mercoledì 27 giugno 2012

«l’Unità... buon successo dell’abbinata con il settimanale Left»
il Fatto 27.6.12
Editoria
Il manifesto resiste, nasce Il Paese: quanti giornali a sinistra
di Chiara Paolin


Superata la paura di non farcela più, ieri il Manifesto ha comunicato di aver raggiunto l’accordo al ministero del Lavoro che prevede una ripartenza del giornale comunista con 36 dipendenti fra giornalisti e poligrafici, mentre i rimanenti 34 faranno la cassa integrazione a rotazione. “Ci abbiamo sempre creduto, abbiamo ogni giorno lavorato per raggiungere questo risultato e – si legge in prima pagina – ieri finalmente abbiamo firmato: dimezzati ma vivi”. Ma sono sempre tempi duri per l'editoria, soprattutto a sinistra dove si affollano nuovi e vecchi giornali che stanno per arrivare in edicola. Dopo l’annuncio di Luca Telese, che a settembre darà alle stampe il quotidiano Pubblico, un altro giornalista di sinistra è alle prese con l’ennesimo debutto cartaceo nel prossimo autunno: Piero Sansonetti. Già condirettore dell’Unità con Renzo Foa e Walter Veltroni e poi direttore a Liberazione, e trapiantato al sud come direttore di Calabria Ora, ma sempre conteso nei salotti televisivi soprattutto come accompagnamento ai politici di centro-destra. É anche direttore del settimanale d’opinione Gli Altri (con annesso trimestrale Outlet), adesso Sansonetti guiderà un quotidiano in uscita il prossimo ottobre. Si chiamerà il Paese per richiamare l’esperienza gloriosa di Paese Sera, e sarà un tabloid da 16 pagine in distribuzione automatica con alcune testate del Sud: lo si leggerà come minimo tra Calabria, Basilicata e Puglia, un trio assai prezioso visto che il decreto legge sui contributi all’editoria in discussione al Senato prevede l’identità di testata nazionale ai quotidiani che coprono almeno tre Regioni e non più cinque (grazie a un emendamento firmato dalla Lega Nord). Sarà così dunque che il Paese, radicato nel Meridione ma puntato sulle grandi questioni italiche, vivrà per confrontare opinioni contrapposte sui temi dell’attualità: pro e contro, idee divergenti, polemiche – possibilmente accese – sul lungo addio in corso ai concetti di Destra e Sinistra.
PER ORA il confronto più serrato è sulle strutture redazionali necessarie alla realizzazione del nuovo prodotto in quel di Roma: computer, progetti grafici, supporti informatici. Sulla piazza cittadina è in vendita ciò che resta (tecnologicamente parlando) del Riformista, e Sansonetti è riuscito a sfilare il sistema editoriale a Telese. Il quotidiano del Pd, l’Unità, diretto da Claudio Sardo, nonostante il buon successo dell’abbinata con il settimanale Left, è alle prese con uno stato di crisi che prevede l’esodo di circa venti giornalisti grazie a formule soft, mentre l’organico definitivo dovrebbe aggirarsi attorno alle 45 posizioni. Il Manifesto, invece, torna a sperare concretamente. L'accordo siglato con l’editore parla di un organico ridotto a 36 redattori: nel 2006 i soci della cooperativa erano 107.
Anni di tagli e cassa integrazione hanno portato alla liquidazione coatta della testata. Ora il tentativo di rinascita e i complessi calcoli sulle quote spettanti in base ai nuovi criteri: secondo il decreto legge che andrà al voto in queste ore a Palazzo Madama, gli aiuti saranno più legati alle vendite che alla diffusione, con un criterio che fa salire dal quindici al venticinque per cento il rapporto tra i due dati per ottenere il bonus. Soprattutto per premiare chi sta sul mercato, o almeno ci prova.

l’Unità 27.6.12
L’Anpi denuncia: il governo ci ha tolto i contributi
di Valerio Raspelli


ROMA «Nel 2012 per la prima volta nella storia dell’Anpi non risulta né stanziato né deliberato alcun contributo per le associazioni combattentistiche e partigiane, con un atto che appare fortemente discriminatorio ed assolutamente inaccettabile e che lo schema di documento ministeriale trasmesso alla presidenza della Camera il 21 maggio 2012 prevede solo stanziamenti a favore delle Associazioni d’arma». Un comunicato stringato e sofferto dell’Associazione nazionale partigiani, un comunicato che non avrebbero voluto scrivere per sottolineare che quello che nemmeno Berlusconi aveva fatto, lo fa il governo tecnico di Mario Monti: tagliare i fondi all’associazione. «Esprimiamo profonda preoccupazione per il fatto che a tutt’oggi prosegue il comunicato ancora una previsione di contributo per il 2012 alle associazioni combattentistiche e partigiane, che già da alcuni anni si sono viste progressivamente decurtare il contributo annuo, fino a ridurlo a livelli inaccettabili (in tre anni, si è passati da 1.500 milioni complessivi a 753.000 euro!)».
INTERROGAZIONE IDV
L’Italia dei valori protesta. «La spending review scrive la tesoriera dipietrista Silvana Mura è in alto mare, come dimostra lo slittamento del decreto, ma intanto il governo ha pensato bene di tagliare quei pochi fondi che lo stato ha sempre concesso ad associazioni meritorie, come l’Anpi, che hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale per la cultura, la storia e la politica del nostro paese». «A seguito della denuncia pubblica, purtroppo caduta nell’indifferenza generale, dell’Associazione Partigiani sul taglio di ogni contributo pubblico da parte dello Stato scrive Mura oggi ho presentato un’interrogazione al governo chiedendo quali siano i motivi che hanno portato a questa decisione e chiedendo all’esecutivo di rivedere immediatamente questa posizione».
«Sarebbe molto grave se, quello che non ha mai fatto neppure il governo Berlusconi, fosse posto in atto dal governo dei tecnici tanto caro al presidente della Repubblica e al Pd, condannando l’Anpi all’inattività e di conseguenza arrecando un danno irreparabile all’opera di propagazione delle memoria storica e dei valori della Resistenza. Quegli stessi valori conclude da cui è nata questa Repubblica e che hanno ispirato la prima parte della nostra Costituzione».

l’Unità 27.6.12
Etica e diritti, i meriti del comitato Bindi
Il Partito democratico e con lui l’insieme della sinistra italiana, hanno di fronte un compito storico:
quello di formare nell’opinione pubblica italiana un nuovo senso comune con al centro un progetto di rinascita dell’Italia
di Aldo Schiavone


Il ventennio berlusconiano, e non solo quello, ha riempito di tossine il costume civile e l’intelligenza critica del Paese: il lavoro da fare è perciò difficile e impegnativo. Per svolgerlo, bisogna essere capaci di mettere in campo una cultura dell’emancipazione, dell’equità e della cittadinanza quale mai si è riusciti finora a produrre nella storia nazionale. I suoi elementi non si trovano già pronti nelle nostre tradizioni, più o meno aggiornate ai problemi del presente. Vanno costruiti con uno sforzo di elaborazione originale, in cui la scelta e il gusto dell’innovazione mettano in grado di anticipare il futuro, e di trovare soluzioni avanzate e convincenti. C’è bisogno di creazione, piuttosto che di sintesi. Non si tratta di collegare in maniera più o meno coerente pezzi delle eredità ricevute (tradizione cattolico-democratica, tradizione socialista, e così via), ma di essere in grado di oltrepassarle di slancio, e di proiettare in avanti il nostro pensiero.
In questo senso, il documento messo a punto dal Comitato diritti del Pd può essere considerato un passo avanti di una qualche importanza. Certo, avrebbe potuto essere, in alcune sue parti e formulazioni, più incisivo, meno scolastico, più coraggioso, e con un maggior numero di proposte. Lo stile avrebbe potuto essere più accattivante e meno da documento politico. Ma la strada mi sembra nel suo insieme quella giusta, e gli abbozzi di analisi che vi sono contenuti mi pare spesso colpiscano il segno. Mi riferisco in particolare a tre temi, che considero di grande rilievo: il rapporto fra tecnica e vita, quello fra eguaglianza e differenza, e la ridefinizione della famiglia.
Oggi la nuova potenza della tecnica le sta consentendo di intervenire sugli stessi fondamenti biologici della nostra esistenza, di modificare i confini tra la vita e la morte, di creare una sempre più ampia zona grigia dove naturale e artificiale si confondono, in un intreccio che è il motore della nuova civiltà. È una nuova condizione dell’umano, la “morte del naturale”, che si riflette non solo sul piano operativo, ma su quello etico e dei comportamenti, e ha determinato quell’enorme aumento di bisogni, di desideri, di soggettività e di consumi che sta sommergendo il nostro tempo. Una moltiplicazione e un’espansione dei piani di vita individuali la cui crescita disordinata sta logorando le risorse del pianeta: non solo quelle naturali, ma anche quelle che potremmo chiamare “storiche”, accumulate attraverso millenni di lavoro umano – pensiamo, ad esempio, alle nostre città. Una domanda capitale si impone di fronte a questo stato di cose: quanto della nuova potenza tecnologica dovrà incontrare i nostri progetti di vita passando attraverso la forma della merce e del mercato, e quanta invece dovrà essere accessibile al di fuori di questa mediazione. Noi sappiamo bene che la soluzione non può essere quella di ridare semplicemente allo Stato ciò che togliamo al mercato. Si tratta di mettere alla prova nuove forme di razionalità sociale – lavoro, territorio, conoscenza, costruzione di sé – in grado di esprimere attraverso altre strade una nuova relazione fra individuo e collettività, fra bene comune e identità soggettiva. Un compito enorme, ma ineludibile.
Le tradizioni democratiche dell’Occidente hanno fatto sinora di un’idea forte di eguaglianza un elemento costitutivo della loro presenza. Ed è evidente che questo pensiero debba restare una stella polare della nostra cultura. Ma quale eguaglianza? Anche su questo dovremo riflettere molto, per preparare il futuro. Il tramonto della grande industria meccanica nei Paesi avanzati del pianeta e la fine del lavoro operaio come principale produttore di ricchezza sociale hanno messo in crisi il modello di eguaglianza proprio della cultura socialista, che aveva dentro di sé l’odore del carbone e del ferro. Il lavoro postindustriale non è né socializzante né intrinsecamente egualitario, come quello della grande fabbrica. L’idea di eguaglianza ha così perduto il suo centro propulsore. Dobbiamo trovarne di nuovi, partendo da un’idea non seriale e non ripetitiva di eguaglianza, fondata più sulla cittadinanza che sulla produzione, e in grado di integrare dentro di sé un’idea altrettanto forte della differenza, delle diversità, dell’irriducibile specificità di ogni piano di vita individuale. Mai così eguali e mai così diversi: questa deve diventare la nostra bandiera. Blocchi espansivi di eguaglianza, in un oceano di differenze.
Infine, la famiglia. La vita esiste solo entro le forme: forme della tecnica, e forme della socialità. La famiglia è appunto una forma sociale primaria che ha organizzato a lungo la socialità più elementare delle nostre vite. La sua origine non ha nulla di misterioso, e non riflette alcuna pretesa naturalità: essa si è imposta perché assicurava un formidabile vantaggio evolutivo ai gruppi che l’adottavano, rispetto alle comunità di branco, legato a un miglior controllo della funzione riproduttiva. Essa è storia, e solo storia, e dunque continua trasformazione. L’ultimo cambiamento – risultato di una grande novità economica e culturale legata alla rivoluzione industriale di due secoli fa – ha messo per la prima volta al suo centro in Occidente l’amore dei coniugi: pulsioni, fantasie, affettività che il mondo moderno aveva fatto emergere e cui aveva dato voce (da Hegel a Thomas Mann). Ma se la famiglia moderna è fondata solo sull’amore, la radicalità dell’enunciato si carica di importanti conseguenze. La prima è che, oggi, la trama dell’amore non può essere più ridotta entro la cornice dell’eterosessualità, quando ormai l’urgenza della funzione riproduttiva si è spenta per tutta la specie. Quel che oggi rimane al centro della famiglia è nient’altro che una dialettica dei sentimenti e delle diversità che possiamo sganciare dal “maschile” e dal “femminile” così come si sono storicamente dati. Anche le differenze di genere sono storia, e solo storia. Un autentico progetto di emancipazione passa anche per questa scoperta.

il Fatto 27.6.12
Bertone va, i problemi restano
di Marco Politi


Con la stessa intensità con cui per settimane in Vaticano ci si è scagliati contro “corvi”, calunniatori, vigliacchi traditori del Papa e della Chiesa, addirittura strumenti della volontà di seminare zizzania del “Maligno” (così il cardinale Bertone a Famiglia cristiana) giungono ora segnali dalla Curia di una sostituzione del Segretario di Stato dopo la ripresa estiva e di un fantomatico “governo tecnico”, che dovrebbe riportare la pace nel governo centrale della cattolicità.
Il vento è cambiato d’improvviso. Ma la tentazione di pilotare l’informazione, dimostrando che in alto loco si provvede sempre bene, permane intatta. Non è dato ancora di sapere se e quando il cardinale Bertone cederà il campo. La partita non è chiusa. La lista dei successori immaginati o desiderati dalle varie cordate è lunga: si va dai cardinali Piacenza e Sandri all’attuale ministro degli Esteri vaticano mons. Mamberti, ad alcuni nunzi di nunzi di grande esperienza. Ma la crisi, ancora nel suo pieno svolgimento, dimostra già alcune cose. I dissidenti, che hanno deciso di manovrare la raccolta di documenti segreti e di lanciarli nell’arena mediatica, hanno visto giusto nel-l’adottare una strategia che uscisse dal chiuso delle felpate manovre di palazzo. Oggi la questione della gestione della Curia è finalmente in agenda.
QUELLO CHE con silenziose pressioni su Benedetto XVI, anche da parte di alti prelati, non si era riuscito a ottenere, è stato raggiunto attraverso la pianificata e metodica pubblicazione di rivelazioni – tutte autentiche – sul Fatto Quotidiano e nel libro di Gianluigi Nuzzi. Dunque il “mistero” come strumento di governo non paga più. Anche la Santa Sede dovrà rendersi conto che nel XXI secolo ogni autorità, anche la più antica, deve rispondere all’opinione pubblica delle sue azioni, omissioni e colpe. Gli anglosassoni la chiamano “accountability”. Da lì non si sfugge. Cullarsi ancora nell’illusione che le critiche siano veleno proveniente da presunti nemici della Chiesa si rivela solo una perdita di tempo.
Mentre Benedetto XVI procedeva ad un consulto straordinario con un piccolo comitato di crisi composto da cinque autorevoli cardinali, il Vaticano ha annunciato la nomina di un “consigliere” per la strategia comunicativa, inserito nello staff della Segreteria di Stato. L’americano Greg Burke, ex corrispondente di Fox News e Time, affiliato all’Opus Dei, è un provato professionista, ma ancora una volta in Vaticano si confonde una crisi nata da problemi di sostanza – finanze e potere – con presunti “errori di comunicazione”. I numerosi incidenti di percorso di questo pontificato sono stati prima negati e poi derubricati a sbagli nel comunicare. Non di questo si tratta. Dall’incidente di Regensburg, che infiammò l’Islam, all’affare Williamson (il vescovo negazionista lefebvriano liberato dalla scomunica), fino alle polemiche sugli insabbiamenti dei casi di pedofilia, sono sempre state in gioco scelte sostanziali del pontefice e del Vaticano. E comunque né il Papa né il Segretario di Stato hanno mai voluto “consigli” su come comportarsi.
Padre Lombardi, il direttore della Sala Stampa vaticana costretto a difendere continuamente trincee indifendibili, sarebbe stato – ed è – pienamente in grado per la sua esperienza di suggerire al pontefice quali effetti certe decisioni o dichiarazioni hanno sull’opinione pubblica. Non gli è stato mai chiesto di esercitare un ruolo di cooperatore della strategia mediatica papale come avveniva con Navarro ai tempi di Giovanni Paolo II. Anche perché una strategia questo pontificato non ce l’ha. È stato lo stesso segretario papale Gaenswein a ribadire recentemente che Benedetto XVI “non è un politico” e il suo pontificato “non è un progetto”. Il problema è esattamente questo: la guida di un organismo di un miliardo e duecento milioni di fedeli, qual è la Chiesa cattolica, richiede un programma di governo. Una vittoria degli avversari di Bertone non risolverà questa carenza di fondo. Perché nel sistema di monarchia assoluta, com’è il governo della Chiesa cattolica, lo stato maggiore alla fine riflette le direttive o le incertezze del comandante supremo.
PAPA RATZINGER, come ciclicamente si è ripetuto nel suo pontificato, sta intervenendo con ritardo e quando i danni maggiori sono già stati provocati. Il momento di prendere in mano la situazione era precisamente quando il cardinale Nicora e l’allora presidente dello Ior Gotti Tedeschi sollevarono la questione della trasparenza della banca vaticana. Aver lasciato passare mesi è segno di una debolezza di leadership, difficile da immaginare superata.
Ad ogni modo i veri nodi attendono tuttora di essere affrontati. Perché l’opinione pubblica poco si cura di “nuove strategie di comunicazione”. Vuole invece sapere cosa ne sarà della banca vaticana, che in passato si è drammaticamente mostrata poco concentrata sulle opere di carità. Marco Lillo su queste colonne ha anticipato il parere negativo degli ispettori di Moneyval sulla incapacità dello Ior di rispondere – su una serie di punti – ai requisiti di trasparenza richiesti dal sistema finanziario internazionale.
Se lo Ior, come tutto lascia prevedere, non sarà accolto nella “white list” delle banche mondiali, il danno per la credibilità della Santa Sede sarà grande e a poco varranno un consigliere di comunicazione e neanche un cambio di Segretario di Stato.

il Fatto 27.6.12
Monsignor Tremonti è quasi pronto. Amen
Il professore prepara il rientro nel 2013 con nuove sponde vaticane

di Stefano Feltri

Peggio sta il Pdl, più credibile diventa Giulio Tremonti come protagonista delle elezioni 2013. Distaccato forse per sempre dagli ambienti berlusconiani, l'ex ministro del Tesoro sembra poter contare su una crescente credibilità in Vaticano, che potrebbe diventare quasi una benedizione in vista del voto. “In questa fase vede molte persone, sta lavorando a un progetto ancora da definire nei dettagli, ma certo c'è una sintonia per ora culturale con gli ambienti vaticani”, racconta chi lo conosce bene. La notizia è stata evidenziata solo dalla stampa cattolica, ma l'11 e il 12 giugno, Tre-monti è volato a Bydgoszcz, in Polonia, per l'apertura del Centro Studi Ratzinger, celebrata da un convegno su “Etica ed economia alla luce dell'insegnamento di Benedetto XVI” organizzato proprio dalla Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger. In due giorni di convegni, a parte le tavole rotonde, c'erano solo tre lectio magistralis, una del segretario del Pontificio consiglio Iustitia e Pax, monsignor Mario Toso, una del segretario di Stato Tarcisio Bertone e la terza (titolo: “Etica in economia – uno standard o un option? ”) di Tre-monti. Doveva esserci anche Ettore Gotti Tedeschi, amico di decenni dell'ex ministro, aveva anche contribuito all'organizzazione del convegno. Ma la cacciata dalla presidenza dello Ior e gli scandali che ne sono seguiti hanno sconsigliato la sua partecipazione.
“LA CHIESA non appoggia nessuno”, premette sempre Tremonti a chi lo indica come potenziale leader di un vago partito del Vaticano. Ma il professore è consapevole che il quadro politico, per quanto incerto, gli offre alcune opportunità. Da tempo i cattolici militanti sono irrequieti, il cardinal Angelo Bagnasco, con i vescovi della Cei, aveva ispirato il convegno di Todi a fine 2011. Ma il terzo polo centrista, quello di Pier Ferdinando Casini, che di quegli impulsi doveva essere il naturale sbocco, sembra svanito. E con Casini più vicino al centrosinistra, forse destinato a finire in una coalizione che arriva fino alla Sel di Nichi Vendola, potrebbe avere senso per il Vaticano – lato Bertone – individuare un punto di riferimento tra le macerie del centrodestra.
Da mesi, in attesa di capire che succederà a Pd e Pdl, Tremonti cesella la sua offerta politica. Ha già una traccia di programma, che è il libro Uscita di sicurezza (Rizzoli), parte bilancio della sua esperienza da ministro e parte analisi critica della reazione alla crisi, sta costruendo in solitario una base di consenso territoriale, con la scusa delle presentazioni (raccontano che a Concordia, zona terremotata vicino a Modena, nel weekend abbia venduto quasi mille copie al dibattito in occasione della presentazione del bilancio della cooperativa, rossa, CPL). In Parlamento, dove è pur sempre un deputato Pdl anche se ai margini del partito, Tremonti continua la sua campagna contro gli eccessi della finanza. A maggio ha presentato la proposta di legge per la “Delega al governo per la riforma dell’ordinamento bancario mediante la separazione tra credito produttivo e attività finanziaria speculativa”, che a lui piace definire la versione italiana del Glass-Steagall Act americano (che nel 1933 separò la normale attività bancaria da quella più speculativa). Anche il Pd, con Francesco Boccia, sta ora spingendo perché la speculazione sui mercati si ostacoli mettendo fuori legge i contratti più arditi invece che con la Tobin Tax su cui c'è un'intesa europea, a parole, ormai maggioritaria (la Gran Bretagna si oppone, la linea italiana è oscillante).
QUANDO SI PARLA di Tremonti e la politica, l'auctoritas è il suo storico amico e mentore Rino Formica. L'85enne ex ministro socialista, che ieri non si è perso una parola delle comunicazioni di Mario Monti alla Camera e del dibattito parlamentare sul vertice europeo, predica cautela: “Fino a ieri Tremonti poteva contare sulla mancanza di una linea del Parlamento italiano di fronte alla crisi e sull'incapacità politica di Pd e Pdl di concordare una posizione utilizzabile da entrambi”. Ma almeno per ora i due partiti principali hanno neutralizzato le ali più populiste ed euroscettiche e, sostiene Formica, “ieri è avvenuta la trasformazione del governo da tecnico a politico e adesso sarà più difficile per chiunque ritagliarsi spazi di iniziativa politica, questo Paese decomposto in tutto ha trovato una linea miracolosamente unitaria”. A Tremonti sembra quindi servire un miracolo. O almeno una benedizione.

Repubblica Firenze 25.6.12
Critico l’ex assessore Fantoni: “Non era mai accaduto prima”
“Perché erano alla messa coro e orchestra del Maggio?”


PRENDERE la messa fa parte degli obblighi professionali dei musicisti del Maggio? Ne dubita molto l’ex assessore comunale al Bilancio Claudio Fantoni, tornato al suo lavoro di corista da quando si è dimesso dalla giunta di Matteo Renzi.
«Questa mattina», scriveva ieri su Facebook, «buona parte dei miei colleghi dell'orchestra e del coro del Maggio musicale fiorentino sono in Duomo a suonare e cantare. Ma non solo ». E qui cita la spiegazione data dalla sovrintendente Francesca Colombo: “Il Maggio entra nella cattedrale di Firenze il giorno della festa del suo patrono, con la qualità delle sue masse
artistiche, che si uniscono con la musica di Mozart alla liturgia della messa officiata dal cardinale in un momento di alta spiritualità per tutti”. Continua Fantoni sul suo post: «Negli anni, abbiamo suonato e cantato tante messe come da programma di tanti concerti ma, per l’appunto, si trattava di concerti e semplicemente di musica. Mai era successo, a mia memoria, che i musicisti del Maggio, che è un’istituzione sostanzialmente pubblica (finanziata quasi esclusivamente con fondi pubblici e di conseguenza governata da enti pubblici), fossero chiamati a prendere parte attiva in ragione del proprio rapporto
di lavoro ad una funzione religiosa. La questione è che nei fatti, a prescindere dalle intenzioni — spiega Fantoni — oggi è stato sancito per i lavoratori del Maggio una sorta d’obbligo di adesione quantomeno fisica ad uno specifico culto. Potere esercitare il proprio culto, quindi andare a messa è certamente un diritto, anzi un diritto fondamentale che in nessun modo e con nessuno strumento deve essere negato o compromesso. Creare le condizioni per cui ciò risulti nei fatti un obbligo professionale è invece una lesione del medesimo diritto che non giova a nessuno, credenti di tutte le religioni e non credenti».

l’Unità 27.6.12
Bersani e Casini: insieme per uscire dall’emergenza
di Simone Collini


Il segretario Pd domani sarà a Bruxelles per un vertice con gli altri partiti progressisti europei
Il leader Udc «Bisogna passare da un esecutivo tecnico a un governo politico delle forze migliori»

ROMA Da un lato, stringere sul fronte progressista e, dall’altro, intensificare il dialogo con le forze moderate in vista delle prossime elezioni. Si snoderà su questi due fronti la strategia di Berani. Soprattutto ora che il leader dell’Udc Casini ha auspicato un «governo politico» per il dopo Monti e detto chiaro e tondo che serve un «patto col Pd per Salvare l’Italia».
All’incontro a palazzo Chigi con il presidente del Consiglio, Bersani ha ribadito il pieno sostegno del suo partito al governo, comunque vada il Consiglio europeo di domani e venerdì: «Siamo una squadra che cerca di portare a casa dei risultati». Ma il Pd vuole accelerare la definizione di un’ampia alleanza che governi dopo questa «fase di emergenza», perché le mosse di Berlusconi non fanno pensare a nulla di buono (e infatti il Pdl ha fatto capire che in assenza di risultati a Bruxelles tutto sarà possibile) e perché in questo modo si lancerebbe un segnale rassicurante oltreconfine. «Speriamo che in Europa non leggano che vuole fare il ministro dell’Economia», dice con una battuta Bersani a chi lo avvicina al Senato quando gli riferiscono che Berlusconi si è detto pronto a ricoprire questo ruolo in un ipotetico governo Alfano. Ma il leader del Pd non ha molta voglia di scherzare, di fronte a quel che sta avvenendo nell’Unione e alle esternazioni dell’ex premier. «Chi dice che bisogna uscire dall’Euro è un pazzo perché significa andare a comperare il giornale con un chilo di Lire».
L’ITALIA SI FACCIA SENTIRE
Domani si tiene a Bruxelles un Consiglio europeo che potrebbe segnare in un modo o nell’altro il futuro della moneta unica e della stessa Unione, oltre che del nostro Paese. Bersani ha affidato a Monti un mandato pieno a trattare con Angela Merkel e gli altri leader europei, convinto com’è che «o dal vertice escono risultati concreti o ci saranno danni seri per tutti, Germania compresa». L’Italia, dice dopo aver ascoltato le parole del presidente del Consiglio alla Camera, ha «le carte in regola»: «La voce per farci sentire l’abbiamo e abbiamo il diritto di usarla». E se già si è capito che finché rimarrà la Merkel in campo sarà difficile un via libera agli Eurobond, Bersani non esclude che si possano trovare «anche altre soluzioni» per affrontare il delicato tema dei debiti sovrani. A cominciare dal cosiddetto European redemption fund, che si muove nel solco tracciato dal Fiscal compact siglato dai governi europei, che potrebbe avere il via libera anche da parte della Germania e che consentirebbe un abbassamento dei tassi di interesse, prevedendo che ciascun Paese comunitario trasferisca su un fondo europeo il debito eccedente la soglia del 60% del proprio Pil.
VERTICE DEI PROGRESSISTI EUROPEI
Bersani ne ha parlato con Monti ma sta lavorando per «coordinare» le posizioni anche con le altre forze europee di centrosinistra. Domani il leader del Pd volerà a Bruxelles per partecipare a una riunione a cui saranno presenti tutti i leader progressisti europei. Sarà l’occasione per definire una strategia comune con la Spd tedesca, il Partito socialista francese e tutti gli altri perché, come dice Bersani, la fase delicata non si esaurirà nelle prossime 48 ore, che pure saranno «molto difficili».
A Bruxelles arriveranno anche il leader di Sel Nichi Vendola e quello dell’Idv Antonio Di Pietro. Il primo ha partecipato anche alle precedenti riunioni dei progressisti e oggi sarà anche al forum “Another Road for Europe” promosso da movimenti e associazioni. Il secondo sarà nella capitale belga per partecipare a una scuola di formazione promossa dall’Idv. Presenze e assenze che in qualche modo delineano la futura coalizione di centrosinistra, anche se Vendola intende battersi fino alla fine per far entrare anche Di Pietro. I due hanno concordato di fare insieme venerdì alla Camera una conferenza stampa per chiedere un confronto programmatico interno al centrosinistra. Non servirà però a far cambiare idea ai vertici del Pd, che senza una correzione di rotta da parte dell’Idv non intendono allearsi con l’ex pm.
CASINI E IL PATTO COL PD
Bersani ha pianificato un percorso che prevede la definizione di una «carta d’intenti» da far sottoscrivere a chi vuole partecipare alle primarie. E le recenti aperture di Casini a un «asse» col Pd non cambiano il programma: in autunno ci sarà comunque l’appuntamento ai gazebo e poi starà ai centristi confrontarsi con chi ne uscirà vincitore.
Il leader dell’Udc teme un voto anticipato («sento un’irresponsabilità crescente») e ieri, oltre a dire chiaro e tondo che è auspicabile dopo Monti un «governo politico che unisca le forze migliori» e che «i moderati e i riformisti devono fare un patto per salvare l’Italia» che è ancora in piena emergenza, ha fatto anche capire, pur precisando di «rispettare Renzi» (il quale dice che sarà chi vince le primarie a costruire un progetto per il Paese e definire le alleanze) di auspicare una vittoria ai gazebo di Bersani: «È solido, non cambia idea dal mattino alla sera come fanno molti politici oggi».

La Stampa 27.6.12
Bersani: “Sosterremo il governo anche se il vertice Ue fallisse”
Casini apre alle larghe intese nel 2013 con il leader del Pd a Palazzo Chigi
di Carlo Bertini


«No, non mi sembra che Monti sia preoccupato che si voti a ottobre, mi sembra più che altro determinato affinché l’Europa riesca a gettare il cuore oltre l’ostacolo». Pierluigi Bersani prova a sgombrare il campo dal sospetto che i partiti abbiano già la testa proiettata sul «dopo» e che il premier voglia vederci chiaro. Lo stesso Casini, per stoppare l’impressione di essersi spinto troppo avanti con le sue aperture al Pd, dice di «temere il voto anticipato». Ma propone un governo di larghe intese nel 2013, magari anche guidato da Bersani. Con la premessa che tutti questi discorsi «andranno fatti a tempo debito». Insomma tra un anno, «perché sarebbe irresponsabile togliere la fiducia a Monti se il vertice Ue andasse male».
Il leader Pd va dicendo da giorni che il problema casomai è Berlusconi e il Pdl, non il suo partito: tanto che esce dallo studio del premier chiarendo che il Pd continuerà a sostenerlo anche se il summit europeo «non portasse i risultati sperati». Dopo l’intervento di Monti in aula, Bersani lascia la Camera con una caustica rasoiata al Cavaliere, «speriamo in Europa non leggano che vuole fare il ministro dell’Economia... ». E prima di cena va dal premier a farsi raccontare dal vivo come procede il braccio di ferro con i tedeschi. «Io stesso andrò a Bruxelles in quei giorni al meeting dei progressisti europei», spiega Bersani, quasi a voler dare il segno di una presenza fisica accanto al premier nel momento più difficile.
Perché anche se «il no agli eurobond della Merkel non è una novità e possono esserci altre soluzioni per ridurre lo spread», in realtà il timore sempre più forte è che non si riesca a decidere «qualcosa di serio». Al punto che una persona cauta come il suo vice Enrico Letta, invita addirittura Monti ad «usare l’arma finale del diritto di veto al consiglio Ue», perché in quel caso «forse anche i tedeschi capiranno».
Il segretario è più dialogante: «La Germania non vuole gli eurobond? Ci sono altri modi per affrontare lo spread e il peso degli interessi sul debito. C’è un modo per tutelare i paesi in regola dallo spread eccessivo, ci sono tante proposte, come quella che prevede si garantisca in comune la quota di debito sopra il 60 per cento... ».
Ma è il Pdl a impensierire Bersani, che lancia l’appello affinché «prevalga il senso di responsabilità», chiedendosi cosa impedisca una mozione comune d’appoggio a Monti, che porta a Bruxelles «una posizione «chiara, ferma e coraggiosa, anche se non ci nascondiamo gli ostacoli che ci sono». «Abbiamo le carte in regola, saranno 48 ore difficili, facciamoci sentire», sprona il premier, dopo aver bollato come «un pazzo chi dice torniamo alla lira e usciamo dall’euro», cioè Berlusconi. D’altronde, i segnali di un progressivo sganciamento del Pdl dalla «strana maggioranza» non mancano. Anche sulla Rai, Bersani si chiede cosa voglia il Pdl. «Hanno impedito di cambiare le norme, hanno preteso di procedere alle nomine, noi siamo stati coerenti e non abbiamo nominato nessuno senza bloccare la Rai. E’ una grande azienda un minimo di senso di responsabilità dovrebbe prevalere. Questa cosa che non potevano votare oggi è curiosa... ».
E mentre Berlusconi ha voluto riferire a Monti le inquietudini del Pdl, lo stesso non fa Bersani, che preferisce glissare sulle ultime uscite di personaggi che hanno acquistato peso nel partito, come il suo responsabile economico Fassina: il quale dopo aver evocato tempo fa il voto a ottobre, in queste ore va dicendo che appena il Pd sarà al governo smonterà a pezzi la riforma delle pensioni della Fornero e quella del lavoro su cui la Camera sta votando la fiducia. Due pilastri con cui Monti si è guadagnato credibilità in Europa.

Repubblica 27.6.12
Il leader del Pd assicura sostegno al Professore anche se il vertice finisse male
Bersani: pazzo chi dice via dall’euro Casini: una grande alleanza nel 2013
di Alberto Custodero


ROMA — Il Pd sarà al fianco di Monti anche se il vertice europeo di venerdì andasse male. Così il segretario democratico conferma il sostegno al governo al termine del colloquio con il premier. Bersani definisce poi «pazzo» chi vuole tornare alla lira. E Casini ritiene «folle» chi è favorevole alle elezioni ad ottobre. «Bisogna dire agli italiani che chi propone di uscire dall’euro e tornare alla lira è un pazzo. Questo significa andarsi a comprare il giornale con un chilo di lire». Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, torna sulla polemica se tornare alla lira sollevata mercoledì 20 gennaio da Berlusconi. L’ex premier aveva detto che «non sarebbe una bestemmia, né un’idea peregrina. Non è auspicabile, ma avrebbe i suoi vantaggi». La posizione di Berlusconi — prima di lui, lo stesso concetto era apparso sul blog di Beppe Grillo in un post dal titolo “Rivoglio la lira” — era stata criticata all’interno dello stesso Pdl. Il segretario Alfano s’era detto contrario («Non sono d’accordo — aveva commentato — occorre rafforzare l’euro»), mentre per Cicchitto, capogruppo alla Camera, una soluzione del genere «scatenerebbe la rivoluzione».
Se Bersani definisce «pazzo» chi vuole il ritorno alla lira, per Casini è «folle» chi è favorevole alle elezioni anticipate. «Penso — ha detto il leader dell’Udc — che sarebbe folle, ma temo le elezioni anticipate. Sento un’irresponsabilità crescente, molti stanno facendo dei calcoli sulle spalle del Paese ». «Sono consapevole che le scelte del Governo Monti sono impopolari — ha ammesso Pier Ferdinando Casini — ma per salvare il Paese ce ne assumiamo la responsabilità». Casini non annuncia «patti o alleanze», ma pensa che «moderati e i riformisti debbano fare un patto per salvare l’Italia visto che l’emergenza non è finita». «Io spiega - propongo di passare nel 2013 da un governo tecnico ad un governo politico che unisca le forze migliori del Paese. Volete chiamarla svolta? Fatelo, ma è in piena continuità con ciò che ho sempre detto». Il leader centrista mette quindi in guardia dal populismo: la gente «si dimentica quel che succede prima. Se non avessimo fatto la scelta demagogica di togliere l’Ici, adesso non avremmo l’Imu».

Corriere 27.6.12
Intervista
«Chi parla di elezioni anticipate è inconsapevole dei rischi per l'Italia»
Veltroni: bene la posizione di Casini ma non è tempo di primarie o alleanze
di Maria Teresa Meli


ROMA — Onorevole Veltroni, si discute di voto anticipato.
«Io credo che non ci si renda conto dell'assoluta drammaticità del momento. Sento toni e linguaggi da stagione ordinaria e invece questa è la stagione più straordinaria in cui sia capitato vivere alla nostra generazione. Le generazioni precedenti hanno sofferto la guerra, noi abbiamo avuto il privilegio di vivere in tempo di pace, e ora però ci capita di dover fronteggiare una guerra che non si combatte con le armi ma con gli strumenti della politica economica e della finanza e che può avere esiti sociali devastanti. Dunque, di questo parliamo e quando io sento il dibattito italiano e vedo i nervosismi del Pdl o l'emergere del populismo e della demagogia, ricordo di quando sui libri di storia leggevamo i momenti di impazzimento nei quali non si capiva ciò che stava accadendo e, non capendolo, si favorivano gli esiti più drammatici. Parlare di elezioni anticipate ora, magari con Berlusconi ancora in campo, parlare della possibilità che l'Italia si presenti in Europa dicendo che Monti non c'è più e c'è il voto, significa non avere consapevolezza di ciò che il nostro Paese rischia. Ma chi stacca la spina deve essere visibile, prendersi la responsabilità e la scossa, restando attaccato a quella spina».
E voi sospettate che quel qualcuno sia Berlusconi.
«Berlusconi è tornato in campo con l'armamentario tradizionale: populismo, demagogia, spirito antieuropeo, pulsioni antitedesche e totale assenza di misura. L'annuncio che il governo Monti è sub iudice è l'ultimo danno che Berlusconi può fare al nostro Paese. E temo che davvero voglia compiere un ultimo atto di irresponsabilità. Gramsci avrebbe parlato di "avvelenamento dei pozzi"».
Pare che aspetti il Consiglio europeo per decidere.
«Non riesco a capire che rapporto esista tra l'esito del Consiglio europeo e la stabilità di governo in Italia. Dire che "se il vertice non va bene Monti si deve dimettere" non ha nessuna razionalità: allora bisognerebbe sostenere che se quell'appuntamento va male si devono dimettere tutti i capi di Stato e di governo europei. Ergo, si tratta di una strumentalizzazione. Monti sta svolgendo una funzione essenziale in Europa. Berlusconi aveva fatto precipitare il prestigio del nostro Paese. Monti ha riportato l'Italia al centro della scena e non a caso Obama lo ha scelto come interlocutore privilegiato in Europa. Quale che sia l'esito del vertice noi abbiamo bisogno di dare più forza a un governo che può e deve fronteggiare questa situazione con il rigore e lo sviluppo. Quindi, il governo deve lavorare meglio e i ministri devono parlare per fatti e meno per dichiarazioni».
Intanto l'Europa c'è e non c'è...
«Oggi l'Europa è in una situazione molto difficile. Non c'è solo la chiusura tedesca, c'è anche la difficoltà francese a favorire un processo di rafforzamento dell'unità politica. E l'Italia può avere un ruolo importante. Non ci sottraiamo alla sfida del rigore e delle riforme, sulle quali, semmai, dobbiamo avere ancora più coraggio, ma sollecitiamo un'Europa che appaia come un continente delle opportunità e non solo dei vincoli. Noi abbiamo fatto l'euro e Schengen ma non l'Europa politica. E il sogno di Spinelli e Adenauer è rimasto come un volo in stallo. Io mi aspetto questo dal vertice, che l'aereo non resti in stallo, ma che acceleri».
Pd e Udc parlano di alleanze, segno che le urne non sono così lontane.
«Apprezzo la posizione di Casini, ma concentrarsi sulle alleanze quando per noi la scadenza del voto è tra un anno rischia di aumentare la percezione di instabilità. Io penso che tra populismo e tecnocrazia l'Italia debba conoscere un ciclo riformista, l'unica soluzione che non ha mai sperimentato. E credo che del riformismo il Pd dovrebbe essere il perno fondamentale. Quindi il partito oggi è chiamato a rispondere non alla domanda con chi ti allei, ma a un'altra: cosa fare per fronteggiare una situazione drammatica come questa. Perciò il Pd deve innanzitutto definire i contenuti innovativi e riformisti della sua azione e dare al Paese l'idea di avere una visione, un progetto; poi verranno le alleanze. Un riformismo moderno, capace di tutelare i più deboli e promuovere talento e opportunità. Il riformismo dell'innovazione che ritiene sbagliati atteggiamenti conservatori, perché in Italia, a cominciare dall'immobilità sociale e da una spaventosa questione morale, c'è poco da conservare. Questa è la prima questione, la seconda è che il Pd deve avere fiducia in se stesso. Nella mia idea del Pd il partito non delegava né alla sinistra radicale né ai moderati di rappresentare quelle spinte, ma si proponeva di essere una sintesi nuova che teneva dentro di sé il realismo delle soluzioni riformatrici e l'ambizione e la radicalità di alcuni valori. Mi fa piacere che sia Renzi che Bersani abbiano citato il Lingotto come riferimento fondamentale, ma il Lingotto era questo: il tentativo di definire una fisionomia nuova, mai vista prima, di una forza politica italiana e penso si debba tornare all'ispirazione originaria, di cui ho visto tracce nell'ultima direzione del Pd. Cioè a una grande forza in cui confluiscono culture, energie e soggetti tra loro diversi che poi si alleerà con altri, ma lo farà a partire dalla sua centralità».
Nel Pd si parla anche di primarie tra Renzi e Bersani.
«Io non sono sospettabile di sfiducia nelle primarie, ma in questa situazione il centrosinistra dovrebbe parlare un po' meno di sé. Tutto ciò appare marziano. In un momento in cui i lavoratori perdono il lavoro, i giovani non ce l'hanno, le famiglie non arrivano alla fine del mese, gli imprenditori si tolgono la vita, il centrosinistra discute di regole interne, nomi, tattiche. Mi piacerebbe che più che parlare di nomi, tornasse a parlare di persone, degli italiani. Per il resto il tempo verrà».
Le riforme istituzionali nel frattempo si sono perse per strada.
«Da anni sono angosciato dalla sensazione che in Europa e in Occidente i sistemi democratici facciano fatica a reggere le tensioni di una società globalizzata a copertura mediatica integrale, frammentata socialmente e molto veloce. Faccio un esempio: ieri abbiamo votato la fiducia, e l'abbiamo votata come si usava negli anni 50. Cioè tutti devono passare davanti al palco della presidenza, dire sì, o no, e devono trascorrere 24 ore dall'annuncio della fiducia al voto. È il simbolo di un sistema che così com'è non funziona. E non basta il cambio di governo, se poi l'azione di governo è un'azione così poco efficace e così poco controllata, perché il sistema parlamentare italiano è deficitario in decisione e in controllo. Su questo tema ci sono opinioni diverse. Allora io penso che in questi mesi la politica dovrebbe fare due cose: la riforma elettorale, e a fianco a questa, come proposto da Violante, Finocchiaro e Ceccanti, una legge costituzionale per l'indizione nella prossima legislatura di un referendum di indirizzo che ci consenta di sapere quale sistema di governo gli italiani preferiscono. Fu fatto in Francia nel '45, dopo la guerra. Io penso che se fosse dato un indirizzo, e questo indirizzo fosse vincolante, poi noi ci troveremmo davvero in una legislatura costituente. Ciò di cui l'Italia da troppo tempo ha bisogno».

l’Unità 27.6.12
Ripeto: perché diffondere quella telefonata?
Il Fatto prosegue la sua campagna sulla base di un’intercettazione che non aveva alcuna attinenza con i processi
di Emanuele Macaluso


Caro direttore, Marco Travaglio commenta, da par suo e per la seconda volta, un’intercettazione telefonica tra i generali dei Carabinieri Mario Mori e Mario Redditi in cui si legge che quest’ultimo dice al primo che io sarei il «ventriloquo del Quirinale». Il Redditi si riferiva ad un mio intervento in occasione della presentazione di un libro di Mori. Scrivo questa lettera non perché mi interessino le cose intelligentissime dette dal generale e da Travaglio, ma per sollevare, ancora una volta, una questione: che attinenza ha il colloquio tra i due generali e i processi in cui Mori è imputato o indagato per cui sarebbero state autorizzate le intercettazioni?
È un fatto che la procura di Palermo, o meglio un pezzo di quell’ufficio, quell’intercettazione l’ha diffusa. Quando viene fatta questa osservazioe, Travaglio replica dicendo che anche gli avvocati difensori sono in possesso delle intercettazioni e quindi sono pubbliche. Risposta sciocca perché il problema è proprio la diffusione di quel documento e non i soggetti a cui è stato recapitato. È legittimo o no chie-
dere a chi ha autorizzato e diffuso l’intercettazione qual è l’interesse che essa ha per il processo? Altrimenti è lecito pensare che l’intercettazione sia stata diffusa solo per alimentare, anche con miserabili insinuazioni, come fa puntualmente il Travaglio, la campagna forsennata del Fatto contro il Quirinale. Per il bene delle istituzioni spero che non sia così e quindi un chiarimento sarà dato.
P.S. Non si gridi alla richiesta di bavaglio. Io sono contrario comunque che si limiti la libertà dei giornali e dei giornalisti. Il Fatto lavorando su quella intercettazione fa il suo mestiere (pessimo). Il problema è altro: il magistrato che autorizza le intercettazioni ne è responsabile per la custodia o per l’uso improprio che con la diffusione ne viene fatto. E deve risponderne. Tutto qui.

Corriere 27.6.12
Marianna Scalfaro e i sospetti «scaricati sui morti»
«Accuse perché non può rispondere»
La figlia del presidente sulla «trattativa»
di Marzio Breda


Caro direttore,
hanno tentato in mille modi di accusare mio padre di cose le più disparate quando era in vita, senza riuscire ovviamente a trovare nulla di perseguibile. Ci riprovano oggi, puntando a coinvolgerlo nelle polemiche sulla trattativa Stato-mafia, perché non può più rispondere. Cerco di misurare le parole, perché non intendo essere coinvolta in polemiche che ormai vanno al di là degli aspetti giudiziari. Su quella storia so però di poter dire una cosa, rileggendo l'intervista a mio padre pubblicata dal «Corriere della Sera» il 23 luglio 2009: «Voglio essere netto perché questa è una materia che non ammette equivoci o ambiguità: nessuno in nessuna maniera, diretta o indiretta, e neanche ponendo il tema sotto forma di interrogativo, mi ha mai parlato di una cosa del genere quando ero presidente della Repubblica. E, come sa, lo ero diventato esattamente in quel periodo, subito dopo l'attentato in cui rimase ucciso Giovanni Falcone». Conoscendo la lealtà e fedeltà alle istituzioni da parte di mio padre ritengo che l'affermazione riportata sia chiarificatrice. Chiunque volesse dare altre interpretazioni ne risponderà nelle dovute sedi. Questo sempre per rispettare la verità e la figura di mio padre.
Marianna Scalfaro

Marianna Scalfaro ha letto e sentito cose per lei insopportabili, in queste settimane, su suo padre. Mezze accuse già pronte a esser trasformate in sentenze postume, per quanto riguarda l'indagine della magistratura che scava nell'ipotesi di una trattativa Stato-mafia. Frasi accennate da diverse persone sentite dalla Procura di Palermo, il cui senso era di suggerire che l'ex presidente della Repubblica abbia saputo tutto, e per qualcuno condiviso, del negoziato in cui pezzi di istituzioni sarebbero venuti a patti con le cosche.
Sospetti ai quali il capo dello Stato scomparso il 29 gennaio «non può più rispondere», osserva la figlia, che ne difende la memoria con un retropensiero traducibile più o meno così: l'Italia è un Paese dove a volte i morti fanno comodo, perché si possono scaricare su di loro responsabilità altrui. In questo caso, poi, tra coloro che sono stati additati come «parti attive» nell'affaire, di morti ce ne sono altri due: l'ex capo della polizia, Parisi, e l'ex vicecapo dell'amministrazione penitenziaria, Di Maggio.
La donna che è stata «first miss» al Quirinale tra il 1992 e il '99, nella lettera qui sopra rifiuta di entrare nel merito dell'inchiesta e di lasciarsi coinvolgere nelle polemiche. Si può capirla. Sia perché è una persona schiva e riservata. Sia perché sa bene dove possono sfociare certe campagne, più o meno insinuanti o esplicite: oltre al padre, infatti, lei stessa fu oggetto di veleni e minacce trasversali (della misteriosa Falange Armata). Adesso, per ristabilire la verità, evoca un passaggio dell'intervista di tre anni fa al Corriere, nella quale Scalfaro metteva un punto fermo sulla vicenda. Una testimonianza che scioglie qualche nodo preciso.
L'ex presidente riconosceva, ad esempio, di aver avuto «più che una sensazione» che Cosa Nostra facesse politica con le bombe. E che nel passaggio tra Prima e Seconda Repubblica fosse in corso un feroce dialogo — chiamiamolo così — nel quale gli parve di percepire pure altre ombre. Per lui «dietro quelle vicende s'intravedeva, se non una strategia unitaria che riconducesse ad apparati dello Stato, un intreccio di interessi che si sovrapponevano, mettendo a rischio la saldezza democratica del Paese. Un pericolo che denunciai con quel messaggio tv di cui si tramanda solo la frase del "non ci sto"».
Già, quel videomessaggio esordiva con un preambolo dimenticato, per quanto fosse molto allusivo: «Prima si è tentato con le bombe, poi delegittimando la politica, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali, attaccando la presidenza della Repubblica...». Adesso, anche se escludeva che qualche uomo delle istituzioni avesse trattato con la mafia, Scalfaro tuttavia rammentava come il combinato disposto dello stragismo dei corleonesi, di alcune attività dei servizi deviati e di qualche entità politica rappresentasse, di fatto, in progetto di destabilizzazione. «Un intreccio di interessi sovrapposti», lo definì. Mentre raccomandava «assoluta cautela, per non intossicarci tutti», sulla faccenda della trattativa e del "papello" sul quale Riina avrebbe scritto le condizioni di Cosa Nostra. Questo «anche se non si può mai escludere che ci possano essere state persone, nell'amministrazione dello Stato, che abbiano tradito i loro doveri... come non si può escludere che anche un criminale dica a volte una verità».
E gli interrogativi sollevati dall'ex ministro Scotti, che recrimina di essere stato spostato dagli Interni agli Esteri, subito dopo aver varato misure eccezionali contro la mafia? E il ruolo di Parisi al vertice della polizia? Su questi due fronti critici, Scalfaro era netto. «Non è sensata alcuna doppia lettura: c'erano state le elezioni ed era cambiato il governo. Il nuovo premier, Giuliano Amato, su indicazione della Dc insediò al Viminale Nicola Mancino, scelta considerata ottima per le responsabilità politiche che aveva ricoperto... Su Parisi basti dire che è stato un funzionario eccezionale, con grandi doti professionali».

Corriere 27.6.12
«L'appunto sul 41 bis, firmai senza leggere»
di Giovanni Bianconi


PALERMO — «Stiamo arrivando al cuore del problema, consigliere Capriotti, e su questo veramente deve dire la verità», ammonì il pubblico ministero Di Matteo.
«Non deve dire questo a me, "devi dire la verità", la verità è questa», reagì il testimone.
«No, io invece glielo dico, perché abbiamo trovato un documento dal quale sembra che lei non abbia detto o non abbia ricordato tutta la verità», insisté il pubblico ministero.
Accadeva il 6 dicembre scorso, in un ufficio della Procura di Palermo, quando i magistrati che indagano sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi interrogavano il quasi ottantanovenne Adalberto Capriotti, magistrato in pensione, nominato capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria a giugno del '93, tra la bomba mafiosa scoppiata a Firenze e quelle esplose a Milano e Roma. Bombe che, secondo gli inquirenti, reclamavano un allentamento del «carcere duro» per i boss introdotto con l'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario.
Il documento sul quale si sospettava che l'anziano testimone non dicesse tutta la verità è l'ormai famoso appunto del 26 giugno 1993, firmato proprio da Capriotti e indirizzato all'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso. Quello in cui si proponeva di non prorogare gli oltre trecento «41 bis» che sarebbero scaduti di lì alla fine dell'anno (a parte casi particolari), per «non inasprire ulteriormente il clima all'interno degli istituti» e dare «un segnale positivo di distensione». In pratica ciò che fece Conso all'inizio di novembre, sostenendo di aver preso «in solitudine» ogni decisione.
Capriotti ricorda poco o nulla di quell'appunto: «Io era quattro giorni che stavo lì». Il pm lo sollecita: «Allora o lei ci dice che questa cosa l'ha firmata sostanzialmente nella inconsapevolezza... », e Capriotti l'interrompe, confermando: «Assoluta!». Il pm continua: «Senza leggere quello che ha firmato... », e Capriotti ribadisce: «Assoluta!». Ma il pm offre un'alternativa: «Oppure ci deve dire che le ha prospettato questa possibilità». E stavolta Capriotti fa un nome: «Ci sono lì, nella firma, è Di Maggio».
In realtà, sull'appunto firmato da Capriotti c'è un'annotazione dell'ex capo di gabinetto di Conso, Livia Pomodoro, da cui si apprende che sulla questione era stato chiesto «un aggiornamento a Di Maggio».
Ma proprio la Pomodoro ha verbalizzato: «Nulla posso riferire circa l'esito della richiesta perché non ricordo di aver visto alcuna nota di risposta». Invece Capriotti tira in ballo Francesco Di Maggio, morto nel 1996, nominato suo vice senza che lui ne sapesse niente: «Non lo conoscevo... È stata una nomina politica... », aggiungendo che l'indicazione, secondo lui, arrivò dal ministero dell'Interno e in particolare dal capo della polizia Vincenzo Parisi, che aveva un trascorso nei servizi segreti.
Capriotti spiega di non aver avuto buoni rapporti con Di Maggio, poiché aveva «un carattere impossibile e irrefrenabile», tendeva a scavalcarlo e fare di testa sua. E ricorda che il suo vice ebbe liti «violentissime» col ministro Conso, «lo insultava, e io non potevo permetterlo», ma non sa dire su quali questioni.
Liti molto ridimensionate dallo stesso Conso, ma per Capriotti inaccettabili. Tuttavia l'eventuale allontanamento di Di Maggio era impossibile: «Perché l'autorità di questo personaggio andava al di sopra», legittimata «proprio dal capo della polizia».
Il misterioso appunto che Capriotti sostiene di aver sottoscritto a sua insaputa, fu redatto materialmente da un altro magistrato in servizio del Dap, Andrea Calabria. Il quale ai pm ha confermato la «notoria esistenza di contrasti tra il ministro Conso e il dottor Di Maggio, che indusse in due diverse occasioni, tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, il dottor Di Maggio a rassegnare (con proposta respinta dal ministro Conso) le sue dimissioni».
Le liti riguardavano «problematiche concernenti l'utilizzo del personale penitenziario». La proposta di diminuire i provvedimenti di «carcere duro» per dare un segnale di distensione, invece, sarebbe derivata principalmente da una sentenza della Corte costituzionale del luglio '93, che richiedeva motivazioni più stringenti. E al Dap, secondo Calabria, erano tutti d'accordo: «Non mi risulta che siano insorti contrasti di alcun tipo in merito all'orientamento di lasciare scadere la vigenza di quei decreti per i quali non fossero intervenute specifiche ed esaustive indicazioni di segno contrario». Niente a che vedere con la trattativa, insomma, anche se gli inquirenti la pensano diversamente. Nel frattempo, sia Conso che Capriotti sono stati inquisiti per il reato di «false informazioni al pubblico ministero».

il Fatto 27.6.12
“Lo Stato non può ostacolare la verità”
Pm e politici in ricordo di Borsellino
di Sandra Amurri


Con l’applauso quasi liberatorio, l’immagine di Paolo Borsellino, scolpita nel dolore, sembra non voler scomparire dal video a conclusione della sua testimonianza in quel 25 giugno del ’92 sul tema “Ma è solo mafia? ”. Era proprio qui, nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, dove oggi quel discorso viene proiettato.
Si conclude così, in un’atmosfera fortemente emotiva, la serata “Vent’anni dopo non è solo mafia” organizzata dall’associazione “Cittadinanza per la magistratura”. Quell’interrogativo mancante, sancisce un radicale cambiamento: l’odierna consapevolezza che Cosa Nostra non fu da sola.
A 33 giorni dalla strage di Capaci, il giudice, condannato a morte, come racconta la consapevolezza che attraversa il suo viso, denunciava, con toni sommessi ma con una forza dirompente, l’isolamento di Giovanni Falcone. Borsellino verrà ucciso 24 giorni dopo.
MOLTE delle persone in platea e i magistrati sul palco erano presenti allora. Rimbomba e si fa plurale quel “Giuda” con cui Borsellino definì il procuratore che aveva ostacolato l’amico Falcone. Fu Cosa Nostra a compiere la strage che, come spiega il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, “apparteneva allo Stato-mafia che si contrappone allo Stato-Stato. Uno Stato-mafia che quando la mafia alza la testa interviene con provvedimenti provvisori per dire alla controparte: stai quieta, non rompere quell’equilibrio che serve a tutti e due. Mentre lo Stato-Stato fatto di magistrati, di poliziotti, carabinieri e di uomini delle istituzioni fedeli, continua ostinatamente a combattere”. Uno scenario che “ci consegna la storia ma non consegna quei fatti alla storia”. Rita Borsellino chiama “pupari” quelli a cui “ci affidavamo” e ammonisce: “Non sono le istituzioni a essere bacate, ma gli uomini che le occupano abusivamente”. Leonardo Guarnotta, presidente del Tribunale di Palermo alla domanda su cosa pensi delle telefonate tra D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano e Nicola Mancino risponde: “C’è una domanda di riserva? Non trovo le parole. Non abbiamo bisogno di colpevoli ma dei colpevoli, costi quel che costi”. Ricorda: “Abbiamo sempre avuto consapevolezza che ci fossero due Stati contrapposti che Giovanni, con la sua ironia, quando, a notte fonda, uscivamo dalle nostre stanze sintetizzava così: ‘Leonardo, è ora di togliere il disturbo allo Stato’”. Antonio Ingroia visibilmente emozionato spiega: “Con attacchi a testa bassa si chiede alla magistratura di rallentare il passo anziché accelerarlo. Se la politica facesse il suo dovere si realizzerebbe quella coesione di cui si ha bisogno per restituire giustizia e verità”. Nino Di
Matteo elenca i tanti silenzi e i tanti “non ricordo” dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, racconta che un alto esponente delle Istituzioni, ascoltato come testimone al termine del colloquio tira un lungo sospiro di sollievo e alla domanda da cosa derivasse la sua ansia spiega: “Mi hanno insegnato che con la giustizia è meglio non avere nulla a che fare neppure come testimone”. Per la prima volta la Procura di Palermo fa un processo sull’interlocuzione stato-mafia, escono i nomi e una parte consistente della politica e delle istituzioni apostrofa i magistrati “schegge eversive”. Il giudice Giovanbattista Tona, denuncia “il silenzio colpevole della grande stampa quando non diventa piffero di chi vuole impedire la verità”. Salvatore Borsellino, che con l’energia di un ragazzo dai suoi 70 anni gira l’Italia con il popolo dell’Agenda Rossa, chiede: “Perché un magistrato dopo l’esplosione ha fatto forzare la portiera della macchina di Paolo per prendere la sua borsa ignorando che non si può alterare la scena del delitto, poi dice di non ricordare a chi l’ha consegnata? ”. E invita i magistrati a leggere una loro lettera a Paolo il 19 luglio in via D’Amelio. Il sindaco Leoluca Orlando annuncia: “Questo luogo si chiamerà Borsellino, qui verrà ricordato il 25 giugno di ogni anno sino alla verità. Chi ha rispetto delle istituzioni deve impegnarsi con i fatti”. Chiediamo: compreso il Capo dello Stato? “Sì, certamente tenendo conto del ruolo di salvaguardia della tenuta istituzionale senza però garantire impunità ad alcuno”. È notte fonda quando i cancelli della Biblioteca si chiudono. Paolo Borsellino continua a vivere tra i colori dei vicoli di Ballarò che trasudano di quell’umanità che non riduce le figure ma le esalta.

il Fatto 27.6.12
La mafia ordinò: “Fermi”. E la bomba non scoppiò
Gennaio  ‘94: la strage all’Olimpico progettata, rinviata e annullata
di Enrico Fierro


Fate sapere a madre natura che bisogna fermare il Bingo”. Usano codici ci-frati i mafiosi di rito corleonese. Siamo nel biennio di sangue che è iniziato il 12 marzo 1992 con l’omicidio di Salvo Lima. Totò Riina non si ferma, uccide Falcone e Borsellino, sbarca sul Continente con le bombe a Roma, Firenze e Milano. È una lunga stagione di sangue che a un certo punto si deve fermare. Perché lo Stato ha capito. Ed è venuto a patti. Oppure, come sostengono mafiosi trasformatisi in pentiti, è cambiato il potere, al governo ci sono i nuovi, gli amici. Madre natura è Giuseppe Graviano, re di Brancaccio e componente influente della direzione strategica di Cosa Nostra. È il 12 gennaio 1994, quando Francesco Tagliavia, boss di Corso dei Mille, durante un processo avvicina suo padre e gli affida un messaggio da trasmettere a Graviano: “Fermate il Bingo”. Le stragi mafiose. Ma per capire dobbiamo rileggere quegli anni di fuoco illuminandoci con le cose che sappiamo oggi grazie al lavoro delle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze. Bisogna andare ai mesi che separano l'estate del 1993 dall'inizio del 1994. Al governo c'è Carlo Azeglio Ciampi, ministro dell'Interno è Nicola Mancino, alla Giustizia c'è Giovanni Con-so. Il 27 luglio, appena due mesi dopo la strage di Firenze, è scoppiata la bomba di via Palestro a Milano, il 28 quella di San Giovanni Laterano a Roma. È la fine di luglio quando Giovanni Brusca incontra Leoluca Bagarella e gli chiede se se ci sono novità, segnali, disponibilità istituzionali dopo le bombe.
“LE COSE SONO un po’ ferme. Non ho contatti”, risponde Bagarella. Brusca detta la linea: “Luchino a questo punto non ti conviene fermarti, vai avanti, perché se ti fermi ora è come se tu hai cominciato e non hai fatto niente”. Insomma, i vantaggi acquisiti dopo le stragi e le bombe in Continente, rischiano di essere vanificati da una strategia attendista. È lo stesso Brusca, anni dopo, a spiegarlo ai magistrati: “I motivi per andare avanti erano sempre quelli. Cercare le persone per andare a contatti con lo Stato, per portare avanti un vecchio progetto che noi pensavamo che era già attivato”. Alleggerimento del carcere duro, ridimensionamento del ruolo dei collaboratori di giustizia, introduzione, anche per i reati mafiosi, della “dissociazione” (mi pento e confesso tutti i miei reati senza fare rivelazioni sull'organizzazione), revisione di alcuni processi importanti. Quando Brusca e Bagarella si confrontano Cosa Nostra sta già lavorando a un nuovo progetto stragista. Una bomba allo stadio Olimpico di Roma da far esplodere durante una partita di campionato e destinata a lasciare sul terreno un centinaio di carabinieri. Una cosa grossa che avrebbe piegato in due lo Stato e gettato il Paese nel terrore. “All'Olimpico – rivela anni dopo il mafioso pentito Gaspare Spatuzza – dovevamo usare una tecnica esplosiva che neppure i talebani avevano mai usato”. Una Lancia Thema imbottita di esplosivo e pezzi di ferro stipati in un bidone da 50 litri. Il commando è già a Roma il 5 giugno 1993. Otto giorni dopo la strage dei Georgofili, fa i primi sopralluoghi. Sono tutti uomini di Cosa Nostra che nella capitale dispongono di due appartamenti (zona Tuscolana) e una villetta sul litorale. Tutto è pronto, a ottobre l'esplosivo arriva da Palermo. Ma a un certo punto il meccanismo così preciso, così oleato, si blocca. “Ricevemmo un contrordine e tornammo tutti in Sicilia”, rivela un pentito. Confermano i magistrati della procura di Firenze: “Vi furono due momenti diversi di operatività del gruppo. Il primo durò 4-5 giorni e fu interrotto da un contrordine, il secondo iniziò subito dopo le feste di Natale del 1993 e si protrasse fino all'esecuzione dell'attentato”.
AGLI INIZI di gennaio la Lancia Thema viene parcheggiata allo stadio Olimpico in una zona dove sicuramente sarebbero passati i bus con a bordo i carabinieri di servizio. Ma qualcosa va storto. Quando Salvatore Benigno, 'o picciriddu, aziona il telecomando, la macchina non esplode. Riprova, ma è inutile. La Thema è lì, al suo posto, imbottita di esplosivo. È arrivato un altro contrordine? E perché? Anni dopo, da pentito, Gaspare Spatuzza offre una spiegazione che non convince i magistrati. Le bombe si fermarono perché stava cambiando tutto. Ora in politica c'erano gli amici. “Quello di Canale 5 e il nostro paesano che ci stanno mettendo nelle mani l'Italia”.

l’Unità 27.6.12
Renzi e il pensiero critico che manca
di Giuseppe Provenzano


METTIAMOLA COSÌ,COME LA METTEREBBE UN FISICO (UNO DI QUELLI CHE NON PERDE IL CONTATTO con la realtà, per professione, insomma): il futuro non esiste. Esiste l’imminazione del futuro e persino la curiosità di scoprirlo in un baleno, o piuttosto la volontà di costruirlo cambiando lo stato delle cose. È sui problemi del presente, che occorre intendersi. Per la verità, anche il presente non esiste, l’esperienza è già passata. Le “generazioni politiche” non possono che formarsi su una lettura del passato, dove sono le radici dell’ingiustizia e dell’offesa qui e ora. Il passato come riferimento mitico, d’altra parte, è valso soprattutto per i movimenti “rivoluzionari” (rivoluzione, si può usare, è ormai parola a buon mercato nel cloroformizzato lessico politico italiano). Persino il fascismo, unico tra i movimenti “rivoluzionari” con specifica impronta “giovanilista” e “futurista”, fu costretto a rifarsi ad un passato mitico, e se lo scelse remoto. Tutto questo per dire che se è sul presente (e sul passato prossimo) che con Matteo Renzi non ci intendiamo.
È grossolano liquidare le iniziative di Renzi come incontri di “destra”. La sua è una polemica tutta interna al centrosinistra: chi esagera, in lui vede il Tony Blair che non abbiamo mai avuto. Il “progetto” è stato un po’ sacrificato l’altro giorno a Firenze, Renzi parla d’altro. Però si possono riprendere le “cento proposte” del Big Bang di un anno fa: la riedizione di mille e cento cose già dette e sentite in questi anni in cui un dibattito di idee a sinistra, ignorato dai giornali, pure c’è stato. Il riferimento è a un impianto politico-culturale che ha trovato la massima espressione nel new labour, ma che ha caratterizzato anche il “Pd originario” del Lingotto. Solo che gli anni non passano invano, nemmeno a sinistra. Da allora il mondo è cambiato, quelle idee sono state del tutto insufficienti a evitare che il mondo si guastasse e l’economia finisse in bancarotta. Nell’Italia ingessata, è senz’altro necessario ancora oggi liberalizzare laddove sono inaccettabili incrostazioni corporative, ma molti dei “fondamenti” del Lingotto sono drammaticamente caduti. La dichiarata coincidenza di interessi tra capitale e lavoro (tra Calearo e Boccuzzi, quindi), uniti in nome dell’innovazione, è stata un’illusione colpevole di fronte alla distorsione speculativa della finanza a cui molti manager (compreso quello con cui Renzi stava e forse sta ancora “senza se e senza ma”) sono molto più attenti che ai loro prodotti.
Ben al di là del mezzo fotografico utilizzato, a Renzi manca uno sguardo al ventre dell’Italia e un pensiero critico sul mondo. Con sgomento si possono cercare e non trovare tra i suoi discorsi (e pure tra le “cento mosse”) parole meno che banali sul Sud e il Mediterraneo, o specie in vista del 28 giugno anche un solo cenno all’Europa. Se davvero avesse uno sguardo alla società e non alle cose della politica, suonerebbe a lui stesso ridicola la denuncia di “egualitarismo” che rivolge alla sinistra, nel Paese in cui le disuguaglianze sociali (e perciò generazionali e territoriali) e le divaricazioni tra opportunità e destini individuali negli ultimi vent’anni sono cresciute oltre ogni limite. È dunque il punto di vista che deve cambiare, anche sugli strumenti. Primarie e limiti di mandato servano ad affermare su base popolare l’urgenza di una politica diversa da quella che fin qui abbiamo avuto: che governi un conflitto sociale di cui, a Firenze o altrove, è stupido o colpevole non parlare; che si doti da Bruxelles a Roma di leve di azione pubblica che favoriscano investimenti in nuove produzioni e colpiscano le rendite, che riformino per potenziare il sistema di formazione e tutele sociali. Altrimenti, tra scoraggiamento, inoccupazione e nuove povertà, lo scacco dei bisogni materiali insoddisfatti sacrificherà libertà, gentilezza, e persino onore. Da Prometeo in poi, è ai “deboli” e agli “offesi” che occorre un’idea di progresso. Ecco, pure partendo da Firenze, si deve tornare sempre alla Grecia.

il Fatto 27.6.12
Altro regalo alle banche: 4 miliardi a Montepaschi
Pacco dono di Stato alla banca di Profumo
Indebitata e indagata, non trova i soldi per rispettare gli impegni
Ma niente paura, glieli presta il governo
di Vittorio Malagutti


Milano. Siena chiama, Roma risponde. Il Monte dei Paschi proprio non ce la fa a trovare i soldi per rispettare gli impegni presi con l'autorità di vigilanza europea. Niente paura: il governo di Mario Monti presta 2 miliardi di euro alla grande banca toscana da tempo in difficoltà. Il gradito pacco dono arriverà sotto forma di obbligazioni sotto-scritte dallo Stato, ribattezzate Tremonti bond.
Non è la prima volta. L'operazione annunciata ieri dall'esecutivo ricorda quella ideata nel 2009, quando nel pieno della prima crisi finanziaria, alcuni istituti, tra cui Mps, fecero il pieno di risorse fresche grazie ai finanziamenti pubblici. All'epoca la regia fu dell'allora ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Da qui il nome assegnato ai titoli. Adesso si replica e il denaro andrà tutto al Monte, dove poche settimane fa si è insediato il nuovo presidente Profumo. Per l'occasione verranno anche riviste le condizioni dei Tremonti bond per 1,9 miliardi già in pancia all'istituto senese.
A CONTI FATTI, quindi, l'intervento del governo potrebbe arrivare a sfiorare i 4 miliardi. Il tempo stringe, ormai. L'Eba (European banking authority) chiedeva al Monte 3,2 miliardi di nuovo patrimonio, ma la banca nei mesi scorsi ne ha trovati si è no un paio, grazie alla vendita di alcune attività e ad altre manovre contabili. Che fare? Un nuovo aumento di capitale in Borsa è improponibile. Gli azionisti del Monte hanno già sborsato 2 miliardi, giusto un anno fa. E i titoli pagati 0,44 euro ciascuno adesso quotano meno di 0,2. Peggio ancora, la Fondazione Mps, socio principale dell’istituto, ha finito i soldi. Non sia mai che la politica senese debba mollare definitivamente la presa sulla banca. Obbligazioni? Niente da fare neppure per quelle. Sul mercato nessuno le vuole.
Alla fine, Profumo e l'amministratore delegato Fabrizio Viola si sono presentati a Roma con il cappello in mano e il governo, con l'assistenza della Banca d'Italia, ha confezionato un salvagente su misura. A maggio, pochi giorni dopo la nomina, il neopresidente aveva detto di ritenere che il piano presentato all’Eba “potesse bastare”. Forse gli era sfuggito qualcosa, perché dopo mesi di trattative, anche molto concitate, il Monte ha dovuto ripararsi sotto l’ombrello aperto dallo Stato. I guai dell’istituto arrivano in parte dalla campagna acquisti varata negli anni del boom, culminata nel 2007 con l’acquisizione della Banca Antonveneta a un prezzo già all’epoca giudicato fuori misura dalla gran parte degli analisti. A distanza di 4 anni, il Monte ha chiuso il bilancio 2011 in perdita per 4,6 miliardi dovuti in gran parte alla svalutazione della sua controllata Antonveneta. Non è finita. Giusto un mese fa la discussa acquisizione del 2007 è finita anche al centro di un’inchiesta aperta dalla procura di Siena. Insomma, un diluvio di guai. Intanto però Giuseppe Mussari, il presidente di Mps che volle e gestì l’affare (si fa per dire) Antonveneta, ha perso il posto ma è stato appena riconfermato alla guida dell’Abi, la Confindustria delle banche. Non bastassero le perdite in bilancio, nei mesi scorsi è scesa in campo anche l’Eba. L’ente di vigilanza ha chiesto a una settantina di istituti europei la creazione di quello che è stato definito “un cuscinetto patrimoniale supplementare”. I nuovi capitali dovrebbero servire ad assicurare la stabilità degli istituti in caso di altre tempeste sul debito pubblico, del tipo di quella che nell’autunno scorso ha portato a un crollo delle quotazioni dei titoli di stato dei Paesi considerati a rischio, tra cui l’Italia. In sostanza, le banche hanno fatto indigestione di Btp e ora in qualche modo devono difendersi da nuovi scossoni di mercato.
Nei mesi scorsi Unicredit e Banco Popolare hanno fatto fronte alle richieste dell’Eba con una serie di operazioni di mercato. Siena invece si è rivolta a Roma. La banca ha mantenuto i suoi impegni, ma gli investitori restano pessimisti e ieri hanno venduto a piene mani i titoli Mps. Alla fine il ribasso ha superato il 5%, con la quotazione molto vicina ai minimi storici. Ai prezzi attuali il Monte capitalizza in Borsa 2,4 miliardi. Come dire che tutta la banca vale meno degli aiuti di Stato che ha ricevuto. O sta per ricevere.

il Fatto 27.6.12
Pensioni d’oro, niente taglio: “Non smuoviamo troppo...”
L’alt del governo al limite di 6mila euro
salvi i dirigenti della Presidenza del Consiglio e altri grand commis
di Salvatore Cannavò


Metti via l'emendamento, smuoviamo un campo troppo vasto. Rinviamo e il governo si impegna a sostenerlo”. Si è sentito dire così Guido Crosetto dopo aver presentato il suo emendamento che fissa a 6000 euro, netti, la soglia oltre la quale non è possibile percepire una pensione dallo Stato. “Un emendamento scritto in dieci minuti” spiega al Fatto, “non ho nemmeno quantificato i risparmi. Ma mi hanno fatto un sacco di pressione dal governo e dai colleghi deputati. Comunque lo ripresento”. Il governo, che in Commissione si è fatto rappresentare dal sottosegretario Polillo, ha assicurato che lo inserirà nel prossimo “decreto sviluppo” ma per ora ha preferito non avere problemi. Eppure la proposta Crosetto prevede che la massima pensione erogabile da un sistema pubblico sia pari a 6000 euro (limite fissato solo per il sistema retributivo, cioè quello parametrato sugli stipendi della vita lavorativa) e viene portato a 10 mila in caso di cumulo. Si tratta di redditi annui dell'ordine dei 110 mila euro o 140 mila nel secondo caso che riguardano la fascia alta dei dirigenti pubblici, generali e docenti universitari così come uomini e donne di governo importanti come Fornero, Catricalà o Canzio. La soglia indicata dal Pdl Crosetto si avvicina molto a quella pensione che il Presidente del Consiglio, Mario Monti, si vede accreditare già dal 2002 in qualità di docente universitario e che ammonta circa 5400 euro netti mensili. La stessa di cui beneficia un altro ministro importante come Andrea Riccardi e di poco inferiore a quella, circa 7000 euro, di cui gode il ministro degli Interni, Anna Cancellieri. Molto lontana dai circa 22 mi-la euro percepiti dall'ammiraglio Di Paola, attuale ministro della Difesa, andato in pensione non appena ha ricevuto l'incarico governativo.
MA IN REALTÀ il provvedimento, nella legislazione italiana, non dovrebbe essere retroattivo, anche se sugli esodati lo è stato di fatto. E quindi, personaggi come Giuliano Amato, 21 mila euro di pensione netti al mese, il Presidente della Bce, Mario Draghi, 8600 euro, o Lamberto Dini, 22 mila euro, non dovrebbero aver nulla da temere. A essere interessati dal provvedimento sono invece le decine di migliaia di dirigenti pubblici, magistrati, generali, professori universitari che in pensione devono ancora andarci. E tra loro anche alcuni ministri, come vedremo.
Secondo i dati ufficiali dell'Inpdap, l'istituto di previdenza pubblica che ormai è fuso con l'Inps per effetto del “decreto SalvaItalia”, su 2.874.710 pensioni erogate dall'ente pubblico nel 2011, solo 104.793 hanno superato i 4000 euro mensili (i dati pubblici prendono in considerazione solo questa soglia). Una percentuale molto piccola, dunque, e di difficile stima sul fronte dei ricavi. Che comunque ci sono, come dimostra uno studio del Cobas-Inpdap che calcola 520 milioni di risparmi annui derivanti dall'introduzione del tetto per le pensioni a 5000 euro e la fine dei cumuli pensionistici.
SICURAMENTE è coinvolta quella fascia dei dirigenti di alto livello che percepiscono stipendi tra i 100 mila e i 200 mila euro l'anno. Ad esempio quei 325 dirigenti della Presidenza del Consiglio su 2.521 dipendenti in servizio (quasi il 13%) e che non a caso la Corte dei Conti addita come non rispondente ai criteri di risparmio. Stiamo quindi parlando dei grand commis dello Stato, la burocrazia più importante e rilevante. E anche alcuni pezzi forti dell'attuale governo. Tre esempi: il sottosegretario Catricalà, altissimo magistrato che nel 2010 ha dichiarato un reddito di 740 mila euro; il Ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, il cui reddito del 2011 è stato di 520 mila sommando tutte le componenti della retribuzione; il ministro Elsa Fornero, che di pensioni si occupa da una vita, e che ha dichiarato 402 mila euro di reddito di cui 230 mila provenienti dai ruoli svolti in Banca Intesa e Buzzi Unicem e il restante dall'attività di docente ordinario. Tutti casi che rientrebbero nel limite dei semila euro netti. Ma bisogna proprio pensar male per ritenere che lo stop al tetto sia stato dato pensando a loro.

il Fatto 27.6.12
Marchionne accerchiato sulla sentenza Pomigliano
Airaudo: “Ci chiami subito”. Ma le altre sigle minacciano: assumere iscritti Fiom discrimina i nostri
di Giorgio Meletti


Abbiamo chiesto ai nostri avvocati di intervenire sulla Fiat perché si decida a eseguire la sentenza del Tribunale di Roma”. Giorgio Airaudo, uomo dell’auto di Fiom-Cgil, appare molto deciso. Il giudice Anna Baroncini ha stabilito che a Pomigliano devono essere assunti 145 operai iscritti alla Fiom per sanare la discriminazione, evidente nel fatto che su quasi 2 mila assunti non c’è un solo tesserato del sindacato guidato da Maurizio Landini. La sentenza sta diventando per Sergio Marchionne una grana maledettamente complicata.
IERI per il numero uno di Fiat-Chrysler si è aggiunto un nuovo problema. Le sigle non discriminate (Fim-Cisl, Uilm, Ugl, Fismic e Aqcf, sindacato di capi e quadri) hanno dato mandato a loro volta ai propri legali “di impedire atti discriminatori nei confronti di tutti i lavoratori”. La tesi è che la sentenza del 21 giugno scorso è essa stessa “discriminatoria” in quanto creerebbe “una corsia preferenziale” a favore di 145 lavoratori iscritti alla Fiom rispetto ai 1400, tesserati e non tesserati, ancora in attesa di essere “riassunti” dalla Newco Pomigliano.
La tesi è stravagante, ma utile a capire dove ha portato la linea dura di Marchionne. Ricapitoliamo i fatti. Marchionne chiude la Fiat di Pomigliano e manda tutti in cassa integrazione. Poi costituisce la nuova società Fip, e s’impegna a riassumere tutti i circa 3500 lavoratori rimasti a piedi per produrre la nuova Panda nello stabilimento rinnovato con 700 milioni di investimenti. Finora ne ha assunti circa 2 mila, ma nessuno degli iscritti alla Fiom, che nel 2010, all’inizio della vicenda erano 600. Questo piccolo dettaglio (assunti Fiom non pochi, non pochissimi, ma zero) ha convinto il giudice che la discriminazione c’era. Da cui l’ordine alla Fiat, basato su una direttiva europea molto chiara sul punto, di assumere 145 iscritti alla Fiom per sanare la ferita. Per i sindacati che non si erano opposti all’accordo di Pomigliano sulle condizioni di lavoro nella fabbrica rinnovata, la sentenza è una beffa. Come a Pomigliano sanno tutti, la Fiat ha escluso gli operai Fiom dalla riassunzione, tanto che gli iscritti da 600 sono calati in due anni a circa 140.
NEL FRATTEMPO la nuova Panda va male, vende poco. Ieri a Napoli, a un convegno Cisl, il capo delle relazioni industriali della Fiat, Paolo Rebaudengo, ancora in carica dopo essere andato in pensione, ha fatto capire che per adesso le assunzioni si fermano. L’impegno era di riprendere tutti se la Panda fosse andata bene. Siccome la Panda non vende, gli attuali 2.100 addetti, in grado di produrre 140 mila auto l’anno lavorando su dieci turni, sono più che sufficienti. “Le prospettive economiche e di mercato – ha detto Rebaudengo – sono peggiori di quando Fiat lanciò il progetto Panda, e non so se oggi sarebbe possibile proporlo”. Amen.
Così i 145 iscritti alla Fiom potrebbero essere gli ultimi assunti a Pomigliano, mentre altri 1400 restano fuori dei cancelli e potrebbero assistere all’ingresso trionfale in fabbrica dei discriminati, quelli contro i quali anche ieri Rebaudengo li ha incitati a battersi: “Non potete permettere che chi ha tentato di impedire la realizzazione di tutto questo oggi distrugga quello che avete fatto”. Così ha detto.
“Questa è la prova che la Fiat si è incartata – commenta Airaudo – ha fatto di Pomigliano un simbolo e adesso è vittima del suo stesso simbolismo. La Fiom non ha mai contestato investimenti e prodotto, ma le condizioni imposte ai lavoratori. E non ha mai lasciato soli i lavoratori che si opponevano, che erano molto più numerosi dei nostri iscritti. Al referendum di Pomigliano il no ha preso il 36 per cento, e i nostri iscritti erano il 13 per cento”.
I sindacati continuano a litigare tra loro (la Fiom contro tutti). Airaudo fatica a ingoiare il rospo: “A me fa piacere che adesso si attivino contro le discriminazioni, anche se è un po’ tardi. L’hanno firmata loro l’intesa secondo cui chi non è d’accordo con l’azienda sta fuori. Se siamo stati costretti ad andare dal giudice è perché a Marchionne è stato concesso troppo”.
MA LO SCONTRO tra i sindacati stavolta non aiuta Marchionne, che nell’imbarazzo ha imposto ieri alla Fiat il sesto giorno di silenzio stampa, come un bizzoso presidente di calcio. Nel frattempo il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, lo molla, rifiutandosi di commentare la sentenza di Roma con tono acido: “Ho sempre gestito le mie aziende senza fare riduzioni di personale e senza fare cassa integrazione, e non sono un avvocato”. Ma lo stesso Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd, da sempre schierato con Marchionne e contro la Fiom, stavolta sceglie l’equidistanza e invita a un disarmo bilaterale proprio a partire da Pomigliano: “La Fiom accetti l’accordo che ha reso possibile la nascita di questo gioiello tecnologico, la Fiat faccia il possibile perché a Pomigliano anche gli iscritti alla Fiom si sentano in tutto e per tutto a casa propria”. Dev’essere una bella soddisfazione, per un operaio Fiom, sentirsi riconoscere anche da Ichino che la fabbrica è casa sua. Per Marchionne invece suona come un segnale da non sottovalutare.

Corriere 27.6.12
Germania e Italia. Noi e loro 2.1
Dalla selva di Teutoburgo alle guerre moderne Quello slancio nazionalistico che resiste nei secoli
di Luciano Canfora


Nella «Selva di Teutoburgo», nell'anno 9 dell'era volgare, l'esercito romano al comando di Publio Quintilio Varo, attaccato a sorpresa durante la marcia dai quartieri estivi a quelli invernali, fu distrutto dalle truppe germaniche guidate dal principe Arminio, capo della tribù dei Cherusci. Il sito esatto della battaglia è tuttora controverso. Arminio «liberator haud dubie Germaniae» secondo la celebre definizione di Tacito, era stato condotto a Roma sin dall'8 a.C. e lì educato e addestrato nell'ambito di quella scuola militare «di eccellenza» che era l'esercito romano. Dal 4 al 6 d.C. fu tribunus militum e durante la campagna di Tiberio contro i Germani combattè nei ranghi dell'esercito romano. Per i suoi meriti in quelle campagne ebbe la cittadinanza romana e il rango equestre.
L'ostilità di Arminio contro i Romani venne maturando quando Quintilio Varo promosse una romanizzazione forzata (nel campo del diritto innanzitutto) nell'ampia area germanica in quel periodo sotto controllo romano. Il passaggio dall'altra parte fu dunque, nel caso di Arminio, un gesto che dal punto di vista di Roma era un tradimento, dal punto di vista di una (ipotizzata) coscienza nazionale germanica un atto di guerriglia e di liberazione nazionale.
Il passaggio attraverso il tirocinio nei ranghi romani da parte di leader divenuti simbolo della lotta contro Roma non era un fenomeno nuovo. Anche Vercingetorige, al tempo della sofferta conquista cesariana della Gallia, aveva compiuto lo stesso cammino. E forse anche Spartaco, al tempo suo, era stato nelle truppe ausiliarie romane, prima di disertare e divenire in quanto fugitivus schiavo-gladiatore e infine guida sagace della più temibile sollevazione di schiavi del mondo antico.
Francia e Germania quasi contemporaneamente, in momenti di particolare slancio nazionalistico, hanno innalzato monumenti rispettivamente a Vercingetorige e Arminio. Il monumento a Vercingetorige fu voluto da Napoleone III; quello per Arminio, alto 26 metri (Hermannsdenkmal), in stile «peplum», fu eretto a Detmold nella regione westfalica tra il 1841 e il 1875. Era la risposta tedesca non solo a Roma, ma anche alla Francia del Secondo impero.
Per completezza ricordiamo che in occasione della rivoluzione del 1830 un monumento se lo meritò anche Spartaco a Parigi: dapprima esposto nel giardino delle Tuileries e poi ritirato nel Louvre. Era il risultato innanzitutto di un vero e proprio sussulto rivoluzionario, dopo gli anni cupi di Carlo X; ma non è improbabile che una tale statua di tipo canoviano abbia a che fare anche con il risentimento contro Roma dominatrice, visto che Spartaco aveva fatto tremare la repubblica imperiale nel cuore stesso dell'Italia.
Per Mommsen, Teutoburgo aveva segnato una tappa epocale nel processo di riunificazione tedesca, e costituiva l'antecedente più glorioso della riunificazione bismarckiana della Germania. Suo genero Wilamowitz, in un importante «discorso di guerra» pronunciato in Bruxelles occupata dai tedeschi (nel giorno di Pasqua del 1918), si spinse a teorizzare che «gli Stati antichi sono senza eccezione Stati nazionali», mentre gli Stati moderni «sono diventati nazionali non senza l'influenza di modelli antichi». E precisava: «Il sentimento nazionale tedesco è emerso con intensità solo dopo la riscoperta di Tacito e quando venne alla luce la figura eroica di Arminio, il liberator haud dubie patriae suae».
Ci si può seriamente interrogare sulla legittimità dell'uso della nozione di «Stato nazionale» in relazione alla realtà germanica del 9 d.C. Ma, se si considera che anche Engels considerava una battaglia di libertà la lotta dei Germani, e di Arminio, contro l'introduzione del diritto romano in terra germanica (reo di introdurre la proprietà privata), si può ben concludere che il mito di Arminio è un mito davvero pantedesco, condiviso dal liberale Mommsen, dallo Junker-conservatore Wilamowitz e dal socialista Engels (e, nel dodicennio nazista, dall'«Ahnenerbe» di Himmler, adoratore della Germania di Tacito).
Le parole di Engels fanno impressione anche per certe inflessioni razziali: «Varo aveva fatto male i suoi conti. I Germani non erano i Sirii! Imponendo loro la civiltà romana, egli mostrò alle tribù confinanti, costrette a confederarsi, che razza di giogo insopportabile li minacciava e li costrinse a quella unificazione che essi fino a quel momento non erano mai stati capaci di trovare» (Storia e Lingua dei Germani, 1881-1882).
Naturalmente Teutoburgo ha una importanza storica enorme: non tanto perché anticipi un processo di unificazione nazionale che in realtà si produsse molto dopo e attraverso una storia molto accidentata e non sempre esaltante. Fu, quella battaglia, il segnale chiaro e inequivoco — allo stesso modo che Carre sessantadue anni prima all'altro capo dell'impero — dei limiti oggettivi, e non valicabili se non con grande rischio, della possibilità di espansione romana. Nello scontro tra potenze la regola aurea è di comprendere quei limiti e di non trascenderli.
È la ragione per cui, ad esempio, Stalin riteneva azzardato creare un avamposto del proprio impero addirittura fin sull'Elba e avrebbe preferito che, a guerra finita, si costituisse una Germania riunificata e neutrale. Non passò, allora, quel progetto (più moderato di quello di De Gaulle che proponeva la frantumazione del Reich sconfitto in quattro Stati). Il mezzo secolo successivo ha portato la Germania a quella egemonia sull'Europa che a torto il Führer aveva perseguito con le armi, e che oggi è fondata sulla moneta. Finché la ruota della storia non si rimetterà daccapo in moto, con buona pace di Frau Merkel.

Corriere 27.6.12
Germania e Italia. Noi e loro 2.2
«Troppo seri Ci serve il vostro anarchismo»
di Paolo Di Stefano


Se cercate in Germania un editore che conosca la cultura e la letteratura italiana persino meglio degli stessi italiani, avendo la fortuna (o la sfortuna) di guardarle da fuori, andate a Berlino e rivolgetevi alla casa editrice di Klaus Wagenbach. Troverete in traduzione un catalogo di autori del Novecento da fare invidia a chiunque: dal Rinascimento a oggi, da Giorgio Vasari a Michela Murgia, passando per Ginzburg, Morante, Moravia, Gadda, Malerba, Flaiano, Manganelli, Celati, Benni e arrivando ai più giovani, Scarpa, Celestini, Covacich, Desiati, tanto per fare solo alcuni nomi. L'ottantenne fondatore da una decina d'anni ha lasciato le redini della direzione editoriale alla moglie Susanne Schüssler, pensando bene di godersi qualche settimana in più di ferie nei pressi di Siena, dove ha una casa.
Signora Schüssler, di che considerazione gode oggi in Germania la nostra cultura?
«Ci sono immagini diverse dell'Italia. Da una parte, negli anni 80 e 90, c'erano molti intellettuali tedeschi che frequentavano attivamente il vostro Paese, si parlò anche ironicamente di una "Toskana-Fraktion": un gruppo di politici socialdemocratici che si godeva la vita rurale nella Toscana. Quella italiana veniva sentita come una cultura molto vivace, la discussione culturale nelle terze pagine era seguita attentamente sin dagli anni di Pasolini: in Germania sarebbe stata impensabile una presenza intellettuale sui quotidiani così critica e aperta. Poi c'è stata una frattura».
Con la Seconda Repubblica?
«Sì, i tedeschi hanno avuto difficoltà a capire come fosse possibile che gli italiani votassero per Berlusconi, l'immagine del vostro Paese, sul piano intellettuale, si è complicata e ingrigita. D'altra parte, è vero che a livello popolare non è mai tramontato il fascino del design, dell'arte, dell'opera, della cucina, del cinema, per non dire della moda... Oggi l'Italia gode di una capacità di attrazione molto più forte di vent'anni fa, diciamo a livello di vita quotidiana: non ci sono solo i ristoranti italiani, ma nelle famiglie tedesche si cucinano piatti italiani, o almeno si tenta di farlo... Sono nati invece dei problemi nell'ambito della cultura politica, soprattutto quella di sinistra».
Quando è stato il momento di massima ammirazione?
«Nei decenni passati c'era una grande sensibilità dei nostri intellettuali rispetto alla discussione pubblica in Italia. Quando uscì la traduzione degli Scritti corsari, nel '79, qui ebbe un successo straordinario: ne tirammo 90 mila copie. Il Partito verde tedesco si riconobbe nella critica di Pasolini allo sviluppo».
Sembra una duplice lettura dell'Italia.
«Noi siamo forse più seri e meno allegri. Questa è un'idea, magari un po' romantica, che rimane nel confronto con l'Italia. Il che comporta una visione doppia: da una parte la consapevolezza che da voi lo Stato è molto meno presente, anzi non funziona sufficientemente per gli ospedali, la formazione scolastica e universitaria, l'assistenza agli anziani; dall'altra l'impressione che la vita quotidiana sia comunque meno grigia, più cordiale e attenta agli altri che da noi».
Ma gli scambi non sono scemati?
«No, gli scambi culturali sono ancora molto molto importanti. Leggiamo moltissimi libri di autori italiani. Nelle traduzioni, l'Italia viene subito dopo gli Stati Uniti e l'Inghilterra, la Francia e stranamente il Giappone. Precede persino l'area di lingua spagnola, che vanta letterature ricche come quelle dell'America del Sud. E non c'è solo l'editoria. L'anno scorso la mostra sull'arte del Rinascimento italiano alla Gemäldegalerie di Berlino ha avuto un successo incredibile: venivano visitatori da tutta la Germania e per mesi è stato impossibile trovare biglietti. Un successo popolare che un decennio fa sarebbe stato impensabile, superiore persino a quello che potrebbe avere una mostra di Grünewald o di Dürer».
Nella letteratura, che cosa è cambiato?
«Dopo gli anni dei pulp e dei cannibali, c'è oggi una generazione più giovane di scrittori che riscopre le radici e l'impegno sociale: per noi è molto più interessante che tradurre dei romanzi di autori italiani che imitano gli americani. Insomma, si vede già una rinascita culturale».
Non è un interesse molto ricambiato dagli italiani, però, a quanto pare...
«I tedeschi sono molto curiosi, sono attratti dalla cultura mediterranea sin dai tempi di Goethe, che arrivando da una piccola Weimar provinciale restò stupefatto soprattutto di fronte alla bellezza, alla mentalità e alla vivacità culturale di Napoli. Noi risultiamo troppo severi e noiosi, forse lo siamo, per questo abbiamo ancora bisogno del vostro anarchismo».

Corriere 27.6.12
Germania e Italia. Noi e loro 2.3
«Gli italiani non hanno mai ricambiato gli entusiasmi»
di Dino Messina


Non c'è migliore testimone dell'ambivalente attrazione degli italiani per la cultura tedesca di Inge Feltrinelli, signora dell'editoria che approdò a Milano, giovane fotoreporter di Tubinga, alla fine degli anni Cinquanta. Le foto che tappezzano le pareti nel suo studio al quarto piano della storica sede di via Andegari, a poche decine di metri dalla Scala, raccontano una grande storia. Appena entri a sinistra ti senti osservato dallo sguardo sarcastico dell'editore Rowohlt, accanto c'è il ritratto sognante di Klaus Wagenbach, maggiore studioso di Kafka vivente e fondatore della casa editrice che ha fatto conoscere ai tedeschi molti autori italiani. Quasi centrale campeggia una foto di Günter Grass, di cui Feltrinelli pubblicò nel 1962 Il tamburo di latta. Alle spalle dell'autore spunta il bellissimo volto di Inge. «Fu una delle nostre scoperte, dopo il lancio mondiale del Dottor Zivago di Boris Pasternak, ma Grass in Italia non riuscì a replicare lo stesso successo che ebbe in Francia e anche in America. Per l'uscita del Tamburo di latta organizzammo una festa cui parteciparono il futuro Nobel tedesco, Wagenbach, e alcune tra le maggiori personalità culturali dell'epoca. Non ricordo se partecipò Giorgio Strehler, che metteva in scena Bertolt Brecht, ma sicuramente c'erano Paolo Grassi, Elio Vittorini e Vittorio Sereni. Ricordo l'entusiasmo degli amici tedeschi per la vivacità culturale milanese e nello stesso tempo la diffidenza per la cultura tedesca che gli italiani non riuscivano completamente a dissimulare. Non credo che da allora i rapporti sentimental-culturali fra italiani e tedeschi siano molto cambiati. Gli autori tedeschi, o di lingua tedesca, in Italia non sono mai riusciti ad avere il successo che meritavano, mentre in Germania ci sono state diverse ondate di entusiasmo per la cultura italiana nel Secondo dopoguerra: a cominciare dal nostro Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, passando per Italo Calvino, Primo Levi, Leonardo Sciascia e arrivando a Umberto Eco. Un entusiasmo paragonabile gli italiani non l'hanno mai provato né per Grass né per Heinrich Böll, Uwe Johnson o Peter Schneider, né oggi per nuovi scrittori di sicuro talento come Ingo Schulze, l'autore giovane preferito da Grass, per Daniel Kehlmann, o per la stessa Herta Müller, Nobel per la letteratura nel 2009».
Nel catalogo Feltrinelli ci sono classici come La banalità del male di Hannah Arendt, Interrogatorio all'Avana e la Breve estate dell'anarchia di Hans Magnus Enzensberger, Lavoro e integrazione di Jürgen Habermas. Titoli non da grandi numeri ma destinati a durare. «Enzensberger e Habermas hanno un ottimo rapporto con il nostro Paese — dice Inge Feltrinelli —. Hans Magnus parla perfettamente l'italiano e Habermas ha avuto un successo strepitoso quando Bianca Beccalli ha di recente organizzato all'Università Statale un seminario in suo onore. Il filosofo erede della Scuola di Francoforte è sempre più entusiasta dell'Italia, per l'accoglienza ricevuta e per l'incredibile fascino delle belle donne».
Per Inge Feltrinelli, tedesca con padre ebreo che dice «noi» quando si riferisce agli italiani, poco è cambiato dai tempi di Goethe e della fascinazione tedesca per il Paese dove fioriscono i limoni: «Loro sono sempre innamorati dell'Italia anche se a volte non riescono a capire certe nostre contraddizioni, diciamo pure il caos della nostra vita pubblica. Restano allibiti davanti a un Berlusconi e sono attratti solo da un Mario Monti, tedesco più di loro. E noi al contrario guardiamo alle virtù germaniche con ammirazione e un certo senso di inferiorità: per la capacità di organizzazione, il grande senso dello Stato, la tenacia nel perseguire imprese come la riunificazione. Virtù che a volte temiamo si possano trasformare in nuova hubris, tracotanza, gusto eccessivo per la vittoria che può portare a qualche disastro. È per questo che il mio doppio augurio (e sono sicura sia anche quello di Klaus Wagenbach, editore tedesco e cavaliere al merito della Repubblica italiana) è che la Germania domani perda la partita con l'Italia. E che Angela Merkel, che ho conosciuto quand'era la timida e intelligentissima assistente di Helmut Kohl, riveda le sue posizioni verso i Pasi più deboli. Ho sempre ammirato la sobrietà della cancelliera e la capacità di pensare al bene dei tedeschi, ma oggi mi sembra che la sua stella stia al tramonto se non si rende conto che deve cambiare atteggiamento».

Repubblica 27-6.12
Le due sponde del reno
di Bernardo Valli


I BERLINESI dovrebbero imparare dagli assai più furbi cugini viennesi che sono riusciti a spacciare Beethoven per austriaco e Hitler per tedesco. Loro sono un po’ imbranati. In un tempo remoto li chiamavamo (che vergogna!) crucchi. Un’espressione sfrattata dai vocabolari e dai cervelli. Ma che si ripresenta nei cuori presi da irragionevoli, momentanee collere. Nell’Europa senza quasi più frontiere, su un piano più modesto ma ben più attuale, Berlino non ce la fa.
È impacciata, è troppo brusca, non riesce a correggere l’immagine di Angela Merkel presentata come una massaia spilorcia, pronta a lesinare su tutto, e riluttante a spartire la crisi dell’euro con i mediterranei in difficoltà, ritenendoli inaffidabili perché spendaccioni.
Se il comportamento dei tedeschi, arroccati in un’arroganza che è spesso scarsa capacità di comunicare, risveglia, sia pure in una versione annacquata, fantasmi ormai ridicoli; il risentimento di molti europei nei confronti della Germania, dilatato dalle passioni e dai timori accesi dalla crisi, non è solo in larga parte ingiustificato ma anche per tanti aspetti ridicolo.
Se si valutano con obiettività i motivi del dissenso di fondo tra la Germania e larga parte dei Paesi dell’eurozona, è difficile respingere l’argomento principale avanzato da Angela Merkel. Anzitutto per lei la sopravvivenza della moneta unica non è in discussione; inoltre «l’unità tedesca e l’Unione europea sono due facce della stessa medaglia» come, sempre lei, ha dichiarato di recente con i toni solenni di un sermone. Stabiliti questi due principi, la cancelliera vuole che gli europei compiano un passo avanti nell’integrazione budgetaria e politica. La logica esige infatti che le spese e i deficit di ciascun Paese utilizzatore dell’euro siano sottoposti a una sorveglianza sovrannazionale. Questa è la condizione principale perché la Germania accetti i famosi eurobond, che mutualizzerebbero i debiti. Debiti che, in sostanza, i tedeschi condividerebbero.
Angela Merkel chiede insomma più Europa. Esorta a compiere quel “salto federale“ invocato da tanti economisti e politici, convinti che esso placherebbe i mercati, frenerebbe gli attacchi ai Paesi più vulnerabili, poiché l’euro non sarebbe più la moneta di un’Unione non ben identificata, e sarebbe in grado di ricorrere a un livello superiore di responsabilità capace di ammortizzare il peso della crisi. Insomma la moneta unica avrebbe un governo, un padre, e non tanti padri litigiosi, che ne fanno in pratica qualcosa di simile a un figlio di N.N.
Nelle cronache finanziarie che dilagano su giornali e teleschermi in queste ore la posizione tedesca viene affogata in un mare di obiezioni. Angela Merkel prende tempo per sfuggire alle richieste d’emergenza; la sua proposta di più Europa assomiglia a un espediente; è un bluff; implica riforme istituzionali e quindi trasferimenti di sovranità da decidere con ampie maggioranze parlamentari o con sentenze delle varie Corti costituzionali che chiedono anni se non decenni.
È tutto vero o quasi vero. Ma è soprattutto vero che l’euro è vulnerabile soprattutto perché non è affiancato da una struttura federale, e che se quest’ultima non esiste è perché le nazioni (gloria e tragedia della storia europea), non vogliono rinunciare a ulteriori parcelle di sovranità. Un pretesto non trascurabile è che uno Stato non può affidare i propri bilanci finanziari, dai quali dipende la vita della società democratica, all’approvazione di un organismo “tecnico”, senza vere basi democratiche, quale è l’Unione. Ma, se accettata e accompagnata da un calendario preciso, l’ambiziosa proposta in questo senso (tra l’altro appena lanciata dai presidenti del Consiglio europeo, della Commissione, dell’Eurogruppo e della Banca centrale) diventerebbe un segnale destinato ad avere un effetto benefico. Essa chiede tempo per essere realizzata in pieno, e non può sostituirsi alle decisioni rapide imposte dalla crisi, e riguardanti la crescita. E tuttavia, se presa in considerazione, suonerebbe come un avvertimento, annuncerebbe che l’Europa ha capito qual è la causa di fondo della crisi in cui è immersa. Sarebbe un primo “salto
federale”.
La palla lanciata da Angela Merkel è adesso in campo francese. È la sua naturale destinazione, perché la Francia, madre dello Statonazione, è la potenza europea più riluttante (l’Inghilterra non è nella zona euro) a cedere ulteriori fette di sovranità. Pensava di dominare il progetto di integrazione, accelerarlo o frenarlo a piacere, ma il continente ha cambiato faccia e con la faccia gli equilibri. La volontà di Parigi pesa meno. François Hollande è un europeista convinto, sarebbe forse pronto a compiere il “salto federale” che la crisi suggerisce, o impone con urgenza. Ma è reticente ad aprire un nuovo cantiere della costruzione europea. È come preso da un crampo. E il suo ministro agli Affari Europei, Bernard Cazeneuve, dice che l’abbandono di sovranità chiesto dalla Germania non è il «coeur du sujet», non è l’argomento principale, del prossimo vertice europeo del 28 e 29 giugno.
Il neo presidente francese non vuole farsi imporre la politica economica da una maggioranza di Paesi dell’Unione, e teme soprattutto che si formi in patria un “fronte sovranista”, che potrebbe dividere gli stessi socialisti. Due ministri, Laurent Fabius, agli Esteri, e il già citato Cazeneuve,
entrambi in posizioni chiave per quel che riguarda la politica europea, hanno votato no al referendum del 2005 sulla Costituzione dell’Unione.
I timori di Hollande non sono infondati. Nella Francia che l’ha appena eletto l’accelerazione di un’evoluzione federale non sarebbe accolta con favore. E il secondo presidente socialista della Quinta repubblica (dopo Mitterrand, che lanciò l’euro con Kohl, padrino politico di Angela Merkel) non vuole correre rischi. Ed è un peccato, perché la sua posizione gli consentirebbe di forzare la storia. La sinistra controlla i due rami del Parlamento, tutte le regioni meno una, quasi tutte le grandi città. Non c’è un capo dell’esecutivo nel continente con tanto potere. Da lui ci si potrebbe quindi aspettare quel “salto federale” che non dissiperebbe la crisi nell’immediato, ma che darebbe fiato a un’Europa che a volte sembra boccheggiare. Stasera, alla vigilia del vertice di Bruxelles, Angela Merkel avrà un colloquio con François Hollande nel palazzo dell’Eliseo. Si può sempre sperare, sia pur con scetticismo, in una sorpresa. Da adesso possiamo comunque dire che le responsabilità pesano sulle due sponde del Reno.

Repubblica 27.6.12
Il Vietnam dell’Europa
di Barbara Spinelli


ALLA vigilia del vertice europeo di domani, l’economista greco Yanis Varoufakis scruta l’incaponita ottusità delle politiche con cui i governi dell’Unione pretendono di salvare la moneta unica, e si stupisce di fronte a tanto guazzabuglio dei cuori e delle azioni. Un’attesa quasi messianica di palingenesi si combina all’abulia dei politici, alla pigrizia mentale degli economisti, alla sbalorditiva mancanza di leadership. Ancora una volta siamo alla vigilia di
un vertice definito cruciale.
Ci sarà un prima e un dopo, decideremo cose grandi o fatalmente naufragheremo. In Italia, chi punta allo sfascio annuncia che Monti avrà fallito, se fallisce il summit: come se il guazzabuglio europeo fosse suo, come se le responsabilità di Berlusconi si dissolvessero in quelle del successore. Alcuni si esercitano a contare i minuti: l’euro non vivrà più di tre mesi, dicono, pensando forse che l’orologio stia fermo. Sono anni che i mesi di vita sono quasi sempre tre.
È quello che spinge Varoufakis a fare due paragoni storici che impaurano a pensarci. Il primo rimanda alla crisi del ’29, e alla condotta che il Presidente americano Hoover ebbe a quel tempo. La ricetta era uguale a quella di oggi: ridurre drasticamente la spesa pubblica, tagliare salari e potere d’acquisto, il tutto mentre l’economia Usa implodeva. Seguirono povertà, furore, e in Europa fine della democrazia.
Non meno inquietante il paragone con la guerra del Vietnam: negli anni ’60-’70, gli uomini del Pentagono erano già certi della sconfitta. Continuarono a gettar bombe sul Vietnam, convulsamente, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su come smettere un attivismo palesemente sciagurato. Riconoscere l’errore e cambiar rotta avrebbe salvato migliaia di vite americana, centinaia di migliaia di vite vietnamite, e risparmiato parecchi soldi. Disfatte simili a queste lo storico Marc Bloch le chiamò «strane», nel 1940: le avanguardie politico-militari sono senza visione né guida, mentre nelle retrovie società e classi dirigenti franano. Chi guida oggi l’Europa è animato dalla stessa non-volontà (l’antico peccato di nolitio): la crisi delle banche e dei debiti non è guerra armata, ma certi riflessi sono identici. Il povero cittadino perde la testa, non si raccapezza.
Sono mesi che si succedono vertici (a due, quattro, diciassette, ventisette) e ognuno è detto risolutivo. Sono mesi che sul palcoscenico vengono e vanno personaggi, declamando frasi inalterabili. Merkel e Schäuble entrano in sala di Consiglio, si siedono, e recitano: «Non si può fare, prima della solidarietà ognuno faccia ordine a casa». E sempre c’è qualcuno, della periferia-Sud, che invece di negoziare sul serio implora: «Ma fate uno sforzo, qui si sta naufragando!». Sembra la musica che nei dischi di vinile d’improvviso s’incantava. Si siedono e ripetono se stessi (ecolalia è il termine medico), come i generali quando continuavano a cannoneggiare i vietnamiti nella speranza che la guerra, come i mercati, si sarebbe placata da sola, esaurendosi.
Qualcosa, è vero, sta muovendosi in Europa. Grazie alle pressioni di socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ammette d’un tratto che qualcosa bisogna fare per la crescita (una parola vana come quando i generali in guerra dicono: pace). Nella riunione a 4 che si è svolta a Roma tra Merkel, Hollande, Monti, Rajoy si è deciso di mobilitare 120 miliardi di euro (una bella somma ma sporadica, visto che contemporaneamente non si vuole un aumento del comune bilancio europeo). Si è anche deciso, finalmente, di ignorare le riserve inglesi e svedesi e di approvare una tassa sulle transazioni finanziarie, per dar respiro all’eurozona. Chi da anni lotta per la
Tobin tax spera che nasca, per la prima volta, una vera fiscalità europea: il gettito previsto è di 30-50 miliardi all’anno, senza aggravi per i contribuenti.
Ma la tassa ha difetti non ancora risolti: come pensare che l’Unione possa avviare con propri soldi investimenti congiunti, se il gettito non andrà nella cassa comune? Il 29 marzo, sulla
Zeit, il ministro delle finanze austriaco si felicitò in anticipo per la tassa, i cui proventi erano già iscritti nel bilancio del 2014: nel bilancio austriaco, non europeo.
Passi avanti sono stati fatti, assicurano i governi, ma l’essenziale manca: ancora non si possono emettere eurobond, e Berlino esita sul progetto – concepito in novembre dal Consiglio tedesco degli esperti economici – di una redenzione parziale dei debiti. «Ci vuole un salto federale», si comincia a sussurrare, ma anche queste parole rischiano di tramutarsi in nomi nudi, apparenti: come crescita, pace. Perfino cultura della stabilità diventa nome nudo, senz’alcun rapporto con l’idea che ci facciamo di una vita stabile. La sostanza che resta è il dogma tedesco della casa in ordine.
E resta il nuovo potere di controllo sui bilanci nazionali, conferito alla Commissione di Bruxelles. Ma un potere strano, di tecnici che censurano e castigano. Non un potere che edifica politiche, dispone di proprie risorse, è controbilanciato democraticamente. Non dimentichiamolo: le spese federali in America coprono il 24 per cento circa del prodotto nazionale. Quelle dell’Unione l’1,2. Quanto alla tassa sulle emissioni di biossido di carbonio (
carbon tax), nessuno ne parla più.
Il fatto è che le misure non bastano perché il male non è tecnico: è politico. Ci siamo abituati a criminalizzare i mercati, a dire che l’Europa non deve dipendere dalla loro vista corta. Ma li ascoltiamo, i mercati? Sono imprevedibili, ma se diffidano dei nostri rimedi significa che c’è dell’altro nella loro domanda: «Siete proprio intenzionati a salvare l’Euro? La volete fare o no, l’unione politica che nominate sempre, restando fermi?». Se i mercati somigliano a una muta aizzata è perché fiutano un’Europa e una Germania che il potere non se lo vogliono prendere, che scelgono l’irrilevanza mondiale. Si calmeranno solo di fronte a un piano con precise scadenze (importa dare la data, anche se non immedia-ta): un piano che preveda un fisco europeo, un bilancio europeo credibile, un controllo del Parlamento europeo, una Banca centrale simile alla Federal reserve, un’unica politica estera. Hanno ragione a insistere. Anche perché stavolta, manca l’America postbellica che spinse alla federazione. Obama chiede misurette all’Europa, non un grande disegno unitario.
In una conferenza dei verdi tedeschi, domenica a Berlino, Monica Frassoni, Presidente del Verdi europei, ha detto parole giuste: «Quello di cui tutti (mercati compresi) abbiamo bisogno è che la parola più Europa significhi qualcosa», non sia flatus vocis.
Deve esser chiaro in maniera lampante che Grecia, Italia, Portogallo, Spagna non potranno sanare i debiti con terapie che il debito addirittura l’accrescono. Urge un cambio di passo, dunque «una dichiarazione che dica: non si permetterà a nessuno Stato di fallire; la Bce interverrà comprando titoli delle nazioni indebitate se il Fondo salva- Stati non basta; l’Unione si darà un bilancio federale degno di questo nome, capace di avviare una crescita diversa, ecologicamente sostenibile».
Il salto federale di cui c’è bisogno, pochi vogliono compierlo. Hollande dice che l’unione politica voluta da Berlino è accettabile solo se subito c’è solidarietà. La Merkel non esclude la solidarietà, ma prima chiede l’unione politica (anche se ieri ogni idea di scambio è svanita: «
Finché vivrò non accetterò gli eurobond »). Qualcuno dunque bluffa. È come la scena del film
Gioventù bruciata: due ragazzi guidano simultaneamente le loro auto verso un dirupo. Il primo che sterza sarà chiamato coniglio o pollo (per questo si parla di chicken game).
Se entrambi insistono nella corsa finiranno nella fossa. È tragico il gioco, perché riproduce il vecchio equilibrio di potenze nazionali che ha condotto il continente alla rovina. L’Unione europea era nata per abolire simili gare di morte.

Repubblica 27.6.12
Vallaud-Belkacem, alle Pari opportunità, ha proposto di penalizzare i clienti Si apre il dibattito. Ma le associazioni delle “lavoratrici del sesso” insorgono
La ministra e le prostitute la sfida che divide i francesi
di Giampero Martinotti


PARIGI «Il mio obiettivo è di veder sparire la prostituzione ». È bastata una frase per rilanciare la polemica su come affrontare il mondo del sesso a pagamento, come arginarlo ed evitare che le grandi reti criminali sfruttino donne e minorenni. E basta avanzare l’idea di una penalizzazione dei clienti, sul modello svedese, per suscitare un putiferio: «A infastidire è il rapporto fra sesso e denaro, siamo al ritorno dell’ordine morale», reagisce una donna che si vende da quarant’anni. Najat Vallaud-Belkacem, ministro per le Pari opportunità e portavoce del governo, sapeva benissimo che quella frase abolizionista avrebbe riaperto un dibattito in cui si mescolano morale, difesa delle prostitute, lotta contro il traffico degli esseri umani, difficoltà a circoscrivere un fenomeno che la società preferisce far finta di non vedere. Ma non per questo si è tirata indietro: «Non sono ingenua, so che sarà un lavoro a lungo termine. Questa posizione abolizionista è il frutto di una riflessione che tira le lezioni dalle insufficienze dei dispositivi attuali. In questa ottica, il Parlamento ha adottato l’anno scorso una risoluzione che preconizza la penalizzazione dei clienti».
È un dibattito che riappare regolarmente Oltralpe, dove l’ultima legge, che punisce l’adescamento passivo, risale al 2003 ed è stata voluta da Nicolas Sarkozy, all’epoca ministro dell’Interno. Ma la Francia, come l’Italia, non vieta la prostituzione. Ufficialmente, il paese è abolizionista da più di cinquant’anni, di fatto l’industria del sesso a pagamento funziona a pieno regime, anche se negli ultimi anni le prostitute hanno abbandonato i centri città.
Sociologi e associazioni, pur avendo il comune obiettivo di proteggere chi si prostituisce, hanno punti di vista perfettamente opposti. Per alcuni, il modello svedese e norvegese,
in cui è legale vendere il proprio corpo ma è punito il cliente che lo compra, spinge le donne verso una maggiore clandestinità e quindi le espone alla violenza. Per altri, invece, scoraggiare i clienti significa fare un passo avanti verso l’abolizione. E i rapporti su quel che avviene nei paesi
scandinavi sono contraddittori, proprio come le opinioni: c’è chi valuta positivamente le ricadute delle leggi anti-clienti e chi invece sottolinea un aumento delle violenze contro le prostitute.
Alla corrente abolizionista si oppone quella che chiede la creazione di un vero e proprio statuto per i “lavoratori del sesso”, in pratica la legalizzazione. Le associazioni di passeggiatrici sono furiose contro la Vallaud-Belkacem: «Dire che le prostitute sono delle povere ragazze, che non sanno quel che fanno, che sono vittime dei clienti significa misconoscere il mestiere», dice Gabrielle Paranza, che esercita dal 1969. «Non si può partire dal principio che siamo tutti sfruttati», aggiunge Lo2c, un uomo che si prostituisce in Normandia, membro del sindacato che protegge i lavoratori sessuali.
In Francia, le persone che si prostituiscono per strada sarebbero 18-20mila, cui si aggiungono le migliaia di persone che esercitano attraverso i saloni di massaggio, le agenzie di escort, Internet. Solo il 20 per cento di loro sarebbero francesi, l’80 per cento originario dei paesi est-europei e africani. Finora, il Parlamento non ha mai voluto prendere misure troppo radicali, preferendo confinarsi in una specie di non detto, come gran parte degli altri paesi europei, dove si combatte solo lo sfruttamento della prostituzione. Diverso l’atteggiamento assunto da quattro paesi (Germania, Paesi Bassi, Svizzera e Austria), che hanno deciso di legalizzare la prostituzione.
Il dibattito è appena agli inizi e la stessa classe politica è divisa trasversalmente. Il governo sembra intenzionato a rivedere la legge del 2003, ma nell’immediato la priorità sarà data alle leggi economico- sociali o a quella sulle molestie sessuali, cancellata recentemente dal Consiglio costituzionale. Ci vorrà ancora tempo, insomma, prima di scegliere i mezzi per combattere la prostituzione, anche se la Vallaud-Belkacem ha indicato la strada privilegiata.

l’Unità 27.6.12
Rosanvallon e Touraine: sinistra light ci ripensa...
di Bruno Gravagnuolo


FINALMENTE SE NE SONO ACCORTI ANCHE I SOCIAL-LIBERALI ALLA ROCARD. Già, quelli come Rosanvallon e Touraine, per solito inebriati di società civile e movimentismo «post-materiale». Si sono accorti che il capitalismo brado crea diseguaglianze, recessione e populismo reattivo. Sicché come vispe Terese i due sociologi francesi, sull’ultimo Micromega condannano la società meritocratica, che è «lotta all’ultimo sangue per garantire privilegi a una cupola» (Touraine). E «l’equità che sostituisce l’eguaglianza, come rete di sicurezza per gli esclusi dal mercato» (Rosanvallon). Benvenuti!
Peccato però che i due continuino a dire cose fumose. Tipo: «Le forze che cambiano il mondo non sono più le forze sociali, contano i movimenti culturali, il post-patriarcale, il post-gerarchico, etc, etc». Caro prof. Touraine, non è stanco di elisir culturologici? Ovvio che contano la coscienza, la soggettività, il costume, ma quel che conta alla fine è la produzione e la riproduzione materiale: reddito, lavoro, consumi, diritti sociali e civili. Qui è l’innesco di ogni cosa! Conta l’economia con i suoi cicli, che è relazione di dominio immateriale e materiale. E che perciò va plasmata in direzione sociale e non distruttiva. Ma per tutto questo ci vuole una critica del capitalismo e non solo quella del mercato selvaggio. Nonché una critica militante del capitalismo finanziario, e non semplicemente la Consob... E insomma ci vogliono soggetti sociali antagonistici, in primo luogo quelli del lavoro industriale e non. Soggetti rappresentati da partiti di massa, altro che “mouvements” e “issues”!
Lo stesso vale per Rosanvallon, che parla di vita comune, spazi comuni e comunità sociale. Ma l’unica parola che non pronuncia mai è «partiti», che pure sarebbero l’ossatura democratica della società civile. Anche lui continua la litania contro la sinistra statalista e giacobina... E intanto finanza e capitale gli stati se li sono presi loro...

l’Unità 27.6.12
La forza dell’uomo
Che mondo sarà il nostro? Un pamphlet di Luisa Muraro
Il nuovo potere immenso, astratto e invisibile che esercitano finanza e informazione
delegittima la politica e la vita
Ma l’umanità deve resistere, affermandosi contro ciò che lo nega
di Enrico Palandri


IL PAMPHLET DI LUISA MURARO DIO È VIOLENTO (NOTTETEMPO, 6 EURO, PP. 75) SI INNESTA SU DIVERSI LINEE DI PENSIERO. LA PIÙ ARCAICA E PROFONDA È QUELLA BIBLICA. La violenza di Dio, da Gomorra a Giobbe a qualunque evento naturale che distrugga umani, animali, natura, rischia di inaridirsi in autocommiserazione se non trova la forza di chi è stato plasmato dall’amore femminile che ci ha cresciuto. Come ritrovare questa forza? Osserviamo la violenza attraverso Marx: il capitale estrae valore dalla vita, lo monetarizza, lo astrae. Il comunismo è fallito perché, come diceva Glucksmann, nel mito rivoluzionario si abolisce il problema delle origini. Non è possibile sostituire a tradizioni spirituali il materialismo storico, o ci si ritrovano file di contadini nella piazza rossa a venerare la salma di Lenin o in piazza Tien En Men per vedere Mao Dze Dong. Quello che viene prima non viene mai solo superato, si trasforma e resta con noi, che sia il potere feudale, le lotte di religione, lo scisma o qualunque altro momento nella storia dei popoli e delle persone. Ma la critica al capitalismo resta al centro del nostro mondo, anche dopo il crollo del comunismo: più ancora che nell’epoca industriale, che sta passando alle nostre spalle, la crescita esponenziale della astrazione del valore dalla vita, la sua monetarizzazione e finale opposizione alla vita concreta ci mette di fronte a un quadro che nessuno governa: tramontano le forme partecipative della politiche (quelle democratiche e quelle dittatoriali) che hanno caratterizzato il novecento, ed emerge un nuovo potere che si esercita congiuntamente attraverso finanza e informazione. Murdoch e Berlusconi, ma anche Repubblica o il Corriere, tutti i media e le banche divengono i luoghi in cui convergono informazioni e denaro. Il potere è nel flusso di queste astrazioni, soldi e notizie. Non le cose e noi, amanti e viventi, ma notizie delle cose, di noi, e rappresentazioni simboliche delle relazioni sociali. Questo flusso delegittima la politica, e alla fine la vita stessa.
In questo territorio il comando non è esercitato da un imperatore come quello cinese o romano posto al centro della società, ma dall’astrazione. Un potere immenso, e astratto, invisibile. Tutti noi versiamo costantemente il denaro che guadagnamo nelle banche, compriamo anche al dettaglio attraverso ordini che trasferiscono crediti che abbiamo con istituzioni, se possiamo risparmiamo, investiamo cioè parte del valore del nostro lavoro nel futuro attraverso le banche, ma questo denaro dalla concretezza della relazione che ha mediato (ti ho aggiustato il rubinetto e mi dai quindi 250 euro) entra subito in un flusso di denaro astratto che assume immediatamente una identità indipendente, il valore risucchiato dalle vite concrete e trasformato in spread e pensioni, nel valore di una casa, nell’acquisto di un paio di scarpe o nel fallimento del bilancio economico di una nazione.
Il territorio di questo impero è il pianeta intero, e al suo interno le corporazioni si muovono come le aristocrazie o gli ordini religiosi nel medioevo, in modo transnazionale,delegittimando costantemente la politica (sono osservazioni consone a quelle di Negri e Hardt nel libro forse più influente degli ultimi anni, Impero). Murdoch ha chiesto a John Major di cambiare politica in Europa, a Blair di sbrigarsi con la guerra in Iraq. Sua moglie secondo alcune voci nella rete potrebbe essere una spia cinese, notizia che anche se si rivelasse falsa mostra dove si è spostato il potere. Ma Murdoch potrebbe anche non esistere, le forze del mercato agirebbero per lui. I giornali, le televisioni, o semplicemente i nodi di raccolta e diffusione di informazioni, divengono a prescindere da Berlusconi e Murdoch il luogo che si sostituisce un poco alla volta alla politica, la spinge ai margini. Grandi agglomerati di folle disomogenee che si riconoscono in nome delle idee, ma che hanno un committente e un pubblico, non cittadini che ne sono il senso costitutivo. Nodi attraversati da informazioni private e pubbliche, un unico flusso che tende sempre più all’astrazione, a togliere tempo e valore dalla vita per spostarla in luoghi digitali, astratti, che si spostano da Tokyo Buenos Aires in un istante, fanno fallire oggi la Grecia e domani se credono la Germania, dove raccontiamo dei nostri amori e versiamo lo stipendio, per poi magari vedere apparire improvvise risorse e opportunità in un’altra parte del pianeta.
Che mondo è, e che mondo sarà questo? La risposta più radicale allastrazione è quella di amarci gli uni con gli altri, già raccomandata da San Paolo. Non per un generico buonismo, ma perché oppone l’amare e l’amarsi concreto, l’essere presente gli uni di fronte agli altri, all’astrazione e monetarizzazione. La forza umana alla violenza del potere. Così resistono gli umani da sempre alla violenza dell’imperatore, affermandosi contro ciò che li nega e li nasconde.

Corriere 27.6.12
Il razzismo è inciso nel nostro cervello Così si scatena la paura del diverso
L'amigdala genera le emozioni negative. Ma neutralizzarla è possibile
di Massimo Piattelli Palmarini


Il censimento del 2010 ha rivelato che, negli Stati Uniti, il 36 per cento della popolazione totale è composto da «non bianchi» («non-whites»), con un 7 per cento di aumento in appena dieci anni. La buona notizia è che, nei ripetuti sondaggi effettuati dai sociologi nell'ultimo quarto di secolo, gli atteggiamenti dei bianchi americani nei confronti dei non bianchi sono nettamente e progressivamente migliorati. Il razzismo conscio è in netto e continuo declino, e sarà presto quasi scomparso. La cattiva notizia, pubblicata ieri sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale «Nature Neuroscience» da ricercatori della New York University e di Harvard, è che lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Cioè, tra l'atteggiamento anti-razzista consapevole e positivo e le reazioni subconscie negative dei bianchi a volti di non bianchi c'è un fossato.
Gli autori di questa ampia ricerca, Jennifer T. Kubota, Mahzarin R. Banaji ed Elisabeth A. Phelps, dopo aver analizzato molti risultati ottenuti negli ultimi anni nelle neuroscienze, concludono che esistono chiare attivazioni cerebrali dei centri deputati al disgusto, la paura e la sfiducia, quando si mostra a un bianco un volto di un non bianco. L'area cerebrale sottocorticale che si attiva per prima, chiamata amigdala, è infatti specializzata in emozioni di carattere negativo. Il cervello delle persone sensate e socialmente sensibilizzate, però, non lascia queste emozioni negative agire a briglia sciolta. Subito dopo, infatti, in millesimi di secondo, presto si attiva anche un'area della corteccia cerebrale, il nucleus accumbens dorsale, che registra un conflitto. Le emozioni negative inviate dall'amigdala non sono benvenute ai centri superiori e il sistema cerca di neutralizzarle. Si attiva la centralina di controllo più nobile, la corteccia prefrontale dorsolaterale (in gergo «Dlpfc») e stabilisce chi deve vincere in questa lotta tra il bene e il male.
Per lo più vince il bene, cioè giudizi e atteggiamenti non razzisti, ma l'esistenza sorniona delle reazioni viscerali negative non può essere ignorata. L'esistenza di queste reazioni inconsce era stata rivelata in svariati test subliminali, anche prima che intervenissero i grossi calibri delle neuroscienze e del «brain imaging» (risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogrammi, stimolazione magnetica transcranica). Per esempio, senza sondare le attivazioni cerebrali, si proietta la parola «nero» e poi la parola «cattivo», oppure la parola «bianco» e poi la parola «buono», o l'inverso, e si misurano i tempi di reazione delle associazioni mentali. Si vede che «bianco» è mentalmente, inconsapevolmente, associato a «buono» più strettamente di quanto vi è associato «nero».
In un diverso tipo di test, si mostrano a un soggetto bianco vari volti di individui bianchi e poi si chiede, minuti dopo, di riconoscere, in un vasto insieme di volti, quali sono quelli già visti. Si ripete poi lo stesso con vari volti di non bianchi e si vede che è più facile ricordare i volti della propria razza che non quelli dell'altra razza. Questo vale anche, simmetricamente, per soggetti non bianchi che svolgono lo stesso compito. Molti altri test di questo tipo avevano rivelato queste tendenze subliminali a privilegiare persone appartenenti allo stesso gruppo sociale. Ma la differenza svanisce se si presentano volti di attori o cantanti o sportivi famosi, senza discriminazione di colore. Le reazioni cerebrali variano anche a seconda del tipo di musica (tipicamente «bianca» oppure tipicamente «non bianca») presentata subito prima delle immagini di volti di etnia diversa.
Uno dei centri cerebrali protagonisti di questi processi è l'area specializzata nel riconoscimento dei volti, un'area di forma fusiforme posta alla base del cervello. Essa si attiva più intensamente quando si presentano al soggetto volti di persone (non famose) dello stesso gruppo etnico che non volti di un diverso gruppo. Chiedo all'autrice principale di questa ricerca, la neuropsicologa Jennifer Kubota della New York University, cosa dobbiamo concludere. «I centri delle reazioni emotive negative sono malleabili e i centri superiori del giudizio e della decisione sono in grado di contrastarli. Le reazioni negative emotive dell'amigdala sono, a guardarci meglio, più collegate al riconoscimento del proprio gruppo che non alla razza in quanto tale. Inoltre, ogni volta che un soggetto rievoca un ricordo e poi lo rinvia di nuovo in memoria — un processo molto studiato che si chiama "reappraisal" — il ricordo cambia. Esercitando questo processo, le reazioni anche inconsce cambiano in positivo. Insomma, con un certo sforzo, le reazioni negative subconscie possono essere dominate». Aggiunge che siamo solo agli inizi di queste ricerche e che molto resta da fare. A me viene in mente uno striscione in inglese a lato del campo che gli spettatori della partita Italia-Inghilterra di domenica hanno ben visto a inizio partita: «Uniamoci contro il razzismo». Facciamolo, magari anche nei tempi supplementari o perfino ai rigori. Abbasso l'amigdala, viva i centri corticali superiori.

Corriere 27.6.12
Quando la gelosia uccide
Lo scandalo del delitto d'onore, eredità terribile dei classici
di Eva Cantarella


Nessuno poteva dirlo meglio di Giuseppe Pontiggia. Oggi il peggior nemico dei classici è un nemico che non li affronta, ma li ignora: la programmazione scolastica. Un nuovo nemico che «delude, amareggia, scoraggia per la sua stupidità. Dilapidare — noi che ne saremmo i beneficiari diretti — l'eredità classica, è una ignominia e uno spreco che nessuna nazione consapevole si permetterebbe». Da allora, le cose sono precipitate, e una scuola appiattita sul presente ha reso ancor più forte la necessità di ripetere che la prima funzione della scuola è quella di formare cittadini dotati di ragione e di coscienza critica: che i classici, appunto, aiutano in primo luogo a costruire. Non perché, beninteso, essi siano depositari di valori superiori, eterni e immutabili, come un tempo si diceva. Ci sono aspetti della loro cultura oggi inaccettabili: l'idea che la schiavitù fosse naturale, ad esempio, o che la ragione delle donne fosse diversa e inferiore. Ma per noi è essenziale conoscere anche questi aspetti. Al di là delle rotture e le discontinuità che hanno segnato i millenni che ci separano, infatti, alcuni di essi sono arrivati sino a noi, insieme ad alcune delle regole giuridiche a questi ispirate. Tra le quali (non potendo ovviamente occuparci di tutte) ce n'è una sulla quale oggi vale la pena riflettere: la regola che garantiva pene irrisorie a chi commetteva un «omicidio per causa d'onore», cancellata dal nostro codice penale solo nel 1981, dopo aver superato resistenze che solo il suo antichissimo radicamento riesce a spiegare.
La giustificazione della causa d'onore nasce in Grecia. Più precisamente nella prima legge ateniese, che nel 621-620 a.C. segnò la fine della cultura della vendetta, sino a quel momento considerata l'unico modo per difendere l'onore. A partire da quel momento l'omicidio divenne un reato punito con pene irrogate da tribunali appositamente istituiti: morte per l'omicidio volontario, esilio per quello involontario. Ma nel fare questo la legge stabilì un'eccezione: chi sorprendeva in casa propria un uomo che intratteneva rapporti sessuali con la propria moglie, madre, figlia, sorella o concubina non veniva punito. Il suo omicidio infatti era «dikaios», vale a dire legittimo. Rimasta in vigore per tutto il corso della storia greca, la regola ispirò Augusto, che nel 18 d.C. concesse al padre l'impunità per l'uccisione della figlia e del suo amante sorpresi in flagrante in casa propria o del genero, e al marito, in determinate circostanze, per l'uccisione dell'amante (uccidere la figlia, anche se sposata, spettava solo al padre). L'impunità concessa da Augusto era dunque meno estesa di quella prevista da Draconte, ma nei secoli dell'impero si ampliò molto sensibilmente. Solo nel 556 Giustiniano cercò di limitare le uccisioni, con una regola sulla quale vale la pena soffermarsi: per uccidere impunemente i mariti dovevano preventivamente inviare all'amante tre diffide scritte. Una regola molto discussa, specchio ed esempio di una lunga, veramente lunghissima durata delle mentalità. Per secoli, infatti, la regola delle tre diffide, sempre in vigore, venne osteggiata suscitando crudeli ironie. Quando, nell'XI secolo, il diritto romano ricominciò a essere studiato nelle università, i giuristi si divertivano redigendo dei formulari quali ad esempio (riportato da Giovanni Nevizzano d'Asti tra XV e XVI secolo), quello che così suonava: «Io, Martino di Cornigliano in questi scritti denunzio te, Tristano de Bravi, perché ti sospetto di commettere adulterio con mia moglie. Astieniti dunque dall'incontrarti con lei e dal parlare con lei. Se lo farai, io dichiaro in questi scritti che userò contro di te del rimedio concesso dal diritto...».
Superfluo notare lo sbeffeggio del marito, il cui nome, Martinus de Cornigliano, è una dotta attestazione dell'antichità di due termini che tornano con frequenza non solo nel linguaggio popolare, ma nelle successive opere della giurisprudenza: «cornua» e «cornutus». Ma proseguiamo: sul finire del XVI secolo (1583), Giulio Claro Alessandrino scrive che i mariti non osavano denunciare la moglie adultera «per non incorrere nell'infamia perpetua che ricade su di loro a causa di una malvagia consuetudine»: i giudici infatti — scrive Felino Sandeo — deridevano chi proponeva un'accusa di adulterio, al punto che per i mariti saggi era meglio «tenersi le corna ("cornua") nel petto». Oppure uccidere, con margini di impunità sempre più ampi. Il Senato milanese, ad esempio (sentenza 26 aprile 1588) stabilì che l'onore del marito era offeso dal semplice fatto che si potesse pensare che egli era «cornutus», e successive sentenze dichiararono che era suo dovere uccidere la moglie adultera e il complice. E così, rafforzata dal consenso costante della giurisprudenza, l'idea che l'onore familiare fosse legato al comportamento sessuale femminile superò anche il secolo dei Lumi. Neppure la critica illuminista, infatti, mise in discussione la causa d'onore che, nel 1810, arrivò nel primo codice penale francese come causa di totale esclusione della pena.
Diverse le previsioni delle legislazioni italiane, per le quali la causa d'onore non escludeva totalmente la pena, si limitava a limitarla. Ma allo stesso tempo estesero l'attenuante alla moglie che uccideva il marito traditore e alla madre e alla sorella che uccidevano figlia o sorella, anche se non sposata. E da questi codici la regola giunse al primo codice unitario (Zanardelli, 1890), e nel 1930, pressoché invariata, al codice Rocco, che non richiedeva più che gli amanti fossero sorpresi in casa e in flagranza. Bastava che l'assassino agisse «nell'atto in cui scopriva» la relazione illegittima. Così che la «causa d'onore» veniva concessa, ad esempio, a chi aveva scoperto la relazione aprendo una lettera o ascoltando una telefonata. Le innovazioni introdotte dai codici italiani, dunque, erano state notevoli. Ma i custodi dell'onore familiare erano sempre gli uomini: l'estensione del beneficio era stata concessa alla moglie in considerazione dei suoi «sentimenti di affetto», e a madri e sorelle perché il comportamento sessuale illecito di un'altra donna della famiglia metteva in discussione la loro onestà. Per vedere cancellato questo articolo, lo abbiamo detto, si è dovuto attendere il 1981. Ma non sono mancate sentenze successive che hanno concesso a chi aveva ucciso per causa d'onore l'attenuante di aver agito «per motivi di particolare valore morale o sociale». E le cronache odierne, purtroppo, ci costringono a ricordare che esistono ancora sacche nelle quali questa mentalità non è sparita. Una ragione in più per studiare i classici: oltre che per i loro grandissimi lasciti, anche per alcune imbarazzanti eredità, che ci aiutano, comunque, a orientarci in questo difficile presente.

Corriere 27.6.12
Il piccolo Manuel, che visse tre anni nella foresta del Cile
di Monica Ricci Sargentini


Manuel ha cinque anni, due gambette svelte e tanta voglia di essere amato. Vive nel poverissimo villaggio di Sant'Elena in Cile insieme a un uomo violento che lui chiama nonno e che lo prende a cinghiate tutte le mattine. È un bambino sorridente ma lasciato a se stesso, isolato, invisibile: in paese nessuno gli rivolge la parola e lui non sa perché. Quando scopre il terribile segreto, l'omicidio di sua madre, si rifugia nel bosco e decide di vivere lì lontano dagli uomini. «Ora che la mia Isabel era morta sentivo il richiamo di quell'albero, un richiamo istintivo, irrazionale, assurdo, ma irresistibile. Il richiamo della natura che tutto riempie di significato».
Verrà trovato tre anni dopo pieno di piaghe e malattie ma vivo e pronto a ricominciare. Quel bambino oggi si chiama Manuel Antonio Bragonzi, è un uomo di 36 anni e abita in Brianza. Nel febbraio del 1985 una coppia italiana lo trovò timido e impaurito nell'orfanotrofio di Talca: «Era piccolissimo, aveva i capelli inumiditi e ben pettinati — ricordano i Bragonzi —, ci fissava con gli occhi sgranati. La madre superiora gli spiegò che venivamo da un Paese lontano e poi, senza ulteriori convenevoli, gli chiese: "Vuoi che questi signori diventino il tuo papà e la tua mamma?". Il bambino ci guardò e si aprì in un sorriso: "Sì madre"».
A raccontarci questa storia tragicamente vera è Marcello Foa, giornalista di scuola montanelliana, direttore del gruppo editoriale TImedia, nel suo nuovo libro Il bambino invisibile, edito da Piemme voci e da poco uscito nelle librerie (pp. 280, 16,50). Foa ha incontrato Bragonzi per caso l'anno scorso nell'ufficio di un suo amico a Milano: «Più volte — scrive nell'ultimo capitolo — Manuel Antonio ha pensato di raccontare la propria storia ma ha sempre rinunciato. Quando ci siamo conosciuti invece ha capito che il momento era giunto. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo riconosciuti. Questo libro è nato così». La stesura a quattro mani non è stata facile. In ventisei anni il ragazzo non aveva confessato fino in fondo a nessuno, nemmeno ai suoi genitori adottivi né alla moglie Vera o ai suoi tre figli, i dettagli della sua orribile infanzia. Ancora oggi neanche lui sa se l'uomo con cui ha vissuto dai tre ai cinque anni fosse davvero suo nonno e per quale ragione abbia ucciso a calci sua madre. Di quel giorno ricorda solo dei frammenti. La mamma che lo cercava «Manuel. Manueeel!». La corsa verso casa. I capelli lunghi e neri di lei. La lite con quel signore anziano che poi lui avrebbe chiamato «el mi abuelito» (mio nonno), i suoi occhi indemoniati: «Mi ricordo quel momento come se fosse ora — racconta nel libro —. Mia madre urlava, il vecchio urlava. Ma cosa dicevano? Perché litigavano? Lui sferrò un calcio violentissimo sulla pancia di mia madre, la pancia rotonda e rassicurante di una donna in dolce attesa».
Il libro si legge in un soffio, è facile entrare nella mente del piccolo Manuel, vedere il villaggio polveroso pieno di gente senza cuore con i suoi occhi da bambino; ce lo immaginiamo nella foresta che mangia frutti selvatici, impara a cacciare dai gatti e pesca a mani nude. Sentiamo la sua solitudine ma sappiamo che non si arrenderà: «Sì anch'io avevo avuto una madre e proprio quella scoperta mi permise di staccarmi da tutto ciò che era negativo, dalla morte. Scoprii allora — ma solo ora me ne rendo davvero conto — che bisogna prendere il meglio da ogni esperienza, perché così si allontana il male da sé, e che dietro il male c'è sempre il bene a condizione di non lasciarsi arrovellare dal rimorso dalla rabbia, dal rancore».

Corriere 27.6.12
«Positano: mare, sole e cultura» (da ieri al 31 luglio)
Vent’anni dopo come i moschettieri
di Giulio Giorello


«Io leggo tutta la notte e poi d'inverno vado al Sud», esclama un personaggio di T.S. Eliot. Tornando indietro nel tempo, possiamo tra libri e navi immaginarci questo bizzarro eroe capitare sulle rotte del Mediterraneo, schivando i rigorosi controlli delle Repubbliche marinare ma anche le insidie dei fieri pirati barbareschi. All'epoca era in gioco la libertà dei commerci, e si cominciava a comprendere che c'era una merce tutta particolare, la parola, che non sopportava dazi e balzelli, e non temeva scontri e fraintendimenti. Nel primo Seicento Paolo Sarpi — difensore dell'indipendenza di Venezia, lo Stato «serenissimo» impegnato in una partita mortale con l'Impero asburgico, la Sublime porta di Costantinopoli e, soprattutto, con il Papato romano — scriveva: «La materia dei libri pare cosa di poco momento, perché tutta di parole. Ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo». A suo dire, la forza delle lettere poteva persino superare quella dei più potenti «eserciti armati». Gli farà eco, qualche decennio dopo, difendendo il diritto di Galileo Galilei a sostenere pubblicamente le proprie opinioni anche se giudicate sbagliate, l'inglese John Milton, che compone la sua appassionata apologia della libertà di stampa (Areopagitica, 1644) in piena guerra civile, quando gli artigiani della sua Londra passano le notti a forgiare spade e pistole, e tuttavia non rinunciano a discutere «le più sottili e sublimi questioni». Per il grande poeta del Paradiso perduto, bruciare un libro era un crimine «quasi» peggiore che sopprimere un essere umano, poiché si impediva quel dialogo che attraversa le generazioni, non conosce ostacolo di confine o di distanza e può persino superare indenne il trascorrere dei secoli.
Vent'anni dopo il suo debutto, per riprendere il titolo del celebre romanzo di Dumas, «Positano: mare, sole e cultura» (da ieri al 31 luglio) affianca ancora una volta agli scenari delle bellezze mediterranee i paesaggi tratteggiati dalle parole. Saggi, romanzi e poesie non sono che modi di riplasmare le cose, di scoprire significati inediti, di prospettare orizzonti nuovi e sconfinati. Se in questo ventaglio di proposte ci sono errori, mancanze o omissioni, poco importa, purché sia coltivato il piacere della differenza. E, dopotutto, quel che minaccia il vero non è il falso, ma l'insignificante. I moschettieri di Dumas a un ventennio dal loro primo incontro apparivano invecchiati e un po' involgariti dalla routine della vita di corte, un nemico ben più insidioso delle mitiche guardie del Cardinale. Ma non per questo avevano perso la voglia di combattere. Oggi gli «amici delle lettere» (come li chiamava Galileo) si trovano a lottare non contro gli sgherri di questo o quel notabile, bensì contro la tendenza a un conformismo che rischia di realizzare un tipo di tirannia ancor più perversa di quelle classiche perché nascosta dalla retorica della democrazia.
La rassegna di Positano, cui partecipano gli autori più vari, non a caso ospita al proprio interno un premio internazionale al giornalismo civile (1 luglio) promosso dall'Istituto italiano per gli studi filosofici (quest'anno viene assegnato a Ferruccio de Bortoli e a Enrico Mentana). È almeno dai tempi di Socrate che la filosofia ci ha insegnato che la forza della parola è l'esatto opposto della forza bruta, che il discorso sposta il conflitto a un livello più alto della mera distruzione dell'avversario, che la possibilità di comprendere le ragioni dell'altro è anche un modo di conoscere se stessi. Ma perché tutto questo avvenga, è bene che gli strumenti della comunicazione — il volume, il libro stampato, radio e televisione, la rete, ecc. — non vengano sequestrati da un qualsiasi monopolio. La pluralità dei punti di vista è stata e resta la regola dell'impresa scientifica. D'altra parte, a quattro secoli da Galileo, sarebbe folle pensare a un umanesimo che ignori la pregnanza della scienza e la potenza della tecnologia: la parola dello scienziato non è meno forte di quella del poeta. E ciò deve ricadere sul piano della politica, almeno se quest'ultima vuole riscoprirsi arte della convivenza civile e non mera occupazione degli spazi privati dei singoli cittadini. Pura utopia? Per riprendere un tema sfiorato all'apertura della rassegna da Virginia Attanasio, ogni individuo vive anche e soprattutto dei propri sogni. E come ebbe a dire persino quel curioso visitatore dei luoghi partenopei che rispondeva al nome di Lenin, «compagni, bisogna sognare». A noi basta poterlo fare.

Corriere 27.6.12
La Milanesiana. il Fascino ambiguo dell'Imperfezione
Quelle fantasie «ominidi, troppo ominidi» Così inventiamo l'infallibilità degli utensili
di Carlo Sini


Sul tema della perfezione/imperfezione, il 13 luglio alle ore 21.00 parleranno Carlo Sini, Mariapia Veladiano, Maurizio Ferraris, Evandro Agazzi, Enrico Ghezzi, Armando Torno e Antonio Ballista, con un prologo semiserio di Gene Gnocchi, all'Auditorium Pirelli

Non possiamo immaginare che gli animali si sentano imperfetti; al più constateranno la loro occasionale inefficienza o sfortuna. Perfezione e imperfezione sembrano essere questioni tipicamente umane. Che l'uomo si senta un essere imperfetto è infatti cosa antichissima: gli dèi sono nella verità, dicevano i testi vedici, gli umani nella non-verità; gli dèi sono immortali, le nostre generazioni fuggono via nel vento come le foglie d'autunno, cantava Omero. Insomma, qualcosa non va. E poi siamo cattivi, cioè invidiosi, gelosi, vendicativi e violenti: lo sanno tutti, solo che si guardino intorno o che esaminino il loro cuore. Certo, qualche volta siamo anche buoni: siamo nel mezzo, tra i bruti e gli angeli, dicevano i maestri rinascimentali.
In ogni tempo i filosofi (non tutti) cercano di consolarci: se abbiamo nozione del nostro essere imperfetti, cioè in ogni senso fallibili, vuol dire che una qualche idea di perfezione ce l'abbiamo. Questo ci fa doppiamente onore: perché ci assegna a una condizione superiore e perché, non potendoci dare da soli, noi imperfetti, l'idea di perfezione, certamente la deriviamo dalla perfezione stessa; in poche parole, da Dio, che così ci dà notizia della sua esistenza e del suo interesse nei nostri confronti.
Altri però non sono d'accordo: non potrebbe essere vero anche il contrario? Che noi, esseri capaci di passioni, progetti e previsioni, constatando quante volte cadiamo in errore, ci figuriamo un essere che non sbaglia mai e che è, in tutti i sensi, la bontà assoluta. Con una generosità eccessiva, teniamo per noi tutti i mali e doniamo all'essere perfettissimo quei beni dei quali, occasionalmente, anche noi (e anzi, per quel che ne sappiamo solo noi) siamo capaci. Ma che soluzione sarebbe questa dell'essere perfettissimo? Limitati e fallibili come siamo, non potremo mai escluderne con certezza l'esistenza ma quanto a derivarla ragionevolmente dall'esperienza del mondo e della vita, con tutti i suoi mali e orrori, ecco, questo no. Cominciano le note e irresolubili controversie teologiche, che invero non hanno mai suscitato o cancellato una fede sincera e profonda in Dio, perché i ragionamenti sono una cosa e i sentimenti un'altra.
Resta il problema: da dove mai ci viene la coscienza della nostra imperfezione? Un'ipotesi ce l'avrei (ovviamente fallibile). Questa idea non deriva dalla semplice efficienza o inefficienza dell'azione; se fosse così, ce l'avrebbero anche gli animali che, beati loro, ne sembrano immuni e si accettano per quel che sono. Penso invece che l'idea nasca dalla capacità di agire facendo uso di strumenti appositamente progettati e costruiti. Strumenti esosomatici, dicono gli antropologi, dei quali gli umani si sono resi specialmente capaci. L'esempio classico sono le pietre scheggiate a formare attrezzi per tagliare, raschiare, ferire, cucire ecc. Si sa che i nostri antenati ominidi vi si addestrarono per milioni di anni e noi, umani sapienti, abbiamo perfezionato e trasferito quell'arte in modi incomparabili. Ecco allora che su un manufatto che sta lì davanti è facile constatare se, «oggettivamente» funziona, se è perfettamente idoneo oppure no. Suppongo che da questa scintilla moltissimo, per non dire l'intero bagaglio delle nostre idee, sia poi derivato. È facile però dimenticarsene. Capita allora di immaginare il mondo come un manufatto, opera di un divino fabbricatore. Forse dovremmo guardarci da queste fantasie «ominidi, troppo ominidi» e lasciare al mondo la sua incommensurabile verità e il suo mistero.

Corriere 27.6.12
Il Cnr distratto sulla cultura umanista
di Tullio Gregory


Il Cnr ha pubblicato il «Documento di visione strategica» per il prossimo decennio: documento importante nelle sue scelte e raccomandazioni, redatto da una commissione — nominata dal ministro Profumo — composta di 16 membri, dei quali due stranieri. In larga maggioranza autorevoli esperti delle cosiddette scienze dure, con un solo rappresentante delle scienze filologiche, storiche, filosofiche, Michel Gras, studioso francese di primo piano nel campo della ricerca archeologica: di questo «equilibrio imperfetto» il documento porta le conseguenze, come si vedrà.
Poiché il presidente Nicolais, presentando il Documento, ha auspicato che si apra un dibattito, cerchiamo qui di avviarlo.
Tra le proposte molto positive e innovative mi sembra da segnalare l'istituzione di Scuole internazionali di dottorato presso i Dipartimenti e le aree di ricerca Cnr: si avrebbero finalmente scuole con corsi regolari, di alta specializzazione, con laboratori e biblioteche, cosa che avviene raramente nelle università dove i dottorandi sono per lo più abbandonati a se stessi, al massimo affidati a un tutor, senza corsi regolari.
Molto spazio è giustamente dato alle tecnologie informatiche e al trasferimento tecnologico. Ma quando si passa alla definizione delle aree tematiche (differentemente presentate nel Documento e nella I appendice) ci si trova innanzi a un elenco piuttosto disordinato di buone intenzioni, di saggi consigli, che prescindono del tutto dal bilancio del Cnr (la spesa per le iniziative proposte non è mai quantificata) e soprattutto sembrano ignorare le ricerche in corso presso i vari Istituti. Siamo di fronte a programmi che potrebbero trovare forse spazio in una rinata Casa di Salomone, di baconiana memoria.
Già qualche perplessità desta la serpeggiante insofferenza per la ricerca di base, riconosciuta come caratteristica del Cnr, insistendo piuttosto sul rapporto con il mondo dell'impresa, che è come dire vincolare la ricerca a commesse esterne per un immediato utile economico, mettendo in crisi quelle attività che garantiscono il progresso del sapere, come già era posto in evidenza dal panel generale di valutazione.
In questa prospettiva non stupisce l'emarginazione delle discipline umanistiche: in tutto il Documento di 63 pagine, i cenni a queste discipline (accorpate nell'ambigua dizione «scienze sociali e umane e patrimonio culturale») se fossero raccolti tutti insieme non occuperebbero più di una pagina; delle stesse discipline si torna a parlare nella I appendice, occupando due pagine su quindici complessive. Si aggiunga che in tutto il Documento sono ignorate le ricerche storiche, filologiche, filosofiche, la cui presenza nel Cnr e il cui valore sul piano internazionale era stato messo in evidenza dal panel di valutazione dell'ente collocando al vertice, su 107 istituti, proprio i due istituti che svolgono ricerche in questo campo. Dato del tutto ignorato nel Documento che pur utilizza, per altri settori, le valutazioni del panel.
Peraltro, quando definisce le aree tematiche, il Documento propone per le scienze economiche, sociali e umane e il patrimonio culturale (inserite nell'area intestata alla «sicurezza e inclusione sociale») temi di una genericità significativa: «innovazioni sociali creative», «lotta contro il crimine e il terrorismo», «libertà di accesso a Internet», «sensori per stati di crisi», «coesione sociale», «pace», «legalità e sicurezza», «la rappresentazione dei beni», «l'eredità storica», «le strategie territoriali». Il tutto servito con affermazioni di assoluta ovvietà: «il patrimonio culturale va valorizzato», «il patrimonio culturale immateriale va incrementato».
Né maggiore chiarezza troviamo nella I appendice, dedicata alle aree tematiche, ove — ancora una volta ignorando settori di ricerca nei quali l'ente ha posizioni di prestigio — si indicano alcune priorità: per il patrimonio culturale, «conoscenza approfondita dei litorali», «turismo planetario, «miglioramento della rappresentazione e dell'immagine dei beni culturali, in relazione soprattutto alla persona umana e alla natura». Per le scienze sociali e umane le priorità sono: «cambiamenti demografici», «coesione sociale e culturale, legalità e sicurezza», «competitività del sistema economico», «pace», «pensare il futuro della città». Affermazioni tutte che si commentano da sole per la loro banalità.
Come spiegare questa disattenzione del Documento per le discipline umanistiche senza riaprire un inutile dibattito — del tutto privo di senso — sulle cosiddette due culture? Semplicemente ricordando l'endemica indifferenza, a volte diffidenza, di larghi settori del Cnr verso le discipline umanistiche (ammesse nell'ente cinquanta anni orsono) che, come ho avuto altra volta occasione di ricordare, sono state recentemente «compresse» dal nuovo CdA del Cnr in un unico Dipartimento, così da mettere insieme l'archeologia micenea con il diritto privato europeo, la psicologia con il restauro, la filologia classica con la sociologia industriale. Va anche riconosciuto che la prospettiva del Documento non differisce dalla politica del Miur e del Cipe (come si rileva anche dal Piano nazionale della ricerca 2011-2013), espressione del più miope aziendalismo, tutto volto al prodotto (tanto caro all'Anvur) vendibile sul mercato e valutabile con criteri «quantitativi» (oggi ampiamente criticati da tutte le grandi istituzioni scientifiche europee); di qui l'emarginazione della ricerca di base, scientifica e umanistica, e più ancora di una cultura che crei valori, non commerciabili ma essenziali per la crescita della società civile. Dimenticavo: il Documento auspica l'avvento di apostoli specialisti di «analisi bibliometriche» per «posizionare la ricerca del Cnr nell'ambito europeo ed internazionale»; per i direttori scientifici di dipartimenti e istituti richiede «esperienze gestionali e manageriali», come vuole l'Anvur per i professori universitari, con i noti risultati.

Repubblica 27.6.12
Breve storia della politica ossessionata dal consenso
Così le classi dirigenti hanno sempre di più cercato compromessi rinunciando ai progetti
di Franco Cassano


La politica non è sempre stata così impopolare come oggi. Nei primi trent’anni della repubblica essa ha goduto di grandi consensi. Anche allora i partiti si procuravano in modo illegale una parte delle loro risorse, ma quella disinvoltura non scuoteva la fiducia in essi riposta. Tale favore era l’effetto non solo della qualità delle élites politiche, ma anche del fatto che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, nel paese si era prodotto un forte spostamento degli equilibri a favore di figure sociali fin allora escluse dal sistema delle protezioni e delle garanzie. Non è quindi difficile capire perché la politica fosse circondata da un alone così favorevole: essa aveva permesso alle masse, come si usava dire, di “entrare nello stato” attraverso la porta dei diritti e non solo attraverso quella dei doveri.
Ma fu proprio la politica ad arrestarsi di fronte al compito che quello spostamento dei rapporti di forza avrebbe richiesto. Per rendere stabile un mutamento di tale portata tutto il sistema avrebbe dovuto fare un salto in avanti, trovare il modo di assicurare le risorse necessarie a stabilizzare quei nuovi equilibri. Questo passaggio in avanti non avvenne soprattutto perché il sistema politico italiano, a causa del quadro internazionale, impediva l’accesso al governo del principale partito di opposizione e la maturazione al suo interno della cultura necessaria per governare tale passaggio. Questo salto politico sarebbe stato ancora più necessario perché in quegli anni di profondo cambiamento dell’economia internazionale il sistema produttivo italiano stava iniziando ad accusare i colpi che ne avrebbero progressivamente ridimensionato il peso rispetto a quelli degli altri paesi europei. È proprio con il passaggio agli anni Ottanta, infatti, che inizia la progressiva scomparsa dalla scena internazionale dei grandi gruppi pubblici e privati italiani e si avvia quella metamorfosi che ha portato all’espansione di un tipo d’impresa esposta sul mercato internazionale, poco compatibile con gli alti salari e ostile al crescente prelievo fiscale.
Questa dinamica ha portato al configurarsi di due blocchi sociali contrapposti: quello ancorato intorno al lavoro dipendente e al sistema di garanzie degli anni Settanta e quello del lavoro indipendente insofferente nei riguardi di ogni vincolo. Il primo è il blocco della legalità e dei diritti, ad alto tasso d’istruzione e prevalentemente insediato in settori lontani dalla concorrenza internazionale, il secondo quello della piccola e media impresa, esposto al mercato e abituato, agitando questa ragione, ad assolversi da ogni aggiramento delle regole. Questi due blocchi si sono a lungo contrastati fino a diventare con la “Seconda repubblica” la base sociale degli schieramenti di centrosinistra e centrodestra, e tale contrapposizione, lungi dal risolvere i problemi, ha condotto al loro aggravamento.
Non da oggi il passaggio decisivo per rispondere alla crisi italiana è quello di riconnettere questi due blocchi costruendo una relazione virtuosa tra imprese e diritti. Un tale patto richiederebbe un reciproco riconoscimento: da un lato si dovrebbe accettare il valore fondante della legalità, sostituendo il sottosalario e l’evasione fiscale con un salto della qualità tecnologica dei prodotti; dall’altro riconoscere che la tutela dei diritti va ancorata alla reale redditività e richiede che l’intero paese non perda colpi, in una fase storica in cui sulla scena si affacciano interi continenti e più acuta diventa la concorrenza di chi si vale di costi di produzione più bassi.
Questo riconoscimento reciproco diventa ancora più necessario sotto i colpi della crisi. A questo passaggio difficile, che richiederebbe grande fiducia nella guida del paese, la politica italiana è arrivata sfiancata dal progressivo decadimento della sua autorità e del suo prestigio. È vero che l’indebolimento della politica è un processo internazionale che nasce dallo spostamento delle grandi decisioni nelle mani del capitale finanziario e lontano dagli stati nazionali, ma è anche vero che in Italia ha raggiunto punte drammatiche. Alle prove della competizione globale il paese è arrivato con una politica incapace di confrontarsi con le grandi sfide, intenta soprattutto alla rincorsa elettorale del blocco sociale di riferimento. La politica screditata e minore che noi conosciamo è questa, una politica che può anche gridare, ma in realtà piccola e priva di futuro. Occorre sbarazzarsi al più presto non della politica in generale, ma di questa politica, che spacca il paese ed accompagna la sua perifericizzazione.
È da questo deficit di una grande politica che è nato il governo dei tecnici, apparso come l’unico capace di varare, essendo al di sopra delle parti e libero dalla rincorsa al consenso, quelle misure di interesse nazionale che la politica non era stata capace di prendere. In realtà si perpetuava, sia pure con una radicale discontinuità di stile, l’anomalia italiana: dall’essere l’unico paese europeo governato dal proprietario monopolistico della televisione commerciale all’essere l’unico che per rispondere alla crisi ha bisogno di rivolgersi ai tecnici.
Ma le vicende francesi dimostrano, molto più delle incertezze del governo Monti, che le dimensioni della crisi internazionale sorpassano di gran lunga le competenze dei tecnici e richiedono decisioni politiche. Gli interessi forti non sono per nulla patriottici e si sottraggono con disinvoltura alle pressioni di ogni governo, come dimostra l’emigrazione dei capitali francesi verso la Gran Bretagna dopo la vittoria di Hollande. La crisi non avrà soluzione se non quando la politica avrà riequilibrato, su una scala più larga di quella offerta dallo stato nazionale, il suo rapporto con l’economia. E tutto il tempo che si perde in questa transizione infinita ad una politica più forte è il tempo della crescita di tutte le disuguaglianze. Il liberismo è tutt’altro che una strategia moderata. Di fronte a fenomeni di questo tipo ci vuole ben altro che le risposte dei tecnici.
La legittimazione del governo tecnico si è quindi indebolita, e la palla sembra destinata a tornare presto nel campo della politica. Ma una politica debole e divisa come quella che ha ceduto il suo scettro di fronte all’emergenza che cosa può fare per invertire radicalmente la tendenza? La direzione che oggi molti indicano è quella che giustamente invita ad aprire la politica alla società, la strategia della partecipazione. La politica deve ricercare un radicamento forte, mettere fine al sospetto mortale di essere un corpo separato dedito soprattutto alla propria riproduzione, ridare spazio alla passione civile. Ma aprirsi non basta.
Una rinunzia forte ai propri privilegi da parte dei politici è necessaria anche per porre fine a quell’abitudine che spinge a fare di essi dei comodi capri espiatori: «Quelli che ci governano sono da noi facilmente scelti a far questa persona di rei de’ nostri mali» (Leopardi). Una forte discontinuità simbolica è l’unico modo per far sì che il paese smetta di nascondere dietro l’assalto ai politici la propria inerzia e inizi a guardare in faccia le sue responsabilità. Il deficit attuale della politica non è la patologia separata di una casta, ma l’effetto della miscela micidiale tra declino e divisione, del baratto della verità con la ricerca del consenso. Non si tratta di azzerare la politica di fronte alla demagogia, ma di farle capire che per riconquistare un ruolo dirigente essa dovrà cambiare tutte le sue abitudini. Non l’anti-politica, ma finalmente il suo ritorno.

Corriere 27.6.12
Le origini di Terra e Luna? Questione di frammenti
Un'idea diversa dal mega impatto. Ma non può prevalere
di Eric M. Galimov

L'origine e l'evoluzione della vita e l'origine del sistema Terra-Luna sono tra i più ardui problemi scientifici, poiché è difficile sottoporli a uno studio sperimentale, e la loro analisi teorica è ambigua: troppi i fattori coinvolti e alcuni di essi non sono noti. A differenza di quanto accade nelle scienze esatte (matematica o fisica), nelle scienze naturali un cambiamento di paradigma si verifica con grande lentezza. Anche se viene proposta una nuova e migliore soluzione, essa viene a volte accettata con decenni di ritardo.La concezione eliocentrica, ad esempio, avanzata da Copernico nel 1543, fu accolta solo alla metà del diciassettesimo secolo. Nel 1600 Giordano Bruno fu arso sul rogo, e nel 1633 Galileo Galilei fu costretto dall'Inquisizione a ritrattare le sue idee eliocentriche. E la teoria eliocentrica non era stata ancora accettata neppure nel 1650, quando il celebre astronomo italiano Giovanni Riccioli battezzò un cratere lunare in onore di Copernico. La situazione non è così drammatica nel caso del problema dell'origine del sistema Terra-Luna. Tuttavia esso fornisce il contesto di base entro cui considerare il nostro argomento: l'imperfezione nella scienza.
Il paradigma dell'origine del sistema formato dalla Terra e dalla Luna è la teoria del mega impatto. Essa ipotizza una catastrofica collisione di due vasti corpi planetari nella storia iniziale del sistema solare. Il risultato fu che la Terra e la Luna ne emersero come corpi magmatici completamente fusi. Per diversi decenni la teoria del colossale impatto parve la miglior soluzione al problema dell'origine della Luna. Aveva solide basi dal punto di vista dinamico e forniva spiegazioni plausibili delle principali osservazioni empiriche, compresa la scarsezza di ferro sulla Luna e l'eccessivo momento angolare del sistema Terra-Luna.
L'ipotesi del mega impatto fu avanzata alla metà degli anni Settanta da due team di scienziati americani. Secondo la loro tesi, la Luna si formò con l'addensamento del materiale fuso espulso nell'orbita circumterrestre in seguito alla collisione della proto-Terra con un altro corpo planetario delle dimensioni di Marte.
Il problema cruciale che si trovano ad affrontare gli scienziati impegnati sull'origine della Luna consiste nella domanda: perché la massa lunare è carente di ferro rispetto alla massa terrestre? Il contenuto di ferro della Terra è del 33,5%, mentre quello della Luna è in una percentuale compresa tra il 10% e il 15%. L'ipotesi del mega impatto fornì una semplice risposta: la collisione da cui nacque la Luna si verificò nel momento in cui la Terra aveva già attraversato il processo di differenziazione e gran parte del ferro si era concentrato nel suo nucleo metallico, e la Luna si formò dal mantello terrestre, carente di ferro.
L'ipotesi del mega impatto fu accolta positivamente dai geochimici (Ringwood, 1986; Wanke, 1986), dato che ci sono molti tratti simili tra il mantello lunare e quello terrestre.
Un argomento decisivo era l'identità tra il frazionamento isotopico dell'ossigeno lunare e terrestre. Nel diagramma 17O/16O rispetto a 18O/l6O i campioni terrestri e lunari appartengono alla stessa tendenza di frazionamento, mentre altri corpi cosmici, compresi meteoriti di varie classi, ne mostrano una diversa.
Ad ogni modo, Un più dettagliato studio al computer della dinamica del mega impatto compiuto all'inizio del Duemila mostrò che il materiale fuso espulso in un'orbita circumterrestre proveniva non tanto dal mantello terrestre ma soprattutto, almeno per l'80%, dal corpo impattante. Poiché l'origine e la composizione chimica del corpo impattante sono sconosciute, ciò privava la teoria dell'impatto di argomenti geochimici. Inoltre, la derivazione della Luna dal corpo estraneo alla Terra rende le affinità tra la Terra e la Luna, come la somiglianza nel frazionamento isotopico, argomenti contrari all'ipotesi del mega impatto. Oggi sono disponibili molte altre prove della significativa eterogeneità isotopica del sistema solare.
In un simile contesto, l'affinità tra il frazionamento isotopico dell'ossigeno della Terra e della Luna costituisce una prova decisiva della somiglianza genetica dei loro materiali.
Furono avanzate numerose ipotesi per salvare la teoria del mega impatto. Ad esempio, si è sostenuto che l'impatto provocò la formazione di un'atmosfera globale di vapori di silicio all'interno della quale i liquidi terrestri e lunari furono omogeneizzati tramite convezione turbolenta (Stevenson, 2005; Pahlevan e Stevenson, 2007; 2011). Questi studiosi ritenevano che ciò spiegasse l'omogeneità isotopica dell'ossigeno all'interno del sistema Terra-Luna. Tuttavia non solo l'ossigeno, ma anche elementi molto refrattari mostrano una completa coincidenza di composizione isotopica tra Terra e Luna. È stato recentemente riferito che la composizione isotopica del Ti terrestre coincide con quella della luna (Zhang e altri, 2011). I più recenti studi del sistema Hf-W hanno dimostrato che anche la composizione isotopica di W sulla Terra è indistinguibile da quella sulla Luna (Kleine e altri, 2009). È impossibile omogeneizzare i contenuti isotopici dei refrattari titanio e tungsteno senza una completa vaporizzazione della Terra e del corpo impattante. La completa vaporizzazione è però incompatibile con la simulazione al computer.
Inoltre, seppure di identica composizione isotopica, la Luna e la Terra differiscono in alcuni aspetti della composizione chimica. La luna è più ricca di elementi refrattari calcio, alluminio, titanio e più carente di quelli volatili, compresi potassio e sodio che formano le rocce, e persino del moderatamente volatile silicio. Bisogna tenere a mente che nel corso di una trasformazione chimica la composizione isotopica può restare invariata, ma durante l'omogeneizzazione isotopica anche la composizione chimica viene inevitabilmente omogeneizzata. La differenza osservata nella composizione chimica della Terra e della Luna è dunque incompatibile con l'idea dell'omogeneizzazione isotopica.
Queste e altre difficoltà dell'ipotesi del mega impatto hanno portato alla ricerca di un modello alternativo. Tale ipotesi alternativa è stata avanzata (Galimov, 1995, 2008; Galimov e altri, 2005), e La sua sostanza è che la Luna non si è formata in seguito a una collisione catastrofica, ma tramite la frammentazione di un immenso addensamento di particelle gassose. Il modello proponeva che la Terra e la Luna si fossero formate dallo stato disperso. La contrazione di questo addensamento gravitazionale conduce all'aumento della temperatura al suo interno con una conseguente parziale evaporazione delle particelle e dei corpi solidi da cui è formata.
L'aspetto nuovo e interessante di questa ipotesi era che forniva una spiegazione alternativa della perdita di ferro.
La composizione più primitiva del sistema solare si presenta nel materiale condritico. La composizione della Terra è simile a quella condritica iniziale, mentre la composizione della Luna è notevolmente diversa. La Luna è povera di potassio e sodio, ha un basso contenuto di ferro e persino di elementi moderatamente stabili come silicio e magnesio.
Se si prende il materiale della composizione condritica e lo si fa evaporare, la sua composizione cambia di conseguenza. La fusione perde inizialmente i più volatili potassio e sodio. Poi è la volta dell'ossido del ferro e dei successivi, in termini di volatilità, sodio e potassio. Quindi evaporano silicio e magnesio, e il residuo è ricco degli elementi refrattari alluminio, titanio e calcio
I calcoli basati sui dati sperimentali di Hashimoto dimostrano che con l'evaporazione del 40% della massa condritica la composizione del residuo diventa sorprendentemente simile a quella della Luna.
Di conseguenza, a causa dell'evaporazione la parte interna dell'addensamento di materiale disperso che si contrae acquisisce ad alta temperatura una composizione simile alla composizione della Luna.
Il processo di evaporazione, responsabile della carenza di ferro nel materiale collassato, gioca un ruolo decisivo anche nella dinamica della contrazione e nel verificarsi della frammentazione la quale conduce alla formazione di due corpi condensati, embrioni della Terra e della Luna. Entrambi sono poveri di ferro ed elementi volatili e ricchi di elementi refrattari.
Dopo la frammentazione e la formazione degli embrioni la maggior parte dell'addensamento originale resta nello spazio circostante. I calcoli mostrano che l'ulteriore crescita degli embrioni è un processo fortemente asimmetrico.
La simulazione al computer mostra che se le masse dei corpi sono diverse, il corpo più grande cresce più rapidamente. Di conseguenza, una casuale differenza iniziale di massa conduce alla situazione in cui il corpo più piccolo non accresce in modo significativo la propria massa, mentre quello più grande raccoglie gran parte delle particelle inizialmente a disposizione.
Ad esempio, nel caso di una differenza di quattro volte tra la massa iniziale dei due frammenti, il più grande di essi (la futura Terra) accresce la propria massa di 26 volte, mentre quello più piccolo (la futura Luna) aumenta solo del 30%. L'embrione della Terra raccolse dunque la frazione maggiore del materiale circostante, acquisendo una composizione simile a quella dell'addensamento disperso iniziale nel suo complesso, mentre la Luna conserva la sua composizione ad alta temperatura, povera di ferro ed elementi volatili.
L'idea di uno stato disperso della materia da cui si formarono la Terra e la Luna consente di render conto delle osservazioni, difficilmente spiegabili nel contesto della teoria del mega impatto.
La meccanica del mega impatto suggerisce una predominanza dei processi cinetici rispetto a quelli di equilibrio. La perdita di elementi volatili in un regime cinetico dovrebbe essere accompagnata dal frazionamento isotopico. In realtà, non ci sono tracce di frazionamento isotopico. In uno stato disperso l'equilibrio si stabilisce tra vapore e fase (particelle) condensata. E gli effetti isotopici dell'equilibrio sono trascurabili.
La perdita di elementi volatili nella Luna non è completa. Questa è una proprietà anche dell'equilibrio di interfase. La Luna conservò quindi in parte anche gli elementi più volatili, per esempio l'acqua, della quale sono state rinvenute di recente delle tracce (Saal e altri, 2008).
Andrebbe anche notato che l'analisi dei principali sistemi di datazione radiometrica (Hf-W, Rb-Sr, Xe-I-Pu e U-Pb) fornisce stime dei principali eventi nell'evoluzione dell'addensamento proto-Terra-Luna. In base alla frammentazione dei sistemi isotopici la formazione degli embrioni di Luna e Terra si verificò circa 50 Ma dopo l'inizio del sistema solare, e il raggiungimento dell'accrezione completa circa 120 Ma dopo la nascita del sistema solare.
L'ipotesi proposta sembra quindi piuttosto convincente. Soddisfa i principali requisiti: povertà di ferro sulla Luna, identità isotopica tra Terra e Luna, ricchezza di elementi refrattari sulla Luna e scarsezza di elementi volatili. Supera le principali difficoltà della teoria del mega impatto. Nonostante ciò, la teoria del mega impatto continua a dominare la letteratura scientifica. Perché? Riconosciamo che la tesi avanzata ha un punto debole. La nuova concezione è incompatibile con la teoria oggi accettata sulla formazione dei pianeti del sistema solare. Il paradigma dice che i pianeti si formarono tramite collisione dei corpi solidi, i planetesimi. Si ritiene che i planetesimi siano cresciuti da qualche metro a centinaia di chilometri. La formazione della Luna dovuta a un mega impatto è coerente con la teoria standard della formazione dei pianeti. A differenza della teoria standard, la nuova concezione ipotizza che la formazione di corpi planetari possa verificarsi da uno stato disperso. Ma questa supposizione non dimostrata rende discutibile l'ipotesi. Dovremmo quindi riconoscere che la nuova concezione, nonostante i suoi vantaggi, non può essere accolta per via della sua parziale imperfezione.
Torniamo alla vicenda di Copernico. Secondo la dottrina cristiana, che adottava l'astronomia tolemaica, la Terra era al centro dell'universo. Per evitare contrasti con la Chiesa Copernico presentò la sua visione eliocentrica non come una realtà fisica, bensì come un approccio matematico utile al calcolo del moto dei pianeti. La teoria di Copernico si basava sull'ipotesi di una semplice rotazione della Terra e dei pianeti intorno al Sole. Ma i suoi calcoli del movimento dei pianeti erano meno precisi di quelli fondati sulla teoria tolemaica. Di conseguenza non solo la Chiesa, ma anche molti grandi astronomi dell'epoca, ad esempio Tycho Brahe, non accettarono le idee di Copernico. Nel 1609 Keplero dimostrò che sono le orbite ellittiche, e non quelle circolari, a descrivere esattamente il moto dei pianeti, negli anni Ottanta del Seicento Robert Hooke e Isaac Newton dimostrarono che le leggi di Keplero sono la conseguenza della legge di gravitazione. Allora la teoria eliocentrica fu infine accettata dalla comunità scientifica. C'era voluto più di un secolo.
(traduzione di Andrea Silvestri)