giovedì 21 giugno 2012

l’Unità 21.6.12
Ricorso bocciato, la 194 è salva
La Consulta: «Inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice tutelare di Spoleto per il caso di una minorenne»
Reazioni positive a sinistra, dal Pd a Sel
di Susanna Turco


Nessuna rivoluzione, nessun assalto, la 194 ha i suoi problemi di applicazione (in media negli ospedali italiani due medici su tre fanno obiezione di coscienza) però la Corte costituzionale non la tocca. Non stavolta almeno. La camera di Consiglio è durata meno del previsto e la decisione – attesa in serata – è arrivata a metà pomeriggio, per il sollievo di quanti temevano che di qui potesse passare un attacco alla legge che disciplina l’aborto. «Save 194» era da settimane il tam tam su social network e volantini. E tanto la Consulta ha fatto, dichiarando «manifestamente inammissibile» la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge (praticamente il nocciolo del provvedimento, quello che disciplina le motivazioni e le circostanze in base alle quali una donna può abortire entro 90 giorni dal concepimento), sollevata in gennaio dal giudice tutelare del tribunale di Spoleto.
Partendo da un pronunciamento della Corte di giustizia europea in materia di brevettabilità dell’embrione, sentenza che definisce l’embrione come «soggetto da tutelarsi in maniera assoluta», il giudice tutelare sosteneva che l’articolo 4 fosse in contrasto con i principi generali della Costituzione e in particolare con quelli della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2) e del diritto fondamentale alla salute dell’individuo (articolo 32).
L’occasione per sollevare la questione davanti alla Consulta era stata per il giudice tutelare di Spoleto la richiesta di abortire giunta in gennaio da parte di una minorenne che, non volendo chiedere l’autorizzazione ai genitori, era andata in consultorio spiegando «di non ritenersi in grado di crescere un figlio». Passati sei mesi, la Consulta ha riportato nel suo alveo originario la questione, non entrando nemmeno nel merito della estendibilità di una sentenza sulla commerciabilità dell’embrione alla materia della 194. In attesa delle motivazioni, che saranno scritte dal giudice Morelli (quello della sentenza sul caso Englaro) ieri il presidente emerito Cesare Mirabelli ha spiegato infatti che, seppur «il quesito avesse consistenza», la decisione ha riguardato il «ruolo del giudice tutelare» che «non è chiamato» dai servizi sociali ad «autorizzare o meno la minore», ossia «non partecipa alla volontà abortiva della minorenne, deve solo verificarne l’adeguata maturità». E tanto, sei mesi prima, gli era stato chiesto. «Di fatto, il giudice di Spoleto è andato oltre il suo compito previsto dalla legge 194, e ha interpretato la decisione dei giudici di Strasburgo estrapolando concetti a uso strumentale per attuare un attacco alla 194'», dice l’avvocato dell’associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, che ha seguito la vicenda fin dall’inizio, ricordando che già nel 1975 la Consulta stabilì che «i diritti del concepito non ricevono tutela assoluta, poiché sono oggetto di valutazione comparativa con altri valori di rilevanza costituzionale (diritti della donna), rispetto ai quali, in determinate condizioni, sono destinati a soccombere».
Molti (e senza sorprese) i commenti positivi nel Pd («una ottima decisione prevedibile, la 194 è una buona legge, bisogna applicarla», dice Anna Finocchiaro), Idv, Sel, Pdci e Rifondazione. Polemica invece da Carlo Casini del movimento per la Vita e, ancor più dura, da Alfredo Mantovano (Pdl) che parla di «decisione pilatesca della Consulta» che ha rifiutato – e secondo lui a torto – «di entrare nel merito, cioè di occuparsi di quando inizia la vita».

il Fatto 21.6.12
Tensione al vertice del Pd
Veltroni: “Attenzione che a luglio ci sarà la crisi”
di Sara Nicoli


Doveva essere una riunione come tante altre, una di quelle in cui si fa il punto dello stato dell’arte, si parla degli impegni futuri, si fa un’analisi politica di quello che sta avvenendo e ci si confronta. E, invece, quella di ieri sera alla Camera è stata una riunione del gruppo del Partito democratico del tutto inusuale. Anzi, è stata una riunione di svolta.
Per la prima volta da tanto tempo, qualcuno ha buttato un macigno nello stagno delle sicurezze legate al futuro della legislatura, del governo e delle possibili elezioni anticipate. Quando, insomma, nessuno se lo aspettava, uno solitamente silenzioso come l’ex segretario Walter Veltroni ha preso la parola e ha lanciato un allarme, quasi a voler condividere con i “compagni” non solo una premonizione infausta, ma qualcosa di più: l’imminenza dell’apertura di un nuovo capitolo di lotta parlamentare. A fronte del quale il Pd sarà chiamato a fare delle scelte che, se sbagliate o intempestive, potrebbero anche rivelarsi esiziali per il suo futuro.
É successo poco dopo la fine della diretta dal Senato e il voto sull’arresto dell’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. E subito dopo che le agenzie di stampa avevano battuto la notizia di un Silvio Berlusconi di nuovo sulle barricate sulla questione dell’uscita possibile dall’euro. Il segretario Pier Luigi Bersani aveva parlato fino a quel momento con tono più grave del consueto, a quello che raccontano alcuni dei presenti. Il suo discorso era stato tutto incentrato sulla riforma del lavoro. Che sì, “la dovremo votare – avrebbe detto il segretario Pd – ben sapendo che colpisce direttamente quelli che ci votano”, che, insomma “questa riforma cade tutta su di noi, non su di loro”, intendendo con “loro” il Pdl.
VISTO IL TONO del segretario, sembra che sulla riunione sia calato un silenzio molto pesante, interrotto solo dall’intervento di una deputata che ha ripreso le fila del discorso del segretario auspicando un’azione del Pd che potesse riacciuffare quelli che “ci hanno votato” ma che, con la riforma del lavoro, dopo forse ci penseranno su un po’. Poi è arrivato Veltroni. “Ma non vi siete accorti – ha esordito l’ex segretario – di che cosa stanno facendo quelli? ”. Dove “quelli” sono il Pdl e Berlusconi. “Non vi siete accorti proseguito – di come sono cambiati i loro toni anche dall’ultima fiducia, quella sulla legge anti-corruzione? Non vi dice nulla tutto questo? ”.
Nel silenzio tombale, Veltroni ha spiegato la sua versione dello stato delle cose. Che, cioè, Berlusconi si starebbe preparando a staccare la spina al governo Monti. Se il premier tornerà da Bruxelles con meno risultati del previsto o – peggio – a mani vuote dal consiglio europeo del 28 giugno, allora scatterà l’addio ai tecnici. I segnali, secondo Veltroni, sono inequivocabili, a cominciare da quei sondaggi che, secondo voci della ex maggioranza, continuano a parlare in negativo. Tanto in negativo da indurre Berlusconi a pensare di poter staccare la spina al governo per andare ad elezioni anticipate, non certo per chiedere un rimpastino, un Monti bis.
Una disamina, quella di Veltroni, che ha ammutolito per qualche lunghissimo minuto tutto l’uditorio. Sembra che Bersani abbia ascoltato l’intervento con aria molto preoccupata, ma di fatto condividendo appiano la visione ventroniana dell’imminente show down causato dai berlusconiani in cerca di mantenere l’elettorato scontento e in libera uscita. “Quello che dobbiamo fare noi – è stata la conclusione di Veltroni – è fare in modo che se questi staccano la spina, poi restino attaccati alla corrente dell’alta tensione”. Quasi un grido di battaglia. Che è stato capito da tutti. Ma poi nessuno ne ha più voluto parlare.

l’Unità 21.6.12
Persone aperte all’altro. Sui diritti brava Bindi
di Livia Turco


IL DOCUMENTO ELABORATO DAL COMITATO DIRITTI PRESIEDUTO DA ROSY BINDI CONTIENE UN’ELABORAZIONE PREZIOSA ed innovativa.
Ciò che mi convince è innanzitutto l’impostazione del tema dei diritti connessa ad una visione antropologica della persona. Quella dell’individuo relazionale, della persona aperta all’altro che riconosce la sua dipendenza dall’altro e il suo bisogno dell’altro, in cui la libertà si realizza riconoscendo tale interdipendenza. Pertanto diritti e doveri, responsabilità verso se stessi e verso gli altri, eguaglianza di rispetto, presa in carico dell’altro diventano gli ingredienti fondamentali della cittadinanza.
Questa visione relazionale della persona per me è la questione cruciale. Essa non solo si inserisce nel nostro dettato costituzionale e ne sviluppa in modo creativo articoli fondamentali come l’articolo 2, ma si pone in sintonia con elaborazioni moderne che provengono da diversi filoni culturali, primo fra tutte le donne, che nel pensiero della differenza sessuale trovano riferimento in personalità come Martha Nussbaum. Così come penso al recente bel libro di Claudia Mancina sulla famiglia, che in modo efficace evidenzia la centralità della famiglia nella società attuale in quanto luogo dell’intimità e della formazione della persona attraverso il riconoscimento del suo bisogno dell’altro.
Penso anche ai filoni culturali che hanno concentrato la loro riflessione sulle forme possibili della convivenza e che hanno comunque la loro base nel pensiero e nella pratica della reciproca conoscenza e del reciproco riconoscimento.
La costruzione di legami sociali e comunitari, il prendersi cura dell’altro come ingrediente della cittadinanza è fondamentale oggi perché questo nostro tempo è attraversato da solitudini e da relazioni umane fragili che indeboliscono i diritti. Non si costruisce democrazia, legalità e diritti nella società attuale se le persone non riscoprono il gusto della cooperazione tra di loro, della costruzione di relazioni umane significative. Da questa moderna concezione della persona scaturiscono delle priorità che nel documento sono ben evidenziate: prima fra tutte l’intreccio tra diritti sociali, civili e politici e la lotta intransigente contro ogni forma di diseguaglianza, per l’eguale rispetto e l’eguale dignità della persona. Come per altro indica la poco citata Convenzione europea dei diritti umani fondamentali.
L’altro aspetto cruciale del documento è il modo con cui affronta il tema del pluralismo. Questione molto più impegnativa del passato. Perché in gioco sono visioni della vita e della persona. Perché la coscienza individuale è diventata più gelosa ed esigente delle proprie scelte. Questo punto è una forma di responsabilità, di crescita umana e non una regressione solipsistica. Dunque, regolare le differenze significa rispettare il «sacrario» della coscienza individuale e creare la condizione perché ciascun «sacrario» rispetti l’atro secondo la logica dell’eguale rispetto e dell’eguale dignità.
Pertanto considero cruciale quanto scritto nel documento: «Ciò che va valorizzato della deliberazione politica democratica su temi eticamente sensibili, è il suo carattere di sintesi provvisoria e sempre perfettibile ... Solo la consapevolezza della provvisorietà e della perfettibilità della sintesi e del bilanciamento volta a volta raggiunti può rendere accettabile la decisione della maggioranza da parte di chi al momento non si ritrova nella soluzione prevalente».
Infine, per quanto attiene la regolazione delle nuove famiglie, delle nuove convivenze comprese quelle omosessuali, il testo contiene una formulazione limpida che rispetta e sviluppa l’articolo 2 della Costituzione. Uno sforzo decisivo che farà compiere un enorme passo avanti nel nostro Paese nel momento in cui ci sarà una legge che riconosce diritti e doveri su un piano di parità a tutte le forme di convivenza famigliare compresa quella omosessuale.

il Fatto 21.6.12
Autorizzazione del Senato. 155 sì,13 no, il Pdl litiga, entra in aula, ma poi non partecipa alla votazione
Lusi arrestato “Ora facciamo i conti”
di Fabrizio d’Esposito


Solo e assetato. Il neodetenuto senatore Luigi Luisi, alle sette di sera, conta i voti a favore del suo arresto e i bicchieri d’acqua bevuti in due ore e mezza. Centocinquantacinque i primi, ben quindici i secondi, sempre seduto e senza mai andare in bagno. Poi sfoglia i tabulati e la sua rabbia diventa minacciosa, davanti alla buvette: “Adesso che sono a totale disposizione dei magistrati ci sono degli approfondimenti che potrei fare, se lo vogliono. Ho molto da dire ai pm. Mi vogliono mandare in carcere? Faremo i conti. Io combatterò da senatore. Volevano anche costringermi alle dimissioni ma non ci sono riusciti”.
Il congedo dovrebbe essere drammatico ma gli esce una battuta alla Totò. Forse ancora non ha realizzato del tutto. I suoi legali gli ricordano che se non smette di parlare verranno a cercarlo. Lui recepisce: “Lasciatemi andare adesso, vado dove devo andare”. Lusi si infila in un corridoio. Chiama l’avvocato, incrocia Anna Finocchiaro, si ferma ad aspettare l’ascensore. Estrae i tabulati del voto dalla borsa, li ricontrolla: “Incredibile, Bianco ha votato contro di me. Almeno Rutelli ha avuto la decenza di non partecipare. Rutelli è stato intelligente. Ho notato che se la Lega non fosse rimasta in aula sarebbe mancato il numero legale”. “Incredibile” è l’aggettivo che ripete quando si accorge che anche la senatrice terzopolista Cristina De Luca ha detto sì alle manette: “Incredibile alla De Luca ho contribuito per anni”. L’ascensore arriva e Lusi scompare. Esce da una porta secondaria, sale un Suv nero. C’è anche suo fratello, che piange. L’ex tesoriere della Margherita va a costituirsi al carcere romano di Rebibbia. Arriva lì che è ancora giorno, intorno alle venti e trenta.
Ieri, l’ultima giornata di libertà di Lusi è iniziata come al solito. In treno da Genzano a Termini, quindi al Senato. Si è messo al suo banco e ha seguito i lavori. E ha capito che il suo destino era già segnato dalla sera precedente. Un collega-ambasciatore gli ha recapitato la funesta notizia: “Ieri sera (martedì, ndr), Schifani ha riunito i suoi a cena e ha dato l’ordine di mollarti. Mi dispiace. Berlusconi si è tenuto fuori”. Lusi incassa e ai cronisti confessa: “Sto vivendo un incubo”.
La pausa per il pranzo è lunga. Si riprende alle sedici e trenta. Lusi è un dead man walking che si rinchiude nel suo ufficio. Rifinisce il suo lungo discorso con i legali, riceve varie telefonate. “Tutte di solidarietà, ma non faccio nomi”, riferisce. A Roma ci sono quasi quaranta gradi. Nelle stradine che circondano Palazzo Madama ci sono i manifesti della Destra: “In questi giorni caldi mandiamolo al fresco”. C’è anche un picco sit-in dei militanti storaciani. Si conclude con il lancio di fette di mortadella. Le ultime ore di Lusi libero sono stritolate da una solitudine devastante. Al suo fianco, anzi alle spalle c’è solo il collega Alberto Tedesco, ex Pd salvato un anno fa dall’arresto per la malasanità pugliese. Tedesco è seduto dietro di lui. I due parlottano spesso. È lui, Tedesco, che si informa sulle trattative in corso nel Pdl. Votano o non votano?
Lusi smanetta sull’iPad e sul Blackberry contemporaneamente, beve acqua in continuazione. Alle sedici e cinquanta tocca a lui. È il secondo intervento, dopo quello del relatore Marco Follini. Lusi preferisce così. Chiede scusa ma il suo chiodo fisso sono gli ex vertici della Margherita. Francesco Rutelli ed Enzo Bianco, per la precisione. Rutelli è seduto quattro posti più in là, verso sinistra. Prende appunti, una smorfia ogni tanto. L’autodifesa di Lusi ha un titolo: “Sono il capro espiatorio, un colpevole per tutte le stagioni”. Passa dalla solennità alla poesia. Per la prima: “Un uomo va giudicato per come reagisce davanti al fallimento non al successo”. Per la seconda: “Che cos’è un ricordo? Non è niente, non puoi vederlo né toccarlo, ma è talmente grande da non poterlo distruggere”. Il ricordo è il “patto fiduciario” con cui per anni ha fatto il tesoriere: “Potevo gestire da solo 214 milioni di euro. È possibile, è credibile? ”. Quasi davanti a lui, l’ex leghista Rosi Mauro, “capro espiatorio” per lo scandalo Bel-sito, mastica una gomma e annuisce convinta.
Le accuse a Rutelli riguardano anche la contingenza. Lusi denuncia il “traffico telefonico” del leader dell’Api per convincere alcuni senatori a ritirare la firma da una richiesta. Quella per il voto segreto. L’unica arma per scampare all’arresto. Lusi fa un appello alla sacralità della coscienza, il presidente del Senato, Schifani, lo interrompe: “Sono ventiquattro minuti che parla, la invito a finire”. L’ex tesoriere della Margherita risponde che gli mancano tre pagine. Quando conclude, il silenzio diventa angosciante. Nessuno applaude. Lui si siede, beve l’ennesimo bicchiere d’acqua, si tocca la fede, abbassa il microfono, poggia la testa sullo scranno, con lo sguardo verso l’alto. Il voto è alle sette di sera. Schifani comunica il risultato e Lusi sistema il tesserino da senatore nel portafogli. Per un po’ non gli servirà più.

La Stampa 21.6.12
La leader radicale
Bonino: l’accanimento dei pm non c’è, ecco perché ho scelto il sì
di Car. Ber.


Onorevole Bonino, lei e i Radicali del Pd avete votato a favore dell’arresto di Lusi. Perché questa scelta?
«Siamo tradizionalmente garantisti, ma abbiamo votato per l’arresto anche su altri casi, come Papa o Milanese alla Camera. Perché il Parlamento non è l’aula di un tribunale e piaccia o non piaccia noi dobbiamo valutare solo se vi sia o meno un accanimento giudiziario. E a nostro avviso in questo caso non c’è, punto. Ed io mi sono iscritta a parlare, visto che tutti stavano entrando nel merito delle accuse, per richiamare proprio questo punto: noi non siamo la caricatura di un tribunale».
Ha anche invitato tutti a votare alla luce del sole senza nascondersi dietro il voto segreto.
«Si, ma la questione centrale che mi preme mettere in primo piano è che questi casi, più in generale, chiamano in causa la funzione di responsabilità politica sull’uso della carcerazione preventiva. Che in Italia è uno scandalo e tutte le proposte dei Radicali non sono mai state prese in considerazione: su 67 mila carcerati, 27 mila sono in attesa di giudizio e 14 mila in attesa del primo grado. Questo è il problema e non ci si può emozionare solo se si ritiene che riguardi un collega. Ma oggi non era questo in discussione. Il caso Lusi è poi la prova evidente dell’uso disinvolto del finanziamento pubblico, su cui non si è messo mano se non con una pseudo-riforma».
Non metterà fine alla gestione opaca dei fondi da parte dei partiti?
«E’ una riforma che grida vendetta francamente: finora c’è stata una gestione dei fondi più che disinvolta: senza rendicontazione, concessi anche per i partiti defunti, il tutto in violazione dei poteri vincolanti di un referendum. Problemi politici di cui si dovrebbe occupare il Parlamento, ma oggi in discussione c’era solo la verifica se vi fosse un accanimento giudiziario contro Lusi. Tutti gli altri, che sono problemi aperti, andrebbero affrontati a dovere, ma non era questa la sede».
Ritiene che su questo voto si sia giocata una partita tutta politica di altro tipo?
«Il Pdl alla fine ha pensato fosse un problema della sinistra. E su questo caso si sono combattute tutta una serie di agende nascoste che poco hanno a che vedere con le regole e con i compiti che ciascuno ha: magistratura e Parlamento».
Non pensa che in tutta questa giornata aleggiasse il fantasma dell’antipolitica?
«Ma figuriamoci: con Pannella ed altri continuiamo a proporre l’amnistia, una cosa cosiddetta impopolare, che se fosse spiegata sarebbe popolarissima. Io non ho paura di Grillo, bensì della mediocrità della classe politica, di cui Grillo è la conseguenza, e che si è espressa anche oggi».
In che modo?
«Intanto avallando la pseudoriforma che riguarda il finanziamento pubblico. Ma anche sul fatto che la destra abbia detto: sono problemi della sinistra, vedetevela voi. Lusi stesso ha sostenuto che solo il voto segreto garantisce la libertà di coscienza: ma è un modo intollerabile di disprezzare le persone! La mia faccia, anche per le cose più impopolari, la tengo sempre alta. Capisco che uno ha il diritto di difendersi come ritiene, ma c’è anche da difendere le istituzioni ed esiste pure un limite a tutto».

Corriere 21.6.12
Schifani loda l'intervento della Bonino: «Brava»
di D. Mart.


ROMA — Emma Bonino si becca i complimenti di mezza Aula per il suo intervento appassionato — sul ruolo dei senatori e delle senatrici della Repubblica — e alla fine, complice anche un microfono rimasto acceso, dalla tribuna si sente chiaramente un perentorio «Brava!» riconducibile al timbro di voce del presidente Renato Schifani. L'esponente radicale — garantista della prima ora e artefice di mille battaglie sul fronte della giustizia — si è infatti rivolta con piglio deciso al collega Lusi che invocava il voto segreto: «Caro collega, mi sento offesa perché non puoi dire a noi che una scelta di coscienza può avvenire solo attraverso il voto segreto. Non puoi dirlo a me che ho fatto tante battaglie a testa alta». Poi, rivolta ai banchi del Pdl, la Bonino ha aggiunto: «Mi auguro di non assistere ad abbandoni, perché siamo senatori e senatrici della Repubblica che non scappano davanti alle responsabilità».

Repubblica 21.6.12
Le lacrime del senatore dopo il verdetto “Sono stato tradito dagli amici ma ora ho una marea di cose da rivelare”
Da Palazzo Madama in macchina con il fratello verso il carcere
di Annalisa Cuzzocrea


LE LACRIME gli avevano velato gli occhi in Transatlantico, mentre, con le braccia tese e le mani giunte, rispondeva ai cronisti che gli si assiepavano intorno. Poi però per trattenere l’emozione, chiedeva: «Per favore, dell’acqua». Lo ha fatto anche durante il suo discorso: una tosse nervosa e la gola che si fa secca gli unici segni a dimostrare la tensione. La paura. La confessa al cronista prima della seduta, quando chiuso nel suo studio mangia qualcosa e lima le parole dell’intervento. «Sono molto teso, non glielo nascondo ». E sul voto segreto? Ci crede ancora? «Non ci ho capito più niente. Fino a ieri c’erano una marea di firme, poi sono sparite. La situazione è, mi passi il termine, dinamica». Entra in aula alle 16 e 30, non un minuto prima. Dopo di lui, solo i senatori pdl riuniti fino all’ultimo in una lunga riunione che di fatto decide la sua sorte. Li guarda come se non capisse. Nessuno lo saluta. Non un cenno, una parola, una pacca sulla spalla, i gesti che si sono visti nei casi in cui si è votato su Marco Milanese, Alfonso Papa, Saverio Romano, Sergio De Gregorio. Lusi è solo. Quando esce dall’aula, dopo un discorso lungo mezz’ora e dopo il voto elettronico e palese, gli unici che gli si fanno intorno sono i cronisti. Stringe la borsa in cui ha messo i tabulati. Si addossa a una parete vicina alla buvette. Cosa cercava, in quei fogli? «Ho scoperto che Enzo Bianco ha votato. Almeno Francesco ha avuto l’intelligenza di non farlo. E senza la Lega, non ci sarebbe stato il numero legale. Tradito dagli amici». Controlla, il tesoriere. Rutelli lo chiama ancora per nome. Anche se erano in banchi vicini non si sono neanche guardati. Si ferma un attimo, sospira e poi continua ad attaccare con una punta davvero velenosa: «La De Luca ha votato, non posso crederci, l’abbiamo retribuita per anni». La stretta di mano è ancora forte, le parole ancora decise. «Voglio combattere da senatore, hanno chiesto pesantemente le mie dimissioni, facendomi capire informalmente che forse così sarei riuscito a evitare l’arresto, ma io - fa una battuta - avrei scommesso otto viaggi alle Bahamas che non sarebbe finita così. Che mai, per i reati di cui si parla, qualcuno avrebbe chiesto il mio arresto». Non si sente un capro espiatorio, ma «sto vivendo un incubo, e chiedo di essere rispettato come persona». «Si manda per la prima volta un senatore in carcerazione preventiva senza che abbia assassinato nessuno. È il segno dei tempi». Sulla sua testa si è giocata una partita politica più ampia? Sorride amaro: «È evidente che è così». E prevede: «I distinguo continueranno, non mi sarà risparmiato nulla, ci vediamo a Natale». Poi, come per convincere se stesso, dice «chissà forse la Cassazione decide diversamente, forse esamineranno gli elementi che non hanno preso in considerazione finora. Credo nella giustizia, che ci sia un giudice a Roma, che qualcuno prima o poi leggerà le carte». E ancora lancia un avvertimento che assomiglia a una minaccia: «No che non ho detto tutto. Ci sono una marea di approfondimenti che potrei fare, sta ai giudici decidere se chiedermeli». Non intende patteggiare, lo ripete ancora e ancora. Poi: «Lasciatemi andare dove devo andare». Si avvia all’ascensore, su un corridoio che parte dal Transatlantico incrocia Anna Finocchiaro. La capogruppo pd fa per procedere. Lui la ferma, le stringe la mano, «Ciao presidente». «Ciao Luigi», si affretta lei. Gli avvocati lo guardano. Ancora una volta, non tradisce emozione. È quando in auto sale il fratello, visibilmente commosso, che ha un cedimento. Si riprende subito, però. Chiama casa, parla con la moglie, i figli, le nipoti. Rassicura. La valigia è nel portabagagli. L’aveva custodita il suo avvocato, Luca Petrucci, nella sua auto. Perché stamattina Lusi era pronto. Aveva salutato tutti, sapeva che non sarebbe rientrato a casa, neanche per salutare quella bambina che - ha ricordato in aula - «ha solo due anni». «Se l’aspettava, era tutto deciso, c’era un patto tra Quagliariello e Rutelli », dice il legale. Lui risponde agli sms: «Sarò coraggioso». E poi, quando l’auto prende la via del carcere: «Non posso passare da casa, devo già entrare. È terribile ». Volevano andare a cena, Lusi e il fratello, ma la Guardia di Finanza che li seguiva ha telefonato. Dietrofront, subito a Rebibbia. I suoi avvocati l’hanno chiesta al posto di Regina Coeli. Lusi domanda che gli si evitino i giornalisti. Entra dall’aula bunker: i telegiornali non avranno le immagini del senatore che va in prigione. «Ha chiesto solo questo», dice Petrucci. Alla fine, dopo aver atteso nell’anticamera l’arrivo dell’ordinanza, l’ex tesoriere consegna tutto: telefonino, ipad, effetti personali. Alle nove lo smart phone da cui non si è staccato neanche un istante non squilla più. Nella valigia che apre in cella non ci sono libri: solo le carte del processo.

La Stampa 21.6.12
Si comincia sempre dal tesoriere
Il primo a pagare nel Palazzo ridotto a cittadella assediata
Effetto-Grillo e “paura dei forconi”. Carra: paga per tutti, come Schettino
di Federico Geremicca


Da qualcuno bisognava cominciare. Magari ti puoi chiedere perché Lusi sì e Belsito no, per dire. Oppure perché no il Trota. Ma da qualcuno bisognava cominciare. E in faccende così, in genere, si comincia dai tesorieri. Anche Tangentopoli - iniziata per caso con Mario Chiesa, il «mariuolo» - si mostrò per quel che era grazie ai tesorieri: e Severino Citaristi, storico e mite custode delle casse Dc, settantadue avvisi di garanzia e un arresto (giusto nel giugno di 18 anni fa) ne divenne infatti il simbolo. Stavolta tocca a Luigi Lusi, un’infanzia da scout e una faccia da allegrone. Lusi è accusato di aver sottratto per “suo beneficio” oltre 22 milioni di euro dalla cassaforte della Margherita, nei dieci anni in cui ne è stato tesoriere. Ieri sera, qualche istante prima delle 20,30 - in una calura che ancora toglieva il fiato, e con la stessa grisaglia che aveva un’ora prima al Senato - Luigi Lusi è entrato nel carcere di Rebibbia. Aveva salutato moglie e figli prima di recarsi a Palazzo Madama: e per evitare tragedie a casa si è costituito, prendendo di sorpresa perfino gli inquirenti. Ha dovuto attendere un po’ che uomini della Guardia di Finanza arrivassero e gli notificassero l’ordinanza di custodia cautelare: poi gli hanno preso le impronte digitali, lo hanno fotografato di fronte e di profilo, e lo hanno condotto nella cella che gli era stata preparata.
Nell’aula del Senato, un paio di ore prima, aveva parlato senza lasciarsi mai andare alla retorica, a una frase pietosa o a cose del tipo “Ho un onore da difendere”. Quel che gli premeva difendere era la logica: com’è possibile che nessuno al vertice del mio partito sapesse niente, si accorgesse di niente, sospettasse di niente, tanto che ora tocca solo a me rispondere di tutto questo?
E difendeva la legittimità di un cattivo pensiero: mi hanno indagato a marzo per appropriazione indebita, ma per potermi arrestare ci hanno aggiunto a maggio - l’associazione a delinquere, vi pare normale tutto ciò? Poi, affinché buon intenditor intenda, un lungo richiamare «patti fiduciari disconosciuti», «comune assenso nella gestione dei flussi finanziari», «rapporti di fiducia ora messi in discussione»...
Non c’è stato niente da fare. E diciamo pure che ci vuole una discreta sfortuna a finire - inaspettatamente - nella parte di «agnello sacrificale». Tra i pochi a dire no all’arresto di Lusi (il Pdl ha pilatescamente deciso di non votare...) si sono infatti distinti i nomi dei senatori Sergio De Gregorio, Alberto Tedesco e Marcello Dell’Utri, che agnelli sacrificali non lo sono diventati per un pelo. Altri tempi, anche se alcuni casi sono recentissimi. Quello di Luigi Lusi, infatti, è senza alcun dubbio il primo arresto - se possiamo dir così - dell’«era Grillo». Ieri, al Senato, se ne mormorava nervosamente alla buvette. E qualcuno parlava addirittura di «effetto Grillo»: proprio come una ventina di anni fa si temeva quello di Di Pietro.
L’«effetto Grillo» sarebbe il punto di caduta, la trasformazione dallo stato gassoso a quello solido, di un discredito e di una sfiducia - nei confronti della politica quasi tout court - che vengono da molto lontano. Ora, però, quei sentimenti si sono trasformati in rabbia, hanno trovato un volto attraverso il quale rappresentarsi ed ogni difesa, ogni argine - nell’accerchiatissima cittadella politica - è ormai impossibile. «Se il Senato non vota per l’arresto, si rischia che la gente venga qui con i forconi», aveva avvisato Rutelli; «Dobbiamo evitare il linciaggio», aveva concordato qualcun altro. Ieri, a voto di condanna espresso, Enzo Carra - storico portavoce di Arnaldo Forlani, arrestato a sua volta, uno insomma che sa di che parla - ha tradotto il tutto in un’immagine spietata e melanconica: «Il Senato ha votato contro il suo Schettino: un uomo solo muoia perché tutti gli altri vivano».
Dunque, da qualcuno bisognava cominciare: e al Senato hanno deciso di cominciare da Luigi Lusi. Che naturalmente se lo merita per gli spaghettini al caviale, le ville, le case e le vacanze lussuose: tutte naturalmente a spese della Margherita - secondo le accuse - e cioè a spese nostre, o almeno di quelli che pagano le tasse. Il problema, per qualcuno, potrebbe consistere nel fatto che - dopo che hanno cominciato loro - adesso possa cominciare lui, Lusi: uno che avrà pure la faccia da allegrone ma non sembra disposto a portare la croce da solo, a trasformarsi - insomma - nel Primo Greganti del terzo millennio.
Già nell’aula del Senato (discorso dattiloscritto, quindi a lungo preparato) aveva fatto intendere che - Grillo o non Grillo - nessuno poteva giocare a fare Alice nel paese delle meraviglie: «Non si è mai visto un gruppo dirigente disconoscere ordinarie modalità gestionali». «E quante telefonate da Rutelli per sottrarre firme alla richiesta di voto segreto». «Qualcuno, in quest’aula, è in evidente conflitto d’interessi: e per correttezza dovrebbe non votare». Poi una obliqua citazione: «Come scrive il poeta, cos’è un ricordo? Niente, non puoi vederlo, non puoi toccarlo. Eppure, non puoi cancellarlo... ».
Ricorda qualcosa Luigi Lusi? E’ questo quel che gli viene chiesto fuori dall’aula, a sentenza ormai emessa. Ha detto ai magistrati tutto quel che sapeva? Prima di rispondere, si concede - fedele al personaggio - una battuta: «Sapete ora dove devo andare... Fatemi andare, altrimenti diranno che sto facendo altri otto viaggi alle Bahamas». Poi però risponde: «No, non ho detto tutto. Ci sono una marea di approfondimenti che, se i giudici vogliono, sono disposto a fare». Ognuno la può intendere come vuole. Il sospetto è che non pochi, però, la stiano intendendo assai male...

La Stampa 21.6.12
Pietra tombale sulla riforma della giustizia
di Marcello Sorgi


Per quanto scontato, il “sì” del Senato all’arresto del tesoriere della Margherita Lusi rappresenta la pietra tombale su qualsiasi speranza di trovare un compromesso sulla giustizia. Anzi, in qualche modo, è la diretta conseguenza del voto di fiducia con cui la legge anticorruzione è passata alla Camera. Anche a costo di scontare una pattuglia di dissidenti, Gasparri ha spiegato che il centrodestra non aveva alcuna intenzione di entrare in una resa dei conti interna al centrosinistra e per questo non avrebbe partecipato al voto.
Malgrado le evidenti responsabilità di Lusi, confermate dal vaglio di sette diversi magistrati e in qualche modo riconosciute anche dall’interessato, che le ha ammesse proprio per cercare fino all’ultimo di evitare il carcere, la vicenda dell’uso improprio del finanziamento pubblico da parte della Margherita - è evidente non si chiude qui, e il processo potrebbe riservare sorprese.
Il clima e i toni adoperati nel dibattito di ieri - complessivamente mediocri, a tratti minacciosi -, però non consentiranno a breve di riprendere il confronto sulla giustizia, già in forti difficoltà dopo il voto della scorsa settimana alla Camera. I due maggiori partiti della maggioranza sono infatti attestati su una serie di pregiudiziali contrapposte che non consentono in alcun modo di andare avanti: alla Camera il Pdl insiste per approvare rapidamente il testo sulle intercettazioni che il centrosinistra, in gran parte, ma anche il Fli, qualificano come “legge bavaglio”, e se approvata secondo i desiderata berlusconiani si risolverebbe in una drastica limitazione del diritto di cronaca.
Al Senato il Pd non è disponibile a fare concessioni all’ammorbidimento del testo dell’anticorruzione chiesto dal Pdl, che insiste anche su una formulazione della responsabilità civile dei magistrati inaccettabile per il centrosinistra. In queste condizioni, più che cercare una mediazione, la ministra Severino, per portare a casa le sue riforme, dovrebbe fare un miracolo.

Corriere 21.6.12
In Aula con l’incubo delle monetine del ‘93Quei riti per scacciare l'antipolitica
Stesso clima di vent'anni fa, il voto fermerà il «discredito»?
di Pierluigi Battista


C'è un'atmosfera di terrore in cui i toni contro Luigi Lusi, ex tesoriere di partito ora reietto, perché calamiti su di sé la «rabbia» dei cittadini e salvaguardi, almeno per un giorno, l'onore generale.
Stanno sulla difensiva, i politici in Senato. Solo che stavolta non scavano una trincea come hanno fatto in passato per erigere un muro tra se stessi e il resto del mondo. No, si mettono sulla difensiva mostrandosi paladini dell'anti-Casta. Non si arrendono, beninteso. Solo che fanno finta di passare per caso per il Palazzo e sacrificano un politico con la speranza di salvare tutto il resto. Uno spettacolo stupefacente. Rovesciano su Lusi sarcasmo e indignazione per trasmettere il messaggio: è lui il reprobo, noi detestiamo i privilegi della politica. Sembrano degli alieni, digiuni di politica, immacolati, pronti a stupirsi delle cifre di cui godono partiti ed ex partiti grazie al finanziamento pubblico di quegli stessi partiti ed ex partiti ribattezzato pudicamente «rimborsi elettorali».
Il presidente Follini fa il paragone tra quanti milioni ha maneggiato (illecitamente) Lusi e gli stipendi di operai e insegnanti: ha gioco facile lo stesso Lusi a chiedere lo stesso paragone tra gli stipendi di operai e insegnanti e l'ammontare complessivo, centinaia e centinaia di milioni di euro, dei finanziamenti statali dei partiti (formalmente leciti, anche se in violazione di un referendum popolare). Un senatore del Terzo polo si scandalizza perché Lusi a Venezia si è fatto venire a prendere nientemeno che da un motoscafo. Adesso, solo adesso deve aver scoperto lo sciupio di macchine blu, alberghi a cinque stelle, voli aerei in prima classe di cui i politici si trastullano da qualche decennio con ostentazione spesso pacchiana, comunque impudica. Ma si sa, c'è l'ondata dell'«antipolitica» da arginare (la «valanga del discredito», evocata con costernazione da Luigi Zanda), c'è la paura di essere travolti come nel biennio tra il '92 e il '93 a riempirli di sgomento: sacrificarne almeno uno per salvare il salvabile.
Perché la paura è alimentata dal ricordo che, allora, ben pochi si salvarono. Il voto che in Parlamento non diede il 29 aprile del '93 l'autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, evento analogo a quello vissuto ieri in Senato, fu solo l'acme di un uragano che aveva già demolito i pilastri della Prima Repubblica. Quel voto rischiò di far abortire il nuovo governo Ciampi con le dimissioni dei ministri del Pds e di Francesco Rutelli (l'eterno ritorno?). Alimentò la gogna del Raphael con il lancio di monetine che mimava il gesto del ghigliottinamento mediatico e della piazza scatenata prima ancora che giudiziario. Ma intanto un deputato leghista si era già munito di cappio da agitare contro i suoi colleghi, tutti i suoi colleghi, di destra e di sinistra, equiparati a un'accolita di ladri da mandare all'impiccagione. C'erano i missini capeggiati da Buontempo («Er Pecora») e da Gramazio («Er Pinguino») che fecero un circolo attorno al Parlamento e dai megafoni gridavano rauchi: «Arrendetevi, siete circondati». C'erano stati già due referendum elettorali che avevano rappresentato altrettanti plebisciti contro la classe politica. Erano i giorni, aprile del '93, in cui era scattata l'incriminazione per Giulio Andreotti a Palermo. Cadevano tutti i partiti del governo e dell'area di governo: anche Claudio Martelli che tentò tardivamente di smarcarsi dalla tutela di Craxi (già dimessosi da segretario del Psi); anche Giorgio La Malfa, che aveva lanciato la formula del «partito degli onesti». Quasi tutti vennero sommersi. Ci furono i «salvati», che pensavano di rifarsi una rispettabilità mettendosi al riparo dell'ombrello pidiessino, dato per sicuro vincitore nelle nuove elezioni. Mai scommessa fu meno prudente.
Oggi il clima assomiglia a quello di vent'anni fa. Le ondate di «discredito» sembrano altrettanto potenti. E nel Palazzo della politica molti sentono di essere arrivati a un tornante decisivo della loro vita. Mostrarsi cedevoli nei confronti della sorte personale di Lusi avrebbe significato un altro colpo micidiale alla stessa possibilità di una sopravvivenza (politica). Allora la modifica dell'articolo 68 della Costituzione, liquidata come un'intollerabile immunità per la politica, costituì il tentativo estremo per darsi un tono, per dire all'opinione pubblica dei cappi e delle ghigliottine che ogni peccato sarebbe stato emendato. Oggi ci si prostra davanti al mito del «fumus persecutionis», l'espressione più menzionata nei corridoi e nell'Aula del Senato. Tranne i senatori della Giunta, pochissimi hanno letto tutte intere le carte per stabilire se un loro collega dovesse essere sbattuto in galera senza l'ombra del terribile «fumus». Hanno votato (o non votato, come quelli del Pdl) a prescindere. Ordini di partito, più che voti di coscienza. Ultima spiaggia prima di rischiare l'affogamento dei profeti dell'«antipolitica». Che il voto sull'arresto di Lusi sia sufficiente, questa, come già accadde nel '93, è una scommessa molto imprudente.

Corriere 21.6.12
Gotti avverte: per ora non parlo
La linea della riservatezza, ma risponde ai pm su appalti e cliniche
di Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini


ROMA — Il messaggio forte e chiaro arriva qualche ora prima dell'interrogatorio di fronte ai magistrati di Napoli. Il banchiere Ettore Gotti Tedeschi lo affida all'agenzia Ansa e tanto basta a garantirgli che avrà la massima diffusione. «Per me - dichiara - non è ancora venuto il momento di parlare, perché penso al dolore che darei al Santo Padre verso il quale sta crescendo la mia devozione proprio perché so che sta soffrendo». Lo aveva già detto il 24 maggio scorso, poche ore dopo il suo licenziamento da presidente dello Ior. Lo ribadisce adesso, dopo aver preso la decisione di collaborare con gli inquirenti. E non è tutto, perché Gotti subito dopo aggiunge di essere «combattuto» tra l'ipotesi di prendere posizione in maniera più diretta e l'ipotesi di mantenere per ora il riserbo. Ma sostiene di aver scelto «per ora» questa seconda via in «coerenza con i presupposti con cui ho assunto il mandato allo Ior e con la linea seguita già in precedenza».
Da giorni il banchiere ripete agli amici di essere in attesa di incontrare Benedetto XVI. E le parole pronunciate ieri suonano inevitabilmente come una sorta di «pressione» affinché questo avvenga. Del resto anche una copia del suo memoriale era destinata al Pontefice e il fatto che in quelle carte vengano indicate tra i «nemici» anche persone ritenute vicine al Papa, sembra significare che Gotti - prima di effettuare nuove rivelazioni pubbliche - voglia ottenere una sorta di via libera. O comunque, ormai consapevole che la possibilità di incontrare Benedetto XVI sia piuttosto remota, avvisare gli avversari che lui conosce circostanze non ancora svelate. Quanto basta per rendere ulteriormente avvelenato il clima dentro e fuori la Santa Sede.
La scelta di Gotti di collaborare è stata ribadita ieri quando il pubblico ministero Stefano Rocco Fava, titolare dell'inchiesta romana coordinata dall'aggiunto Nello Rossi che ipotizza il reato di riciclaggio, è volato a Milano per acquisire tutti i documenti posti sotto sequestro dai colleghi partenopei, relativi alla gestione dello Ior. Nel pomeriggio il banchiere, nella veste di testimone, ha invece risposto alle domande dei magistrati napoletani Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio che indagano sugli appalti di Finmeccanica e sui finanziamenti ottenuti dalle aziende controllate, compresi quelli del Banco Santander di cui Gotti è stato presidente per l'Italia.
Fu da una perquisizione disposta dalla Procura di Napoli ed eseguita dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico il 5 giugno che gli inquirenti vennero in possesso del memoriale e di tutti gli altri documenti raccolti da Gotti Tedeschi. Materiale che ancora ieri mattina i pm hanno esaminato durante la riunione tenutasi a Milano che ha preceduto di qualche ora l'interrogatorio napoletano dell'ex presidente dello Ior. Stavolta, oltre agli investigatori napoletani e romani era presente anche il sostituto milanese Laura Pedio che ha preso in carico la documentazione relativa al San Raffaele, l'ospedale per il cui salvataggio il cardinale Tarcisio Bertone avrebbe voluto l'intervento dello Ior che però Gotti Tedeschi impedì.
Si apre quindi un terzo filone di indagine, mentre su quello già avviato dai pubblici ministeri napoletani - che intendono accertare se con i finanziamenti concessi dal Banco Santander alle aziende del gruppo Finmeccanica siano stati creati fondi neri da utilizzare per il pagamento di tangenti per commesse all'estero - potrebbe innestarsene ancora un altro che si incrocerebbe con l'inchiesta sull'ex tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito. Dalle deposizioni di Gotti Tedeschi i pm napoletani potrebbero cercare di ottenere elementi utili all'ipotesi che Stefano Bonet, imprenditore indagato insieme con Belsito, abbia pagato tangenti per ottenere dal Vaticano l'appalto per il monitoraggio oltre centomila strutture sanitarie sparse per il mondo appartenenti alla Santa Sede.

il Fatto 21.6.12
Gotti Tedeschi interrogato dai pm di Napoli


Indagato in procedimento connesso. Anzi no, semplice testimone. La ridda di indiscrezioni sullo status di Ettore Gotti Tedeschi, l’ex presidente dello Ior ‘dimissionato’ il 24 maggio, si è conclusa solo in serata, al termine di circa tre ore di interrogatorio a Napoli. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock e la loro collega della Procura di Milano Maria Laura Tedio hanno voluto ascoltarlo nell’ambito dell’inchiesta su Finmeccanica e sull'ospedale "San Raffaele" di Milano, che lo Ior avrebbe rilevato se, come afferma Gotti Tedeschi, non ci fosse stata la sua opposizione, uno dei motivi – dice – delle sue vicissitudini. Nel frattempo nulla è stato acquisito dai 47 faldoni del suo ufficio di Milano, esaminati da due pm, uno di Napoli e uno della Procura di Roma che indaga su Ior e riciclaggio. In mattinata il banchiere del Vaticano aveva dichiarato di voler mantenere la linea del riserbo: “Per me non é ancora venuto il momento di parlare, perché penso al dolore che darei al Santo Padre”.

La Stampa 21.6.12
Gotti, ora i pm indagano anche sul San Raffaele
Nell’appartamento di Milano erano state trovate carte sull’ospedale
di Guido Ruotolo


Tre ore di domande e di risposte. L’unica certezza è che il professore Ettore Gotti Tedeschi per Napoli era e resta una persona informata dei fatti. Insomma, non è indagato. Per il momento.
Anche se in realtà l’ex presidente dello Ior, prima di essere sentito a Napoli dai magistrati in una dichiarazione all’Ansa, ha inviato un messaggio molto esplicito al Vaticano: «Per me non è ancora venuto il momento di parlare, perchè penso al dolore che darei al Santo Padre verso il quale sta crescendo la mia devozione proprio perché so che sta soffrendo». Però, sottolinea il professore, «sono molto combattuto tra il mantenere il riserbo e il prendere posizione ufficialmente».
Chi deve intendere, ha capito perfettamente la richiesta di «trattare» le condizioni del silenzio lanciate da Gotti Tedeschi. Ufficialmente, i pm napoletani Piscitelli e Woodcock dovevano risentire l’ex presidente della banca vaticana, dopo l’interrogatorio di Milano (5 e 6 giugno), sempre nell’ambito dell’inchiesta sul riciclaggio e la corruzione internazionale che coinvolge Finmeccanica. Gotti Tedeschi è amico dell’ad di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, indagato da Napoli per le mazzette indiane.
Ma nelle carte sequestrate nella perquisizione nell’abitazione e negli uffici del Banco di Santander a Milano, a Gotti Tedeschi è stato sequestrato diverso materiale. E ieri, a Napoli, all’interrogatorio era presente anche un pm milanese, poiché nella perquisizione sono state trovate «carte» che riguardavano il San Raffaele.
Il filone Finmeccanica è parte della inchiesta nata da Valter Lavitola, il faccendiere ex editore dell’Avanti, e si concentra, in questa fase, sulla vendita degli elicotteri all’India. Sarebbero girate mazzette per 10 milioni di euro. Una parte di questi soldi sarebbero finiti alla Lega in cambio della sponsorizzazione dell’ad di Agusta Westland Orsi alla direzione di Finmeccanica. I pm napoletani si sono imbattuti anche in un capitolo «appalti» in Vaticano, indagando su alcuni faccendieri in combutta con l’ex cassiere della Lega, Francesco Belsito. E non si può escludere che questo filone della inchiesta porti proprio allo Ior.

il Fatto 21.6.12
Friburgo, il fantasma di Martin Lutero Preti in rivolta contro il Papa
di Marco Politi


I preti tedeschi si ribellano al Vaticano. Duecento preti e diaconi della diocesi di Friburgo hanno firmato un appello su Internet, sostenendo la legittimità della comunione ai divorziati risposati. Il luogo è simbolico. La diocesi di Friburgo è retta dall’arcivescovo Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale tedesca. È come se a Genova, sede del cardinale Bagnasco presidente della Cei, duecento sacerdoti comunicassero ufficialmente di dare regolarmente l’ostia ai fedeli in secondo matrimonio.
A Friburgo i duecento contestatori dichiarano che verso i divorziati risposati bisogna usare “misericordia” e non nascondono la loro scelta: “Nelle nostre comunità i divorziati risposati prendono parte alla comunione con il nostro consenso. Sono presenti nel consiglio parrocchiale e partecipano ad altri servizi pastorali”. È una contestazione frontale delle istruzioni vaticane, ma soprattutto una rivolta contro l’inazione del pontefice che da anni – già da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede – si occupava della questione e non ha mai preso una decisione per superare un divieto, che colpisce dolorosamente proprio i fedeli più assidui.
A FRIBURGO il vicario generale della diocesi ha tentato di persuadere il clero a non firmare o a ritirare il consenso. Soltanto due dei firmatari lo hanno ascoltato. In realtà dietro l’appello c’è una galassia di preti in tutta la Germania, ma anche in tante parti del mondo. Italia compresa, dove molti parroci non infieriscono contro i divorziati risposati negando loro l’eucaristia.
Stephan Wahl, uno dei preti più noti in Germania per avere predicato il vangelo alla televisione per dodici anni nella popolare trasmissione “La parola della domenica” (Wort am Sonntag), ha commentato in maniera pregnante: “Come cattolico e come sacerdote mi è insopportabile che, secondo l’attuale normativa (ecclesiastica), è più facile che un sacerdote colpevole di abusi possa distribuire il sacramento (dell’eucaristia) piuttosto che un divorziato riceverlo”. I preti contestatori tedeschi rimarcano di essere ben consapevoli di “agire contro le norme canoniche attualmente in vigore nella Chiesa cattolica romana”, ma sostengono che in base all’attuale Codice di diritto canonico il principio supremo, a cui orientarsi, è la “salvezza delle anime”. Perciò ribadiscono: “Consideriamo urgentemente necessaria una nuova normativa canonica per i divorziati risposati”.
LO STESSO Ratzinger, da teologo, era del parere che di fronte ad un primo matrimonio “spezzatosi da lungo tempo e in maniera irreparabile”, e alla luce di una seconda unione rivelatasi negli anni un’autentica “realtà etica”, fosse giusto – su testimonianza del parroco e della comunità – “concedere la comunione a coloro che vivono un simile secondo matrimonio”. Correva l’anno 1972, quando Ratzinger difendeva tesi del genere.
Da allora il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI hanno battuto ossessivamente sul tasto dell’indissolubilità del matrimonio, rifiutando qualsiasi soluzione. Benché – come ha fatto notare lo scrittore cattolico Messori durante le giornate della famiglia a Milano, benedette dal Papa – il cattolicesimo sia l’unica tra le confessioni cristiane e le religioni mondiali a negare la possibilità del divorzio. Di una presunta “legge naturale”, in proposito, è inutile parlare.
Il presidente dell’episcopato tedesco Zollitsch, sebbene attaccato a sua volta dai preti tradizionalisti riuniti nella “Rete dei sacerdoti cattolici”, ha deciso dopo qualche esitazione di ricevere una delegazione dei contestatori. Dovrebbe accadere oggi.
Un atteggiamento molto diverso da quello del cardinale Scola, il quale – come riferito dall’agenzia Adista – ha impedito nel gennaio scorso al consiglio presbiterale milanese di mettere all’ordine del giorno anche la mera analisi e discussione del tema “divorziati risposati e accesso ai sacramenti”.
Dopo un netto intervento contrario del cardinale la proposta avanzata dai sacerdoti Aristide Fumagalli e Giovanni Giavini ha ottenuto 7 sì, 13 no e 27 astensioni (segno evidente di come tanti preti attendano un cenno dall’alto per parlare finalmente liberamente).
IL CASO di Friburgo è solo la punta dell’iceberg dell’insoddisfazione per lo stallo totale di ogni riforma. Si sono già mobilitati i preti austriaci con l’“Iniziativa dei parroci”. Chiedono la riforma della Chiesa, la fine del cumulo di parrocchie affidate a un solo parroco, l’accesso al sacerdozio di sposati e donne.

La Stampa 21.6.12
Si è aperta in Brasile la conferenza mondiale sull’ambiente
Alleanza al vertice di Rio fra islamici e Vaticano
Nell’accordo finale via il paragrafo sul controllo delle nascite
di Roberto Giovannini


Rachel Harris, qui a Rio per la Ong americana Women Environment and Development Organization, ci ride su, anche se amaramente: «Potremmo definirlo il nuovo Axis of Evil - dice - l’Asse del Male contro le donne». Sì, perché la bizzarra alleanza tra il Vaticano e uno stato canaglissima come la Siria del presidente Assad dal documento finale della Conferenza Rio +20 ha stravolto il testo già concordato. Battendo la linea indicata da giganti politici come Usa, Europa, Canada e Australia. Ed epurando il paragrafo 244, che parlava dei diritti riproduttivi delle donne e di pianificazione familiare.
Intendiamoci: il blitz, effettuato alle due della notte di lunedì scorso da questa alleanza monoteista tra Santa Sede e paesi arabi e islamici ha un valore politico. Il testo finale di Rio +20 difficilmente produrrà effetti concreti per l’ambiente. Purtroppo, il testo sottoposto ai Capi di Stato e di governo in queste ore appare infarcito di giri di parole e termini vaghi, un lungo elenco di ottime promesse senza impegni concreti od obiettivi effettivi. Lo ha riconosciuto persino il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon: «Personalmente ha ammesso - mi aspettavo un documento finale più ambizioso».
Fatto sta che neanche principi tutto sommato scontati - come il diritto delle donne alla salute sessuale e riproduttiva, il diritto all’accesso a mezzi sicuri e poco costosi per la pianificazione familiare - sono riusciti a scampare alla mannaia vaticano-islamica. Grande regista del blitz notturno il 44enne reverendo Philip J. Bene, da St. Louis, Missouri, dal 2007 membro della delegazione della Santa Sede presso l’Onu. Il Vaticano è solo osservatore, non può votare: ma dopo aver stretto l’accordo con il Egitto, Siria e altri paesi islamici, il reverendo Bene è riuscito a spaccare il G77, il gruppo dei paesi in via di sviluppo, portando dalla sua parte il Cile e tutti gli stati centro-americani. Poi ha gettato lo scompiglio nella delegazione dell’Unione Europea, conquistando la cattolicissima Polonia. Risultato, «bonifica» del punto 244 e via ogni riferimento ai diritti riproduttivi delle donne. Vedremo che ne diranno i leader: a un loro intervento è affidata la (piccola) speranza che questa assise non sia ricordata come Rio meno 20.

Corriere 21.6.12
Alì Agca: «Emanuela è viva, sta bene È stata rapita per farmi liberare»
di Fabrizio Peronaci


ROMA — L'attentatore di papa Giovanni Paolo II, Mehmet Alì Agca, è un uomo solitario e attento alla scrittura. Meno alle virgole. In questa intervista, la prima dopo la sua scarcerazione nel 2010, chiede «di non toccare contenuto e senso linguistico», errori compresi. Invita a «correggere solo la punteggiatura». Poi, tra una mail e l'altra, si fa vivo con una telefonata. La voce è quella di sempre: lenta, ispirata. «Europa sotto la guida di Santa Chiesa cattolica - proclama - è la civiltà migliore! Se fallisce, muore democrazia mondiale!» Dalla sua casa vicino Istanbul, a 29 anni esatti dal sequestro Orlandi, Agca risponde a (quasi) tutte le domande.
Signor Agca, come si sente?
«Io sto bene, grazie a Dio. Trascorro le mie giornate studiando il Vangelo. Ho intrapreso una nuova vita».
In Italia si è tornati a parlare molto del caso Orlandi. Vuole, in coscienza, fornire elementi utili?
«Io, giurando davanti a Dio, dichiaro che Emanuela Orlandi è viva».
Ha indizi, un documento?
«Fornire una prova significa danneggiare il buon esito. Emanuela sta in Turchia, ma naturalmente non nelle mie mani ed io non conosco indirizzo esatto. Posso aiutare per la sua liberazione se governo vaticano ed italiano ascolteranno la mia voce».
I mandanti - lei disse al fratello Pietro nel vostro incontro a Istanbul due anni e mezzo fa - furono il Vaticano, la Cia e il Sismi. Conferma?
«Nel passato ho mentito molte volte per motivi diversi, ma ora devo dire solo verità: nessun Paese, nessuna istituzione e nessun servizio segreto occidentale è coinvolto nel rapimento».
I sequestratori volevano la sua scarcerazione o fu un depistaggio?
«Emanuela Orlandi fu rapita soltanto per ottenere la mia liberazione. Tutte le altre ipotesi e speculazioni sono state inventate da personaggi malati, mitomani, paranoici».
Pochi giorni dopo la scomparsa, lei ritrattò le accuse ai bulgari di complicità nell'attentato. Perché?
«Non è il tempo migliore per rispondere a questa domanda».
Perché ha detto a Pietro Orlandi di parlare con il cardinal Re?
«Per avere un colloquio, un contatto diretto con il governo vaticano. Il cardinale Re non ha voluto incontrarmi, perché il Vaticano teme di essere sospettato e calunniato da una certa stampa anticlericale, il che avviene puntualmente nel caso di don Vergari innocente, che avrebbe aiutato il peccatore Renato De Pedis a convertirsi».
La vedo informato, più o meno.
«Da sette anni in Italia si parla della banda della Magliana. Si aspettava di scoprire qualcosa dalla tomba di De Pedis, ma era una menzogna assoluta».
L'inchiesta è aperta.
«Sono pronto ad incontrare i magistrati, solo nel territorio italiano».
E la pista di Boston, dove scoppiò lo scandalo dei preti pedofili?
«Famiglia Orlandi sarà illusa-delusa con queste favole inutili. Ogni altra teoria di motivi sessuali o Banca Ambrosiana-Ior è menzogna».
Lei promette sempre.
«Io garantisco che tornerà a casa. Emanuela sta bene, non ha subito violenza infame. Viene trattata umanamente: rimane cattolica e prega ogni giorno. Spero che il cardinale Bertone possa occuparsi del caso, per portarla da Turchia in Italia. Il Papa Ratzinger non sa nulla e il documento del portavoce Lombardi esprime la verità».
Però due anni fa, parlando da una tv turca, fu lei ad accusare il Vaticano di essere stato il mandante dell'attentato di piazza San Pietro.
«Nell'intervista a Trt io ho mentito, ho fatto una ingiustizia gravissima contro il cardinal Casaroli. Poi ho fatto un profondo esame di coscienza: il Vaticano è innocente sia nell'attentato sia nel rapimento. Ma allora quale governo li ha ordinati? Io, Ali Agca, dico che non è il tempo per rivelarlo».
Conferma di voler venire in Italia, sulla tomba di Wojtyla?
«Ho immenso desiderio di baciare la tomba del grande Papa Giovanni Paolo II, mio fratello spirituale. In questo cambiamento fu determinante l'incontro celeste nel mio sogno del 13 maggio 2012, dove il Papa mi ha chiesto di convertirmi e per questo io devo smettere di perseguitare il Vaticano innocente».
E intanto Emanuela non torna.
«Sarà liberata più presto se il governo italiano farà un terzo di quello che ha fatto per i due marò in India».
Signor Agca, basta menzogne.
«Dio sa che ho detto la verità».

l’Unità 21.6.12
La verità su Borsellino passa dall’inchiesta sulla trattativa
Le intercettazioni di Mancino, che chiede aiuto a D’Ambrosio
La commissione Antimafia: più persone cercarono contatti con Cosa Nostra
di C. Fus.


Che ci sia stata una trattativa tra Stato e Cosa Nostra tra il 1992 e il 1994 è un dato ormai acquisito anche agli atti della commissione Antimafia d’inchiesta presieduta dal senatore Giuseppe Pisanu. Gli uffici di San Macuto hanno lavorato in silenzio ma intensamente, spesso con sedute notturne, e quasi in parallelo con l’indagine penale di Palermo. Ci sono stati proficui scambi di atti. E le testimonianze di Conso, Martelli, Ferraro, Di Maggio sulla revoca del carcere duro a circa 300 mafiosi tra il 1993 e il 1994 sono state a San Macuto non meno drammatiche di quelle rese in aula ai pm durante il processo Mori.
Il punto non è se c’è stata la trattativa nata dal tentativo di fermare lo stragismo corleonese cominciato con l’omicidio Lima (12 marzo 1992) e proseguito con il tritolo di Capaci (23 maggio 1992). Ma quante sono state. E condotte da chi, su mandato di chi, con chi, in quale fase? Soprattutto, se è vero che lo Stato, ancora a guida Dc, in quella prima metà del 1992 già massacrato dalle inchieste di Mani Pulite, decide un sorta di «arretramento tattico» in nome della ragion di Stato, perché a fine luglio quei boss con cui lo Stato stava trattando uccidono Paolo Borsellino? E quindi, via D’Amelio fu una strage di mafia o ebbe anche un’altra matrice? Un’ipotesi, questa seconda, che si fa largo nella nuova indagine su quella strage dopo i clamorosi depistaggi andati avanti fino al 2009.
In questa, che è al momento, in prossimità del ventennale, la vera prospettiva da chiarire, si inseriscono le telefonate di questi mesi tra Mancino e il Quirinale. Con una persona che l’ex ministro dell’Interno conosce bene, lo stimatissimo magistrato Loris D’Ambrosio, approdato al Colle con Ciampi, protagonista di tante battaglie in difesa dell’autonomia dei magistrati e della giurisdizione. Uno che, come ricordava ieri un noto parlamentare azzurro della prima ora, «a noi ha complicato parecchio la vita».
Prima di approdare al Quirinale nel 1999, D’Ambrosio è stato a lungo un uomo chiave del ministero della Giustizia. Anche con Giovanni Falcone. Non solo: dopo la strage di Capaci, nel 1992, fu proprio D’Ambrosio a scrivere il dettato dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che istituiva il massimo isolamento, il cosiddetto carcere duro, per i mafiosi, il primo punto delle richieste dei boss per far tacere il tritolo.
D’Ambrosio dunque era attore e protagonista di quegli anni in cui tra Viminale, via Arenula sede del ministero della Giustizia, e vertici di polizia e carabinieri lo Stato decideva «l’arretramento tattico» per far tacere le armi di Cosa Nostra. La prima cosa che Palermo dovrà chiarire è se Mancino, spaventato e sconvolto per essere coinvolto in questa faccenda della trattativa, chiama D’Ambrosio in quanto custode come lui di qualche segreto di quegli anni. Oppure se Mancino, fino a pochi mesi prima numero due del Csm, è convinto ancora di poter esercitare poteri di controllo e coordinamento delle toghe. E per questo chiama il Quirinale che del Csm è il titolare.
Dal tono delle telefonate («Sono rimasto un uomo solo e quest’uomo solo va protetto» dice Mancino a D’Ambrosio il 6 dicembre 2011 dopo essere stato audito in procura a Palermo) si può ipotizzare che Mancino cerchi la comprensione e la protezione di chi sa. Di chi c’era allora, nel 1992. Molti di quei protagonisti sono morti: l’ex presidente Scalfaro, Antonio Gava, il superpoliziotto La Barbera che avviò le indagini su via D’Amelio lungo una strada che poi si è rivelata sbagliata. «Ai pm non ho detto niente di Gava» dice Mancino alla moglie il 6 dicembre 2011. «Ho evitato il coinvolgimento di Scalfaro» dice sempre Mancino a D’Ambrosio chiedondogli l’intervento di Napolitano sui magistrati che indagano sulla trattativa.

il Fatto 21.6.12
Telefonate di Stato
Nei brogliacci dell’inchiesta due conversazioni tra Mancino e Napolitano: saranno distrutte
di Marco Lillo e Giuseppe Lo Bianco


Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli... tant’è che il presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli... eh, indipendentemente dal processo, diciamo”. L’interlocutore di Nicola Mancino è il consigliere giuridico del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio ma il suggeritore è – a dire dello stesso D’Ambrosio – Giorgio Napolitano che consiglierebbe un incontro tra i due testimoni che avevano fornito versioni contrastanti. Il tema è rovente perché investe il futuro giudiziario dell’ex presidente del Senato: “Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello (Martelli, ndr) ha detto la verità, perchè a questo punto chi processano? Non lo so”.
L’EX PRESIDENTE del Senato è in fibrillazione, è un’escalation di angoscia, e Mancino è consapevole della scivolosità della strada indicata dal Quirinale: “Non è che posso parlare io con Martelli, che fa... ”. Effettivamente non è bello per un testimone sul ciglio dell’incriminazione contattare un altro teste che lo smentisce per appianare le divergenze. E questo lo capisce anche Mancino. A parlare con l’ex guardasigilli, dunque, devono essere altri. È qui, in questa conversazione a mezze frasi tra Mancino e D’Ambrosio che le manovre per condizionare l’inchiesta sulla trattativa investono Napolitano. Sono millanterie di D’Ambrosio? Un dato è certo: il consigliere del presidente è rimasto al suo posto anche dopo la pubblicazione di questo stralcio di colloquio sul Fatto di ieri. Non solo: Napolitano avrebbe parlato direttamente con Nicola Mancino, almeno a leggere l’anticipazione di Panora  ma.it   che segnala la preoccupazione e l’irritazione dello staff del Colle per la possibilità che nei brogliacci della Procura non ancora depositati vi siano anche conversazioni che vedono il presidente della Repubblica alla cornetta. E non appaiono preoccupazioni infondate. Al Fatto risulta che tra le decine di telefonate intercettate, in almeno due casi la squadra di pg nella sala ascolto della procura di Palermo avrebbe trascritto in brogliacci, coperti dal segreto, la voce del capo dello Stato a colloquio con l’ex vice presidente del Csm. Il contenuto è ovviamente segreto, non verrà trascritto e finirà probabilmente distrutto senza mai arrivare agli atti del processo. In quelle telefonate con la voce del capo dello Stato ci potrebbe essere la conferma del suo diretto interessamento per calmare le angosce di Mancino, avviando di fatto le manovre di interferenza nell’indagine di Palermo. Sul punto, lo stesso D’Ambrosio appare abbastanza chiaro, nel suo colloquio con Mancino del 5 aprile, commentando la lettera inviata il giorno prima dal Quirinale al pg della Cassazione: “Però adesso lei lo sa, quando uscirà quello che noi, quello che il presidente auspica, tra l’altro il presidente l’ha letta prima di mandarla, eh non è una cosa solo di Marra”. E Mancino replica: “Comunque, dovendogli fare gli auguri per telefono non dirò niente, non accennerò... ”. Ma D’Ambrosio lo rassicura: “No, lei può dire che ha saputo della lettera che le è stata mandata, è stato informato che la lettera è stata mandata al procuratore generale. Poi ha saputo che era ai fini di un coordinamento investigativo, lei lo può dire parlando in-formalmente con il presidente, perché no? ”. “E va bene... ”, insiste, forse poco convinto, l’ex presidente del Senato. Ma D’Ambrosio, lapidario: “Non c’è niente, lui sa tutto. E che, non lo sa. L’ha detto lui, io voglio che la lettera venga inviata, ma anche con la mia condivisione”.
PER MANCINO, il confronto con Martelli è la preoccupazione. Il tema è la questione dei Ros e dei loro contatti informali con Ciancimino: Martelli sostiene di averlo informato, Mancino nega. E nella telefonata del 12 marzo si sfoga con D’Ambrosio: “Lui dice, vedi un poco che quelli fanno attività non autorizzate, io non mi ricordo che lui me l’ha detto, ma escludo che me l’abbia potuto dire. Tuttavia, ammesso che me lo ha detto, perchè se lui sapeva di attività illecite non lo ha detto alla Procura della Repubblica, lui che era guardasigilli? ”. Lo sfogo si fa pesante: “Ma che razza di Paese è, se non tratta con le Brigate rosse fa morire uno statista. Tratta con la mafia e fa morire vittime innocenti. Non so... io anche da questo punto di vista... o tuteliamo lo Stato oppure tanto se qualcuno ha fatto qualcosa poteva anche dire mai io debbo avere tutte le garanzie, anche per quanto riguarda la rilevanza statuale delle cose che sto facendo”.
Mancino teme di pagare da solo un prezzo giudiziario troppo alto, nella telefonata del 12 marzo pressa D’Ambrosio: “Sto parlando dello Stato italiano, non è possibile che ognuno va per conto suo. Lei veda un po’ se Grasso ritiene di ascoltare anche me, sia pure in maniera riservatissima, che nessuno ne sappia niente... ”. E nella telefonata del 3 aprile, subito dopo che il pm ha chiesto il confronto in aula con Martelli, l’angoscia di Mancino raggiunge il suo punto più alto, il senatore risollecita a D’Ambrosio la lettera al pg della Cassazione: “Veda un poco, la cosa è terribile”. Ma D’Ambrosio si muove su input del presidente? Il 5 marzo, quando Mancino si scusa alla fine della telefonata dicendo: “Mi scusi, io tormento lei”. D’Ambrosio replica: “No, no si immagini. Poi il presidente me ne aveva parlato, quindi... ”.

il Fatto 21.6.12
Macaluso “ventriloquo del Colle”


La telefonata è del 29 gennaio 2012, alle 17.04, due generali dei carabinieri, Mario Mori e Ma-rio Redditi, parlano al telefono della presentazione romana del libro Ad alto rischio, scritto da Mori con il giornalista Giovanni Fasanella. “Macaluso è il più grande amico del presidente Napolitano’’, dice Redditi, con Mori che replica “sì lo so’’. E Redditi: “...con il quale ha condiviso il suo intervento, quindi quando il personaggio dice se quelli si gonfiano perché l’ingiusto ecc. ecc. come dire è un po’ il ventriloquo di altri… non so se mi sto spiegando...”. “Si, ma questo lo avevo intuito... questa è la conferma per... l’avevo intuito, poi magari a voce parliamo...’’, chiosa Mori. I due interlocutori, secondo la ricostruzione della Procura, si riferiscono alle parole dure pronunciate da Emanuele Macaluso, ex senatore del Pci, vicino a Napolitano, nei confronti della procura di Palermo durante la presentazione di quel libro. “Ho stima del generale Mori e considero il processo che c’è in atto a Palermo una cosa molto grave – ha detto Macaluso - perchè quest’accanimento? La Procura di Palermo... dentro c’è stato di tutto… (mai dire: la procura di Palermo. Quale pezzo della Procura di Palermo?) si è sempre divisa. L’accanimento perché? Credo che c’è qualcosa di più”. Ma non solo. Nel suo intervento Macaluso ricostruisce un pezzo dei rapporti mafia-politica condividendo i dubbi di Andreotti sulle responsabilità di Ciancimino: “Ritengo che la mente politica del gruppo dei corleonesi è stato sempre Ciancimino – sostiene l’ex senatore comunista – quando fu ucciso Mattarella e poi quando fu ucciso La Torre, il giudice Chinnici mi venne a interrogare. Allora ero al Senato, venne Chinnici per chiedermi cosa pensavo di questa cosa qui. E io dissi senza esitazione: il mandante è Ciancimino. E secondo me, gli omicidi politici, da Reina, Mattarella, La Torre… sono operazioni fatte dai corleonesi, ma la mente, il suggeritore è stato Ciancimino. Era una mente diabolica, una mente contorta’’. E qui parte una bacchettata a Mori, che proprio a Ciancimino si era rivolto avviando la trattativa: “L’operazione che ha fatto Mori... forse c’è stata una certa ingenuità nel pensare di ottenere delle cose da Ciancimino, e perché? Pensare di poter ottenere uno come Ciancimino non credo sia stata un’operazione”. g.l.b. e s.r.

La Stampa 21.6.12
L’ex ministro telefonò al procuratore capo “Ma lui non fa niente”
E su Messineo oggi a Palermo l’assemblea chiesta dai giudici
di Riccardo Arena


PALERMO Indagato Il senatore Nicola Mancino ha ricevuto dai magistrati di Palermo un avviso di garanzia per false informazioni ai pm
Un abilissimo attore o un uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Capace di mentire alla perfezione quando parla di trattativa Stato-mafia, di cui dice di non sapere niente. Terrorizzato ma determinato, invece, quando si tratta di cercare un aiuto al Quirinale, per evitare di finire nelle maglie dell’inchiesta palermitana. Nelle intercettazioni agli atti dell’indagine del pool coordinato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, Nicola Mancino, l’ex ministro dell’Interno, indagato con l’ipotesi di falsa testimonianza, si definisce alternativamente «tormentato, in continua tensione, vittima di quei signori». Che poi sarebbero i carabinieri del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, i principali inquisiti di questa brutta storia.
Stando a quanto emerge dagli atti è il suo interlocutore privilegiato al Colle, il consigliere giuridico del presidente Napolitano, Loris D’Ambrosio, che gli spiega la trattativa. O almeno così pare. Perché magari Mancino fa finta di non sapere. L’accordo tra mafia e pezzi dello Stato nel periodo cruciale delle stragi del ’92-’93 diventa comunque a sua volta oggetto di un’altra trattativa, i cui tempi sono scanditi dalle paure, dal terrore di Mancino di essere coinvolto. Cosa vuole, l’ex senatore? Togliere l’indagine ai pm di Palermo? No, perché ha paura pure di questo: «L’avocazione – dice a D’Ambrosio il 22 dicembre scorso – sarebbe un fatto grave, figuriamoci che terremoto succederebbe, no…». Qualche mese dopo, il 5 aprile, lo stesso concetto è ribadito anche da D’Ambrosio: «È una gran cretinata, l’avocazione. Piero Grasso, il procuratore nazionale antimafia, deve pensare per prima cosa al coordinamento». Ma è lo spauracchio del clamore, che mantiene il preoccupatissimo Mancino su una linea di basso profilo, in pubblico: in privato telefona continuamente a D’Ambrosio, esprime plauso al procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, che chiede le carte ai pm, ma non va a trovarlo per paura «di qualche giornalista che c’è là»; critica Grasso, che a suo modo di vedere non interviene: pure da lui vorrebbe andare, ma non lo fa, sempre per paura. Chiama invece più volte il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Che «non fa niente». E lui si tormenta ancora di più.
Prima dell’audizione in aula, al processo Mori, del 24 febbraio scorso, quella che gli costerà l’incriminazione per falsa testimonianza, un suo collaboratore gli preannuncia quali saranno le domande della difesa del generale: «Ma bisogna stare attenti – risponde lui – alla collusione col nemico. Perché io personalmente ritengo che io sono stato vittima di quei signori». Ancora loro: Mori e De Donno. Altri sfoghi. «Uno che cosa deve dire, deve dire quello che dice Martelli. Ma Martelli non è fonte di verità. La mia preoccupazione è che nel confronto con Martelli ritengano che lui abbia ragione e io torto e mi carico di implicazione sul piano processuale… Martelli dice una sciocchezza e io sono tormentato». È il 12 marzo. D’Ambrosio gli risponde: «Io comunque riparlerò con Grasso, perché il presidente (Napolitano, ndr) mi ha detto di risentirlo. Però io non lo so… francamente lui è ancora orientato a non fare niente, questa è la verità». «Questi – replica l’ex ministro – hanno trattato per conto loro, diciamo, di loro iniziativa. Come in effetti io ritengo, ma non lo posso provare».
La linea concordata col Quirinale sarà quella di scrivere una lettera, poi girata dal Colle alla Procura generale della Cassazione, per invocare il coordinamento. Grasso risponderà negativamente. D’Ambrosio fonda l’iniziativa su un ragionamento giuridico: «Io su Ciancimino ho Caltanissetta che ne dice peste e corna e per quell’altro (a Palermo, ndr) è un’icona dell’antimafia. Mettiamoci d’accordo, no? ».
Sono in fondo gli stessi motivi per cui il procuratore Messineo, tanto criticato dall’indagato per la sua presunta inerzia, suscita dubbi anche tra i suoi colleghi. Che hanno ottenuto che l’assemblea dell’ufficio, prevista per oggi, sia dedicata alla trattativa, alla circolazione delle notizie che non c’è stata tra i sostituti procuratori, all’impossibilità di «riflettere insieme sulle fonti di prova» utilizzate, da Massimo Ciancimino a Giovanni Brusca. «Non puoi scegliere una fonte che in uno stesso ufficio viene ritenuta inattendibile da alcuni pm e fondamentale da altri». E soprattutto vogliono sapere perché Messineo non ha firmato l’avviso di conclusione delle indagini. Sarà che per la forma non era tenuto a farlo, dicono, «ma deve spiegarcelo in riunione».

Corriere 21.6.12
l'Illecito che non c'è e la Storia da Scrivere
di Michele Ainis


La presunta trattativa del 1992 fra Stato e mafia sta spargendo altri veleni sulla democrazia italiana, come se non ne avessimo già in circolo abbastanza. Offusca la credibilità delle istituzioni: passate, presenti, future. Dopo la pubblicazione delle telefonate fra Mancino e D'Ambrosio, chiama in causa perfino il Quirinale. Infine rimbalza come una palla di biliardo fra la cronaca e la storia, fra il tribunale dell'opinione pubblica e quello di Palermo.
Insomma è diventato urgente distinguere i ruoli di ciascuno, restituire un ordine agli eventi. Ma per riuscirvi è necessario innanzitutto tenere separati i due piani su cui corre la vicenda: quello giuridico e quello, per così dire, etico-politico.
Primo: c'è qualcosa d'illecito nel chiedere un coordinamento delle inchieste giudiziarie, quando tre distinte procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo) sono al lavoro sulle stesse notizie di reato? Perché è questa l'accusa che viene rivolta, sotto sotto, a Napolitano: di aver cercato di interferire con le indagini, e di averlo fatto per favorire un indagato, benché all'epoca Mancino fosse soltanto un testimone. Ma nella ormai celebre lettera del 4 aprile scorso - inviata dal Segretario generale del Quirinale al Procuratore generale della Cassazione - non c'era nient'altro che questo, un richiamo all'esigenza di coordinare le investigazioni in corso. Esigenza peraltro sancita da due testi di legge (i decreti legislativi n. 106 del 2006 e n. 159 del 2011), che ne rendono per l'appunto responsabile il Procuratore generale della Cassazione. E che in via generale Napolitano aveva già pubblicamente segnalato a più riprese al Csm: il suo primo intervento risale infatti al giugno 2009, ben prima che esplodesse questo caso. Mentre a sua volta Grasso, capo della Direzione nazionale antimafia, già nell'aprile 2011 ha impartito direttive ai procuratori interessati. Una prova in più che il problema è ormai da tempo sul tappeto, e non dipende dai pruriti di Mancino.
D'altronde si tratta di una massima di comportamento perfino banale: se la mano destra non sa che cosa stia facendo la sinistra, finiranno per intralciarsi a vicenda. Vale per la magistratura, vale per ogni altro potere. Tanto che la Consulta ha versato fiumi di inchiostro sul principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. Ora, di tale principio proprio il Presidente della Repubblica è l'interprete supremo. Per il suo ruolo di cerniera fra tutti gli altri organi costituzionali, che resterebbero altrimenti sordi l'uno all'altro. Perché la Carta del 1947 assegna al Presidente il compito di riaccendere il motore delle istituzioni, quando il motore è in panne, quando gira a vuoto; anche sciogliendo il Parlamento, in casi estremi. E perché infine il Capo dello Stato è al contempo il più alto giudice italiano: non a caso presiede il Csm, l'organo di autogoverno della magistratura. Da parte sua nessuna interferenza, quindi. Semmai un richiamo, e una vigilanza, doverosi. Esercitati, inoltre, in modo trasparente, attraverso una lettera ufficiale che trasmetteva in copia la lettera spedita a Napolitano da Mancino, suo vecchio vicepresidente proprio al Csm.
Insomma, una bolla di sapone. E nessun illecito: perfino Antonio Ingroia, protagonista dell'inchiesta giudiziaria, ha affermato che la procura di Palermo non ha mai subito pressioni. Mentre ieri, sul quotidiano l'Unità, si è spinto addirittura a scrivere che trattare con la mafia non costituisce di per sé un reato. Aggiungendo che la trattativa Stato-mafia riempie una pagina di storia, che è interesse di tutti gli italiani leggere da cima a fondo. Sia detto allora con il massimo rispetto per questo magistrato: lasciamolo agli storici, il lavoro di ricostruzione storica. La magistratura si occupi piuttosto dei reati. E ai cittadini il giudizio sulle responsabilità politiche e morali, quando ci sono.

Repubblica 21.6.12
Scalfari: irresponsabili gli attacchi a Napolitano c’è chi prende di mira lui per far cadere Monti


ROMA — «Sul caso Mancino, Napolitano ha fatto nient’altro che esercitare i suoi poteri e doveri. Non è la prima volta, il presidente si è mosso ogni volta che si sono verificati casi analoghi, per far sì che la magistratura andasse correttamente e compattamente in una direzione». Così, commenta il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari in un intervento pubblicato su RSera. «Il segretario generale di Napolitano ha scritto una lettera al procuratore della Cassazione e gli ha detto che è opportuno che lui eserciti i suoi poteri per coordinare, per far sì che ci sia un’inchiesta e non inchieste parallele o dissensi all’interno degli uffici giudiziari». Scalfari stigmatizza la posizione di Antonio Di Pietro: «I suoi attacchi al Quirinale non possono essere tollerati dal suo possibile alleato di centrosinistra Pd, quindi è arrivato il momento che il Pd dica che l’atteggiamento di Di Pietro è incompatibile. Qui si tenta di indebolire il Quirinale, non per queste ragioni pretestuose, ma per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti». Conclude Scalfari: «Questo è il chiodo fisso di questa gente, che è legittimo quando non attaccano indebitamente le magistrature, è legittimo ma è politicamente inaccettabile per altre forze politiche responsabili. Questi sono degli irresponsabili ».

il Fatto 21.6.12
Svastica sul Partenone
Un partito nazista in un parlamento d’Europa può essere l’inizio di un nuovo pericoloso contagio
di Furio Colombo


Tre volte il nazismo ha attraversato il mondo. La prima volta ha avuto il volto della feroce distruzione di Adolf Hitler. Fino alla sconfitta rovinosa e al suicidio, ma dopo 50 milioni di morti. La seconda volta è stata quasi solo immaginazione, cinema, libri, disegni, evocazioni per esorcizzare l’incubo, che è passato molto lentamente, di quando in quando parodiato da bravate e gesti di violenza insensata, nuclei di sottocultura malavitosa che possono avere eseguito qualche ordine balordo, ma senza mai alcun diritto di rappresentanza e di parola.
La terza volta è adesso, in Grecia. In un momento disperato nella vita di quel Paese, in pochi mesi nasce, si espande, si rafforza, in due diverse elezioni, un partito nazista, Alba dorata, che raggiunge adesso il 6 per cento e la presenza in Parlamento non benché nazista ma perché nazista. Fino ad ora il periodico ritorno del nazismo per bande si è verificato in un modo caricaturale e parodistico (anche quando il tratto parodistico era inconsapevole) e molto al di sotto dell’ammissione in ogni livello di dialogo e contatto, sempre fuori dalla politica. Questa volta, in Grecia, i tratti tragici di ciò che sta accadendo sono due: il primo è la costituzione di un partito che è nazista in modo aperto, rigoroso, ortodosso, dai segnali alle idee; il secondo è che una parte dell’elettorato lo segue.
PER UNA NASCITA improvvisa e con un’immagine aperta e dichiarata, il 6 per cento non è poco. È come se la mafia diventasse apertamente un partito politico nel Sud italiano e cominciasse a ricevere – con il suo nome e la sua storia – un rispettabile pacchetto di voti, e il diritto di intervenire, con il suo volto e i suoi ideali, nel discorso politico. L’esperienza ci dice che un simile, rapidissimo esordio, non porta a una scomparsa altrettanto rapida, perché un fatto fino a poco fa impossibile, si è improvvisamente materializzato e compiuto attraverso il rapporto con una base sommersa che ha potuto finalmente esprimersi, a cui si aggiunge certamente un segmento di nuova conversione. Conversione a che cosa? Alla totale eliminazione della libertà di tutti, dei diritti di tutti e della eguaglianza di tutti che, sotto il travestimento anarcoide della democrazia, sono visti da alcuni come la causa di tutto il male che si è rovesciato sulla Grecia. Ci si potrebbe soffermare sulla triste ma anche doppia ironia della Storia. La Germania colpisce la Grecia due volte, prima con la guerra, la distruzione, la deportazione, la morte (1940-’45). Poi con un puntiglioso assedio economico che rasenta il sadismo, fondato, non si sa con quanta esattezza, su presunti conti falsi del governo greco, che merita gravissime punizioni a carico di ogni cittadino (2000-2012) senza alcuna attenuante o rateizzazione.
Mi rendo conto che l’improvvisa fuga verso il nazismo di una non trascurabile minoranza greca, potrebbe essere paragonata al suicidio che si è moltiplicato in Italia come estrema protesta contro Equitalia. Però lo spostamento verso il nazismo scarica la vendetta su altri cittadini, su altre persone, del tutto al di fuori della sequenza crisi economica-atti di governo europeo e nazionale-sacrifici imposti.
Per due ragioni: il nazismo è dominio di presunte élite sugli altri esseri umani; il nazismo è razzismo e troverà subito le sue vittime, cominciando dalle masse di migranti che cercano di attraversare la Grecia, in cerca di salvezza in Europa. Si potrebbe dire che difficilmente si può essere peggiori dell’Europa (singoli Stati e Unione) in materia di immigrazione. Opacità e indifferenza, quando non crudeltà burocratica, sembrano le leggi vigenti nel-l’Europa di cui stiamo parlando, certo nel Sud Europa. Basta il numero di morti in mare e di morti nella prigioni libiche e nel deserto (a causa dei “respingimenti”) per dimostrarlo. Ma il nazismo è crudeltà come fede, sadismo come valore, oppressione come ideale, persecuzione come stile di vita. Questa volta non è cinema, non è imitazione, non è sottocultura da naziskin.
QUESTA VOTA centinaia di migliaia di liberi cittadini, forse disorientati dal tormento della crisi economica e delle sue conseguenze, hanno votato un partito che ha distrutto l’Europa poco più di mezzo secolo fa, un partito che è sempre stato vietato in ogni Paese europeo, dentro e fuori dall’Unione, un partito che non può non proporsi come volontà e come programma, altra distruzione .
Torna il nazismo e torna in divisa, ovvero con tutti i suoi rituali, le sue parole d’ordine in chiaro, le sue mortuarie ossessioni. Il momento è così difficile che lo fa apparire desiderabile a un gruppo che non basta definire “di folli”. Rappresenta piuttosto un contagio già cominciato.
La domanda, per i greci e per gli europei è quale rapporto abbia un simile evento con il clima e la vita create dalla crisi e dalle sue “cure”. E se, dove si ferma.

La Stampa 21.6.12
Un rapporto del Dipartimento di Stato
Gli Usa: nel mondo 27 milioni di schiavi
Salvate dallo sfruttamento poco più di 42 mila persone nel 2011, la maggior parte in Europa
di Maurizio Molinari


Amina è una giovane del Bangladesh che accettò l’offerta di fare la domestica in Libano finendo in una casa dove venne violentata, torturata e ridotta alla fame per tre mesi prima di piegarsi ai voleri dei carcerieri accettando di diventarne schiava. In un mondo con oltre sette miliardi di abitanti ve ne sono 27 milioni che vivono in schiavitù ma nel 2011 ne sono stati liberati appena 42.291. E Amina è fra questi.
La fotografia del Pianeta contenuta nel rapporto sul «Traffico degli esseri umani» redatto dal Dipartimento di Stato e firmato da Hillary Clinton precipita in una dimensione dei rapporti internazionali pressoché inedita. Le regioni geopolitiche sono ritagliate sulla forza delle reti del traffico di uomini, donne e bambini: dai confini dell’Afghanistan a quelli della Cina e dell’Indonesia si estende il mercato più grande con 11,7 milioni di vittime, seguito dall’Africa con 3,7 milioni, l’America centro-meridionale con 1,8 milioni, la Russia con 1,6 milioni e l’area transatlantica Usa-Europa occidentale con 1,5 milioni mentre l’Australia è l’unica a poter vantare l’assenza di luoghi dove i trafficanti hanno totale potere sui sottomessi.
A fronte di questo sterminato giacimento di vite che alimenta il crimine organizzato vi sono i singoli individui che le polizie nazionali, giorno dopo giorno, riescono a liberare. Il rapporto riconosce la difficoltà di quest’opera, evidenziata da numeri esigui e da una gerarchia geografica rovesciata perché il numero maggiore di liberazioni di schiavi si registra nell’area transatlantica, che invece è ultima per quantità di sottomessi. In Europa le vittime identificate nell’ultimo anno sono state 10.185 e nell’Emisfero Occidentale 9014 ma dove gli schiavi sono di più le liberazioni sono di meno: in Estremo Oriente 8454, in Africa 8900 e nel mondo arabo-musulmano appena 1831. I numeri di condanne di trafficanti in queste regioni sono altrettanto esigui, basti pensare che in tutto il Maghreb-Medio Oriente sono state solo 60.
I dati in arrivo da ogni capitale vengono analizzati da una task force che classifica le vittime per categorie: c’è chi è schiavizzato per fini sessuali, anche se minore, per i lavori forzati, manodopera infantile, formazione di reparti di bambini-soldati o per essere trattato da dipendente domestici senza diritti. Se combattere contro tale fenomeno è una missione in salita, Hillary identifica «dieci eroi» che sono di esempio per il contributo che danno e fra loro c’è un’italiana: Maria Grazia Giammarinaro che dal 2010 è la coordinatrice della lotta al traffico di esseri umani dell’Osce e si è recata in 16 nazioni per invocare l’adozione di misure più severe. La conclusione del rapporto dell’amministrazione Obama è infatti che se la piaga della schiavitù non ha confini; in Occidente esistono almeno delle leggi per combatterla mentre all’estremo opposto vi sono 16 nazioni che «non rispettano gli standard minimi di lotta al traffico e non stanno facendo sforzi significativi per raggiungerli». Ecco quali sono: Algeria, Libia, Siria, Iran, Arabia Saudita, Yemen, Sudan, Eritrea, Repubblica Centrafricana, Congo, Zimbabwe, Madagascar, Nord Corea, Nuova Papua Guinea e Cuba. C’è poi un secondo gruppo di 32 nazioni «sotto osservazione» perché «non danno informazioni» e registrano «numeri alti di vittime», limitandosi a promettere «azioni future» per ridurle: fra loro spiccano Cina e Russia.

Repubblica 21.6.12
Contrordine compagni, c’è lo smog “Cinesi ora tornate alla bicicletta”
di Giampaolo Visetti


Nel Paese del Dragone a causa del boom del mercato delle auto traffico e inquinamento stanno avvelenando la vita delle città Il governo corre ai ripari e lancia un piano per incentivare l’uso delle due ruote, simbolo dell’era di Mao. Partendo da Pechino

I cinesi, per non soffocare nel traffico, risalgono in sella. Ai tempi di Mao erano l’icona mondiale della massa a pedali. Su una bicicletta saliva tutta la famiglia e ogni compagno rosso era tenuto a possedere solo due tesori: la tessera del partito e le due ruote. Pechino, negli anni Cinquanta, stabilì un imbattibile primato: circolavano più biciclette che abitanti. Negli ultimi vent’anni, con il boom economico, l’addio ai cicli e la conversione all’automobile. Ed ancora un record. La Cina si è trasformata nel primo mercato auto del pianeta: oltre un milione di vetture vendute ogni mese, domanda superiore all’offerta, multinazionali dei motori in fuga verso l’Oriente e lotterie in diretta tivù per l’assegnazione delle targhe. Una motorizzazione senza precedenti, incentivata dalle autorità impegnate nella più colossale migrazione interna della storia.
Anche la “metropolizzazione” di Stato però, con cinque città-mostro di oltre 90 milioni di abitanti entro il 2020, mostra la corda. Aria definita «inadatta alla vita umana», guerra sui dati dello smog, ingorghi lunghi centinaia di chilometri e insolubili per mesi, mercati alimentari ambulanti di servizio ai pendolari in colonna. L’allarme suona così pure nei sondaggi pilotati dalla propaganda: per la nuova classe media della Cina, più numerosa della popolazione europea, traffico e inquinamento sono il primo problema, dopo la corruzione dei funzionari. Dunque, contrordine compagni: anche il Dragone si tinge di verde, ferma le auto e riscopre le care, vecchie e gloriose biciclette.
Il ritorno al futuro delle due ruote cinesi ancora una volta parte da Pechino. Il governo ha appena inaugurato i primi 63 punti-noleggio dotati di 2 mila biciclette nei quartieri centrali di Chaoyang e di Dongcheng. Altri 140 affitti pubblici, con 48 mezzi, sono stati sparsi nel resto della capitale. Entro il 2015 si arriverà a 150 mila cicli di Stato distribuiti in 1000 punti della città e serviti
dalla più estesa rete di piste ciclabili del mondo. Per la seconda economia globale è una svolta: automobili a numero chiuso, targhe alterne e biciclette gratis
omaggiate dal partito. Se fino a ieri salire in macchina era la cifra del successo nazionale, oggi diventa snob parcheggiare la berlina tedesca sotto casa e pedalare
fino all’ufficio protetti dalla mascherina anti-piombo. Prima ora di sella in regalo, le successive a prezzi popolari: dieci centesimi all’ora, per un massimo di
un euro a giornata. Un solo dovere: esibire un documento, o il permesso di soggiorno, e restituire la bicicletta in uno dei centri aperti dal governo. Frenare
l’invasione dei volanti e convincere i cinesi a reimbracciare il manubrio, è del resto una drammatica
necessità.
In dieci anni la superficie occupata dalle quattro ruote in Cina è cresciuta 680 volte più rapidamente di quella coperta dalle strade. A Pechino e a Shanghai i tempi di percorrenza dello stesso tragitto, nelle ore di punta, si sono allungati fino a 12 volte: per un percorso da dieci minuti occorrono due ore. Il risultato, secondo l’allarme dell’Accademia delle scienze, è il 52% dei cinesi, ormai urbanizzati, sull’orlo di una crisi di nervi e sempre più contrari ai privilegi di leader e funzionari. La riscossa delle biciclette pubbliche, dalla capitale, dilaga così nelle principali città e nei distretti industriali, dove i colossi di Stato cominciano a offrire agli operai l’abbonamento alla metropolitana e una bici di servizio al posto dell’aumento in busta paga. Resta, insuperabile, il problema dei numeri: montagne di automobili che invadono ogni spazio, cancellano le piste ciclabili e causano la più alta concentrazione di incidenti mortali nei Paesi in via di sviluppo. «Prima delle Olimpiadi del 2008 – dice Bay Xiuying, gestore del più grande noleggio bici di Pechino – il governo varò il primo piano di riciclizzazione popolare. In pochi mesi sparirono 60 mila biciclette e gli incentivi economici si riorientarono sulle quattro ruote. Oggi tutto è cambiato: se non si ferma lo smog e non si rimette la gente in movimento, l’urbanizzazione della Cina fallisce. I pedali diventano l’assicurazione sulla vita del potere».
Non l’unica però. Il sogno proibito dei metropolitani è sì la bici, ma elettrica: in quattro anni si è passati da 90 e 160 milioni di cicli a motore, 200 milioni entro il 2015, più 35% all’anno. È l’esercito dei nuovi eco-cinesi a rischio- infarto, terrorizzati da smog e sovrappeso, ma obbligati alla puntualità sul lavoro. Salute e denaro: i «principi rossi» eredi di Mao spingono il popolo in sella, ma scoprono che non pedala più. Nemmeno una nostalgia a emissioni zero può salvare Pechino dal virus di un autoritarismo capitalista di successo.

Corriere 21.6.12
Con l'uguaglianza, riecco la sinistra
Il fallimento dei liberali rafforza i valori antichi della solidarietà
di Aquilino Morelle


Uno sguardo sulla crisi europea. Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi dell'intervento di Aquilino Morelle, in conversazione con Gloria Origgi, che appare sul numero in uscita oggi della rivista «MicroMega». Il fascicolo contiene anche una lettera aperta del direttore Paolo Flores d'Arcais a Beppe Grillo e vari contributi sulla situazione politica in Italia, in Francia e in Grecia. Tra gli autori: Barbara Spinelli, Vladimiro Giacché, Pierre Rosanvallon, Alain Touraine, Angelo d'Orsi.

Benché sia evidente che siamo in una crisi profonda di modelli della società, non sono d'accordo con l'equivalenza che si sente troppo spesso di questi tempi tra crisi della socialdemocrazia e del neoliberalismo. Sono decenni che si parla dell'esaurimento del modello socialdemocratico. Ora, le analisi sulla crisi della socialdemocrazia possono essere vere, ma sono vecchie: siamo in un'epoca completamente diversa.
Il tema veramente importante, che si discute da una decina d'anni, e non da quaranta come la crisi della socialdemocrazia, è quello della violenza da un lato, e del fallimento dall'altro del sistema neoliberale. È questo il dibattito oggi nuovo: tutto il periodo in cui il capitalismo aveva imparato a «comporre», a negoziare una società capace di controbilanciare Stato e mercato, a dare un ruolo alle forze sociali, ai sindacati, tutto questo è crollato. Il capitalismo keynesiano è scomparso, annegato negli ultimi dieci anni da un modello di società capitalista basato sulla violenza sociale.
La sinistra si è paralizzata davanti all'aggressività di questo nuovo capitalismo totale, ammutolendosi e rifugiandosi nell'idea che non si poteva fare diversamente, che eravamo davanti a una sorta di «necessità» storica. Non so quante volte abbiamo sentito in questi anni discorsi del tipo: «Le leggi del mercato ci sfuggono completamente, dunque non le possiamo controllare». Oppure: «La globalizzazione è un processo inarrestabile, come i processi fisici». Tutto ciò è falso.
Il sistema liberale è fondamentalmente basato sulla disuguaglianza: e non solo nei fatti. È un sistema che ha cercato di legittimare la disuguaglianza come valore, che era anche uno slogan pubblicitario a un certo punto: «Perché io valgo!». Se guadagno miliardi è perché li valgo, e quelli che faticano ad arrivare a 1.500 euro al mese, avrebbero potuto essere più furbi, o lavorare di più, e sarebbero arrivati al mio stesso successo.
È questa la morale che sottende i rapporti sociali oggi. E questa non è meritocrazia, perché la meritocrazia è un valore profondamente repubblicano in Francia; la scuola della Repubblica che dà chance uguali a tutti e premia il merito ne è l'esempio più evidente. Questa è la legge del più forte. Durante questi anni è stato normale pensare che la società dovesse funzionare in questo modo. Fino a quando semplicemente il sistema è crollato.
Per lungo tempo, prima che crollasse, quelli che lo denunciavano, come ho fatto io, erano considerati degli «arcaici», dei passatisti che cercavano di attaccarsi a valori sociali ormai improponibili. I moderati ci dicevano: «Avete perso il treno della storia!». Poi sono cominciati i segni precursori inquietanti della crisi: l'avanzare dell'estrema destra populista in tutta Europa, la perdita di contatto della sinistra con le classi popolari. C'era qualcosa che non andava più.
E poi, infine, il crac del 2008, e l'evidenza mondiale che il liberalismo, con tutte le sue caratteristiche così vantate per decenni, la sua razionalità, la sua capacità di anticipazione, la mano invisibile, la capacità di autocorrezione, è un disastro. Il sistema era semplicemente un sistema predatorio, di captazione della ricchezza da parte di un'oligarchia e, oltre ad essere ingiusto, ci siamo resi tutti conto che era ed è un sistema totalmente instabile. È un sistema che porta il mondo al precipizio. Quel che succede oggi è che anche le menti liberali più convinte sono obbligate a concedere che il sistema non funziona più e ad accettare che si nazionalizzino banche, che si indebitino Stati fino sopra ai capelli per salvare l'economia dalla catastrofe.
Per questo oggi ritorna possibile vincere dicendo cose molto semplici. Quali? Beh, che l'obiettivo da sempre della sinistra, quello che definisce la sinistra in quanto tale, è la ricerca, benché mai totalmente realizzata, dell'uguaglianza. Se rinunciamo a questo, rinunciamo alla sinistra. Ora, negli ultimi trent'anni, la sinistra aveva rinunciato all'uguaglianza. Aveva accettato, come una forma di autocensura, che l'uguaglianza era un orizzonte non solo sfuggente, difficile da raggiungere, ma non era più l'orizzonte che si voleva e si doveva raggiungere. Una rinuncia che ha preso diverse forme, da John Rawls, con le sue «disuguaglianze accettabili», al progetto della Terza via di Anthony Giddens, tutte idee molto sottili, ma che in fondo sotterravano la sinistra.
Quel che abbiamo proposto è di tenere sotto controllo il sistema finanziario e reintrodurre l'uguaglianza come valore. La sinistra per anni si è persa. Era talmente impressionata dal suo avversario da non avere più il coraggio di assumere i propri valori. E, peggio, alcuni socialisti hanno fatto il gioco degli avversari. Chi ha liberalizzato la finanza internazionale, che ha fatto uscire la belva dalla gabbia, non sono stati dei pensatori estremisti liberali, ma dei socialisti francesi, come Pascal Lamy, direttore generale dell'Organizzazione mondiale del commercio, o Jacques Delors, che hanno convinto l'Fmi, l'Ocse, gli Stati Uniti, e la comunità internazionale che bisognava liberalizzare gli scambi e il sistema finanziario.
Bisogna ritrovare una comunità di uguali, in cui i valori e i modi di vita di chi ha il potere, e di chi è rappresentato da questo potere, tornino a somigliarsi. Quando c'è gente che guadagna due, tre, quattro milioni di euro all'anno, che rapporto volete che abbia con la gente? Siete in un altro mondo simbolico, e reale. Non vivete negli stessi posti, non mangiate le stesse cose, non vedete la stessa gente. Queste differenze vanno semplicemente ridotte. Allora, contenere i salari delle persone al potere e aumentare l'imposizione fiscale per le grandi ricchezze fino al 75 per cento andava detto, e ora va fatto. La sinistra in Francia, come in Europa, deve riprendere il senso della responsabilità delle decisioni politiche. La finanza è una scusa per deresponsabilizzare la classe politica. Un'Europa della finanza non è credibile agli occhi dei cittadini. Se si vuole rilanciare l'Europa, bisogna rilanciare un'industria europea, una ricerca europea, una cultura europea. Non far saltare tutto in aria in nome del libero mercato.
La maggior parte della gente nasce, cresce e muore nello stesso posto. Perché dovrebbe accettare di pagare un prezzo per una mobilità che non la riguarda? Può accettare di pagare un prezzo se l'Europa non è solo un terrificante libero mercato che spiazza la vita della gente, ma uno spazio di valori e di prodotti condivisi, uno spazio di crescita comune, industriale, scientifica e culturale. Se non vogliamo che i cittadini si facciano incantare dal populismo, bisogna che la sinistra dica queste cose chiaramente: non accettiamo l'Europa dell'austerity in nome della contabilità. Non siamo antieuropeisti, ma vogliamo un'altra Europa.
Il liberalismo è il disordine europeo mondiale. Quello che proponiamo noi è rimettere in ordine, stabilire nuove regole. Il disordine non è altro che la legge del più forte.
Bisogna essere capaci di organizzare le cose. Keynes non era certo un rivoluzionario. Ma aveva un'idea di una società ordinata. Mi piace anche citare quello che diceva sulla mondializzazione: «Le idee, le persone e le opere d'arte devono circolare liberamente. Ma bisogna produrre e consumare localmente».

Repubblica 21.6.12
Il segreto di Roosvelt
di Guido Crainz


Il presidente ebbe l’intuizione che doveva rivolgersi direttamente alla popolazione. I discorsi “al caminetto” trasmessi via radio riuscirono a risollevare il paese restituendogli la fiducia che aveva perduto

Quando Franklin Delano Roosevelt viene eletto Presidente degli Stati Uniti, nel novembre del 1932 – e ancor più quando si insedia alla Casa Bianca, nel marzo successivo – gli effetti devastanti della “grande crisi” del 1929 sono giunti all’estremo. In America, con il crollo della produzione e degli investimenti e la polverizzazione dei titoli azionari, con migliaia di fallimenti bancari e con tredici milioni di disoccupati (effetto anche delle scelte – tradizionali e del tutto inadeguate – del presidente uscente Edgar Hoover). E in Europa, dove lo scenario è reso ancora più cupo dall’ascesa del nazismo in Germania.
Roosevelt diventa dunque presidente in condizioni catastrofiche: «se c’è qualcosa da temere è la paura stessa », dice subito al Paese. E dà il segnale di una drastica inversione di tendenza con i primi “cento giorni”: così densi di provvedimenti, scrisse André Maurois, da «richiamare la narrazione biblica della creazione». Vi erano sullo sfondo le teorie economiche di John Maynard Keynes: «se Lei fallisse – scriveva a Roosevelt l’economista inglese – la scelta ragionevole risulterà gravemente pregiudicata in tutto il mondo». La “scelta ragionevole” aveva al centro una qualità nuova dell’intervento dello stato in economia e l’uso della spesa pubblica in funzione “anticiclica”:
volto cioè a superare il ciclo economico sfavorevole rilanciando la domanda interna e il reciproco sostenersi di salari, consumi e profitti. Aveva al centro al tempo stesso l’avvio del welfare state, con l’introduzione della previdenza sociale. E con l’idea-forza che lo Stato non debba lasciare solo nessuno di fronte ai drammi del vivere. Di qui alcuni momenti centrali del New Deal rooseveltiano: l’assunzione nei corpi forestali di mezzo milione di giovani poveri; un intervento straordinario nella Valle del Tennessee che univa sistemazione idraulica dei terreni, sfruttamento delle risorse idroelettriche e sostegno agli agricoltori; il National Industry Recovery Act, che difendeva salari e libertà sindacali, e così via. Assieme a interventi sulle banche e sulla Borsa, misure fiscali progressive, garanzie ai piccoli risparmiatori e ai proprietari di casa minacciati dal pignoramento. Assieme alla scelta di far leva su un elemento decisivo: «con il miracoloso sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa – scriveva l’American Institute for Public Opinion fondato allora da George Gallup – per la prima volta nella storia ci dobbiamo confrontare con l’opinione pubblica come elemento determinante». La capacità di far leva su di essa per far rinascere la speranza fu uno dei punti di forza del New Deal, grazie anche alla scelta di Roosevelt di rivolgersi direttamente agli americani riducendo drasticamente la distanza fra la politica e il Paese: con quei toni e con quella capacità di dare risposte alle inquietudini che rendevano così efficaci i suoi colloqui radiofonici con la nazione, i “discorsi al caminetto”. E con il sostegno della parte più vitale della cultura americana, dal cinema alla letteratura. Così Roosevelt superò l’opposizione conservatrice dei potentati economici e della Corte Suprema, che annullò alcuni provvedimenti importanti, ed ottenne conferme elettorali eloquenti: e oggi giudichiamo il New Deal non solo per i suoi risultati nel breve periodo (decisivi, anche se non “miracolosi”) o per la sua proiezione nel futuro (che avrebbe cambiato sia l’economia che la politica) ma anche per la sua capacità di risollevare e trasformare un Paese restituendogli la fiducia in se stesso.

Repubblica 21.6.12
L’idea sbagliata dei tagli al bilancio
Così rinasce il lavoro
di Luciano Gallino


Di fronte a un’emergenza che si riassume in quattro milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza antisismica degli edifici.
Gli interventi finora previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali caratteristiche. Dal lato della spesa si pensa ancora una volta a grandi opere, che richiedono anni prima di vedere assunto un solo lavoratore, e in ogni caso ne occupano assai pochi in rapporto al capitale fisso impiegato. Dal lato degli incentivi fiscali, tipo i 10.000 euro di sgravi promessi alle imprese per ogni giovane che assumono, si tratta di vetusti incentivi a pioggia: invece di piantare un albero qui e ora, si irrora un campo sterminato sperando che in futuro spunti non si sa dove qualcosa di simile a un albero.
Inoltre il governo ha peggiorato la situazione dell’occupazione, sia nel settore pubblico che nel privato, con i tagli ai bilanci che ha eseguito o sta predisponendo. Sembra predominare in esso, per non parlare dei commentatori che ogni giorno lo spronano in questo senso, l’idea che ogni forma di spesa pubblica sia un costo da contenere il più possibile. È un’idea iper-liberale, che i conservatori americani riassumono nella battuta “bisogna far morire di fame la bestia”, cioè lo stato. Fermo restando che ogni genere di spreco nella PA va combattuto, bisognerebbe recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che entrano nel circuito dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi in domanda e occupazione. Per cui i tagli alla spesa pubblica sono in ultimo efficaci contributi alla crescita non del Pil, bensì della disoccupazione.
A fronte del predominio di questa idea nel governo e nei partiti che lo sostengono, ripetere che lo stato dovrebbe finalmente decidersi a operare come datore di lavoro di ultima istanza – come chi scrive prova a dire da tempo muovendo proprio dalle realizzazioni del New Deal rooseveltiano – sembra davvero una causa persa. Con un piccolo segno in controtendenza. Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato che il suo ministero intende avviare entro il 2012 le procedure per l’assunzione di 25.000 insegnanti, metà per concorso e il resto attingendo dalle graduatorie dei precari della scuola. Non è esattamente il New Deal, quando con il programma Federal Emergency Relief Act fu ridato un lavoro a 100.000 insegnanti disoccupati e al tempo stesso furono aiutati nel proseguire gli studi 2 milioni di studenti delle scuole superiori e dell’università. Ma è quanto meno un segno che in un settore vitale come l’istruzione, dove la spesa pubblica è assolutamente insostituibile, pena l’esclusione da esso di milioni di giovani, l’idea di tagliarla ancora perché i costi della macchina statale vanno sempre e comunque ridotti, è stata riposta nel cassetto. Dove si può sperare sia raggiunta presto da altre idee controproduttive intorno allo stesso tema.
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Occorre recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli acquisti di beni e servizi sono tutti soldi che entrano nel circuito dell’economia e si trasformano in domanda e occupazione

Repubblica 21.6.12
Todorov
Come applichiamo, oggi, le nostre categorie estetiche. E quali sono? Ecco le idee del critico che vive in Francia
Quando l’arte diventa performance il bello è nel legame con gli altri
di Franco Marcoaldi


Per questa mia breve ricognizione attorno al concetto di “bellezza”, mi è venuto del tutto naturale scegliere come primo interlocutore Tzvetan Todorov. Non soltanto perché è uno degli intellettuali più originali della scena europea, ma anche perché è autore di un libro, Les Aventuriers de l’absolu, che l’editore italiano Garzanti ha provvidenzialmente intitolato La bellezza salverà il mondo, prendendo a prestito l’affermazione contenuta ne L’idiota di Dostoevskij. L’appuntamento era fissato in un bar della deliziosa Place de la Contrescarpe di Parigi, alle spalle del Pantheon. Deliziosa sì, però mi preoccupava l’idea di conversare in mezzo a tanta confusione. Ma il mio ospite, che ha trasformato la gentilezza in una vera e propria postura esistenziale, ha già pensato a tutto: alle spalle del bar c’è un cortiletto silenzioso e deserto, solo per noi. «Come tutti i concetti generali, anche quello di bellezza non si presta a una definizione puramente teorica, perché riposa su una reazione condivisa intuitivamente. Può aiutarci forse un breve inquadramento storico: la vera, grande mutazione avviene nel secolo XVIII, quando poco per volta si afferma un’idea di bellezza autosufficiente, che trova il suo fine in se stessa senza bisogno di ulteriori giustificazioni. Platone parlava di bene assoluto, sant’Agostino di un Dio che non contempla alcun fine al di fuori di sé, perché è lui stesso il fine ultimo. E ora questa rivoluzione finisce per mettere il bello al posto del bene assoluto, addirittura di Dio. L’arte così prende progressivamente il posto della religione e attraverso l’esperienza estetica l’uomo cerca un contatto con la dimensione trascendente. È l’idea romantica, che permea tutto il XIX secolo e lo stesso XX. Ma una volta entrati nel nuovo millennio, le cose non risultano più tanto chiare». Anche perché la parola bellezza sembra essere stata estromessa proprio dal suo ambito più naturale: quello artistico. Chissà, forse oggi va cercata altrove. «Questo è il punto. Mentre lungo tutta la modernità bellezza e arte sono andate a braccetto, nel postmoderno lo scenario cambia radicalmente. Non si parla neppure più di arte: si preferisce utilizzare termini come performance, gesto, azione. Naturalmente non è da escludere che si sia finiti su un binario morto, e che presto o tardi si imboccherà tutt’altra strada. Magari un bel giorno le opere raccolte oggi a Palazzo Grassi con grandissimo clamore conosceranno un rapidissimo tramonto. Verrà qualcuno a dirci che il re è nudo». Jean Clair sostiene che nell’arte contemporanea non contano più né il “vedere” né il “pensare”, ma il “sentire”. «Sarebbe già moltissimo. La sensazione e l’emozione sono pur sempre validi indicatori di bellezza. Il guaio è che spesso e volentieri l’unica emozione si lega allo stupore per certi impressionanti valori di mercato. Ma come lei suggeriva, può anche essere che la bellezza si sia rifugiata in altre attività, prive di riconoscimento. Come ci insegna il pensiero orientale, la possiamo trovare anche nei gesti minimi della quotidianità: curare un giardino, comporre un mazzo di fiori, impacchettare con cura un oggetto, possono produrre emozioni estetiche altrettanto intense. Questo per dire che se l’arte è soggetta ai mutamenti storici, pur tuttavia, sempre e comunque, ciascuno di noi può sollevare gli occhi al cielo ed essere scosso dalla bellezza. Perché è un sentimento intrinseco alla natura umana». Faceva riferimento ai piccoli gesti. Non crede che compiere bene un’azione abbia un valore, oltre che estetico, anche etico? «Direi proprio di sì. Quando un falegname costruisce un tavolo e lo fa con amore, prova un’emozione estetica. E insieme, nella sua azione c’è un segno di rispetto per il mondo, che riveste una valenza morale. La scrittrice Iris Murdoch ha riflettuto a riguardo, pervenendo alla conclusione che il bello e il bene si sposano tra loro proprio perché indicano una fuoriuscita dal bozzolo egocentrico, in quanto accordano la priorità al mondo. Soltanto così si può produrre vera bellezza ». Nel suo libro prende in esame tre grandi poeti e scrittori – Wilde, Rilke e Cvetaeva – che perseguono il bello assoluto di stampo romantico. Ma vanno incontro a uno scacco inevitabile, perché viene a mancare il contatto con l’esistenza quotidiana. «Sono tutte e tre vicende tragiche, che ci rammentano come esista un limite morale all’atto estetico. Forse ricorderà quanto diceva Orwell: anche il più bel muro del mondo deve essere abbattuto, se quel muro circonda un campo di concentramento. Che lo si voglia o no, al di là della bellezza e del bene, esistono altre forze, che non possiamo ignorare. A un certo punto Rilke si invaghisce di Mussolini. E la sua corrispondente, Aurelia Gallarati Scotti, gli risponde che sta delirando. Naturalmente Rilke è un poeta, non un uomo politico, ma quell’improvvido innamoramento dimostra l’accecamento di chi rivolge tutta l’attenzione al gesto estetico. Ed esclusivamente a quello». Nel suo saggio è centrale la figura dell’assoluto individuale. «L’aspirazione all’assoluto fa parte della vicenda umana, da sempre, e per una lunghissima fase storica tale aspirazione è stata collettiva. Dapprima, con la religione, l’assoluto si è collocato in cielo. Poi è disceso sulla terra: chiamandosi via via Stato, nazione, partito, uomo nuovo. Dopo la fine della seconda guerra mondia-le, e con la caduta del muro di Berlino, tutto è cambiato. E ora siamo alla ricerca di un assoluto individuale, che peraltro non va confuso con l’assoluto arbitrio. Perché è vero che questa ricerca non è più imposta dall’esterno. Nasce in una società pluralistica, in cui esistono nor- me tra loro concorrenti, e quindi ognuno la persegue come crede. Ma non si può cancellare l’interdipendenza umana. Siamo animali sociali ed è ben per questo che l’idea di bellezza è connessa a quella di morale. Il punto più alto di tale associazione si ha nell’Idiota di Dostoevskij, in cui il principe Myškin, una variante moderna del personaggio di Gesù, ci indica una bellezza che rimanda alla compassione. Eppure quella figura tanto perfetta va incontro al fallimento. Perché Dostoevskij ci offre un ideale dagli esiti tragici? Io credo che lo scrittore russo affronti questo paradosso per indicarci come l’aspirazione individuale all’idea di bellezza, non possa non fare i conti con l’egoismo, l’invidia, l’avidità che ci circondano. Per quanto santa e perfetta, una figura isolata non riesce a far fronte a tutto questo e incontra la disperazione». Nel libro, il controcanto agli “avventurieri dell’assoluto” è rappresentato da George Sand. «George Sand non è una grande romanziera, come il suo amico Flaubert, ma è più saggia di lui. Come uno scultore scolpisce il marmo per estrarne la sua opera, lei scolpisce la propria vita per renderla più bella. Mentre Flaubert, come un martire dell’invenzione artistica se ne sta chiuso nella sua stanza a tornire di continuo le sue frasi, lei coglie la bellezza nell’istante, accetta la finitezza umana e soprattutto riconosce, al contrario dei romantici, degli gnostici, dei manichei, la continuità che esiste tra l’assoluto e il relativo, il celeste e il terrestre ». Cosa pensa dell’affermazione di Brodskij secondo cui l’estetica è la madre dell’etica? «Brodskij sostiene che chi ha letto a fondo Dickens fa più fatica a uccidere un suo simile di chi non ne abbia letto neppure una pagina. Però Stalin era un grande lettore e amava Cechov. Quanto a Mao, conosceva bene i classici della poesia cinese. Lo stesso Brodskij, in qualche modo, lo rammenta. No, questo criterio non mi convince. Penso che il sentimento morale abbia un fondamento più antico, inscritto nella nostra natura biologica; penso che abbia origine nella dipendenza dall’altro. Svariati studi antropologici hanno dimostrato come il prolungato periodo di protezione di cui necessita il cucciolo umano favorisca la cooperazione dei genitori nel proteggerlo, e quindi la sopravvivenza della specie nel processo evolutivo». Ricapitolando: la bellezza è una dimensione centrale dell’esistenza, ma non può trasformarsi in estetismo dell’assoluto. Tantomeno può essere vissuta in modo solitario. «L’assoluto individuale, se diventa solipsistico, è sterile. E lo dimostra il fatto che il primo a voler condividere con gli altri l’oggetto della sua creazione è proprio l’artista. Del resto, la forma più comune di bellezza è legata alle relazioni umane. E allora, se non crediamo nell’immortalità del corpo e dell’anima, l’unica trascendenza che ci resta è la traccia che lasciamo nella memoria degli altri. Tanto vale che sia la più bella possibile».

Corriere 21.6.12
Plutarco scruta il cuore dei grandi condottieri
La vita di Alessandro e quella di Cesare
di Daniele Piccini


«Io non scrivo storia, ma biografia» afferma Plutarco, introducendo nelle Vite parallele il dittico formato da Alessandro Magno e Cesare. Con tale netta distinzione di generi, che il dibattito moderno tende invece a sfumare, vuol delimitare un campo differenziato rispetto alla scrittura storica in senso proprio: «Spesso un breve episodio, una parola, un motto di spirito, dà un'idea del carattere molto meglio che non battaglie con migliaia di morti, grandi schieramenti d'eserciti, assedi di città». E più avanti l'erudito di Cheronea, in Beozia (vi era nato intorno al 46 d.C.), aggiunge: «Mi si conceda di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell'anima, e mediante essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese».
Il metodo di Plutarco passa per il vaglio delle fonti, soppesate e confrontate nella diversità dei pareri (si possono d'altronde dare nel loro impiego distorsioni e incongruenze, specie per intenti d'arte), ma diverge dalla storia, a quanto dichiara, perché cerca i «segni dell'anima»: è interessato dunque più che altro a indagare l'ethos del personaggio, a presentarcelo nella sua fibra morale e nei suoi moventi. Ciò è coerente con la complessiva figura intellettuale di questo scrittore greco vissuto tra I e II secolo d.C. (morì dopo il 120), autore di una grande quantità di scritti che affrontano argomenti politici, scientifici, etico-filosofici, letterari (tramandati sotto il titolo di Moralia). Così, quando nelle Vite parallele mette a confronto un personaggio greco e uno romano (come fa di norma), compiendo un'opera di avvicinamento tra le due culture di cui è partecipe (erede della letteratura greca e inserito nell'impero romano, ebbe una conoscenza non perfetta del latino), va alla ricerca di un filo conduttore di tipo etico, del dèmone dei personaggi.
Alessandro Magno (356-323 a.C.) è animato fin da giovanissimo dal desiderio di gloria, che lo spinge a mettere l'azione al di sopra di tutto: «Ne è dimostrazione la sua vita, assolutamente breve, ma piena di moltissime e grandissime imprese». Accanto al racconto delle conquiste, il biografo si sofferma, come da programma, su aneddoti e particolari, che sembrano esprimere la magnanimità del Macedone: dall'incontro con il filosofo Diogene alla temperanza con le donne, fino alla generosità verso gli amici e all'amore per l'Iliade. Ciò non impedisce all'autore di riconoscere i tratti di arroganza del personaggio, il suo eccesso di superstizione o le sue azioni vergognose. Ma nella breve parabola che lo porta a essere il modello del conquistatore, a guidarlo è soprattutto uno spirito indomito, che fronteggia le fatiche e agisce con decisione ferrea.
Manca, nel dittico Alessandro-Cesare, il confronto finale tra i due (la synkrisis, presente nelle Vite parallele salvo pochi casi), forse perduto, forse mai composto. Alcune analogie sono evidenti, specie per ciò che concerne il motivo dell'ambizione, fondamentale anche in Cesare (100-44 a.C.). Dall'elezione a pontefice massimo alle vittorie in Gallia fino alla guerra civile, il personaggio è descritto come un abile giocatore d'azzardo, che non esita a rischiare ogni volta il tutto per tutto, con la capacità di cogliere il momento opportuno. Opposto è da questo punto di vista il carattere di Pompeo, che qui compare di scorcio (e a cui Plutarco dedica un'altra delle sue Vite): indeciso, turbato, condizionato dagli eventi e dai pareri altrui. Forse il pezzo più impressionante della biografia di Cesare (da confrontare con quella che apre Le vite dei Cesari di Svetonio) è il racconto della sua uccisione. Qui l'arte narrativa di Plutarco piega più che altrove verso il tragico: un fato inesorabile spinge Cesare verso la morte e a nulla valgono i segni e gli avvertimenti che potrebbero trattenerlo dal recarsi in Senato alle Idi di marzo del 44. È un dio a imporsi, è una fatalità superiore che deve realizzarsi: non per nulla Cesare muore ai piedi della statua di Pompeo, dimostrando l'aleggiare di uno spirito di vendetta. Allo stesso modo il furore dei congiurati fa dell'assassinio quasi un rito sacrificale.
Biografo e non storico è Plutarco, nel senso che egli cerca l'anima, il sentimento della sorte, il movente umano e divino che spinge i grandi. È stato così capace di accendere la passione di lettori straordinari (da Montaigne a Shakespeare ad Alfieri), quasi romanziere della storia, artista delle vite illustri.

Corriere 21.6.12
Esempi su cui meditare


Una delle opere più interessanti dell'antichità, le Vite parallele di Plutarco, è presentata nel trentunesimo volume della collana dei Classici greci e latini. Si tratta di due biografie apprezzate e famose, Vita di Alessandro e Vita di Cesare, qui pubblicate con la prefazione inedita di Carlo Franco. «Nata probabilmente senza un progetto preciso, ma sviluppatasi per gradi», l'impresa delle Vite di Plutarco aveva come scopo l'approfondimento di biografie, più che il resoconto storico, e mirava a cogliere gli aspetti psicologici, caratteriali ed etici delle personalità illustri, per farne esempi su cui meditare. Ed era inoltre, come ricorda Franco nella prefazione, l'occasione per Plutarco di mettere a confronto alla pari la grandezza — e la dignità — della Grecia e quella di Roma. Così, narrando con vividezza la nascita fatale, l'ambizione, le conquiste di due figure straordinarie come Alessandro e Cesare, Plutarco metteva in pratica in realtà il suo disegno intellettuale volto alla coesistenza tra «identità “politica” romana e identità “culturale” ellenica». (i.b.)

Corriere 21.6.12
Demostene e Filippo duellanti di ogni epoca
Una contesa che molti hanno attualizzato
di Luciano Bossina


Notava il Leopardi che di Demostene «s'ha e si legge dopo duemila anni un'orazione per una causa di tre pecore», mentre i discorsi parlamentari del tempo suo «o da niuno si leggono, o si dimenticano di là due dì». Parrebbe che il paragone si mantenga valido anche oltre il 1823: ma sulle cause dell'inesauribile attualità di Demostene la diagnosi può variare. Certo, la scuola ne ha fatto innanzitutto un modello di stile. Plutarco, nell'accostargli Cicerone, ci ha tramandato un aneddoto che piacque ripetere anche ai bizantini più dotti, come Teodoro Metochites: «il più bel discorso di Demostene», per il suo erede latino, era semplicemente «il più lungo». Il piacere di leggerlo non saziava mai. Il cristianesimo sentì non di rado il desiderio di derubricarne l'esemplarità. In un inno alla Pentecoste interamente percorso da frizzanti giochi di parole, Romano il Melodo giudicava «debole» (asthenes) Demostene, giocando con la seconda parte del suo nome, mentre il patriarca Fozio si diceva persuaso che alle sue orazioni si potessero preferire, sui banchi di scuola, quelle di san Basilio.
Ma per far sopravvivere ai millenni «una causa per tre pecore» non basta solo lo stile. Leggere le sue orazioni, specie quelle dettate dal conflitto con la Macedonia di Filippo, significa domandarsi ad ogni passo che cosa fosse — e sia — la «libertà». E poiché ogni epoca ne ha un suo cangiante concetto, ogni epoca finisce per avere un Demostene — e un Filippo. I due incarnarono per secoli l'opposizione tra democrazia (che resiste) e autocrazia (che incombe). A mutare i termini del confronto fu la presa di coscienza che l'Ellenismo, avviato dal dominio macedone sul mondo, non fosse affatto un'epoca di decadenza, ma una lunga e feconda transizione dall'antichità al cristianesimo. Rivalutare Filippo significava così condannare Demostene. Valga per tutti lo scarto tra due storici tedeschi sommamente «ellenistici» come Niebuhr e Droysen. In una sdegnatissima lettera del marzo 1828 Niebuhr definisce Demostene «uomo immortale e, per quanto sia concesso alla natura umana, irreprensibile», rigettando l'«aneddotuccolo» della sua tarda corruzione con denari macedoni quale «profanante calunnia». Il suo amore per Demostene è inconcusso. Vent'anni prima, nel 1805, Niebuhr aveva tradotto la prima Filippica, dedicandola allo zar Alessandro I perché liberasse i tedeschi dai francesi invasori. In questo scenario la Germania è Atene, e Filippo Napoleone. Più tardi le parti si invertono. Quando sarà la Prussia a estendere l'egemonia sugli Stati tedeschi e poi addirittura alla Francia, il modello macedone servirà a lodare il progresso e la superiorità dell'uomo forte. La Prussia qui è la Macedonia, e Droysen il loro cantore: «Fino alla nausea si ripete che il cattivo Filippo ha cancellato la libertà greca; che con Demostene ed Aristotele tutto finisce». Ma la verità storica è un'altra: «Si osservi con onestà e si vedrà che la Macedonia conquistò l'egemonia con lo stesso diritto che avevano via via fatto valere Sparta, Atene e Tebe». Alla Prussia dominatrice ora la Macedonia piace.
In Italia il dibattito si articolerà con sotterranea e dolente naturalezza durante il fascismo, quando all'ombra dell'Enciclopedia Italiana e di Gaetano De Sanctis si ragionava di «libertà greca» pensando al presente. Ma il risultato più esplicito dell'attualizzazione si ebbe forse nell'Inghilterra bombardata dai nazisti, quando in una seriosa rivista di antichistica apparve un articolo che paragonava tutta la politica inglese a quella ateniese, minacciata dal nemico alle porte. Era il 1941, e al titolo non difettava la schiettezza: Philip Alias Hitler.
C'è un Demostene anche per noi? L'oratore, che fu anche un ricco imprenditore, sa come i possidenti riescano a nascondere al «fisco» i propri capitali, si addentra in una delle più disincantate critiche dei meccanismi assembleari quando siano svuotati del loro reale significato e approdino al formalismo paralizzante. Pure egli passa per un democratico radicale (non per Plutarco). Ma come ci si domanda che cosa sia veramente la libertà, così ci si può anche domandare, con Demostene, che cosa sia veramente la democrazia. L'esercizio è sempre salutare, e spiega tra l'altro perché un giovane studioso ebreo di nome Arnaldo Momigliano potesse risentire nelle sue pagine «quell'inobliabile accento, che ancora oggi scuote». L'esilio era prossimo per lui.

Corriere 21.6.12
Il continuatore di Pericle


Autore controverso secondo la critica dei secoli scorsi, il Demostene delle Filippiche, le orazioni contro il monarca macedone Filippo II che vengono presentate in volume nella collana dei Classici con la prefazione inedita di Luciano Canfora, si rivela invece un personaggio profondamente incompreso e da riscoprire. Come illustra Canfora, «la sua grandezza come politico consiste nel non aver mai perso di vista l'entità dei rapporti di forza tra le potenze in campo»: così, nell'analizzare la spinta egemonica del macedone e il rischio per la Grecia, egli si dimostra «un realista politico, persuaso della tuttavia perdurante possibilità, per Atene, di giocare una partita vincente tra Persia e Macedonia».
Perciò Demostene finisce per apparire come «il vero continuatore di Pericle, di Cleone, di Alcibiade», anche nell'ormai inevitabile declino della potenza ateniese, una situazione in cui, conclude Canfora, «non era possibile restaurare una vera forza militare cittadina e il mercenariato era un surrogato pericoloso e aleatorio». (i.b.)

Repubblica on line 21.6.12
Norvegia, tra i fantasmi dell'innocenza perduta
Viaggio nel Paese che il petrolio ha trasformato nel più ricco d'Europa. E che con la strage di Utoya ha svelato la sua anima nera
di Adriano Sofri
qui

l’Unità 21.6.12
I film italiani li vedo online
Nuovi siti a pagamento per il cinema di qualità
Un circuito «alternativo» di distribuzione
ma anche una rivoluzione che sta soppiantando i dvd e cambiando le abitudini del pubblico
di Gabriella Gallozzi


SCARICANDO FILM A PAGAMENTO. COME PER LA MUSICA. PIANO PIANO ANCHE L’ITALIA SI ATTREZZA ALLA FRUIZIONE DEL CINEMA ON DEMAND, IN STREAMING. Non stiamo parlando dello «scarico» illegale, leggi pirateria, cioè il solito spettro agitato da produttori e associazioni come responsabile numero uno della crisi cinematografica. Ma dei siti di cinema dove si possono comprare o noleggiare i film da vedere su computer, smart tv, cellulari e tablet a prezzi contenuti. Una vera rivoluzione, in atto da un po’ vedi l’americano Netflix che porta il cinema a casa e ovunque senza abbonamenti ma semplicemente on demand. E che ha soppiantato il dvd a noleggio vedi la chiusura della catena Blockbuster e influito anche sulla riduzione del pubblico nelle sale. Ma anche una nuova opportunità distributiva per quel cinema di qualità messo fuori circuito anche dalla chiusura delle sale d’essai.
È a partire da questo obiettivo, per esempio, che sono nati gli italiani Own Air e On the docks. Il primo con un catalogo di cinema d’autore italiano e non (dalla storia operaia di Ho paura del buio di Massimo Coppola, per esempio al più cinefilo Kaboom di Gregg Araki) che si è arricchito di una serie di documentari grazie al recentissimo accordo con l’Istituto Luce Cinecittà (è stato presentato l’altra sera alla Casa del cinema di Roma). Il secondo con un catalogo già molto ricco (un centinaio di titoli) che punta soprattutto sui documentari italiani come suggerisce il nome quelli davvero «invisibili», ma firmati da autori come Corso Salani, Roberta Torre, Stefano Savona.
«Distribuire soprattutto il cinema indipendente», spiega Alfredo Borrelli, presidente di Own Air «è un nostro obiettivo. Per questo abbiamo ampliato il discorso anche al documentario, genere che ha più difficoltà ad uscire in sala». Nel «pacchetto» proposto dal Luce sono sei i titoli a disposizione di clik. A cominciare da Case chiuse di Filippo Soldi, già passato al Romafilmfest, in cui si rifà la storia dei bordelli, fino alla storica legge Merlin. Seguono Polvere di Niccolò Bruna e Andrea Prandstraller sul «grande processo dell’amianto»; l’unità d’Italia raccontata da Gianfranco Pannone nel suo Ma che storia; il viaggio tra i collezionisti di vinile di Paolo Campana, Vynilmania, appunto; Piazzale Loreto raccontato da Fabrizio Laurenti ne Il corpo del duce. E per finire proprio i discorsi del duce, curati da Leonardo Tiberi.
La piattaforma www.ownair.it offre la possibilità sia di noleggiare il film per 48 ore, che acquistarlo e tenerlo nel proprio pc o tablet. I costi del noleggio variano dai 3,29 ai 5.50 euro. Mentre più caro è l’acquisto. Diversamente, su www.onthedocks. it i film si possono solo noleggiare a costi ancora più competitivi: lo streaming di un titolo è di 2.99 euro mentre l’abbonamento mensile per vedere tutto il catalogo è di 4.99 euro. E l’offerta è davvero ricchissima. Tra documentari, certamente ma anche film e cortometraggi, tutto «il meglio della produzione italiana», insomma, come recita lo «strillo» sull’home page.
C’È PURE FASTWEB
Questo per quanto riguarda il cinema indipendente e più di nicchia, proposto a sua volta da due realtà indipendenti. Ma c’è anche il «colosso» nel business dei film online. È la nuova arrivata, Chili spa, spin off originato dalla piattaforma fondata da Fastweb nel 2011. Da oggi, è una società indipendente nella quale gli stessi manager che la gestiranno avranno il 43,2% delle azioni, il 15,4% sarà in mano a Antares Private Equity, mentre Fastweb manterrà il 41,4%. Nel catalogo figurano serie tv, cartoni, titoli da blockbuster e d’autore. Insomma quello che si trovava ai videonoleggi, ma qui al prezzo di partenza di 2,90 euro.
«La distribuzione di film su internet spiega Stefano Parisi, presidente della società nonché ex ad di Fastweb è un mercato in forte crescita in tutto il mondo, ad altissimo potenziale». L'obiettivo di Chili, spiega, è arrivare al pareggio di bilancio nel 2014 e generare un fatturato di 30 milioni di euro già nel 2016.