mercoledì 20 giugno 2012

l’Unità 20.6.12
Esodati, Fornero dà i numeri
La ministra ammette di aver sbagliato: parla di altri 55 mila da salvaguardare ma non indica soluzioni e attacca l’Inps


Corriere 20.6.12
Dai depositi cifrati dello Ior venne trasferito un miliardo per timore dell'antiriciclaggio
Oggi Gotti dai magistrati di Roma e Napoli
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Conti aperti presso le banche italiane e straniere utilizzati per il «passaggio» di denaro proveniente dalla Santa Sede. Depositi dello Ior «svuotati» lo scorso anno quando fu varata la procedura di trasparenza e poi riutilizzati quando le norme sono state modificate. Flussi di capitali che su alcuni depositi «esterni» hanno superato addirittura il miliardo annuo. Si concentra anche su questo il nuovo interrogatorio fissato per oggi di Ettore Gotti Tedeschi, che sarà assistito dal legale Fabio Palazzo.
I pubblici ministeri di Roma e Napoli lo ascolteranno insieme, soprattutto esamineranno il contenuto dei 47 faldoni sequestrati nel corso della perquisizione disposta dagli inquirenti partenopei due settimane fa. E decideranno quali documenti allegare ai fascicoli processuali tra le migliaia di carte che il banchiere aveva archiviato negli ultimi anni. Atti che riguardano la sua permanenza al vertice dello Ior.
Ma anche fogli relativi al periodo durante il quale È stato alla guida del Banco Santander e ha avuto rapporti con i responsabili di alcune aziende del Gruppo Finmeccanica, in particolar modo per quanto attiene a contratti e finanziamenti.
L'incontro con il Papa
Continua dunque la collaborazione di Gotti Tedeschi con i titolari delle inchieste, dopo il licenziamento deciso dal board dell'Istituto Opere Religiose e ratificato dalla commissione cardinalizia. Più volte Gotti Tedeschi ha fatto sapere che attende di essere ricevuto dal Pontefice, ma appare davvero difficile che l'incontro possa avvenire, quantomeno in tempi brevi. Soprattutto dopo la scoperta del memoriale preparato da Gotti Tedeschi e destinato tra gli altri proprio al Papa, per indicare «i miei nemici» ed esternare i «timori per la mia vita».
L'attenzione dei magistrati, che procedono per riciclaggio, è puntata su quei conti cifrati per nascondere l'identità degli intestatari. Politici, faccendieri, imprenditori che sono riusciti ad occultare i proprio capitali e che lo scorso anno effettuarono prelevamenti in contanti anche per importi elevatissimi nel timore che le norme varate per l'accesso alla «white list» consentissero la loro individuazione e la ricostruzione dei movimenti.
Del resto nell'ultimo interrogatorio è stato lo stesso Gotti Tedeschi a ribadire quanto aveva già dichiarato nel 2010 dopo essere finito sotto inchiesta per la gestione di 23 milioni di euro: «Fino a un anno fa c'erano numeri di codice per i bonifici a nome Ior e io ho detto mai più, questo è intollerabile. I rapporti con le istituzioni erano attraverso codici, non dichiaravano chi era l'Ente».
Le carte segrete
Nel memoriale Gotti Tedeschi specifica che la guerra con il direttore generale Paolo Cipriani e con numerosi alti prelati, compreso il segretario di Stato Tarcisio Bertone, è cominciata proprio quando «chiesi notizie dei conti intestati ai laici». Ma con i magistrati sarebbe stato più esplicito specificando numerose circostanze che hanno segnato i due anni e mezzo di permanenza al vertice dello Ior. Oltre agli «ostacoli» che sarebbero stati posti dai componenti del board alle società di controllo e consulenza, il banchiere ha ricostruito il rapporto con la Jp Morgan che alla fine dello scorso marzo ha deciso di interromperlo definitivamente.
Gli stessi responsabili di Jp Morgan hanno dichiarato di non aver potuto avallare alcune operazioni e hanno fatto particolare riferimento alle movimentazioni avvenute su un conto aperto presso la filiale di Milano nel 2009 sul quale sono transitate somme ingenti (si parla addirittura di entrate e uscite per circa un miliardo annuo) senza ottenere informazioni reali su intestatari e gestori del deposito. E questo nonostante ci fossero state richieste di chiarimento da parte dell'Uif, l'Ufficio di indagine finanziaria della Banca d'Italia e gli organismi di controllo interni. Un atteggiamento che alla fine ha portato alla decisione di chiudere del conto. Scelta che lo stesso Gotti Tedeschi ha condiviso.
Gli affari Finmeccanica
I pubblici ministeri napoletani si occupano del filone che riguarda i finanziamenti erogati dal Banco Santander alle aziende della holding specializzata in sistemi di difesa. Due giorni fa hanno avuto un lungo incontro con il procuratore generale di Lugano per alcuni conti svizzeri che — è l'ipotesi dell'accusa — sarebbero intestati a mediatori internazionali ingaggiati come consulenti da Giuseppe Orsi, attuale amministratore delegato di Finmeccanica, quando guidava Agusta Westland.
Numerose intercettazioni allegate agli atti dell'inchiesta dimostrano lo stretto rapporto che c'era tra Gotti Tedeschi e lo stesso Orsi e su questo il banchiere dovrà fornire oggi spiegazioni. La pista esplorata nel corso delle verifiche riguarda le commissioni bancarie versate dalle società a Santander che potrebbero in realtà nascondere il versamento di tangenti per il conseguimento di appalti e commesse.

l’Unità 20.6.12
La “trattativa”. Il nostro dovere è indagare
Trattare non è reato in sè Ma il dovere di cercare la verità giudiziaria è un valore da condividere
di Antonio Ingroia


In questi giorni ho letto con interesse e col massimo distacco possibile tutti i commenti dedicati ai vari risvolti legati all’indagine della Procura di Palermo sulla cosiddetta «trattativa» Stato-mafia dei primi anni ’90. E ho il massimo rispetto di tutte le critiche, anche delle più aspre e radicali. Uno dei commenti che più mi ha impressionato è stato certamente quello di Giovanni Pellegrino, pubblicato ieri su l’Unità. Perché Pellegrino è un esperto uomo di legge, che ben conosce il sistema e il diritto penale italiano.
E perché è stato un investigatore di tanti misteri della nostra Repubblica, nelle sue funzioni di presidente di un’importante commissione parlamentare d’inchiesta sullo stragismo in Italia. Ebbene, se una figura del genere giunge a certe conclusioni e ha determinate perplessità, vuol dire che sulla vicenda permangono tali equivoci comunicativi da far correre il rischio che la pubblica opinione, anche quella più avvertita, non possa farsi un'idea, e quindi formarsi un giudizio che siano fondati su una corretta informazione. Come deve essere rispetto ad una vicenda, non solo giudiziaria, di tale impatto e interesse pubblico. Sicché, ritengo necessario, nei limiti consentiti dal doveroso riserbo investigativo su un procedimento in corso, alcuni chiarimenti. Dice Pellegrino, come già un illustre giurista e mio maestro di diritto penale come Giovanni Fiandaca, che trattare con la mafia non è di per sé un illecito. Sono d’accordo. Del resto, sia chiaro che nessun reato di «trattativa» è stato ad oggi contestato nell’indagine di cui si discute. Così come la vittima dell’estorsione non è penalmente punibile per il solo fatto di «trattare» col mafioso il pizzo da pagare sotto la minaccia dell'estorsione. Altra questione è se sia punibile chi aiuta la mafia a portare la minaccia a destinazione, così agevolando la trattativa. L’intermediario dell’estorsione privata viene, ad esempio, sempre sanzionato per il sostegno dato all’estortore. Ma, in ogni caso, ben altra questione è se sia moralmente ed eticamente giusto «trattare» con la mafia senza denunciarlo all’autorità giudiziaria. Il commerciante, se non lo ammette quando interrogato,
risponde di falsa testimonianza o, a volte, di favoreggiamento. Lo stesso dovrebbe valere se la minaccia investe lo Stato e se il rappresentante dello Stato dovesse decidere di trattare. E in ogni caso, recenti coraggiose posizioni di Confindustria sono arrivate a sanzionare con l’espulsione il loro iscritto, imprenditore, che paghi il pizzo senza denunciarlo alla magistratura.
Se si scoprisse che analogo comportamento è stato realizzato da un governante per effetto delle minacce della mafia, fermo restando che tale comportamento può essere penalmente irrilevante, non sarebbe forse un comportamento meritevole di verifica in altra sede, soprattutto politica, proprio come sta facendo la commissione parlamentare Antimafia? Non sarebbe doveroso chiedersi se vi fu davvero un «arretramento tattico» intenzionale per meglio colpire i corleonesi, come si ipotizza nell’articolo di Pellegrino? Non hanno diritto i cittadini a saperlo, specie se, come è scritto in alcune sentenze passate in giudicato, tale scriteriata trattativa ha avuto, invece, il controproducente effetto di accelerare le stragi, come quelle del ’93? E non hanno diritto a saperlo i familiari delle vittime di quelle stragi?
A questo mi riferisco quando ribadisco l’esigenza che si accerti tutta la verità su quel terribile biennio stragista. La magistratura deve solo perseguire responsabilità penali personali e cercare le prove, e celebrare processi se le prove ci sono. Ed ovviamente tenendo conto che i processi si fanno solo con una ragionevole probabilità di successo di ottenere condanne definitive. Ovvio, direi. La legge impone di andare a processo solo con elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Ma, se è così, la possibile verità giudiziaria va ricercata ad ogni costo, perché solo con la verità si può crescere.
Ma non soltanto con la verità giudiziaria. Tocca dunque anche ad altri fare la propria parte. Perché la magistratura non può e non deve supplire alle inerzie e alle lacune degli altri, della politica in primo luogo. Perché venga fuori tutta la verità. Quella giudiziaria nelle aule giudiziarie. Quella storico-politica in altre sedi. Perché, se del caso, corrispondano a prove di reato responsabilità penali. E conseguano ad altri accertamenti responsabilità politiche o di altro tipo. Per fare ciò la verità deve essere voluta da tutti, nelle varie sedi. E bisogna cercarla. Aiutarla a venire fuori.

La Stampa 20.16.12
Mafia, i veleni che allontanano la verità
di Francesco La Licata


Com’era ampiamente prevedibile con la chiusura dell’inchiesta sulla famigerata trattativa fra Stato e mafia l’intera vicenda diventa meno chiara e più confusa.
E tutto perché sulla scena ha fatto irruzione la solita battaglia di parte che non ha mai portato bene al raggiungimento della verità. Specialmente nelle storie di mafia e politica. L’occasione che ha funzionato da detonatore è data da alcune intercettazioni telefoniche. Quelle tra Nicola Mancino, ex presidente del Senato oggi indagato a Palermo perché sospettato di essere uno dei terminali della trattativa, e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Il primo, ormai è noto, invocava un qualificato intervento a protezione dell’indagato a suo parere vittima di un «differente trattamento» dei magistrati di Palermo, più «duri» di quelli di Caltanissetta. Il risultato di questo intrattenimento telefonico, per dirla in breve, sarebbe stato una lettera del Quirinale, al Pg della Cassazione, al quale si indica la strada dell’esercizio delle prerogative riguardanti i poteri di coordinamento fra le Procure. Questa la cronaca, seppure in sintesi visto che se ne dibatte ormai da giorni.
Ma la polemica sembra aver ampiamente travalicato i confini della dialettica politica perché, per forza di cose, ha finito per trasformarsi in un corposo attacco alla presidenza della Repubblica, anche dopo i chiarimenti offerti dal Quirinale e ritenuti perfettamente in linea coi poteri del Presidente e con il rispetto della legge.
Che le cose stiano in questi termini sembra dimostrato dalla proposta di Antonio Di Pietro, che chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta (quindi con poteri giudiziari) per sapere «cosa è avvenuto tra esponenti di governo, esponenti che lavorano alle dipendenze del Quirinale e della magistratura su questa pagina oscura della Repubblica». Ovviamente l’iniziativa ha subito riprodotto gli schemi che sono propri dello scontro fra maggioranza e opposizione: Di Pietro e i movimenti da un lato, dall’altro il Pd («una follia»), Casini etc.
Non sfugge a nessuno quanto poco saggio possa essere il tentativo di coinvolgere il Quirinale in una polemica scivolosa come quella che riguarda il presidente Mancino. Anche perché, ancor prima di chiarire il comportamento dell’indagato e dei personaggi delle istituzioni venuti con lui a contatto, sarebbe forse il caso di fare piena luce su quello che è stato il torbido abbraccio che nel 1992 portò pezzi dello Stato, anche alti e qualificati, a trattare con Cosa nostra la fine dello stragismo mafioso e lo stop alla programmata mattanza di uomini della politica e delle istituzioni. Ma all’Idv sembra interessare più di ogni altra cosa il presunto «trattamento di favore», sempre che ci sia, concesso al «cittadino Mancino». Di questo tenore la polemica a distanza fra Pasquale Cascella, portavoce del Quirinale, e il Fatto Quotidiano, che si riconosce sulle posizioni di Di Pietro e delle opposizioni.
Ciò che è accaduto in Italia tra il 1989 e il 1994 merita davvero di essere approfondito e spiegato: troppo grande sarebbe il peso di un ennesimo buco nero senza verità. Ma una simile operazione avrebbe bisogno di una ferrea unità di intenti della magistratura, ed anche di una unità di vedute, senza steccati, senza la difesa del «proprio particulare» di ognuna delle Procure in campo. E non è sempre vero che le cose funzionino in questo modo. E’ vero, invece, che la magistratura di Palermo e quella di Caltanissetta su tante cose la pensano in modo diverso.
Ne è testimonianza la risposta che ieri il sostituto Nico Gozzo (Caltanissetta) ha dato all’Associazione delle vittime delle stragi mafiose, che lamentava proprio questa differenza di vedute. Gozzo, com’è comprensibile, difende il proprio operato. Ma nega che il diverso trattamento a Mancino sia conseguenza di una «maggiore malleabilità» rispetto ai colleghi di Palermo. Un ulteriore elemento di divisione, questo, di cui non si avvertiva la necessità. Divisione accentuata anche dalla verve polemica dello stesso Gozzo nei confronti dei giornalisti del Fatto Quotidiano, mai nominati ma indicati sostanzialmente come «qualcuno» che si è inserito per «truccare le carte». Anche questo, non sembra il modo migliore per agevolare la comprensione di una vicenda che è già difficile e complessa, di suo, tanto da aver indotto il Procuratore Nazionale, Pietro Grasso, ad augurarsi che «i rappresentanti delle istituzioni si pentano e comincino a collaborare». Se non davanti ai giudici, magari davanti ad una commissione di parlamentari.

La Stampa 20.6.12
Stato - Mafia, i veleni della trattativa
Mancino, l’Idv attacca il Colle “Commissione d’inchiesta”
Il Pd difende il Quirinale. E Casini: indegna aggressione
di Antonella Rampino


Non esiste alcun «mistero» quirinalizio circa l’indagine di magistratura sulla trattativa Stato-mafia che vede coinvolto l’ex presidente del Senato, ed ex vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, ha ribadito ieri il Colle. E soprattutto, quel che si è consigliato a Mancino altro non è che il ricorso a leggi dello Stato: rivolgersi al procuratore generale della Cassazione che ha la facoltà di «riunificare» - tecnicamente richiedere la «conformità di indirizzo» - le indagini, se ne esiste più d’una. Mancino per la procura di Caltanissetta è un testimone, per quella di Palermo un indagato. E, prima ancora di ricevere l’avviso di garanzia dai magistrati palermitani, si era messo in contatto con Loris d’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano, e anche con il segretario generale Donato Marra, che proprio al procuratore generale di Cassazione aveva inviato una lettera - resa nota dal Quirinale lo scorso 16 giugno - ricordando che più volte il Capo dello Stato nelle vesti di presidente del Csm aveva appunto pubblicamente auspicato la «conformità di indirizzo».
Ieri tutta la vicenda è stata riepilogata, e anche rilanciata, dal portavoce presidenziale Pasquale Cascella, usando il sin qui inedito strumento di twitter, che per un giorno s’è trasformato dunque in una sorta di gazzetta ufficiale. Il consigliere per le relazioni con la stampa ha scritto a titolo personale, ma in aperta e diretta polemica con Il Fatto Quotidiano che da qualche giorno ha in prima pagina intercettazioni, interviste e commenti sulla vicenda: «Qualcuno riesce a rintracciare nelle pagine del Fatto un riferimento alle norme legislative richiamate nella lettera del segretario generale del Quirinale? ». E, rivolto all’Italia dei Valori: «Possibile che ex magistrati e avvocati ora in politica ignorino l’art. 104 del decreto legislativo 6.9.2011 n. 159 sulle attribuzioni Pg Cassazione? ». Il riferimento è a Luigi Li Gotti, avvocato e parlamentare dell’Idv che sulla vicenda ha detto che «il Quirinale è una palude», e ad Antonio Di Pietro, l’ex magistrato di Mani Pulite che, poche ore prima, aveva chiesto l’istituzione di una commissione parlamentare non sulla trattativa Stato-mafia, bensì sui rapporti Quirinale-magistrati in quella vicenda. Perché, dice il leader dell’Idv, «Cascella si nasconde dietro un dito, l’articolo 104 del dlgs 159 dice che il procuratore generale della Cassazione ha il diritto/dovere di vigilanza nei confronti di tutti i magistrati, e quindi anche del procuratore nazionale antimafia». Però, aggiunge Di Pietro, «nelle intercettazioni Mancino chiedeva a D’Ambrosio di intervenire per fermare le indagini... ». D’Ambrosio lasciò intendere a Mancino che sarebbe intervenuto sul procuratore antimafia. Pietro Grasso ieri ha precisato di «non aver mai fatto un solo atto per agevolare Mancino».
Cascella termina i suoi tweet con un «chi è interessato ai fatti (veri) perché non fa riferimento al #Napolitano al Csm del 9 giugno 2009 (ripreso il 15 febbraio 2012)? », e si tratta di due interventi in cui, nelle vesti di presidente del Csm, Napolitano richiamò per l’appunto alla «conformità di indirizzo». E poi, «mi firmo» chiosa il consigliere, «e continuo a chiedere perché conoscendo le norme legislative si nasconda di fatto che quelli sono riferimenti per tutti». Come dire che tutti possono chiedere alla Cassazione il coordinamento delle indagini, come ieri ricordava anche Grasso. Anche se certo non tutti i cittadini possono chiedere al Colle «di attivarsi», come ha fatto Mancino. E questo sembra essere il vero punto della violenta polemica dell’Idv con il Quirinale. A difendere il Capo dello Stato, il Pd e Pier Ferdinando Casini che parla di «indegna aggressione al Quirinale».

La Stampa 20.6.12
E l’ex segretario Anm disse: “Lei non si deve preoccupare”
La telefonata del giudice di magistratura democratica al politico in difficoltà
di Riccardo Arena


Sullo sfondo le stragi di Falcone e Borsellino Dall’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia è emerso come l’agguato di via D’Amelio fu organizzato per colpire il giudice Borsellino in quanto si opponeva a qualsiasi accordo Il magistrato
Nello Rossi, ex Anm si dice tranquillo: «Non mi sarei esposto su Conso se non mi sentissi sereno» Indagato Nicola Mancino, ex presidente del Senato, è sotto inchiesta a Palermo per false informazioni al pm titolari dell’inchiesta
Il libro Ezio Cartotto, ex parlamentare di Forza Italia in Sicilia, prima di essere interrogato chiede a Berlusconi un aiuto economico: lui lo ripaga con un contratto di 60 mila euro per un libro di una sua casa editrice

«Sono cose di cui lei si può completamente disinteressare», dice il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi. «È un’altra vicenda… Se fossi in lei… Nel senso che è un’altra storia». «A me – risponde Nicola Mancino – mi parlano di Lombardi». «Lombardi è un ex magistrato – riprende Rossi – lasci stare». «Giudice tributario», precisa l’ex ministro dell’Interno. «Sì, ma lei non si preoccupi assolutamente». È il 15 marzo scorso, sono le 9.35 ed è il magistrato che chiama Mancino. La conversazione è breve. Nello Rossi, storico esponente di Magistratura democratica ed ex segretario nazionale dell’Anm, spiega oggi che probabilmente si sarà trattato di «cosa di poco rilievo, non ricordo precisamente. Mi capita così tante volte di dire “non si preoccupi”, e poi procediamo lo stesso».
L’intercettazione della telefonata fra il pm romano e l’ex senatore Mancino, indagato con l’ipotesi di falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa fra Stato e mafia, rischia però di riaccendere imbarazzi e polemiche. Rossi è stato infatti fra i primi a criticare l’indagine dei colleghi siciliani, dopo avere appreso del coinvolgimento dell’ex guardasigilli Giovanni Conso, novantenne, accusato di false informazioni ai pm nella vicenda in cui si ipotizza un accordo tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia, un ricatto cui le istituzioni si sarebbero piegate, anche per salvare la vita ad alcuni uomini politici a rischio.
Ma c’è pure un altro motivo di polemica, per via del nome pronunciato da Mancino, quello di Pasquale Lombardi, il ragioniere e giudice tributarista coinvolto nell’inchiesta sull’associazione segreta P3, su cui indagava proprio la Procura di Roma, e che coinvolge, fra gli altri, il senatore Marcello Dell’Utri e il coordinatore del Pdl Denis Verdini. Il nome di Mancino, ex vicepresidente del Csm, era stato solo sfiorato dalle gesta della «cricca» che avrebbe condizionato, fra l’altro, nomine di magistrati di vertice in numerosi uffici giudiziari.
Nomine di giudici di vertice
«Se avessi avuto la coda di paglia mi sarei esposto? – commenta adesso Rossi –. Si vede che sono una persona serena». Con le vicende della trattativa il dialogo tra Rossi e Mancino non c’entra nulla. Ma negli atti siciliani, sempre con riferimento a nomine di magistrati di vertice, ci sono le intercettazioni tra due degli indagati principali, l’ex generale del Ros Mario Mori e l’ex capitano Giuseppe De Donno, costate poi il posto di procuratore di Napoli a un altro esponente di Md, Paolo Mancuso, sponsorizzato da Mori attraverso «Mg», che secondo la Dia di Palermo sarebbe Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl. Gli atti furono trasmessi al Csm e la proposta di nominare Mancuso, il mese scorso, venne alla fine ritirata.
Un’assemblea in procura
La corrente di sinistra dei giudici è dunque messa a dura prova da questa storia. E anche all’interno della Procura della Repubblica di Palermo affiora qualche perplessità, con la richiesta – proveniente dal basso – di un’assemblea dell’ufficio sul tema della trattativa. Motivi di riservatezza dell’inchiesta lo avevano impedito, spiegano in Dda. Ma queste ragioni valevano fino alla settimana scorsa. Ora il procuratore, Francesco Messineo, è stato raggiunto da sollecitazioni e anticiperà la riunione, prevista per il 29 giugno. Sullo sfondo c’è la scelta del pm Paolo Guido, che non ha voluto firmare l’avviso di conclusione delle indagini. E non ha firmato lo stesso Messineo, che è in corsa per diventare procuratore generale, ma ha escluso che la sua sia stata una dissociazione.
Quanto è solida, l’indagine? E poi, ci furono tentativi di condizionare i magistrati del pool coordinato da Antonio Ingroia, soprattutto il pm Nino Di Matteo, temuto da Mancino, che trovava indigesto anche l’aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo? Sulle divisioni fra le Procure siciliane, che oggi riemergono, faceva leva l’ex titolare del Viminale: e il Pg della Cassazione, Gianfranco Ciani, ricorda che effettivamente il suo ufficio e la Dna erano intervenuti sin dal 2009, proprio per queste «criticità». Le più recenti sollecitazioni telefoniche di Mancino al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, avevano prodotto solo una richiesta di chiarimenti della Procura generale della Suprema Corte, poi non sfociata in atti concreti.
Negli atti dell’indagine anche la singolare vicenda di Ezio Cartotto, che, da consulente di Silvio Berlusconi, aveva contribuito all’ideazione di Forza Italia. Il 10 gennaio viene sentito dai pm Ingroia e Guido, e il 31 dello stesso mese dai magistrati di Firenze. Ma il 26 novembre aveva chiamato al telefono la segretaria di Silvio Berlusconi e il 7 febbraio era andato a trovare l’ex
L’ex consulente del Cavaliere
premier ad Arcore. I magistrati ritengono sospetta la tempistica. Ma Cartotto spiega di avere «mantenuto un rapporto… mi sono incontrato con lui anche a metà dicembre, l’ho trovato un po’ abbacchiato…». Il 69enne ex manager della politica parlava a «Silvio» della sua situazione economica non proprio felice: «Io sono in queste condizioni per causa tua, gli ho detto, se mi facevi fare due volte il parlamentare, come ti avevo chiesto, adesso avrei la pensione… Uno scemo in più, uno in meno (in Parlamento, ndr) ». La «trattativa» col Cavaliere stavolta riguardava la pubblicazione di un libro, «Gli uomini che fecero la Repubblica». Berlusconi offriva 60 mila euro una tantum, Cartotto non era d’accordo. Il libro è stato pubblicato da Sperling & Kupfer, gruppo Mondadori.

Corriere 20.6.12
Ecco il testo delle telefonate tra Mancino e il Quirinale
«Adesso il presidente parlerà con Grasso» Il consigliere informava Mancino «Ma il superprocuratore antimafia non vuole fare niente»
di Giovanni Bianconi


Il presidente della Repubblica s'interessava agli sviluppi delle inchieste sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, alla loro conduzione, ed era informato di ogni mossa. Preoccupato di possibili discrasie tra le diverse Procure, spingeva per trovare soluzioni. È ciò che riferisce il suo consigliere giuridico, il magistrato Loris D'Ambrosio, all'ex ministro dell'Interno, ex presidente del Senato ed ex numero due del Csm Nicola Mancino, all'epoca testimone oggi inquisito a Palermo per
falsa testimonianza.
Il telefono di Mancino era sotto controllo per verificare la genuinità delle dichiarazioni rese e che avrebbe dovuto rendere negli confronti con gli ex colleghi Scotti e Martelli sollecitati dai pubblici ministeri nel processo all'ex generale dei carabinieri Mario Mori. Confronti che Mancino voleva evitare in tutti i modi.
Il 12 marzo scorso chiama D'Ambrosio che gli dice: «Io ho parlato con il presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia, ndr). Ma noi non vediamo molti spazi, purtroppo perché non… Adesso probabilmente il presidente parlerà con Grasso nuovamente eh… vediamo un attimo anche di vedere con Esposito… ».
Mancino: «Ma visto che Grasso coordina Caltanissetta (una delle Procure interessate alla «trattativa», insieme a Palermo e Firenze, ndr), non può coordinare tutte e due le Procure?».
D'Ambrosio: «Ma io gliel'ho detto pure oggi a Grasso. Mi ha risposto va bene, ma io in realtà... (...) In realtà è lui che non vuole fare…».
Mancino: «Eh... capito… E io non lo so dove vogliono andare a finire… 20 anni, 25 anni...».
D'Ambrosio: «Per adesso, dunque, mi ha detto il presidente, di parlare con Grasso, di vederlo eh… e vediamo un po' (…)».
Mancino: «Eh, perché non è che anche sul 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, che per alcuni non fu prorogato alla fine del '93, dopo le stragi di mafia, ndr) indaga Caltanissetta, che fa? Caltanissetta va in una direzione e quelli possono andare in un'altra direzione? Ma non lo so se c'è serietà…».
D'Ambrosio: «Ma… ripeto, dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po'… lo vedrò nei prossimi giorni… però lui… lui proprio oggi parlandogli mi ha detto: ma sai, lo so, non posso intervenire… (...) Tant'è che il presidente parlava di… come la Procura nazionale sta dentro la procura generale, di vedere un secondo con Esposito».
«Non si sa dove vogliono arrivare»
Vitaliano Esposito era il procuratore generale della Cassazione prossimo alla pensione. Mancino gli avrebbe telefonato di lì a pochi giorni, e a D'Ambrosio dice: «L'ho sempre ritenuto molto debole, non è forte (…)».
D'Ambrosio: «Però ecco, questo è quello che vede il presidente, adesso evitare il contrasto».
Mancino: «Anche se non si sa dove vogliono arrivare questi, che vogliono fare…».
D'Ambrosio: «No, ma è chiaro che... che non si capisce proprio, ma non si capisce più neanche più la trattativa... Io l'oggetto della trattativa mica l'ho capito… Mi sfugge proprio completamente… (…) Riparlerò con Grasso perché il presidente mi ha detto di risentirlo. Però io non lo so… francamente… lui è ancora orientato a non fare niente, questa è la verità».
Mancino: «No, perché poi la mia preoccupazione è che… ritenere che dal confronto… Martelli ha ragione e io ho torto e mi carico implicazione sul piano, diciamo, processuale».
D'Ambrosio: «Ecco, io, insomma noi, ecco, parlando col presidente, se Grasso non fa qualcosa la vediamo proprio difficile qualunque cosa. Adesso lo possiamo rivedere, magari lo vede il presidente uno di questi giorni».
Mancino: «Va bene, ma anche per la storia del Paese, ma che razza di Paese è… se non tratta con le Brigate rosse fa morire uno statista. Tratta con la mafia e fa morire vittime innocenti. Non so… (…) o tuteliamo lo Stato oppure… (…)».
Più avanti D'Ambrosio ribadisce che il confronto con Martelli «processualmente diventa inevitabile», e Mancino accenna ai carabinieri del Ros guidati da Mori: «Ma questi hanno trattato diciamo, per conto loro, di loro iniziativa, come in effetti io ritengo, ma non posso provare…». D'Ambrosio insiste che bisogna vedere se si muove Grasso, che lui ritenterà nei prossimi giorni, ma la situazione è «molto, troppo confusa».
«Non è giusto che io sia emarginato»
Il 5 marzo l'ex ministro aveva detto esplicitamente «io vorrei evitare che venisse accolta l'istanza di un ulteriore confronto con Martelli», e si lamentava: «Una persona che ha fatto il suo dovere... ma perché devo essere messo in angolo...». Sospettava che qualcuno volesse prendersi la rivincita su di lui per il caso de Magistris (l'ex magistrato messo sotto inchiesta al Csm quando lui ne era il vice-presidente): «Ora facciamo pagare a Mancino… ma Mancino può essere anche emarginato, ma non è giusto (…) Guardi io non sono più il Nicola Mancino di tra anni fa, quattro anni fa… Nicola Mancino è stato distrutto (…) Io sono tenuto emarginato da tutti, perfino nel partito democratico… nessuno mi parla…».
D'Ambrosio ribadisce che l'unica possibilità è parlare con Grasso, e in questo quadro Mancino partorisce l'idea di scrivere una lettera in cui lamenta le differenti valutazioni delle tre Procure che indagano sulla trattativa, preannunciata a D'Ambrosio in una conversazione del 27 marzo.
Il 3 aprile l'ex ministro richiama, e si lamenta che il pm Di Matteo ha chiesto i confronti tanto temuti: «A mio avviso c'è un abuso grande quanto una montagna... (...) ma lui non sta facendo un processo contro il favoreggiamento del colonnello Mori...». (...)
D'Ambrosio: «Sulla sua lettera stiamo ragionando… va bene?».
Mancino: «E… veda un poco… perché la cosa è terribile… ecco… perché a me fa perdere non solo il sonno, ma anche, diciamo…».
D'Ambrosio ripete che stanno ragionando, Mancino insiste e il consigliere Napolitano aggiunge: «Il presidente è orientato a fare qualcosa… (…) ma per ora non le posso dire nulla (…) sto elaborando un pochino le cose… però la decisione l'abbiamo già presa… adesso presidente è in Giordania, quando torna si decide insieme… faccio la mia proposta e vediamo un attimino».
Più avanti spiega che cosa intende dire nella lettera al procuratore generale: «Il coordinamento consiste anche nell'utilizzare una strategia comune, nel compiere atti insieme… (…) Tutto questo non sta accadendo, per cui c'è una valutazione che poi alla fine può essere anche diversa da parte dell'autorità giudiziaria…».
A Grasso diciamo: «Fai il tuo lavoro»
Il magistrato in servizio al Quirinale illustra le possibili complicazioni derivanti da valutazioni diverse degli stessi fatti, o di dichiarazioni delle stesse persone sentite in momenti diversi sugli stessi temi. E il 5 aprile, leggendo a Mancino la missiva al pg della Cassazione, chiarisce: «Il presidente percepisce questa mancanza di coordinamento e ti dice: esercita i tuoi poteri anche nei confronti di Grasso. Perché qui il problema vero... Grasso si copre, questa è la verità (...) Perché è una gran cretinata l'avocazione, perché lui la prima cosa a cui deve pensare è il coordinamento (…) Non solo lo scambio degli atti, ma anche il compimento di atti congiunti e l'individuazione della strategia congiunta. (...) Cioè gli dice: dovete coordinarvi, cioè tu Grasso… fai il tuo lavoro, ecco».
Ma alla riunione convocata il 19 aprile dal nuovo procuratore generale Ciani, succeduto a Esposito, Grasso spiega che un anno prima, il 28 aprile 2011, ha riunito i procuratori interessati alle indagini sulla «trattativa», impartendo direttive che da quel giorno sono state rispettate. Nel verbale di quella riunione di legge: «Il procuratore nazionale evidenzia la diversità dei filoni d'indagine e la loro complessità (accentuata anche dalla contemporanea pendenza di processi in fase dibattimentale): precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011 tali da poter fondare un provvedimento di avocazione».
Il procuratore aggiunto di Roma
Il 15 marzo 2012 Mancino riceve una chiamata dal procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, per una questione che non ha nulla a che fare con l'indagine sulla trattativa. S'intuisce che il magistrato risponde a una precedente richiesta sulla vicenda giudiziaria della cosiddetta P3, che coinvolge l'ex giudice tributario Pasquale Lombardi, irpino come Mancino. L'indagine romana era chiusa da tempo, e Rossi parla così: «Guardi, le dico questo, altrimenti non le posso dire niente ma… cosa di cui lei si può completamente disinteressare».
Mancino: «Interessa altri».
Rossi: «Disinteressare, disinteressare… una cosa del tutto, cioè… insomma è un'altra vicenda (…)Non le posso dire ma… insomma comunque non... va bè (…) Guardi lei non si preoccupi, lei pensi… di questo non si preoccupi assolutamente».


il Fatto 20.6.12
Romanzo di una trattativa
Dal maxiprocesso all’omicidio di Salvo Lima
Dalle stragi 1992-’93 agli interventi dal Colle sulle indagini
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Il giorno della svolta è il 30 gennaio 1992. Quel giorno la Cassazione chiude il maxi-processo con una pioggia di ergastoli per i boss di Cosa Nostra. Salta il tradizionale rapporto tra mafia e politica. Calogero Mannino, l’unico ministro siciliano della Democrazia cristiana, capisce di essere in pericolo e si confida con il maresciallo Giuliano Guazzelli: “O uccidono me o Lima”. La sua è un’intuizione profetica. Il 12 marzo, la chioma bianca dell’eurodeputato Salvo Lima è immersa in una pozza di sangue, sull’asfalto di Mondello.
ROMA-CAPACI SOLO ANDATA
Mannino ha paura. E ne ha ancora di più quando il 4 aprile 1992, anche Guazzelli viene assassinato. Mannino vuole salvarsi la pelle e cerca aiuto: in gran segreto incontra a Roma il generale del Ros Antonio Subranni, lo 007 Bruno Contrada e il capo della Polizia Vincenzo Parisi. L’obiettivo è aprire un contatto con Cosa Nostra per verificare se c’è un modo per fermare la furia omicida. Ma il 23 maggio 1992, sulla collinetta di Capaci, il boss Giovanni Brusca preme il telecomando che fa saltare con 500 chili di tritolo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini di scorta. Il Paese è nel caos. Il 25 maggio, dopo la mancata elezione di Giulio Andreotti, e una votazione che a sorpresa ha attribuito 47 voti al giudice Paolo Borsellino, sale al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro.
IL ROS E CIANCIMINO
L’8 giugno il Guardasigilli Claudio Martelli vara un decreto antimafia che contiene nuove misure repressive, come l’inasprimento del regime carcerario per i boss, che però non viene reso operativo. Scatta un’autentica emergenza nazionale per salvare le istituzioni dal terrorismo mafioso. Il capitano del Ros Giuseppe De Don-no “aggancia” in aereo Massimo Ciancimino, e chiede un colloquio con il padre, l’ex sindaco di Palermo don Vito. Inizia la trattativa: l’obiettivo ufficiale è fermare lo stragismo. Ciancimino collabora ma vuole coperture “istituzionali”. De Donno informa dei colloqui il direttore dell’Ufficio affari penali, Liliana Ferraro, che, a sua volta, ne parla a Martelli. Poi la Ferraro riferisce l’iniziativa del Ros anche a Borsellino. Il giudice non pare sorpreso: “Ci penso io”, dice.
IL PAPELLO DEL CAPO DEI CAPI
Il boss Totò Riina, il fautore della sfida stragista, esulta: “Si sono fatti sotto! ”. E prepara il cosiddetto “papello” con dodici richieste, tra cui la revisione del ma-xi e la legge sulla dissociazione. Quando Giuliano Amato vara il nuovo governo dei tecnici, Vincenzo Scotti, considerato un “falco”, viene silurato. Al suo posto al Viminale arriva Nicola Mancino, sinistra Dc come Mannino, ritenuto più malleabile. Anche Martelli rischia di saltare, ma resta alla Giustizia anche se il democristiano Giuseppe Gargani (anche lui della sinistra Dc) si candida al suo posto, promettendo di fermare Tangentopoli.
LE LACRIME DI PAOLO
Totò Riina continua a progettare omicidi. Il killer Giovanni Brusca, accompagnato dal complice Gioacchino La Barbera, effettua sopralluoghi a Sciacca e a Palermo alle segreterie di Mannino per pianificare l’agguato che dovrà colpire il ministro siciliano. A fine giugno, Borsellino in lacrime confida ai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: “Un amico mi ha tradito”. Il sospetto degli inquirenti è che si riferisse ad un uomo in divisa, forse a Subranni. Agnese Borsellino racconterà ai magistrati nisseni di aver saputo dal marito che il comandante del Ros era un uomo d’onore. E che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Subranni oggi ammette di aver saputo della trattativa, ma solo a cose fatte, cioè quando i colloqui tra Mori e don Vito erano già avviati.
Il 1° luglio è il giorno dell’insediamento di Mancino. Mentre si trova a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, Borsellino viene convocato al Viminale. Il giudice incontra il neo-ministro, anche se Mancino ammette la circostanza solo vent’anni dopo. Al ritorno, riferisce Mutolo, Borsellino è così nervoso da fumare due sigarette per volta. Il pentito riferisce anche che durante quell’interrogatorio un funzionario della Dia parla di dissociazione. E che Borsellino commenta: “Questi sono pazzi! ”.
“È FINITO TUTTO”
Un’auto imbottita di esplosivo salta in aria in via D’Amelio: muoiono Paolo Borsellino, che secondo il pentito Giovanni Brusca viene considerato un intralcio alla trattativa, e cinque uomini della scorta. È il 19 luglio 1992. Antonino Caponnetto, l’uomo che ideò il pool antimafia (grazie ad un’intuizione di Rocco Chinnici, magistrato ucciso da Cosa Nostra nove anni prima), intervistato dalla tv pronuncia queste parole: “È finito tutto, non mi faccia dire altro”. Il nuovo atto terroristico getta lo Stato in ginocchio, ma neppure adesso la classe politica trova la forza di reagire compatta. Il ministro della Giustizia Martelli deve firmare personalmente il decreto che istituisce il 41 bis, trasferendo i boss detenuti a Pianosa e all’Asinara, perché – dice lui stesso – “non si trovava chi volesse firmare”.
LE BOMBE IN CONTINENTE
A dicembre finisce in carcere Vito Ciancimino, e a gennaio ’93 è la volta di Riina, il cui covo non viene perquisito. L’arresto del capo dei capi avviene all’insaputa del ministro dell’Interno Mancino. “L’ho saputo da una telefonata del capo dello Stato, che si congratulava con me. E anche il presidente del Consiglio non ne sapeva niente”, dirà Mancino al presidente della Corte di assise di Firenze, che commenta: “È formidabile”. Intanto i corleonesi si affidano a Brusca e Bagarella con Provenzano più defilato, dietro le quinte. E nelle parole dei pentiti spunta Dell’Utri come “uomo-cerniera” tra mafia e Stato. La trattativa prosegue sulla gestione del 41 bis. A febbraio ’93 salta Martelli (accusato da Silvano Larini e Licio Gelli di avere usato il Conto Protezione) e a via Arenula arriva Giovanni Conso. “Non ho mai capito che era in corso una trattativa – dice oggi Martelli – altrimenti avrei scatenato l’inferno”.
Le bombe continuano in via Fauro a Roma contro Maurizio Costanzo, che scampa all’attentato, e in via dei Georgofili a Firenze: 5 morti e 48 feriti. A giugno il duo Capriotti-Di Maggio (quest’ultimo non ha i titoli), con la regia del presidente Scalfaro e l’input dei cappellani delle carceri sostituisce Nicolò Amato al vertice del Dap. Il 26 giugno Capriotti propone di confermare i provvedimenti di 41 bis. E la risposta di Cosa nostra arriva a fine luglio con le bombe di Roma e Milano. Il 10 agosto la Dia mette nero su bianco l’ipotesi di una trattativa in corso.
LE REVOCHE DEL 41 BIS
E a novembre arrivano 343 revoche di provvedimenti di 41 bis decise da Conso “in assoluta solitudine”. Questa fase del dialogo si chiude il 27 febbraio del ’94 con l’arresto dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, che segna la fine delle ostilità.
Silvio Berlusconi si insedia a palazzo Chigi, quando dietro le quinte, secondo i pentiti, Marcello Dell’Utri ha già siglato il nuovo patto di convivenza con Cosa Nostra. Dal 1996, e per circa dieci anni, la lotta alla mafia esce dall’agenda dei segretari dei partiti, Cosa Nostra appare definitivamente sconfitta e così viene raccontata dai media. Riemerge improvvisamente nel dicembre del 2005 con il volto di Massimo Ciancimino, che tra annunci e mezze verità comincia a parlare con i pm e racconta degli incontri tra suo padre e gli ufficiali del Ros, sollecitando la memoria a orologeria di Martelli, Con-so, Ferraro, Violante, Scalfaro, Ciampi, Mancino, Amato. E dopo quattro anni di tira e molla, consegna ai magistrati il “papello”.
LO STATO PROCESSA SE STESSO
Nelle procure di Palermo e Caltanissetta lo Stato tenta di processare se stesso. Sfilano davanti ai pm ministri, parlamentari e funzionari in un festival di reticenze e di bugie. Caltanissetta archivia, ritenendo le condotte “non penalmente rilevanti”, ma formulando pesanti giudizi morali. Palermo va avanti ipotizzando il reato di “violenza o minaccia al corpo politico dello Stato”. Dopo quattro anni, i magistrati depositano gli atti, centinaia di intercettazioni svelano le manovre per aiutare Mancino. Partono le interferenze del Colle per salvare la classe politica che ha trattato con Cosa Nostra, comincia il Romanzo Quirinale.

il Fatto 20.6.12
I ruoli di garanzia piegati alle richieste degli amici
L’attivismo di Quirinale e Cassazione nel caso Mancino
di Bruno Tinti, magistrato


Al tempo in cui la Procura generale di Catanzaro rifiutava la copia dei processi di De Magistris ai colleghi di Salerno, il presidente Napolitano chiese copia dei medesimi atti, dicendosi allarmato per la “guerra tra Procure” che, secondo lui era in corso. In tempi più recenti, ritenne di rispondere alla moglie di Silvio Scaglia, arrestato e processato per gravi reati di natura economica, che gli aveva scritto pregandolo di intervenire a favore di suo marito, assicurandole che avrebbe chiesto copia degli atti.
IN QUESTI giorni il suo uomo di fiducia, Loris D’Ambrosio, assicura a uno degli indagati nei processi per la trattativa Stato-mafia, Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, che il presidente hapresoacuorelaquestione. Eun altrouomodifiducia, DonatoMarra, segretario generale, scrive al Procuratore generale della Corte di Cassazione che il presidente della Repubblica è preoccupato di gestioni non unitarie condotte da alcune procure quanto a detti processi e, per spiegare dette preoccupazioni, gli trasmette le considerazioni svolte in proposito dallo stesso Mancino, indagato da una di queste procure. Il che, come ognuno capisce, avrebbe dovuto essere fatto dall’avvocato di costui e non dalla Presidenza della Repubblica. La varietà degli interventi del presidente Napolitano potrebbe indurre a ritenere che questo suo agitarsi in vicende giudiziarie nasce dalla convinzione che, tra i suoi compiti, vi sia quello di contribuire autorevolmente all’efficienza e alla corretta gestione dei processi, in particolare di quelli penali. Ma sarebbe una valutazione troppo generosa poiché, anche se professore di diritto ecclesiastico e non di diritto costituzionale o di procedura penale, non gli mancano lingue esperte che possono sussurrargli all’orecchio: “Presidente questo non si fa, non sta bene”. Si può essere certi, ad esempio, che D’Ambrosio sa perfettamente che il presidente della Repubblica non ha nessun titolo per intervenire, in qualsiasi modo, nemmeno con lettere, messaggi o raccomandazioni, in processi penali o civili.
IL PROBLEMA è che questa abitudine di intervenire (ma la parola esatta tecnicamente è interferire) nei processi in corso è molto radicata in un gran numero di persone, in particolare in quelli che, saliti in punta alla piramide, si convincono che vedere il mondo da quell’altezza li renda diversi dagli altri uomini e che sono loro consentite cose che ad altri non sarebbero e che, anzi, costituirebbero reato o quantomeno illecito disciplinare. Per esempio, il Procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, parla cordialmente con il Nicola Mancino suddetto; che sarà anche stato ex ministro dell’Interno, ex presidente del Senato, ex vicepresidente del Csm; dunque ex mattone di vertice della piramide; mache(comeglidicelui stesso) c’è rischio sia sospettato di falsa testimonianza nel quadro del processo sul patto mafia-Stato (non proprio una guida senza patente). E dunque mettersi a chiacchierare con lui già non è una bella cosa. Ma parlasse dell’ultima rappresentazione della Carmen ci potrebbe ancora stare (anche se gli consiglierei interlocutori diversi: come titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, Esposito sa che il giudice non deve solo essere ma apparire imparziale e su questa storia si sono consumate centinaia di sentenze disciplinari di condanna). Il fatto è che lui si dichiara“adisposizione; adessovedo questo provvedimento e poi ne parliamo”. Cos’è, è diventato l’avvocatodifensorediMancino? Ilsuo consigliori di fiducia? L’uomo di poterechesidichiaradispostoainterferire su un processo che interessa il Mancino? E se non è nulla di tutto questo, perché diavolo non dice a Mancino quello che centinaia di magistrati hanno detto a centinaia di postulanti amici o conoscenti: “Midispiacemanonposso parlare di processi gestiti da altri colleghi; men che meno di quelli che ti riguardano; anzi sarebbe bene che, fino a quando la tua posizione non si è chiarita, i nostri rapporti si interrompano”? L’aria che si respira al vertice della Procura generale della Cassazione deve essere rarefatta; ti fa dimenticare nozioni elementari di diritto.
IL SUCCESSORE di Esposito, Gianfranco Ciani, pare non sapere che le sue prerogative istituzionali gli consentono, anzi gli impongono, di esercitare l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati che sono sospettati di commettere illeciti di tale natura. Per il ché può chiedere informative ai procuratori generali e procedere ad atti di indagine. E comunque non sa certamente che non gli consentono invece di convocare il procuratore nazionale antimafia, dirgli che sempre il suddetto Mancino è preoccupato per il mancato coordinamento delle indagini tra tre procure, che sarebbe bene fornire a queste indirizzi investigativi precisi e che comunque desidera una relazione in proposito.
FORTUNATAMENTE il procuratore nazionale antimafia respira aria più ricca d’ossigeno e gli risponde per le rime dicendogli quello che qualsiasi magistrato, antimafia o no, sa perfettamente: né la procura generale presso la cassazione né la procura nazionale antimafia possono dire ad altre procure come indirizzare le indagini. E, quanto al coordinamento, si stanno coordinando benissimo, se non altro perché nessuno si è finora lamentato, nemmeno con il (desueto?) ricorso alla Procura generale presso la Cassazione per regolamento di competenza che si fa quando due o più procure non sono d’accordo su chi si deve occupare delle indagini. Ma appunto è roba fuori moda, oggi vanno i “rapporti diretti e personali”. Di gente che si agita ce n’è comunque parecchia; il Fatto lo ha raccontato con dovizia di particolari e nessuna smentita. Ma quello che è grave è che si agitino persone che dovrebbero avere ruoli di garanzia e di guardiani della legalità; e che lo facciano non perché stiano pensando: “Ma qui la legalità è violata occorre vigilare”; no, lo fanno perché sono amici di un ex super politico, di uno che li chiama ’guagliò”, di uno che non capisce nemmeno niente di diritto (Mancino a Esposito: “Resta la figura di una persona renitente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”; dunque una confessione e una cazzata: l’art. 371 bis a che servirebbe?). Ora che un indagato cerchi di farla franca dedicandosi al traffico di influenze ci sta; ma che ci stiano anche i vertici della piramide mi sembra proprio la fine della fine.

il Fatto 20.6.12
Niente altro che la verità
di P. Flores d’Arcais


Il Fatto ha qualche giorno fa avanzato interrogativi sul “mistero” delle telefonate a go go di Nicola Mancino (ex ogni potere) al consigliere giuridico del Quirinale per sollecitare un intervento presidenziale che intralciasse l’azione del Pubblico Ministero di Palermo che interrogava il Mancino come testimone (ora è anche indagato). Il Colle più alto ha dovuto ammettere il diluvio delle telefonate/rimostranze e una lettera assai discutibile del Quirinale al Procuratore generale della Cassazione, che pareva condividerne alcune. Da allora, mentre questo giornale continua a pubblicare notizie e fatti sempre più inquietanti (che rendono più che opportuna – doverosa – la richiesta di Di Pietro di una commissione parlamentare di inchiesta) è tutto uno “stracciarsi di vesti” e un rincorrersi di anatemi. Domandiamoci allora chi è che sta compiendo il delitto di lesa maestà, il più grave (non a caso, storicamente, l’aggressione e la “bestemmia” contro il Sovrano costituiscono il reato capitale per eccellenza).
Chi è il Sovrano? In democrazia uno solo: i cittadini. Tu, e tu, e tu e io. La “sacralità” che deve circondare le istituzioni repubblicane si giustifica perché esse costituiscono gli strumenti attraverso cui il cittadino esercita il potere. Perciò, chi si trovi transitoriamente ai vertici delle istituzioni deve alla maestà dei cittadini tutti trasparenza e verità. Come minimo. Che il potere abbia il diritto di mentire è luogo comune della storia del pensiero politico. Ma troppi “machiavelli” un tanto al chilo dimenticano che si ha il diritto di mentire al nemico, e a nessun altro. Un potere (compreso il “quarto”, i media) che menta ai propri cittadini li tratta “ipso facto” da nemici e con ciò si fa esso stesso nemico mortale della democrazia. Sta mentendo al Sovrano, sta compiendo il delitto di lesa maestà.
Negli Stati Uniti d’America, dove l’istituzione “Presidente” è circondata quasi da venerazione, quando alcuni cittadini chiesero conto a Clinton di mezza menzogna pronunciata per tergiversare su un comportamento per altro lecito, non ci fu un solo giornale o una sola tv che giudicasse tale richiesta “risibile”. Clinton fu costretto a nominare un procuratore speciale, legato al partito avverso, e a rispondere in streaming a tutte le sue domande.
La libera informazione deve perciò continuare ad onorare la “sacralità” che è dovuta al Sovrano (i cittadini), pretendendo da ogni figura istituzionale di oggi e di ieri la verità, tutta la verità, niente altro che la verità.

La Stampa 20.6.12
Dal salva-Stati 745 miliardi pronti per aiutare Italia e Spagna
Monti: potrebbero essere usati per compensare il peso della spesa per il debito
di Paolo Mastrolilli


L’Italia non ha bisogno di un salvataggio, sul modello di L’ Grecia, Irlanda o Portogallo, ma con gli altri europei sta discutendo la possibilità di usare le risorse del fondo salvastati per acquistare i titoli dei paesi in difficoltà e quindi abbassare il costo dei loro interessi. Lo ha detto il presidente del Consiglio Mario Monti, alla fine del vertice G20.
Il Financial Times aveva anticipato la notizia, scrivendo che durante i colloqui Monti aveva proposto di usare i 440 miliardi del fondo Efsf per acquistare titoli dei paesi dell’Eurozona che hanno problemi. La cancelliera tedesca Merkel, però, era rimasta fredda. Il Daily Telegraph ha allargato il tema, scrivendo che Italia e Spagna hanno chiesto un vero e proprio bail-out da 745 miliardi di euro. «Questa notizia - ha chiarito Monti - è sbagliata. E’ vero invece che, tra le altre opzioni, abbiamo discusso la possibilità di usare le risorse del fondo salva stati per premiare i paesi più virtuosi, come l’Italia, con dei livelli meno abnormi di spesa per l’indebitamento. Di questo continueremo a discutere nell’incontro a quattro che avremo a Roma il 22 di giugno, e poi nel vertice europeo di fine mese».
La soluzione per la crisi europea non era attesa al G20 di Los Cabos, ma qualche passo nella direzione preferita dall’Italia c’è stato. L’accerchiamento della Merkel ha spostato l’agenda globale verso la crescita, e il documento finale prevede anche interventi per stimolare la domanda interna. Il resto si giocherà nei prossimi dieci giorni, per adottare misure concrete al Consiglio europeo del 28.
Monti ha detto che «ci siamo molto impegnati perché il documento del G20 riflettesse quella che è anche la posizione italiana, e cioé un maggior accento sulla crescita da porre come necessità». Il professore ha invitato a non fare distinzioni tra chi favorisce gli interventi strutturali o sulla domanda: «Il tema del mio discorso è stato il bisogno di un forte rilancio della crescita, ma non a scapito degli equilibri di bilancio. La nostra posizione è dare più spazio agli investimenti pubblici». Il premier ha aggiunto che ritiene «inutile perdersi in dibattiti ideologici tra chi vuole uno stimolo alla domanda e chi politiche strutturali. L’Italia favorisce politiche di offerta strutturalmente corrette, riconoscendo insieme che c’è bisogno di domanda». La strada da seguire è quella degli «investimenti rispetto ai consumi», e chiede alla Ue che le spese per gli interventi pubblici non siano contabilizzate nel deficit. La bozza del G20 sposa questa linea, quando dice che «se le condizioni economiche dovessero peggiorare significativamente, quei Paesi che hanno margine di manovra di bilancio sono pronti a realizzare misure fiscali discrezionali a sostegno della domanda interna».
Stesso discorso dove dice che gli europei «sono determinati a muovere speditamente verso misure per la crescita, mantenendo il fermo impegno a realizzare un consolidamento fiscale che va valutato su base strutturale».
Dunque il premier ha notato progressi, nonostante le voci di divergenze con Angela Merkel: «Ognuno in Europa, come una sorta di Gps, si muove riposizionandosi, e le decisioni saranno prese nei prossimi giorni. Un importante avvicinamento è il quadrilaterale a Roma di dopodomani», che riunirà proprio Merkel, Hollande, Rajoy e Monti. Il professore ha ricordato che i problemi dell’Europa «sono seri, ma non l’unico squilibrio nell’economia mondiale. Nella Ue siamo proiettati verso una sempre maggiore organizzazione, per una risposta alla crisi ed una maggiore integrazione». Sullo sfondo rimangono gli squilibri nei bilanci americani: «Pur essendo un tema noto e ricordato da tutti, anche da Obama, è stato considerato meno stringente di quello europeo». Ma la soluzione della crisi è più Europa, come chiede Roma, anche attraverso nuove misure come la messa in campo del fondo salvastati.

Corriere 20.6.12
Il pessimismo dei banchieri Usa. Ecco chi ci guadagna con la disfatta
di Fabrizio Massaro


«L'Italia soffre di una crisi di fiducia ma ha la ricchezza per saldare i propri debiti». Il giudizio di Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan, pronunciato ieri davanti al Congresso americano mentre si difendeva per i 2 miliardi di dollari di perdite improvvise sui derivati, suona come una svolta nelle opinioni del mercato. Perché è una lettura che arriva dopo una mole enorme di analisi, rapporti e giudizi sull'Italia, sull'Europa, sulla tenuta della moneta unica, che hanno scatenato le preoccupazioni sullo stato di salute dell'economia del Paese e del vecchio continente, a cominciare dalla tenuta del suo sistema bancario. Punendo pesantemente i titoli degli istituti bancari.
Sull'Italia ha cominciato Moody's con il declassamento di massa di 26 istituti, facendo gridare l'Abi, l'associazione delle banche, all'«aggressione all'Italia. Per abbassare il rating si tirano addirittura in ballo le misure di austerità del Governo Monti che una volta le stesse agenzie invocavano allorché disegnavano l'outlook negativo delle imprese bancarie». La scorsa settimana il colosso americano Citi ha sostenuto che se la spirale spread-recessione si aggraverà per i più alti tassi sui titoli di Stato, l'Italia sarà alla fine costretta anch'essa a chiedere aiuto alla Bce, al fondo salva Stati europeo e perfino al Fondo monetario. Pochi giorni dopo, un'altra banca americana, Morgan Stanley, ha evidenziato che, pur non versando in una situazione come quella spagnola (con le banche bisognose di almeno 100 miliardi per i buchi derivati dalla bolla dell'immobiliare), per coprire i crediti in sofferenza le banche italiane potrebbero avere necessità di aumentare il loro capitale fino a 12-21 miliardi di euro.
Si vedrà oggi se l'iniezione di fiducia di Dimon — che comunque si dichiara «preoccupato per l'Europa» — avrà effetti sui mercati, già rimbalzati ieri a Piazza Affari. Si vedrà se avrà più forza una frase del mega banchiere o le ponderose analisi negative pubblicate in questi giorni. Che pure hanno messo in evidenza, con numeri e statistiche, difficoltà effettive e conosciute del sistema bancario italiano. Non va trascurato che gli studi delle banche d'affari e delle case d'investimento, pur fondandosi su criteri e metodi d'analisi codificati e redatti da gruppi di analisti che agiscono in rigida separazione dalla parte operativa della banca (le famose «muraglie cinesi»), rispecchiano comunque il sentimento del mercato e soprattutto servono ad orientare i clienti nelle loro scelte di investimento. Insomma, quei report che ogni mattina arrivano nelle email degli operatori spostano miliardi su un titolo o un altro, condizionano gli investitori a puntare su un bond spagnolo o su un Btp italiano o a dirottarsi verso i titoli di Stato americani, l'altro porto sicuro del risparmio insieme ai Bund della cancelliera Angela Merkel.
Nasce anche da qui la varietà di letture basate sugli stessi numeri. Così a fronte di Moody's che colpisce le banche italiane a causa della recessione, c'è il direttore generale di Fitch, Ed Parker, che lo stesso giorno del report pessimista di Citi dichiara di ritenere «improbabile che l'Italia avrà bisogno di un salvataggio, perché è in una situazione migliore rispetto alla Spagna», evidenziando alcuni punti di forza: «L'Italia ha un deficit di bilancio molto basso, come così pure un deficit delle partite correnti e non ha problemi di banche». Senza considerare che un'analisi alternativa la si trova sempre: l'8 giugno il Financial Times ha scritto che alle 19 maggiori banche americane mancherebbero almeno 50 miliardi di dollari di capitale per adeguarsi alle nuove regole sul patrimonio, dette di «Basilea 3» che le banche in Ue hanno faticosamente cominciato a rispettare.
Una lettura differente l'ha data ieri anche R&S di Mediobanca: in Europa le banche hanno avuto ricavi più o meno costanti (-1,1%) ma hanno visto l'utile crollare quasi del 73%; in America i ricavi sono caduti dell'8,8% ma gli utili sono cresciuti del 22%: questo perché le pulizie nei bilanci gli americani le hanno fatte in parte prima, grazie anche agli aiuti dello Stato. In Europa le svalutazioni sono avvenute in gran parte l'anno scorso, come hanno fatto Unicredit e Intesa Sanpaolo. Meglio gli Usa allora? Dipende: Oltreoceano gli attivi cosiddetti «intangibili» (come tali più esposti ai giudizi di valore) pesano per un terzo dei mezzi propri; in Europa solo per un quinto. Al mercato il giudizio su chi sia più solido. Al contrario, per Mediobanca il problema dei «crediti dubbi» è meno pressante negli Usa che in Europa. Anche qui però, contano le lenti che si usano: a seconda dei diversi criteri di copertura le banche italiane potrebbero necessitare da 5,7 a 48 miliardi di accantonamenti oppure (secondo la «moda» tedesca, scrive Mediobanca) liberare risorse per 11,2 miliardi. Allora forse è il caso di assumere un altro punto di vista ancora: «Al di là dei problemi patrimoniali legati ai rischi immobiliari e di liquidità, per le banche europee c'è un problema colossale di redditività», spiega Claudio Scardovi, managing director di AlixPartners, che sta per pubblicare un report sugli istituti europei in cui parla anche di «banche zombie»: «Se guadagni solo il 2% l'anno non puoi fare altro che ristrutturarti. Come è avvenuto negli anni 80 con il settore siderurgico. Competere con gli americani che si finanziano al 2% grazie ai titoli del Tesoro bassi è impossibile».

Corriere 20.6.12
Il giorno di Lusi. Giallo sulle 20 firme per il voto segreto
di Dino Martirano


ROMA — Per ora sono più le ritrattazioni che le conferme ma l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi — sulla cui richiesta di arresto si pronuncia oggi l'aula del Senato — spera che alla fine escano allo scoperto quei 20 colleghi necessari per far scattare il voto segreto. Infatti, senza metterci la faccia, finora il Senato ha sempre respinto le richieste di custodia cautelare indirizzate ai suoi componenti. «Una prassi granitica di diniego di ogni richiesta», conferma Marco Cerase nel saggio «Anatomia critica delle immunità parlamentari italiane», che conta pochissime eccezioni: tra cui Cuffaro finito in carcere senza autorizzazione, perché condannato definitivo, e Di Girolamo costretto alle dimissioni prima delle regionali del 2010.
Oggi Luigi Lusi rischia perché i 20 colleghi che avevano firmato la richiesta di voto segreto si stanno dileguando. Anche perché si è fatto insistente il pressing del Pdl che ha affidato a Gaetano Quagliariello il compito di evitare un autogol: «Questo è il momento in cui ognuno deve metterci la faccia per evitare che qualcuno nell'ombra faccia cose strane». Insomma, libertà di coscienza e voto palese, conferma Angelino Alfano. Per questo stavolta, contrariamente al caso De Gregorio salvato proprio col voto segreto, il Pdl richiama all'ordine i senatori Lauro, Amato e Compagna favorevoli alla segretezza della votazione. Della squadretta, poi, farebbero parte anche Villari e Tedesco (pure lui ex Pd salvato non molto tempo fa) ma la partita si risolverà solo oggi: fino al momento del voto, infatti, possono pervenire alla Presidenza le 20 firme.
Il Pdl — che ieri ha riunito il suo gruppo fino a notte — è tormentato (favorevoli all'arresto Amato e Balboni, contrari Compagna e Lauro) anche perché il «voto palese costituisce un precedente inaccettabile» tanto che la riunione con Alfano è aggiornata oggi alle 14. Invece il Pd ha deciso e punta al voto compatto del gruppo per accogliere la richiesta della giunta che ha detto sì all'arresto: «Io non entro nelle elucubrazioni di Beppe Grillo ma non posso accettare che venga gettato fango sul Pd», ha detto la capogruppo Anna Finocchiaro. Il leader del Movimento cinque stelle, infatti, aveva affermato che «il Pd lo salverà perché è meglio tirare a campare che tirare le cuoia». «Falso», insiste la Finocchiaro: «Il Pd ha espulso Lusi e ora chiede un voto palese». E anche Casini (Udc), «il voto segreto santifica Grillo».
Lusi ha inviato una memoria di 500 pagine ai senatori («Vi chiedo di votare no all'arresto perché sono discriminato») allegando due documenti non conosciuti integralmente. Uno: la lettera con cui la Margherita (Rutelli, Bianco, Bocci) intima alla Procura di Roma «che nessuno sconfinamento avverrà nelle indagini volte all'accertamento dei reati rispetto ai quali si ribadisce la veste di persona offesa de La Margherita..». Due: l'esposto alla Procura di Milano in cui Lusi accusa Rutelli di stimolare «comportamenti illeciti», fino all'«attentato a organi costituzionali», quando afferma: «"Se il Senato non si ergesse a tutela dello Stato di diritto, qui fuori arriverebbero i forconi"». Poi, dopo aver visto su Reportime sul sito del Corriere l'intervista in cui Lusi ribadisce di aver agito di conserva con il suo ex partito, la Margherita replica: «Menzogne e inquinamento delle prove».

La Stampa 20.6.12
Il “Grilloleghismo” alla conquista della Serenissima
In Veneto crolla il Carroccio, i 5 stelle oltre il 26%
di Marco Alfieri


Movimento 5 Stelle al 26% nell’indice di fiducia dei cittadini del Nord Est; Lega mestamente all’11% nella sua regione vetrina, dietro Idv (19%), Pd (17%), Sel (13%), Udc e Pdl (12%). A fidarsi del movimento di Grillo sono soprattutto «uomini di età 25-44 anni, scolarità medio-alta, di professione impiegati, imprenditori, liberi professionisti e disoccupati», insomma tipico ceto medio leghista.
Per ora il clamoroso tsunami è solo un sondaggio curato da Demos per «il Gazzettino» ma chi frequenta il Veneto ci ritrova il malessere di una terra sedotta e abbandonata dal forzaleghismo di governo, forte della leadership regionale di Luca Zaia e, a Verona, di Flavio Tosi, il sindaco padano più famoso d’Italia.
Qualcuno già lo chiama «grilleghismo»: il travaso di consensi dall’ex partito sindacato di territorio, infarinatosi al mulino romano, al M5S col vento in poppa. Nonostante il governo Monti stia tartassando i ceti produttivi, la Lega all’opposizione crolla nei sondaggi a vantaggio dei grillini, in Veneto più che altrove. Perché?
Secondo Demos, per il 44% degli intervistati è proprio la protesta «anti casta» e «anti partiti» il segreto del successo 5 Stelle. Parola d’ordine simile a quando il Carroccio nacque 25 anni fa. Solo che nel mazzo da spazzare via questa volta è finita anche la Lega in discredito. «In Veneto il partito è dilaniato», ammette un consigliere regionale del Carroccio. «Domenica i sindaci bossiani, Gianpaolo Gobbo in testa, hanno disertato il No Imu Day». Lo stesso Tosi è diventato segretario regionale col 57% dei consensi. Il nuovo corso maroniano nasce debole, crescono le nostalgie leghiste anti lombarde mentre Zaia se ne resta sottocoperta.
Sulla guerra interna s’innesta la crisi politica del partito. «La gente non la beve più, troppe promesse mancate», tagliano corto dalla Confartigianato regionale. Lo confermano i sondaggi (4,6% dato nazionale) e gli ultimi voti: il mese scorso a Conegliano la Lega è crollata dal 36,9% del 2010 al 5,6% mentre confrontando Provinciali 2011 su Regionali 2010 ha perso nella culla trevigiana 20 punti (dal 48,5 al 29,5%) e 90mila elettori.
«I nostri associati vogliono risposte concrete sui ritardi di pagamento, le banche che non danno fidi, la disoccupazione», continuano dalla Confartigianato. E che fa il Carroccio? «Organizza manifestazioni No Imu ma il giorno dopo, archiviata la propaganda, i suoi sindaci alzano come tutti le addizionali. Il focus è l’economia, non la demagogia…».
L’altro ieri il presidente degli industriali vicentini, Giuseppe Zigliotto, ha persino giustificato la fuga delle imprese. L’elenco delle doglianze è vecchio di 20 anni: tra queste una «spesa pubblica su cui bisogna intervenire con il machete, non con le forbicine... ». Risultato: il blocco dei produttori in crisi, cuore dell’elettorato padano, dopo anni è orfano di rappresentanza. «A sinistra non votiamo, di Monti siamo scettici, non resta che parcheggiarci su Grillo, in attesa che succeda qualcosa…», riassume un importante imprenditore.
Proprio in Veneto il M5S ha eletto i primi 2 sindaci: Roberto Castiglion a Sarego e Alvise Maniero a Mira. Ma anche dove non ha vinto, come a Verona, ha quasi triplicato i voti sul 2010. A Belluno li ha più che raddoppiati. Federico de Lucia del Cise di Roberto D’Alimonte, ha analizzato le tendenze elettorali delle ultime 4 tornate nei 5 comuni in cui i grillini sono andati al ballottaggio. «Anche negli scorsi anni – scrive - il Pdl era progressivamente calato, ma le perdite erano compensate dalla crescita della Lega», esplosa in tre anni dal 3% al 15%. Oggi è diverso. «Non solo il Pdl è sceso sotto il 10%» ma il Carroccio «è tornato con rapidità impressionante ai livelli di 5 anni fa». A sfruttare «questa decomposizione è soprattutto l’incredibile crescita di Grillo, che triplica in 2 anni i voti dal 6 al 19%».
Maroni tutto questo lo sa bene, soffre la concorrenza, e in rete si becca con Grillo. «L’Imu l’ha voluta la Lega.
Maroni è un barbaro sognante. Infatti sogna sempre di prenderci per il cu... », provoca il comico su Twitter. «I suoi insulti mi fanno sorridere», replica l’ex ministro su Facebook. «Sulla Lega dice le solite falsità, forse è incaz... perché noi parliamo di cose concrete (Imu, esodati) mentre i suoi grillini a Parma sono ancora impegnati a spartirsi le poltrone... ». Ecco un antipasto delle Politiche 2013, quando arriverà il redde rationem…

Corriere 20.6.12
L'Italia informatica (e social): ecco l'autostrada su cui corre Grillo
La sovrapposizione tra la mappa web del Paese e quella del Movimento 5 Stelle
di Edoardo Segantini


MILANO — La diffusione di Internet e dei social network è uno dei motori che spingono la macchina di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle. Fra la penetrazione del digitale e la crescita del nuovo partito (o antipartito) la corrispondenza appare stretta. Il dato, emerso come ipotesi nei commenti ai risultati elettorali, viene ora documentato con precisione da un'inchiesta del Corriere della Sera basata su una ricerca della società di analisi Between.
Partiamo da quattro indicatori chiave della Società dell'Informazione e dal loro andamento negli ultimi sette anni. Dal 2005 a oggi, in Italia, gli utenti di banda larga su telefono fisso sono passati dal 14% nel 2005 al 37% della popolazione; i possessori di smartphone da zero al 51%; gli utenti di Internet, il 30% sette anni fa, sono oggi il 55%; infine il popolo dei social network come Facebook e Twitter è passato da zero al 50%. Quest'ultimo, in particolare, ha fatto un grande balzo tra il 2008 e il 2009 (dal 10% al 34%).
Questo il grafico nazionale. I dati diventano ancor più interessanti se disaggregati per regione. In generale emerge una distanza notevole tra Centro-Nord e Sud. Soprattutto, nell'uso della Rete e dei social network. Gli utenti di Internet sono oltre il 50% nel Centro-Nord, con punte del 59% in Lombardia e in Trentino-Alto Adige, mentre arrivano al massimo al 45% (con record negativi in Puglia e Basilicata del 41-42%) nel Mezzogiorno. I fan di Facebook e Twitter sono geograficamente distribuiti allo stesso modo, ma con una percentuale particolarmente alta in Lombardia e Lazio.
In questo panorama la Sardegna fa un po' storia a sé: da un lato l'isola appartiene a pieno titolo al Sud, nei pregi e nei difetti, dall'altro se ne discosta per essere stata culla dell'innovazione digitale: qui, nel 1993, è nato il primo Internet provider italiano (Video on Line di Nicky Grauso, poi ceduto a Telecom Italia); qui è nata Tiscali di Renato Soru, sintesi vivente del binomio tecnologia-politica.
Se ora sovrapponiamo alla carta tecnologica la mappa del Movimento 5 Stelle, ci accorgiamo che il grillismo si è propagato soprattutto nell'Italia digitale. La nuova formazione ha ricevuto l'impulso più forte nelle regioni del Nord, dove la crescita del web sociale è stata più impetuosa. A parte Genova, città natale dell'ex comico e del suo movimento (13,86%), ricordiamo La Spezia (10,7%), Belluno (10,38%), Pistoia (10,2%), Piacenza (9,82%), la roccaforte leghista di Verona (9,35%), Bologna (9,5%), Ravenna (9,83%), Rimini (11,32%), per non dire di Parma, dove il movimento ha espresso un sindaco, e di Emilia-Romagna e Piemonte, dove ha esponenti in Consiglio regionale.
Tutti luoghi ad alto tasso di Rete. Come il mitico Nord-Est — un tempo leghista e prima ancora «bianco» — dove, secondo un sondaggio citato dal Gazzettino, il Movimento 5 Stelle sarebbe al 26% delle intenzioni di voto. O come Milano — la città più cablata d'Europa in fibra ottica con Stoccolma — dove il sindaco Pisapia, nella campagna elettorale che lo portò a Palazzo Marino, si avvantaggiò della capacità dei suoi sostenitori di contrastare sui blog, talvolta deridendola non proprio amabilmente, la sua avversaria Moratti. E di creare, con gli stessi strumenti, il fenomeno virale del «favoloso mondo di Pisapie».
In questa sovrapposizione di mappe anche i tempi coincidono: il big bang dei social network è avvenuto tra il 2008 e il 2009; ed è a partire dal 2009 che i grillini si sono presentati alle elezioni con diverse liste civiche a 5 Stelle. «Colpiscono due elementi: non solo la correlazione tra diffusione di Internet e successo del movimento — dice Cristoforo Morandini, partner di Between —. L'altro aspetto è il ruolo di epicentro svolto da Genova, città del leader, nel terremoto politico. Tutto parte dalla Superba, come le mappe evidenziano».
Può al contrario stupire che la regione di Nichi Vendola — il governatore che ha fatto dell'innovazione tecnologica la sua bandiera — non si discosti dal resto del Sud. «Bari non è la Puglia — osserva però Morandini —: se si confrontano, anziché le regioni intere, le aree urbane, si vede che le differenze tra Centro-Nord e Sud sono meno marcate. Questo vale per il capoluogo pugliese ma anche per Napoli».
Dai dati esce confermato il carattere metropolitano di Internet: quanto più si vive in Rete (e la città è di per sé reticolare) tanto più si vuole comunicazione, dice Peppino Ortoleva, storico dei media all'Università di Torino. «La base più rilevante del movimento di Grillo è la generazione esclusa dal lavoro, fra i trenta e i quarant'anni. Abituata a stare in Rete, si sente al tempo stesso protagonista e tagliata fuori. Se mi baso sulla mia esperienza di docente, aggiungo che i più tentati dal grillismo sono i giovani di livello culturale medio-basso, con un modesto livello di diffidenza verso la demagogia e verso l'assenza di proposte concrete».
Un po' diverso è il parere di Renato Mannheimer. «In realtà — dice il sociologo — mi sarei aspettato un divario digitale Nord-Sud ben più profondo. Il voto a Grillo, secondo me, è più accentuato al Nord indipendentemente dalle differenze di penetrazione del web. L'informatica è un mezzo cruciale, ma un peso più importante hanno i fattori culturali, a cominciare dall'insoddisfazione per i partiti tradizionali e la loro immoralità. Grillo così raccoglie un elettorato molto eterogeneo: giovane, ma non solo; leghista, di sinistra e anche conservatore».

Corriere 20.6.12
Servono idee, democrazia ancora a rischio
di Paolo Franchi


A quanto pare, lo sapevano tutti: ci vuol altro che la vittoria di Nuova Democrazia ad Atene, per distogliere i mercati dalla loro collera fredda contro i debiti sovrani che contano, a cominciare dallo spagnolo e dal nostro. Però si erano dimenticati di avvertirci. Prima del voto, quando ci esortavano a pregare il cielo perché i greci seppure in extremis si ravvedessero, prendendo atto che nessun sacrificio, nemmeno il più sanguinoso, può essere considerato eccessivo, se in ballo sono, per loro e per noi, le sorti dell'euro. E dopo il voto, quando ci hanno spiegato che gli elettori greci, padroni del loro e del nostro destino, rifiutandosi di cedere alla rabbia e allo sconforto incarnati da Syriza hanno liberamente preso la migliore delle decisioni, e probabilmente ne saranno ripagati con qualche sconto e qualche dilazione. Se, nonostante tutto, hanno qualche rimostranza da fare alla Germania, provino a fargliela venerdì prossimo, quando la loro nazionale di calcio, sostenuta dal tifo appassionato di tutti i poveracci del creato, se la vedrà con quella tedesca. Anche a questo, si sa, servono i circenses. Intanto, euro batte dracma uno a zero, e palla al centro.
Crisi della democrazia? Ma quando mai. Queste sono fanfaluche da vecchi gauchistes, ancora prigionieri di polemiche tardo novecentesche contro la Trilateral, o da vecchi liberal ancora convinti, come scriveva Ralph Dahrendorf in appendice al celebre documento della medesima, che i governi dovrebbero evitare di credere «che un po' più di disoccupazione e un po' meno istruzione, un po' più di disciplina e un po' meno libertà di espressione renderanno il mondo un luogo migliore, in cui sarà possibile governare con efficacia». Nella medesima giornata, in contesti tanto diversi, le elezioni greche e quelle francesi ci hanno dimostrato che la democrazia, in Europa, è, nonostante tutto, in buona salute. Al massimo possiamo dispiacerci un po' perché ad Atene entra in Parlamento un drappello di nazisti, e a Parigi ci tornano tre deputati del Fronte nazionale, mentre non ce l'ha fatta Ségolène: vista la posta in gioco, cose un po' disdicevoli, sì, ma in ultima analisi robetta. Per carità, la strada della salvezza resta lunga e accidentata, e, per incamminarvisi risolutamente, occorre che ciascuno provveda a cedere il prima possibile quote della propria sovranità. Ma Paesi a sovranità limitata, vivaddio, non ce ne sono. Tutt'al più ce n'è qualcuno, come il nostro, dove la politica ha malamente provveduto a limitarsi, eccome, da sola, e proprio al termine di una lunga stagione in cui aveva preteso l'ultima parola su tutto: e non è detto che sia un male, soprattutto se le istituzioni da un lato, la società civile dall'altro, faranno la propria parte. Questo, grosso modo, ci è stato raccontato nell'ultimo fine settimana. E questo, grosso modo, è stato clamorosamente smentito già lunedì, un paio d'ore appena dopo l'apertura delle borse. Da brutta che era, la situazione si è fatta bruttissima. Come se (rubiamo la curiosa immagine, vagamente fantascientifica, a Mario Monti) fossimo riusciti sì a indietreggiare di qualche metro dall'orlo del baratro, ma a questo punto il baratro si fosse messo a inseguirci: roba da far impallidire il lukacsiano Grand Hotel sull'abisso. Qualcuno ha provato a darne la colpa ancora una volta ai greci, accigliandosi perché una grande coalizione di emergenza non si era formata già di buon mattino, o lamentando il fatto che, seppur sconfitta, la sinistra radicale è lontana un paio di punti appena dai vincitori, e promette un'opposizione durissima. Come spiegazioni, non sono davvero un granché. A modo loro testimoniano, però, che la crisi della democrazia (che, come è noto, ha i suoi tempi e le sue procedure, e non prevede lo sterminio e nemmeno l'internamento degli oppositori) non è purtroppo solo materia per dibattiti di rèvenants, ma fa parte ormai del nostro vissuto quotidiano. In caso contrario, qualche evidenza sarebbe stata sottolineata sin dall'inizio. Dicendo chiaramente, per esempio, che, fuori dalla logica infernale del colpirne uno per educarne cento, il trattamento inflitto alla Grecia, e su cui i greci sono stati sadicamente chiamati a votare, non è solo terribile, ma pure demenziale. E pure che i greci (o meglio, la maggioranza dei greci meno poveri e over cinquanta: i due terzi dei giovani hanno votato Syriza, sempre meglio che Beppe Grillo) vi si sono adeguati, risolvendosi persino a festeggiarlo in piazza, nella speranza di limitare in qualche modo, prima o poi, il danno. Non è un bel vedere, per un democratico di qualsiasi colore, la vittoria, in nome dell'euro, del partito che, quando governava, per entrare nell'area dell'euro truccò vistosamente i conti, senza che i suoi rigorosissimi amici berlinesi se ne preoccupassero più di tanto. E non è un bel vedere nemmeno il tracollo del Pasok, il cui ultimo leader, che è pure l'ultimo dei Papandreu, fu trattato da pazzo provocatore per aver proposto a suo tempo l'unica via d'uscita politicamente e democraticamente ragionevole, e cioè un referendum sull'euro.
Si potrebbe continuare, fermiamoci qui. Limitandoci a segnalare che certo, ricette per rivitalizzare democrazie peggio che esangui non ne ha nessuno, a meno di non voler considerare tale, da noi, la promessa dell'«iperdemocratico» Grillo di procedere sì, dopo l'immancabile vittoria, a una «nuova Norimberga», ma senza violenza, perché altrimenti si finirebbe come Saint Just e Robespierre. Ma ricordando pure che l'assenza di adeguate terapie non autorizza nessuno a spacciare una malattia potenzialmente mortale per un raffreddore.

Corriere 20.6.12
La corruzione si combatte dal basso
È inutile sperare in una legge salvifica: l'Italia deve cambiare dalle fondamenta
di Alberto Vannucci


Le possibili ricette di una politica anti-corruzione presentano un minimo comune denominatore: la presenza di una élite politica disposta a investire in questa battaglia risorse di credibilità e di consenso lungo un arco di tempo sufficientemente esteso, auto-vincolandosi attraverso un impegno credibile agli occhi di cittadini, amministratori, imprenditori. Per prevenire e contrastare efficacemente il fenomeno occorre infatti incidere sulle aspettative che indirizzano le scelte di potenziali corrotti e corruttori, accentuando concorrenza, trasparenza e rendicontabilità nell'esercizio del potere pubblico, semplificando i processi decisionali, inasprendo controlli e sanzioni per le violazioni, promuovendo i valori del servizio pubblico.
È difficile, però, spezzare i consolidati equilibri della corruzione sistemica. Tutte le politiche anticorruzione soffrono infatti di una debolezza di fondo. I vantaggi delle misure anti-corruzione ricadono su una platea indistinta di beneficiari, in genere inconsapevoli e disposti al più a un tiepido appoggio, mentre le ricadute negative si concentrano su categorie circoscritte di soggetti consci della loro posizione di rendita — politici e burocrati corrotti, imprenditori e professionisti collusi —, ai quali per giunta è conferito un decisivo potere di iniziativa o di veto. Soltanto la spinta derivante dall'attività di un «imprenditore politico» abile nel capitalizzare il consenso della mobilitazione dei molti dispersi beneficiari, legando tali provvedimenti a trasformazioni di più ampio respiro del sistema politico-amministrativo, può spezzare le resistenze al cambiamento, creando le condizioni per l'attuazione di misure efficaci e durature.
Nulla di simile ha conosciuto l'Italia, nonostante la conclamata emergenza nazionale dei primi anni Novanta. L'aspettativa di una trasformazione palingenetica del sistema politico si è tradotta nel subentrare ai vertici delle seconde file, meno esposte di un apparato decimato dagli scandali, un personale politico in buona misura compromesso, che ha guidato la restaurazione adattiva degli equilibri preesistenti, assecondata — sia pure con traiettorie diverse — dai principali alfieri del potenziale rinnovamento: il Berlusconi proveniente dalla «trincea del lavoro», la Lega degli esordi, l'ex magistrato Di Pietro. È vero che sull'onda di Mani pulite sono state varate alcune riforme rilevanti, anche sotto il profilo simbolico: l'abolizione per via costituzionale del vecchio sistema di autorizzazione a procedere dei parlamentari; la modifica in senso maggioritario del sistema elettorale, a livello sia nazionale sia locale; le leggi per la semplificazione e la trasparenza dell'attività amministrativa. Ma, passata la tempesta, l'impulso riformatore è venuto meno, l'inerzia bipartisan della classe politica ha prevalso, il tema è uscito dall'agenda. Fatta salva una tardiva ratifica della convenzione Onu, gli scarsi provvedimenti si sono tradotti in altrettanti fallimenti.
Sull'altro piatto della bilancia pesano invece i provvedimenti calibrati con i quali maggioranze di diverso orientamento politico hanno da un lato frapposto ostacoli al perseguimento giudiziario della corruzione, dall'altro reso più allettanti le occasioni per delinquere. L'elenco sarebbe lungo, ma vale la pena citare il depotenziamento dei reati fiscali, di abuso d'ufficio e falso in bilancio (considerati dai magistrati «reati sentinella» che segnalano possibili crimini sottostanti), l'ex Cirielli, con la riduzione dei tempi di prescrizione, l'indulto esteso ai reati contro la pubblica amministrazione, l'estensione surrettizia di criteri emergenziali o discrezionali nell'assegnazione di concessioni, i variegati «scudi» calibrati sulle esigenze giudiziarie di un singolo imputato eccellente. Misure approvate frettolosamente, che hanno scontato per questo abrogazioni parziali e totali ad opera della Corte costituzionale e per via referendaria, ma che hanno comunque fornito al pubblico un segnale inequivocabile dell'atteggiamento indulgente o autoassolutorio delle forze di governo verso l'irrisolta questione della corruzione.
La classe politica appare oggi sempre più delegittimata, anche per la sensazione diffusa di una corruzione dilagante, e si condanna così a un'inerzia funzionale agli interessi degli stessi corrotti. Per uscire da questa impasse occorre forse cambiare paradigma, distaccarci dalla cultura giuridica dominante che ci porta a prospettare quale soluzione naturale di qualsiasi problema collettivo l'approvazione (quasi mai l'abrogazione) di provvedimenti legislativi. Un approccio che si traduce in una visione calata dall'alto dei processi politici, e dunque delle politiche anti-corruzione, delegate alla volontà del legislatore e delle maggioranze politiche che ne animano le scelte. Purtroppo, però, quando i decisori sono inoperosi, inetti o mossi da motivazioni di segno opposto, le politiche restano sulla carta o producono pessimi risultati.
Ma le politiche anti-corruzione possono nascere anche dal basso. Già esiste, infatti, un sapere pratico costruito dai soggetti che a vario titolo si occupano quotidianamente di questi temi nella loro esperienza amministrativa, per ragioni di ricerca o di impegno civile. Questi attori hanno col tempo elaborato una serie di iniziative, provvedimenti e meccanismi utili a recepire segnali del rischio di corruzione e infiltrazioni criminali. È un quadro ancora frammentario, in via di evoluzione. Si pensi alla pressione esercitata dalla campagna promossa da Libera e Avviso pubblico nel corso del 2011, con la raccolta di quasi due milioni di firme per la ratifica delle convenzioni internazionali; al codice etico per gli amministratori politici — la «Carta di Pisa» — proposto nel 2012 da Avviso pubblico e già adottato da un numero crescente di enti locali; al movimento Signori Rossi che, facendo tesoro dell'esperienza personale dell'ex consigliere dell'Amiat torinese Raphael Rossi, fornisce online servizi di consulenza giuridica per cittadini e amministratori che fronteggino profferte o richieste di tangenti.
Altre esperienze positive e «buone pratiche» devono però essere censite, valorizzate, proposte come modello, così da favorire l'avvio di un circuito virtuoso di imitazione e di apprendimento. Se il disinteresse o la rassegnazione sono il brodo di coltura della corruzione, «mettere in rete» e costruire una massa critica di interessi sensibili ai temi dell'integrità pubblica può essere di per sé condizione sufficiente a riattivare gli stessi circuiti di controllo democratico.

l’Unità 20.6.12
L’accoglienza è un diritto
di Filippo Miraglia, Responsabile immigrazione Arci


I DATI DELL’UNHCR SUI RIFUGIATI NEL MONDO CONFERMANO UNA REALTÀ diversa da quella spesso rappresentata. La maggior parte di chi fugge da guerre o persecuzioni trova protezione nei Paesi limitrofi che quasi sempre hanno grosse difficoltà ad assicurare l’essenziale anche ai propri cittadini. Ciò smentisce l’idea di un Occidente invaso da profughi. Un anno fa, di primavera araba si parlava in Italia per l’arrivo di tanti tunisini e di migliaia di libici. Il governo di allora urlò all’invasione, mentre l’Europa ci avrebbe lasciati soli. Al ministro Maroni fu fatto notare che altri Paesi dell’Ue avevano accolto numeri ben più alti. E infatti tra i primi 10 Paesi che a livello mondiale ospitano rifugiati non c’è l’Italia, che con i suoi 58 mila è ben lontana dagli altri.
I 34 mila richiedenti asilo del 2011 sono stati in gran parte distribuiti nella rete d’accoglienza predisposta dalle Regioni e gestita dalla Protezione Civile. In base alle segnalazioni al numero verde dell’Arci oltre la metà sono stati affidati a strutture inadeguate. I profughi ospitati dalla «rete» sono stati indirizzati, i molti casi con forzature, verso la richiesta d’asilo e ora fioccano i dinieghi. Il governo tecnico non sembra voler risolvere i guai del governo Berlusconi, nè sui permessi di soggiorno nè sull’accoglienza. Le oltre 800 convenzioni firmate per aprire altrettanti centri sono senza copertura finanziaria. Aggiungete il nuovo accordo con la Libia, in preoccupante continuità con il precedente governo, ed è evidente che questo 20 giugno si celebra in un contesto per nulla positivo. L’Arci si mobilita in tante città, per ribadire l’urgenza di un cambio in tema di diritto d’asilo. Negare i diritti all’accoglienza, in particolare a chi chiede protezione, equivale a negare i valori fondamentali della nostra democrazia. Il 20 giugno serve a ricordarci questo.
*Responsabile immigrazione Arci

l’Unità 20.6.12
Provincia di Roma
I Giovani Democratici e la campagna per lo «ius soli»


Anticipare il legislatore in materia di cittadinanza. È questo lo scopo dell’iniziativa dei Giovani Democratici della Provincia di Roma, per stimolare le amministrazione comunali ad approvare una mozione per il conferimento della cittadinanza onoraria ai bambini nati in Italia da genitori stranieri. I Giovani Democratici hanno già aderito alla campagna “L’Italia sono anch’io” e la relativa proposta di legge è stata inserita nel calendario dei lavori della Camera per giugno. A precorrere i tempi sono stati già diversi comuni e province d’Italia con il beneplacito del Presidente della Repubblica.

l’Unità 20.6.12
Baracche e lavori in nero l’odissea dei rifugiati in Italia
Quasi la metà di chi ottiene asilo non trova un lavoro neppure dopo anni
La sentenza tedesca che dà ragione a chi fugge:
«In Italia non sono garantiti i diritti fondamentali»
di Mariagrazia Gerina


L’ultimo atto d’accusa all’Italia è scritto nero su bianco in una sentenza emessa il 25 aprile dal tribunale di Darmstadt, in Germania. A corollario di una delle stante storie di rifugio precario che attraversano il belpaese. Storia di una donna somala, che, approdata in Germania non voleva essere rispedita in italia, il paese che per primo le aveva dato asilo. La giustizia tedesca, a cui si era rivolta, le ha dato ragione. L’Italia non garantisce ai richiedenti asilo i diritti fondamentali, hanno scritto i giudici tedeschi, motivando la loro decisione. «In considerazione del ricorso della richiedente asilo e delle informazioni conosciute riguardanti l’effettiva applicazione della protezione dei rifugiati in Italia, con particolare riferimento alla situazione umanitaria, economica e sanitaria, come anche la situazione abitativa dei richiedenti asilo si legge nella sentenza -, il tribunale deve concludere che l’Italia non rispetta i suoi obblighi del diritto internazionale che risultano dalla carta dell’Unione europea sui diritti fondamentali e dalla convenzione di Ginevra sui rifugiati». Sentenza definitiva, non appellabile.
«Una condanna molto generica, perché non mette a fuoco che ci sono luci e ombre, anche in altri paesi, inclusa la stessa Germania», replica Christofer Hein, Direttore del Consiglio italiano per i rifugiati. E tuttavia vera, nella sostanza. Come documenta proprio la fotografia appena scatta dal Cir insieme al Dipartimento di Scienze sociali della Sapienza. Una indagine condotta su 222 rifugiati italiani, per la maggior parte di età compresa tra i 21 e i 30 anni, che raccontano capitolo per capitolo la loro odissea italiana: costretti a vivere nelle baracche, a mendicare un lavoro, a inseguire la burocrazia nella speranza di una integrazione sempre più negata.
Il 44,6% degli intervistati, anche anni dopo il loro arrivo in Italia, non hanno neppure un lavoro. Forse per questo gli altri si sentono, comunque, fortunati e felici del lavoro che hanno. Anche se sono laureati che fanno i braccianti, specializzati con un diploma post lauream che lavorano come operai. Oppure badanti e addetti alle pulizie. Ti piace? Sì, hanno risposto nel 75,6% dei casi. «Mi permette di vivere». Anche se, oltretutto, il 22% di loro lavora in nero.
«Ti devi svegliare presto a volte prima delle 4 del mattino... vai in questi posti a cercare lavoro, noi li chiamiamo kaliffo ground (kaliffo significa schiavo a giornata ndr), li conoscono tutti... vai e aspetti. Poi qualcuno viene e ti chiede “lavoro?”, e tu “sì”. Non lo conosci, non sai dove ti porterà: lo segui e basta, non chiedi niente. Lavori 8,10 ore e magari ti danno 20 euro», racconta agli intervistatori un rifugiato, che vive a Caserta. Una delle 7 città prese a campione per raccontare l’Italia vista dai rifugiati: Torino, Bologna, Roma, Lecce, Badolato, Catania.
«Sì, non c’è la guerra, però qui per me è come la guerra adesso», racconta Anele, giovane somala approdata a Lampedusa in fuga dalla Libia di Gheddafi. «Credevo sarebbe cambiata la mia vita, che avrei trovato lavoro e mi sarei trovata bene», spiega: «Invece non c’è niente».
Neppure la casa: la metà alla domanda «sei soddisfatto della tua situazione abitativa?» dice “no” o preferisce non rispondere. Vivono in baracche, in case sporche, sovraffollate. Solo il 31,1% è passato per un Centro per richiedenti asilo. E solo il 26% è passato attraverso la rete dello Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che pure, su 3mila posti disponibili nel 2011 ha dato accoglienza a 7500 richiedenti asilo e rifugiati, come spiega, Daniela Di Capua, direttrice dell’ufficio di coordinamento.
Ottimisticamente l’indagine condotta dal Cir insieme all’università La Sapienza di Roma si intitola «Le strade dell’integrazione». Eppure in Italia «non esiste neppure un programma nazionale per l’integrazione», scandisce il direttore del Cir. Basta guardare cosa raccontano i rifugiati dei corsi di italiano. Neppure quelli funzionano. «Occorrerebbe fare una spending review anche in questo settore», suggerisce Hein. Obiettivo: creare con le stesse risorse del fondo nazionale per l’asilo, un fondo specifico per l’integrazione. La parola, che pure ora ha un ministero dedicato osservano al Cir -, non trova ancora spazio nella normativa italiana sull’asilo. Infondo si capisce se come racconta lo stesso Hein il committente, ovvero il ministero dell’Interno, che ha finanziato la ricerca, non ne abbia gradito i risultati.

l’Unità 20.6.12
Dare pillole perché non si è capaci di ascoltare
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Sul The Daily Mail dell’ 8 giugno 2012 il Dr Robert Lefever scrive che «le persone si sentono meglio con gli antidepressivi perché medicalizzando i problemi sono esentate dalla responsabilità di sistemare le proprie vite. I medici prescrivono antidepressivi per evitare di essere incolpati dei suicidi dei pazienti anche se la loro efficacia nel trattamento della depressione è solo leggermente maggiore del placebo (compresse senza principio attivo)». COMITATO DEI CITTADINI PER I DIRITTI UMANI ONLUS
Uno studio del 2006, portato avanti dalla London School of Economics, ha dimostrato che i disturbi depressivi incidevano nell' economia del Regno Unito diminuendone il Pil dell'1% e che i farmaci antidepressivi così largamente usati nella cura di questi disturbi non erano in grado di contrastarne
efficacemente né il decorso né la durata: influenzati positivamente, invece, da un buon intervento di psicoterapia. Gli studi basati sulla valutazione di tutte le sperimentazioni cliniche fatte finora sui farmaci antidepressivi (compresi quelli di cui l'industria farmaceutica non ha facilitato la pubblicazione) dimostrano, ce lo ricorda Silvio Garattini, che la loro efficacia non è significativamente superiore a quella del placebo mentre molte sono le segnalazioni sull'aumento del rischio di suicidio fra gli adolescenti che li assumono. È in aperto contrasto con le evidenze scientifiche, dunque, l’aumento continuo delle prescrizioni di farmaci antidepressivi fra i medici specializzati in psichiatria o in neuropsichiatria infantile e, ancora di più, fra i non specializzati. Perché? Perché ascoltare dai pazienti la storia e le ragioni della loro depressione è molto più faticoso e un po' più difficile che tappare loro la bocca. Con il farmaco.

Corriere 20.6.12
Divorzio in tempi brevi. Arriva la scorciatoia europea
di Cesare Rimini


Alla Camera si discute del divorzio breve che dovrebbe ridurre i tempi di attesa tra la separazione e il divorzio: da tre anni a uno; a due anni se ci sono figli minori. La legge passerà? Su questo fronte si attendono le decisioni del Parlamento che ha molte altre cose da fare.
Le prognosi degli esperti sono difformi, alcuni pensano che la legge passerà altri ritengono proprio di no. Ma intanto c'è una data importante, il 21 giugno, che riguarda l'entrata in vigore del regolamento europeo destinato a disciplinare la separazione e il divorzio delle coppie transnazionali (cittadini di diversa nazionalità o entrambi stranieri che hanno trasferito la loro residenza in un Paese diverso) e questo regolamento consentirà ai coniugi di scegliere la legge da loro stessi ritenuta più conveniente nell'ambito predeterminato dal regolamento. Non solo, i coniugi potranno scegliere di chiedere il divorzio direttamente al giudice italiano se uno dei due è straniero o residente all'estero, o anche se entrambi italiani hanno o hanno avuto la residenza all'estero. Potranno scegliere la legge di quel Paese straniero e forti del loro accordo presentarsi al giudice italiano e chiedere il divorzio con i tempi brevi o brevissimi dell'ordinamento straniero. Per riassumere si può dire che se la coppia è d'accordo, se l'accordo è scritto, datato e firmato, senza bisogno di altre formalità, basta che si presenti al giudice italiano, documenti l'accordo, documenti di avere una residenza all'estero e potrà chiedere subito il divorzio applicando la normativa straniera. È chiaro che all'ombra di questo regolamento potranno nascere e svilupparsi una serie di processi di divorzio veloce. Anche questa è una forma di integrazione europea. Ma ci saranno pure deviazioni pilotate e furbizie infinite. Non ci sarà più bisogno di andare davanti a un giudice straniero per ottenere il divorzio e chiederne poi l'esecutività in Italia.
Basterà andare di fronte al giudice italiano, documentare la residenza all'estero e chiedere un divorzio breve davvero. Sarà una procedura a volte improntata a una astuzia che certamente non è alla base del regolamento europeo, ma tutti quelli che possono cercheranno di saltare i passi e i tempi lunghi, le spese ingenti della separazione prima e del divorzio poi, così come sono regolati dalla legge italiana.

Corriere 20.6.12
Le Biblioteche
Quelle nomine contro ogni regola
di Gian Antonio Stella


Quante altre biblioteche italiane sono nelle condizioni di quella dei Girolamini? Nessuno osi far la parte dell'offeso. Se dalla biblioteca napoletana di Giovanni Battista Vico sono spariti almeno 2.202 libri antichi, ritrovati dalla magistratura in tre differenti garage o depositi di Verona e dintorni legati a Marino Massimo De Caro, l'uomo che si spacciava per laureato e non lo era, si spacciava per professore e non lo era, si spacciava per il principe di Lampedusa e non lo era, vuol dire che poteva succedere.
C'è chi dirà: è stato un caso eccezionale. No: nessun asino si è mai levato in volo, nessun uomo è mai rimasto incinto, nessuna gazzella ha mai sbranato un leone. Se a Napoli è successo che un trafficante di libri antichi sia stato nominato direttore di una delle più importanti biblioteche italiane, cioè del mondo, vuol dire che nel nostro sistema può accadere. Esattamente come era già accaduto che l'elettricista Claudio Regis detto «El valvola», sedicente ingegnere (poi processato e condannato per questo) fosse nominato per meriti leghisti ai vertici dell'Enea o il sedicente dottor Francesco Belsito, con un diploma e due lauree taroccate, venisse piazzato ancora per meriti leghisti (sia chiaro: molti altri partiti non possono scagliare la prima pietra) alla vicepresidenza di Fincantieri. Ha dunque perfettamente ragione Tomaso Montanari, lo storico dell'arte che per primo denunciò la stupefacente gestione di De Caro raccontando di strani movimenti notturni che facevano pensare all'asportazione di volumi preziosi, a insistere nel chiedere conto di quanto è accaduto al ministero dei Beni culturali. E sbaglia Lorenzo Ornaghi ad affidarsi solo all'inchiesta della magistratura senza avviare, da quanto si capisce, un monitoraggio a tappeto su come avvengono certe nomine. Proprio l'inchiesta infatti dimostra quanto sia indispensabile capire esattamente «cosa» è successo per impedire che capiti di nuovo. Nell'ordinanza di custodia cautelare contro De Caro e i suoi complici, il gip Francesca Ferri scrive che la nomina del direttore della biblioteca dei Girolamini fu fatta «ad onta di ogni regola e grazie all'influenza politica correlata all'incarico fiduciario di consigliere del ministro per i Beni e le attività culturali Gian Carlo Galan», il quale si è scusato dicendo: «Me lo aveva presentato un uomo al quale devo tutto nella vita: Marcello Dell'Utri». Che «appare davvero semplicistica la rappresentazione della vicenda come una conseguenza della circostanza del tutto casuale che un soggetto, amante dei libri antichi e da tempo interessato al loro commercio (legale e illegale) si sia ritrovato, ad un tratto, alla direzione di una delle biblioteche più antiche e preziose d'Italia, e che, per la perdurante assenza di controllo e vigilanza da parte degli organi del ministero a ciò deputati era facile bersaglio di mire predatorie». Che l'ex direttore generale per le biblioteche del Mibac, Maurizio Fallace ha raccontato ai giudici di «insistenti pressioni» «affinché provvedesse alla ratifica» della nomina «nella stessa giornata». Il nodo è questo: servono nuove regole perché non accada più. Mai più.

l’Unità 20.6.12
Egitto, paura del golpe militare. Torna il popolo di piazza Tahrir
Folla davanti al Parlamento: «Rivoluzione, rivoluzione»
I generali varano emendamenti alla Costituzione per blindare il potere
Cresce la tensione in attesa dei risultati delle presidenziali
di Umberto De Giovannangeli


La piazza si mobilita contro il «golpe militare». L’Egitto trema. In attesa dei risultati ufficiali che si conosceranno solo domani, decine di migliaia di manifestanti al grido di «abbasso il regime» «rivoluzione rivoluzione» si sono fronteggiati davanti alla sede del Parlamento egiziano al Cairo con centinaia di poliziotti in assetto antisommossa, che presidiano la strada di accesso. «Aprite la porta», scandiscono i manifestanti che gridano anche: «Scioglimento nullo, scioglimento nullo». La marcia con alla testa cinque deputati salafiti è stata accolta da un boato davanti all'Assemblea del popolo.
A guidarla Mamdouh Ismail, uno dei leader del Partito della Luce e deputato che, parlando con i giornalisti, ha paragonato lo scioglimento del Parlamento deciso dalla Corte costituzionale al golpe militare di Gamal El Nasser del 1952. «Questo Parlamento e noi abbiamo lavorato bene, ma sono stati i militari e i servizi segreti che hanno deciso di farlo fuori», ha affermato il deputato. In molti sono affluiti anche verso piazza Tahrir per protestare contro la dissoluzione del Parlamento e le modifiche introdotte dalla Giunta militare alla Costituzione transitoria e che riservano ai generali una serie di prerogative. A guidare la marcia cinque deputati. «Aprite la porta», scandiscono i manifestanti.
CONTRO LA GIUNTA
Uno dei gruppi che ha convocato la manifestazione, il Movimento 6 Aprile, che fu tra i protagonisti della rivoluzione che mise in ginocchio il regime di Mubarak, ha chiesto a tutti gli egiziani di «rifiutare l'atto costituzionale nella sua totalità». E anche il braccio politico dei Fratelli Musulmani, il Partito Libertà e Giustizia, ha sostenuto che il Parlamento ha ancora il potere di legiferare e fatto sapere che «parteciperà a tutte le manifestazioni popolari contro il golpe costituzionale».
La giunta militare ha approvato una serie di emendamenti alla Costituzione in vigore dal marzo 2011, per blindarsi di fronte all'imminente trasferimento di poteri al presidente uscito dalle urne: una mossa definita da molti un golpe costituzionale che introduce di  fatti la legge marziale e che assegna al consiglio supremo delle Forze Armate il potere legislativo (assunto dopo la dissoluzione del Parlamento), il controllo sulle leggi di bilancio, la difesa, la sicurezza interna, e persino il potere di veto sulla nuova Costituzione.
TUTTI VINCITORI
Nel frattempo il portavoce dello staff elettorale di Ahmad Shafiq lo ha proclamato vincitore delle elezioni presidenziali in Egitto. Shafiq è stato primo ministro in Egitto sotto la presidenza di Hosni Mubarak. Il tutto mentre lunedì i Fratelli musulmani avevano dichiarato la vittoria del loro candidato, Mohammed Morsi, ribadendo che, a scrutinio ultimato e secondo i dati forniti dalla commissione elettorale (che però non ha ancora ufficializzato i risultati definitivi) ha vinto con il 52% dei voti. Shafiq, invece, si sarebbe fermato al 48% dei suffragi.
A dominare è l’incertezza, gravida di oscuri presagi. Nel frattempo, l'attivista egiziano Wael Ghonim, uno dei promotori, con il suo blog, della rivoluzione popolare che nel febbraio 2011 ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak, ha detto di aver votato, nel ballottaggio per le presidenziali, per il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, nonostante avesse diverse riserve nei suoi confronti. Lo riporta il sito web dell'emittente araba Al Arabiya. «Ho votato per Morsi, ma non sono veramente contento che abbia vinto, farò parte dell'opposizione e lo criticherò quando salirà al potere», ha scritto Ghonim in un messaggio su Twitter.
Il blogger, che amministra la pagina Facebook «Siamo tutti Khaled Said», che lanciò il movimento di protesta il 25 gennaio 2011, ha negato l'accusa secondo cui avrebbe votato per Morsi perchè appartiene ai Fratelli Musulmani. «Molta gente spiegaha votato per Morsi non perché è un esponente dei Fratelli Musulmani, ma perchè non volevano votare per un membro del passato regime».

Corriere 20.6.12
«Non voglio il mio libro in Israele»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Nel giugno 2011 era a bordo di una delle imbarcazioni della flottiglia che mirava a rompere l'embargo navale imposto da Israele su Gaza. E in un'intervista alla rivista Foreign Policy, nello stesso anno, ha definito Israele e Usa come «organizzazioni terroristiche». Ma adesso Alice Walker si è spinta ben oltre, vietando, addirittura, allo Stato Ebraico, il diritto di ripubblicare «Il colore viola», la sua opera più famosa, vincitrice del premio Pulitzer nel 1983.
«Caro Editore», inizia la lettera inviata alla casa editrice israeliana Yediot Books dall'autrice che negli ultimi anni si è distinta più per l'attivismo politico che per le opere letterarie, «la ringrazio molto per la sua richiesta di pubblicare Il colore viola ma in questo momento non mi è possibile concederle il permesso». Il motivo? «Lo scorso autunno in Sud Africa, il Tribunale Russell sulla Palestina ha stabilito che Israele è colpevole di apartheid e della persecuzione del popolo palestinese, sia all'interno di Israele che nei Territori occupati».
La lettera ripropone le vecchie accuse mosse dalla Walker in passato. «Sono cresciuta sotto l'apartheid americano ma quello israeliano è di gran lunga peggiore», prosegue la missiva, «molti sudafricani, tra cui Desmond Tutu, considerano la versione israeliana di questi crimini peggiore persino di quella da loro subita sotto i regimi di supremazia bianca che hanno dominato il Sud Africa per così tanto tempo».
La 68enne Walker, che dal 1967 al 1976 è stata sposata all'avvocato ebreo e attivista per i diritti civili Mel Leventhal, tira in ballo il regista Steven Spielberg, un altro celebre ebreo, per giustificare la sua posizione. Quando nel 1985 furono terminate le riprese del film tratto dall'omonimo romanzo (e poi nominato a ben 11 Oscar) Spielberg avrebbe deciso di non distribuirlo nel Sud Africa devastato dall'apartheid, proprio dietro consiglio della Walker. Una decisione di cui la scrittrice va ancora fiera.
A. Far.

Corriere 20.6.12
Wiesel restituisce la medaglia ungherese
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Elie Wiesel contro la deriva nazionalista, antisemita e xenofoba dell'Ungheria dell'era Orbán. Il Nobel per la Pace di origine rumeno-ungherese ha rispedito al governo di Budapest la Grande Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica, massima onorificenza ungherese, in segno di protesta per la partecipazione dello speaker dell'assemblea nazionale Làszlo Kovér a una cerimonia per commemorare un eroe magiaro nazista.
«E' con profondo sgomento e indignazione», recita la missiva inviata a Kovér dallo scrittore, «che ho appreso della sua partecipazione, insieme al Segretario di Stato per la cultura Géza Szòcs, e al presidente del partito di estrema destra Jobbik, Gabor Vona, a una cerimonia in Romania per commemorare Jòzsef Nyiro, membro del partito nazista ungherese».
«E' oltraggioso che il presidente del parlamento possa partecipare a un evento in onore di un ideologo fascista dell'era Horthy e Szàlasi», prosegue il più illustre sopravvissuto ad Auschwitz, considerato il leader morale degli ebrei della diaspora. «Questa inquietante notizia segue la riesumazione della pratica di dedicare gli spazi pubblici alla memoria di Horthy», continua, «e di riabilitare Albert Wass e altri personaggi che collaborano intensamente con il regime fascista ungherese».
Il suo «j'accuse» non si limita a strade e piazze. «Sono anche venuto a conoscenza che gli scritti di intellettuali di estrema destra sono sistematicamente introdotti nei curriculum scolastici ungheresi», puntualizza. Non è la prima volta che Wiesel leva il suo grido di dolore contro la recrudescenza antisemita dell'Ungheria, secondo gli storici uno dei paesi esteuropei che non ha mai fatto i conti col proprio passato.
Durante una visita ufficiale nella capitale magiara, nel dicembre 2009, Wiesel lanciò l'allarme in un discorso di fronte al Parlamento. «Da allora è sempre più evidente che le autorità ungheresi promuovono l'occultamento di eventi tragici e criminali del loro passato».

La Stampa 20.6.12
Pakistan, i taleban uccidono la cantante “scomunicata”
Assassinata da sicari Ghazala Javed, 23 anni, idolo della musica leggera
di Kiran Nazish


KARACHI Si chiamava Ghazala Javed ed era la più famosa cantante pashtun del Pakistan. L’hanno uccisa ieri a Peshawar, con sei colpi di pistola, da un commando di quattro uomini in moto. La rivendicazione non c’è ancora, ma la pista più probabile è quella dei taleban. Che l’avevano minacciata più volte. Per il semplice motivo che cantava, contro i precetti del Corano e della sharia. Ghazala era fuggita dal suo villaggio nella Swat Valley, ora sotto il controllo dei militanti, per poter proseguire la sua carriera. Ma non è bastato. L’hanno raggiunta nella grande città dove aver raggiunto il successo e freddata.
La polizia conferma «che è stata raggiunta da sei colpi appena uscita da un salone di bellezza». Le prime indagini si sono però orientate sulla pista famigliare, con l’ex marito come primo sospettato. Ma un cugino della ragazza, Wajid Omer, che suona l’armonica a Peshawar, conferma che «è stata uccisa da sconosciuti. Era in quattro su due moto. Hanno sparato anche sul padre, che era con lei. Penso che siano stati i religiosi fanatici». La sorella, anche lei sul posto, è invece ricoverata all’ospedale, in stato di choc. «Non può sopportare il dolore - dice sconsolato Wajid - di aver due funerali in casa allo stesso momento. È un colpo troppo forte».
Ghazala, originaria del villaggio di Banrr, nella valle dello Swat, era la cantante più famosa nella regione del Khyber, e conosciuta in tutto il Pakistan, non solo fra ragazzi e ragazze, ma anche presso un pubblico più adulto. Era rispettata dai suoi fan, anche per il coraggio mostrato dopo le minacce dei taleban. La sua esecuzione avrà un impatto tremendo sui giovani, e soprattutto sulle altre cantanti, terrorizzate dagli islamisti.
Anila, una sua discepola, dice che potrebbe non avere più il coraggio di esibirsi in pubblico: «Sono scioccata. Ho pianto. Ma sono anche spaventata e mi chiedo se potrò continuare la mia carriera». Poi, dopo un’interruzione: «Ghazala avrebbe di certo continuato, però, era così bella e coraggiosa». La maggior parte delle cantanti nella regione non ha espresso apertamente i propri sentimenti. Ma di sicuro sentono la minaccia che incombe su di loro. Una, che vuole rimanere anonima, ammette, «potrebbero colpirci semplicemente perché abbiamo commentato la notizia della sua morte. Ma dobbiamo onorarla. E stata un grande esempio per le giovani cantanti e una grande compagna per me».
L’industria musicale nella regione del Khyber non è molto amichevole con gli artisti, musicisti e poeti in genere. Oltre alle pressioni di tipo religioso, ce ne sono altre di ordine famigliare o sociale. E così il potenziale talento della musica pashtun rimane inespresso. Uno dei più importanti producer già rimpiange Ghazala: «Aveva un talento eccezionale. Appena ha cominciato ha ottenuto subito un suo seguito nel pubblico. Forse all’inizio gli ascoltatori erano attratti dalla sua bellezza, ma il numero dei fan nella regione ha continuato a crescere a ritmi incredibili, per il suono angelico della sua voce, per il suo senso della musica, del ritmo». Ghazala era ammirata anche per il suo coraggio di esibirsi in pubblico nonostante le continue minacce, «ora la sua morte è un choc, molto violento», conclude.
Ghazala Javaid era davvero una meravigliosa ragazza pashtun e la sua scomparsa è un colpo durissimo per i suoi fan in tutto il Pakistan, ma il dolore va anche oltre la cerchia dei suoi ammiratori, perché il terrore islamista ha superato un’altra soglia che sembrava invalicabile.

La Stampa 20.6.12
“I fondamentalisti vogliono distruggere la cultura di un Paese meraviglioso”
William Dalrymple: i droni americani non aiutano
di Andrea Malaguti


William Dalrymple, discendente di Virginia Woolf, scrittore, storico, autore di documentari e libri sull’India, sull’Afghanistan e sul Pakistan, legge le prime agenzie sull’omicidio di Ghazala Javed senza riuscire a nascondere il senso di frustrazione. «Ha ragione l’attivista per i diritti umani - e mia amica - Asma Jahangir. Parlando del suo Pakistan dice: in questa terra nessuno è più sicuro e soprattutto è impossibile capire a chi chiedere protezione». Aggiunge che è difficile ribellarsi alla follia, perché i fronte alle minacce e alle bombe la paura inizia la sua ascesa anatomica dal fondo dello stomaco alla gola, per arrivare poi come un fiume in piena fino al cervello. In quel momento si resta sommersi. Paralizzati. In definitiva schiavi. Un punto al quale Ghazala Javed, artista ventenne che per continuare a cantare e a girare video musicali ha sfidato la rabbia dei taleban, non si è lasciata trascinare. Così l’hanno ammazzata in un bazaar di Peshawar. Di fronte a tutti.
Perché?
«Il fondamentalismo. Ghazala è l’ultima vittima di una lunga serie. Il massacro dei cantanti e degli intellettuali non è cominciato oggi. Le bombe esplodono in continuazione nei teatri e nei luoghi di ritrovo. E’ così da vent’anni, ma la situazione sta rapidamente peggiorando. Soprattutto a nord».
Perché la musica?
«Per quello che implica. Per il senso di libertà che si porta dentro. Per una interpretazione discutibile del Corano».
Il Corano la vieta?
«No. Al massimo l’interpretazione sul tema può essere ambigua. Ma non può portare a queste conseguenze. Per esempio la musica è prevista ai matrimoni».
Il medioevo. Però peggio.
«Invece ci sono parti del Paese che sembrano New York o Londra. La vitalità dei movimenti culturali è straordinaria».
Esagera?
«No. A Lahore la musica e il cibo sono inarrivabili. Le vibrazioni positive molto forti».
C’è Lahore. Ma c’è anche Peshawar.
«E’ vero. Nelle provincie del nord ovest le donne sono costrette a indossare il burqa, la musica è stata messa a tacere e ai barbieri è vietato fare la barba. Quando sono stato lì, nel 2009, oltre 140 scuole femminili erano state fatte saltare in aria».
La classe media come reagisce agli omicidi degli artisti?
«Con rabbia. Con disperazione. Con amarezza. E in questi giorni anche a Lahore le élite liberal sono depresse e preoccupate».
Che cos’è oggi il Pakistan?
«Un luogo complesso. Pieno di contraddizioni. Dove non si sa chi comanda, chi sta con chi. Dove il governo e l’esercito sembrano avere da sempre obiettivi diversi. Condizioni pericolose per un Paese che ha duecento milioni di abitanti ed è il sesto stato più popoloso del mondo».
Teoricamente una democrazia alleata con l’Occidente.
«Piuttosto un esempio significativo e certamente deprimente di come una democrazia possa essere un problema per lo sviluppo economico di un Paese. Ma Blair e Bush si erano reciprocamente persuasi che invece ci fosse una specie di una bacchetta magica capace di garantire una soluzione immediata. Non è andata così».
Come è andata?
«Mi viene in mente quello che scrive Ahmed Rashid: la guerra guidata dagli Usa contro il terrorismo ha lasciato sulla sua scia un mondo più instabile di quello esistente in quel giorno memorabile del 2001».
Le aree tribali non sono mai state sotto il controllo del governo.
«Sì, ma oggi il livello di radicalizzazione è feroce».
Perché?
«I droni americani hanno fatto molte vittime tra i civili. La rabbia è forte. C’è chi la strumentalizza. E l’esercito degli arrabbiati si allarga».
E ora?
«I prossimi due anni saranno decisivi. Le elezioni negli Stati Uniti non avranno un ruolo secondario nella definizione del futuro. Che cosa succede se vince la destra? L’estremismo politico e religioso non è mai stato tanto forte in Pakistan».

La Stampa 20.6.12
Gli incubi di Dilma “I segni della tortura sono parte di me”
Il presidente brasiliano: i miei 3 anni di carcere
di Paolo Manzo


Dilma Rousseff è nata nel 1947 a Belo Horizonte. Già ministro dell’Energia è succeduta a Lula alla guida del Brasile nel 2011
21 anni di regime La dittatura militare in Brasile durò dal 1964 al 1985. Dilma Rousseff si unì alla guerriglia appena ventenne

I segni della tortura sono io. Fanno oramai parte di me». Inizia con queste parole il racconto fatto nel 2001 da Dilma Rousseff di fronte al Consiglio per i Diritti Umani del Minas Gerais, lo Stato dove lei, una giovane studentessa di origini bulgare e di classe medio-alta, decise di entrare nella guerriglia per lottare contro la dittatura militare che tra 1964 e 1985 tenne in scacco il popolo e la democrazia brasiliana.
Questa testimonianza, trascritta 11 anni fa dal ricercatore Robson Sávio è venuta alla luce solo ieri, quando il quotidiano «Estado de Minas» ha deciso di pubblicarla integralmente. «Avevo un dente difettoso incideva sulla mia mandibola, che per questo si inclinò da un lato. All’improvviso mi tirarono un pugno in piena faccia. Il dente si spostò ma cominciò a marcire. Ogni tanto mi davano della Novalgina in gocce per sopportare il dolore. Solo quando tornai a San Paolo, con un altro pugno, me lo tolsero».
Scoppia in lacrime Dilma, chiede un bicchiere d’acqua e continua il suo racconto dell’orrore. «Ancora oggi faccio fatica a masticare per quei colpi», racconta questa donna che molti brasiliani hanno accusato di essere troppo dura – «Dilma a durona» è il suo soprannome - senza conoscere, almeno fino a ieri, l’inferno in cui fu costretta a vivere tra il 1970 e il 1973. I tre lunghissimi anni di carcere e torture a cui fu costretta quando non aveva neanche 23 anni.
«Lo stress era feroce, inimmaginabile. Scoprii per la prima volta in vita mia che ero sola. Ho dovuto affrontare la morte e mi ricordo la paura di quando la mia pelle tremava. Sono cose che marcano a fuoco le persone per il resto della loro vita». Continua così il racconto di Dilma, una testimonianza storica preziosa di quella che di lì a 10 anni sarebbe diventata la prima donna alla guida del Brasile. All’epoca era ministro dell’Energia nello Stato di Rio Grande do Sul, dove aveva scelto di trasferirsi, allontanandosi da Belo Horizonte, la città della sua famiglia, la capitale del Minas Gerais. In fuga per dimenticare la ferocia dei suoi aguzzini.
«Se l’interrogatorio era di lunga durata, con un inquisitore “esperto”, lui prima mi metteva per un po’ sul pau de arara (letteralmente «il trespolo del pappagallo». Con questo metodo il torturato veniva legato, facendolo penzolare con le mani e i piedi legati, ndr) e poi iniziava a picchiarmi». Tremendi i dettagli degli interrogatori offerti da Dilma. «Mi picchiavano con il metodo della palmatoria, ovvero colpi sulle mani, sulle piante dei piedi, sulle natiche, inferti con bastoni. Era una routine, di giorno e di notte. A qualsiasi ora. Poi, una volta trasferita a San Paolo, ridussero la palmatoria. Ero dimagrita molto, non mangiavo». Dettagli che, come se ci fosse una scuola continentale di tortura, assomigliano in tutto e per tutto a quelli delle vittime delle dittature di Pinochet e di Videla. Cile, Argentina e Brasile, tre Paesi dove fu attivato il Plan Condor Usa in funzione anticomunista per evitare altre Cuba.

Corriere 20.6.12
Gitta Sereny, l'esploratrice del male estremo
di Giorgio Pressburger


Gitta Sereny, la famosa giornalista e scrittrice novantunenne (nella foto), è morta a Cambridge. Di origine ungherese — il padre apparteneva a una nota famiglia aristocratica — era nata a Vienna. Da un lato era una di quelle intellettuali del '900 appartenenti a più culture, nazionalità, modalità di pensiero. Dall'altro, si era occupata di casi limite, scabrosi, a volte francamente orribili, come l'interiorità di alcuni personaggi di spicco del nazismo, oppure di quella di bambini assassini. Addentrarsi su questi terreni richiede una notevole dose di coraggio, perché spesso si rischia di essere coinvolti nei casi sui quali si indaga.
È capitato anche a lei, quando, durante il processo di Norimberga contro nazisti di primo piano, conobbe l'architetto Speer, stretto collaboratore di Hitler. Dopo lunghe interviste, tra i due nacque una vera amicizia, la Sereny scrisse anche un libro su di lui dal titolo In lotta con la verità in cui è narrato come dopo molte sedute lei, nonostante il diniego dell'architetto, scoprì che sapeva tutto dei lager. La Sereny, del resto, da ragazza era stata attratta dal nazismo e dalla figura di Hitler, prima di diventare una fervente antinazista, ma occupandosi per il resto della vita del destino della Germania. Nel '38 fuggì dal Reich, riparò in Francia e quando Parigi fu invasa dall'esercito tedesco, passò in Spagna, poi negli Stati Uniti. Dopo la fine della guerra collaborò con vari giornali come il «Daily Telegraph», il «Sunday Times», la «New York Review of Books» e «Die Zeit». Nel 1958,a Londra, sposò un fotografo noto, Donald Honeyman.
Nel 1971 passò 8 mesi in colloqui carcerari con il nazista Franz Stangl, «il boia di Treblinka». In un libro, intitolato In quelle tenebre, ne descrisse la fenomenologia e gli orrendi delitti, ma anche l'ambiguità. Il sanguinario Stangl morì d'infarto 18 giorni dopo il termine delle interviste. Un altro caso, oltre a questi tentativi di immedesimazione nel crimine (ma la Sereny non avrebbe potuto scrivere un Macbeth, né un Delitto e castigo) fu descritto dalla giornalista in due libri: Il caso di Mary Bell e Grida dal silenzio. Si trattava di una assassina bambina (undici anni), figlia di una prostituta e di un ladro. Questa ragazza uccise due piccoli esseri umani di tre e cinque anni. La Sereny, dopo i soliti lunghi colloqui ne descrisse il caso, la sociologia, le circostanze. Trent'anni dopo illustrò il seguito della vita di Mary Bell. Ne seguì uno scandalo in Gran Bretagna, con minaccia di processi e denunce per apologia di reato. Se ne discusse anche nel Parlamento britannico. Naturalmente fu un successo editoriale.
Autrice votata a camminare sul filo del rasoio, la Sereny fu anche membro di varie organizzazioni per la protezione di bambini, compresi quelli rapiti dai nazisti per fare esperimenti sulla razza «ariana». E ha scritto su Leni Riefenstahl, regista preferita di Hitler, su Kurt Waldheim, ex nazista, quarto segretario generale dell'Onu, nono presidente dell'Austria.

La Stampa 20.6.12
Gitta Sereny il fascino del Male
Morta a 91 anni: nei suoi libri ha indagato la coscienza dei carnefici nazisti
di Gianni Riotta


Gitta Sereny era nata a Vienna nel 1921 da una famiglia ungherese. Se il Male sia insito nell’uomo, se nasciamo innocenti e lo assumiamo dall’esperienza nel corso della vita, se sia opera di potenze nefaste, il Demonio, la Storia, è dibattito antico come il genere umano, da Caino e Abele ai blog sulla guerra civile in Siria. Ma pochi scrittori nel corso della nostra generazione sono stati ossessionati dal tema più di Gitta Sereny, la saggista e critica scomparsa ieri a 91 anni. Sereny aveva visto il fascino del male con i suoi occhi, da ragazza, quando una semplice deviazione ferroviaria la portò ad assistere nel 1934 allo storico comizio nazista di Norimberga. Tornava da scuola, suo padre era un aristocratico ungherese, la mamma un’artista poi legata all’economista libertario Von Mises. Nessuno ha mai troppa attenzione per la piccola Gitta, che ricorda il collegio dove viene mandata con affetto. E nessuno ha previsto l’effetto che le divise scure, gli slogan ritmati, i secchi ordini militari, le braccia levate in saluto agli urli dai microfoni con la propaganda di Adolf Hitler hanno sulla malinconica ragazzina. La persuadono ed emozionano, si unisce all’urlare ebbro della folla nazista.
Non dura. Vedere un anziano dottore ebreo, costretto a lustrare un marciapiede con uno spazzolino da denti in umiliante spregio, vaccina Gitta Sereny contro il nazismo estetico che aveva sedotto la regista Leni Riefenstahl. Si rifugia all’estero. Tornerà a Parigi, finita la guerra, per assistere i bambini abbandonati. L’Europa centrale pullula di piccoli profughi, e fra di loro i ragazzini sfuggiti al programma di arianizzazione, rapire figli di famiglie «ariane» e affidarli a famiglie tedesche naziste. Bisogna trovare i genitori quando possibile, ridare agli innocenti una vita normale. Perché essere umani cadono con tanta «banalità», come aveva scritto la filosofa Arendt, nel male? Perché padri di famiglia, giovanotti pieni di speranze, tedeschi colti passano, indossata una divisa, nel ruolo di massacratori, seviziatori nel tragico genocidio d’Europa? Perché molti di loro, pur colpevoli di torture, ferocie, assassinii contro ebrei, zingari, oppositori, ucraini, russi, restano in privato persone «perbene», capaci di affascinare in salotto o impietosirsi e provare compassione per chi fa parte della loro cerchia e non è relegato tra i «sub-umani»?
Sereny comincia una cronaca che si estenderà per vari libri, In quelle tenebre (Adelphi), In lotta con la verità, la vita e i segreti di Albert Speer, Grida dal silenzio, storia di una bambina (entrambi Rizzoli), sulla lotta tra Bene e Male nella coscienza di un individuo e sulla facilità con cui il male, anche nelle forme assolute, possa prevalere. Così Albert Speer, l’architetto e urbanista che Hitler chiama a sé per costruire la Berlino capitale del Reich che deve durare mille anni, forse la sola persona per cui manifesti affetto e sentimenti personali. Lo Speer che nel 1945, a guerra ormai perduta, atterrerà personalmente nella Berlino assediata dai russi per salutare un’ultima volta il suo Führer, e poi finire condannato al processo di Norimberga. Sereny si dirà a propria volta toccata dal fascino privato di Speer, pur realizzando con orrore che anche il nazista elegante era al corrente del male che il regime perpetrava.
Così è anche per Franz Stangl, un poliziotto qualunque che diventa capo delle SS a Treblinka, sovrintende all’Olocausto di 900 mila esseri umani, ripara in America Latina e solo in fin di vita (morirà giusto dopo un colloquio con la Sereny) viene tratto a giudizio. Stangl non sa vedere come propria colpa che «essere stato lì», attribuisce il male al caso feroce dello Storia, che l’ha condotto in un Lager anziché dimenticato ad arrestare borsaioli. Sereny ha la smania della verità, e chiede dunque alla moglie di Stangl perché mai non abbia posto un aut-aut al marito, o me o Treblinka, imponendogli di ritirarsi dalle SS. La donna, sconvolta, prima ammette che se lo avesse fatto il marito avrebbe scelto la famiglia lasciando i nazisti, poi con il candore che la Sereny sa evocare nei colpevoli - ritorna in autobus all’albergo della scrittrice e lascia una nota, confessando di essersi sbagliata: il marito non l’avrebbe fatto, Treblinka era più forte dell’amore. È lo scacco morale in cui finisce l’opera della Sereny, anche quando, come lo scrittore americano Truman Capote di A sangue freddo, analizza un caso di cronaca nera, la piccola Mary Bell, condannata per omicidio a 11 anni mentre il suo complice, 13 anni, viene assolto dal tribunale. Mary resta impassibile durante il processo, il complice piange a dirotto, i giudici castigano la reazione al delitto, prima che il delitto, come in Dostoevskij.
La Storia non è però semplice come un litigio di coppia, non basta affrontare il Male come se fosse un partner infedele. La bravura della Sereny, anche quando ammetteva di essere affascinata dai colpevoli che intervistava, stava nell’illuminare il volto del male con il flash della sua prosa morale, luce contro ombra. E nell’intuire con angoscia che sempre il Male e i suoi segreti, e il Bene e la sua forza, si nascondono piuttosto nei grigi, nelle sfumature, nelle nuance sfuggenti alla chiarezza sognata da Gitta Sereny.

La Stampa 20.6.12
Anziani che odiano le donne I delitti passionali degli over 60
A Palermo l’ultimo episodio: un 69enne ha tentato di ammazzare la moglie
di Grazia Longo


Femminicidi In provincia di Reggio Emilia un 71enne ha ucciso la badante che rifiutava le sue avances
In aumento anche i divorzi tra coppie non più giovani: i litigi non finiscono fortunatamente in violenze, ma arrivano in tribunale e terminano con la separazione

Uomini che odiano le donne. A tutte le età. Anche in quella dove dovrebbe prevalere la saggezza. Non è così. Gelosia e prevaricazione armano anche gli uomini over 60 e ancora oltre. L’ultimo caso, ieri a Palermo: un pensionato di 69 anni, Emauele Guaresi, ha cercato di uccidere la moglie a martellate. Lei è viva per miracolo, lui in carcere per tentato omicidio. Ha perso invece la vita una parrucchiera in pensione di Merano: Erna Pirpamer, 66 anni, è stata accoltellata ieri dall’ex fidanzato, il tunisino Aouichaoui Boubaker, giardiniere di soli 32 anni.
La cronaca degli ultimi mesi racconta di settantenni e ottantenni che si accaniscono contro la donna che rifiuta il loro amore o, stanca di violenze e soprusi, si ribella. Da nord a sud, si consuma senza sosta la furia omicida della terza età. Ecco allora l’episodio di venerdì scorso a Campegine (Reggio Emilia) con il carpentiere in pensione Sandro Rizzi, 71 anni, che spara a morte la badante ucraina di 42 anni che rifiuta le sue avance e al rappresentante di acque minerali di 44 .
Al 30 aprile scorso, a Cuneo, risale invece lo strangolamento di Pierina Baudino, 82 anni, per mani del marito Vittorio Ninotto, 76 anni. Lei lo accusava di volerla tradire con la donna delle pulizie, lui s’è stufato delle critiche e l’ha ammazzata. Contro il presunto rivale in amore s’è invece scagliato Firminio Di Sano, 82 anni, di Civitaquana (Pescara): ha imbracciato il fucile da caccia contro un sessantanovenne che stava chiacchierando con sua moglie. In quel caso, per fortuna, non è morto nessuno. Ma c’è mancato poco.
Dissidi, litigate, recriminazioni, piccole vendette. Ma a volte non basta urlarsi contro di tutto per poi riavvicinarsi pacificati. E così, se la furia non degenera nel sangue, spesso si finisce in tribunale per una separazione legale. Cresce il numero dei delitti tra le mura domestiche di chi non è più giovane, ma cresce pure il numero dei divorzi.
«Innanzitutto perché i moventi come la gelosia o il senso del dominio non cambiano con l’età - osserva la psicologa Margherita Carlini, criminologa consulente della Questura di Roma ed esperta di stalking -. È un’idea romantica quella che immagina gli anziani come più saggi e scevri dalle pulsioni passionali. Inoltre siamo di fronte a un radicale mutamento culturale che ha rivoluzionato i rapporti all’interno della coppia. L’età non conta». Le donne sono ingrigite solo nei capelli, mentre hanno acquistato maggiore consapevolezza di sé e non esitano a dire finalmente «no». «Recentemente - prosegue la dottoressa Carlini - ho seguito il caso di una signora di 82 anni che, stanca delle angherie del marito ha chiesto di poter essere accolta in una “casa rifugio”. I figli non volevano prendere posizione tra lei e il marito e lei non aveva altra scelta».
A proposito della gelosia cieca di alcuni uomini non più giovani, al di là delle ragioni psicologiche, il loro senso di onnipotenza è oggi alimentato anche nella sfera sessuale più che in passato. «La diffusione del Viagra ha sicuramente contribuito a rendere più forti, più potenti gli anziani». Tanto che in molti si spingono a corteggiare donne molto che potrebbero essere loro figlie. Per amore. Per il desiderio - più o meno conscio - di sentirsi più giovani. Ma anche per l’illusione di poter competere con uomini-ragazzi.
E anche stavolta la vita s’incrocia drammaticamente con la cronaca nera. Come nel caso di un ottantenne di Siracusa che è stato evirato (per cui è morto dissanguato) da un uomo di 36 anni, geloso dell’assiduo corteggiamento alla sua convivente, badante dell’anziano.
Lontano da scenari tragici, all’interno di coppie di sposi litigiosi, s’impone il divorzio anche tra chi ha festaggiato le nozze d’argento. «Le modalità di rapporto sono cambiati sottolinea l’avvocato matrimonialista Francesca Zanasi -, anche le coppie più mature puntano a una vita dove prevale l’individuo sulla famiglia. La convivenza “forzata” tra una moglie casalinga e il marito che va in pensione altera gli equilibri e può sfaldare una relazione che appariva collaudata. Lo stesso vale per l’uscita da casa dei figli»

La Stampa 20.6.12
L’ultimo amore, estremo e disperato
di Ferdinando Camon


Perché l’amore, la passione, la gelosia, la violenza e perfino l’omicidio dovrebbero essere prerogative dei giovani, e non dovrebbero travolgere anche gli anziani, ultrasessantenni, ultrasettantenni o più ultra ancora? Succede sempre più spesso che si formino coppie di anziani, anziani con anziani o anziani con giovani. Uno dei più bei romanzi d’amore l’ha scritto Guy de Maupassant, s’intitola Forte come la morte, e forte come la morte è appunto l’amore. Se è forte come la morte, resiste alla morte, è un’illusione d’immortalità. E infatti in Maupassant lui muore alla fine, ma l’amore continua, e sul letto di morte invoca la presenza dell’amata, vuol morire guardandola.
Solo che c’è un brutale colpo di scena, che sull’amore tra anziani la dice lunga. La passione del pittore era prima verso una coetanea, poi alla fine si trasforma bruscamente in un’attrazione infrenabile, inguaribile, mortale, per la figlia di lei: nella figlia vede la madre rinata, e amandola ha l’impressione non solo di amare una donna tornata ragazza, ma di tornare ragazzo a sua volta.
È questa la molla degli amori tra anziani. Tornar giovani, ricominciare da capo (detto tra parentesi: allontanare la morte). L’amore è un arresto della vita, la blocchi, pronunci le immortali parole di Faust: «Férmati o attimo, sei bello». Perché non dovrebbero cercare quest’attimo gli anziani, i vecchi? Perché non dovrebbero bloccare la vita, loro che stanno per perderla? Nella tarda età le passioni esplodono, è umano che succeda, ed è umano che siano forti come e più delle passioni giovanili. Conosco una signora che ha passato i settanta, è stata abbandonata dal marito (al solito, per una più giovane), ha trovato un coetaneo e lo definisce «la ciliegina sulla torta»: è pronta a morire per lui, come non era per il primo marito. Gelosia, violenza e omicidio nelle coppie giovanili sono meno spiegabili che nelle coppie anziane. Perché i giovani che hanno una relazione hanno quell’occasione, ma se va male ne avranno tante altre. Mentre per gli anziani che hanno una relazione suona la campana: o quella o niente più. Perciò l’amore degli anziani è violento, è estremo, e non conosce condizioni di età, di lingua, di religione, di classe sociale. Quando il vecchio viene messo da parte dalla famiglia, e accudito soltanto dalla badante, nel suo caso si sommano due contrari: la famiglia, per la quale ha consumato la vita, non se ne cura, e una straniera, per la quale non ha fatto niente, lo assiste a tempo pieno. Non è raro che il vecchio, morendo, lasci quel che può, anche tutto, alla badante. Al momento di andarsene pensa a chi l’ha amato, aiutato, servito. Non vede che la badante. E la ricambia. Le badanti sono sole, immerse in un ambiente ostile, di altra lingua, altra cultura. Come il vecchio: nella casa crescono altri poteri, altri interessi, lui è un estraneo, non conta più niente. Badante e, chiamiamolo così, badato, hanno molto in comune. Normalmente nasce gratitudine, gentilezza, amicizia, ma se fanno un altro passo, nasce l’amore.
L’amore dei vecchi è più brutale di quello dei giovani, perché è un amore all’antica. Una vecchia canzone dice: «Ma se ti trovo / in compagnia, / te l’ho giurato, / ti ammazzerò». E così va, in effetti: c’è chi la uccide solo perché parla con un altro. Oppure perché lei si conserva meglio, è desiderabile e dunque certamente è desiderata. La si ammazza per questo, credendo di fare giustizia. È sbagliato dire che la vecchiaia è saggezza. La vita è una sequenza di sbagli, e la vecchiaia ha questo di brutto: dice che non c’è più tempo, bisogna tirare i conti. Ognuno tira i suoi, nessuno è contento, e ognuno cerca di arraffare più che può.

La Stampa 20.6.12
Australia, l’arte di 28 mila anni fa


La scoperta di un gruppo di archeologi che lavorava in un sito remoto in Arnhem Land, nel Nord-Ovest dell’Australia, dimostra come gli antichi aborigeni fossero uno dei popoli più avanzati nell’evoluzione umana. Gli studiosi hanno datato a 28 mila anni fa l’arte rupestre tracciata con il carbone sul soffitto di un riparo di roccia detto Narwal Gabarnmang presso il fiume Katherine. «È la più antica pittura finora confermata con datazione al carbonio in Australia, e uno degli esempi più antichi al mondo di pittura umana», ha scritto Bryce Parker della University of Southern Queensl

il Fatto 20.6.12
L’ombra del Vaticano dietro la festa del Pd


“Roma ce la farà”: con questo slogan viene annunciata la Festa dell’Unità del Pd capitolino, che da cinque anni si svolge alle Terme di Caracalla. L’affermazione dei manifesti è perentoria e non lascerebbe spazio a facili umorismi del tipo “a fare cosa?”, se non fosse per l’immagine scelta come sfondo di questo infallibile auspicio: la Cupola di san Pietro?! Cioè, l’unica opera architettonica romana che non fa parte dello Stato italiano, perché situata nel-l’enclave detta Stato della Città del Vaticano?! Allora ecco un’altra domanda nascosta, perché latente: ce la farà il Vaticano, con l’aiuto di una sinistra che si muove all’ombra del suo Cupolone, a far dimenticare tutti i reati orrendi di cui si sono macchiati alcuni suoi preti “smarriti”, nonché gli scandali finanziari e i suoi molto terreni giochi di potere? Sinceramente si preferiva la gonna rossa svolazzante sulle gambe femminili dell’anno scorso, che tante polemiche suscitò tra le femministe di ferro. Stavolta invece nessuno protesta e una silenziosa arietta da sagrestia accarezza i manifesti del Pd. Perché a Roma, ancora, non si muove paglia che Dio non voglia. E la risposta è sì: il Vaticano, così, ce la farà.
Paolo Izzo