lunedì 25 giugno 2012

l’Unità 25.6.12
I cattolici, la crisi, la sinistra
I cattolici in un solo partito? Oggi sarebbe un atto di subalternità
Galli della Loggia lamenta una irrilevanza dei credenti
Non avevano detto che dopo Todi erano tornati al potere?
di Claudio Sardo


DAVVERO I CATTOLICI SONO DIVENTATI POLITICAMENTE IRRILEVANTI, COME DENUNCIAVA IERI ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA SUL CORRIERE DELLA SERA? Davvero il cattolicesimo italiano, con la fine della Dc, ha cessato di essere «matrice di una possibile cultura politica»? Sono domande di grande rilievo per un Paese con la storia dell’Italia, che oggi è alle prese con una crisi, non solo economica ma politica e morale, tale da accentuare quei tratti di affanno antropologico che coinvolgono tutte le società più avanzate.
Bisogna però riordinare le parole prima di affrontare le possibili risposte. Non era stato proprio il Corriere a presentare il governo Monti come il ritorno dei cattolici alla guida del Paese, certificato dalla partecipazione di importanti ministri al convegno di Todi? Evidentemente quella lettura era sbagliata.
E forse era sbagliata anche l’interpretazione del convegno di Todi come preliminare di una nuova formazione centrista. A cinquant’anni dal Concilio che liberò dal dogma l’unità politica dei credenti, a vent’anni dalla caduta del Muro che fece venir meno le ragioni storiche della nostra democrazia bloccata, di fronte a un pluralismo dei cattolici che oggi innerva tutti i partiti e corpi intermedi significativi nella società, sarebbe un atto di lungimiranza per il cattolicesimo organizzato e per la stessa Chiesa ridurre la rappresentanza in un solo partito? E sarebbe possibile, prima ancora che sensato?
Può darsi che qualcuno sia andato a Todi con questa intenzione. Ma, sin dall’inizio, lo sbocco «partitico» non sembrava incoraggiato neppure dal vertice della Cei. Troppo alto il rischio di una riduzione del messaggio e dunque dell’efficacia dell’azione di stimolo verso i credenti e del dialogo con l’intera società che restano l’orizzonte di una Chiesa consapevole del proprio ruolo nazionale. Todi semmai è stata concepita come una leva per rilanciare le istanze del cattolicesimo organizzato e promuovere «nuova classe dirigente»: non soltanto sulle questione eticamente sensibili (la cui priorità si era imposta in un recente passato come metro di misura del tutto), ma anche sui grandi temi sociali legati alla povertà, alla famiglia, alla solidarietà, alla sussidiarietà.
Galli della Loggia constata una perdurante afonia. Todi, in fondo, era solo un’impresa. La presenza cattolica nella società è multiforme. Subisce anch’essa l’offensiva individualista e il deterioramento delle reti di solidarietà, tuttavia in molti luoghi sono gruppi cattolici, o gruppi laici di cui fanno parte tanti credenti, a testimoniare che la solidarietà è possibile e a consentire alla società di resistere un po’ di più a questa crisi drammatica. Ciò non basta ancora ad esprimere una cultura politica degna di questo nome? Può darsi. Ma l’impressione è che al professor Galli della Loggia non interessi tanto la capacità dei cattolici di reagire al paradigma individualista dominante, e dunque di promuovere una cultura condivisa, un umanesimo integrale, capace di superarlo. La sua delusione sembra nascere da una ragione tutta politica: a suo giudizio, i cattolici italiani avrebbero dovuto adottare il modello della Cdu tedesca, cioè ricomporre una sostanziale unità a destra, rimpiazzare Berlusconi, riempire con un po’ di dottrina sociale e un po’ di rigore sui temi etici la scatola oggi vuota della cultura conservatrice.
È vero che l’Italia soffre perché non riesce a strutturarsi una destra europea e presentabile. Ad ogni stormir di fronde scatta un populismo di quart’ordine. E nella delegittimazione del sistema il populismo, anziché essere emarginato, finisce per espandersi a sinistra. Il problema è che, se la Chiesa italiana seguisse il consiglio di Galli della Loggia, rischierebbe di sacrificare il nucleo del suo messaggio ad un obiettivo politicista. In nessun Paese europeo come l’Italia c’è una presenza così larga di cattolici nel centrosinistra: che senso culturale, pastorale, civile avrebbe per la Chiesa dichiararli fuori gioco? E poi per fare che? Una nuova investitura politica per un soggetto cattolico (di destra, ma anche di centro) avrebbe davvero il segno di un vero protagonismo nazionale o finirebbe per essere solo un atto di subalternità verso oligarchie interne ed esterne, oggi al centro del potere che conta, cioè quello finanziario? Con un effetto aggiuntivo: la radicalizzazione dello scontro sui temi della vita e un «bipolarismo etico» che invece bisognerebbe fare di tutto per scongiurare.
Certo, il rischio di una irrilevanza esiste. Ma esiste drammaticamente per tutti i soggetti che vogliono un cambiamento e percepiscono la profondità antropologica di questa crisi, oltre il livello economico e istituzionale. Il tema è rifondare la politica democratica: questa è la sfida per chi crede e per chi cerca l’uguaglianza e la solidarietà pur senza credere. L’unità politica dei cattolici nella Dc ebbe la forza e il merito storico di far crescere una nazione e di allargarne la base democratica. I meriti non preservarono poi quell’esperienza dagli errori e dal declino. Ma oggi il coraggio di disegnare nuovi orizzonti può ragionevolmente venire da una riduzione in una parte politica? La sfida culturale dei cattolici riguarda tutti i partiti. A sinistra, in particolare, le motivazioni e le esperienze dei credenti sono persino un antidoto contro scivolamenti moderati e destrorsi. Ma senza questa sfida a tutto campo oggi la stessa Chiesa potrebbe non trovarsi in pace con la propria coscienza.

Corriere 25.6.12
«Irrilevanti? No, ma serve coraggio Tanti cattolici diffidano della politica»
di Natale Forlani

Portavoce del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro

Caro Direttore,
l'articolo di Galli della Loggia «L'irrilevanza dei cattolici» («Corsera», 24 giugno) ha il merito di cogliere il vero significato di un possibile ritorno del protagonismo dei cattolici nella politica italiana: la ricostruzione di una solida coscienza civile, per rafforzare una cultura del dovere e della responsabilità, indispensabile per favorire un cambiamento politico che abbia a cuore il destino del nostro Paese. Non vi è dubbio che la crisi delle rappresentanze politiche sia conseguenza delle frustrazioni prodotte dalla politica delle promesse inattuabili, condivisa a destra come a sinistra, che il compito delle rappresentanze fosse quello di promettere benessere e consumi crescenti con il concorso della spesa pubblica. Una prassi che si è tradotta nell'accentuare le spinte conservative e corporative che hanno rallentato i processi riformatori, nell'aggravare il debito pubblico, il gap demografico, la crisi generazionale, gli squilibri territoriali. La richiesta di avere più coraggio, rivolta da Galli della Loggia alle classi dirigenti cattoliche, è accompagnata da alcuni argomenti sulla loro presunta irrilevanza, dai quali dissento. La necessità di avviare un radicale cambiamento nella politica italiana è stato il tratto distintivo del primo Seminario di Todi, promosso dalle associazioni del mondo del lavoro e del sociale, di ispirazione cattolica. I tratti di questo cambiamento sono stati sintetizzati nel Manifesto, per il quale è aperta una campagna di adesioni, «La buona politica per tornare a crescere» che porterà a Todi2. Non è un'opera semplice perché sconta le diffidenze verso la politica «mestierante». Fra i cattolici impegnati in politica sopravvivono gli stereotipi dei cattolici adulti, i quali considerano la diaspora come il massimo della maturità politica a disposizione dei credenti. Sull'altro versante, c'è l'opinione che bastasse proclamare l'impegno sui valori non negoziabili per ottenere il consenso dei credenti, da contrapporre a qualunque tentativo di nuova soggettualità politica dei cattolici. Trovo poi ingenerose le espressioni dell'Autore che riguardano il ruolo di Autorità morale svolto dai Vescovi italiani, ridotto al «precettismo delle relazioncine mensili dalla Cei» dimenticando che dietro le Gerarchie vive un Popolo che con la sua generosità supplisce alle carenze dello Stato sociale e si fa onore nel mondo. Dare voce a questo popolo è una responsabilità che sentiamo, e siamo grati a tutti coloro che ci spingono in questa direzione. Non mancherà il nostro contributo nella ricostruzione del Paese e nella formazione di una nuova cultura politica accompagnata da un indispensabile ricambio delle classi dirigenti.

Corriere 25.6.12
«Non bastano Eluana e l'aborto Occorre parlare all'intera società e misurarsi sui temi spinosi»
di Gianfranco Rotondi


Caro direttore,
leggo sul «Corriere» Galli della Loggia sull'irrilevanza dei cattolici e avverto un calcio negli stinchi. Meritato. Dopo la fine della Dc noi cattolici non contiamo più nulla. Sono stato rifondatore di una Dc bonsai, ministro orgogliosamente democristiano ma mi riconosco nell'irrilevanza che Galli della Loggia fotografa. Distillo qualche pensierino per azzardare una risposta ai suoi spietati interrogativi. Perché il cattolicesimo organizzato fa silenzio? Semplice, perché alla Chiesa l'ultima Dc dava fastidio, tranne Ruini i più hanno applaudito alla sua fine e non c'è vera nostalgia dentro le Mura per un partito d'ispirazione cristiana. Si preferisce la transazione col potere del momento, si benedice l'Ulivo quando vince Prodi, si fa dei «valori non negoziabili» la base dell'asse col centrodestra, si aggiunge qualche petalo alla rosa tecnica di Monti. Transazioni, niente più. Forse alla Chiesa conviene, all'Italia no. Una forza di ispirazione cristiana non si misura sulla sola fedeltà ai valori non negoziabili: su quelli ci saltano tutti, anzitutto gli atei devoti più abili nella transazione. Il cattolicesimo politico parla a tutta la società, le sue abilità si misurano sui temi opposti, spinosi, controversi. Il menu per riformare il cattolicesimo politico non è solo l'aborto ed Eluana, ma i diritti delle coppie di fatto, una legislazione per la famiglia e un'idea di famiglia coniugata con la sussidiarietà, una laicità piena che solo i cattolici hanno dato al Paese nel dopoguerra. Galli della Loggia si appella all'Udc. Tempo perso. Casini nasce come leader dalla fine del cattolicesimo politico, il suo è un partito personale come gli altri e non è una critica ma un complimento a Casini che ha voti per il suo valore e non come riferimento cattolico. Chi può essere il traghettatore? I cattolici sono individualisti e abituati alla Dc che era un collettivo. Non vogliono un capo, si fanno guidare da un esercito. Serve una base di massa su cui possa poggiare un collettivo nuovo ed è velleitario pensare che ci si possa riuscire senza partire dal Pdl, dall'Udc, dal Ppe italiano. Purtroppo è anche velleitario illudersi che riusciamo a dare questo segno dopo averlo promesso, ciascuno per la sua parte, per quasi un ventennio di infinita transizione.

Repubblica 25.6.12
Il Forum si sta dando un’organizzazione con sedi sul territorio: vuol diventare un movimento politico
I cattolici di Todi: no ai populisti, anche Renzi pesca lì
di Goffredo De Marchis


ROMA— Allargare Todi. Con più associazioni firmatarie, con adesioni personali e collettive al manifesto del Forum dei cattolici. Poi a ottobre, nuovo appuntamento nella cittadina umbra. Stavolta per lanciare un «movimento politico». Significa mettere in palio milioni di voti, almeno tanti quanti sono gli iscritti a sigle come Coldiretti (1 milione 600 mila tesserati), Cisl (4.485.000), Compagnia delle Opere, Acli, Concooperative, Confartigianato, Movimento cristiano lavoratori. I cattolici cercano così da uscire dalla gabbia in cui si sono rinchiusi, quella dei valori non negoziabili, per entrare nella società. Il Forum si sta dando un’organizzazione partitica con sedi territoriali e un programma di iniziative preparatorie.
Si comincia oggi con un una manifestazione per gli “Stati uniti d’Europa”.
Uno stimolo a una maggiore unità politica, una risposta netta in difesa dell’euro. «Siamo lontanissimi da Berlusconi e da Grillo in questo senso», dice Sergio Marini, presidente della Coldiretti, 47 anni, uno dei “giovani” su cui il Forum punta per il ricambio generazionale della classe dirigente. «Vogliamo tenerci alla larga dai populismi. Matteo Renzi compreso », aggiunge Natale Forlani che del forum è il portavoce. «La nostra scelta europeista è senza equivoci, bisogna uscire dalla mentalità disfattista».
Ma il manifesto «per una buona politica » presentato alla fine di maggio e i documenti su temi specifici rappresentano un salto di qualità in vista di Todi 2. Sono il tentativo di rappresentare qualcosa di più dei valori etici come il fine vita, la difesa dell’embrione, la famiglia naturale. Una base di confronto e un programma di governo. Resta la domanda di fondo: a quale
schieramento quest’esperienza vuole portare voti e contributi? Al centrodestra o al centrosinistra? La liquidazione del berlusconismo non coincide con il rifiuto del Pdl o di come si chiamerà in futuro. Però l’allargamento a altre associazioni con l’obiettivo di aggiungere alla sette sigle originarie nuovi volti e nuove storie lascia immaginare confini che vanno oltre l’area “moderata”.
È un’apertura che supera i conflitti interni, che punta a guardarsi intorno. Oggi parleranno Stefano Zamagni, ex collaboratore di Prodi, Agostino Giovagnoli della Comunità di Sant’Egidio mentre la conclusione è affidata a Raffaele Bonanni. Il segretario della Cisl è sempre l’anima politica del Forum. Dalle sue scelte e da quelle della sua confederazione dipenderà la collocazione finale di questo esperimento.

Corriere 25.6.12
«Sì a un asse progressisti-moderati»
Casini: «Il rischio di andare al voto a ottobre esiste La colpa è di Berlusconi, della sua deriva populista Bersani invece è serio, non cambia idea tutti i giorni»
di Andrea Garibaldi


ROMA — A questo punto, chiediamo a Pier Ferdinando Casini, c'è la possibilità di elezioni a ottobre?
«Il rischio esiste. E arriva dal centrodestra, soprattutto».
Il ritorno in scena di Berlusconi...
«Con buona pace di Schifani che aveva chiesto sostegno più netto a Monti e degli sforzi di Alfano, Berlusconi è tornato a dare le carte e a spingere il Pdl verso la solita deriva del populismo. Ero sicuro che sarebbe finita così. È la risposta a chi mi accusava di non fare una proposta per un grande partito dei moderati».
Berlusconi pensa che attaccando l'euro e l'Europa «tedesca» riprenderà voti.
«Può certamente prendere più voti. Si mantiene in un recinto sicuro, ma isola il Pdl in uno scivolamento a destra che lo renderà ininfluente nella prossima legislatura. Vedo che ora chiede il 51 per cento, ma lui aveva il 51 per cento dopo le elezioni 2008! Fa di tutto per stabilire che la colpa è sempre di qualcun altro, Fini, Casini... In realtà ha promesso la riforma liberale e ha perso una decina di anni».
Il Pdl ha chiesto il rinvio della seduta della commissione di vigilanza Rai.
«Al di là delle motivazioni ufficiali, se davvero ci fosse il rinvio delle nomine di Monti alla Rai, metterebbero la firma sotto il desiderio di andare alle elezioni».
Anche il Pd appare in acque agitate.
«La solidità del gruppo dirigente del Pd è più forte di quella del Pdl».
C'è la questione Renzi, le primarie...
«Renzi è un ragazzo intelligente e simpatico. Gioca l'eterna partita giovani contro vecchi. Lo capisco bene, dicevo le stesse cose anche io tanti anni fa. Ma capisco il corpo del Pd che lo respinge. Renzi, obiettivamente, per molti aspetti è alla mia destra. Basti pensare alla santificazione di Marchionne».
Può vincere?
«Io credo che le primarie debbano essere fatte con logiche precise, come negli Stati Uniti dove si è iscritti al registro per le primarie dei Democratici o dei Repubblicani. Se le aprono a tutti, ci saranno tanti della destra anti-Pd che andranno a votare Renzi».
Bersani vuole proporvi un «patto di legislatura».
«Bersani è un interlocutore serio, non cambia idea tutti i giorni. Come in Grecia e in Germania il tema di un patto di emergenza tra chi è nel Ppe e chi è nel Pse esiste. Tra progressisti e moderati si può creare un asse per governare l'Italia. Come capiscono anche tanti moderati del Pdl».
Per il governo si apre una settimana piena di appuntamenti cruciali. Tre mozioni diverse — Pdl, Pd, Udc — su come affrontare il Consiglio europeo, per esempio.
«Ognuno vuol far prevalere la propria bandiera. Noi siamo disposti a ritirare la nostra mozione per farne una della maggioranza unita».
Quali sono le differenze di contenuto?
«Non ci sono questioni di contenuto. Per dare forza a Monti, non si può andare in ordine sparso».
Monti va sostenuto comunque?
«Il Pd ha accettato il governo Monti perché segnava la caduta di Berlusconi. Il Pdl perché era spaventato dalle elezioni. Noi pensavamo che fosse necessario un armistizio, dato che eravamo sull'orlo della catastrofe».
Dopo sette mesi e mezzo, è ancora Monti la soluzione migliore?
«Il percorso è appena all'inizio e i partiti devono fare le riforme. Monti può essere un ottimo interprete del federalismo europeo, l'unico modo per battere la crisi. Altro che eurobond, "salva Stati", unione bancaria! I mercati pongono una domanda politica: europei, credete o no nell'Europa? Dobbiamo cedere sovranità per mettere in comune responsabilità».
Questa è anche la settimana della riforma del lavoro.
«La riforma del lavoro è quella che è. Poteva essere migliorata, ma ora tanto vale approvarla. Per evitare accanimenti terapeutici».
E delle riforme istituzionali.
«La riduzione dei parlamentari sarebbe un atto forte, anche come risposta all'anti-politica. Ma legarla al semipresidenzialismo, al termine della legislatura, sa di provocazione: troppa carne al fuoco per non fare nulla. Allora, facciamo una cosa sola: restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i parlamentari. Almeno le preferenze!».
Lei è intervenuto con decisione per difendere Napolitano sulle telefonate di Mancino nell'inchiesta Stato-mafia.
«Napolitano si è comportato in modo ineccepibile, per evitare conflitti di competenza fra poteri dello Stato. Il consigliere del Quirinale, D'Ambrosio, ha parlato con Mancino, che è stato vicepresidente del Csm e presidente del Senato. Nulla di male: le istituzioni hanno anche una loro "umanità". Se qualcuno pensa, in questo modo, di intimidire Napolitano, non lo conosce. Il risultato sarà opposto».
Lei ha accusato «chi pensa di avere il monopolio sui poteri dello Stato» e «schegge della magistratura». Ce l'aveva, per esempio, con il procuratore di Palermo, Ingroia?
«Dubito che questa montatura sia venuta dalla politica, però non faccio nomi né cognomi. Lo scopo è comunicare al Quirinale: anche voi siete sotto tiro. Mi riservo di presentare al ministro della Giustizia un'interrogazione per capire le modalità di diffusione delle intercettazioni».
Alfano ha detto che solo ora lei si accorge delle anomalie sulle intercettazioni.
«Ho sempre sostenuto, anche quando riguardavano Berlusconi, che le intercettazioni sono fondamentali contro criminalità e malaffare. Ma si devono evitare abusi e divulgazioni indistinte».
Ernesto Galli della Loggia sul Corriere ha chiesto all'Udc perché sia rimasto assente dal dibattito sul nuovo partito cattolico.
«Non c'è bisogno di un nuovo partito cattolico. C'è bisogno di un partito che sulle grandi questioni del Paese sappia esprimere e difendere i valori cristiani. Un partito di cattolici e laici, di politici e professori, di nuovi e di vecchi. Stiamo cercando di costruirlo».
Il Partito della Nazione?
«Siamo in movimento. Ci sarà una nuova offerta politica alle prossime elezioni».

l’Unità 25.6.12
Progettare il futuro
La vera sfida: progettare da sinistra un futuro per il Paese
di Michele Prospero


Con i vecchi soggetti politici ridotti a brandelli, sul Pd ricadono enormi responsabilità storico-politiche. Da solo resiste in un sistema che non c’è più, i cui argini sono crollati.
Ciò impone a un partito solitario, che ha il senso del generale, di preoccuparsi non solo di garantire la tenuta dell’ordine costituzionale minacciato (le aggressioni al Colle sono l’ultimo bagliore) ma anche di progettare i momenti di innovazione necessaria. Solo con una autentica capacità egemonica il Pd potrà garantire al Paese di attraversare senza traumi insanabili una crisi di legittimazione della Repubblica che vede anche la secca perdita di tangibili referenti sociali. Il cupo dato di partenza è questo: sfiora nei sondaggi metà degli elettori l’area dell’antipolitica militante, che va da Berlusconi che invoca la lira all’urlatore genovese che inveisce contro il pianeta, dalla Lega che tenta di sabotare gli equilibri con l’arma presidenzialista a Di Pietro che ritrova il riflesso condizionato della demagogia. In bilico tra squarci di vago prefascismo e i soliti bagliori di un nuovismo assoluto, la politica deve districarsi tra sentieri stretti che potrebbero anche rivelarsi interrotti.
Ad ogni giuntura critica della sua storia, l’Italia riscopre l’ebbrezza dell’antipolitica come aspirazione a un radicale nuovo inizio che travolge le forme della rappresentanza. Essa diventa così una gigantesca fabbrica dell’immaginario a cui partecipano, con generosi stanziamenti, grandi potenze dell’economia e dei media (Telecom, Corriere della Sera, anzitutto) che restringono la vicenda politica alla noiosa favola della casta pur di distruggere il gioco delle alternanze. Il progetto è quello di distrarre le inquietudini giovanili e di sviare il risentimento dei ceti popolari imponendo come un senso comune la falsa credenza che anche gli ultimi baluardi del lealismo costituzionale (il Pd, Sel, l’Udc) sono solo dei miseri covi del malaffare. Questa borghesia, rimasta senza alcun senso del generale, non disdegna una involutiva uscita a destra dalla crisi che prepari l’apparizione di un nuovo leader che comanda in virtù solo del denaro e mira al potere per curare degli interessi particolari.
Il sogno è sempre quello di una de-democratizzazione che restituisca a un capitalismo incapace di riattivare la mediazione politica la facoltà di appropriarsi dello Stato con una fondazione-partito privata, un ennesimo partito-azienda. La crisi del sistema politico si congiunge per questo a una incorreggibile anomalia del capitalismo italiano che agogna una democrazia minore vista come il terreno più favorevole a sua maestà il denaro. Con il suo chiacchiericcio sul futuro e l’innovazione, questo mondo dorato guarda molto indietro, fino ad incarnare una variante postmoderna di Stato patrimoniale. Passando dalla democrazia di massa all’oligarchia dei pochi, non si recupera certo una effettiva capacità di governo e non si sprigiona un impulso alla crescita. Si fa dello Stato un territorio di appropriazione privata. Le conseguenze sono devastanti. L’impresa, con le mani in pasta nel potere, altera del tutto la concorrenza di mercato e riceve un surplus competitivo che converte in un notevole vantaggio economico. Lo Stato, che subisce una torsione affaristica, smarrisce le regolarità che nel moderno esigevano la comparsa di un potere dal volto astratto e impersonale e allontana così investimenti, rallenta la crescita. La borghesia italiana, che difetta di ogni senso dello Stato, pensa che per accostarsi al bene pubblico anche lo Stato debba convertirsi in una sua proprietà privata. Per questo dinanzi al Pd si prospetta la capacità di coniugare un’idea di democrazia e un’idea di società. Occorre, in casi simili, dosare una attitudine alla rassicurazione (anzitutto alla propria parte di società, che deve sentire di non essere sola) e una capacità di progettare sulle idee forza della sinistra un futuro possibile. Un interesse (il lavoro) deve rivelarsi dotato di apertura alla generalità.
I dati Istat o della Banca d’Italia confermano il ruolo che l’esplosione delle diseguaglianze ha avuto nella gestazione della crisi. L’Italia è in crisi soprattutto perché da 20 anni si è verificato un immane spostamento di ricchezza a favore del capitale a detrimento del lavoro dipendente e degli investimenti in innovazione. Le manovre infinite impongono sacrifici recessivi che non correggono questo nodo strutturale e non agevolano la crescita. Per far partecipare per un minimo ai sacrifici anche la parte di società che ha accumulato ricchezze spesso nascondendole al fisco, si devono introdurre tasse (Imu, Iva) che tutti pagano. Ciò comporta una strozzatura delle risorse da dirottare verso il lavoro e l’impresa produttiva. C’è bisogno di una politica di sinistra perché le diseguaglianze sono un fattore di crisi e anche causa di declino economico. La stessa impresa non cresce senza una ampia propensione al consumo. Se per il lavoro con la crisi si torna ai livelli di reddito del 1991 e se il 27% è indebitato è evidente che occorre una svolta che ruoti sui beni pubblici, che non possono deperire senza compromettere la crescita. Servono, anche in una fase di restrizioni di bilancio e obblighi al rigore, originali politiche attive contro le diseguaglianze e inventiva nelle politiche pubbliche per incentivare la crescita inclusiva, con misure per la cultura, l’innovazione, i giovani. Il contrario del mero risanamento ispirato al rigore che, se ha una parvenza di efficacia nella condizione di emergenza, non ha alcun impatto durevole nella gestione della crisi, e anzi rischia di saldare crisi politica e malessere sociale.
Chi sostiene che oggi il Pd si limita a tenere, mentre invece dovrebbe dilagare nei consensi, non ha capito proprio nulla delle dinamiche cieche che accompagnano una crisi di sistema. Il Pasok, comunque, ne sa qualcosa. Se, in tempi di catastrofe politica e sociale, la leadership del Pd riesce non solo a salvare un partito aggredito quotidianamente da potenze nemiche ma persino si candida realisticamente a portarlo al governo in una posizione centrale, essa può svolgere un ruolo storico. Questa è oggi la grande sfida. Altro che chiacchiericci di decadente marca conservatrice sulle rottamazioni dei gruppi dirigenti.

l’Unità 25.6.12
Statuto Pd, pronte le modifiche: Renzi  può candidarsi
L’assemblea nazionale del 13 e 14 luglio introdurrà una norma transitoria che dirà semplicemente che anche altri iscritti al Pd potranno correre alle primarie
di S. C.


ROMA Sarà all’Assemblea nazionale del 13 e 14 luglio che il Pd inizierà ad affrontare formalmente la pratica primarie. E lo farà approvando una norma transitoria allo Statuto che consentirà anche a Matteo Renzi di correre. Attualmente la Carta che regola la vita interna del partito prevede infatti che sia soltanto il segretario a presentarsi a primarie di coalizione utili a decidere chi sarà il candidato alla presidenza del Consiglio.
NORMA TRANSITORIA
Pier Luigi Bersani da tempo va dicendo che non intende nascondersi dietro regole statutarie e ha già dato mandato ai suoi di preparare poche righe da mettere ai voti all’appuntamento che si terrà a metà del mese prossimo. L’ipotesi di scrivere un articolato nuovo è stata infatti accantonata, e il 14 luglio verrà approvata una sorta di deroga, cioè una norma transitoria che dirà semplicemente che anche altri iscritti al Pd potranno correre alle primarie. Al momento si sta discutendo su quali criteri accettare le altre candidature oltre a quella del segretario. Cioè quale quota percentuale di firme (l’ipotesi più quotata è il 10%) di quale organismo dirigente (Assemblea nazionale o Direzione) sia necessaria per poter partecipare. Ma quale che sia la decisione finale, è fin d’ora certo che non impedirà a Renzi di candidarsi.
TETTO ALLE SPESE E ALBO ELETTORI
Le altre regole delle primarie saranno invece decise dopo l’estate insieme alle altre forze che sigleranno la «carta d’intenti». Una viene però data per assodata fin d’ora: verrà stabilito un tetto alle spese che sarà consentito sostenere da parte di ogni candidato. L’ipotesi su cui si ragiona al momento nel Pd è di 250 mila euro.
L’altra norma da discutere insieme agli altri candidati è come garantire la maggior partecipazione possibile impedendo però la possibilità di “infiltrazioni”. Bersani ha annunciato primarie «aperte» e Renzi ha più volte detto che non accetterà regole che restringano il campo dei possibili elettori. Nella segreteria Pd si ragiona sulla possibilità di istituire un Albo degli elettori a cui ci si debba iscrivere almeno una settimana prima del giorno in cui si va a votare, proprio per evitare che militanti e simpatizzanti di forze avversarie si presentino ai gazebo per influenzare in un modo o nell’altro il risultato delle primarie. L’ipotesi dell’Albo è però avversata da Renzi, per il quale ogni cittadino deve poter andare al gazebo e dare lì il proprio nome, senza fare pre-registrazioni. Altrimenti, ha già avuto modo di dire, «sarebbe un tentativo di bloccare la partecipazione».
CARTA D’INTENTI
Ma queste sono questioni che andranno discusse dopo che verrà presentata e siglata una «carta d’intenti». Chi sottoscriverà questo testo entrerà nella coalizione progressista, potrà partecipare alle primarie e discuterne le regole di svolgimento. Bersani intende presentare un primo documento entro luglio, per poi discuterlo in giro per l’Italia da settembre in iniziative in cui saranno coinvolte anche associazioni: «Non sarà un librone. Conterrà le nostre parole d’ordine e gli elementi alternativi al populismo». Conterrà anche l’accettazione di un vincolo di maggioranza da rispettare nella prossima legislatura alla Camera e al Senato: quando ci saranno posizioni differenti, cioè, i gruppi parlamentari delle forze politiche che andranno insieme alle elezioni decideranno a maggioranza come votare in Aula. Questa come anche altre parti della carta d’intenti che comunque alla fine sarà scritta insieme a tutte le forze politiche e associazioni che entreranno nella coalizione progressista lascia presagire che ci sia la volontà di fare di questo passaggio una prima tappa verso la costruzione di un soggetto unitario.
Quanto ai tempi, le primarie dovrebbero svolgersi nel mese di dicembre. Non ci vuole molto a capire che in caso di crisi di governo in estate (e un voto da tenersi entro sessanta giorni dallo scioglimento delle Camere) salterebbe tutto.

l’Unità 25.6.12
Il «Big Bang» e Mary Poppins. Quella citazione «sbagliata»
di Giovanni Carli


L’ALTRO GIORNO RENZI HA CITATO MARY POPPINS. LO HA FATTO ALL’EVENTO FIORENTINO PROIETTANDONE UNO SPEZZONE. La scena è quella famosa del riordino dei giochi. Mary comanda e l’ordine regna, coi birilli a posto e i soldatini lo stesso e le bambole e i vestiti e tutto il resto. I due pargoli restano estasiati ma la metafora del sindaco vuol dire che i problemi non si risolvono a quel modo e la politica non si fa a schiocchi di dita.
Porca miseria! Questo è parlar chiaro. Certo, poteva anche scegliere un tono più soft. Tipo la sequenza dove il Pirata Barbanera trucca le gare di atletica e regala un medagliere da paura allo spiantato college del suo più spiantato amico-professore. Ma non sarebbe stato lo stesso. Intanto perché Julie Andrews è più delicata nei modi di un Peter Ustinov perennemente alticcio. E poi perché la pirateria sportiva, anche solo come simbolo, avrebbe stonato col mito di Fosbury e la sua rivoluzione dorsale.
E allora il punto qual è? Spiace dirlo ma la Poppins è roba seria e non va letta in superficie. Quindi, pazientate e leggete il seguito. Parlando di fragilità dei mercati e di psicologia delle masse, dopo una settantina di minuti dalla sequenza di Renzi c’è uno dei passaggi più potenti che la cinematografia hollywoodiana sia stata mai in grado di concepire. Va bene che il film è del ’64, quando la rivalutazione di Friedrich Hayek o la scoperta di Friedman e Laffer erano là da venire.
Ma quei matti della Disney osarono una sceneggiatura degna di Occupy Zuccotti. Naturalmente si parla della Banca. Con la B maiuscola dove lavora quel senzapalle del babbo. Sono sei o sette minuti d’incanto. In sintesi: il genitore decide di portare seco allo sportello i figlioli per aprire loro un conto coi due penny della paghetta. Gli infanti, che intanto la Poppins ha deviato verso una miscela di valori edonistico-solidali, preferirebbero destinare la somma al mangime dei piccioni. Ne deriva una successione di alterchi finché, in un contesto da altissimo musical, il vecchissimo babbione – palandrana nera, barba lunga e passo incerto – che poi sarebbe il presidente dell’istituto, al grido strozzato «Se crolla la Banca d’Inghilterra crolla l’Inghilterra» sottrae le monetine dalle mani degli innocenti. I quali, a loro volta, se le riprendono fuggendo a perdicollo verso l’uscita mentre il solo scorgere due precoci correntisti darsela a gambe col loro gruzzoletto scatena il più classico dei panici da bolla e la Banca rischia di fallire.
Dei geni! Regista, autori, macchinisti, comparse....dei geni! Sì, d’accordo, poi è venuto Gordon Gekko e dopo ancora Michael Moore. Ma all’origine di tutto c’è lei, quella donna scesa dal cielo a insegnare la parabola dei piccioni. Dunque il problema – sia detto col massimo rispetto – non è mica nel fatto che Renzi abbia scelto, quale colpo ad effetto, di citare un capolavoro come Mary Poppins. Il problema è che non l’ha capito.

La Stampa 25.6.12
Centrosinistra, le lotte interne
Nel Pd incalzato da Renzi spuntano gli esodati di lusso
Molti i non ricandidabili sotto i 60 anni: rischiano di stare senza pensione
di Carlo Bertini


ROMA Certo che con l’aria che tira non possiamo mica farci carico anche di questo problema, perché con i pensionati che non arrivano a mille euro al mese e 120 mila esodati in trepida attesa, se noi ci preoccupassimo di salvare i nostri onorevoli che rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione, ci verrebbero ad aspettare con i forconi e giustamente». Ecco, anche da questa ammissione di Nico Stumpo, il responsabile organizzazione del Pd, si capisce perché il «rottamatore» Matteo Renzi sia così poco benvoluto tra i parlamentari democratici.
Perché nel Pd, infatti, la questione cruciale del limite dei tre mandati (che coinvolge una sessantina di persone più una ventina di big) non solo mette in ansia decine di onorevoli; ma dopo la riforma dei vitalizi dei parlamentari varata a inizio anno, se fossero rimescolate a dovere le liste degli eletti, farebbe nascere per Bersani un problema del tutto inedito: tutti quelli che non verrebbero ricandidati e che non abbiano compiuto 60 anni nel 2013, rischierebbero di restare senza indennità e senza pensione.
E non c’è da stupirsi troppo se il vertice del partito ha già messo nel conto che potrebbe essere costretto obtorto collo a «scaricare», per giusta causa di opportunità politica, un drappello di questi «onorevoli esodati» del Pd. Che comunque riceverebbero una sostanziosa liquidazione dalle Camere e non avrebbero certo difficoltà a ricollocarsi.
Certo, su tutto ciò pesa l’incognita numero uno, quella legge elettorale che se modificata potrebbe far rientrare in auge un sistema camuffato di preferenze. E nei capannelli in Transatlantico da giorni c’è chi contesta a Renzi e co. che senso abbiano i tre mandati per chi ottiene il consenso degli elettori nei collegi, una sorta di «selezione naturale» dei migliori sul campo. Ma se invece restasse il Porcellum, le liste dei nominati resterebbero in mano allo stato maggiore, anche se non si può escludere che il Pd proceda veramente con le primarie per le candidature, come annunciato a più riprese.
«Daremo vita ad una fase di rinnovamento in vista delle prossime elezioni, ma senza rinunciare all’ausilio di qualche preziosa esperienza», è il leitmotiv ripetuto da Bersani all’assemblea dei Circoli Pd, a proposito della formazione delle liste, quale che sia il sistema elettorale. Ma è toccato proprio a Stumpo chiarire dal palco che comunque vada il limite di tre mandati dello Statuto verrà rispettato, salvo un 10% di deroghe, al massimo, come previsto al comma 8 dell’articolo 21. Tradotto, su circa 300 eletti del Pd nel 2008, solo una trentina potranno «ambire» alla deroga. E quelli con tre mandati o più sono in numero ben maggiore, appunto, quasi 35 (su un centinaio) al Senato e 55 (su duecento circa) alla Camera.
E tra tutti questi vi è un congruo numero di potenziali «esodati», che per ricevere la pensione da parlamentare dovrebbero aspettare di aver compiuto i 60 anni. Si dirà: il partito certo non si priverà del traino di big come Franceschini, Letta, Gentiloni, Fioroni, con tre o più legislature alle spalle; ma dietro i front men ci sono tanti altri pezzi forti, come Latorre, Melandri, Minniti, Sereni, Follini, Realacci, Bressa, Maran, Merlo, Tonini, solo per dirne alcuni, tutti cinquantenni che a pieno titolo potrebbero far parte dei trenta «derogati» e non degli «esodati». E anche se i giovani che sgomitano ora temono che per tre mandati alla fine si calcoleranno 15 anni pieni (il che dimezzerebbe la tagliola, facendo uscire solo quelli eletti negli Anni 80 fino al ’96 e non dal 2001 al 2013), al Nazareno frenano subito, «perché col clima che c’è nel paese non possiamo metterci a fare giochetti».
Tenendo conto poi che ci sono una decina di big più titolati a beneficiare della deroga, si capisce come tutti si stiano facendo i conti in vista dell’assemblea nazionale di luglio: che a maggioranza dovrà votare il famoso ordine del giorno dell’altro rottamatore Beppe Civati sul limite ferreo dei tre mandati.
In tutto ciò, il nuovo scossone di Renzi non è certo piaciuto ai due grandi big del partito. D’Alema, il quale nei giorni scorsi non aveva smentito la notizia che non si sarebbe ricandidato di sua sponte, ieri ha fatto capire chiaramente di non gradire pressioni e ingerenze sul suo destino politico. «Decido da solo, come ho sempre fatto nella mia vita e al momento opportuno», ha detto ai suoi il presidente del Copasir. Mentre Veltroni, nei suoi conversari privati, fa notare che questo Statuto del Pd l’ha voluto lui, che nel 2008 quando era segretario il rinnovamento delle liste fu pari al 50%. E che ha molto apprezzato la posizione di Bersani di procedere al rinnovamento con buon senso...

l’Unità 25.6.12
Il Pd si conferma primo partito con il 24,5
Il Pdl al 17,5. Terzo il movimento di Grillo
Voto più liquido La crisi crea elettorati paralleli
Masse di elettori iscritti in una fluttuante geografia del consenso al di fuori delle categorie note
Il «grillismo» esprime in maniera trasversale più politica di quanto possa apparire a prima vista
di Carlo Buttaroni


Se un giorno, improvvisamente, la politica non fosse più lì a sovraintendere ai nostri deboli istinti e alle nostre terribili pulsioni, sarebbe la fine della società come la conosciamo. È grazie alla politica che l’uomo ha potuto progressivamente trovare gli adattamenti alla sua natura sociale, permettendo alla «convivenza sociale» di prendere la forma di ciò che è stato poi chiamato «nazione», raggiungendo una stabilità «culturale», basata sull’utilizzo dello strumento ragione.
Ma oggi la politica è sofferente, scivolosa sugli scenari frammentati sui quali è chiamata a dare risposte. Contesti spigolosi, che spiegano – o almeno tentano di farlo le nuove forme di polarizzazione politica, tra chi esprime il consenso a un partito (nuovo o vecchio che sia) e chi è indeciso o si orienta verso l’astensione. Ancor più sofferente lo è di fronte alla crescita degli «elettorati paralleli», ancora limitati ma in espansione, che non si muovono secondo le tradizionali logiche di corrispondenza sociale e che non possono essere ricompresi in nessuna cultura e in nessun insediamento preesistente. Masse di elettori che esprimono una forte volatilità elettorale, iscritti in una fluttuante geografia del consenso, difficile da collocare nelle tradizionali categorie sociopolitiche.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve fare i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con l’agire, cioè con la capacità di fare delle scelte,
di creare delle idee, di produrre azioni che governino la società e la sua complessità. La crisi della politica, infatti, nasce proprio come crisi dell’agire e si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine, prima al sistema economico, poi all’apparato tecnico, trovandosi in una situazione di adattamento passivo, condizionata da decisioni contingenti che non può indirizzare, ma solo garantire.Un meccanismo distorto in cui la politica non decide e non può incaricare la tecnica di reperire i mezzi. Una tecnica che spinge la politica a prendere semplicemente posizione, lasciando a quest’ultima un ruolo attivo e decisionale solo laddove lei presenta delle lacune o delle insufficienze. Perché la tecnica, dal greco technè «saper fare», «saper operare», non si muove in vista di fini ma solo di risultati e implica l’adozione di un metodo e di una strategia nell’identificazione precisa degli obiettivi e dei mezzi più opportuni per raggiungerli. E questo dovrebbe essere il compito della politica appunto.
SCELTE TROPPO TECNICHE
Se i conti non tornano è perché la malattia cui è affetta la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte che deve compiere. Un’impotenza che si accompagna a un nichilismo lieve, figlio della subordinazione delle idee politiche a semplici ipotesi di lavoro. Un rovesciamento che confonde il funzionamento con il pensiero, la direzione con la velocità. D’altronde, le scelte tecniche, a differenza delle ideologie, non hanno la necessità di dare un senso politico e non si dissolvono nel momento in cui il nucleo teorico su cui poggiano si rivela inefficace. Possono mutare e correggersi senza per questo smentirsi. Gli errori la fanno vacillare, ma non la fanno crollare. Senza politica, persino gli scopi, che regolano le azioni degli uomini e a esse conferiscono «senso», nella visione esclusivamente tecnica possono apparire «insensati». Senza quel significato che solo la politica può dare, l’individuo si trova «altrove» rispetto alla società che ha storicamente abitato. Un’alienazione che rovescia i termini, inaugurando se stessa come soggetto e l'uomo come predicato.
Ma, così facendo, muore l’individuo che, a partire dalla consapevolezza della propria soggettività, si percepisce libero fino ai confini della libertà altrui, uguale agli altri proprio per effetto di questo riconoscimento reciproco. Senza la politica, s’indebolisce l'atomo sociale e deperisce il sistema di valori e principi che, a partire dalle singole individualità, trovano forma in un comune sentire e appartenere. È l’assenza di politica che ha accresciuto le possibilità per il singolo individuo di entrare in rapporto con gli altri e «fare società», senza che ciò implichi un obiettivo comune e un qualsiasi conferimento personale, offrendo in cambio una solitudine globale che lo ha reso inerte di fronte al suo futuro.
IL GRILLISMO
Il punto, quindi, non è Grillo e il «grillismo», che esprime in maniera trasversale più politica di quanto possa apparire a prima vista. Il problema è come ridare forza e ruolo alla politica, restituendole il primato delle scelte e del loro significato, dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso la fiducia nei partiti e nelle istituzioni, minando le basi stesse della democrazia. Non ci sarebbe da stupirsi se, oggi, il voto dovesse trasformarsi in un terremoto politico e in un groviglio inestricabile. I presupposti ci sono nel momento in cui la metà degli elettori non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito e un governo. Come se il cambiamento fosse impossibile. O, peggio, inutile.
Cosa fare allora? Occorre innanzitutto farla finita con la favola della scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra, nel momento in cui crea una società che non possiamo evitare di abitare.
E, soprattutto, occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Il punto d’incontro di un interesse convergente, fondato sul valore intrinseco e intangibile della persona umana e della sua dignità, ma anche declinato su una solidarietà condivisa e incastonata tra le righe di nuovi diritti e nuovi doveri. Un ethos inteso non solo come capacità morale, ma anche come competenza e conoscenza, come stimolo e tensione interiore a operare pubblicamente nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti.
UNA STAGIONE NUOVA
Non è un desiderio astratto quello di dare forma a una stagione nuova. Non è un’illusione il bisogno di dare avvio a un tempo di virtù civiche e morali, di rifondare la società su scelte che pongono la questione morale a fondamento di quella civile, di sapersi far carico dell’idea di bene comune per tornare a una dimensione naturale dell’uomo-sociale. Occorre dare forma alla domanda di un nuovo patto, ispirato al comune sentire di una civile appartenenza, che tragga forza dal desiderio di dirigersi non più verso l’utile individuale, ma verso il bene della comunità, dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di valori e di solidarietà intelligente. D’altronde, politica ed etica sono termini che si chiamano reciprocamente. E non rispondere al bisogno di una rifondazione della politica intorno ai valori condivisi di un ethos civile, che ispiri le scelte e le azioni pubbliche, espone al rischio di allontanare la politica dai cittadini.
Vi è una parte importante della società che esprime un’ansia di rinnovamento che trova progressivamente forma in una politica che riparte dal basso, che inizia a progettare e farsi carico di nuove fondamenta che poggiano su solide basi etiche e morali.
Il deficit, quindi, non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Una perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità multiforme, accompagnata da nessuna ultima istanza che determini la congiuntura e l’evoluzione, da nessun altro vettore di trasformazione che non sia una risultante provvisoria. Un deficit di politica che si riflette nel declino delle grandi organizzazioni politiche, al quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di un’ideologia e di una progettualità di medio/lungo periodo.
IL PARADOSSO
La sfida ultima alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete e dimostrandosi all’altezza della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.
Ma è qui che si consuma l’altro paradosso: il sistema dei partiti, anziché aprirsi e farsi interprete delle nuove istanze, sembra teso a preservare se stesso, incapace di rispondere alle nuove sfide, allontanandosi sempre più dalla società, proprio mentre quest’ultima si avvicina sempre più alla politica. In questa incapacità si nasconde il massimo pericolo. Perché ora è proprio la società civile a chiedere con forza di far tornare il potere nelle mani della politica.

Repubblica 25.6.12
Il fantasma d’autunno nel Paese del Vuoto
di Ilvo Diamanti


SI PARLA troppo di elezioni anticipate, in autunno, per non prenderle sul serio. Anche e tanto più se – nell’attuale maggioranza – nessuno afferma di volerle davvero. Bersani, nei giorni scorsi, ha allontanato l’ipotesi come una iattura.
Una prospettiva a cui penserebbe Berlusconi, per non venire emarginato dal suo stesso partito – che ormai non c’è più. Questa soluzione, però, non risolverebbe nulla. Anzi: aggraverebbe la crisi italiana, di fronte all’Europa, all’euro e ai mercati internazionali. Eppure se si parla di possibili elezioni in autunno il rischio c’è. Perché, comunque, nessuno è in grado di garantire la tenuta e la stabilità della maggioranza parlamentare che sostiene l’attuale governo.
1. L’attuale governo, anzitutto, designato dal Presidente nello scorso novembre e accolto con soddisfazione dai cittadini, da qualche mese ha perduto consensi. Il premier, Mario Monti, dispone ancora del sostegno di oltre il 45% dei cittadini (dati Ipsos). È il più accreditato fra i leader. Ma è in calo sensibile, rispetto agli scorsi mesi. In marzo superava il 60%. In aprile: al di là del 50%. D’altronde, è difficile governare con una maggioranza parlamentare di “emergenza”. Che riassume forze e personalità politiche da sempre ostili, reciprocamente. È difficile fare riforme, assumere decisioni che la maggioranza precedente non era stata in grado di affrontare. Senza generare insoddisfazione. Politica e sociale. Tanto più se la posizione italiana, in ambito europeo e internazionale, resta debole. Perché, allora, tanti sacrifici? Perché “morire per l’euro”? Sono le voci, insistenti, che agitano la scena politica. E trovano ascolto crescente anche fra i cittadini.
2. È difficile, d’altronde, affidare all’attuale maggioranza il compito di sostenere il governo e la legislatura fino in fondo. Perché, semplicemente, è una maggioranza fittizia, matematica, parlamentare. Politicamente divisa e, anzi, attraversata da fratture irresolubili, su molte questioni politiche essenziali. Giustizia, informazione, televisione. I partiti: condizionati dal malessere degli elettori sulle principali riforme: pensioni, lavoro, fisco.
3. Per contro, non si vede come potrebbe emergere una nuova, solida maggioranza, da nuove elezioni. Proviamo a fare un po’ di conti, in base alle stime dei sondaggi condotti dai principali istituti
demoscopici. Il centrodestra non c’è più. Pdl e Lega sono divisi. Ma anche se tornassero insieme non andrebbero oltre il 23-24%. Circa il 17-18% il Pdl e il 4-6% la Lega. Forza Italia, da sola, faceva di più. Il centrosinistra, però, non pare in grado di offrire un’alternativa valida. Perché fra il Pd e l’Idv (sempre più all’opposizione di Monti) il solco è divenuto un abisso, di mese in mese. Perché i tre volti di Vasto, Pd, Idv e Sel, insieme non raggiungerebbero il 40%. Mentre il Terzo polo appartiene al passato, liquidato da Casini. Ma l’Udc non va oltre il 7-8%. E i suoi elettori sembrano riluttanti ad allearsi con uno dei due poli.
4. Così è cresciuto e cresce ancora il quarto polo. Il partito di coloro che ce l’hanno con i partiti. Con il governo Monti, appoggiato dai partiti. Con le oligarchie dei partiti. Il partito di coloro che ce l’hanno con l’Europa dell’euro (marco). Interpretato, oggi, dal Movimento 5 stelle, ispirato da Beppe Grillo. Alle recenti amministrative ha ottenuto un grande successo, che ha diverse spiegazioni. Locali e no. Ma è cresciuto a dismisura, nel corso delle ultime settimane, trainato dall’insoddisfazione degli elettori. Di sinistra, ma anche e sempre più di centrodestra. In primo luogo, della Lega. Il M5s, attualmente, è accreditato di oltre il 20%. Secondo partito, dopo il Pd. In Veneto, tradizionale laboratorio del cambiamento politico nazionale, il M5s è divenuto il partito che dispone della maggior base di “fiducia” fra gli elettori il 26%. A causa della “sfiducia” nei confronti di tutti gli altri, in crollo di credibilità, negli ultimi mesi (Dati dell’Osservatorio Nordest per il Gazzettino, maggio 2012). D’altronde, un larga maggioranza degli elettori (il 43% in ambito nazionale, sondaggio Demos, maggio 2012), vedono nel M5s un mezzo per esprimere “la protesta contro tutti i partiti”.
Il problema del sistema politico italiano, dunque, è il “vuoto” che si è aperto al suo interno. Perché non ci sono partiti e tanto meno coalizioni in grado di aggregare una solida maggioranza di consensi. Tale da garantire non solo la vittoria alle elezioni, ma anche e soprattutto legittimazione, capacità di governare.
5. In questa fase, però, non ci sono neppure santi e protettori, in grado di offrire ai cittadini un
riferimento, una luce, una sponda. O almeno un appiglio a cui aggrapparsi. Negli ultimi anni, questo ruolo è stato svolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che ha guidato il Paese, in tempi tanto duri, affidandone il governo a Monti e ai tecnici. Aristocrazia democratica di una democrazia rappresentativa sempre meno rappresentativa. Ora, però, neppure Monti riesce più a garantire il consenso popolare, intorno a sé. E Napolitano, il suo sponsor principale, ne risente, come mostrano gli indici di fiducia nei suoi, confronti. In calo significativo.
6. Il Vuoto. È la sensazione che provano i cittadini, in questa fase. Di fronte alle vicende dell’economia e dei Mercati. Difficili da comprendere e, quindi, da affrontare. Perché non è chiaro come difendersi – né chi ti può difendere – da minacce sconosciute. Fitch, Standard & Poors, Moody’s e per primo il famigerato spread. L’euro e la Germania.
Così tutto e tutti perdono fiducia. Tutte le istituzioni, non solo i partiti. L’Unione europea, lo Stato, il Parlamento. Ma anche la magistratura, la Chiesa, i sindacati. Così cresce il “Vuoto intorno a noi”. La sensazione di essere soli. Contro tutti. E, insieme, cresce la tentazione di affidarsi a chi è in grado di gridare al mondo la nostra insofferenza e la nostra rabbia. Poi, si vedrà.
7. Per questo le elezioni in autunno sono possibili, se non probabili. E, comunque, le elezioni alla loro scadenza naturale, nella primavera del 2013, non sono una soluzione. Semmai, una deroga, una pausa ulteriore, prima della resa dei conti. Nell’attesa che qualcun altro, oltre a Grillo, si proponga e ci proponga di colmare il Vuoto politico intorno a noi. Perché, echeggiando Aristotele, in politica, ancor più che in natura, il vuoto non può esistere.
Per questo non dobbiamo chiederci se e quando si voterà. Ma per quali partiti – vecchi e nuovi – e per quali leader – vecchi e nuovi. Con quale legge elettorale. Chi ha qualcosa da dire, al proposito, è meglio che lo faccia subito...
Se il Vuoto incombe, la colpa non è di Beppe Grillo.

La Stampa 25.6.12
Nella Capitale
Svastiche al circolo Pd di SanBasilio


La scorsa notte ignoti hanno imbrattato le saracinesche del circolo Pd di San Basilio con svastiche e scritte inneggianti al Duce. Lo hanno fatto sapere Marco Miccoli, segretario del Pd di Roma, e Rocco Palaia, coordinatore del Circolo Pd San Basilio. «È la prima volta in assoluto - sottolineano - che il circolo viene preso di mira in questo modo. Mentre non è assolutamente la prima volta che un circolo del Pd di Roma è fatto oggetto di violenze e intimidazioni. Anzi, il gesto avviene in un contesto ormai da anni degenerato per cui chiunque si sente di poter impunemente colpire la principale forza di opposizione al malgoverno di Alemanno». «Mentre il partito democratico è impegnato nella lotta contro il degrado e la criminalità in uno dei quartieri più problematici di Roma - affermano ancora Miccoli e Palaia - i fascisti alzano il tiro proprio sul terreno della minaccia e proprio in quei territori dove più forte dovrebbe essere la denuncia contro la delinquenza. È evidente che ci sono gruppi che mirano ad avvelenare il clima». Il Campidoglio ha fatto sapere di aver subito fatto cancellare le svastiche.

La Stampa 25.6.12
“Per rilanciare l’economia bisogna aprire i confini”
Peter Sutherland: l’Europa ha bisogno della forza degli immigrati
di P. Mas.


La prima cosa che deve fare l’Europa, se vuole preservare la sua prosperità economica nel futuro, è abbandonare «l’omogenità etnica». In altre parole, aprirsi o rassegnarsi ad un flusso massiccio di immigrazione che rappresenta l’unica vera strada percorribile per rivitalizzare la produttività e la crescita. E’ la provocazione lanciata da Peter Sutherland, rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per i temi delle Migrazioni Internazionali e lo Sviluppo, intervenendo davanti alla House of Lords del Parlamento britannico.
Di primo acchito, verrebbe la tentazione di liquidare questa sfida come la solita uscita multietnica del Palazzo di Vetro, ideologica e lontana dalla realtà. Ma come? Noi lottiamo con la sopravvivenza dell’euro, la crisi del debito, la recessione, e questi parlano di immigrazione? Basta guardare la biografia di Sutherland, però, per convincersi che le cose non stanno così: presidente di Goldman Sachs International, ex presidente della British Petroleum, ex ministro della Giustizia in Irlanda, ex direttore generale del GATT e della Wto, ex commissario europeo per la competizione, presidente della London School of Economics, assiduo frequentatore delle riunioni del Bilderberg Group e della Trilateral Commission. In altre parole, uno che viene dal cuore del capitalismo occidentale liberista. Ora guida anche il Global Forum on Migration and Development dell’Onu, e in questa veste è stato chiamato al Parlamento di Londra per dare consigli.
Tanto per cominciare, Sutherland ha spiegato ai Lords che «l’immigrazione è una dinamica cruciale per la crescita in alcune nazioni europee, per quanto possa essere difficile spiegarlo ai cittadini». Il motivo ovvio è l’invecchiamento della popolazione, che in molti paesi del Vecchio Continente come l’Italia sta diventando una piaga sociale. Da anni il Palazzo di Vetro pubblica studi in cui ci invita ad aumentare gli immigrati, per conservare la forza lavoro e pagare pensioni e stato sociale. Poi ci sono l’energia e la creatività che portano persone alla disperata ricerca di un futuro migliore. «Sono argomenti chiave - ed esito ad usare questa parola perché è stata spesso attaccata - per lo sviluppo di stati multiculturali. E’ impossibile considerare che il grado di omogeneità implicito nell’argomento contrario al mio possa sopravvivere: gli stati devono diventare più aperti. Proprio come ha dimostrato la Gran Bretagna».
Di fronte alla richiesta di spiegare come mai i livelli di occupazione degli immigrati sono più alti nei paesi occidentali non europei, Sutherland ha risposto così: «Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, sono società di immigrati. Riescono ad accomodare più prontamente coloro che vengono da altri background, rispetto a noi, che continuiamo a coltivare il senso della nostra omogenità e differenza dagli altri». Il problema è così serio, e ormai in fase così avanzata, che non abbiamo più il tempo per scegliere: «Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento, dai paesi che selezionavano gli immigrati, agli emigranti che selezionano i paesi. E la capacità dell’Europa di competere a livello globale per attirare questi lavoratori è a rischio». Abbiamo perso così tanto terreno che domani, aprendo i confini, potremmo non trovare più nessuno disposto a entrare.

Corriere 25.6.12
La scure dell'Europa carolingia che può spaccare in due l'Italia
Ora il ritardo del Sud minaccia anche il Nord: l'unità è a rischio
di Paolo Macry


Giorni fa, il «Financial Times» — l'autorevole «Financial Times», come usa dire — ha soffiato sul fuoco dell'orgoglio padano, affossando al tempo stesso la residua autostima dei meridionali. Per alcuni leader continentali, ha spiegato il columnist Tony Barber, la taglia ideale dell'Unione Europea non è il grande impero romano, ma quell'impero di Carlo Magno che non andava oltre la Francia, i Paesi del Benelux, la Germania e l'Italia del Nord. Alle nostre orecchie, le parole di Barber evocano una disunità che ci riporterebbe indietro di centocinquant'anni, prefigurando un Nord felicemente mitteleuropeo, ma anche un Sud fragile nelle strutture economiche, troppo poco produttivo per il suo livello di vita, afflitto da debolezze politiche e civili, ininfluente sul piano internazionale. Una sorta di seconda Grecia.
Sono ipotesi remote, si dirà, mai seriamente prese in considerazione dal senso comune e dalla politica, neppure nelle stagioni più radicali della Lega di Bossi. E tuttavia esse mettono il dito sulla più antica delle nostre piaghe, il dualismo. Dopo tutto, c'era voluto Garibaldi per imporre uno Stato nazionale dalla Sicilia alle Alpi, forzando le radicate diffidenze di altri padri della patria, come Cavour, nei confronti del Sud della penisola. L'Italia unita nasceva nel segno di una forte diversità territoriale, che ne avrebbe condizionato pesantemente la storia. E se è vero che il Paese ha potuto convivere con la questione meridionale per un secolo e mezzo, ottenendo nel frattempo straordinari successi economici, civili e geopolitici, resta il fatto che quel confine interno appariva vistoso già nel 1861 e vistoso rimane all'inizio del Terzo Millennio. Salvo che oggi la grande frattura deve fare i conti con una crisi epocale del Paese. O forse è il Paese a dover fare i conti, finalmente, con la grande frattura.
Al tema del dualismo Carlo Trigilia dedica ora un volume stringato e lucido, che già dal titolo (Non c'è Nord senza Sud, Il Mulino) sembra prendere nettamente le distanze da ogni prospettiva antiunitaria. Tanto più nelle attuali circostanze, scrive l'autore, «non è possibile immaginare una vera svolta in direzione di una crescita solida dell'Italia se non verrà sciolto il nodo del Mezzogiorno». Parole che sembrerebbero riproporre la classica richiesta alla politica nazionale di farsi carico con maggiore generosità dei problemi del Sud.
Ma Trigilia non ha alcuna attitudine rivendicativa ed è lontano anni luce dall'idea di un Mezzogiorno in credito nei confronti del Paese. Il quadro che le sue pagine disegnano del Sud ricorda, semmai, la consapevolezza autocritica del migliore meridionalismo. Le stesse policies dedicate a quei territori nel corso del tempo gli appaiono, malgrado l'enorme impegno finanziario, prive di effetti decisivi, se non controproducenti. La strategia dell'industrializzazione, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, edifica sterili cattedrali nel deserto e ostacola la nascita di una piccola impresa locale. I provvedimenti a sostegno dei redditi familiari, negli anni Ottanta, migliorano il tenore di vita della società locale, ma ne accentuano una devastante dipendenza dalla politica e ne stroncano la produttività. E così via.
Il Sud di Trigilia, pur con tutta l'empatia dell'autore, finisce per essere un grande circuito vizioso, dove la mancanza di crescita economica è surrogata dalla mediazione politica e dove la debolezza dei meccanismi selettivi del mercato (ivi compreso quello elettorale) produce servizi inefficienti, spreco di denaro pubblico, sopravvivenza artificiosa di élite locali spesso mediocri. Per parte sua, la politica nazionale sembra accettare di buon grado certi vizi meridionali e, anzi, li promuove. Se il Sud viene foraggiato con crescente generosità lungo tutti i decenni repubblicani (ma anche prima, direbbe uno storico), è perché si presenta come «un esercito elettorale di riserva», il quale riesce utilissimo alla stabilità politica del Paese e delle sue classi dirigenti. Lo scambio tra centro e periferia — risorse statali contro consenso — appare inossidabile nel tempo e di reciproca soddisfazione.
Il punto, tuttavia, è in quale misura un simile modello sia compatibile con le circostanze eccezionali della crisi odierna. Tradizionalmente, e fino a pochi anni fa, il dibattito verteva sulle risorse e sui modi per portare il Sud ai livelli del resto del Paese. Tuttora, istituti come la Svimez e presidenti regionali come Nichi Vendola o Raffaele Lombardo appaiono convinti che il problema sia un impegno finanziario per il Mezzogiorno ritenuto insufficiente. Ma il dato significativo è che oggi acquistano sempre maggior peso valutazioni di segno opposto, le quali tendono piuttosto a vedere il Sud come un potente elemento di freno per le aree più avanzate (e dunque per la crescita del Paese). Al proposito, Luca Ricolfi ha parlato di un vero e proprio «sacco del Nord», quantificando in alcune decine di miliardi l'anno i trasferimenti che, sotto forma di prelievo fiscale e di spesa pubblica, vanno dalle regioni settentrionali a quelle meridionali. Il territorio da salvare, osserva Ricolfi polemicamente, è il Nord, non il Sud.
Si tratta di un cambio radicale, nell'analisi del dualismo: dal problema del ritardo meridionale al problema del depauperamento settentrionale. Ne è consapevole Trigilia, che prende le distanze dalla tesi dello sfruttamento del Nord, perché sottovaluterebbe il ruolo svolto storicamente dal Sud nella crescita del Settentrione, ma soprattutto dissente dal rivendicazionismo del ceto politico meridionale. Conti alla mano, il Mezzogiorno ha goduto per decenni di trasferimenti netti molto cospicui e non è perciò ragionevole imputare i suoi problemi alle attuali minori entrate: il punto non è la quantità delle risorse, ma il loro cattivo utilizzo. In fondo, tra 1996 e 2009, le imprese meridionali sono state ricoperte d'oro: oltre cento miliardi, tra incentivi e crediti d'imposta. Per non parlare dei fondi strutturali europei, che, tra 2000 e 2013, ammontano ad altri novanta miliardi (e vengono spesi soltanto in piccola parte).
Mai come ai giorni nostri il Mezzogiorno non è — o non è soltanto — un problema di coesione solidaristica. Sono troppe le criticità del modello italiano che nascono a Sud, perché la riforma del Paese non dipenda in primo luogo dalla riforma del Sud. Recuperare efficienza al sistema, accrescerne la produttività, ridurre la pressione fiscale, sconfiggere le mafie significa né più e né meno che agire sui territori dove inefficienza, spesa improduttiva, evasione fiscale e criminalità sono soprattutto diffuse. Se «non c'è Nord senza Sud», è perché il Paese e le sue aree più avanzate non avrebbero alcun futuro ove mai il Mezzogiorno restasse quello che è.
Naturalmente, il brusco passaggio dalla vittimizzazione alla colpevolizzazione del Sud promette di avere conseguenze politiche. Anche uno studioso come Trigilia, che non ha mai mostrato tendenze statalistiche, riconosce che la soluzione della questione meridionale non può essere gestita all'interno di quei territori, ma va presa in consegna dalle istituzioni centrali. È questa la leva che permetterà di sollevare il macigno del dualismo. Vent'anni fa, Trigilia aveva creduto che il «keynesismo perverso» delle politiche per il Sud potesse venir superato dalla nuova leva dei sindaci ad elezione diretta, che per qualche tempo suscitarono un forte consenso popolare. Ma quella stagione si è rivelata mediocre e talvolta fallimentare, come lo stesso sociologo ammette, sicché oggi la sua ricetta appare diametralmente opposta: non più fiducia agli enti locali, ma richiesta di uno Stato centrale forte e capace di tenere sotto controllo proprio quei poteri locali che spesso hanno dato cattiva prova di sé.
Anche questa, tuttavia, sembra una strada in salita. Finché il Sud verrà utilizzato come serbatoio di consensi dalla politica, è poco realistico pensare che sia la politica a metterlo in riga, rischiando di perderne i voti. Gli stessi recenti tentativi di imbrigliare l'allegra finanza meridionale nascono dalla grave situazione erariale e non da un cambio di strategia di governo e Parlamento. Necessità, più che virtù.
Ma intanto, come spiegava il «Financial Times», c'è chi comincia a fare i conti senza il Sud. Complice la crisi, diventa sempre più chiaro che l'Italia non andrà molto lontano, restando per metà Germania e per metà Grecia. L'ombra di un impero carolingio, che si ferma alla Linea Gotica, va presa sul serio.

Repubblica 25.6.12
Stato-mafia, giallo sulla lettera che dette il via alla trattativa “Sparita dagli archivi del Colle”
D’Ambrosio a Mancino: l’ho cercata, non si trova più
di Salvo Palazzolo


PALERMO — Un’altra prova della trattativa mafia-Stato è scomparsa, chissà da quanto tempo. E questa volta, il giallo è nel palazzo più autorevole d’Italia, il Quirinale. Non si trova la lettera di minacce che i familiari di alcuni boss detenuti inviarono all’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nel febbraio 1993. Secondo i magistrati di Palermo, quel documento avrebbe segnato l’avvio della trattativa sul carcere duro, poi conclusa a novembre, con la mancata proroga di 300 provvedimenti di 41 bis firmata dal ministro della Giustizia Giovanni Conso. Nei mesi scorsi, una copia della lettera era stata trovata quasi per caso dai pm di Palermo, nell’archivio del ministero della Giustizia. Adesso, da una telefonata intercettata fra l’ex ministro Nicola Mancino e il consigliere della presidenza della Repubblica Loris D’Ambrosio, i magistrati scoprono che l’originale della lettera non è custodito nell’archivio centrale del Quirinale. Il dialogo è del 25 novembre 2011.
L’APPUNTO FANTASMA D’Ambrosio ( D): «Questo può essere l’unico tema nuovo». Mancino ( M): «Ma a me Parisi (l’allora capo della polizia, ndr) non mi ha mai parlato di lettere». D: «Il problema è: questa lettera inviata a Scalfaro, non so poi gli altri destinatari, dovrebbe stare pure qua. Io questo ragiono. Cioè, voglio dire, nell’archivio di Stato, nell’archivio no di Stato, nell’archivio centrale nostro, cioè dove noi versiamo tutto ciò che arriva al capo dello Stato. Quindi, la cosa strana è che qui io posso dire che non è mai arrivata una richiesta di questo genere… cioè per trovare questa lettera, e vedere se Scalfaro ci aveva scritto un appunto, qualche cosa boh, non lo so». Evidentemente, dopo la notizia di quella lettera di minacce a Scalfaro ritrovata casualmente dai pm, anche il Quirinale avrebbe fatto una verifica nel proprio archivio. E non è emerso proprio nulla, con grande sorpresa di D’Ambrosio. UN DIALOGO A TRE La telefonata fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio prosegue con delle considerazioni che i pm di Palermo ritengono molto importanti. I due autorevoli interlocutori ipotizzano che il presidente Scalfaro potrebbe aver voluto agire con grande discrezione sul tema del 41 bis, coinvolgendo solo poche persone: l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi e l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. È lo stesso sospetto dei magistrati, che nel loro atto d’accusa coinvolgono «in concorso » per la trattativa anche i defunti Parisi e l’ex vice capo del Dap Francesco Di Maggio, il braccio operativo di Conso. M: «Ma a me Scalfaro non ha mai detto niente. Ma anche Parisi non mi ha detto che ci si doveva preoccupare di un alleggerimento». D: «Sì, ma questo è avvenuto, in maniera diversa…». M: «Si vede che è avvenuto attraverso colloqui». D: «Sì, sì». M: «Diciamo interpersonali… se non colloqui fra persone affidabili da parte del presidente dell’epoca». D: «Uh, uh». M: «Quindi Parisi, quindi Conso ». D: «Certo è chiaro».
LA MISSIVA DEL MISTERO
Una copia di quella lettera inviata a Scalfaro (e per conoscenza anche al Papa, ai ministri della Giustizia e dell’Interno, a Maurizio Costanzo e Vittorio Sgarbi) è adesso agli atti dell’inchiesta sulla trattativa.
Ma come dice D’Ambrosio, sarebbe stato importante leggere l’originale del documento, magari con gli appunti del presidente Scalfaro. Per comprendere cosa accadde dopo. I pm hanno più di un sospetto: la presidenza della Repubblica avrebbe caldeggiato la sostituzione dei vertici del Dap: disarcionato Nicolò Amato, nel giugno ‘93, arrivarono Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio. Con una nota scritta consigliarono subito al ministro Conso di non prorogare 300 provvedimenti di 41 bis, «al fine di assicurare un segnale positivo di distensione», scrissero. A novembre, Conso eseguì: oggi dice però che fu una sua iniziativa personale. Ed è il motivo per cui l’ex ministro della Giustizia e l’ex capo del Dap, Capriotti, sono accusati a Palermo di false dichiarazioni.

Repubblica 25.6.12
Francesco Di Carlo, ex padrino oggi collaboratore di giustizia e grande accusatore di Dell’Utri: vent’anni fa rapporti ad altissimo livello perché così conveniva a tutti
Il pentito: quante carriere costruite grazie ai contatti con i boss
Intervista di Enrico Bellavia


«Leggo di trattative e di rapporti ad altissimo livello e non mi stupisco affatto».
Parla così Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte, collaboratore di giustizia, uno dei principali accusatori di Marcello Dell’Utri, unico testimone oculare di un incontro tra Berlusconi e il capo della mafia palermitana, Stefano Bontate.
Di trattative è un esperto. Negoziava con la creme della società siciliana, portando in dote ai Corleonesi opportunità e impunità. Vantava un rapporto personale con il generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi negli anni più bui del Paese. Quando era un detenuto, in Inghilterra, manteneva un filo diretto con la sua cosca attraverso Nino Gioè, lo stragista di Capaci, morto suicida in cella. Al suo luogotenente consegnò la richiesta di un contatto con il
fronte più sanguinario di Cosa nostra che i servizi avevano rivolto a lui quando c’era da uccidere Falcone. E poi, dopo le stragi del 1992, fu informato costantemente da Gioè sugli sviluppi dei rapporti instaurati con pezzi dello Stato.
«È semplice: Cosa nostra senza un rapporto con le istituzioni sarebbe stata una semplice associazione di malfattori. Noi eravamo uno Stato dentro lo Stato».
«Sarà sempre così, fin quando certi personaggi pubblici si comporteranno come appartenenti a una associazione mafiosa».
«Non solo, anche professionisti di peso, gente che dentro Cosa nostra c’è sempre stata e che magari non poteva essere ritualmente affiliata».
«Uomini che sapevano benissimo che Cosa nostra gli assicurava la carriera. E loro erano contenti. Oggi li chiamano concorrenti esterni anche se qualche magistrato dice che quel reato non esiste. Mi viene da ridere».
Mai agli uomini di Cosa nostra non è vietato avere rapporti con le divise?
«Ogni divieto può essere trasgredito se c’è un interesse. Al processo Mori mi ha molto stupito la scelta del generale Subranni che ha preferito tacere. Questo la dice lunga sui personaggi ai quali si sono affidate le istituzioni. Antonio Subranni è stato al centro delle più importanti inchieste in Sicilia e si comporta come quei soggetti di cui parlavo sopra, i mafiosi non affiliati».
Ha scelto di tacere perché è indagato. Cosa c’è di strano?
«Forse temeva che gli chiedessero come mai in dieci anni, è passato da maggiore a generale. Forse temeva che
gli chiedessero quali fossero i suoi amici, erano forse Salvo Lima e Nino Salvo? ».
«A me risulta di sì, e loro erano canali diretti di Cosa nostra con il potere».
E lei, attraverso i suoi canali, ha saputo se la decisione di uccidere Borsellino era legata proprio al suo no alla trattativa?
«Non credo che sia solo questo. So che dentro le istituzioni c’era una guerra aperta: da un lato gli uomini degli apparati, servizi compresi, dall’altro Falcone e Borsellino e investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli, ai quali i due giudici avevano delegato le indagini tagliando fuori tutti gli altri. Voi credete davvero che quella gente, con tutti i contatti che aveva dentro Cosa nostra, sia rimasta con le mani in mano ad aspettare che li arrestassero come accaduto con Contrada?».
Senza quegli agganci Cosa Nostra sarebbe stata una semplice associazione di malfattori. Ma noi eravamo uno Stato dentro lo Stato

La Stampa 25.6.12
Il Papa sceglie un diplomatico al posto del cardinal Bertone
Benedetto XVI vuole dare una svolta alla politica vaticana, dopo la stagione dei veleni
di Giacomo Galeazzi


CITTÀ DEL VATICANO Inizia la «fase due» del pontificato. Benedetto XVI intende riportare la diplomazia al vertice della piramide vaticana e in Segreteria di Stato si appresta a sostituire Tarciso Bertone con un nunzio apostolico.
I cinque cardinali consultati sabato pomeriggio hanno convenuto sui nomi di due ambasciatori papali di grande esperienza come Luigi Ventura (attualmente a Parigi) e Pedro Lopez Quintana (spagnolo, ora in Canada). Certo, i tempi del Papa non sono quelli della cronaca e Ratzinger è innanzi tutto impegnato a capire la situazione e seguire gli sviluppi delle indagini sulla fuga di documenti, «in vista di una maggiore serenità e unità nella Chiesa», puntualizza il portavoce vaticano padre Federico Lombardi. Però, a quanto pare, il dato è tratto. Pell e Ruini gli hanno consigliato l’avvicendamento di Bertone. Una soluzione sottoscritta anche dal fidatissimo, don Georg, sempre più ascoltato dal Pontefice. Tomko, Ouellet e Tauran sono stati più prudenti pur concordando su criticità e lacune della presente «governance».
Benedetto XVI vuole porre termine alle lotte di potere tra ecclesiastici ed è palese che abbia incontrato i capidicastero in mattinata e poi 5 esperti porporati nel pomeriggio per ascoltare pareri diversi ed essere aggiornato sulla situazione, ma anche a titolo di consultazioni, in vista della scelta di un nuovo segretario di Stato. Il cambio della guardia potrebbe avvenire ad ottobre o a dicembre.
La commissione cardinalizia d’inchiesta e i magistrati proseguono interrogatori ed indagini su «Vatileaks»: le implicazioni della fuga di documenti stanno evidenziando una situazione di ingovernabilità in Curia. Insomma, la misura è colma e serve un segnale di discontinuità. Ovviamente Benedetto XVI non prende decisioni di nessun tipo, tanto meno compie scelte strategiche come questa, sulla spinta di scandali o pressioni mediatiche. Ma il Sacro Collegio si sta ricompattando attorno al Papa anche alla luce della sua capacità (già dimostrata nella bufera pedofilia) di invertire la rotta rispetto a prassi consolidate Oltretevere e ad inveterati errori.
La rinuncia all’incarico Bertone l’ha regolarmente presentata al compimento dei 75 anni, il Papa l’ha respinta. Lo scorso maggio ha rinnovato la fiducia al suo primo collaboratore. Insomma, l’età non c’entra. Sulla carta, se Benedetto XVI lo desidera, il porporato piemontese può essere segretario di Stato. Né conta a quanti anni abbia lasciato la poltrona il suo predecessore. Bertone compie 78 anni a dicembre mentre Sodano abbandonò la segreteria di Stato un mese e mezzo prima di raggiungere la soglia dei 79. Inoltre Sodano era stato ereditato da Benedetto XVI, e ogni nuovo Papa, nei tempi opportuni, si sceglie il segretario di fiducia. Dunque la questione non è anagrafica, è altra. Non di forma, ma di sostanza. Dopo una snervante faida curiale tra bertoniani e sodaniani, Benedetto XVI vuole voltare pagina e cerca una leadership più collegiale e condivisa, un «premier» con uno stile più sobrio da «primus inter pares». Il Papa teologo e pastore sta affrontando un problema globale che coinvolge fondamentali aspetti di «governance». Quindi, non può essere tutto essere ridotto al cambio o meno di una persona, fosse pure il segretario di Stato. Per questo il Papa pensa di accelerare i tempi per attuare quella riforma della Curia attesa da quattro decenni. Meno burocrazia e più coordimento. Tutti dovranno essere per definizione e di fatto «al servizio» della Chiesa. L’immagine dirompente delle infinite lotte di potere danneggia la Chiesa ratzingeriana della predicazione e della «purificazione». Joseph Ratzinger, sottolinea Lombardi, ha ben presente come il segretario di Stato svolga un ruolo centrale. Il passaggio del testimone al Palazzo Apostolico è una scelta ponderata, non un provvedimento punitivo né un siluramento di un porporato che già all’ex Sant’Uffizio era il braccio destro di Ratzinger. E’ la presa d’atto che a mutate esigenze corrispondono risposte nuove. La fughe di notizie hanno indebolito Bertone, non il Papa. Un governo tecnico di «decantazione» appare l’unica via d’uscita dall’odierna palude di corvi e veleni. Nel frattempo, come già per gli fronteggiare gli scandali finanziari, la Santa Sede si blinda affidandosi al blocco d’ordine dell’Opus Dei. Prima il cardinale Julian Herranz alla guida della commissione d’inchiesta su Vatileaks, ora il giornalista Greg Burke «advisor» della comunicazione.

Corriere 25.6.12
«Così avvicinerò il Vaticano alla Rete»
di Luigi Accattoli


CITTÀ DEL VATICANO — «Speriamo che io possa fare qualcosa, mi rendo conto delle difficoltà e non ho motivi per montarmi la testa»: parla così il giornalista statunitense Greg Burke, 52 anni, che è stato nominato "advisor per la comunicazione" e che avrà un ufficio all'interno della Segreteria di Stato Vaticana. Burke era ultimamente corrispondente da Roma per Fox News e lo era stato in precedenza per altre agenzie e per il settimanale Time. Un suo suggerimento — quando lavorava per Time — fu all'origine dell'attribuzione della qualifica di «uomo dell'anno 1994» a Giovanni Paolo II da parte di quel settimanale. Un mese dopo quel riconoscimento ero accanto a Burke sull'aereo che portava Papa e giornalisti a Manila quando qualcuno gridò a Wojtyla: «Santità, Time l'ha scelta come uomo dell'anno... ». «Già passato, passato» rispose sornione Giovanni Paolo e sornione si mostrava anche Burke che glissava sui complimenti dei colleghi: «Non sono io che decido l'uomo dell'anno». È ragionevole immaginare che in Vaticano si siano ricordati di quell'episodio di buon vicinato con i media quando hanno cercato un rimedio ai casi di «cattiva comunicazione» intervenuti in tempi recenti. Burke è un uomo dell'Opus Dei, un giornalista professionista, un americano.
Sarà stato scelto perché è americano e dall'America viene sempre la prima critica alla comunicazione vaticana...
«È vero che sono americano ma è anche vero che da un mese ho la cittadinanza italiana. Non c'era collegamento tra le due cose: quando facevo la pratica per la cittadinanza vostra — sono 24 anni che vivo a Roma — non sapevo ancora di questa possibilità. La cittadinanza l'ho avuta il 4 maggio e la proposta del Vaticano è arrivata un mese dopo. La decisione è stata poi del 10 giugno».
Che si propone di fare?
«Io vedo la comunicazione della Santa Sede come una grande nave che manovra lentamente. Non entrerò certo in questa macchina al modo che fanno i marines, so che devo entrarvi con prudenza. So che per me è una sfida. Da un quarto di secolo mi occupo come giornalista delle attività della Santa Sede e sarà ora per me interessante vedere quelle attività dall'interno».
Ha un piano d'azione?
«Non ho piani e neanche illusioni ma spero di poter dare una mano perché quell'antica macchina comunicativa possa fare qualche passo avanti. Considero la mia stessa nomina come un passo e lo dico oggettivamente, senza tener conto dalla mia persona. La mia nomina rivela l'avvertenza della necessità di prestare attenzione ai media non solo nel momento della comunicazione ma già in quello della preparazione di quanto verrà comunicato. Non sono un esperto di pubbliche relazioni ma so che cosa cercano i giornalisti, sono abituato a monitorare lo scenario informativo, ho qualche competenza per capire su che cosa andrà a cadere una parola che si dice o una notizia che si dà. Posso dire: stiamo attenti a questo, ricordiamoci di quest'altro».
Un laico tra i preti non è come un agnello tra i lupi?
«Spero di no ma so bene che non entro in quell'ambiente così esigente con la veste di un prete o di un vescovo e in più per quel mondo io sono anche giovane. Prevedo che qualcuno non amerà ascoltare un "giovane laico". Perché si tratterà di questo: io potrò dare consigli ma non avrò competenze decisionali».
Si dirà che l'hanno imposta i vescovi americani seccati della cattiva immagine mediatica che viene da Roma…
«Chi lo dice sbaglia. Un aspetto americano nella faccenda c'è ma non riguarda la mia provenienza, riguarda piuttosto la dominante anglofona del mondo di internet. Non sarebbe giusto e neanche vero che uno dica: gli americani sanno quello che i curiali non sanno, date dunque la faccenda in mano a un americano. Ma è vero che quanto la Curia dice e fa — magari in latino, o in inglese classico — va oggi verso un mondo che parla l'inglese di internet. Io li aiuterò a tener conto di questo mondo».

l’Unità 25.6.12
La sfida e i rischi dell’Islam politico
Bisogna fare i conti con questa realtà. La speranza è che
il nuovo corso egiziano guardi verso Ankara e non a Teheran
di Umberto De Giovannangeli


Comunque lo si guardi, il risultato delle elezioni in Egitto segna un passaggio d’epoca. Nulla sarà più come prima in Medio Oriente.
Per la prima volta, e nel più popoloso e nevralgico Paese arabo, ad essere eletto alla massima carica dello Stato è l'esponente del più radicato movimento islamico mediorientale: i Fratelli Musulmani. Mohamed Morsi, 61 anni, è stato eletto in elezioni libere, «certificate» come tali dall'intera comunità internazionale, Usa ed Ue in testa. Ha vinto con oltre 900mila voti in più del suo sfidante, l'ex premier dell’«ultimo Faraone» (Hosni Mubarak), Ahmad Shafiq. La vittoria di Morsi non è un ritorno al passato, né deve essere letta come il tradimento della «Primavera araba». Non è un caso che la festa sia esplosa in Piazza Tahrir, il luogo simbolo della rivolta che ha portato alla fine di uno dei regimi più longevi nel mondo arabo. Certo, Morsi non è l’espressione dello «spirito di Tahrir» ma la sua elezione non rappresenta il trionfo del fondamentalismo islamico. Il segno è altro: è quello di un Islam politico che è chiamato a fare i conti con una realtà che non può essere piegata a una visione angusta, forzata, da Stato teocratico. Quel voto non sa di restaurazione. Alla «Primavera araba» non ha fatto seguito l'«Inverno islamico».
Il futuro dell’Egitto dipenderà molto dalla coesistenza, tutta da realizzare, tra il neo presidente islamico e i militari. Un passaggio cruciale, uno snodo decisivo. Che chiama in causa il neo eletto presidente e sollecita le sue capacità di mediazione. Ingegnere formatosi negli Stati Uniti, Mohamed Morsi è stato membro del Parlamento dal 2005 come deputato formalmente indipendente ed è diventato il candidato dei Fratelli musulmani dopo che al leader Khairat Saad El-Shater è stata vietata la candidatura dalla commissione elettorale. Favorevole al libero mercato, ma sostenitore della promozione di maggiori servizi sociali, Morsi ha dichiarato di voler ridurre la disoccupazione in Egitto fino al 7%, abbassare il tasso d'inflazione e i debiti del settore pubblico. Morsi ha proposto anche un sostegno agli egiziani poveri attraverso un aumento della tassazione del 2 per cento. Sul fronte estero, il leader della Fratellanza promette sostegno ai palestinesi «nella loro lotta legittima», migliori relazioni con i Paesi arabi del Golfo persico, e di voler mettere fine al rapporto di subordinazione dell'Egitto agli Stati Uniti, oltre a incoraggiare gli investimenti europei nel Paese. Sul piano religioso, Morsi ha promesso di non voler trasformare l'Egitto in una teocrazia e di voler rispettare i diritti delle altre religioni, pur riservando all'Islam una parte centrale del governo. Per vincere al ballottaggio, ha cercato di attrarre i voti dei rivoluzionari e di presentarsi come l'unico candidato che avrebbe impedito il ritorno degli uomini del regime di Mubarak: i risultati lo hanno premiato. Ma ora inizia il difficile. La prova del governo.
Una prova il cui esito dipenderà anche dall’atteggiamento della comunità internazionale, e in essa dell’Europa. La vittoria di Morsi sta a significare piaccia o non che l’Islam politico è una grande realtà con cui è necessario fare i conti. L’errore da non ripetere è imboccare la strada rivelatasi in passato tragicamente fallimentare del muro contro muro. Per l’Europa esistono determinati standard che non sono rinunciabili. L’islamismo politico va sfidato su questo terreno. Una sfida che parte dal rispetto delle scelte compiute, attraverso il voto, dal popolo egiziano. Sarebbe sciagurato, e foriero di disastri, il solo pensare che un partito che guida un Paese di cento milioni di persone, fondamentale per l'equilibrio del Mediterraneo, non sia un interlocutore per l’Europa. Favorire una «istituzionalizzazione» dell’Islm politico è nell’interesse dell’Europa e quanti hanno seriamente riflettuto sul disastro provocato dall’ideologia neo con, quella dello «Scontro di Civiltà», della «democrazia portata dall’esterno», anche con la guerra (Iraq docet). La speranza è che il nuovo corso egiziano guardi verso Ankara e non a Teheran. Che faccia tesoro del «modello Erdogan»: quello di una Turchia che scommette sulla capacità di coniugare modernità e tradizione, declinando l’Islam politico in termini di crescita sociale, sviluppo economico, piena secolarizzazione. È la sfida che attende Mohamed Morsi.
Le sue prime parole da presidente confortano questa speranza. Sta a lui ora dimostrare, con i fatti, di non voler trasformare la prima scelta libera del popolo egiziano in un referendum fra Islam e Controrivoluzione. Così come decisivi saranno i prossimi mesi, nei quali dovrà essere definito il testo di una nuova Costituzione che indichi con chiarezza gli stessi poteri del Presidente. L’Egitto ha scelto molto più di un nuovo capo dello Stato: ha scommesso sul consolidamento del processo democratico. Una sfida di libertà che il neo presidente come i militari non possono tradire. Indietro non si torna.

Corriere 25.6.12
Il vicino islamista
di Franco Venturini


Non inganni la pesante tutela impostagli dai militari, non porti fuori strada la definizione di «faraone dimezzato» che già molti hanno creduto di potergli attribuire: il fratello musulmano Mohammed Morsi, vincendo le elezioni presidenziali, ha cambiato la storia dell'Egitto.
Morsi è il primo presidente che non viene dai ranghi dell'esercito o dell'aeronautica. Morsi è il primo esponente islamista del mondo arabo che diventa capo di Stato per via elettorale. Morsi, soprattutto, è il primo egiziano che riceve una maggioritaria legittimazione popolare da quando la primavera di piazza Tahrir ha spazzato via l'era Mubarak. Quanto basta per comprendere perché l'istituzione militare della vittoria di Morsi abbia avuto paura, perché l'abbia annunciata in ritardo quasi esitasse sul da farsi, e perché, nel tentativo di coprirsi le spalle, al responso delle urne abbia applicato un preventivo filtro di garanzia.
Ieri al Cairo prevalevano i sorrisi, i militari si congratulavano con il nuovo presidente, Morsi elogiava i militari, tutti insieme festeggiavano il balzo in avanti della transizione democratica. Ma il tempo delle cortesie, ora che la forza e la storia si confrontano e rischiano di scontrarsi, potrebbe durare poco. Prima i generali hanno sciolto il Parlamento a maggioranza islamista. Poi hanno stabilito che ai militari spetteranno il potere legislativo fino alle prossime elezioni e quello di controllo sul bilancio, che saranno loro a nominare la commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione, che non potrà mutare la composizione del Consiglio che ha finora governato l'Egitto, e che se dovesse sorgere qualche contrasto, ma sarà meglio che non sorga, a decidere sarà l'amica Corte suprema. Chiarito questo, la parola poteva passare alle urne.
Una farsa, se la storia non fosse di solito più potente della forza come proprio piazza Tahrir ha dimostrato. E così oggi è a Mohammed Morsi che dobbiamo guardare, è da lui che dovremo capire se la Fratellanza punterà al compromesso con i militari oppure se farà ricorso alla piazza per invalidarne i diktat, è da questo ingegnere formatosi negli Usa ma in passato propenso all'estremismo che dovremo cogliere segnali di rassicurazione o di allarme in un Mediterraneo ancora scosso, e talvolta insanguinato, dalle ricadute delle «primavere».
L'Italia ha da oggi un presidente islamista sull'uscio di casa, nel più popoloso e più influente Paese del mondo arabo. E continua ad avere davanti alla porta, beninteso, anche i suoi controllori in divisa. Sarebbe tempo perso pensare al '52, al golpe soffice dei militari contro Faruk, e credere che Morsi possa fare la stessa fine. Malgrado i tanti altri problemi che ci affliggono dobbiamo invece trovare la volontà di dialogare con entrambi gli schieramenti e favorire una loro intesa. Dobbiamo dire al presidente Morsi che noi stiamo con chi viene eletto ma che i nostri interessi e i nostri valori prevedono limiti invalicabili (dalla condizione della donna alla politica di pace verso Israele). Dobbiamo dire ai nostri soci europei che questo non è l'ennesimo problema dei «meridionali» della Ue, che fornire aiuti all'Egitto per stabilizzarlo è interesse di tutta l'Europa. Se avremo successo, la storia avanzerà. E i militari, forse, un giorno torneranno nelle caserme.

Corriere 27.6.12
«Una vittoria che ridà la spinta ai rivoluzionari del mondo arabo»
di Lorenzo Cremonesi


IL CAIRO — «La vittoria dei Fratelli musulmani in Egitto ha un profondo significato in tutto il mondo arabo. I movimenti rivoluzionari in Libia, Tunisia, Siria o Yemen guardano alle folle in festa al Cairo e ne sono inspirati, vedono il successo dell'attivismo sociale. Sono rassicurati, specie in questo periodo di grande difficoltà per tutto il movimento delle cosiddette primavere arabe». È tutto sommato ottimista Eugene Rogan. Noto studioso dell'università di Oxford del Medio Oriente moderno-contemporaneo (la sua recente storia degli arabi pubblicata in Italia da Bompiani è già considerata un classico), vede nell'elezione di Mohammed Morsi alla presidenza egiziana un importante passo avanti nella lotta alle dittature così come sviluppate dalla decolonizzazione negli anni Cinquanta.
Non teme che il carattere antidemocratico dell'estremismo islamico possa di fatto uccidere lo spirito originario di apertura della primavera araba?
«Non c'erano molte alternative. Gli egiziani sono stati chiamati a scegliere tra Ahmed Shafiq, che rappresentava la vecchia giunta militare e la dittatura di Hosni Mubarak, e invece il cambiamento radicale incarnato da Morsi. Direi che hanno ottenuto il meglio possibile, date le circostanze. La restaurazione sarebbe stata molto peggio».
Al Cairo si parla già di intese segrete con la benedizione di Washington tra Morsi e la giunta militare, che in realtà detiene tutto il potere effettivo. Che ne pensa?
«Senza dubbio le avanguardie laiche che l'anno scorso hanno guidato le prime sommosse in piazza Tahrir sono state tradite. Posso capire la loro delusione. Ma ora saranno loro le prime a cercare di comprendere e denunciare le intese sottobanco tra Morsi e i militari. È nel loro diritto, anzi un dovere per lo sviluppo del Paese. Nei prossimi giorni si alzeranno la mattina pensando di essere state imbrogliate. Il loro attivismo rabbioso sarà alla base delle nuove spinte democratiche».
La questione è se i Fratelli musulmani saranno disposti a lasciarli agire. Non dimentichiamo l'assassinio di intellettuali laici come Faruq Foda, il terrorismo islamico degli anni Novanta. Come vede tra l'altro le paure dei cristiani nel Paese?
«Condivido i timori dei cristiani. Pure, l'universo islamico in Egitto non è monolitico. Alcuni dei più estremisti tra i gruppi attivi negli anni Novanta, gli stessi che uccisero Foda, sono stati largamente battuti. Ci sono però i salafiti, che già soffiano sul collo di Morsi, lo accusano di essere troppo moderato. Non sono pochi, alle elezioni parlamentari in dicembre hanno ricevuto il 25 per cento dei voti. Eppure il gruppo dirigente dei Fratelli musulmani potrebbe dimostrarsi molto pragmatico. Sono per la prima volta al potere e faranno del loro meglio per tenerlo. Non vogliono lo scontro frontale con le componenti laiche della società egiziana. Intendono rassicurare la comunità internazionale».
Che faranno con Israele?
«Il loro rapporto con Hamas nella striscia di Gaza sarà molto migliore che la chiusura ostile di Mubarak. Però manterranno gli accordi di pace con Israele. Ricordano bene cosa è capitato al Libano, che nel 2006 non impedì all'Hezbollah di provocare Israele. E non vogliono affatto una nuova guerra. Certo non in questa congiuntura».
La primavera araba è in crisi?
«Le speranze sollevate dai movimenti del 2011 sono in dubbio. In Libia è lotta primitiva tra tribù e così anche in Yemen. In Siria la guerra civile miete migliaia di vittime e non se ne vede la fine. Nei Paesi del Golfo non ci sono progressi. Persino nella piccola e tutto sommato laica Tunisia, che era vista come il fiore all'occhiello del movimento di rinnovamento democratico, ora i salafiti estremisti minacciano le avanguardie progressiste, attaccano le studentesse laiche nelle università. Però queste sono difficoltà direi inevitabili. Ogni rivoluzione ha i suoi alti e bassi».
È favorevole all'intervento internazionale in Siria?
«Sì. Ma non come quello della Nato in Libia l'anno scorso. Io sarei favorevole invece all'invio di 50.000 caschi blu con il mandato di impedire il massacro di civili».
Anche la Nato contro Gheddafi dichiarò inizialmente di voler difendere i civili. Poi arrivò sino a Tripoli.
«Sì, ma in verità la missione non dichiarata sin dalle prime mosse mirava a defenestrare la dittatura. La Nato ha difeso le vittime di Gheddafi, ma non i lealisti dall'aggressione delle milizie ribelli. In Siria ci saranno sicuramente massacri di civili fedeli al regime di Bashar al Assad dovessero vincere i rivoluzionari. Compito delle truppe Onu sarebbe dunque creare delle zone cuscinetto in tutto il Paese per evitare una situazione di pulizia etnica come avvenne nella ex Jugoslavia degli anni Novanta. Ma toccherà poi alle forze sul campo di negoziare tra loro la Siria del futuro. Non può essere imposta dalla comunità internazionale».

La Stampa 25.6.12
“Non potevamo bloccare il processo democratico”
Fukuyama: “La politica seguita nel passato di appoggiare le dittature non funziona più, non garantisce la stabilità, non aiuta gli interessi Usa”
di Paolo Mastrolilli


Ha detto I ragazzi di Tahrir Sono bravi a protestare e far cadere i governi ma poi non hanno la capacità e la voglia di assumersi responsabilità La leva di Washington In una banca di New York ci sono 1,3 miliardi di aiuti per l’Egitto. Li rilasceremo solo se i militari accetteranno la democrazia Fratelli Musulmani Potrebbero fare l’accordo con l’esercito per condividere il potere. Così il Paese avrebbe la stabilità I sostenitori di Morsi festeggiano la vittoria sulla piazza Tahrir Il trattato con Israele Il rispetto degli accordi di pace è sicuramente il primo banco di prova per la presidenza Morsi Il politologo neocon Francis Fukuyama è celebre per il saggio «La fine della storia» scritto dopo la caduta del Muro.
Non facciamoci illusioni: i Fratelli Musulmani sono un movimento intollerante, e cercheranno di costruire uno Stato islamico. Però non potevamo schierarci con i militari e bloccare il processo democratico, perché ormai sappiamo che appoggiare le dittature non garantisce più la stabilità nel mondo arabo».
Da quando Francis Fukuyama aveva proclamato la «Fine della storia», al mondo ne sono successe di tutti i colori. Ma secondo il professore di Stanford anche la Primavera araba, e gli ultimi sviluppi in Egitto, si inseriscono in quella trasformazione globale cominciata con l’archiviazione della Guerra Fredda, e ancora in corso.
Professor Fukuyama, come giudica l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza?
«Siamo solo all’inizio di un processo lungo e incerto. Il fatto che avesse vinto le elezioni era noto da tempo. Dal giorno del voto a oggi si è svolto un intenso negoziato tra i Fratelli Musulmani e l’esercito, per stabilire le condizioni a cui i militari avrebbero consentito la conferma del risultato. Io non conosco le concessioni che Morsi ha fatto in cambio della proclamazione a presidente, ma da queste dipenderà il futuro dell’Egitto e la stabilità dell’intera regione».
Pensa al rispetto del trattato di pace con Israele?
«È sicuramente il primo banco di prova, ma non l’unico. L’Egitto non ha alcun interesse pratico a riaprire una situazione conflittuale con lo Stato ebraico, ma è difficile prevedere come si comporterà un governo guidato dagli islamici».
Quali sono gli altri banchi di prova?
«I militari alla fine accetteranno lo sviluppo di una democrazia completa, o useranno la forza per mantenere il potere? Se i Fratelli Musulmani otterranno la guida dell’Egitto, fino a che punto si spingeranno nel trasformarlo in un Paese islamico? I laici che hanno immaginato e condotto la protesta in piazza Tahrir accetteranno questa situazione? E se la rifiuteranno, hanno la forza di cambiarla?».
Il governo americano non ha preso una posizione ufficiale nelle elezioni, ma ha sollecitato i militari a consentire che la democrazia continui il suo percorso: così non si è reso complice della vittoria dei Fratelli Musulmani?
«Non c’erano molte alternative. La vittoria degli islamici non è la soluzione che avremmo voluto, ma la politica seguita nel passato di appoggiare le dittature non funziona più. Non garantisce la stabilità e quindi non aiuta i nostri interessi».
Perché i ragazzi di Piazza Tahrir non sono riusciti a diventare un soggetto politico?
«I giovani illuminati della classe media sono bravi a protestare e far cadere i governi, ma poi non hanno la capacità e la voglia di assumersi le responsabilità e le fatiche necessarie a organizzare un partito, creare il consenso, vincere le elezioni e governare. È già successo in Russia, Ucraina, e in molti altri posti. Twitter e Facebook aiutano la protesta, ma non bastano a costruire uno Stato».
Cosa deve fare Washington adesso?
«A marzo abbiamo autorizzato la ricorrente concessione di aiuti all’Egitto per 1,3 miliardi di dollari, che però si trovano in una banca di New York e non possono essere trasferiti senza il via libera del governo americano. Sono l’unica leva che abbiamo, perché il tempo dell’influenza che nasceva dai rapporti di forza geopolitici ereditati dalla Guerra Fredda è finito. Quindi dobbiamo bloccare questi fondi e spiegare chiaramente ai militari che li rilasceremo, e continueremo a collaborare con loro, solo se consentiranno alla democrazia di affermarsi davvero».
Ma così gli occidentali non finiscono per fare il gioco degli estremisti islamici?
«Nello stesso tempo dobbiamo lavorare affinché le forze della società araba che ci sono più vicine crescano, e riescano a diventare gli elementi maggioritari in tutta la regione».
All’epoca delle vittorie del Fis in Algeria e del partito islamico in Turchia, lei ci disse che non c’erano alternative: per consentire alla democrazia di affermarsi bisognava lasciare che questi movimenti vincessero le elezioni, sperando poi che fallissero la prova del governo o cambiassero. Pensa che questa sia ancora la strada da seguire?
«In Egitto l’accordo tra Fratelli Musulmani ed esercito potrebbe portare a una forma di condivisione del potere, che darebbe al Paese la stabilità e il tempo necessario affinché altre forze più moderne possano emergere. Noi dobbiamo aiutare queste forze, senza però dare la sensazione che stiamo interferendo. È la strategia da seguire in tutta la Primavera araba, tenendo sempre presente un fatto: la democrazia è il nostro interesse, ma non si crea in qualche mese. Ci vorranno anni di lavoro intenso e delicato per vincere questa partita».

La Stampa 25.6.12
La strategia per l’uscita indolore
Gli analisti: i militari hanno studiato le fasi di transizione nelle dittature sudamericane
di Francesca Paci


C’è un frame nel film del giorno più lungo del Cairo che merita di essere isolato, quello in cui il generale Tantawi, capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf), si complimenta con il nuovo presidente Morsi archiviando in apparenza la lunga guerra fredda tra l’esercito egiziano e i Fratelli Musulmani. Lo scontro sembra per ora scongiurato. Ma dietro gli insoliti convenevoli ufficiali si celano pile di libri, consulenze straniere, contatti confermati ora da ambo le parti, una rete di convergenze parallele destinata a restare sullo sfondo come opportunità e come minaccia.
«Mi risulta che i militari si siano rivolti a esperti di controrivoluzione per studiare le esperienze di altri Paesi, in particolare il Cile di Pinochet in cui l’esercito aveva partecipato alla dittatura ed era sotto accusa» racconta Sadek Samer, analista dell’American University Cairo. Le analogie tra il lungo processo a Pinochet e quello all’ex Faraone, compresi i ricorsi e la salute precaria dell’imputato, potrebbero aver indicato allo Scaf una exit strategy «indolore» alla crisi.
«È ovvio che i generali egiziani studino il Cile, un caso in cui il processo al regime si è chiuso con la morte dell’ex presidente lasciando la vecchia struttura al suo posto» conferma Ammar Ali Hassan dell’Al-Ahram Center for Political and Strategic Studies.
Tra i manuali consultati dallo SCAF in realtà, non ci sarebbero solo quelli sulla controrivoluzione in Sudamerica ma anche in Europa dell’Est, un’esperienza che a suo tempo, sul fronte opposto, aveva ispirato i giovani di piazza Tahrir, avidi lettori dei diari di Otpor, gli attivisti della resistenza a Milosevic.
«I regimi arabi hanno molto in comune con quelli sovietici tipo Romania e Jugoslavia: lo stesso Mubarak parla russo» continua il professor Samer. Il ritardo dei risultati e la guerra psicologica tra esercito e Fratelli Musulmani rivela l’urgenza di guadagnare tempo. La partita si gioca contro il caos: «Quella egiziana è un misto di rivoluzione popolare e golpe militare, una storia ancora da scrivere anche perché il mondo musulmano ha conosciuto finora solo 32 anni di democrazia, tra Maometto e il 4° califfo». Che tra venerdì e sabato i due titani d’Egitto si siano più volte incontrati non lo nega nessuno. «Ci siamo parlati» ammette alla Reuters Khairat al Shater, stratega finanziario dei Fratelli Musulmani e vero uomo forte del movimento. «Era necessario assicurare un processo politico equilibrato» aggiunge il generale dello Scaf Mamdouuh Shaheen. Elezioni negoziate? Impossibile dirlo. Ma di certo tra Tahrir stracolma di gente e la pressione americana sull’esercito era necessario far quadrare il cerchio.


Repubblica 25.6.12
Il presidente dimezzato
di Bernardo Valli

UN FRATELLO musulmano eletto presidente della Repubblica egiziana è, perlomeno in apparenza, un avvenimento eccezionale. Al Cairo, in queste ore, la notizia esalta e sconcerta. Intimorisce i laici. Entusiasma i ferventi musulmani, per i quali ha un valore storico. Tiene in allerta i militari, registi della situazione. I fondatori della confraternita, nel passato segreta e non estranea al terrorismo, venivano mandati da monarchi e presidenti al patibolo o a marcire in prigione. Mohammed Morsi, il neo eletto, appartiene alla generazione dei dirigenti che fanno politica alla luce del sole, nella legalità, e che si presentano in giacca e cravatta, con la quasi immancabile barba, e con lauree soprattutto scientifiche e tecniche, cioè non contaminate dalla cultura umanistica occidentale, e con il progetto di una nebulosa “democrazia islamica”, adatta all’epoca di Facebook. Lui, Morsi, ha sessant’anni e si è laureato in ingegneria all’University of Southern California.
LA CONFRATERNITA di cui è l’esponente è stata fondata ottantaquattro anni fa e ha messo le radici in tutto il paese, tra ricchi e poveri. Si occupa, non da oggi, di ospedali, di assistenza sociale, dell’insegnamento del Corano, e ha come espressione politica il Partito della libertà e della giustizia. Il quale si ispira adesso all’islamismo moderno del turco Erdogan. La sua elezione avvicina più che mai i Fratelli un tempo fuorilegge alla realizzazione, appunto, della sognata e confusa “democrazia islamica”, nella più grande nazione araba, quale è l’Egitto.
Ma avere un presidente non significa disporre del potere. L’avvento di Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato appare in queste ore piuttosto simbolico. La “primavera araba” nella versione cairota sopravvive sotto il controllo della società militare. Agonizza. Perché i generali del Supremo Consiglio delle Forze Armate sono tutt’altro che disposti a cedere le leve di comando di cui dispongono in tutte le principali attività. Dalla difesa, con annesse fabbriche d’armi, all’economia, con industrie di elettrodomestici, alberghi, ospedali, fattorie. Dall’amministrazione della giustizia, grazie alla legge d’emergenza, ai servizi di polizia, poiché l’esercito ha il diritto di arrestare i civili. Dalla facoltà di promulgare le leggi, poiché, sciolto il Parlamento appena eletto, il Supremo consiglio delle Forze Armate si è arrogato il potere legislativo, al diritto di decidere quel che è costituzionale o non lo è, poiché non esiste la nuova promessa Costituzione. E quindi non si sa quali saranno le prerogative del nuovo presidente della Repubblica. L’impressione è che i militari abbiano prima imprigionato e condannato all’ergastolo Hosni Mubarak, che era il loro capo, per placare la rivoluzione di piazza Tahrir, e che adesso abbiano consentito la nomina di Mohammed Morsi per placare i Fratelli musulmani che hanno visto sciogliere il Parlamento in cui avevano appena conquistato la maggioranza.
L’interpretazione più edulcorata di questa abile, per certi versi sfacciata sceneggiata, sostiene che si è trattato di un compromesso, raggiunto con negoziati più o meno diretti. Da un lato i generali che hanno le armi, dall’altro i Fratelli musulmani che hanno e forse continueranno a disporre della piazza. Stando ai calcoli politici del momento, le due forze a confronto si equivalgono e quindi hanno stipulato un contratto, inevitabilmente provvisorio. I generali non potevano reprimere con i carri armati un movimento di massa, e il movimento di massa non aveva e non ha i mezzi per relegare i militari nelle caserme. Un’intesa effimera, dettata dall’emergenza, era dunque inevitabile. La conclusione è che i primi, i militari, conservano il potere reale, e che i secondi, i Fratelli musulmani, hanno ottenuto un presidente dimezzato, ma carico di simboli tutt’altro che trascurabili.
Questo è il significato della proclamazione del primo capo dello Stato egiziano, dopo la destituzione di Hosni Mubarak, travolto dalla “primavera egiziana” nel febbraio 2011. Piazza Tahrir ha esultato quando si è saputo, dopo una lunga attesa, che Mohammed Morsi, avendo ottenuto più di tredici milioni di voti aveva sconfitto Ahmed Shafiq, il candidato dei militari, che ne aveva ottenuto soltanto più di dodici milioni. Quella piazza nel cuore del Cairo è come un altare su cui si celebrano i riti di una rivoluzione che a tratti sembra ancora viva ma che ha comunque perduto l’identità iniziale. Ieri sera festeggiava Mohammed Morsi appena eletto presidente della Repubblica, ma di una repubblica diversa da quella chiesta dai primi gruppi laici, di sinistra, insorti un anno e mezzo fa.
I fratelli musulmani hanno occupato piazza Tahrir da tempo, appropriandosi della “primavera”, dalla quale erano stati sorpresi. Il terreno era sgombro perché gli insorti laici della prima ora non erano stati capaci di organizzarsi, di darsi una leadership, di stringere alleanze tra le varie correnti. Lo smarrimento è stato tale tra di loro che alcuni esponenti di rilievo, come il giornalista Hamdeen Sabbahi, arrivato terzo alle elezioni presidenziali, ha approvato lo scioglimento del Parlamento decretato dalla Corte costituzionale, agli ordini dei militari.
I promotori della “primavera” si erano del resto opposti alle elezioni politiche, volute dai mi-litari, perché temevano quel che è poi avvenuto, ossia il successo delle formazioni religiose, quella moderata dei Fratelli musulmani e quella integralista dei salafiti.
Organizzando le elezioni, i militari hanno ammansito i Fratelli musulmani che sapevano di poterle vincere, ma poi hanno sciolto il Parlamento appena eletto e per attenuare la loro collera hanno concesso ai Fratelli musulmani un presidente dimezzato, quale è Mohammed Morsi. Nel braccio di ferro con i generali i Fratelli musulmani hanno esibito un “fronte nazionale” in cui apparivano alcuni esponenti dei movimenti laici, attirati dalla promessa di una loro partecipazione al futuro governo. Alla testa del quale il presidente avrebbe addirittura messo un primo ministro non appartenente a un partito religioso. In realtà molti attivisti laici sono apparsi alla televisione per sostenere i generali che avevano appena decretato lo scioglimento del Parlamento. Essi hanno accusato i Fratelli musulmani di avere “rapito” la rivoluzione e di voler soffocare gli ideali progressisti di piazza Tahrir, imponendo la sharia, la legge religiosa. Da questo discorso i militari sono usciti come i difensori della laicità. Sono stati registi molto abili. Non sarà tuttavia facile per loro tenere a bada le masse musulmane eccitate dalla vittoria del loro candidato e domani deluse nel vederlo privo di reali poteri.
La Confraternita dei Fratelli musulmani e l’Esercito sono in Egitto due istituzioni con radici profonde, al Cairo come nelle campagne lungo il Nilo. E nella lontana Nubia. La prima, la Confraternita, è malleabile. È abituata a piegarsi («come canna al vento ») di fronte a una forza superiore.
La società militare emersa nel 1952 con la rivoluzione repubblicana degli «ufficiali liberi » ha saputo a sua volta adeguarsi a diverse realtà: al socialismo arabo di Nasser, al liberismo di Sadat, alla pace con Israele con il quale aveva combattuto quattro guerre, alla dinamica e corrotta economia di mercato di Mubarak. Per la prima volta, ieri, ha accettato l’elezione di un presidente non uscito dai ranghi delle Forze Armate. Ha dovuto inghiottire l’umiliazione, ma non ha ceduto, in apparenza, alcun potere. Il nuovo presidente non potrà neppure controllare il bilancio dell’esercito. Il quale non è trascurabile, poiché la società militare controlla un terzo dell’economia e riceve dagli Stati Uniti, da decenni, quasi un miliardo e mezzo di dollari l’anno.
I generali dovranno adesso abituarsi a convivere con i Fratelli musulmani che un tempo impiccavano o rinchiudevano in prigione o nei campi di concentramento. Non sarà facile. Intanto il nuovo presidente chiederà nuove elezioni per il Parlamento appena sciolto ed anche la formazione di un’Assemblea costituente. Si riaccenderà cosi un clima elettorale, non favorevole alla convivenza. E in piazza Tahrir ritorneranno i movimenti rivoluzionari della prima ora. Insomma la “primavera” è agonizzante, ma non del tutto spenta. Non mancheranno altri problemi. L’elezione (sia pure simbolica) di un fratello musulmano alla massima carica dello Stato può ringagliardire i gruppi islamici, alcuni dei quali jiadisti, installatisi negli ultimi mesi nel Sinai, a ridosso di Israele. E le Forze armate, garanti degli accordi di Camp David, che portarono alla pace tra il Cairo e Gerusalemme, faticano già a disciplinare l’attività di quei gruppi.

Repubblica 25.6.12
Parla Juan Cole, storico del mondo arabo all’Università del Michigan
“Ha l’ambizione di applicare la sharia però dovrà fare molti compromessi”


«CERTO, il nuovo presidente egiziano è non soltanto un fondamentalista, ma è anche seguace della linea più rigida. Ha l’ambizione di applicare la sharia, la legge islamica. Però, per quanto egli si dedichi a questa missione, non ci riuscirà, almeno nel breve o nel medio termine». Juan Cole, storico del mondo arabo e islamico all’Università del Michigan, osserva con moderato distacco l’alba di una nuova era in Egitto.
Professore Cole, la rivoluzione è nata per invocare le libertà fondamentali. Con Mohamed Morsi a capo dello Stato, che speranze ci sono?
«C’è, piuttosto, l’alta probabilità che il nuovo presidente Morsi debba scendere a molti compromessi. Non potrà governare per “fiat”, esclusivamente per propria volontà. Se ha vinto è perché ha ottenuto il sostegno di parte dei sindacati, della sinistra, dei socialisti, dei liberali, spinti dal timore di un ritorno del regime militare. Perciò dovrà tenere conto dei loro interessi. E poi, a controllarlo saranno anche generali, i quali restano al governo, gli terranno le briglie strette, e non gli permetteranno di intromettersi nemmeno nelle faccende di politica estera».
Il Parlamento appena disciolto era composto in maggioranza di islamisti e salafiti. Lei si aspetta lo stesso alle prossime elezioni?
«Piuttosto, io mi aspetto l’esatto contrario, e cioè che il nuovo Parlamento rispecchierà le scelte del primo turno presidenziale, quando i Fratelli musulmani hanno ottenuto appena un quarto dei voti, e molte preferenze sono andate ai progressisti, ai candidati di sinistra, agli islamisti moderati. Vedrà, la scelta non si limiterà a militari e fondamentalisti. Dalla rivolta è una nata una società egiziana ben più composita. E Morsi ha assunto un incarico, non il potere. Fra i due termini, c'è una bella differenza».
(a.v.b.)

La Stampa 25.6.12
Siria-Turchia, venti di guerra
“Ma l’azione militare è impraticabile Serve un piano B”
di Andrea Malaguti


Rosa Balfour, analista politica, è la responsabile del programma «Europa nel Mondo» del think tank indipendente European Policy Centre. È appena atterrata a Bruxelles e consulta le agenzie internazionali sugli sviluppi della crisi tra Ankara e Damasco.
Dottoressa Balfour, perché la Turchia ha convocato la Nato per affrontare la crisi con la Siria?
«É un messaggio inviato agli alleati, all’Europa e anche ad Assad. Un modo per dire a tutti che Ankara non intende affrontare la crisi bilateralmente. E soprattutto è il segno che c’è la volontà di contenere una escalation pericolosa».
Due anni fa con Israele le cose furono gestite diversamente.
«È vero. Ma proprio il caso Freedom Flottilia ha generato un cambiamento di rotta della politica estera turca. L’esperienza di quei giorni si è fatta sentire. I rapporti con Israele erano buoni, ma la crisi è stata gestita male, creando tensioni che non si sono ancora risolte. Un errore da non ripete».
Come sono i rapporti tra Siria e Turchia?
«Equilibrati. Non saprei se definirli amichevoli, ma in definitiva direi che sono buoni. Lo dimostra anche il fatto che Damasco e Ankara stanno collaborando nella ricerca dell’aereo abbattuto. È chiaro che di fronte a una vicenda così clamorosa una risposta forte doveva esserci. Fortunatamente per ora è stata ragionata».
I turchi hanno accusato Damasco di avere abbattuto l’F4 in uno spazio aereo internazionale.
«I siriani hanno negato. E poi Ankara ha fatto un passo indietro ammettendo di avere sbagliato avvicinandosi tanto alla Siria. Insomma, il senso delle dichiarazioni turche è stato: noi abbiamo fatto un errore, ma voi vi siete comportati male. Non esattamente un muro contro muro». La Turchia ha immaginato a lungo di potere avere un ruolo decisivo nella regione.
«È vero. La primavera araba ha fatto pensare al premier Erdogan di poter essere un protagonista del cambiamento. E persino di condizionare Assad. Poi è stato chiaro che non era possibile. La richiesta di un intervento della Nato è figlia anche di questa consapevolezza».
Che cosa può fare la Nato con Assad?
«Poco o nulla. Almeno finché Russia e Cina mantengono le posizioni attuali.
Bisogna immaginare in fretta un piano B. L’opzione militare è impraticabile».
Eppure William Hague, ministrodegli esteri britannico, ha detto che Londra non esclude un intervento.
«È la storia del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Ci deve sempre essere qualcuno che fa la voce grossa. E d’altra parte è persino facile quando si sa che alle minacce non seguiranno i fatti. Intanto in Siria le cose peggiorano di giorno in giorno».

Repubblica 25.6.12
C’è il casus belli, ma è presto per una missione dell’Alleanza atlantica
di Fabio Mini


LA RICHIESTA di convocazione del Consiglio Atlantico da parte della Turchia per “discutere” la questione del jet militare turco abbattuto dalla contraerea siriana è un evento grave ma non drammatico. Non ancora, almeno. Che prima o poi ci dovesse scappare il morto stava nello stato dei fatti: la Siria è al collasso nervoso e la Turchia si è assunta l’onere e la responsabilità di appoggiare direttamente una parte dei ribelli siriani sia nelle sedi diplomatiche sia in campo militare. E le ragioni umanitarie non c’entrano nulla.
L’abbattimento dell’aereo turco può essere visto come un casus belli (qualcuno lo ha già definito così) facendo passare l’idea che la Siria si voglia suicidare attentando alla sicurezza nazionale turca e a quella internazionale senza giustificato motivo, oppure può essere visto come un pretesto per l’internazionalizzazione del conflitto siriano (come illustri precedenti insegnano). La Turchia presenterà al Consiglio Atlantico le sue ragioni. La Siria non sarà presente e anche se lo fosse sarebbe ininfluente: ormai nessuno ha più voglia di credere alle ragioni siriane. La difesa di Damasco sarà affidata alle stesse dichiarazioni turche come: «Forse l’aereo era nello spazio siriano», «non ha ricevuto avvertimenti», «era un aereo da combattimento ma disarmato», «era in missione di addestramento a 13 miglia dalla costa siriana», «succede quasi sempre che gli aerei da combattimento sconfinino» e così via.
In condizioni normali basterebbero queste mezze ammissioni per indurre a calmare i bollori, ma la situazione non è normale. Perciò nessuno degli alleati chiederà alla Turchia di dare ulteriori spiegazioni e nessuno spiegherà ai turchi che non possono aspettarsi reazioni normali da un regime che loro stessi tentano di rovesciare con le armi. In ogni caso gli sviluppi Nato non dipendono dal torto o dalla ragione dell’abbattimento e neppure dalle decisioni dell’Onu, ma da ciò che intendono fare del regime di Damasco i turchi e i loro alleati militari.
Altre guerre sono iniziate senza il consenso dell’Onu e in barba a tutti i trattati. Ma le condizioni per applicare alla Siria il teorema balcanico-libico non sono ancora mature. Il regime siriano e i ribelli hanno fatto (con l’aiuto esterno) il primo passo: hanno militarizzato la rivolta e la repressione innescando la bomba umanitaria che però non è sufficiente. Per intervenire militarmente contro il regime siriano c’è bisogno dell’isolamento del paese e una no-fly zone sulla Siria sarebbe un primo passo. La Turchia e altri paesi la chiederanno. Ma Russia e Cina non saranno d’accordo. C’è bisogno della internazionalizzazione del conflitto che Russia e Cina non permetteranno, almeno non ancora, anche se la Nato è pronta a farlo almeno a giudicare dalle dichiarazioni bellicose di Gran Bretagna, Turchia e, guarda caso, Italia, che pure continua a dire che il caso libico è irripetibile, come lo era quello kosovaro e come lo sono tutti i casi di guerra per “ingerenza umanitaria”. Non si ripetono. Fino alla volta successiva.

La Stampa 25.6.12
Cosa dice il Trattato. L’articolo 4


Gli Stati si consulteranno ogni qual volta, secondo l’opinione di qualsiasi Paese membro, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica e la sicurezza di un membro è minacciata.
Gli Stati concordano che un attacco armato contro uno o più Stati in Europa o in Nord America sarà considerato un attacco contro tutti e di conseguenza essi concordano che nel caso tale attacco avverrà ognuno, nell’esercizio del diritto alla difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’articolo 51 dell’Onu , interverrà, da solo o di concerto con gli altri membri, a sostegno del Paese attaccato...

La Stampa 25.6.12
Oslo cerca volontari (pagati) per far compagnia a Breivik
di Marina Verna


Il procuratore lo vuole in un reparto psichiatrico, il suo difensore si batte per una pena detentiva che al massimo può essere di 21 anni, prorogabile solo in caso di riconosciuta pericolosità. Ma qualunque decisione prenderà il tribunale di Oslo, Anders Breivik finirà nella cella che si sta costruendo per lui nel carcere di massima sicurezza di Ila, la prigione più dura di tutta la Norvegia.
Il Paese non era attrezzato per un criminale come lui, non ha un codice penale che contempli l’ergastolo, non ha prigioni che mettano in isolamento il detenuto, anche per la sua incolumità. Così, mentre nell’aula 250 del tribunale di Oslo sfilavano i 150 testimoni del più grande omicidio di massa dei tempi moderni, a 12 chilometri di distanza una squadra di operai lavorava di cazzuola, sega e martello, avvitava, incollava, piastrellava, intonacava un’ala nuova del carcere, costruita e attrezzata a uso esclusivo di Breivik. Costo complessivo: 300 mila euro. I lavori sono praticamente finiti, il giorno del verdetto l’uomo che ha ucciso a sangue freddo 77 persone entrerà nella stanza dove trascorrerà il resto della sua vita. Quel locale sarà cella o camera di ospedale, dipenderà dalla sentenza. La differenza sarà solo nel personale di sorveglianza: infermieri o secondini, secondo che venga giudicato pazzo o capace di intendere e di volere.
Il doppio uso dell’edificio è il simbolo del dilemma - un pazzo o un mostro? - sull’autore di quello che viene considerato il crimine più spaventoso dell’epoca moderna. La giustizia e la medicina sono arrivati al loro limite, nessuno sembra in grado di decidere con sicurezza se il killer ha agito per malvagità o perché è un malato mentale. Quanto a Breivik, lui chiede di essere riconosciuto sano di mente: non per un calcolo sulla lunghezza della pena - sa benissimo che da Ila non uscirà mai vivo - ma perché il suo delitto conservi il senso che lui gli aveva dato.
Anche per evitare che faccia proseliti, è stata costruita quell’ala nuova. Ma la lunghezza della pena pone un problema che non si era mai presentato prima: la legge non permette di lasciare a lungo qualcuno in isolamento. È considerata una misura inumana e crudele. Così dal primo marzo il direttore del carcere sta cercando dei volontari disposti - dietro congruo compenso - a tenere compagnia a Breivik, fare conversazione, giocare a scacchi, fare sport. Occorre costruirgli intorno una comunità di «personale di compagnia» che sappia gestirlo in modo professionale. E che sia tetragona ai suoi sermoni.

Repubblica 25.6.12
Gli Indignati tornano a Tel Aviv, guerriglia con la polizia
Pugno duro delle autorità per evitare accampamenti. Su YouTube il pestaggio di un’attivista
di Fabio Scuto


Novanta i fermi. I manifestanti sono meno numerosi dello scorso anno quando a centinaia di migliaia invasero le strade, ma il movimento sembra essere stato infiltrato da teppisti

GERUSALEMME — Covava da tempo, da mesi nei forum sul web si denunciava il governo per la sua latitanza sui temi sociali. E la protesta degli Indignati israeliani è tornata a manifestarsi con violenza negli ultimi due giorni a Tel Aviv, sconfinando nella guerriglia urbana e nel vandalismo.
Gli scontri con la polizia iniziati sabato sera sono andati avanti per ore fino alle prime luci dell’alba di ieri. Tutto è iniziato all’ingresso del municipio di Tel Aviv — a Piazza Rabin dove fu assassinato il premier nel 1995 — quando la polizia ha duramente respinto qualche migliaio di dimostranti che gridavano “Democrazia, democrazia“, mentre sul marciapiede opposto gruppi di teppisti sfondavano le vetrine delle filiali di tre banche. Cassonetti di immondizia sono stati poi rovesciati nelle strade vicine e gruppi di dimostranti si sono dispersi per alcuni chilometri fino nella superstrada Ayalon — la grande arteria che taglia Tel Aviv da nord a sud — per bloccare il traffico.
Rispetto alle proteste dell’estate 2011, quando centinaia di migliaia di israeliani scesero in strada per scandire “Il popolo vuole giustizia sociale”, gli Indignati 2012 sono per ora meno numerosi, ma certamente più duri, forse più inclini alla violenza. Ma anche la polizia sembra molto tollerante che in passato. Gli agenti hanno compiuto una novantina di fermi. Venti, individuati come responsabili di violenze, saranno stamane già davanti a un giudice. Gli altri sono stati rilasciati.
All’origine delle proteste — spiegano i dirigenti del movimento di protesta “J14”che aveva organizzato la manifestazione — c’è una bruciante delusione perché sono rimaste sulla carta tutte le promesse fatte dal governo di Benjamin Netanyahu nell’autunno 2011 dopo mesi di grandi manifestazioni in tutte le principali città di Israele. Gli Indignati 2012 chiedono come l’anno scorso la diminuzione delle tasse universitarie (in Israele sono molto alte), fondi per l’acquisto di testi universitari, una politica di edilizia per i giovani e prestiti d’onore dalle banche per terminare gli studi.
Venerdì l’attivista Daphni Leef ha tentato di rilanciare la protesta tornando nel centrale Rothschild Boulevard di Tel Aviv, dove per mesi l’estate scorsa il suo movimento aveva allestito un grande accampamento. Ma quest’anno il sindaco laburista di Tel Aviv, Ron Huldai, ha dato ordini chiari alla polizia per impedire altri accampamenti nel “salotto bene” della città. Venerdì quando i ragazzi hanno cercato di piantare nuove tende, la polizia ha reagito con una violenza che diversi giornali denunciano come «eccessiva ed irrazionale ». Le immagini della Leef trascinata a forza da una decina di agenti — che le hanno rotto un braccio — hanno destato emozione nella rete, il filmato su Youtube è stato visto da migliaia di persone.

La Stampa 25.6.12
La spesa per i Paesi poveri
L’Ue in crisi anche nella solidarietà
Pochi gli Stati che rispettano i parametri fissati da Bruxelles. L’Italia resta in fondo alla graduatoria
di Marco Bresolin


I membri della delegazione cinese al vertice del G20 a Los Cabos, la scorsa settimana, hanno lanciato una frecciata agli europei: «Dite di aver bisogno di aiuti, ma i vostri cittadini non stanno certo peggio di quelli del Sahel». Come dire: dalla corsa al bancomat per ritirare tutti i propri risparmi alle lunghe camminate sotto il sole africano per riempire una brocca d’acqua. Dalla povertà relativa a quella assoluta. Ma l’Europa, stretta nella morsa di una crisi senza precedenti, quanto è generosa con il resto del mondo? Quali sono gli Stati che più dispensano aiuti internazionali? Sono stati mantenuti tutti gli impegni presi?
La fondazione «One» – quella del cantante Bono Vox che si occupa di lotta alla povertà, soprattutto in Africa – ha stilato un rapporto in cui fotografa la solidarietà europea. E da cui emerge un risultato di cui il nostro Paese non dovrebbe andar fiero: la quota di aiuti stanziati da Roma nel 2011, in percentuale sul Reddito nazionale lordo, è una delle più basse. Nell’Europa dei 15, soltanto la Grecia (già, la martoriata Grecia) ha destinato una quota più bassa: lo 0,11% contro il nostro 0,17%. Spagna e Portogallo, che di certo non stanno meglio dal punto di vista economico e finanziario, hanno sborsato lo 0,29%.
Nel dettaglio, lo scorso anno l’Italia ha stanziato 2,64 miliardi di euro di aiuti. Una quota ancora troppo bassa, considerato che l’impegno assunto per il 2010 era di raggiungere quota 0,51%. Però, e questa è sicuramente una nota positiva, l’Italia è anche quella che nonostante la crisi ha incrementato maggiormente i suoi aiuti: +24% rispetto al 2010. Grecia e Spagna, giusto per fare due nomi, li hanno ridotti rispettivamente del 39,3% e del 29,2%.
Nella classifica dei Paesi più virtuosi, si può leggere una chiara spaccatura tra Europa settentrionale e meridionale: il primato spetta al Lussemburgo che, pur avendo un’incidenza minima (297 milioni di euro), destina alla solidarietà lo 0,9% del suo reddito nazionale lordo. A seguire, Svezia (0,98%), Danimarca (0,86%) e Olanda (0,74%). E la Germania regina del rigore? In termini assoluti è da Berlino che arriva la quantità maggiore di soldi (oltre 10 miliardi), ma lo sforzo non è certo dei migliori: solo lo 0,42%. Il timore è che soltanto pochi Paesi, Italia in primis, riescano a raggiungere l’obiettivo dello 0,7% che l’Unione Europea ha fissato per il 2015: l’Italia dovrebbe passare a 11,44 miliardi di euro. Vista l’attuale situazione economica dell’Eurozona, l’obiettivo sembra una «mission impossible». Del resto già le previsioni per il 2012 sono assolutamente negative: a Bruxelles si teme che l’Italia ridurrà il suo flusso di aiuti a 1,17 miliardi di euro, abbassando ulteriormente la quota a 0,12%.
«One» ha poi focalizzato la sua attenzione sulla destinazione degli aiuti, calcolando che nel 2011 l’Ue dei 15 ha destinato circa 20 miliardi (su un totale di 50) per l’Africa. «Servono sforzi maggiori» sottolinea il rapporto di One, che sollecita l’Ue a destinare il 5% del bilancio settennale europeo in favore della lotta alla povertà. Se ne discuterà a Bruxelles nei prossimi giorni. Oltre all’Euro c’è anche altro da salvare.

La Stampa 25.6.12
Le aree critiche
Un milione di bambini sono a rischio nel Sahel


Tra le zone più critiche del continente africano (e del mondo), bisognose di aiuti, c’è sicuramente il Sahel, la striscia di terra semideserta compresa tra Sahara e Africa tropicale. Qui, secondo un recente rapporto dell’Unicef, circa 10 milioni di persone vivono in grave stato di insicurezza alimentare e un milione di bambini è in pericolo di vita a causa di una malnutrizione acuta. Ogni anno ne muoiono 645 mila, 226 mila per cause legate alla malnutrizione. A mettere in ginocchio questa zona del pianeta sono le precipitazioni insufficienti e i raccolti scarsi, ma anche la difficoltà di accesso all’acqua potabile, le basse condizioni igieniche di base, e la carenza di strutture di sostegno.

Corriere 25.6.12
Stéphane Hessel
Dalla Resistenza all’indignazione
di Corrado Stajano


Racconta la sua vita come se fosse una grossa pentola in cui per 95 anni ha fatto bollire via via eventi, personaggi, visioni del mondo. Tutto fuori dell'ordinario. È Stéphane Hessel il vegliardo di questa autobiografia anomala, ricca di idee e di passioni non sopite: A conti fatti... o quasi (traduzione di S. Arecco, Bompiani, pagine 284, 14,50). Quei puntini del titolo mettono in sospetto, chissà che cosa ha in mente Hessel mentre sta rivisitando il suo passato, con gli occhi fissi al presente e, soprattutto, al futuro dei giovani.
L'anno scorso con il suo pamphlet Indignatevi! che ha avuto uno straordinario successo, in Francia, in Italia, altrove, ebbe proprio la funzione di svegliare molti dormienti: ma vi rendete conto, era il succo di quelle paginette, in quale palude siamo piombati? Dove son finiti gli ardori della Resistenza? È mai possibile che i nostri giovani abbiano come unico orizzonte «il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l'amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti?».
Nel suo nuovo libro Hessel torna sull'argomento dell'indignazione. Confessa di essere rimasto sconcertato dall'enorme successo di quel suo appello che toccava evidentemente un nervo scoperto della società. Commenta ora: «L'indignazione è solo il primo passo: risvegliarsi, prendere coscienza, uscire da una qualche indifferenza più o meno rassegnata, o da un certo scoraggiamento, per dire a se stessi che è possibile resistere, lottare contro chi ci rivolta lo stomaco. Ma è sempre solo una tappa nel processo del pensiero, un segnale di allarme, l'avvio di un percorso».
Ha avuto una vita movimentata, Stéphane Hessel. Nato a Berlino nel 1917 da un padre ebreo, scrittore, e da una madre scrittrice e pittrice, diventa cittadino francese nel 1937. Allievo dell'École Normale Supérieure, richiamato alle armi, dopo la disfatta entra nella Resistenza. Catturato dai tedeschi, è internato a Buchenwald con altri 35 partigiani: 16 di loro vengono impiccati a un gancio di macelleria, altri 17 fucilati. Lui, con due compagni, riesce a fuggire. Diplomatico di carriera fa parte nel dopoguerra della commissione delle Nazioni Unite che elabora la «Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo». Ambasciatore di Francia ricopre diversi incarichi. Nella sua lunga vita è sempre schierato dalla parte delle vittime, dei dissidenti, i sans-papier, gli immigrati privati di ogni dignità.
Il suo A conti fatti... o quasi colpisce molto perché sembra che Hessel parli di un'altra persona, non di quell'io ingombrante. È la strana autobiografia di un sopravvissuto, come si definisce, che in una sera d'inverno racconta i percorsi della sua esistenza, tra gioie e dolori, senza perdere mai la speranza. Cita l'amato Hölderlin: «Là dove cresce il pericolo, cresce anche il germe della salvezza».
Lo scrittore ribelle (in Italia ha pubblicato tra l'altro, da Adelphi, Romanza parigina) si sente in pace con se stesso. Ama le arti, è vissuto in ambienti dove la cultura rappresenta tutto. Walter Benjamin era, tra i tanti, un amico di famiglia, lo conobbe quando aveva sette anni. Ama la poesia, ha avuto la fortuna di avere come maestri e di essere stato o di essere amico di scrittori, filosofi, sociologi, politici come Maurice Merleau-Ponty, Edgar Morin, Régis Debray, Pierre Mendès France, Michel Rocard, Daniel Cohn-Bendit.
Si considera un cartesiano agnostico e razionale, ma è pieno di curiosità per ogni cosa, il buddismo, per esempio. Dice sempre quel che pensa. Sull'Afghanistan e sull'Iraq, «il terreno di gioco dell'idiozia coloniale»; sul regresso del nuovo secolo apertosi con la dubitabile elezione di Bush; sugli «errori imperdonabili accumulati da gran parte dei Paesi più potenti del pianeta» ai danni di milioni e milioni di uomini.
Cita, tra i molti, Giuseppe Verdi che in una lettera del 1871 scrisse: «Tornate all'antico e sarà un progresso»: è singolare che a ricordare quelle parole sia un uomo proiettato sempre verso il domani, uno che non ha mai smesso di lottare contro il degrado del presente.
Hessel è un sognatore-realista, se si può dire. Crede nel «diritto allo sviluppo», è convinto che esistano anche «utopie possibili»: la pace universale, la vittoria sulla fame nel mondo.

La Stampa 25.6.12
Sono le minoranze il sale della democrazia
Dai galileisti del ’600 ai giacobini del ’700 ai socialisti riformisti dell’800 alle varie famiglie del liberalismo progressivo del ’900: in un libro di Panarari e Motta le occasioni mancate dell’Italia
di Massimiliano Panarari e Franco Motta


La dinamica di desertificazione e spappolamento dei ceti medi è diventata particolarmente eclatante in Italia, dove le classi medie, nucleo sociale delle minoranze civiche, non hanno (praticamente) mai trovato un terreno di coltura o una sponda istituzionale a loro confacente e favorevole. Ancor più lungo gli scorsi decenni, nei quali, per parafrasare lo storico Tony Judt che constatava come la Gran Bretagna fosse diventata meno elitaria e meno populista, l’Italia si è svegliata, al contempo, maggiormente elitaria e più populista (ma meno elitista, nell’accezione positiva qui descritta), anche sotto il profilo degli stili di vita e dei consumi culturali.
C’è, quindi, bisogno di nuove minoranze e di élites che non siano ciniche, né «indecise», ma capaci di praticare una meritocrazia autentica, che non è (e non deve essere, come paventano alcuni) uno «strumento di classe» e di perpetuazione dello status quo, ma l’interruttore per far ripartire il preziosissimo e irrinunciabile ascensore sociale, senza il quale una nazione muore.
È il tema, ben conosciuto, della circolazione e del ricambio delle élites. Élites democratiche, permeabili e inclusive - e non fondate sull’appartenenza di casta, sulla cristallizzazione dei privilegi o sulla cooptazione al ribasso - realizzano, all’interno di una società aperta, le condizioni dell’uguaglianza.
Al riguardo, il problema di fondo, e in maniera estremamente acuta da noi, rimane sempre sostanzialmente lo stesso. Ovvero la legittimazione (e la rappresentatività) di chi esercita un ruolo di direzione; una questione che si è accentuata nel corso di questi ultimi anni, e che ha visto la classe dirigente della politica trascinata (spesso, e per una parte rilevante di essa, molto a ragion veduta) sul banco degli imputati. Ne deriva l’esigenza - non ulteriormente differibile - di sviluppare processi di autentica selezione dei più meritevoli, che permettano di rilevare e valorizzare le capacità, in primis, dei soggetti esclusi - dai giovani alle donne, ai «nuovi italiani» che possono costituire, da questo punto di vista, una speranza - confinati fuori dai luoghi decisionali da un potere di tipo molto tradizionale e dalle consorterie che troppo spesso gli si stringono a coorte.
Di élites un corpo sociale e una nazione hanno bisogno, e il loro rigetto si tinge, di frequente, di accenti rabbiosi provenienti da settori politico-culturali intessuti di sentimenti e fobie che con la democrazia c’entrano ben poco. Le minoranze civili costituiscono precisamente un argine e un antidoto indispensabile al populismo. Perché, come malauguratamente non è abbastanza chiaro a tutti, la democrazia non coincide con il populismo - e quindi rigettiamo serenamente al mittente le accuse, che pare già di sentire,
riguardo l’antidemocraticità di queste tesi. Noi rivendichiamo con forza memoria è, dunque, un esercizio utile l’antipopulismo come componente di ogni dottrina e pensiero democratici. Analogamente a quanto facciamo con il «mecenatismo», volto a sostenere la cultura e gli individui capaci, che dovrebbe costituire un imperativo etico per i poteri pubblici e le istituzioni, ma di cui, in momenti di crisi fiscale e di disorientamento valoriale come l’attuale, potrebbero e dovrebbero, giustappunto, farsi carico le élites .
All’interno di una democrazia liberale, riteniamo che il ruolo dirigente delle élites risulti irrinunciabile - e, perciò, rileviamo come un errore la diffidenza e la disattenzione nei riguardi di questa problematica così delicata di larga parte della sinistra e del mondo progressista. Altrimenti, visto che il vuoto in politica e nelle faccende di potere non esiste, si lascia che a colmarlo, come avviene in questa fase, siano certe oligarchie del denaro che avvertono i valori democratici come fardelli o lacciuoli di cui sbarazzarsi. L’unico antidoto efficace, insieme alla mobilitazione democratica degli individui e al loro coinvolgimento nella vita pubblica, coincide precisamente con delle élites testimoniali, oneste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile. E dotate di quella credibilità e autorevolezza che, sola, può garantire, in via esclusiva, la piena accettazione della loro condizione speciale da parte della cittadinanza.
Nel passato ne abbiamo avute diverse - e sono quelle che qui vengono raccontate: gli eretici del Cinquecento; il galileisti dl Seicento; i giacobini del Settecento; i positivisti, gli igienisti e i socialisti riformatori e cooperativi dell’Ottocento; le varie famiglie del liberalismo prograssivo e avanzato del Novecento. Tenere viva la loro memoria è, dunque, un esercizio utile anche per il tempo presente.

Repubblica 25.6.12
La malattia negazionista

Se bastassero la legge e il carcere per punire gli assassini della memoria
di Adriano Prosperi


In Italia si discute poco di come fronteggiare chi non riconosce Auschwitz
Un saggio di Daniela Bifulco rivela quanto prevalga la tendenza a un distratto e superficiale perdono

L’attentato alla scuola ebraica di Tolosa del marzo scorso ha fatto seguito ad altri segni della sopravvivenza e del riaffiorare carsico di una maledizione antica. Come il bacillo della peste che minacciò di estinguere la popolazione europea nel 1348, l’anno della Peste Nera, quello dell’antisemitismo ha devastato l’Europa e il mondo nella nera notte di Auschwitz. Da allora sopravvive, indebolito ma ancora attivo. Ci si chiede se ci siano e quali siano le misure capaci di impedirlo. Fermo restando che il delitto consumato con la morte di innocenti dovrebbe – avrebbe dovuto - essere punito con tutta la severità delle leggi, resta aperta la questione se non si debba punire anche chi facendo professione di negazionismo vuole cancellare o stravolgere la memoria della Shoah.
È un problema che investe la cultura civile, una domanda a cui sono state date risposte diverse. Ne parla una esperta di leggi e di storia, Daniela Bifulco, in una seria e sofferta indagine che ha il merito di scavare con attenzione su quello che accade nei territori confinanti del diritto, della politica e della ricerca storica: Negare l’evidenza. Diritto e storia di fronte alla “menzogna di Auschwitz” (Franco Angeli).
La questione ha un’attualità indiscutibile, in un’Europa che sta scoprendo a sue spese quanto poco l’euro sia capace di tenerla insieme. Si è visto ai nostri giorni quali ombre si levino se la gretta attenzione ai conti di casa da parte di un cancelliere tedesco minaccia di cancellare la Grecia dalla costruzione europea. Joschka Fischer ha detto che per questa via la Germania riuscirà a spezzare l’Europa per la terza volta. E allora non sarà forse necessario rendere obbligatori per legge il rispetto dei morti e la memoria stessa colpendo come un reato la negazione della storia? Si eviterebbe così l’offesa estrema ai morti, il delitto con cui gli assassini della memoria (come li ha definiti Pierre Vidal-Naquet) tentano di portare a compimento il disegno nazista.
Diversi paesi hanno introdotto norme penali specifiche in materia. Daniela Bifulco, nel proporne un esame ragionato, fa notare che l’Italia non è fra questi. E si chiede perché. Non ha una risposta certa, ma ritiene che non se ne sia discusso come si doveva: una constatazione innegabile. Di fatto, quando la questione è stata sollevata per episodi di negazionismo o indagando sul contesto dov’è maturato il disegno stragista di Gianluca Casseri, il ragioniere neonazista di Pistoia, la tesi che non si possa colpire un’opinione come un delitto ha avuto partita vinta forse fin troppo facilmente. Non che ne mancassero le ragioni: com’è stato fatto notare, una condanna penale oltre a essere difficilmente formulabile offrirebbe a chi ne venisse colpito un’occasione di pubblicità e un’aureola di martire della libertà d’opinione. Ma il nobile argomento della difesa della libertà non basta forse a spiegare le reazioni italiane. Daniela Bifulco fa notare tra l’altro l’urgenza sospetta con cui il defunto governo Berlusconi ha decretato nel 2010 la sospensione dell’efficacia delle sentenze che imponevano alla Germania il risarcimento dei danni per le stragi del 26 giugno 1944 a Civitella della Chiana: l’argomento allora usato fu che si dovevano evitare “tensioni nei rapporti internazionali”. Qualcosa del genere era accaduto anche nell’immediato dopoguerra, quando si poteva e si doveva perseguire davvero i colpevoli. Ma stavolta ha pesato forse anche il timore che quella sentenza aprisse la strada a istanze risarcitorie contro l’Italia per la sua non piccola parte di responsabilità analoghe.
Si discute su come si possa, in generale, chiudere i conti con il passato: un tema a cui Pier Paolo Portinaro ha dedicato di recente una dotta analisi. Ma non si possono confondere terreni diversi: da una parte ci sono conti che la politica e la giustizia devono saper chiudere: il che significa riconoscere i torti e risarcirli da parte degli Stati e condannare i responsabili se ancora in vita. Dall’altra c’è la ricerca storica come alimento della conoscenza e sostanza di una cultura civile. Oggi da noi il virus dell’antisemitismo non è certo debellato: lo tengono desto le iniezioni di razzismo quotidiano inoculato dal diffuso populismo xenofobo della destra e stimolato dalla realtà di violenza e di sfruttamento di masse di immigrati senza diritti. Ne affiorano spesso i segnali. Sarà dunque il caso di introdurre leggi antinegazionismo? Daniela Bifulco non dice questo. Anzi, mostra come la legislazione penale esistente in altri paesi sia per sua natura entrata in un percorso di distinzioni, estensioni e generalizzazioni, includendo la Shoah in una tipologia più ampia e relativizzandola: un risultato che il revisionismo ha invano inseguito. La cronaca recente della minacciata introduzione in Francia della definizione di genocidio per gli armeni con le connesse sanzioni per chi lo nega ha mostrato la deriva inerziale della tendenza a generalizzare e dunque a ridurre la Shoah a una delle tante pagine nere della storia, passata presente e futura. Forse questo è inevitabile.
Anni fa Barbara Spinelli in un bel libro appassionato (Il sonno della memoria) sottolineò i rischi del chiudere un evento per quanto immensamente mostruoso nella gabbia di una monumentalità sovrumana: la categoria del Male assoluto proietta l’ombra di una sacralità capace di incombere negativamente sulle menti malate. Ma, se la comparazione storica è da accogliere e praticare come strumento di conoscenza, bisogna invece opporsi alla relativizzazione come riduzione banalizzante della dimensione autentica dei fenomeni storici. La realtà di Auschwitz è una di quelle vette o di quegli abissi da cui si deve prendere la misura per guardare all’intero paesaggio. La ricerca storica sta ancora esplorando il dipanarsi dei percorsi che portano fino lì e che da lì si dipartono. Non con le pene della legge ma con l’investimento nella conoscenza e nella tutela delle memorie si può fare fronte al negazionismo. Esso ha come alleati l’ignoranza e la perdita di memoria e cresce nelle zone buie dell’intolleranza e del razzismo diffuso là dove i diritti umani sono disprezzati e offesi.
L’Italia non ha certo le carte in regola a questo proposito. Nemmeno sul terreno del rapporto col suo recente passato. Il libro di Daniela Bifulco ha il merito di affrontare un tema non per caso piuttosto desueto in un paese – il nostro – incline a un distratto e superficiale perdono, abile nell’evitare domande inquietanti. Dopo la seconda guerra mondiale si è preferito immaginare gli italiani come vittime piuttosto che come carnefici: e l’intero paese ha preferito vedersi in veste di vincitore piuttosto che di vinto. Da noi il ricordo della legislazione razziale antisemita è appena baluginante. Mesi fa in una città universitaria italiana è stata posta una lapide in memoria di studenti e docenti allontanati nel 1938 perché ebrei: un rito distratto e tardivo, disertato dalla generalità del corpo accademico, rettore in testa. Lo stesso silenzio del 1938, quando gli illustri membri ecclesiastici e laici delle mille accademie italiane furono assai solerti nell’attestare l’assenza di macchie nella loro tradizione familiare tutta ariana e cattolica. Qualche monsignore poté svicolare dall’obbligo di rispondere grazie alla cittadinanza vaticana, come ha scoperto di recente Annalisa Capristo. Ma tutti gli altri si gloriarono dell’indefettibile loro arianità e di un cattolicesimo come immemoriale patrimonio di famiglia. L’unico a rispondere con lo sdegno che ci voleva fu Benedetto Croce. Troppo poco, davvero.
“Negare l’evidenza” di Daniela Bifulco (Franco Angeli, pagg. 128, euro 17)

l’Unità 25.6.12
Estetica.  Quant’è bella la geometria
Linee, parabole e rettangoli nella pittura contemporanea
Questi elementi costituiscono un linguaggio artistico ricco di poesia
E smentiscono chi dice che la matematica sia arida
Gli esempi nelle opere di Kandinskij e Malevich
di Michele Emmer


«NON È SOLTANTO IL RETTANGOLO CHE IO USO NELLA MIA PITTURA; È UNO DEGLI ELEMENTI DETERMINANTI DI TUTTE LE MIE COMPOSIZIONI. Naturalmente uso molto anche la linea curva, non esiste quasi mio quadro o pochissimi in cui non siano presenti dei cerchi, delle linee circolari, delle curve: ellissi, paraboli, iperboli eccetera....Utilizzo anche i triangoli e i quadrati ma in funzione di contrappunto al resto delle forme che realizzano la mia composizione». Così l’artista italiano Luigi Veronesi nel film Ars Combinatoria del 1986.
Questa pittura, razionale com’è (non è un caso che una delle opere di Veronesi, composte di otto oli in successione, del 1973 si intitoli Dall’irrazionale al razionale) ha il suo analogo, se non proprio vi si fonda, in quelle matematiche severe che istituiscono «il loro proprio sistema di segni, lo organizzano e lo svolgono in affabulazione». In quelle matematiche severe che Leonardo Sinisgalli ne I quaderni di Geometria del 1936 citava da i Canti di Maldoror del Conte de Lautréamont (Isidore Ducasse):
«O Matematiche severe, non vi ho dimenticato da quando le vostre sapienti lezioni, più dolci del miele, filtrarono il mio cuore come un’ombra rinfrescante...Aritmetica! Algebra! Geometria! Trinità grandiosa! Triangolo luminoso! Colui che non vi ha conosciuto è un insensato: meriterebbe i più grandi supplizi».
Ha scritto Glauco Viazzi nel 1980 nel volume dedicato a Luigi Veronesi «Proprio non sono queste astrazioni ottenute partendo dal sensibile ma operazioni basate direttamente sul concreto; sulla concisa, severa, concreta bellezza del geometrico. Davvero le opere dei tardi anni Trenta e degli anni Quaranta indicano quanto il Veronesi non abbia rapporti con le tendenze suprematiste, neoplasticiste o bauhausiane, pertanto di Kandinskij non tanto i quadri, quanto Punto, linea e superficie».
Nel famoso articolo scritto nel 1949 «Per un approccio matematico nell’arte del nostro tempo», Max Bill sottolineava come «il punto di partenza per una nuova concezione dell’arte è probabilmente dovuto a Kandinskij, che pose nel 1912 le premesse di un’arte nella quale l’immaginazione dell’artista sarebbe stata sostituita dalla concezione matematica...Si sostiene che l’arte non ha niente a che fare con la matematica, che quest’ultima sia una materia arida, non artistica, un campo puramente intellettuale e di conseguenza estraneo all’arte. Nessuna di queste due argomentazioni è accettabile, perché l’arte ha bisogno del sentimento e del pensiero».
IL «QUADRATO NERO»
Veronesi non si rivolge alle geometrie di Kandinskij e Malevich, alle forme geometriche assiomatizzate da Euclide migliaia di anni prima e che diventano, tra tutti il Quadrato, il simbolo del futuro per l’arte. Scrive Malevich a proposito del Quadrato nero del 1913: «Questo disegno avrà una importanza enorme nella pittura: rappresenta un quadrato nero, l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente. È il progenitore del cubo e della sfera, e la sua dissociazione apporta un contributo culturale fondamentale alla pittura».
Il referente culturale di Veronesi sono le geometrie non-euclidee. Nel corso della seconda metà del XIX secolo la geometria era profondamente mutata. Nikolaj Ivanovic Lobachevskij e János Bolyai negli anni 1830-50 costruiscono i primi esempi di geometrie non euclidee, in cui non era valido il famoso quinto postulato di Euclide sulle rette parallele.
Non senza dubbi e contrasti, Lobachevskij chiamerà la sua geometria (oggi denominata geometria non euclidea iperbolica) geometria immaginaria, tanto era in contrasto con il senso comune.
Nel 1854 Riemann tenne davanti alla facoltà di filosofia dell’Università di Gottinga la famosa dissertazione dal titolo Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, che verrà pubblicata solo nel 1867. Nella presentazione Riemann sosteneva una visione globale della geometria come studio di varietà di un numero qualsiasi di dimensioni in qualsiasi genere di spazio.
Scrive ancora Viazzi: «Sono proprio le concezioni del matematico dell’università di Kazan Nikolaj Lobachevskij il terreno sul quale si incontrano, ciascuno a suo modo seguendo i propri itinerari specifici, temperamenti artisti diversi come Lisitskij, Rodcenko, Moholy Nagy e Veronesi».
CURVE E SFERE
Le geometria di Riemann era la geometria di uno spazio in cui ruolo centrale aveva la curvatura. Aveva scritto Malevich che il quadrato era all’origine della sfera. Noi viviamo su una sfera. Della sfera, simbolo aereo e fragilissimo, assimilato per secoli all’idea della Vanitas, la bolla di sapone. Una storia parallela quella delle bolle di sapone tra arte e scienza, che inizia nel Cinquecento e continua sia nell’arte contemporanea che nella scienza, nella matematica e nell’architettura in particolare. Perché, come diceva Galileo Galilei «La filosofia (della natura) è scritta in questo bellissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (Io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara ad intendere la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche.
TORINO: «Dall’eternità a qui» Dieci giorni di arte e scienza
A Torino dal 19 al 30 giugno si sta svolgendo la manifestazione «Dall'eternità a qui». Questo il titolo della III edizione di «Giorno per Giorno». Partendo dal tema dell'arte, saranno toccate una molteplicità di discipline umanistiche e scientifiche: architettura, letteratura, musica, fisica, astronomia, matematica e design. Pubblichiamo parte dell’intervento di Michele Emmer che terrà alla Gam il 27 giugno alle 18,30.
La Stampa 25.6.12
L’esempio delle orchestre giovanili del Venezuela contagia l’Europa (e l’Italia)
Con la musica nessuno si sente “nessuno”
di Claudio Abbado


Ho conosciuto «El Sistema» delle orchestre e cori giovanili e infantili in Venezuela nel 1999, durante una tournée con la Mahler Jugendorchester negli Stati Uniti e in alcuni Paesi dell’America latina, e ne sono rimasto subito impressionato. Quello che José Antonio Abreu ha realizzato in più di un trentennio è una cosa unica. Tutti i giovani, di qualsiasi età e ceto sociale, hanno la possibilità di studiare musica, e la formazione – così come gli strumenti – sono gratuiti. Il Sistema non è però una semplice scuola di musica, nasce espressamente per dare l’opportunità a centinaia di migliaia di giovani di avere un futuro. Come dice Abreu, la povertà più grande non sta nel non avere un pezzo di pane o un tetto, ma nell’essere un individuo isolato, che non fa parte di alcuna comunità e che non ha obiettivi. In una parola, nell’essere «nessuno». Abreu ha impostato il Sistema proprio con questo obiettivo: dare uno scopo a ogni individuo, fornire a ogni giovane la possibilità di fare parte di una collettività, attraverso il fare musica insieme.
L’orchestra come metafora della società – un’immagine che da noi rischia di apparire scontata e un po’ retorica – diventa nel Sistema una realtà concreta e tangibile. Fare musica insieme è di fatto la più efficace educazione alla vita comunitaria, al rispetto, alla disciplina e soprattutto all’ascolto reciproco. L’ascolto è un elemento imprescindibile, anche se quasi sempre trascurato, nella vita civile.
Perciò sono da sempre convinto che non ci sia solo un valore estetico nel fare musica: dalla sua bellezza intrinseca, in grado di comunicare universalmente, scaturisce un intenso valore etico. La musica è necessaria alla vita, può cambiarla, migliorarla e in alcuni casi può addirittura salvarla.
Per questo motivo da sempre insisto sull’importanza dell’educazione musicale, che in ultima analisi diventa educazione dell’uomo. Prima è però fondamentale che la musica sia accessibile a tutti, democraticamente. L’amico José Antonio Abreu ha fatto proprio questo: in Venezuela ora la musica è un bene comune, come l’acqua. Il suo sogno è quello di un Paese di umanisti e di musicisti, dove la gente possa assumere dignità attraverso la forza dell’arte.
In Venezuela il Sistema è ovunque, perché si vuole che la musica sia ovunque. Ci sono centinaia di orchestre infantili e giovanili, presenti in modo capillare in ogni regione e provincia, persino nei paesi remoti, e c’è un grande sforzo affinché tutti i ragazzi possano averne accesso, nessuno escluso. Questa determinazione è alla base di uno dei progetti che più mi hanno commosso, l’ormai famoso Coro Manos Blancas, in cui ragazzi non udenti o con altre disabilità «cantano» attraverso le loro mani, con guanti bianchi, esprimendosi attraverso coreografie molto comunicative.
La musica in questo Paese è sempre presente, come strumento educativo e riabilitativo, o addirittura di riscatto; in alcune carceri, infatti, sono state costituite orchestre di detenuti, ai quali è data così la possibilità di imparare a suonare uno strumento. Il Sistema è pubblico, sostenuto dal governo venezuelano, ma si avvale di finanziamenti privati reperiti in tutto il mondo grazie a una instancabile opera di sensibilizzazione. Anche questo aspetto rappresenta sicuramente, a mio parere, un modello da imitare. Per reperire gli strumenti musicali, inoltre, c’è una vera e propria campagna di raccolta che si muove a livello praticamente mondiale.
Vengono coinvolti i liutai di molti Paesi e gli stessi musicisti, che mettono a disposizione i propri strumenti inutilizzati. Questo esempio ha felicemente contagiato anche l’Italia, dove le campagne di raccolta «Costruire con la musica» vanno a beneficio dei Paesi in via di sviluppo, delle zone belliche e del nascente «Sistema» italiano.

La Stampa 25.6.12
Suonando s’impara a vivere insieme
Claudio Abbado importa in Italia il “Sistema” delle orchestre giovanili
di Egle Santolini


MILANO Luca Vacchetti, anni 12, di Torino, è già sul podio: direttore dell’Orchestra Pequeñas Huellas, che vuol dire piccole impronte. Giorgio Napolitano l’ha nominato Alfiere della Repubblica, ma lui mica si è montato la testa: gli hanno insegnato che la musica serve a educare alla pace e a formare alla democrazia, e anche se sei una «bacchetta magica» (così si chiama il corso seguito da Luca) con gli altri devi crescere e collaborare.
Dal Venezuela l’utopia realizzata di José Antonio Abreu sta dunque radicandosi anche in Italia. Il 16 dicembre 2010 si è costituito il comitato «Sistema delle orchestre e dei cori giovanili in Italia», copresieduto da Claudio Abbado e dallo stesso Abreu e guidato da Federculture e dalla Scuola di Musica di Fiesole. Sono 27 i nuclei già operativi, ai quali presto se ne aggiungeranno altri tre, e 6.500 circa i bambini dai 4 ai 14 anni (ma sui limiti d’età c’è elasticità) che ne seguono i corsi.
Un’esperienza ineguagliabile, «perché - riassume Roberto Grossi, presidente di Federculture - imparare uno strumento significa frequentare il laboratorio della propria personalità, vivere il rapporto con gli altri in modo non violento e non distratto, accumulare una ricchezza emotiva che ti accompagnerà per la vita».
Ma a tali meraviglie corrispondono purtroppo grandi difficoltà economiche e l’impermeabilità delle istituzioni. Racconta Grossi che ci si è costituiti in Onlus «visto che il disegno di legge per un finanziamento statale con diramazioni regionali giace da tempo alla Commissione cultura della Camera», e tutto è sulle spalle di insegnanti entusiasti e totalmente volontari. Per trovare fondi ci s’industria, anche organizzando raccolte di strumenti da dare ai bambini: è successo al Petruzzelli di Bari e alla Scala, il 21 ottobre si ripete a Roma al Parco della Musica.
Quanto ne valga la pena lo spiega Sabina Colonna Preti, docente di viola da gamba, solista nei «Brandeburghesi» di Bach con Abbado, anima del Sistema in Piemonte: «Lo sa che cosa vuol dire far suonare il violino per sei ore la settimana a un bimbo piccolo? È una quantità enorme di tempo, eppure ce la facciamo. L’importante è formarli dalle basi e tutti insieme. A Torinosiamoriusciti ad aprire tre asili musicali nel quartiere di San Salvario più uno a Torrazza Piemonte, eprestoci sarà anche quello nel quartiere di Barriera di Milano. Alla primaria «Rayneri» di San Salvario, poi, un modulo non aveva il tempo pieno e lì ci siamo inseriti noi per un esperimento unico in Italia: pomeriggi interi di violino, trecinque volte la settimana. A differenza dei grandi, gli orchestrali bambini non sono competitivi: è un lavoro di squadra perfetto».
Andrea Lucchesini, direttore artistico della Fondazione Scuola di Fiesole, racconta di come sia stato affidato alla storica istituzione fondata 38 anni fa da Piero Farulli un compito delicatissimo, quello della formazione dei formatori: «Finora abbiamo organizzato tre incontri di base per una settantina di insegnanti, presto contiamo di approntare un corso vero, con tirocinanti. Lo spirito di Abreu viene conservato nei principi generali, pur tenendo conto del nostro diverso tessuto sociale».
Ma tutto, in fondo, era già stato pensato qualche secolo fa. Ricorda Roberto Grossi: «Nel Settecento, Antonio Vivaldi insegnava la musica alle orfanelle di Santa Maria della Pietà. A Venezia, e anche lì scatta la coincidenza: Venezuela vuol dire piccola Venezia, e così lo chiamò Amerigo Vespucci quando arrivò in quella laguna con le catapecchie. Questo è il prossimo progetto di collaborazione con Abreu: si chiamerà “La Musica ViVe”, Vi per Vivaldi e Ve per Venezuela».