirinalizia, bisogna leggere le telefonate dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia assieme ai sostituti Antonino Di Matteo, Francesco del Bene e Lia Sava, in particolare le nove intercettazioni dei colloqui tra D’Ambrosio e Mancino. Il fidato collaboratore di Napolitano si offre senza risparmio e spende il nome del presidente. Il 25 novembre alle 21, D’Ambrosio e Mancino parlano di un possibile snodo della trattativa: la nomina del magistrato Francesco Di Maggio (poi deceduto) a numero due del Dipartimento amministrazione penitenziaria. “Perché è arrivato lì Di maggio? Chi ce lo ha mandato? Questo è il problema”, spiega D’Ambrosio a Mancino. Poi aggiunge: “C’erano due problemi: l’alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi e lei (Mancino, ndr) non ne ha saputo niente perché per la parte 41 bis c’erano Mori, Polizia-Parisi, Scalfaro e compagnia. Per la parte dei colloqui investigativi… Di Maggio-Mori”.
CON IL PASSARE dei mesi i discorsi si concentrano sulle ansie di Mancino, che pensa di essere nel mirino del pm di Palermo Nino Di Matteo e invoca un intervento del capo della Dna Pietro Grasso sotto la veste del coordinamento. “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (probabilmente i pm della Procura di Palermo, ndr) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione? ’” Mancino prosegue: “E io gli ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. È quello l’obiettivo: spingere Grasso a intervenire sulle procure di Palermo e Caltanissetta per imporre un coordinamento che – nelle intenzioni di Mancino almeno – avrebbe potuto ridurre i danni. Si arriva al 24 febbraio. A Palermo Mancino è sentito come testimone nel processo a Mario Mori dove si parla sempre di trattativa Stato-mafia.
La deposizione non soddisfa il pm Di Matteo e il giorno dopo sui giornali esce la sua intervista: “Qualcuno nelle istituzioni mente” con l’anticipazione di un imminente confronto tra gli ex ministri Mancino e Martelli. L’ex presidente del Senato entra in fibrillazione: “Il pm Di Matteo ha detto che ci sono contraddizioni tra Mancino, Martelli e Scotti”, dice al telefono a D’Ambrosio, che replica: “Ma lui l’ha già chiesto il confronto? Io per adesso posso parlare con il presidente (con tutta probabilità Napolitano, ndr). Si è preso a cuore la questione ma non lo so. Francamente la ritengo difficile”. D’Ambrosio e Mancino si interrogano al telefono su quale sia la persona o l’ufficio giudiziario sul quale intervenire: “Il collegio (del Tribunale di Palermo, ndr) lì è equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto con Tavormina (generale ed ex capo della Dia) potrebbe rigettare per analogia”. Non è facile: “Intervenire sul collegio”, spiega D’Ambrosio, “è una cosa molto delicata. Più facile è parlare con il pm”. Qual è il pm giusto però? Mancino spiega: “L’unico che può dire qualcosa è il procuratore capo di Palermo Messineo e l’altro che può dire qualcosa è il Direttore nazionale antimafia Grasso. Io gli voglio parlare perché sono tormentato”. Povero Mancino. D’Ambrosio lo rincuora: “Ma non Messineo... in udienza Di Matteo è autonomo. Io direi che l’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale Grasso”. Poi Mancino si lamenta di “Messineo che non fa più niente”.
MANCINO e D’Ambrosio si sentono il 5, il 7 e anche il 12 marzo quando l’ex presidente del Senato chiede a D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. Loris D’Ambrosio non lo manda a quel paese ma anzi lo illude: “Lo devo vedere domani”. Si arriva così al 30 marzo. I pm Ingroia e Di Matteo chiedono il confronto in aula al processo Mori tra Mancino e Martelli. Il presidente del tribunale, per pura scelta tecnica, rigetta. Ma Mancino non si rilassa. Telefona il 27 marzo e poi ancora il 3 aprile a D’Ambrosio. Il 4 aprile il Quirinale scrive al procuratore generale della Cassazione. Fiero di avere fatto il suo compito, il giorno dopo, il 5 aprile, il consigliere del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, legge al testimone (poi indagato per reticenza) la lettera del Quirinale al pg della Cassazione. Poi D’Ambrosio aggiunge: “Ho parlato sia con Ciccola (Pasquale Ciccolo, sostituto pg della Cassazione, ndr) che con Ciani (il pg della Cassazione, ndr), hanno voluto la lettera così fatta per sentirsi più forti”. Passano solo due settimane e Ciani, forte della lettera appunto, convoca Grasso.

il Fatto 19.6.12
Il Pg: “A sua disposizione” L’ex ministro: “Uè guagliò...”
Poi Esposito invita l’ex capo del Viminale:
“Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Il dialogo è quello tra due vecchi amici, e uno parla tranquillamente in napoletano. “Sono chiaramente a sua disposizione – dice il Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito – adesso vedo questo provvedimento e poi ne parliamo. Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”. E Nicola Mancino replica: “Guagliò come vengo, vado sui giornali”. “Ahahaha, ho capito”, commenta allegro il pg. Sono le 9.04 del 15 marzo 2012, l’ex presidente del Senato chiama per congratularsi con l’alto magistrato che ha appena ricevuto l’ordinanza del gip Alessandra Giunta su via D’Amelio.
MANCINO è contento: “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice al pg, e con lui parla a ruota libera della sua posizione giudiziaria, illudendosi di farla franca, almeno con i pm nisseni: “Resta la figura di una persona che è reticente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”. Siamo a metà marzo, e le manovre di accerchiamento sul Quirinale entrano nel vivo: venti giorni dopo, il 4 aprile, sollecitato da Mancino, il capo dello Stato invia la sua lettera al pg della Suprema Corte, in quel momento quasi pensionato. Per questo il carteggio agli atti di piazza Cavour serve di fatto a spianare la strada al neo pg della Cassazione, Gianfranco Ciani, l’ultimo a muoversi in questa catena di Sant’Antonio di soccorso istituzionale. Ciani alla fine convoca il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, l’unico che ha poteri reali di coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta. Ma il capo della Dna si sfila dall’intrigo istituzionale, rispondendo per iscritto di non avere le prerogative necessarie per intervenire nella vicenda. A rivelare la conclusione delle “grandi manovre” politiche per monitorare l’indagine sulla trattativa è una fonte molto vicina a Vitaliano Esposito, il quale in una lettera di precisazione inviata al Fatto Quotidiano parla di un’altra riunione, convocata a Roma in una data imprecisata, ma certamente oltre due anni fa, visto che destinatari della convocazione furono i pg di Palermo Luigi Croce e di Caltanissetta Giuseppe Barcellona. Una riunione, dice Esposito, organizzata con Piero Grasso per accertamenti “sulle indagini, apparentemente parallele, in corso alle procure di Palermo e Caltanissetta”.
I PARTECIPANTI, secondo quanto scrive il pg, avrebbero garantito “la più ampia collaborazione, riservando la trasmissione di atti rilevanti”. Ma di questo incontro non sanno nulla né Luigi Croce, pg a Palermo fino al 20 ottobre 2011, né tantomeno Grasso: entrambi sostengono di non avere mai partecipato ad alcun vertice sul tema. Cadono dalle nuvole anche i pm di Palermo, che non sono mai stati informati e che hanno appreso dell’interesse istituzionale sulle loro indagini dall’ascolto delle centinaia di ore di intercettazioni disposte sui telefoni dei protagonisti politici di quella stagione, Mancino in testa. Nella sua lettera il pg Esposito precisa di avere chiesto l’ordinanza del gip nisseno Alessandra Giunta su via D’Amelio “senza avere avuto contatti con alcuno”, prima, cioè, di ricevere la missiva del Quirinale. L’unico contatto con Nicola Mancino è quello del 15 marzo scorso, il giorno dopo la richiesta ufficiale dell’ordinanza.
“Nell’articolo si fa riferimento a una telefonata che mi fece il senatore Mancino per complimentarsi della mia iniziativa, telefonata da me ricevuta – dice oggi il pg Esposito – e dunque per quanto mi riguarda assolutamente neutra”.
E questa è solo una delle centinaia di conversazioni al telefono intercettate dai pm tra la fine dell’anno scorso e la primavera di quest’anno, quando l’inchiesta sulla trattativa entra in dirittura d’arrivo catalizzando l’interesse istituzionale. E scatenando in Mancino un’escalation di angoscia, rivolta, in particolare, ad uno dei pm: “È sempre il solito Di Matteo. È lui il guaio… mi ha convocato… Fa le domande, io rispondo e lui… non dice niente, non parla, fa solo domande”.
È IL 25 novembre 2011. Alle ore 21.07, Nicola Mancino telefona a Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del capo dello Stato Giorgio Napolitano, per segnalare che è stato nuovamente convocato a Palermo, e si lamenta del pm Nino Di Matteo, attribuendogli il ruolo dell’inquisitore più duro durante gli interrogatori. È la madre di tutte le intercettazioni, la prima e la più lunga di dieci telefonate – tutte partite dal cellulare dell’ex presidente del Senato – che secondo l’accusa rivelano, tra novembre 2011 e aprile 2012, l’aspettativa fortissima di Mancino di un “salvataggio” istituzionale da parte del Quirinale rispetto alle iniziative processuali della procura di Palermo, che appare intenzionata a scavare a fondo sul suo coinvolgimento nell’indagine.
Una raffica di telefonate che coinvolge, oltre a Esposito e D’Ambrosio, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, della corrente di Md, e il presidente dell’Unione giornalisti pensionati Guido Bossa. Mancino chiama Rossi mezz’ora dopo essersi complimentato con Esposito, il 15 marzo scorso. Quello stesso Nello Rossi che due giorni fa si è detto “incredulo e profondamente preoccupato” per il coinvolgimento nell’inchiesta dell’ex Guardasigilli Giovanni Conso. Fibrillazioni che attraversano anche altri indagati della trattativa: decine sono le telefonate tra gli ex ufficiali del Ros fedelissimi di Mario Mori. Giuseppe De Donno parla più volte con Mori e scambia frenetici sms (e numerose telefonate) con “Raf”, Raffaele Del Sole, l’ufficiale che a Roma, nel processo al pm Salvatore Leopardi (accusato di avere informato i servizi dei contenuti dei colloqui in carcere dei boss ristretti al 41 bis), si è trincerato dietro il segreto di Stato.

il Fatto 19.6.12
L’intervista: Pietro Grasso difende i Pm di Palermo
“La Suprema Corte mi chiese di relazionare, ma a voce”
di Sandra Amurri


“Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso”
L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia, a dicembre 2011 racconta al telefono a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica: “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (Procura Palermo ndr.) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione’ e io ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. L’occasione è la cerimonia al Quirinale per lo scambio degli auguri natalizi. Mancino non è ancora indagato, ma teme di diventarlo.
Procuratore Grasso, conferma le parole di Mancino?
Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai Pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso e la mia azione è funzionale a favorire la loro attività investigativa alla ricerca della verità. Mancino lamentava valutazioni diverse da parte di talune procure rispetto a relazioni e comportamenti e omissioni a lui attribuiti.
Gli ho detto che il solo strumento che può ridurre a unità indagini pendenti in diversi uffici è l’istituto dell’avocazione che, però, è applicabile solo nel caso di ingiustificata e reiterata violazione delle direttive impartite dal Pna al fine del coordinamento delle indagini. Avocazione che è nei miei poteri, ma nel caso Mancino non vi erano i requisiti per poterla applicare.
Dunque Mancino lavora di fantasia?
Sono le parole di un uomo che dice di sentirsi perseguitato, accerchiato. Come risulta dai verbali, sono state fatte riunioni di coordinamento tra le varie Procure senza alcuna tensione come possono confermare tutti pm. Nessuno si è mai lamentato di una mia interferenza. Non vi è mai stato alcun accenno alla questione Mancino. Coordinamento significa che le informazioni di ogni procura debbono essere messe a disposizione delle altre procure affinché vi sia una circolazione di notizie. Ma, ripeto ogni Procura resta autonoma e indipendente come è avvenuto: Caltanissetta ha archiviato e Palermo, in presenza di altri elementi, ha proceduto anche nei confronti di Mancino per quello che ha detto al dibattimento.
Il 12 marzo Mancino chiama D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio risponde: “Lo devo vedere domani”. Procuratore Grasso, lei il 13 marzo ha incontrato il consigliere D’Ambrosio?
Ecco la mia agenda alla pagina 13   marzo: in una giornata densa di riunioni e consultazioni non vi è traccia di appuntamenti con D’Ambrosio. Forse prevedeva di farlo, ma non lo ha fatto.
Allora D’Ambrosio mente?
Mah! Può averlo detto per tranquillizzare Mancino che, evidentemente non era rimasto soddisfatto dalla mia risposta tranciante in occasione della cerimonia al Quirinale.
Ma D’Ambrosio in altre occasioni le ha mai parlato del caso Mancino?
Sì. Mi ha espresso l’esigenza di Mancino. Il problema, per quanto mi riguarda, non è ciò che abbia fatto o abbiano tentato di fare, ma quello che io ho fatto. È mai arrivata una richiesta di Grasso ai Pm di Palermo? Grasso ha mai compiuto un solo atto per agevolare Mancino? La risposta è: no.
Conferma che l’attuale Pg di Cassazione Ciani l’ha convocata, lasciando intendere che Mancino riteneva di subire le conseguenze di un mancato coordinamento tra le procure?
Sì. Sono stato convocato dal Pg della Suprema Corte il 19 aprile. Mi è stata richiesta una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulle valutazioni degli elementi di accuse acquisiti dai singoli uffici giudiziari.
Perché Ciani non lo sapeva?
Io alle richieste del superiore ufficio rispondo per iscritto.
Alla luce delle responsabilità, alcune, per ora, sicuramente politiche, cosa auspica per il raggiungimento della verità sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi che ne sono seguite?
Che inizino a collaborare i rappresentanti delle istituzioni. I mafiosi, quelli che si sono pentiti, conoscono solo un certo livello, non sono i vertici, intendo Graviano, Riina, Provenzano. Finché avremo pentiti mafiosi di basso rango potremmo arrivare fino a un certo livello di conoscenza, per avere la verità compiuta abbiamo bisogno dei vertici di Cosa Nostra oppure di qualche apporto istituzionale che ha vissuto e sa. Io auspico la verità e credo umilmente di aver dato un contribuito determinante nel convincere Spatuzza a pentirsi, nell’aver raccolto le sue dichiarazioni sulle stragi e nell’averle messe a disposizione delle varie Procure.
A un comune cittadino indagato è dato chiedere “protezione” ad alte cariche dello Stato che prontamente si attivano?
No, ovviamente. La responsabilità è di chi chiede e di chi si attiva. Io non ho raccolto alcuna richiesta. La legge, ripeto, è e deve essere uguale per tutti.
il Fatto 19.6.12 Martelli: “Conso non avrebbe tolto i 41bis senza il Colle” Torna sugli anni delle stragi l’ex ministro della Giustizia di allora Claudio Martelli: “Io non credo di essere accusatore di Nicola Mancino – dice al Giornale Radio Rai – Io ricordo delle circostanze che Mancino non ricorda. Quel che io ricordo – aggiunge l’ex Guardasigilli – è che non appena Liliana Ferraro, la vice di Falcone, mi informò della visita che aveva ricevuto da parte del capitano De Donno del Ros dei Carabinieri, nel corso della quale il capitano le parlò dei contatti con Vito Ciancimino, io me ne lamentai con Mancino e gli chiesi semplicemente ‘Guarda cosa stanno combinando questi Ros che continuano ad andare avanti per conto loro’”. In una delle telefonate al Quirinale al consigliere giuridico di Napolitano, Mancino lamenta di essere stato lasciato solo e lascerebbe intendere un coinvolgimento del Capo di Stato dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro. Sul punto Martelli risponde: “Questo non sono in grado di dirlo. Quel che è accaduto dopo con Scalfaro ancora presidente e con l’iniziativa del ministro della Giustizia che mi succedette, cioè Conso, di togliere dal 41 bis prima cento poi altri 300 boss mafiosi, questo certamente Conso non lo fece senza il consenso oltre che del governo anche del Quirinale”.

il Fatto 19.6.12
“La spiegazione del Quirinale non può essere vera”
Di Pietro e l’intervento sui Pm di Palermo: Il Pg di Cassazione fa indagini disciplinari
di Wanda Marra


Abbiamo bisogno di capire esattamente che cosa è successo e quali livelli di intervento ci sono stati”. Antonio Di Pietro non ci sta ad abbassare la tensione e l’attenzione sulla “trattativa” Stato-mafia. E dopo aver attaccato il presidente della Repubblica sul suo blog (“Preoccupa che ci sia stata una lettera di pressioni scritta da Napolitano al Procuratore generale della Cassazione. In un altro Paese ci sarebbe stata un’alzata di scudi della politica”), ha presentato un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia.
Onorevole Di Pietro, che cosa chiederete in questo question time?
Non può essere vera la giustificazione addotta dal Quirinale sabato, ovvero che il segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, scrisse quella lettera al Procuratore generale della Cassazione, per manifestare un’esigenza di coordinamento delle indagini. Il destinatario non poteva essere in quel caso il Pg della Cassazione, ma il capo della Direzione nazionale antimafia. Infatti, il primo ha il compito di eseguire indagini disciplinari, non di coordinamento, che viceversa spetta al capo della Dna.
Mi scusi, mi sta dicendo che le pressioni potrebbero essere state addirittura più dirette di quanto sembrava finora, e di quanto ha ammesso indirettamente il Quirinale?
Questo è un fatto grave. Che ha fatto il Pg della Cassazione quando ha ricevuto la lettera? A chi l’ha trasmessa? E come ci è entrato il capo della Dna? È un fatto grave nel fatto grave.
Ma per lei sta diventando un’abitudine attaccare Napolitano.
Tutti hanno fatto quadrato intorno alla figura di Napolitano, come se fosse intoccabile, come se fosse illecita qualsiasi ricerca della verità. L'ultima cosa che voglio è denigrare e ingiuriare il Capo dello Stato. Da parte mia nessuno scontro, ma una scelta: è lecito e doveroso da parte delle forze politiche chiedere conto. Stiamo parlando di persone morte ammazzate, di braghe calate rispetto ai mafiosi, di annullamento del carcere duro a circa 200 detenuti.
Da cosa partirete nell’interrogazione?
Napolitano, o chi ha agito per lui utilizzando il suo nome, ha fatto già il primo atto improprio nel momento in cui ricevendo una lettera si è attivato a favore del richiedente: qualcuno sembra più uguale degli uguali. In questo caso Mancino, che non voleva confrontarsi con Martelli, su questo tema. Ci sono decine di telefonate tra Mancino e il consigliere del Colle Loris D’Ambrosio su questa vicenda. Ci sono trattamenti di riguardo, atteggiamenti di favore.
Antonio Ingroia, il coordinatore del pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia, ieri, in un’intervista a Repubblica ha detto di non aver subito alcun condizionamento.
Una cosa è non essere riuscito a portare a termine le proprie pressioni, un’altra non averci provato.
In molti si chiedono però se almeno a certi livelli la trattativa nel tentativo di evitare altre stragi non fosse legittima. Non è d’accordo?
È un altro discorso. Se qualcuno ha agito nei limiti dei suoi mandati, lo stabilirà l’indagine. Quello che trovo inaccettabile è che si sia tentato di sviare l’attività investigativa ricorrendo al Capo dello Stato e che lui si sia attivato in una materia che non lo riguardava.
Il Pd, per bocca di Enrico Letta, ha definito la sua una “intollerabile campagna denigratoria” nei confronti di Napolitano. Cosa risponde?
È il solito modo per non affrontare le questioni e per giustificarsi. Mi ricorda quando in una discussione qualcuno alza la voce. Non ho attaccato il Capo dello Stato, anzi agisco a tutela della sua funzione
Questo sancisce ancora una volta la fine della vostra alleanza con il Pd?
Su questo tema invito i cittadini a riflettere da che parte stare. In uno Stato di diritto è illecito interferire con delle indagini. Non è che io per lisciare il pelo posso far finta di non vederlo. Il compito di un partito politico non è quello di trovare accordi al ribasso per garantirsi uno spazio. Non mi si può chiedere di svendere la storia e l’unità del partito solo per garantirmi la rielezione.
Insomma, il divorzio dal Pd è effettivo?
Noi siamo l’unica forza politica che cerca si essere coerente. Il Pd si comporta in maniera diversa fuori e dentro il Parlamento: fuori per esempio dice no agli esodati, e poi vota, oppure no alla riforma del lavoro e poi la vota. È davvero assurdo che si chieda a me una giustificazione.
Siete pronti ad andare alle elezioni con il Movimento 5 stelle?
Ho rispetto del ruolo di denuncia di Grillo. E penso che il giorno dopo le elezioni le nostre battaglie saranno comuni. Ma Grillo ha detto chiaro e tondo che loro andranno da soli alle elezioni: quindi non è a me che deve chiedere, ma a loro.

l’Unità 19.6.12
Mai più «Mare chiuso»
Il doc di Andrea Segre invade l’Italia nel giorno del Rifugiato
Il film sulle vittime dei respingimenti voluti dall’accordo Berlusconi-Gheddafi
E insieme contro la xenofobia
di Gabriella Gallozzi


C’È UNA DOPPIA BATTAGLIA IN «MARE CHIUSO», IL NUOVO, MAGNIFICO, DOCUMENTARIO DI ANDREA SEGRE CHE OGGI, IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DEL RIFUGIATO, FARÀ IL GIRO DELLE PIAZZE, DELLE SCUOLE, DEI CINEMA D’ITALIA (A ROMA, TRA GLI ALTRI, AL KINO VILLAGE, ORE 21). Quella condotta dai migranti africani culminata con la storica sentenza della Corte europea per i diritti umani (23 febbraio 2012) che ha condannato l’Italia a risarcire quei rifugiati (22 per l’esattezza) respinti in Libia nel 2009 a causa dello scellerato accordo tra Berlusconi e Gheddafi. E quella che lo stesso regista, trentaseinne, conduce da anni col suo cinema: dare volto e voce all’universo dei migranti per combattere l’ondata xenofoba e i facili pregiudizi che, soprattutto negli ultimi tempi, sono diventati pericolosi strumenti di consenso politico. Una battaglia che stavolta si fa ancora più concreta con la campagna «Mai più respinti», per chiedere al nostro governo l’impegno a non fare mai più respingimenti in mare. Promossa dalla ZaLab, Open Society Foundations e Amnesty International Italia la campagna ha in Mare chiuso il suo manifesto.
Dopo aver mostrato le condizioni di schiavitù dei braccianti neri di Rosarno (Sangue verde), Andrea Segre, infatti, «torna» in Libia, da dove era partito col suo Come un uomo sulla terra, per raccontare col giornalista Stefano Liberti questo ulteriore caso di violazione dei diritti umani compiuti dal nostro governo.
IN PIENO MEDITERRANEO
Tra il maggio del 2009 e il settembre 2010 oltre duemila migranti a bordo delle carrette del mare, sono stati intercettati in pieno Mediterraneo e respinti dalla polizia e dalla marina italiane in Libia, da dove fuggivano alle violenze e alle torture del regime. Una pagina nera di cui sin qui si è saputo pochissimo. Anche perché il governo Berlusconi, con la Lega in testa, ne ha fatto una sorta di fiore all’occhiello della sua politica sulla «sicurezza». Fa gridare vendetta ancora oggi come mostra Mare chiuso il volto plastificato dell’ex premier mentre spiega al popolo come i «respinti» non siano gente che sfugge alle guerre e alla miseria, ma persone scelte ad hoc da organizzazioni criminali con mire sull’Italia. Eccoli, infatti, questi «pericolosi criminali» ai quali Segre dà la parola. Sono loro, infatti, a ricostruire in prima persona questa storia. Compresa la «vittoria» al tribunale di Strasburgo. Molti di loro si sono rifugiati nel campo Unhcr di Shousha in Tunisia, all’indomani dello scoppio della guerra in Libia. E da qui raccontano, per la prima volta, cosa ha significato essere stati respinti ed essere finiti lì, in mezzo al deserto dopo aver subito le violenze delle galere di Gheddafi. Sono racconti carichi di emozione, contagiosi. Tanti testimoni e tante storie che ti inchiodano. Che resti lì ad ascoltare quasi con la suspense di un giallo.
Una donna col suo bambino comincia il racconto di quel viaggio della speranza. Una carretta come tante, la confusione, gente accalcata, ragazze incinte, bambini, la paura, la mancanza di cibo ed acqua. Il racconto si fa immagine grazie a un documento straordinario «rubato» col cellulare da uno dei tanti passeggeri. Poi l’imbarcazione si rompe. Bloccati in mezzo al mare. Lanciano l’allarme. Arriva prima un elicottero dell’esercito italiano, poi una nave della marina. I racconti dei testimoni parlano a questo punto di «pericolo scampato». Quasi un sospiro di sollievo collettivo. «Il sogno italiano che si avvera». Le donne i bambini vengono fatti salire per primi, seguiti dagli uomini. «In principio gli italiani ci si rivolgevano in inglese», dice qualcuno. Poi arrivano i primi soccorsi ma ad un tratto una telefonata cambia tutto. È sempre la donna col bambino a raccontare: «Gli italiani hanno cambiato espressione, non ci parlavano più inglese ma facevano finta di non capire quando chiedevamo acqua, cibo». Via i documenti dalle loro tasche in cambio di numeri messi intorno al collo. Poi strattoni, maltrattamenti, ferite. Senza dare nessuna spiegazione la nave fa dietro front e torna a Tripoli. C’è ancora a chi spuntano le lacrime ricordando quel momento. E più di uno non è più qui a raccontare, morto dietro le sbarre della galera libica dove sono finiti d’ufficio tutti i «respinti». Mare chiuso però ha comunque il suo happy end: la sentenza della corte dei diritti umani di Strasburgo contro l’Italia che fa da cornice all’intero film. Un film, appunto, per dire «mai più».

La Stampa 19.6.12
La voce degli emergenti “Nel mondo non soffrono soltanto gli europei”
Pechino sarcastica: state meglio di chi vive nel Sahel
di Maurizio Molinari


Los Cabos. In una grande sala per banchetti alla destra dell’entrata dell’hotel Barcelò si svolge la riunione degli “sherpa” del G20, ovvero i diplomatici selezionati da ogni Paese per redigere i documenti finali del summit: un lavoro che si svolge in secondo piano ma non è, per questo, meno importante. Al contrario: è qui che si pongono le basi per i documenti che poi verranno adottati (o no) alla fine del summit.
E poiché la ricerca di un accordo sulla Dichiarazione finale e il Piano d’Azione si trasforma in una seduta-matarona, quando arriva la notte la sicurezza messicana si allenta, consentendo ai cronisti di entrare e vedere dal vivo il cuore pulsante del G20. Il grande tavolo a forma di quadrato segue il perimetro della sala, su una parete vi sono le bandiere dei Venti e sulle altre tre altrettanti megaschermi che consentono a tutti di seguire in diretta scrittura, modifiche e contromodifiche del testo. Sul Piano d’Azione tutto sembra filare liscio, sotto la regìa della presidenza messicana, fino a quando si arriva al paragrafo 9 nel quale si parla dell’impegno collettivo per «ridurre la povertà» e «aumentare le condizioni di vita» nei Paesi in via di sviluppo.
E’ un linguaggio che spesso i summit internazionali usano per mostrare attenzione verso le nazioni più povere. Solo che qui non siamo al G7 o G8, dove intorno al tavolo ci sono solo i Paesi più industrializzati, e così il testo viene bersagliato dalle critiche delle economie emergenti. Che al linguaggio della diplomazia preferiscono un tono più diretto.
Per prima interviene la rappresentante argentina: «Questo testo è troppo vago, non tiene conto del problema reale che ci troviamo ad affrontare, ovvero il fatto che sono i Paesi in via di sviluppo a pagare il prezzo più alto dell’attuale crisi finanziaria». Nella sala piomba il gelo. Gli sherpa dell’Eurozona non azzardano neanche una risposta.
Ci prova solo il britannico, obiettando che il «linguaggio proposto dall’Argentina è poco chiaro, andrebbe specificato cosa vogliamo fare in concreto». La replica è di fuoco: «Forse non padroneggio bene l’inglese ma il concetto che ho espresso è assai chiaro». A darle manforte arriva lo sherpa indiano: «L’aggiunta proposta dall’Argentina è molto opportuna, bisogna dire che sono i Paesi poveri a soffrire di più perché sta passando l’impressione che invece gli europei stiano peggio di loro». Il Brasile si associa ed è a questo punto che il delegato americano, molto timidamente, suggerisce un aggiustamento lessicale della «modifica argentina» nell’evidente intento politico di non rimanere escluso dal cambiamento di una parte importante del Piano d’Azione. L’Australia è veloce nell’associarsi.
Ma il tentativo americano di inserirsi fra gli emergenti piace poco a Pechino, il cui sherpa chiede la parola con l’intento di mettere gli occidentali sulla difensiva: «Consentitemi la franchezza, la modifica argentina è opportuna perché bisogna smettere di continuare a sostenere che sono gli europei le prime vittime della crisi finanziaria, a cominciare dalla Grecia perché i suoi abitanti hanno un tenore di vita di gran lunga superiore a quelli del Sahel».
Per alcuni minuti il parterre di sherpa ammutolisce nell’ascoltare il tono perentorio del cinese, che più di un intervento pronuncia un’arringa vestendo di fatto i panni della nazione capofila di un nuovo schieramento internazionale, accomunato dal voler rovesciare la lettura dell’economia che accomuna europei, americani e giapponesi. Quando termina, l’approvazione della «modifica argentina» è acquisita. Sintomo dei nuovi equilibri di potenza generati dal G20.

La Stampa 19.6.12
Pressing cinese su Berlino “Così scoraggiate la crescita”
Obama all’Europa: “Bisogna agire subito per stabilizzare la situazione”
di Maurizio Molinari


Rigida La Merkel: avanti col rigore. Ma la Cina la avverte: stai frenando la crescita
Il presidente Usa Obama ha chiesto una svolta
Il presidente francese Hollande: con l’Italia punta a un ammorbidimento
In difficoltà Il premier spagnolo Rajoy, teso per le banche

Nonostante l’esito del voto greco, Stati Uniti e Brics mantengono alta la pressione sull’Eurozona e la bozza finale del G20 le chiede di «adottare tutte le misure necessarie» per risolvere la crisi del debito, accelerando in particolare la crescita.
L’unanime sollievo per la vittoria dei partiti pro-euro ad Atene lascia posto a un rinnovato pressing sugli europei sin dal primo incontro del mattino fra Barack Obama e il presidente messicano Felipe Calderon. «Il voto greco crea una prospettiva positiva - dice l’inquilino della Casa Bianca ma la crescita del mondo è troppo lenta, è l’ora di agire per stabilizzare la situazione». Poco dopo Obama incontra Angela Merkel per discutere durante 45 minuti di colloquio i dettagli del pacchetto di misure europee che saranno discusse al Consiglio Ue di fine mese - dall’accelerazione dell’unione fiscale alla promozione della crescita - e pone anche la questione di come aiutare la Grecia a riprendersi. Anche se la cancelliera tedesca è contraria a modificare gli accordi con Atene, la Casa Bianca la spinge a farlo. «È evidente a tutti che la crescita è stata inferiore del previsto, la Grecia è andata fuori dai binari e degli aggiustamenti possono avvenire» spiega Lael Brainard, viceministro del Tesoro Usa, illustrando quanto Obama ha detto alla Merkel. Ciò che spinge il presidente a immergersi a tal punto nei rapporti inter-Ue è il timore che l’Eurozona si rilassi dopo il voto greco, perdendo slancio nelle riforme.
In parallelo con Obama si muove il leader cinese Hu Jintao, che vede anch’egli la Merkel e oggi incontrerà il presidente francese François Hollande. La priorità che Hu discute con Merkel è «l’aumento della domanda globale» al fine di consentire alle economie con surplus di continuare a trainare la crescita globale, scongiurando il rischio di una nuova recessione, e questo significa rilanciare con forza la richiesta del G8 di Camp David: «Ora è il momento della crescita». Il messaggio per la Merkel è schietto: l’asse privilegiato con Pechino potrebbe essere a rischio se l’austerity continuerà a frenare i consumi dell’Europa. I leader di Brasile, Russia, India e Sudafrica che con la Cina compongono i Brics, leader delle economie emergenti - si muovono in sintonia, facendo sapere che non faranno mancare i contributi al pacchetto di 430 miliardi del Fmi per sostenere l’Europa, ma al contempo chiedono «la realizzazione degli impegni del 2010» ovvero la riforma del medesimo Fmi destinata a dare più influenza alle economie emergenti. Il pressing congiunto Usa-Brics sull’Eurozona trova un terzo pilastro nel premier britannico David Cameron, che chiede ai partner della moneta unica di «agire con decisione e chiarezza per combattere la perdurante crisi» a cominciare dalla necessità di «passi coraggiosi verso l’unione fiscale e bancaria». Aspettare, accontentandosi dell’esito del voto greco, sarebbe la scelta peggiore. «In simili situazioni ritardare è sempre pericoloso, l’interesse della Gran Bretagna è che si agisca in fretta» aggiunge Cameron, lasciando intendere che al tavolo del prossimo Consiglio europeo sarà Londra a farsi portavoce delle istanze di Usa e Brics.
Vista dagli alberghi assolati di Los Cabos, dove si succedono le riunioni fra i leader ai margini del summit del G20, l’Eurozona appare cinta d’assedio perché tutte le altre maggiori economie sono interessate a spingere l’unione monetaria verso l’integrazione fiscale. «È uno scenario insolito per noi europei essere messi sotto pressione per accelerare la nostra Unione - osserva un veterano dei summit del G20 - ma questo è ciò che sta avvenendo». Le turbolenze sui mercati dovute all’aumento dello spread dei titoli spagnoli consegnano ulteriori munizioni a Stati Uniti, Cina, Brasile, India e Gran Bretagna con i rispettivi diplomatici talmente interessati a conoscere nel dettaglio le decisioni che l’Eurozona si appresta a prendere da innescare momenti di nervosismo. E a confermare che la pazienza del resto del mondo sta per terminare c’è la bozza del testo della dichiarazione finale del summit, che chiede all’Eurozona l’adozione di «tutte le misure politiche necessarie per rafforzare la crescita globale e ripristinare la fiducia dei mercati».
Quando nel tardo pomeriggio Lael Bainard arriva nella sala stampa americana, riassume la situazione dicendo che «dai partner europei ci aspettiamo decisioni in tempi brevi a favore di integrazione e crescita». E loda le riforme intraprese da Italia e Spagna: «Sono importanti». Terminata la cena di lavoro del summit, è il presidente Obama a incontrare informalmente i leader europei per rinnovare collegialmente il messaggio condiviso da Pechino e Londra: «Questo è il momento di crescere, bisogna aumentare la domanda e scongiurare la recessione».

l’Unità 19.6.12
Lotta di classe, forti contro deboli
In un libro-intervista Luciano Gallino spiega perché il basso si è disgregato
La forbice tra i poli si allarga regalando una vita infernale ai più poveri, privi ormai di ogni capacità di resistenza
E premiando le rendite e l’evasione, privatizzando e nutrendo le banche
di Bruno Gravagnuolo

Luciano Gallino, Intervista, a cura di Paola Borgna pagine 213, euro 12 Laterza
Dagli anni 80 la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro nel XXI secolo.

CONTRORDINE: LA LOTTA DI CLASSE ESISTE ANCORA. ANZI ESISTE PIÙ DI PRIMA. SOLO CHE A FARLA SONO I PIÙ FORTI CONTRO I PIÙ DEBOLI, MENTRE QUESTI ULTIMI NON SONO NEANCHE IN GRADO DI CONTARSI E DI AUTORICONOSCERSI E PERCIÒ LA SUBISCONO. Non si tratta di slogan «vetero-marxisti», ma di una notizia vera e propria, corredata da un’analisi che mette capo a una tesi di sociologia globale. E a darci la notizia con l’analisi, è uno degli studiosi di relazioni industriali più autorevoli in Italia, Luciano Gallino, conoscitore delle tecnologie moderne, e alieno dalle chiacchiere, specie da quelle a lungo propinateci su «post-industriale», «fine del lavoro» e «fine delle classi». Chi voglia andare dentro la notizia deve leggere l’ultimo libro-intervista di Gallino, a cura di Paolo Borgna, sociologa a Torino: La lotta di classe. Dopo la lotta di classe (pagine 213, euro, 12,00, Laterza). Che prende le mosse dal luogo comune, egemone dagli anni 80 anche su una parte della sinistra: dal «fatto» che le classi sarebbero scomparse. Quel fatto è falso, è un «fattoide» illusorio. Perché i numeri globali di Gallino parlano chiaro. In Europa e in America gli operai come produttori di merci e capitale costituiscono almeno un terzo della forza lavoro occupata (in Italia sono circa 7milioni e mezzo di unità, su 19 milioni di lavoratori dipendenti con 5 milioni di salariati dell’industria).
Nel mondo poi c’è un proletariato industriale che sgobba e vive nelle fabbriche pari a circa un miliardo e trecento milioni di persone. Senza omettere, allargando lo sguardo, che due miliardi di persone nel mondo vivono con meno di due dollari al giorno. Contestualmente però, secondo una ricerca del Credit Suisse, nel 2010 lo 0,5% della popolazione mondiale adulta (24 milioni di persone) deteneva il 35% della ricchezza totale, pari a 69 trilioni di dollari. Mentre il 68% possedeva solo il 4,2% del totale della ricchezza mondiale, poco più di 8 trilioni di dollari. E laddove negli Usa nel 2008 l’1% della popolazione percepiva il 23% del reddito nazionale, in Italia in parallelo il reddito percepito dal «decimo» più benestante equivaleva in quell’anno a 10-11 volte la quota percepita dal decimo di famiglie col reddito più basso.
Oggi le cose vano molto peggio. E sono solo assaggi di statistiche. Ma quel che indicano è chiaro: l’approfondimento delle differenza di classe. Dove l’impoverimento relativo che include qualche incremento verso l’alto coincide con l’impoverimento assoluto, tanto grande è la forbice tra i poli. E senza dire che quella forbice regala una vita e un «lavoro» infernale ai poveri. Altro fattore segnalato da Gallino: l’immenso trasferimento di risorse dal basso verso l’alto negli ultimi decenni, con spoliazione dei salari a vantaggio di rendite e profitti e impoverimento del ceto medio nel fuoco delle turbolenze finanziarie. E qui, ulteriore batteria di dati e una domanda: che succede nel periodo 1976-2006, secondo l’Ocse? Succede che, nei 15 paesi più ricchi di quell’area, l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil (compreso il reddito degli autonomi calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati) è calata di dieci punti percentuali, dal 68% al 58%. E in Italia il calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%. E se si va a vedere certe «curve», scopriremo che in Italia alla fine degli anni 80 le entrate fiscali Irpef da lavoro dipendente erano il 40% del totale, e quelle del lavoro autonomo erano pari al 38%. Al presente invece quel 40% è diventato 60%, mentre l’apporto Irpef del lavoro autonomo è sceso al 10%! Il restante delle tasse lo pagano i pensionati, che per quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti.
QUALE SOLUZIONE
Quel che è accaduta allora è stata una gigantesca lotta di classe, dall’alto, che ha impoverito e disgregato il basso, privandolo di ogni capacità di resistenza. Come? Premiando le rendite e l’evasione. Privatizzando e riducendo le prestazioni di Welfare. Nutrendo le banche, alle
quali tra il 2007 e oggi sono state erogati dagli stati europei tre trilioni di euro, a premio dei titoli tossici smerciati. E poi: distruggendo le conquiste del lavoro fino a ridurlo a merce precaria e malpagata. Il tutto in buona coscienza e all’insegna di un Mantra. Questo: il mercato globale alloca ottimamente risorse e investimenti, elevando per tutti le opportunità. Al contrario ci siamo ritrovati con milioni di disoccupati, debiti sovrani accresciuti ed esportazioni di capitali e lavoro fuori dall’area euro. Con merci poi importate e create a sottocosto, i due terzi delle quali, nota Gallino, prodotte da corporation europee e americane. È il Capitale occidentale che fa concorrenza a se stesso. Altro che il pungolo della concorrenza delle tigri più giovani! Del resto la metà delle merci importate in Europa è euro-americano e non cinese. Ne deriva un capitalismo che per un verso abbassa i salari e aumenta la «metrica del lavoro», schiacciando il corpo e la mente dei precari alla catena molto più che al tempo fordista. E per l’altro entra in crisi di realizzo e investe in finanza. Per ristrutturarsi o spuntare alti rendimenti muovendo enormi masse di denaro. Masse di «fondi» con dentro i risparmi dei lavoratori, trascinati a investire contro se stessi: contro i loro posti di lavoro. E contro i debiti sovrani dei loro paesi, oggetti di speculazione e gonfiati da evasione aiuti a banche e a industrie che delocalizzano. Come invertire la rotta? Con la lotta di classe, visto che le classi esistono anche se precariato e «flessibilità» le ha rese «invisibili».
Insomma per Gallino, occorrono sinistra, partiti, corpi intermedi. Per dare forma non distruttiva al capitalismo e farlo funzionare, con redistribuzioni e politiche industriali. Dunque: scoraggiare le delocalizzazioni, spingere in alto i salari in Europa e fuori, tassare le rendite. E colpire magari l’arbitrio privatistico del «rating». Quello che prima incoraggia le speculazioni e poi spinge verso alti tassi di interessi, col ricatto del default. Ma tutto questo per Gallino, va fatto prima che populismo e protesta si alleino con finanza e tecnici, spingendo i poveri ancora più in basso. E prima che una crisi distruttiva del capitalismo ci sospinga verso forme autoritarie. Già, la lotta di classe può salvare il mondo e le anime. Purché stavolta dal basso contro l’alto.

l’Unità 19.6.12
Rousseau trasognato
Tornano «Le passeggiate di un sognatore solitario»
Ristampato in occasione dei 300 anni dalla nascita del filosofo ginevrino
il suo libro più sperimentale con un’innovativa traduzione
di Beppe Sebaste


Le passeggiate del sognatore solitario, Jean-Jacques Rousseau Traduzione di Beppe Sebaste pagine 144 euro 10 Feltrinelli
Torna in libreria «Le passeggiate» di Rousseau (Ginevra 1712 Ermenonville 1778), ingegno multiforme: fu scrittore, filosofo e musicista.

In occasione del terzo centenario della nascita di Jean-Jacques Rousseau, che si festeggia il 28 giugno, Feltrinelli riporta da domani in libreria Le passeggiate di un sognatore solitario nella traduzione di Beppe Sebaste, libro di ricordi e meditazioni scritto dal filosofo ginevrino negli ultimi anni di vita e pubblicato postumo: l’opera più perturbante, più innovativa, più sperimentale e, infine, più gratuita (nel senso della grazia e del dono, se già non sono sinonimi) di Rousseau. Anticipiamo qui un brano dell’introduzione.

«LE PASSEGGIATE DEL SOGNATORE SOLITARIO», INIZIATE NELL’AUTUNNO 1776, SUBITO DOPO LA REDAZIONE DEI «DIALOGHI» («DIALOGUES OU ROUSSEAU JUGE DE JEAN.JACQUES») LA SECONDA PASSEGGIATA È REDATTA ALLA FINE DELL’ANNO, DOPO L’INCIDENTE DI MÉNILMONTANT DEL 24 OTTOBRE 1776 RIPRESE NEL 1777 (DALLA TERZA ALLA SETTIMA), E POI NEL 1778 (DALLA FINE DELL’INVERNO AL 2 MAGGIO, «JOUR DE PÂQUES FLEURIES»), È FORSE IL MANIFESTO DI CIÒ CHE VIENECHIAMATOPRE-ROMANTICISMO.Che cosa vuol dire? Nel suo senso profondo, come il romanticismo, si tratta della precoce scoperta di una dimensione della sensibilità e dell’intelletto una nuova soggettività inseparabile da una consapevolezza critica delle strutture sociali della nostra civiltà, e del conseguente rimpicciolirsi del concetto di realtà, che in compenso si veste di una solida armatura. In Rousseau la fondazione della soggettività si accompagna, è noto, alla passione della politica e all’invenzione della democrazia, quella «sovranità popolare» spesso abusata e manipolata dai posteri.
DALLA «GINESTRA» A L’«ALBATROS»
In questo senso appartengono al romanticismo gli scritti di Rousseau come quelli di Marx (accomunati da una denuncia, pur se su piani diversi, dell’alienazione), la Ginestra di Leopardi e l’Albatros di Baudelaire, la veggenza di Rimbaud e i mondi possibili di Philip K. Dick (e la sua interrogazione sulla realtà della realtà), il Disagio della civiltà di Freud e Eros e civiltà di Marcuse, Allen Ginsberg, gli hippie e il recente movimento di protesta Occupy WS. La dimensione inaugurata dal romanticismo, a differenza di altri ismi, non ci abbandonerà più. Quello di Rousseau, scaturito nel pieno del secolo dell’Illuminismo, è la scoperta che, una volta lasciata la propria casa, è molto difficile ritornarvi, e l’alternativa è tra la deriva nomade (come la Wanderung dei romantici tedeschi) e la costruzione di una nuova, spesso utopica dimora.
Le Passeggiate è un’opera in cui la natura è onnipresente, ma il cui centro è quello che l’autore chiama «il sentimento dell’esistenza», ciò che lo rende il primo testo consapevolmente ecologico (nel senso anche di un’ecologia della mente) della letteratura moderna in Europa. È l’opera in cui con più fascino si dispiega l’incomparabile musicalità della lingua di Rousseau, e dove per la prima volta si fa uso della parola «romantico» (e a volte dell’adiacente «romanzesco») in riferimento a un paesaggio, o meglio, a un modo di vedere il mondo esterno e dirsi consapevoli di essere nel mondo, e che tutto è connesso con tutto. È anche un documento straordinario della patologia psichica di un individuo che cerca e trova compensazione e sollievo alla propria sofferenza nell’attività di sognare a occhi aperti, nell’ozio e nella contemplazione (che significa: fare il proprio tempio), nel libero divagare con la mente tutte azioni racchiuse nella parola rêverie, «trasognamento»; che trova compensazione e sollievo nel registrare, in una scrittura altrettanto libera, l’ebbrezza e l’incanto di questo abbandono. È la testimonianza poetico-psichica di un’operazione alchemica riuscita, una trasmutazione della sofferenza in musica attraverso una serie di altre trasformazioni esemplari: della passione in pazienza, del disagio in armonia, della lotta in resa, dell’esilio in estasi, dell’odio in conciliazione, della solitudine in grazia e autosufficienza. E dove immanente e trascendente, vita e sogno, come in ogni vera esperienza estatica (ed estetica) coincidono.
È infine il primo testo non di finzione in cui l’autore, esiliato e auto-esiliatosi dal mondo, ormai fuori dal sistema di circolazione e valorizzazione degli oggetti letterari (dall’establishement, si diceva nel Novecento) e dall’orizzonte di un pubblico, è davvero convinto di rivolgersi solo a se stesso (pur non scrivendo un diario), senz’altri testimoni (tranne Dio e il vago fantasma dei posteri), ciò che accomuna le Rêveries alla forma della preghiera.
Sono questi, detti con un pizzico di enfasi sbrigativa, gli aspetti che mi avevano motivato a rileggere e tradurre questo strano testo. Tradurre è immancabilmente entrare nel ciclo di nascita o rinascita di un testo, in cui la vita nuova, la sua sopravvivenza, non fa che confermarne la mortalità e insieme la sua iridescente seminalità (ancora vita postuma come diceva Walter Benjamin Nachleben e/o Fortleben). Racconterò più avanti l’esperienza di tradurre negli anni ’90 Le passeggiate del sognatore solitario (uscite nel 1996 in questa collana dei Classici Feltrinelli), alternando momenti di grande piacere ad altri di enorme imbarazzo (le Rêveries non sono il testo propriamente più gratificante per un traduttore). Ma prima di spiegare meglio che cosa sia questo libro, e dare alcune coordinate di lettura, vorrei dichiarare e assumere alcune scelte di traduzione.
UN «ALTRO» TITOLO
La mia responsabilità si segnala già dal titolo, che anagrammando l’ordine di quello originale, Les rêveries du promeneur solitaire, evita di incorrere nella falsa, oltre che fastidiosamente cacofonica, traduzione abituale («Le fantasticherie del passeggiatore solitario»), di fronte alla quale provo da sempre un moto di rigetto. Sono molto contento di non adoperare mai né la parola «fantasticheria» né tantomeno «passeggiatore». Il titolo adottato rispecchia d’altronde le scansioni del testo in capitoli, che Rousseau chiama «Passeggiate», e come si vedrà tutto nella sua concezione porta a un’identificazione tra il camminare e il sognare (e un certo modo di scrivere) nella comune sintesi di vagare, divagare, vagabondare con la mente e col corpo (coi piedi). Quanto alla bellissima parola rêverie, sogno prolungato e spesso diurno, essa non designa in nessun caso uno sforzo cosciente, non ha la frivolezza di una «fantasticheria» che presuppone già un giudizio, e un’idea di «realtà» da cui il fantasticare è supposto allontanarsi e precede in ogni caso ogni eventuale codificazione letteraria in generi. Ho adottato la parola italiana trasognamento, che dice e mantiene esattamente l’idea di un sogno prolungato e in stato di veglia. Come ci ricorda Tommaseo nel suo Dizionario, «trasognare» significa «andar vagando nella mente, come fa colui che sogna» (ed è usato in questo senso ad esempio dal Boccaccio nel Ninfale Fiesolano). Occorre poi ricordare che all’epoca di Rousseau non c’era tanta distinzione tra la meditazione, la contemplazione e il sogno a occhi aperti.

Repubblica 19.6.12
Studioso dell’antichità con grande fama anche all’estero la sua passione vera è la polemica sull’oggi
Luciano Canfora
“Cerco la verità nella storia per combattere l’infelicità”
di Antonio Gnoli


Guardando Luciano Canfora viene voglia di evocare un intellettuale del primo Novecento. La pettinatura all’indietro, gli occhiali tondi e leggeri, il volto scarno, l’abito serio e inappuntabile nei colori inclini al tabacco, ne fanno una figura lievemente retrò. Come restituita da un tempo sobrio e militante. Il professore ha da poco compiuto settant’anni. È uno dei grandi storici italiani che il mondo ci invidia. Come nasce la sua voglia di fare lo storico? «Alla base delle mie scelte ci sono fatti politici che fecero epoca: il 1956, innanzitutto. Poi il 1958 e il 1960. Nel ’56 facevo il ginnasio quando ci fu la rivolta Ungherese poi repressa dall’Unione Sovietica. Provenivo da una famiglia molto impegnata politicamente ed è comprensibile il trauma che ci investì. Il problema era riuscire a spiegare qualcosa di inaudito. E a distanza di anni continuo sempre più a pensare che il 1956 sia stato l’anno epocale della nostra storia ». Fu l’anno della grande nevicata. «Memorabile anche in quello. Chiusero le scuole a Bari». In un certo senso chiuse anche il movimento comunista internazionale. «Oggi è una banalità dirlo. Ma in quell’anno cominciò a decadere. Certo, in seguito ci sono stati periodi di smagliante ripresa. Ma se si guarda in profondità quella data stabilisce un punto di non ritorno ». E lei capì in quel momento che avrebbe fatto lo storico? «Capii che la storia è un affare serio e affascinante». Quando dice di provenire da una famiglia impegnata cosa intende? «Mio padre insegnava storia e filosofia in un liceo. Aveva fatto parte di Giustizia e Libertà. Il circolo formatosi intorno a Laterza aveva come punti di riferimento Croce, De Martino, Calogero. Poi, alla fine degli anni Quaranta, approdò nel Pci. C’era l’entusiasmo per un mondo che immaginavamo diverso. E il 1956 scosse alle radici questa convinzione. Mi impressionò la frase di uno che a scuola mi disse: “vi metteremo fuorilegge”». Le altre due date da lei scelte sono il 1958 e il 1960. Perché? «Il 1958 è la Francia: il colpo di Stato di De Gaulle per me concomitante con il colpo di stato ateniese del 411». Un salto di millenni. «È vero, ma lo sguardo sulla storia antica con un occhio al presente, e non per una passione antiquaria, si è venuto formando allora. Lì nacque il gusto di trasformare quella passione in ricerca. E poi, sì, il 1960. Anch’esso nella nostra storia è stato un anno di cesura». Il governo Tambroni. «Certo, poi gli scioperi in tutta Italia, i morti, l’aggressione ai parlamentari, i missini nell’area di governo. Ed erano passati solo 15 anni dalla fine della guerra civile». Lei tende a politicizzare i ricordi. Ma chi sono stati i suoi maestri? «Figure tra loro diverse: Ettore Lepore, storico del mondo antico, ci mise subito in contatto con la storiografia più avanzata, soprattutto anglosassone; Carlo Ferdinando Russo, filologo scaltro che ha svecchiato il nostro ambiente; Ambrogio Donini che insegnava Storia del Cristianesimo e ci faceva leggere i testi in lingua greca; Gabriele Pepe medievista e Pasquale Villani professore di storia moderna. C’era anche un bell’insegnamento di ebraico con un certo padre Penna che io frequentai perché il mio lavoro di tesi riguardava il mondo siriaco e il sostrato semitico ». Tutto all’Università di Bari? «Mi sono laureato lì e poi ho presentato una domanda di perfezionamento alla Normale di Pisa. Ho frequentato per un certo tempo, ma poi preferii fare un’esperienza in Francia». Come grande storico a Pisa c’era Delio Cantimori. «Non insegnava più. Morì nel 1966. Prosatore notevolissimo». Anche lui traumatizzato dal ’56. «Uscì dal Pci in silenzio nel 1957. Effettivamente una scelta anche per lui traumatica. Penso allo slancio ortodosso con cui prima che finisse la guerra entrò nelle formazioni clandestine. Recepì in pieno lo sfondo staliniano e zdanoviano, quasi come una prosecuzione della precedente esperienza mutata di segno». Allude alla sua passata esperienza nel fascismo? «Il discorso meriterebbe una maggiore profondità. C’è quella famosa pagina in cui Cantimori definisce il fascismo come la balena di Moby Dick, dove dentro c’era di tutto». Sta di fatto che molti intellettuali passarono dal fascismo al comunismo senza neanche porsi il problema di una scelta liberale. «Non che la vedessero meno. Erano freschi dell’esperienza del fallimento del parlamentarismo liberale, che tra l’Otto e il Novecento è senso comune». Gobetti non segue quel percorso. «Ma sono proprio certi ambienti liberali, con Luigi Einaudi in testa, a considerarlo uno scrittore eversivo». Lei non mette il Sessantotto tra le date fondamentali. Perché? «È un po’ controcorrente dimenticarsela, perché si è fatta tantissima retorica. Quando la cosiddetta rivoluzione italiana esplose facevo il professore di papirologia e non ero disposto a inneggiare acriticamente. Da noi il Sessantotto è stato soprattutto il frutto di una crisi generazionale. Ma se si guarda al contenuto concettuale penso, che al di là di una parvenza di ritorno al comunismo delle origini, sia stata una rivoluzione di tipo libertario». Dal libertario al libertino: c’è chi ha visto nel ’68 l’anticipazione del berlusconismo. «Non è del tutto sbagliato. Il fare quello che si vuole è una formula onnivora. Anche nella democrazia ateniese quando si voleva incutere a un politico un certo timore si diceva: “qui si cerca di impedire al popolo di fare quello che vuole”. Allora, non voglio dire che il berlusconismo sia l’erede del ’68. Tuttavia si può maliziosamente affermare che una élite sessantottesca è confluita nel craxismo e Craxi fu il padre di Berlusconi. Dopo di che gli storici futuri faranno le debite analisi». Lei è un antichista con la passione per il contemporaneo. Come coniuga le due estremità? «C’è una ragione in fondo crociana, per cui la storia è sempre contemporanea. Siamo mossi da domande attuali. Non accade, se non per il gusto dell’erudizione fine a se stessa, che si vada alla ricerca del passato per il passato». Per lei qual è il gesto più importante di uno storico? «L’interesse per il testo. Il punto di partenza di tutti i miei lavori è sempre un testo: una fonte antica, un documento, una lettera». È l’atteggiamento di un filologo, ma anche indiziario? «La parola indizio in greco si dice semeion. Tucidide l’adopera per spiegare come si è accostato a un passato non vicinissimo. Il parallelo è con la medicina ippocratica, ma soprattutto con il processo giudiziario: il processo attico che Tucidide ha visto centinaia di volte diventa per lui un piccolo modello di ricerca storica». Lo storico alla stregua di un commissario di polizia? «Di solito è così che viene colpevolizzato. Ma la ricerca non è del colpevole ma di una strada che porti alla verità». Non ha l’impressione che vero e falso oggi tendano a confondersi? «Anche il falso è un fatto storico. Tutta la produzione, dall’antichità a oggi, è un intreccio continuo di falso e di vero. Tutta l’arte greca che ci arriva attraverso le copie romane che cos’è? È vera e falsa insieme ». Diverso però è accertare il modo in cui un falso agisce nella storia altro è annullare la distanza tra falso e vero, come farà il post-moderno. «Se trasformiamo la storiografia in pura e semplice narrazione alla fine qualcuno dirà che l’Olocausto non c’è mai stato. Il compito dello storico è cercare la verità, non smarrirla». È sempre la verità di un testo. «Kissinger, nel suo celebre libro sugli anni alla Casa Bianca, dice che nella storia contemporanea ci sono milioni di documenti e che bisognerebbe bruciarne la gran parte perché quelli veri o plausibilmente veri sono pochi. La massa sterminata di documentazione può essere la via maestra per nascondere la verità. Però non possiamo dire che sia irraggiungibile. Sarebbe un’abdicazione morale». Lo storico deve avere un’etica? «Deve credere in quello che fa. Poi arriverà qualcun altro che lo confuterà». Vedo che le piacciono i pensatori forti: Tucidide, Kissinger... «Non farei questo mestiere se non sentissi certe pulsioni». Tra gli argomenti che predilige nella ricerca ci sono i temi del potere e della democrazia. «La parola democrazia contiene la parola potere. E nella sua genesi greca è tutt’altro che rasserenante. È fondamentale comprendere cosa c’è dietro certe parole. Qual è il potere effettivo che si nasconde nell’autorappresentazione ». Lei ha scritto una quantità enorme di libri. «È un difetto? ». No, ma la scrittura quale ansia colma? «Non è un’ansia. La ricerca non finisce, prende corpo allargandosi e poi diventa libro. Mi permetto di osservare autocriticamente che le cose più interessanti sono quelle che ancora non ho scritto». Lei si è spesso trovato a polemizzare con altri storici. Cosa prova quando è nel mezzo di una battaglia filologica? «Direi soprattutto un divertimento intellettuale. Perché nel corso di una polemica uno potrebbe anche cambiare parere». Le è mai accaduto di ammettere di aver sbagliato? «A volte, come nella faccenda dell’incendio del Reichstag, avrei dovuto essere più cauto». L’impressione che si ricava è che tutto ciò che fa è funzionale al suo lavoro di storico. «Mi prendo raramente delle pause. Però leggo anche fuori dai miei interessi di storico». Cosa in particolare? «Mi piace la grande narrativa dei russi e dei francesi. Ma il mio libro in assoluto prediletto è il Don Chisciotte. Scritto tra l’altro da un uomo infelicissimo». Le capita di sentirsi infelice? «Come a gran parte dell’umanità ». E in che modo l’affronta? «Con la terapia intellettuale che è suscitatrice di grandi energie. In fondo, Gramsci fuori dal carcere non avrebbe scritto i suoi Quaderni ». Esclude l’introspezione? «Quale delle tante? ». L’intervento della psicoanalisi? «È al di sopra delle mie possibilità intellettuali. E poi penso che i più efficaci psicoanalisti siano i preti nel confessionale. Una ragione in più per starne lontano». Le capita di rilassarsi, magari andando a un cinema? «Vado al cinema molto meno che in passato. Il tempo è poco e c’è l’ansia di perderlo». Cosa farà una volta lasciata l’università? «La questione ha due facce. Da un lato vivrò la cosa come un impoverimento. L’insegnamento è indispensabile per capire dove uno ha sbagliato. Dall’altro mi illuderò di poter scrivere tutto quello che fino a questo momento non ho potuto fare».

Repubblica 19.6.12
Arte mostruosa
Così la bellezza è rimasta fuori dai musei
di Jean Clair


In “Hubris”, il nuovo saggio pubblicato in Francia, Jean Clair racconta come il contemporaneo ha abbandonato ogni ideale estetico

Quando la mostruosità diventa l’oggetto di una scienza naturale rispetto alla quale il mostro cessa di essere oggetto particolare per divenire un soggetto comune di esperienza, anche la sperimentazione nell’arte pretende, da parte sua, di analizzare, di decomporre le forme della propria tradizione per trarre dalla loro dislocazione e dai loro rimontaggi delle luci sull’essere stesso dell’uomo e sulla sua universalità. Il particolare non è più l’eccezione, ma la porta d’accesso alla regola. È nel momento in cui la teratologia si costituisce come scienza e rivendica la gloria di creare il proprio oggetto che l’arte a sua volta si affranca, o così crede, dalla servitù di rappresentare la realtà e rivendica la libertà di creare un’opera indipendente, autonoma e autogiustificativa, che non dovrebbe più nulla se non a se stessa.
L’unica differenza: la scienza si basa su delle regole, mentre l’arte ha la pretesa di distaccarsi da qualsiasi razionalità. La scienza spiega ormai la presenza, se non la necessita del mostro, l’arte lo moltiplica e gli dà ogni potere. Le regole che avevano retto la pratica della pittura o della scultura, le leggi della rappresentazione spariscono nella misura in cui questa si allontana dalla scienza del corpo. L’arte ha la pretesa di rivaleggiare con la scienza e di perseguire uno stesso oggetto, nel momento stesso in cui l’arte e la scienza si separano. Odilon Redon può continuare a dipingere dei ciclopi, mademoiselle de l’Espinasse ha da tempo deciso: «Il ciclope potrebbe in realtà non essere un essere favoloso».
Fino all’inizio del secolo XVIII, artisti e scienziati, pittori e medici, si incontravano e mettevano a confronto le loro esperienze negli stessi teatri anatomici, a Parigi come a Padova, dove si insegnava l’arte a disegnare correttamente i corpi, così come si insegnava, nell’arte della medicina, la facoltà di curarli. Ma l’arte abbandona gli anfiteatri di anatomia e le loro regole di costruzione del corpo umano abbandonandosi ormai alle avventure e alle aberrazioni delle morfologie dell’avanguardia, e questo movimento di allontanamento ha luogo nello stesso momento in cui, da un movimento di avvicinamento contrario, è dall’incrocio tra l’anatomia comparata e l’embriologia che nasce la scienza di una teratologia che tenta di stabilire la norma a partire dall’abnorme. Ma l’arte, da parte sua, cercherà d’ora in poi di fondare la propria autonomia tenendosi a distanza dalla norma.
Il concetto, il termine di «Belle Arti» scompare così poco a poco dal vocabolario in quegli stessi anni in cui la biologia stabilisce la continuità delle forme della vita che dà al mostro la dignità di poter spiegare il normale. Tutto accade come se la forma canonica di ieri fosse considerata oggi come una tappa embrionale transitoria fissata o alterata nel suo sviluppo – così la mostruosità è definita dalla biologia – e la morfologia mostruosa, al contrario, nelle sue mutilazioni, nelle sue escrescenze e difformità senza fine, fosse ormai vista come un passaggio al limite in cui perfino l’eccesso, la smisuratezza, può spiegare la norma. I mostri non sono più pensati ormai come delle eccezioni, ma come delle conferme, in qualche modo per assurdo, delle leggi della procreazione naturale.
Il Bello stesso non è più che una varietà tra le altre delle forme possibili dell’essere, e non più la sua categorizzazione più alta. In una tale continuità, ogni singolarità può trovare il suo posto come grado, come passaggio. (…) Georges Bataille aveva visto nel museo come istituzione pubblica una
creazione che sarebbe legata allo sviluppo della ghigliottina.
Ma la conclusione del suo articolo sul Museo è altrettanto provocante. I luoghi ove una volta venivano mostrate le opere d’arte dipendevano dalla natura e dalla funzione di queste ultime. Nei templi, nelle chiese e negli altri luoghi di culto, le opere erano disposte per celebrare la bellezza di Dio
e dell’universo che aveva creato. Nei palazzi, la grandeur dei re e dei principi. Nei cabinets de curiosité, il sapere e l’intelligenza dell’uomo di gusto. Ma il museo pubblico è oggetto di uno strano rovesciamento: esso diventa il contenitore, afferma, di un contenuto che è ormai composto dalla crescente massa dei visitatori e dei curiosi. Là dove la collezione antica traeva la sua natura e il senso della propria meta, la collezione pubblica non è più che un contenitore inerte, amorfo, indifferente, nel quale una folla gigantesca ed entusiasta – «un’umanità liberata dalle preoccupazioni materiali» – crede di scoprire la propria immagine che sarebbe ormai simile alle celesti apparizioni degli angeli e degli dèi. «Il museo è lo specchio colossale – concludeva – nel quale l’uomo si contempla finalmente in tutte le sue facce, si trova letteralmente ammirabile e abbandona all’estasi stampata in tutte le riviste d’arte».
«Colossale», decapitato, contenuto insensato di una massa immensa, informe e convulsa: quale definizione più bella del mostro di oggi di questa mostra dell’uomo attraverso il museo, visto come il corpo del Leviatano, e che pretende ormai di incarnare «la più grandiosa» realizzazione della nostra cultura?
Traduzione di Luis E. Moriones (tratto da HUBRIS: La fabrique du monstre dans l’art moderne, Paris, Gallimard).

Repubblica 19.6.12
Gidon Kremer
“La musica? Non è cosa per tutti”
di Federico Capitoni


Il grande violinista sarà ospite della rassegna “Suoni delle Dolomiti” sulle montagne del Trentino Si esibirà con il pianista Danil Trifonov in una baita costruita con lo stesso legno che si usa per gli strumenti

A 65 anni Gidon Kremer è in quell’età in cui è già un mito vivente della musica, ma con ancora un bel po’ di tempo davanti per continuare a tenere concerti e a incidere dischi (l’ultimo è un album di composizioni di Sofija Gubajdulina per Ecm). Il violinista e direttore d’orchestra lettone, allievo prediletto di David Ojstrach, oltre ad aver suonato ovunque e con i più grandi musicisti del mondo, ha fondato nel 1997 la Kremerata Baltica, importantissimo ensemble giovanile che molto ha dato alla diffusione del repertorio contemporaneo: «È una colonna portante della mia vita artistica», dice l’artista. Kremer sarà ospite del festival “I Suoni delle Dolomiti”, una rassegna di musica e natura che cresce in popolarità, il 14 e il 15 luglio assieme al giovane pianista Danil Trifonov, con un programma a metà tra il classico e il contemporaneo. Suonerà in un luogo nuovo e interessante, la Baita Premessaria, una costruzione fatta dello stesso legno degli abeti del bosco in cui si trova. Il violoncellista Mario Brunello, con il quale il festival è nato, è tra i maggiori promotori dei nuovi spazi a impatto zero dedicati alla musica: «Suonare all’aperto è meraviglioso ma a certi repertori non viene resa giustizia e allora cerchiamo di immaginare degli auditori naturali disseminati per i boschi in cui si possa ascoltare la musica nel migliore dei modi». A Kremer e alla Kremerata verranno tra l’altro intitolati due abeti, quegli stessi da cui si ricava il legno per violini e per la baita, come è già avvenuto per altri artisti come Uri Caine, Uto Ughi, lo stesso Brunello. Maestro Kremer, non è da tutti avere un albero dedicato. «Ovviamente mi fa onore. Per chiunque suoni strumenti ad arco è sempre stato importante, fondamentale, il contatto con il legno, con il materiale. Trovo meravigliose questa idea della baita fatta dello stesso legno con cui sono costruiti i violini e questa foresta di abeti da liuteria perché ripristinano con più forza ancora la nostra simbiosi con la natura». Che genere di nuove possibilità di espressione possono dare alla musica queste progettazioni di nuovi spazi per i concerti? «Più che alla musica le nuove possibilità devono essere date al pubblico. Nuovi luoghi possono servire ad accogliere maggiormente le persone. Le sale da concerto vanno progettate in maniera diversa, non devono essere copie di quelle già esistenti. E soprattutto bisogna ripensare agli spazi piccoli, quelli per la musica da camera, che — appunto — si svolgeva nei salotti. Non si può insistere a costruire hall gigantesche ». E nuovi spazi possono anche attrarre nuovo pubblico? «Non credo la questione sia in termini di conquista di nuovo pubblico. È piuttosto una faccenda di qualità acustica. Non si tratta di rendere la musica classica più popolare, del resto non è mai stata questa una musica per grandi pubblici, ma per pochi capaci di comprenderla. Così i luoghi devono essere esclusivi, nel senso che si deve tornare a luoghi più ristretti e studiati appositamente ». Pensa che la musica classica non sia per tutti, però è in crisi. «Non dal punto di vista creativo. È forse cara, ma solo perché c’è una crisi del mercato legata a quella economica. In molti vorrebbero andare ai concerti così come molti comprerebbero quadri di pittori quotati, ma sempre meno persone possono permetterselo. Tuttavia non dobbiamo lasciare che la musica diventi una questione commerciale, cioè non deve essere il mercato a dettare il gusto». Dopo mezzo secolo di carriera, qual è la cosa che ritiene migliore nella sua vita di musicista? «Posso dire che creare la Kremerata Baltica è stato ciò che mi ha dato più soddisfazione: è la cosa migliore che abbia fatto nella mia esistenza. Questo ensemble mi ha salvato da una vita legata soltanto al violino e ha dimostrato come la musica fatta insieme sia molto più potente e comunicativa di quella svolta da solista. Mi consente di arrivare alla gente in maniera molto più facile di quanto possa fare io da solo. Lei è anche un grande interprete della musica d’oggi. Che direzione deve prendere per essere in sintonia con i tempi? «Ho sempre pensato che la musica, classica o contemporanea che sia, non dovesse essere un esercizio intellettuale. È invece il linguaggio delle emozioni, per questo anche le mie scelte vanno verso le musiche che conservano una dimensione emotiva. Molti compositori secondo me perdono l’occasione di parlare con la musica perché troppo pigri o troppo legati a una scuola». Per questo Schubert è il suo compositore preferito? «Certo, Schubert su tutti. Ma anche Webern e Sciostakovich, cioè quelli che non scrivono più note di quelle che servono solo per apparire sofisticati».