giovedì 28 giugno 2012

l’Unità 28.6.12
Franco Basaglia grande intellettuale
La biografia del medico dei matti che ha cambiato la realtà
L’anticipazione Un brano dal libro di Oreste Pivetta, da oggi in libreria, dedicato alla vita dello psichiatra che chiuse i manicomi e propose uno sguardo diverso su follia e umanità
di Oreste Pivetta


Oreste Pivetta, Franco Basaglia, il dottore dei matti, pagine 287, euro 17,00 Dalai Editore
Da oggi in libreria la biografia corale del medico, dell’intellettuale e di un ventennio di grandi ideali. Franco Basaglia, che ha cambiato la psichiatria e il nostro rapporto con la follia, è stato uno dei personaggi più importanti nella storia della cultura e della società italiana. A trent’anni dalla sua morte la sua figura, il suo lavoro e la famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi continuano a far discutere. Ce lo racconta Oreste Pivetta

FRANCO BASAGLIA, LO PSICHIATRA, IL DOTTORE DEI MATTI, RESTA UNO DEI PERSONAGGI PIÙ IMPORTANTI NELLA STORIA DELLA CULTURA E DELLA SOCIETÀ ITALIANA. Un personaggio che ha suscitato attorno alla propria opera un amplissimo consenso, ma anche molte critiche, consenso e critiche tutt’altro che esauriti, legati a una legge, la 180, ancora conosciuta come legge Basaglia, che condusse alla chiusura dei manicomi e che fu approvata nel 1978, pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel portabagagli della Renault rossa parcheggiata in via Caetani (e pochi giorni prima dell’approvazione di un’altra importante ma contestata legge, quella sull’interruzione della gravidanza).
Dopo una fortunata adolescenza a Venezia, Franco Basaglia visse la sua storia tra l’antifascismo, le speranze del dopoguerra, lo studio, l’avvio di una possibile carriera universitaria, la direzione degli ospedali psichiatrici, a Gorizia, a Parma, quindi a Trieste, infine per breve tempo a Roma. Visse all’interno dei grandi mutamenti che coinvolsero la società e la cultura italiane, in particolare in un periodo che s’aprì nel segno dei governi di centrosinistra e si chiuse con i governi di solidarietà nazionale, tra grandi lotte operaie e studentesche, tra le bombe stragiste e il terrorismo, che contrastarono una spinta riformista, che si esaurì negli anni Ottanta e che mai più sarà ritrovata.(...)
Basaglia, il «filosofo» (così lo chiamava con evidente ironia, il primo maestro, il professor Giovanni Battista Belloni, il biologista direttore della clinica di Padova), nutriva un’autentica passione per Sartre, che varie volte aveva incontrato. Si capisce tanta attenzione, tenendo conto del continuo lavorio attorno al tema della libertà del filosofo francese, alla sua idea di impegno culturale, immaginando sempre «quell’uomo condannato a essere libero». Mi stupisce, invece, che Basaglia non abbia mai preso in considerazione, neppure un cenno, il «rivale» algerino di Sartre, meno riconosciuto dalla moda del tempo ma alla fine mi sembra più intellettualmente longevo e per noi necessario, cioè Albert Camus, lo «straniero», un altro isolato, emarginato, straniato, per conseguenza delle sue origini, francese sì, di genitori francesi, ma nato in Nordafrica.
L’uomo in rivolta di Camus, la rivolta che è «secolare volontà di non subire» nella lotta al male (...) sembrerebbe offrire spunti di riflessione a un combattente come Basaglia, che incontra invece un altro intellettuale, legato alla vicenda algerina e alla lotta di liberazione algerina, Frantz Fanon. Quasi coetaneo, nato nel 1925 in un’altra colonia (la Martinica), figlio di antichi schiavi, Fanon diventa psichiatra, prima di scrivere un libro di culto nel nostro Sessantotto, I dannati della terra. La «rivolta» è anche di Fanon: prima individuale nella sua isola di fronte all’arrogante presenza francese, poi collettiva in terra di Francia nella resistenza contro il nazismo, poi nel manicomio di Blida, in Algeria, contro la doppia condanna che colpiva gli internati, malati mentali e colonizzati, la doppia espropriazione dei diritti.
Fanon lascia l’ospedale, per entrare nel Fnl, il Fronte nazionale di liberazione algerino: lui, ci ricorderà Basaglia, ha potuto scegliere la rivoluzione, noi per ragioni evidenti ne siamo impediti. Ma la rivolta può seguire altre strade e comunque una: quella di una continua riconsiderazione in senso etico e in senso politico del proprio lavoro, qualunque sia la circostanza.
È un dubbio personale, quello sul mancato incontro con Camus, quasi solo una curiosità, che conta ovviamente poco e che soprattutto non indebolisce la certezza che Basaglia sia stato un grande intellettuale, come si intende in genere, e cioè intellettuale in virtù delle letture e delle frequentazioni, degli studi approfonditi, della comprensione e dell’elaborazione. Ma credo che lo sia stato anche in un senso ben più alto, come s’usa poco dalle nostre parti italiane, e non solo per quanto aveva imparato da Gramsci, ma soprattutto per
quanto aveva arricchito, nel «lavoro», quel suo sapere critico di valori morali e per quanto aveva messo in pratica. Chi vorrà leggere questo libro, mi auguro possa capire quanto quella parola, «pratica», contasse per Basaglia e quanto, proprio per questa consapevolezza di un «dover fare», egli rappresentasse la forma e la sostanza di un intellettuale anomalo, paragonabile a pochi altri, capace di accantonare la sua dottrina, per misurarsi con la realtà senza approfittare di varchi ideologici, avvertendo l’esigenza di cambiare la realtà, quando la realtà ci fa indignare, senza neppure mai tentare di dedurre da quella «pratica» una scienza immobile e tantomeno un inventario di regole, anche quando questo procedere aveva condotto al «successo» (espressione estranea al vocabolario di Basaglia). Vengono in mente le parole di don Lorenzo Milani (citate da Adele Corradi in un libro-diario): che togliere spazio alle opere per pregare fosse una perdita di tempo, che si dovesse anche pregare tenendo conto delle circostanze e delle urgenze, che se vi fosse stata urgenza bisognasse agire, infine che «sarà urgente pregare quando a tutti sembrerà importante operare».
In questo senso mi azzardo a dire che Basaglia sia stato uno dei grandi intellettuali del secolo passato, poco considerato in fondo. Meraviglia, a proposito, che Pasolini, pur avendolo conosciuto a Gorizia, ne riferisca nei suoi scritti solo due o tre volte e sempre con una medesima, ricalcata, espressione di tre o quattro parole. Una volta scrivendo sul settimanale Tempo nel 1968, a proposito di Vietcong, definiti contadini ed «eroi».«Ho messo tra virgolette la parola “eroi”, perché come mi ha raccontato Basaglia, nel suo manicomio, una ricoverata ha detto che gli eroi sono un prodotto delle società repressive» (19 ottobre 1968). Un’altra volta a proposito di Panagulis «eroe» nella Grecia dei colonnelli, cioè nella Grecia della spietata repressione (Tempo, 7 dicembre 1968). La terza volta, per la morte di Jan Palach, esplicitamente ricordando il debito accumulato: «Nel corso di questa rubrica ho voluto citare due volte la frase di una ricoverata nel manicomio di Gorizia, diretto da Basaglia... » (Tempo, 8 marzo 1969). Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi o sventurata la terra che ha bisogno di eroi, alla maniera di Bertolt Brecht: di eroi costretti a battersi contro il male.
Si dovrebbe contare un’altra citazione di Pasolini: quando, polemizzando con Adriano Sofri a proposito di un suo testo teatrale, Calderòn (rifacendosi a La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, mutuandone i nomi e la tematica del sogno), definisce due personaggi, due medici, si chiamano entrambi Manuel, rappresentanti di una posizione «borghese gauchista», «psichiatri alla Basaglia». Con una precisazione: «I gauchisti per anni (“Gauchismo si dice in Calderòn malattia verbale del marxismo!”) hanno fatto del Potere (chiamato Sistema) l’oggetto di un transfert: su tale oggetto essi hanno scaricato tutte le colpe, liberando così, per mezzo di un meccanismo estremamente arcaico, la propria piccolo-borghese “coscienza infelice”» (Tempo, 18 novembre 1973). Non può dirsi questo per Basaglia che non può certo condividere con quegli «psichiatri alla Basaglia» quel «transfert» e quell’infelicità piccoloborghese. Basaglia ironizzava sul pessimismo degli intellettuali, esperti in legittimazione (come li definì Chomsky in Crimini di pace), stanchi e impassibili all’idea che non si possa far nulla se non scrivere libri, contrapponendo la convinzione che il cambiamento parta da noi, da un modo di essere e di fare soprattutto. L’eccentricità di Basaglia avrebbe dovuto incontrare quella di Pasolini, affini entrambi nel rifiutare la funzione fondamentale attribuita in ogni epoca agli intellettuali, orientare e disciplinare le masse, tacitarne il disagio e le nevrosi, affini entrambi nel riconoscere, su tutto, il valore della libertà.
Neppure un riferimento a Basaglia si ritrova nelle migliaia di pagine di Italo Calvino, di un anno più giovane, cronista dei suoi tempi (anche nel senso stretto di giornalista). Ma Calvino aveva paura della follia, che allontanava da sé con il silenzio.

l’Unità 28.6.12
Nichi Vendola: «Col centro è possibile l’alleanza, non la resa»
«Il campo dei progressisti è ancora nebuloso Ripartiamo dalla denuncia delle politiche liberiste che hanno strozzato il welfare e portato l’Europa in recessione»
«Cosa sono le primarie? Sono il congresso del Pd tra Bersani e Renzi? In tal caso ne attenderò l’esito»
«C’è chi è turbato dall’idea di ministri vendoliani ma quelli attuali turbano la vita degli italiani»
di Simone Collini


Bersani da tempo propone un patto di governo ai moderati e ora Casini risponde in modo affermativo. Proviamo a chiedere a Nichi Vendola se siamo sulla strada giusta e il leader di Sel risponde d’impeto: «Non è la mia strada, non è la strada su cui Sel si potrà incamminare».
Nel senso che chiudete le porte a un eventuale accordo con l’Udc?
«No, noi non abbiamo mai posto obiezioni alla prospettiva di un allargamento della coalizione di centrosinistra o di un punto di compromesso con i cosiddetti moderati. Ma la prima cosa che è indispensabile fare è ricostruire il centrosinistra, scrivere la sua carta dei valori, rendere percepibile qual è il minimo comun denominatore che lo tiene insieme. Altrimenti l’idea è che la sinistra si arrende al centro».
Perché dice “ricostruire” il centrosinistra?
«Perché è vero che a livello di enti locali governa tanta parte del Paese, però da troppo tempo non ha una sua proiezione nazionale, un suo luogo, una sua agenda. Molte volte ho fatto presente che c’è la necessità di riaprire quel cantiere, ho proposto di affrontare nel modo giusto il tema dell’allargamento».
E quale sarebbe?
«Dobbiamo caricarci sulle spalle la rappresentanza di un mondo più variegato, ma partendo dalla centralità delle giovani generazioni e del lavoro dipendente, dobbiamo allargare innanzitutto ai movimenti sociali, a coloro che sono i veri protagonisti della più radicale critica del berlusconismo come il movimento delle donne. In questo quadro si può dialogare con le culture politiche democratiche che sono nel campo del moderatismo».
Anche Bersani però ha proposto un confronto programmatico aperto all’associazionismo per definire una “carta d’intenti” e una coalizione che vi si riconosca, che poi attraverso le primarie scelga il suo candidato premier: dov’è la differenza con quello che dice lei?
«Nei fatti. Io sono sbalordito, non capisco più».
Cos’è che non capisce?
«Le primarie cosa sono? Tra chi sono? Tra Bersani e Renzi? Perché se sono il congresso del Partito democratico io sono semplicemente curioso di attenderne l’esito. Se l’opzione è tra un Pd socialdemocratico e un Pd liberista sono interessato a un’alleanza con la prima ipotesi e mi sento alternativo alla seconda. Nulla di più».
Insomma serve un discorso programmatico prima di tutto?
«Serve un discorso di chiarezza. Il campo dei progressisti è nebuloso, mentre quello dei moderati è ben visibile. Il centrosinistra esiste se nella sua agenda di governo si prospetta un avanzamento su piano sociale e dei diritti civili. Mi pare invece che non sia neanche cominciata su questo l’interlocuzione. Con Buttiglione che, per esempio, preannuncia il fronte dei nemici delle unioni civili quale sarà il compromesso possibile?». L’interlocuzione si aprirà, se è vero che da Letta a Franceschini , sono diversi nel Partito democratico ad auspicare una coalizione che vada da Casini a Vendola, per citare le loro parole, che sta dimostrando
cultura di governo: non le basta?
«No perché io avrei salutato con soddisfazione l’apertura di un’interlocuzione nel merito della crisi italiana, del bisogno di mettere in campo un modello di sviluppo alternativo. Io non mi accontento del riconoscimento della mia buona educazione. Né ho un problema mio o di collocazione di un ceto politico. Ho il problema di un progetto di alternativa. Vorrei che il discorso riprendesse dalle fondamenta, da un’analisi della crisi dell’Europa e dell’Italia, dalla denuncia delle politiche liberiste che hanno strozzato il welfare e portato l’Unione nei marosi della recessione. Su questo si può tessere una tela larga. Però finora mi sembra prevalente la dimensione dell’alleanzismo di palazzo».
Che pensa del fatto che il Pd dica a Di Pietro o cambi registro o niente alleanza? «Nelle intemperanze di Di Pietro c’è il segno dell’incerta esistenza del centrosinistra, c’è un deficit di dialogo, di tessitura comune. Ci sono cose che non condivido di Di Pietro, dovremo discutere. Ma se c’è una coalizione, ci sono anche regole di convivenza, se invece tutto è aleatorio, ognuno prova a occupare gli spazi che pensa più utili».
Nel Pd è posizione comune che la foto di Vasto sia superata: secondo lei?
«Con la foto di Vasto abbiamo consegnato alla politica un ragionamento. Il punto era che quella foto, quell’alleanza era insufficiente, non rappresentativa di tutte le culture che è necessario convocare per mettere in piedi un sommovimento democratico che possa aiutare l’Italia a uscire dal berlusconismo e dalla crisi».
Qualcuno già si turba all’idea di ipotetici ministri vendoliani: lei che dice?
«Che quelli reali stanno turbando la vita di milioni di persone. Passera è il ministro delle incompiute e la Fornero sta battendo tutti i record di gaffe fatte in pubblico. E soprattutto alle gaffe seguono anche scelte politiche che considero disastrose».
Questo governo ci ha impedito di finire come la Grecia, dice chi lo sostiene.
«Ma di cosa parliamo? Dove sta oggi in Italia la costruzione di una politica che agganci il corpo del Paese mentre precipita dentro il burrone? Non voglio fare battute scostumate ma questo è un governo tutto chiacchiere e distintivo. Pur con lodevolissime eccezioni, alcuni ministri gran lavoratori, che ci stanno mettendo un grande impegno, come Barca, ma questo è un governo che si sta avvitando su se stesso. Come dimostra questa fiducia, in un Paese in cui aumentano tutti gli indicatori negativi, la disoccupazione, la deindustrializzazione, per sfregiare l’articolo 18».

Corriere 28.6.12
Fioroni: «Via all'alleanza con Casini Ma le primarie non rovinino tutto»
«Una conta interna sarebbe un boomerang anche con Vendola»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Onorevole Fioroni, il tema più gettonato del momento sembra essere elezioni sì, elezioni no.
«Questo è un momento straordinariamente difficile per il nostro Paese: il governo Monti ha fatto tutto ciò che poteva, ma sono convinto che tutto ciò non basta per poter arrivare fino a marzo del 2013. Per questo il governo ha bisogno di più sostegno politico, altrimenti non vincerà le sfide che ha di fronte. L'ostacolo in questo senso viene dall'atteggiamento della destra che ondivagamente si defila. E a questo proposito stupiscono le dichiarazioni di rabbia del Pdl nei riguardi di Casini per la sua disponibilità a un'intesa tra moderati e progressisti quasi non ci si rendesse conto che quella scelta è figlia dell'atteggiamento di Berlusconi verso il governo. Il Cavaliere chiede di uscire dall'Euro e candida l'Italia a capofila del Nordafrica e quelli si stizziscono se Casini si rivolge a noi?».
Già, Casini ammicca al Pd. È contento?
«A cinquant'anni esatti dal governo di centrosinistra di Moro, oggi c'è di nuovo la possibilità concreta e fattiva di costruire una coalizione basata sul baricentro di un'alleanza tra riformisti e moderati, tra il Pd e l'Udc, insomma, con la prospettiva di trovare una convergenza programmatica anche con una sinistra responsabile e di governo come quella di Vendola».
Veltroni però dice che è un errore occuparsi delle alleanze adesso.
«Il rapporto Pd, Udc e la possibile convergenza programmatica di Vendola rappresentano un dato politico che non si può liquidare con una battuta. L'alleanza è la cifra caratterizzante di un progetto comune e condiviso. De Gasperi per salvare l'Italia pur non avendone bisogno dal punto di vista dei numeri, mise insieme tutte le forze disponibili. A differenza di allora, noi oltre che il dovere di compiere questo passo, ne abbiamo anche bisogno: né i progressisti né i moderati possono ancora andare avanti per conto proprio. Il Paese non se lo può permettere».
A questo punto, però, come si suol dire una domanda è d'obbligo: a che cosa servono le primarie?
«Bersani ha cercato con coraggio la strada delle primarie, ma io voglio porre una riflessione. Ieri mi ha molto colpito Renzi che ha detto "chi vince decide". Che cosa significa? Che facciamo queste primarie per dire chi ci sta più simpatico o per mettere in scena surrettiziamente un congresso del Pd dove il vincitore sceglie la linea politica? Abbiamo tutti lavorato sodo per trovare una condivisione tra Pd, moderati e Vendola, evitiamo che queste primarie, trasformandosi in una conta interna, si trasformino in un boomerang per mandare all'aria tutto. Perché così Casini rischia di sentirsi estraneo a questo processo e Vendola e le liste civiche di sentirsi escluse per eccessivo protagonismo del Pd».
Onorevole Fioroni, si fa anche un gran parlare di riforma elettorale.
«Se vogliamo riuscire veramente a fare la riforma, basta correggere l'attuale legge elettorale inserendo la preferenza singola di genere. Ogni elettore può scegliere un uomo ed una donna. Se un cittadino può scrivere su una scheda il nome e cognome di un consigliere comunale o regionale senza che si parli di voto inquinato, perché non può fare altrettanto con i parlamentari? E nessuno vivrà più di politica».
Fioroni, si parla spesso della possibilità di dare vita a un partito cattolico. Magari con voi ex ppi del Pd e l'Udc. Lei ci crede?
«Galli Della Loggia ha spiegato bene sul vostro giornale perché non serve un partito cattolico. E io sono d'accordo con lui. Ma voglio aggiungere una cosa: secondo me all'interno dello stesso partito, e in questo caso, ovviamente, sto parlando del Pd, andrebbero evitate le diaspore dei cattolici. Lo dico a Rosy Bindi, lo dico a Enrico Letta a Franceschini ed a tanti altri: basta di dividerci tra di noi, perché così siamo veramente destinati a quella che Galli Della Loggia definisce l'irrilevanza dei cattolici in politica, mentre noi potremmo essere il sale e il lievito del Partito democratico».

l’Unità 28.6.12
Un ministro incostituzionale
La ministra al Wsj: «Il lavoro non è un diritto»
Nuova bufera su Elsa Fornero che dimentica la Costituzione
Il perché di una «Repubblica fondata sul lavoro»
Il lavoro è alla base della Costituzione per valorizzare la dimensione egualitaria
di Massimo Luciani


NON È STATA MOLTO FELICE L’INTERVISTA RILASCIATA IERI AL WALL STREET JOURNAL DAL MINISTRO DEL LAVOROe pubblicata con il massimo rilievo nell’edizione europea online di quella testata. Certo, il ministro ha poi cercato di puntualizzare, ma il concetto resta: le abitudini della gente devono cambiare e il lavoro non è un diritto, ma qualcosa che si deve guadagnare, anche con il sacrificio («People’s attitudes have to change. Work isn’t a right; it has to be earned, including through sacrifice»).
Una successiva nota del ministero ha precisato che «il diritto al lavoro non è mai stato messo in discussione come non potrebbe essere mai visto quanto affermato dalla nostra Costituzione»; che il ministro ha fatto riferimento «alla tutela del lavoratore nel mercato e non a quella del singolo posto di lavoro, come sempre sottolineato in ogni circostanza»; che il governo italiano sta cercando «di proteggere le persone, e non il loro posto di lavoro». Tutto risolto, dunque? Non del tutto. È uno sport nazionale quello della polemica su singole frasi, magari estrapolate dal loro contesto, ma è uno sport poco divertente, sicché non è affatto il caso, qui, di parteciparvi. Quel che conta, dunque, è proprio il contesto, sono proprio le precisazioni. E convincono fino a un certo punto.
Il ministro distingue fra la tutela delle persone e la tutela del posto di lavoro. Ed è proprio qui che sta il problema, perché il quadro che di questo rapporto dà la Costituzione è assai complesso. È una cosa davvero stupefacente, a pensarci bene, che la Costituzione, nel suo primo articolo, abbia fondato la Repubblica democratica proprio sul lavoro. Come è possibile che una Repubblica che si autoqualifica democratica, e che quindi vuole esaltare la libertà di tutti e di ciascuno, immettendola nello stesso territorio, prima inaccessibile, del governo dello Stato, affermi di fondarsi sulla dimensione del bisogno e della necessità, che è quella del lavoro? Di poggiare su quel lavoro al quale l’essere umano è stato biblicamente condannato, con la cacciata dall’Eden? La risposta è che i Costituenti, una volta di più, avevano guardato sia a fondo che lontano nella nostra società e avevano colto alcuni dati che oggi sfuggono a molti.
Il lavoro era inteso come la condizione antropologica per eccellenza, come un tratto specificamente umano, e in questo erano in sintonia sia la tradizione cattolica (basterà ricordare l’Enciclica Laborem exercens) che la cultura del movimento operaio.
Porre il lavoro alla base della Costituzione significava valorizzarne la dimensione egalitaria: nella prospettiva del lavoro siamo tutti eguali. Ma non basta. La Costituzione ha inteso sganciare il concetto del lavoro dalla sua matrice negativa, ha voluto sottolineare le sue capacità creative, lo ha collocato tra gli strumenti essenziali sia della realizzazione della personalità umana (voluta dall’art. 3, secondo comma)
che del progresso della società (voluto dall’art. 4). Il lavoro, insomma, non più come condanna, ma come fattore di liberazione e di promozione individuale e collettiva.
Ora, il punto è proprio questo. È vero che la Corte costituzionale ha sempre detto che l’attuazione del diritto al lavoro spetta largamente alla discrezionalità del legislatore e che quel diritto non comporta una tutela diretta e incondizionata del posto di lavoro (di ottenerlo e di conservarlo). Tuttavia, sganciare la tutela della persona del lavoratore da quella del suo «posto» non è così semplice. La persona che grazie al lavoro si realizza è la stessa persona che attraverso il lavoro determina la trasformazione del mondo che gli è consentito realizzare. E la determina perché si trova in “quel” posto, da solo o con altri lavoratori che operano nel medesimo «posto». Il «posto» del nostro lavoro è anche un pezzo della nostra identità e quando ancora non lo abbiamo è una parte di noi che manca e quando lo perdiamo è una parte di noi che va smarrita.
L’immagine dei lavoratori lieti di stare sul mercato in libera competizione fra di loro è fallace: non tutti hanno voglia di competere senza respiro e la competizione fra le persone non è un valore fondato eticamente e men che meno è un valore costituzionale. Il fatto che spetti al potere politico realizzare le condizioni del diritto al lavoro, dunque, non fa sì che questo non sia un diritto e la discrezionalità con la quale la politica può agire si deve sempre misurare con l’esigenza di attuare sino in fondo il disegno costituzionale.

Repubblica 28.6.12
Dieta mistica
Dalle vite dei santi alle mode di oggi, così è cambiato il rapporto con il cibo
Politico, religioso e provano, le mille anime del digiuno
di Mariapia Veladiano


Paradossale nell’età e nelle terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?
In natura il digiuno non è una scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire. Anche se un po’ bisogna intenderci sui termini.
Di certo tutti conosciamo l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore.
Solo per noi uomini il digiuno può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia.
Digiuno con valore politico e culturale e, spesso, strettamente cultuale, legato alla religione: nella forma attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto di patologia. Sì, perché il cibo è vita, benedizione,
salute, ospitalità, allegria condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia il rotolo della Parola è sia realtà dell’uomo che assimila quel che Dio gli dà sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé.
Per questo gli ordini monastici e la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a Dio.
Oggi molte di quelle che chiamano diete somigliano a un laico, ostinato digiunare.
Certo che la dieta non è un digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto. Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute spirituale, molto prudente. In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro?
La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo o la meravigliosa manna dell’Antico Testamento, che si trovava al mattino nella misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.
La dieta di oggi sembra il contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’anticipo per la paura del pane che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paura e allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento.
Certo che nel parlare di cibo oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere, che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri.
Eppure, tutto intorno a questi abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare.
Ma quale pane? Il pane-cibo o il pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel momento giusto, per incapacità o impossibilità.
Forse qualcosa di quel che è capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’espressione di Rudolph Bell, può raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”.
Il controllo del corpo era una delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per 35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’anima, la sua stessa incorruttibilità.
Forse le donne lo conoscono per natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre. Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia scritta, sia nella realtà che nella metafora.
Anche oggi un sogno anoressico accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti, senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro.
Forse ancora c’entra il potere, che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E
c’entra anche la fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato, rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e infelici.
E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’esistenza fino all’ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti, proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza che ci porta oltre.
Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’affetto in forma di cibo, sentito potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’amore, di esser visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane che c’è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche. Leggerissimi da volare via.


Repubblica 28.6.12
Da Goethe a Loewith, gli scambi tra le scuole di pensiero
Una relazione filosofica romantica idealista
Giordano Bruno e Giambattista Vico sono fondamentali per poter comprendere Hegel. Marx, grazie anche a Gentile, trova da noi una patria d’adozione. E nel dopoguerra Heidegger riuscirà a lasciare un segno importante nel nostro dibattito
di Massimo Cacciari


Per comprendere come un amore, una relazione, cioè, necessaria, sia fatta di tradimenti e fraintendimenti, di radicali incomprensioni e meschine gelosie, possa trascorrere da virginee tenerezze a implacabili odi, è a Germania e Italia che occorre pensare. La Germania è “in viaggio” verso l’Italia fin dal suo definirsi come grande nazione. È “in viaggio” verso di lei anche quando con violenza vi secede: il suo umanesimo e la sua Riforma formano un movimento inseparabile. Mai Roma attrae così implacabilmente come nei momenti in cui l’immenso peso della sua storia deve essere annichilito. Dal crogiolo di Umanesimo e Riforma nasce anche la stagione del grand tour. È solo l’immagine classica o neo-classica dell’arte antica, che tutta Europa apprende dalle pagine della Storia dell’arte nell’antichità di Winckelmann( 1764)? Ma, ancor più, Germania è attratta dal paesaggio di Italia! Ne ama il classico immerso nella campagna, archi, acquedotti e templi a volte in armonia, a volte in lotta con la natura. Il sublime di marine, alpi, vulcani, la stupefacente fecondità della “madre terra” sopraffanno già nelle memorie goethiane (il cui primo, pionieristico viaggio, fino alla remota Sicilia, è del 1786) lo studio, attento, misurato, “scientifico”, delle vestigia del grande passato. I meravigliosi disegni che il grande architetto neoclassico Schinkel dedica al suo grand tour del 1804 rappresentano assai più il pathos del Wanderer, di quanto non documentino i templi di Girgenti o Segesta. L’amore germanico per Italia è romantico fin dall’inizio. In questa tonalità viene venerata l’arte del Rinascimento dalle “colonie artistiche” tedesche che si stabiliscono a Roma – dai contemporanei di Goethe come Hackert o Angelica Kaufmann, ai pittori della confraternita di San Luca, fino al “mito italiano” che impronta di sé tutta la pittura tedesca della seconda metà dell’Ottocento, da von Lenbach, a Marèes (quando finalmente saranno di nuovo visitabili i suoi affreschi alla stazione zoologica di Napoli?), fino al sommo Boecklin. Ma già in questo amore si palesa il più profondo fraintendimento. Il mito dell’accordo arte-natura impedisce di cogliere la forza tettonica originalissima dell’arte romana. Il tour di Germania si compie solo in Ellade. E ciò vale ancor più per le lettere e la filosofia. La latinitasrimane incompresa, o ridotta alla sola dimensione giuridico-politica. Questa incomprensione caratterizza tutta la filosofia tedesca, da Hegel a Heidegger. Quando “il gioco si fa serio”, quando di “origine” occorre parlare, Germania ama Grecia – e abbandona la fanciulla Italia. Ma con quale energia quest’ultima reagisce e cerca di richiamare a sé l’amante! Guardami, Germania! Le tradizioni della filosofia italiana esprimono la medesima esigenza, appartengono allo stesso destino che risuona nel tuo grande idealismo! Elimina Bruno e Vico, come puoi comprendere i tuoi Hegel? I momenti storici del sapere italico sono analoghi a quelli tedeschi: questo è l’“appello” della grande filosofia italiana dell’800 – dei Gioberti, degli Spaventa, dei De Sanctis. Poi irrompe Marx – e il primo a comprenderne la portata filosoficaè Gentile. Marx – il suo studio non ideologico, non messianico, ma neppure sociologico-economicistico – trova in Italia una patria d’adozione. Così come la comprensione dei nessi problematici, aporetici, ma vitali, che lo collegano agli altri protagonisti della critica radicale alla dialettica hegeliana: da Kierkegaard a Nietzsche. Non a caso il grande storico di questa drammatica vicenda del pensiero europeo ha a lungo, esule dalla Germania nazista, vissuto e lavorato in Italia, Karl Loewith, edito da noi presso Einaudi, negli stessi anni ruggenti delle prime traduzioni di Adorno e di Benjamin. Ma gli scambi, le relazioni pericolose, continuano e si aggrovigliano. E Italia continua a “divorare” la filosofa Germania esaltandone i tratti non teoreticistici, quelli per cui pensare significa comprendere il proprio presente, nella molteplicità dei suoi linguaggi, e prendervi parte oltre ogni astratto formalismo. È essenzialmente per questa via che anche Heidegger verrà a far epoca nella cultura italiana. E lo stesso Husserl – che da noi sarà essenzialmente quello della Crisi delle scienze europee. Se la Germania del sistema, della enciclopedia delle scienze filosofiche, domina nel nostro Ottocento, è la Germania del pensiero critico, di un’ermeneutica drammatica della storia europea e della sua filosofia, giunta forse al compimento, che sembra informare di sé il pensiero italiano contemporaneo. Ma è, certo, un “amore” sempre meno corrisposto – se Bruno e Vico erano state anche “scoperte” tedesche, nessuno o quasi dei “nostri” di ’800 e ’900 è stato davvero “tradotto” in tedesco. E lo stesso Umanesimo – la cui importanza filosofica pure Hegel riconosceva – viene considerato sotto il profilo meramente estetico. Lo stereotipo di un’Italia retorica, capace, al più, di custodire malamente i propri musei, nasce anche da tali incomprensioni. Eppure, restiamo inseparabili. E le grandi tragedie che ci hanno diviso, altrettanto hanno reso insuperabile la nostra relazione. Che è simpatia nel senso più agonistico (a proposito anche del grande match che ci attende!): non poter fare a meno di soffrire insieme – di soffrire, magari, nel non soffrirci.

Repubblica 28.6.12
Legge elettorale, Bersani vede Alfano accordo vicino, spunta il “provincellum”
Ma l’Udc insiste sulle preferenze, mentre per il Pd la condizione è il premio di maggioranza. E se il vertice Ue va male si accelera
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa


ROMA — Accordo sulla legge elettorale a un passo. Un incontro coperto dal massimo riserbo, tra il leader del Pd Bersani e il segretario Pdl Alfano sta spianando la strada. Fuori gli sherpa, i tratti essenziali delle nuove regole di voto vengono messe per la prima volta nero su bianco e disegnano un sistema misto. Che riserverebbe una consistente quota di eletti alle liste «bloccate» dei partiti — eredità del Porcellum — e un’altra quota consistente ma ancora da definire a un meccanismo un po’ alla spagnola e un po’ alla tedesca, già battezzato “Provincellum”. Perché provinciali sarebbero i collegi di riferimento. Insomma, una via di mezzo all’italiana.
Quel che ha colto di sorpresa ieri pomeriggio a Montecitorio i pochi al corrente del faccia a faccia è stata l’accelerazione politica impressa all’operazione. Sintomo della precarietà del momento e del rischio concreto di una crisi e di un voto anticipato, sostiene chi (soprattutto a destra) nell’incidente ci spera e anche chi lo teme. Sta di fatto che nel colloquio che i due leader di Pdl e Pd hanno avuto non di sola legge elettorale si sarebbe parlato. Sul tavolo del gabinetto super ristretto, anche i destini del governo Monti. Il faticoso sostegno all’esecutivo tecnico
che dovrà essere garantito nelle prossime settimane anche nella malaugurata ipotesi di un insuccesso del Consiglio europeo che si aprirà oggi pomeriggio. Ma intanto c’è la legge elettorale. Da approvare in fretta. Che l’intesa fosse dietro l’angolo lo aveva preannunciato a sorpresa lo scorso fine settimana a Fiuggi Silvio Berlusconi. L’incontro tra il segretario Pdl e Bersani segue molteplici contatti informali degli ultimi giorni e il lungo lavoro preparatorio degli sherpa dei due partiti. L’impegno è approvare la legge entro fine luglio. Al più, prima della chiusura estiva. Sebbene l’ingorgo parlamentare generato dai tredici decreti del governo renderà l’impresa assai ardua. Dire addio al Porcellum, dunque. Ma in che modo? La strada scelta è quella di una riforma “minimalista”. Realisticamente non c’è lo spazio per altro. Ecco quindi, la proposta che sembra poter mettere d’accordo quasi tutti: il 50 per cento di liste bloccate (com’è attualmente) e un altro 50% con il Provincellum, ovvero collegi uninominali ma sono eletti coloro che hanno i migliori quozienti, in una sorta di ripartizione proporzionale. La quota 50% e 50% non è neppure questa definitiva. Mentre di certo c’è che il Pd non rinuncerebbe a una quota larga di collegi uninominali. I centristi hanno molte resistenze; le stanno ancora facendo valere.
Per l’Udc andrebbe meglio un sistema in cui ci sono le preferenze, ad esempio tre come nelle elezioni europee. Insomma proposte e controproposte sono state abbondantemente discusse. Ma mantenendo alcuni punti saldi,
come il premio di maggioranza. Più volte Maurizio Migliavacca, che sta tenendo le fila della trattativa politica nella maggioranza, ha chiarito che questa è la conditio a cui i Democratici non vogliono rinunciare, perché consente di dire agli elettori quale è la coalizione con cui si va a governare dopo il voto.
Se l’incontro di Bruxelles non andasse bene, il nuovo appuntamento tecnico-politico sulla riforma elettorale, venerdì, vedrebbe un’accelerazione. Se la legislatura è a rischio, allora bisogna procedere a tappe forzate: è il ragionamento che fanno gli sherpa Entro luglio andare a votare la riforma della legge porcata. Nel Pdl diviso, in cui è una continua resa dei conti, almeno sulla legge elettorale Alfano sembra spuntarla. Nel senso che il segretario è riuscito a sganciare il cambiamento della legge elettorale dal gran pasticciaccio in cui il Pdl si è cacciato sulle riforme istituzionali al Senato. All’ultimo vertice ABC, quello convocato da Monti a sorpresa, Alfano l’aveva assicurato a Bersani e a Casini: «Non ci impantaneremo, la volontà di cambiare il Porcellum c’è davvero », e aveva dato quelle tre settimane di tempo massimo per venirne a capo. Le tre settimane stanno per scadere. Alfano vuole portare a casa l’impegno mantenuto a dispetto di tutto ciò che sta accadendo nel suo partito, delle fibrillazioni della maggioranza ABC, o meglio proprio per queste. Lo stesso Berlusconi del resto si è convinto che il Porcellum va cambiato. In casa Pd, abbandonata la strada del doppio turno, e una volta stabilito che ci si può accontentare della manutenzione del Porcellum, il dibattito ruota soprattutto attorno alle preferenze.

l’Unità 28.6.12
Editoria, sì del Senato alla nuova legge
di Roberto Monteforte


Non saranno conteggiate le copie distribuite, ma quelle vendute: quindi non basterà più stampare per usufuire del finanziamento pubblico. E poi molto conteranno i livelli di occupazione professionale. Cambiano così i criteri di selezione e di accesso ai fondi per i giornali cooperativi, politici, locali e no profit, che sono stati ridefiniti dal decreto legge sull’editoria, approvato ieri in prima lettura dall’aula del Senato. I voti a favore sono stati 232, 18 i contrari, 30 gli astenuti. A dire sì sono stati i senatori di Pd, Pdl, Lega nord, Udc, Svp e Autonomie, Api e Fli. No solo dall’Idv con il voto in «dissenso» a favore del senatore Pardi.
Il testo che si propone di regolare la fase transitoria fino al 2014, in attesa di
una riforma più complessiva del settore che dovrebbe arrivare dalla legge delega in discussione a Montecitorio, dovrà essere convertito dalla Camera entro il 20 luglio.
Durante l’esame a Palazzo Madama sono state apportate numerose modifiche al testo governativo, frutto in particolare della battaglia del senatore del Pd Vincenzo Vita. «Oggi è un giorno importante per l'editoria italiana. È stato approvato il provvedimento del governo, da noi da tempo sollecitato e sostenuto con convinzione dal sottosegretario Peluffo, che cambia finalmente i criteri di erogazione delle provvidenze per i giornali cooperativi, politici, locali, non profit» ha dichiarato Vita insieme alla relatrice, la senatrice Pd, Marilena Adamo. «Si sono individuati due riferimenti selettivi chiari: i contratti a tempo indeter-
minato e le copie effettivamente vendute. Infatti, il 50 % del finanziamento si fonda sui lavoratori assunti e l'altro 50 sulla qualità informativa delle testate. È poi passato un altro criterio fondamentale: il passaggio alla diffusione online non fa perdere i diritti all'erogazione, divenendo, in tal modo, una vera opportunità. Al riguardo dell'online, è stato approvata, su nostra proposta, la delegificazione per i periodici web di piccole dimensioni. Così come è passato l'emendamento che permette alle cooperative di giornalisti di acquisire la testata, senza perdere le opportunità pregresse.
È stato accettato, poi, dal governo un odg impegnativo sull'emittenza radiofonica e televisiva locale». «Insomma, un passo avanti, cui ora concludono i parlamentari del Pd dovrà seguire la vera riforma del sistema ora alla Camera dei
deputati con la delega chiesta dal governo».
Non mancano però di sottolineare un punto critico, richiamato anche dai senatori degli altri gruppi che hanno votato a favore del provvedimento e da Mediacoop, l’associazione degli editori cooperativi: l’inadeguatezza del Fondo per l’editoria. Dai circa 50 milioni a bilancio si è passati a 120 milioni, ma per soddisfare le esigenze del settore, anche se «bonificato», occorrerebbe arrivare a 160 milioni di euro. Altrimenti la riforma rischia di essere zoppa. Lo sottolinea la Fnsi: ora che sono stati fissati criteri rigorosi, non ci sono più scuse per negare il finanziamento. Contraddittoria è anche la decisione di non conteggiare tra le copie vendute (per le quali è previsto un «rimborso» dello 0,25%) gli abbonamenti on line.

l’Unità 28.6.12
Nel documento Pd un nuovo modo di considerare i diritti
di Mimmo Lucà


IL DOCUMENTO FINALE DEL COMITATO DIRITTI DEL PD HA GIUSTAMENTE SUSCITATO UN’ATTENZIONE PIÙ VASTA DELLA CERCHIA DI PARTITO, COSTITUENDO UNA PIATTAFORMA di dibattito non esauribile nell’ordinario consumo della cronaca politica. Le reazioni suscitate finora possono distinguersi in due fasce: quelli che, anche da sponde diverse, lo hanno valutato come un contributo innovativo e originale da prendere comunque in considerazione (vedi Chiara Saraceno); e quelli che hanno tentato di ricondurlo sui binari di quella incomunicabilità polemica che ha bloccato in Italia il dibattito sui modi di garantire meglio i diritti delle persone nelle differenti articolazioni della società (vedi Paola Binetti).
Lo sviluppo della ricerca che il documento promuove è ovviamente legato alla capacità degli interlocutori di tenere la quota della proposta, che si qualifica, va detto, come una duplice sfida. Verso l’interno del Pd, perché ne mette alla prova la capacità di delineare e sostenere unitariamente una visione commisurata alle istanze di una società molteplice ed esigente. E verso l’universo culturale e politico, con l’ambizione di offrire a tutte le sue componenti un criterio d’orientamento al quale rapportare in modo convergente le opzioni pratiche fino a quelle proprie della legislazione. Non un catalogo di nuovi diritti ma un modo nuovo di considerare i diritti come interfaccia di corrispettivi doveri, in un circuito di solidarietà in cui ciascuno è garantito nella sua intangibile integrità personale ma non è mai considerato nella solitudine casuale di un individualismo senza orizzonte.
È allora nella solidarietà realizzata in ogni ambito che si manifesta la tensione al massimo di uguaglianza nel massimo di tutela della differenze, fino a prefigurare “distinte piattaforme di diritti” da tutelare in modo efficace ancorché non uniforme. È questa, se si vuole, la chiave offerta alla politica per attivare, al di là di steccati che dopotutto non sono tutti “storici”, la ricerca per superare senza ipocriti aggiramenti la selva dei “non possumus” che ha alimentato, nel recente passato, le rendite degli “atei devoti” più che far crescere la coscienza dei valori nell’anima del popolo. È importante che di una valenza del documento in questa direzione abbiano preso cognizione due osservatori abitualmente critici verso le elaborazioni del Pd, come Francesco d’Agostino su Avvenire e Pierluigi Battista sul Corriere. Perché non immaginare che un riscontro dialogico significativo possa manifestarsi anche tra coloro che sono impegnati nell’impresa di offrire ai cattolici delusi dal connubio con Berlusconi nuovi, sperabilmente inediti, percorsi di contatto con la politica?
È interesse di tutti che in ogni ambito della presenza culturale e sociale dei cattolici si palesi un’attitudine di ricerca che si metta in grado di concorrere alle determinazioni necessarie per coprire quell’”ultimo miglio” che corre tra i principi e le norme, che è necessariamente assegnato all’autonomia dei cittadini laici cristiani. Il documento non è il prodotto di limature linguistiche artificiali o di mediazioni stilistiche puramente formali. Ma l’approdo di una ricerca impegnativa e di un confronto vero, tra visioni e punti di vista molto diversi, senza ambiguità e senza reticenze. Un risultato che fonda una nuova identità culturale del Pd, su argomenti di rilevante importanza, etica e politica, e non tanto un punto di equilibrio tra le identità storiche rappresentate al tempo della nascita del nuovo partito. Il pluralismo culturale, e financo religioso, dei “democratici”, sui temi eticamente sensibili, fonda, con questo documento, una base comune di valori e di principi. D’altra parte, il documento non è solo il frutto di un dibattito. Ci sono a monte le battaglie condotte e le proposte elaborate dal Pd sui diritti delle persone, che riguardano le unioni civili, la violenza sulle donne, l’omofobia e la transfobia, le terapie e le cure non rispettose della volontà del malato, i problemi della fecondazione medicalmente assistita, e così via. Non è indispensabile affrettarsi sui nodi pratici sottostanti al discorso sui diritti. Meglio misurarsi prima con i concetti di fondo che sono evocati. Cominciando dalla considerazione del tema della paura. «Combattere la paura e il suo uso strumentale», si legge. «Paura che la propria vita venga considerata di minor valore di quella degli altri, paura che la propria esistenza possa venire percepita come un fastidio o un pericolo per gli altri». Impegnarsi dunque per «individuare e rimuovere le situazioni in cui è negata o degradata la comune umanità delle persone». Nella lotta contro il nazifascismo gli Alleati usarono lo slogan: «Libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura». Il campo della quarta libertà è ancora da esplorare.

il Fatto 28.6.12
Tagli ai partiti, le solite “boiate”
La legge non è ancora stata approvata
Il governo ha promesso un decreto che però non c’è
di Wanda Marra


Tre mesi (e passa) posson bastare per dimezzare i rimborsi elettorali ai partiti? L’evidenza dice che la risposta è no.
Dopo il pasticcio del testo ABC, nato tra i proclami generali per garantire la trasparenza dei bilanci e per tagliare i finanziamenti ai partiti, e poi naufragato per evidenti e insormontabili incongruenze, e l’approvazione di un (altro) ddl a Montecitorio che l’unica cosa che stabiliva per certo era il dimezzamento della rata di luglio dei rimborsi, “tecnicamente ” questo evento non è ancora possibile.
Approvato alla fine di maggio, il testo si è fermato in Senato, dove giace in Commissione Affari costituzionali. Si è andati a rilento, complici le riforme costituzionali (a proposito di tele di Penelope).
Il passaggio all’aula dovrebbe avvenire nelle prossime settimane, visto che oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti alla legge. Peccato che sarà troppo tardi per tagliare la rata e contemporaneamente dare, come stabilito nello stesso testo, i 91 milioni di euro risparmiati ai terremotati dell’Emilia (i soldi, si legge, sono destinati agli “interventi conseguenti ai danni provocati dagli eventi sismici e dalle calamità naturali che hanno colpito il territorio nazionale a partire dal 1º gennaio 2009”).
L’INGHIPPO è in una “dimenticanza” di Montecitorio: non è stata prevista l’entrata in vigore immediata della legge, e così la destinazione dei 91 milioni deve essere fatta con un decreto del governo, che aveva a sua volta 15 giorni di tempo per emanarlo. Ieri tuonavano i Radicali, capeggiati da Donatella Poretti: “Mancano soltanto 72 ore e poi i partiti riceveranno automaticamente i fondi. Infatti, a luglio scatta l’erogazione della rata”.
In realtà gli uffici di Montecitorio spiegano che da sempre i rimborsi elettorali vengono destinati ai partiti con un ufficio di Presidenza verso la fine di luglio. E in effetti, la Gazzetta ufficiale dell’anno scorso – per esempio – portava la rata del 27 luglio. Ma comunque è difficile che la legge si riesca ad approvare in tempo. E qui entra in gioco il governo. Scoperto il problema, l’esecutivo si era impegnato a fare un decreto soltanto per la parte che riguardava il taglio della rata e il conseguente trasferimento all’Emilia.
Com’è, come non è, però, sono due settimane che si è capito che i tempi sono più che strettissimi e che il governo promette interventi d’urgenza e poi non li fa. L’altroieri s’era detto “lo faremo domani”. Ieri mattina si parlava del Cdm di lunedì, peraltro il primo luglio. Ma poi ieri pomeriggio il sottosegretario Malaschini ha dichiarato: “Ci siamo impegnati a risolvere il problema. Lo faremo”. Senza specificare quando.
Le voci che circolavano facevano intendere che, piuttosto che un decreto ad hoc, si stesse pensando ora a inserire un emendamento nel provvedimento della Spending review per arrivare a un’approvazione nella seconda settimana di luglio. Sempre più difficile.
“Non si può dire che i 91 milioni vanno ai terremotati e al contempo far maturare il diritto – commentano i Radicali – perché gli stessi 91 milioni possano essere richiesti dai tesorieri dei partiti. Fino a che non interviene una legge nuova – o un decreto del governo – i 91 milioni sono nella piena disponibilità dei partiti".
E persino Stefano Ceccanti, relatore per il Pd della legge, che in queste settimane ha mostrato un’incrollabile fiducia nelle decisioni prese, commenta: “Se si deve fare il decreto, che si faccia”.

il Fatto 28.6.12
Mps, aiuti di Stato e tagli ai dipendenti
La ricetta Profumo per rilanciare la banca di Siena: 4600 licenziati
di Vittorio Malagutti


Milano Lo chiamano rilancio, ma il piano industriale presentato ieri agli analisti dai vertici del Monte dei Paschi assomiglia più che altro a una drastica cura dimagrante. Il gruppo Mps, costretto a chiedere il sostegno dello Stato per rispettare gli impegni con l’autorità di vigilanza, da qui al 2015 taglierà personale, chiuderà filiali e metterà in vendita partecipazioni e altre attività. Tutto questo con l’obiettivo dichiarato di rimettere in moto una macchina che adesso gira al minimo e raggiungere entro tre anni un utile di 633 milioni. È un obiettivo senz’altro ambizioso se si pensa che nel 2011 il Monte è andato in rosso per 77 milioni a cui vanno aggiunte le perdite da svalutazioni per la colossale cifra di 4,6 miliardi.
IL PRESIDENTE Alessandro Profumo ieri se l’è cavata con una metafora marinara. “É un piano scritto con il vento a prua”, ha detto l’ex numero uno di Unicredit approdato a Siena meno di due mesi fa. Nel senso che tutte le previsioni sono state elaborate scontando un contesto sfavorevole. Con il sottinteso che magari, nell’arco di un paio di anni, le cose potrebbero anche migliorare. Intanto però al Monte dei Paschi prevedono un calo dei ricavi (giù del 3,2 per cento nel 2015 rispetto al 2011) e anche dei prestiti, che dovrebbero diminuire dello 0,7 per cento possibilmente migliorando la qualità del credito, cioè selezionando meglio i clienti. Anche la quota di entrate da servizi (commisisoni) dovrebbe aumentare notevolmente rispetto al semplice margine d’interesse (differenza tra remunerazione dei depositi e proventi dei prestiti). Nel frattempo, però, bisognerà dare anche un taglio netto ai costi. E
allora la banca senese nei prossimi tre anni intende fare a meno di circa 4.600 dipendenti sui 31 mila circa attualmente a libro paga. L’obiettivo verrà raggiunto anche con la vendita di attività come la banca Biver (750 dipendenti), l’ex Cassa di risparmio di Biella e Vercelli, che verrà acquistata dalla Cassa di Asti.
Il grosso dei tagli viene però dall’outsourcing, cioè l’affidamento a una società esterna di tutte le attività amministrative di back office che valgono circa 2.300 posti di lavoro, a cui si aggiungerà l'accompagnamento alla pensione di un altro migliaio di dipendenti. La rete commerciale verrà alleggerita di almeno 400 filiali e secondo il piano anche un centinaio di dirigenti, il 20 per cento del totale, perderanno il posto. Alla fine di questa raffica di tagli il costo del lavoro dovrebbe calare da 2,2 a 1,9 miliardi. Quasi scontate le reazioni negative dei sindacati interni che in un comunicato parlano di “assoluta incapacità del top management e totale mancanza di idee a livello di progetto industriale”. Il segretario nazionale della Fabi, Lando Sileoni, critica invece un piano che definisce “di corto respiro e con un impatto sociale dirompente”.
Polemiche a parte, Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola, in carica da inizio 2011, hanno ereditato una banca in condizioni critiche. “I nostri problemi sono di ampiezza superiore al resto del sistema bancario”, ha ammesso ieri Viola. L’aumento di capitale da 2 miliardi varato giusto un anno fa è servito soltanto a tamponare le falle. E le richieste dell’Eba, l’autorità di vigilanza europea, ha costretto l’istituto a chiedere al governo 2 miliardi di Tremonti bond, che si vanno a sommare ad altri 1,9 miliardi di aiuti già ricevuti nel 2009.
TEMPI E MODI del nuovo intervento pubblico verranno stabiliti solo nelle prossime settimane. Di sicuro però i Tremonti bond costano cari. La banca potrebbe essere costretta a pagare interessi anche superiori all’8 per cento. Per questo ieri Profumo si è affrettato a precisare che le obbligazioni di Stato verranno rimborsate il più presto possibile, di sicuro entro il 2015. Per far fronte a questo impegno i vertici di Mps sono pronti a chiedere altri soldi al mercato con un aumento di capitale. Non subito, ma forse già il prossimo anno con un’operazione in Borsa del valore di un miliardo.
Chi paga? La Fondazione Mps, primo azionista con una quota del 36 per cento, no di sicuro. Soldi in cassa non ce ne sono. L’ente guidato da Gabriello Mancini, pure lui in difficoltà per salvare la poltrona, si è svenato per far fronte agli ultimi aumenti di capitale. E infatti il (possibile) prossimo aumento di capitale verrà lanciato con l’esclusione del diritto d’opzione, cioè non ai nuovi soci.
Per questo motivo molti sul mercato si attendono l’arrivo di nuovi azionisti importanti nell’istituto senese, contando anche sulla vasta rete di contatti del presidente Profumo. Un po’ quello che sta succedendo anche per Unicredit, che proprio l’altro ieri ha visto l’ingresso il fondo speculativo britannico Pamplona portare la sua partecipazione dall’1,9 al 5 per cento. I titoli Mps quotano in Borsa a prezzi di saldo e allora Siena sperano che qualche investitore si faccia avanti. Al momento però i soldi sono arrivati solo da Roma. Soldi di Stato.

il Fatto 28.6.12
Tagli di Stato
Per il governo, niente soldi alle Associazioni partigiane, ma ai militari sì
di Chiara Paolin


Luciano Guerzoni ha 77 anni e dice che, da quando si ricorda lui, mai s'era vista una cosa del genere. Mai, dal Dopoguerra in qua, era successo che il governo volesse aumentare gli aiuti alle associazioni d'arma eliminando in blocco il finanziamento alle associazioni combattentistiche e partigiane che ancora esistono in Italia. Gente che si trova la sera a discutere su come parlare ai ragazzi di oggi mostrando il bollino di Perseguitati politici nei campi nazisti, Perseguitati antifascisti, Vittime civili della guerra.
Roba vecchia, senza dubbio: non sarà inutile continuare a finanziarla in tempi di crisi? “Nossignore, la memoria non ha prezzo ed è inaccettabile mettere da parte la storia del nostro Paese” s’accende con accento modenese Guerzoni, antico militante Pci, governatore dell’Emilia Romagna negli anni ’80 e poi senatore nel Partito della Sinistra, oggi vicepresidente dell’Anpi. Uno che da anni lotta sul fronte dei finanziamenti: nel 2010 gli toccò vedersi contestato anche il numero degli iscritti, 44 mila diceva l’esecutivo Berlusconi (offrendo perciò 73mila euro anziché i 165mila del 2009). “Per fortuna siamo tanti di più e con tanti giovani – spiega Guerzoni -. Solo noi abbiamo più di 100mila iscritti e mobilitiamo un milione di persone tra parenti, amici, compagni. Mica possono chiuderci in un cassetto, vogliamo continuare ad andare nelle scuole, nelle piazze, in giro dappertutto a dire che la libertà e il diritto valgono più di ogni altra cosa. Euro o non euro”.
IN CONCRETO, secondo l'Anpi, sta accadendo che il disegno dell'ex ministro alla Difesa, Ignazio La Russa, ha azzerato per l'anno 2012 i contributi a partigiani ed ex combattenti concentrando tutte le risorse sulle associazioni di Carabinieri, Esercito e militari di vari corpi. “Notate bene: associazioni esistenti o da far nascere - riparte Guerzoni -, perché in base alla Legge Fontana perfino quelli che hanno solo frequentato un corso per diventare aviatori, senza riuscirci, possono costituire un gruppo e ricevere i finanziamenti. Per ora il conto è semplice: 200mila euro a loro, zero a noi. Un tracollo anche rispetto al 2011, quando avevamo 750mila euro da dividere tra tutti. Tre anni fa erano un milione e mezzo, capisce che andando avanti così non c'è da stare tranquilli: i problemi dell’Italia sono tanti, lo sappiamo, però è giusto ascoltare anche noi e dividere quel che c'è in modo equo”.
L’eredità di La Russa è passata dritta al ministro Giampaolo Di Paola, e soprattutto al Sottosegretario Gianluigi Magri cui diversi esponenti politici hanno sottolineato la necessità di un intervento rapido e decisivo (dalla senatrice Pd Roberta Pinotti all'onorevole Silvana Mura dell’Idv). “Embè, mica molliamo – allarga le vocali Guerzoni -. Speriamo che per luglio il Sottosegretario possa confermarci quel che ha promesso: i fondi necessari alla sopravvivenza, niente di più. Al resto pensiamo noi, per le generazioni future: chè i governi passano ma i valori bisogna preservarli. Dico bene? ”.

l’Unità 28.6.12
Diritti umani, l’Italia arranca
Ong e associazioni “controllano” lo stato delle cose dopo le 92 raccomandazioni ricevute dal nostro Paese
Manca la legge contro il reato di torura e i migranti sono poco tutelati
di Umberto De Giovannangeli


Una radiografia dettagliata dello stato dei diritti umani in Italia. Uno stato ancora deficitario. Una verifica puntuale del rispetto da parte del nostro Paese delle 92 raccomandazioni ricevute dall’Italia due anni fa dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani. Un lavoro di straordinaria importanza, quello fatto da 86 Ong e Associazioni della società civile italiana, sintetizzato in un rapporto presentato ieri a Roma nella sede della Fnsi.
«Sono trascorsi due anni da quando il Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, attraverso la Revisione Periodica Universale, espresse 92 raccomandazioni all’Italia sullo stato dei diritti umani nel nostro Paese spiega Carola Carazzone, portavoce del Comitato per la promozione e protezione dei diritti umani-. Con questo rapporto le Ong e associazioni del Comitato italiano intendono tenere alta l’attenzione e il dibattito su questi temi. Ad oggi il governo italiano non ha ancora tradotto il testo e siamo in attesa di un mid term report, così come auspitcato dal Consiglio. Chiediamo quindi al Governo di preparare, seguendo l’esempio di altri paesi dell’Unione Europea, un Rapporto di follow up a medio termine, di inviarlo all’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e di prodigarsi per dare attuazione alle raccomandazioni». «Priorità aggiunge Carazzone venga data alla costituzione di un’Istituzione nazionale indipendente per i diritti umani in Italia, essendo il nostro l’unico paese dell’Ue privo di un meccanismo garante e indipendente, la previsione del reato di tortura nel nostro codice penale, la protezione dei diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo, dei rifugiati, delle donne vittime di violenza e dei detenuti e il diritto all’informazione libera e indipendente».
SITUAZIONE CRITICA
Alcuni focus particolarmente significativi. Reato di tortura: il 20 maggio 2011 l’Italia è stata riconfermata Stato membro del Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite per il triennio 2011-2014. In fase di candidatura per il secondo mandato, il Governo italiano ha indicato gli impegni volontari in materia di diritti umani che intende perseguire: pesa, tra questi, l’assenza di una precisa intenzione a introdurre il reato di tortura nell’ordinamento penale interno. Su questa grave inadempienza, suffragata dal respingimento della raccomandazione numero 8 da parte del Governo italiano nel 2010, grava anche il mancato richiamo alla ratifica del Protocollo opzionale del Consiglio d’Europa contro la tortura (Opcat).
In materia di riconoscimento dello status di rifugiato non esiste tuttora una legislazione organica; le Commissioni Territoriali per il riconoscimento della Protezione Internazionale emettono troppo spesso dinieghi alle domande di riconoscimento, costringendo i richiedenti a fare ricorso giurisdizionale per vedersi riconosciuto il loro status. Nel rapporto, si rileva un’inadeguatezza pesante nel sistema generale di accoglienza, al di sotto degli standard minimi europei.
Tratta: la manovra di bilancio per il 2011 ha segnato un drastico taglio ai fondi statali per le politiche sociali, abbassando gli stanziamenti di bilancio da 1472 milioni di euro del 2010 a 349,4 milioni di euro (2520 nel 2008, e 271,6 previsti per il 2013). Fra le diverse conseguenze, il 1 agosto 2010, per ridurre i costi del servizio, sono stati chiusi i 14 uffici territoriali del numero verde salva-prostitute per sostituirli con un’unica postazione centrale. In virtù del pacchetto sicurezza Legge 15.07.2009 n ̊ 94 che introduce il reato di clandestinità come reato penale, la politica migratoria italiana si è orientata fortemente verso la repressione del fenomeno dell’immigrazione clandestina, e questa fattispecie si è sovrapposta alla necessità di individuare e sostenere le vittime della tratta.
Diritti delle persone minori di età che vivono nel nostro Paese. Per quanto riguarda l’accesso all’istruzione rileva il rapporto e la scolarizzazione dei bambini Rom e Sinti restano ancora irrisolti i problemi legati alla frequenza e all’abbandono scolastico. Sarebbero almeno 20 mila i Rom sotto i dodici anni, in grandissima parte rumeni e dell’ex Jugoslavia, che evadono l’obbligo scolastico in Italia e si stima che «i restanti coetanei Rom e Sinti siano in un generalizzato ritardo didattico di non meno di tre anni». Inoltre, le condizioni abitative, il minor tasso di scolarità, le difficoltà di accesso ai servizi sanitari sono tra i fattori di rischio per la salute delle persone di origine Rom, in particolar modo per i minori.
In tema di autonomia dell’informazione, le raccomandazioni all’Italia del Consiglio Onu per i diritti umani continuano a cadere nel vuoto, rimarca Roberto Natale, presidente della Fnsi. «Nell’ultimo anno spiega Natale il Governo è cambiato, ma non è cambiato il sostanziale disinteresse a risolvere la concentrazione delle risorse, la soffocante sudditanza del servizio pubblico, il conflitto di interessi».

il Fatto 28.6.12
Tortura, in Italia non è reato
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, perché non c’è in Italia (solo in Italia) il reato di tortura?
Amalia

C’È UNA LEGGE sulla tortura (una legge che avrebbe salvato Cucchi e Aldrovandi o punito ben più severamente i loro persecutori, o gli agenti e dirigenti di polizia protagonisti del famoso G8 di Genova nel luglio 2001) ma si tratta di una proposta, prima firma la deputata radicale Rita Bernardini (a seguire tutti gli altri deputati di quel partito, eletti con il Pd) ma non è mai stata “calendarizzata”, che vuol dire stabilire un giorno per cominciare a discutere il progetto. Ci sono altre proposte, ne cito alcune: Bressa (Pd), Torrisi (Pdl), Pisicchio (Mpa), ciascuna con molte firme. E forse altri progetti giacciono fra le carte mai entrate nel dibattito della Camera e del Senato. Ma c'è un’altra proposta, più rapida e semplice, di nuovo dei Radicali (Matteo Mecacci): immediata ratifica della Convenzione aggiunta al Trattato delle Nazioni Unite sulla tortura. L’Italia aderisce al Trattato, ma non ha mai ratificato la convenzione aggiunta, che definisce il reato e stabilisce il monitoraggio per evitare che possano esistere episodi di tortura coperti da omertà o segreto. Di nuovo, manca solo la calendarizzazione. Come avviene? È una decisione politica, presa di settimana in settimana dal presidente della Camera, insieme con i capigruppo dei vari partiti. Evidentemente nessuno di loro ha mai pensato che fosse urgente avere in Italia una legge sulla tortura, che descrive nel codice il tipo e i caratteri del reato (che non è maltrattamento, che non è aggressione, che non è violenza, perché la componente più violenta della tortura è il potere e la totale condizione di sottomissione della vittima) e l’adeguata gravità della pena. Nessuno di loro ha mai pensato che fosse in gioco una questione urgente e ineludibile di civiltà e una essenziale questione di immagine e di rispetto per il nostro Paese nella comunità di cui è parte fondante. Il caso è grave ma – come suggerito con lo strumento della ratifica da parte dei Radicali – può essere rapida, semplice, un solo giorno di Commissione e un solo giorno d’aula, senza interferire su tutto il resto del lavoro. Per il presidente Fini dovrebbe essere una priorità assoluta e un modo di dare un senso a questi ultimi mesi in Parlamento.

l’Unità 28.6.12
Offese, violate e mutilate
Mezzo milione le donne infibulate solo in Europa
Il Parlamento Europeo ha chiesto ai Paesi membri di vigilare per evitare, come sta accadendo, lo sviluppo di pratiche contro le più giovani
di Elena Doni


È INCREDIBILE COSA SI SONO INVENTATE NEL MONDO LE DIVERSE SOCIETÀ PER GARANTIRE AGLI UOMINI IL CONTROLLO DELLE DONNE: dal velo al burka, dalla deformazione dei piedi delle bambine, che in Cina impediva loro di camminare, al gavage, la nutrizione parossistica forzata in alcune zone dell’Africa, fino al più crudele dei provvedimenti, diffuso in molti paesi africani: le Mgf, mutilazioni genitali femminili. Tanto frequenti da avere indotto in questi giorni il Parlamento Europeo a chiedere ai Paesi membri di vigilare e sviluppare strategie per evitare che questa pratica venga ancora effettuata nelle famiglie di immigrati. Magari inducendo le figlie adolescenti a fare «un bellissimo viaggio nel Paese dei nonni».
La campagna europea EndFgm è condotta da Amnesty International Irlanda in collaborazione con 14 organizzazioni non governative di 13 Paesi europei. In Italia ne è responsabile l’Aidos, Associazione donne per lo sviluppo, che da anni si batte in vari paesi africani per tutelare donne e ragazze che hanno subito le mutilazioni e proteggere quelle che fuggono dai loro Paesi per il timore di subirle. Daniela Colombo che fondò questa associazione nel 1982 ricorda che queste pratiche, specie nella forma estrema diffusa nel Corno d’Africa ha gravi conseguenze fisiche e psichiche. Si calcola che in Europa le donne con postumi di queste terribili operazioni siano 500mila e 180mila le bambine a rischio di subirle. In Italia la legge ha stabilito nel 2006 che questa pratica è vietata, ma si sa che non è sparita e che per sfuggire a un’eventuale sanzione si preferisce anticipare la menomazione sulle bambine, piuttosto che sulle adolescenti, per evitare rischi di denuncia.
E dire che già dal 2005 autorevoli personaggi si battono in Africa contro questa pratica che noi giudichiamo inumana e che fino a non molti anni fa veniva gabellata come una difesa delle donne: una volta «cucite» si diceva loro non erano più a rischio di violenza. Ciò non toglie che tra le prime voci a levarsi contro le mutilazioni delle donne ci sono state quelle degli uomini: i primi che attraverso il lavoro sono venuti a contatto con opinioni e modi di vita molto diversi da quelli della tradizione africana. Già nel 2003 il Gran Muftì della moschea di Al-Azhar, Sayed Tantawi, massima autorità religiosa sunnita, disse in diretta radiotelevisiva che le mutilazioni agli organi sessuali delle donne non erano prescritte dal Corano. Tantawi aveva ragione: l’Islam non ha dato origine alle Mgf per la buona ragione che queste erano già presenti nell’Africa centrale prima della penetrazione musulmana.
QUATTRO TIPI DI VIOLENZA
Secondo la classificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità si possono distinguere quattro tipi di mutilazioni genitali femminili: la sunna, consistente nella recisione del prepuzio e nell’asportazione totale o parziale della clitoride; l’escissione, recisione del prepuzio, asportazione della clitoride e di tutte o parte delle piccole labbra; infibulazione o circoncisione faraonica, escissione della clitoride, asportazione totale o parziale delle grandi labbra e successiva cucitura dell’apertura vaginale, ridotta a un piccolo pertugio non più grande di un chicco di riso; il quarto tipo va dalla semplice punzecchiatura della clitoride a pratiche atroci (ormai rare, si dice) come l’introduzione di sostanze corrosive in vagina.
Un’importante scrittrice egiziana che è anche medico, Nawal El Saadawi, ha raccontato nel suo libro The hidde face of Eve le confidenze di molte donne che avevano subito interventi più o meno distruttivi: tutte raccontavano ancora tremando la brutalità dell’operazione subita in casa da bambine, nessuna di loro aveva in seguito provato alcun piacere nei rapporti matrimoniali. Un altro medico egiziano fortemente avversario delle mutilazioni genitali femminili, il prof. Mahmoud Karim, nel suo libro Circumcision elenca alcune statistiche dalle quali apprendiamo che sono i poveri a pagare il più alto tributo alla tradizione: più basso è il reddito, più alto il numero di figlie circoncise. Solo il 15% delle benestanti viene operata, a fronte dell’88% delle figlie dei poveri.

il Fatto 28.6.12
Nuovo Ior
Tornano i fantasmi dell’Ambrosiano


Un mese fa veniva silurato il presidente Ettore Gotti Tedeschi, ieri si è riunito il consiglio di sorveglianza e la commissione cardinalizia che riferisce al segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Ci sono due scadenze immediate che turbano ancora l'Istituto per le Opere Religiose: l'ingresso nella white list per uscire dal gruppo di Stati canaglia che non combattono il riciclaggio di denaro sporco, e va ricordato che lo Ior è un fondo sovrano dove tutto e sempre confluisce; la nomina di un successore di Gotti Tedeschi, una sedie vuota ricoperta ad interim dal tedesco Schmitz. Oltre l'ex banchiere di Deustche Bank, il gruppo laico è composto dal notaio torinese Antonio Maria Marocco, dal Cavaliere di Colombo Carl Anderson (che scrisse la violenta lettera di licenziamento a Gotti Tedeschi) e Manuel Soto Serrano (Santander). Il consiglio di sorveglianza è consapevole che, dopo la bocciatura quasi totale di Moneyval , la prossima settimana a Strasburgo lo Ior sarà ufficialmente fuori dalla white list. Il Vaticano vuole, però, entrare nella grey list, dove il bianco non è esattamente così, ma sarebbe un passo avanti per l'oscura cassa santa. Entro settembre, prima che Bertone lasci la segreteria di Stato, va trovato il nuovo presidente Ior. Tutti i segnali portano negli Stati Uniti, a un uomo di Merril Lynch, dopo che la sezione della banca d'affari europea ha rotto i rapporti con il Vaticano, mentre quella centrale americana continua ad averne, e pure saldissimi. Oltre il tedesco Hans Tietmeyr, per gli italiani - insieme a Bazoli e Mussari - si fa il nome di Paolo Mennini, che già coordina il patrimonio immobiliare del Vaticano, fratello di Antonello, nunzio apostolico a Londra e conosciuto come cappellano di Aldo Moro e soprattutto figlio di Luigi, alto funzionario Ior coinvolto nel fallimento del banco Ambrosiano negli anni di Marcinkus.

Repubblica 28.6.12
Sfida italo-tedesca anche per lo Ior da Schmitz a Capaldo, ecco i favoriti
Battaglia sul nuovo presidente. Outsider l’americano Anderson
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Il nome del nuovo presidente dello Ior c’è. Sabato scorso, durante la riunione del Papa con i cinque Saggi, i cardinali con cui Benedetto XVI ha cominciato a consigliarsi per uscire dal pantano della vicenda Vati-leaks (la diffusione dei documenti vaticani) ne è emerso uno in particolare. Quello su cui, per l’appunto, si stanno concentrando le attenzioni della Commissione cardinalizia di vigilanza e del Consiglio di sovrintendenza della banca vaticana.
Potremmo essere ormai alla stretta sul nome del successore di Ettore Gotti Tedeschi, il numero uno dell’istituto cacciato a fine maggio con un comunicato insolitamente duro. Ora il nome del “frontrunner”, del candidato più in vista, è sulla scrivania di Joseph Ratzinger, ed è stato caldeggiato
dal cardinale Jean-Louis Tauran. Sul tavolo del Papa c’è anche un report con i nomi e cognomi di altri sei-sette persone. Dentro queste cartelline, ci sono i loro curricula, le loro opere, il loro pensiero. Sarà il Pontefice adesso a valutarli, visto che ha fornito delle direttive precise sulla scelta, destinata a cadere su una persona di sua diretta e assoluta fiducia. Eppure la decisione su un nuovo presidente potrebbe anche non essere una faccenda immediata. In Vaticano si sta valutando la situazione con accortezza e prudenza. Ecco perché sono stati stabiliti dei criteri molto precisi per l’identikit del nuovo uomo di vertice, onde evitare forzature ed errori in vista della pagella, prevista per il 4 luglio, data dall’organismo internazionale Moneyval allo Ior. A complicare le cose è la questione che la nomina ufficiale, così come la sfiducia, del presidente spetta alla Commissione cardinalizia. Presieduta dal Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ma divisa al suo interno. E il Consiglio di sovrintendenza, il board, di fatto, ratifica. Ecco perché ad esempio, la cosiddetta sfiducia nei confronti di Gotti è dovuta andare in approvazione della Commissione dei cardinali, che però per ben due volte non ha addirittura ratificato. Cioè, si è rifiutata di approvare la sfiducia. E perciò Bertone è stato costretto a dichiarare che la commissione aveva semplicemente «preso atto ». Ieri, dopo la traumatica uscita
del professor Ettore Gotti Tedeschi, la Santa Sede ha reso noto di essere alla ricerca di un presidente la cui «professionalità ed esperienza» siano «universalmente riconosciuti». Un comunicato della Sala Stampa vaticana ha informato che sull’argomento si sono tenute ben due riunioni. Era la prima volta dopo la cacciata di Gotti del 24 maggio scorso. Il primo meeting è avvenuto all’interno del stesso Consiglio di sovrintendenza. Il secondo, subito dopo, con il Consiglio cardinalizio al quale i membri del board hanno riferito sulla loro ricerca. Bertone ha poi riferito tutto quanto al Papa.
Ora il toto-nomine naturalmente impazza. È noto che a Ratzinger non dispiaccia Hans Tietmayer, l’ex presidente della Deutsche Bank, suo quasi coetaneo, banchiere “bianco” e di grande esperienza. Ma Tietmayer ha per metà smentito di essere interessato. E non è un mistero che Bertone gradisca invece il banchiere Cesare Geronzi, il cui nome per questo incarico appare tuttavia in calo. Spuntano così degli outsider, come il banchiere ed economista Pellegrino Capaldo, le cui azioni stanno salendo. O del notaio torinese Antonio Maria
Marocco (altro candidato che piace a Bertone e subentrato nel board solo lo scorso anno). Ma non si esclude affatto che l’attuale presidente ad interim, il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, 74 anni, possa essere promosso stabilmente alla presidenza. Altro nome è quello del presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari. Non poche possibilità vengono infine assegnate all’americano Carl Anderson, l’autore del duro comunicato contro Gotti Tedeschi. Scarse invece le chances per Antonio Fazio e Giovanni Bazoli. La partita è nel pieno.

La Stampa 28.6.12
Presentato il rapporto Ocse
Gli immigrati evitano l’Italia: “Troppo povera”
di E. St.


BRUXELLES La crisi è tanto grave in Italia che anche gli immigranti la evitano. È uno dei dati che emerge dal rapporto Ocse 2012 sull’immigrazione, presentato ieri a Bruxelles: uno studio di 399 pagine che fotografa per il 2010 un flusso di 4,1 milioni persone, in calo (-3%) per il terzo anno consecutivo. Nei primi dati 2011, però, si registra un miglioramento delle condizioni economiche grazie al quale l’immigrazione torna a salire «nella maggior parte dei Paesi europei ma non in Italia». Si tratta soprattutto di «cervelli in fuga». A incidere sui flussi migratori è sempre «il declino della domanda di manodopera, non la stretta imposta dalle politiche migratorie». La stretta può essere «controproducente» perché «se si continua così, entro il 2015 gli attuali di immigrazione non saranno sufficienti» a garantire le necessità del mercato del lavoro con una popolazione che invecchia. Secondo il segretario generale Angel Gurria, se i Paesi dell’Ocse vogliono gli stessi flussi «devono mantenere e migliorare l’attrattività dei lavori offerti. E garantire i ricongiungimenti famigliari».

La Stampa 28.6.12
Scontri nel Guangdong
Cina, i contadini contro gli immigrati “Ci rubano il lavoro”
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Quando Wang Yang, il governatore della regione meridionale del Guangdong, aveva lanciato lo slogan «Happy Guangdong», certo non aveva in mente i violenti scontri che da due giorni stanno infuocando le strade di Shaxi, a Zhongshan, e quelle di Zuotan, a Foshan. Le due rivolte, fuori dal comune solo per le dimensioni che hanno assunto, non sono collegate fra loro, ma riguardano alcuni fra i problemi più sentiti nella società cinese contemporanea.
A Shaxi, una piccola città dove si trovano centinaia di fabbriche di moda casual, secondo le notizie trasmesse in particolare dai social network, la crisi sarebbe stata scatenata da una lite fra adolescenti: un ragazzino di 13 anni sarebbe stato vittima di bullismo da parte di tre quindicenni figli di migranti dalla regione del Sichuan. Alcuni adulti sono intervenuti, e avrebbero legato i tre quindicenni (a un palo o a un albero), insultandoli e picchiandoli. Altri adulti sarebbero accorsi ad aiutare i tre, e la bagarre sarebbe arrivata a coinvolgere circa cinquecento persone – il tutto.
Mercoledì mattina Weibo (il Twitter cinese) distribuiva immagini di guerriglia urbana, con macchine ribaltate, vetrine distrutte, barriere incendiate, polizia armata che caricava e persone cadute a terra. Ci sarebbero fino a cinque morti, almeno un centinaio di feriti e un altro centinaio di persone arrestate. La stampa ufficiale, laconica e contraddittoria, ha solo riportato mercoledì che il problema scoppiato nel Guangdong era «risolto», ma che l’esercito era pronto a intervenire.
Il problema non riguarda tanto i quattro adolescenti, quanto i ricorrenti problemi fra la numerosa popolazione migrante che arriva nel Guangdong per lavorare nelle fabbriche e i locali, spesso insofferenti nei confronti dei nuovi arrivati. A ciò va aggiunto il problema che i lavoratori migranti non godono degli stessi diritti dei locali, per esempio non hanno modo di mandare a scuola i figli o di accedere al sistema sanitario.
L’altra crisi, invece, riguarda una volta di più l’esproprio di terre: secondo il giornale cinese Caijing, «centinaia di poliziotti si sono scontrati con i contadini di Zuotan», con decine di ricoveri in ospedale. Le fotografie inviate ai social network mostrano auto della polizia rovesciate, alcune con la scritta «ladri» dipinta con la vernice spray. È una delle innumerevoli liti che scoppiano quando le autorità locali requisiscono le terre su cui i contadini vivono per venderle a promotori immobiliari, senza pagare la ricompensa prevista dalla legge.

Repubblica 28.6.12
Una ragazza in abiti succinti e la scritta: “Se ti vesti così ti molesteranno” A migliaia sono insorte sul web. Ma anche di persona, avvolte nei burqa
“Donne, copritevi in metrò” l’appello che divide Shanghai
di Renata Pisu


Sul sito ufficiale della metropolitana di Shanghai appare l’immagine di una donna vestita con un abito trasparente rivelatore di slip, reggiseno e calze con giarrettiera alla coscia. La scritta sotto avverte: «Se ti vesti così è probabile che tu sia molestata. Possono esserci dei pervertiti in metropolitana e non è facile liberarsene. Abbi rispetto di te stessa».
Apriti cielo! Anzi, apriti metà del cielo, come all’epoca di Mao venivano chiamate le donne. Sono fioccate migliaia di proteste di passeggere contro il machismo di quell’invito alla modestia, come se la pubblica morale dipendesse dall’esposizione di qualche centimetro quadrato di pelle femminile, così ha scritto nel suo blog una ragazza di professione impiegata. E un’altra ha sottolineato che una donna deve essere rispettata anche se sale su di un vagone in bikini. Che diamine! Come si permettono i dirigenti della metropolitana di dire alle donne cosa è giusto mettersi addosso? E ancora tantissime sono le passeggere che dichiarano di non capire perché si debba dire alle donne di rispettare se stesse mentre sarebbe molto più giusto invitare gli uomini a rispettare le donne. Insomma, l’iniziativa della dirigenza della metro di Shanghai ha scatenato un dibattito che, come sottolinea La Voce delle Donne, una organizzazione non governativa per la parità dei diritti, non è da considerarsi frivolo e inessenziale perché «serve a prendere atto del sessismo che imperversa nella nostra società. I mo-lestatori sono dei criminali e i dirigenti della metro non dovrebbero giustificarli con la scusa che le vittime li hanno provocati».
Ieri la protesta femminile, una ancora impacciata espressione di un femminismo che stenta a farsi valere, dal virtuale della rete è scesa nella concretezza dei corpi di donne che in varie stazioni della metropolitana si sono presentate intabarrate con panni neri, il volto coperto in stile burqa, mostrando dei cartelli con su scritto “Fa caldo e io voglio stare fresca” e “Posso vestirmi come mi pare, voi dovete lasciarmi in pace”. Come e ancora più della protesta sul web questa discesa in piazza delle donne ha suscitato l’opposizione dei moderati. Si sono levati commenti malevoli: «Sfido che c’è chi vi mette le mani addosso! Siete delle provocatrici.
Siete voi che molestate gli uomini conciate in quel modo indecente ».
Come si vede, gli argomenti dei maschilisti di Shanghai sono gli stessi usati sotto qualsiasi cielo, anche sotto questo che sembrava aver riconosciuto pari dignità alle donne assegnandone loro la metà. «E invece non era vero niente, era soltanto una ben intenzionata bugia » commenta sul suo blog una delle poche cinesi che hanno il coraggio di dichiararsi apertamente femministe. In Cina non è una cosa facile e infatti Lian Tian, uno dei portavoce della metropolitana di Shanghai che vanta la più estesa rete di trasporto rapido del mondo — 450 chilometri di rotaie, una media di circa 8 milioni di utenti al giorno — è intervenuto nel bailamme delle proteste sostenendo che era tutta colpa di qualche organizzazione femminista, che lo scopo di mettere in rete quell’immagine di donna sexy con l’invito alla modestia nel vestire era soltanto un dovuto richiamo alla necessità che le passeggere pensassero a difendersi preventivamente dai pervertiti: «Non ce ne sono tanti da noi a Shanghai ed escludo che si debba arrivare a vagoni riservati per le donne come a Città del Messico o Rio de Janeiro».
L’idea però potrebbe essere presa in considerazione prima o poi, visto che da qualche tempo sulla metropolitana di Shanghai molte ragazze hanno preso l’abitudine di cambiarsi disinvoltamente d’abito, come se fossero a casa loro, davanti a tutti i passeggeri che non allungano le mani ma, in genere, si limitano a registrare le immagini sui loro cellulari e magari le mettono poi in rete. Se ne vedono parecchi di questi pubblici spogliarelli sui blog cinesi e accade che qualche ragazza, riconoscibile nella sequenza, protesti. E allora, le donne gradirebbero vagoni a loro riservati o sono invece delle esibizioniste? Non si sa, comunque la moda sta prendendo piede e i dibattiti sulla pubblica decenza e i suoi limiti si fanno in questi giorni sempre più serrati.
Tutto è cominciato con l’immagine della donna sexy sul sito ufficiale della metropolitana ma il portavoce Lian Tian ha dichiarato che di toglierla non ne vede la ragione «perché siamo un paese libero. Noi consigliamo alla donne di vestirsi di più, loro possono scoprirsi quanto vogliono, non c’è nessun conflitto e nessuna imposizione». Gli ottimisti ne deducono che le vie per arrivare al rispetto dei diritti individuali e della democrazia in Cina sono davvero infinite perché ormai non c’è più autorità che tenga, tutto si giudica in rete, tutti twittano. Ma la scelta degli argomenti è davvero libera? O si preferiscono quelli un po’ pruriginosi? Gli ottimisti consigliano di pazientare.

Corriere 28.6.12
I cristiani palestinesi, dati storici e attualità
risponde Sergio Romano


Caro Romano, nella risposta pubblicata sabato ha scritto che il numero dei cristiani a Gerusalemme (come in altre città arabe da lei indicate) sta rapidamente diminuendo. Questo varrebbe, in realtà, solo se si guardassero le cifre percentuali, ma non certo se si guardano i numeri assoluti, che, al contrario, a Gerusalemme indicano un numero di cristiani in crescita (unico luogo tra le terre del Medio Oriente). Lo riconobbe lo stesso padre Pizzaballa in occasione di un incontro di circa un anno e mezzo fa.
Emanuel Segre Amar

Caro Segre Amar,
Gli studi demografici sulla Palestina sono complicati dalla mancanza di dati unitari e omogenei. Esistono lo Stato d'Israele e i territori occupati. Esistono la città vecchia di Gerusalemme e la grande Gerusalemme israeliana al di fuori delle mura. Esistono gli arabi cristiani, il clero, le suore, i volontari e i dipendenti delle organizzazioni cristiane, gli immigrati provenienti da Paesi cristiani (i romeni ad esempio) e i parenti cristiani degli ebrei di origine russo-sovietica (circa 900 mila) giunti in Israele dopo il crollo dell'Urss. Abbiamo alcune statistiche storiche, come l'indagine anglo-americana del 1945-46, i dati dell'Ufficio centrale di statistica dello Stato israeliano, quelli dell'Ufficio centrale di statistica palestinese e le stime delle grandi istituzioni ecclesiali. I dati che maggiormente ci interessano in questo caso sono quelli che concernono gli arabi cristiani, vale a dire quella parte della popolazione indigena che ha conservato la sua fede o si è convertita al cristianesimo soprattutto negli ultimi due secoli. Per lei e per i lettori proverò a mettere un po' d'ordine in questa congerie di cifre.
Secondo l'indagine anglo-americana, i cristiani, nel 1945, erano 145.060 e rappresentavano il 9% dell'intera popolazione della Palestina amministrata dalla Gran Bretagna con un mandato della Società delle Nazioni. Nel 1949, dopo la costituzione dello Stato d'Israele e la prima guerra arabo-israeliana, i cristiani residenti nello Stato ebraico erano 34 mila e rappresentavano il 2,9% della sua popolazione. Sessant'anni dopo erano 151.700, fra cui gli arabi erano 120.700: una cifra, quest'ultima, che comprendeva gli 11.500 cristiani di Gerusalemme est. Se calcoliamo i 50 mila arabi cristiani che vivono nei territori amministrati dall'Autorità nazionale palestinese, i cristiani indigeni della grande area corrispondente alla Palestina del mandato britannico sarebbero ora circa 160 mila, con una aumento di 15 mila unità rispetto alla popolazione arabo-cristiana del 1945. Attenzione, tuttavia: se fossero cresciuti ogni anno del 2% (il tasso di accrescimento medio della popolazione palestinese) sarebbero oggi più di mezzo milione. Una considerevole percentuale della popolazione cristiana se n'è andata: le intifade, i blocchi stradali, le barriere, gli insediamenti ebraici, le restrizioni imposte al movimento delle persone hanno progressivamente impoverito la presenza del cristianesimo arabo nella regione. Il fenomeno è particolarmente evidente a Betlemme, ormai un sobborgo di Gerusalemme. Qui, nel 1946, i cristiani erano 6.940 e rappresentavano il 71% della popolazione; oggi sono 7 mila e rappresentano il 18%. La crescita demografica è stata quasi interamente assorbita dall'emigrazione. Si calcola che Betlemme perda ogni anno circa 20/30 famiglie.
La situazione à forse lievemente migliore a Gerusalemme est dove gli arabi cristiani sono circa 11.500. Ma di questo passo sono destinati a essere i reperti di un museo, gli abitanti di una riserva religiosa chiamata a recitare la parte del popolo cristiano in una sorta di studio televisivo che diventa particolarmente affollato durante le grandi liturgie cristiane dell'anno. Il titolo della mia precedente risposta era: «Cristiani nel mondo arabo tra la resistenza e la fuga». Da molti Paesi si fugge. A Gerusalemme si resiste.

il Fatto 28.6.12
Con troppi sì non si cresce mai
Esce in libreria “L’essenziale per crescere - Educare senza il superfluo” di Silvia Calvi e Daniele Novara. Anticipiamo una parte dell’introduzione
di Silvia Calvi e Daniele Novara


I nostri figli soffocano di superfluo. E tiranneggiano noi genitori sul superfluo. Sembra proprio la condanna di questi tempi. Eppure la via d’uscita è lì, a portata di mano: tornare a fare scelte educative. Non è un caso che quella educativa sia una delle emergenze più serie del nostro tempo. Più della crisi economica, perché i danni che produce sono molto più difficili da riparare. Queste pagine partono da qui, dalla consapevolezza che è giunto il momento, dopo gli anni di un “materno condiviso”, di arrivare anche a un “paterno condiviso”. Come i padri negli ultimi decenni hanno imparato a cambiare i pannolini, imboccare i bebè e così via, sarebbe il caso che anche sul piano regolativo, rispetto alla capacità di mettere dei limiti, degli argini, i papà e le mamme facessero gioco di squadra per condividere l’area che si definisce “paterna”.
È UN’AREA molto diversa dal puro e semplice accudimento, proiettata sul versante dell’avventura, della crescita, della responsabilità e ovviamente del coraggio. La posta in gioco è alta: smettere di allevare generazioni di bambini tirannici. L’equivoco di base è che il bambino, in realtà, non vorrebbe comandare sui genitori ma, allo stesso tempo, si rende conto che, ogni volta che spinge di più sull’acceleratore delle richieste, viene accontentato. Oggi, è sotto gli occhi di tutti, molti tra noi genitori hanno paura di educare: preferiscono accudire. Ma l’accudimento, oltre a essere cosa ben diversa dall’educare, diventa sovente una strada lastricata di non decisioni. Si improvvisano decisioni “fast” per evitare conflitti, per riempire dei vuoti, per avere più tempo per sé. E, quindi, poche regole su cibo e alimentazioni, nessuna o quasi sull’uso di tivù, Internet e videogiochi vari. Una ricerca dell’Istituto superiore della sanità risulta che un bambino su tre, in Italia, è in sovrappeso. E che quasi la metà, uno su due quindi, abusa di tivù e videogiochi. Le due cose, sovrappeso e quantità di tempo precocemente trascorsa davanti a uno schermo, sono collegate. Ecco allora altri dati relativi a bambini della scuola elementare: il Centro Studi Minori e Media1 di Firenze dice che l’80% dei bambini della primaria ha il telefono cellulare. Mentre un’altra ricerca (Eurispes) rivela che un bambino su tre, tra i 7 e gli 11 anni, chatta regolarmente su Internet. Pochi dati per per mettere a fuoco quanto la situazione ci sia sfuggita di mano. Mamma e papà cercano il dialogo, il confronto, ma cercano anche di assecondare il più possibile i bambini, nella logica che la cosa più importante sia facilitare la loro vita piuttosto che dare indicazioni chiare. E che troppa precisione guasti e diventi pura e semplice rigidità. Pare che, alla base, ci sia la difficoltà dei genitori a superare le loro ferite infantili, fi nendo così con l’identificarsi eccessivamente con i figli piuttosto che con il loro ruolo educativo, come se “educare troppo” potesse ferire i pargoli!
IL CASO PIÙ comune di “ferita infantile dei genitori” è legato all’esperienza di non essere stati sufficientemente ascoltati da piccoli, specialmente dai padri. Scatta pertanto un bisogno (che non è propriamente un bisogno educativo, ma un’istanza che proviene dalla propria infanzia) di ascoltare i bambini a prescindere dalla loro effettiva capacità di determinare i propri vissuti. L’esempio più classico può essere il chiedere ai bambini piccoli, magari di tre o quattro anni, di “fare le cose giuste”: «non è ancora ora di andare a letto? », «quando intendi andare a letto? », «non sarebbe il caso che tu spegnessi la televisione e andassi a letto? ». Questo tipo di domande finisce con l’attribuire ai figli un capacità che ovviamente i piccoli ancora non possiedono, mandandoli in stato confusionale e anche in forte tensione psichica. La richiesta che il genitore fa al figlio, è una richiesta che gli proviene dalla sua infanzia: in altre parole, la mamma o il papà avrebbero voluto che i loro rispettivi genitori fossero stati più attenti o li avessero tenuti in maggiore considerazione. Occorre però evitare che questi bisogni antichi diventino delle prescrizioni educative, perché i bambini hanno bisogno di adulti sempre centrati sul loro compito educativo. Pagina dopo pagina, però, questo libro rivela che invertire la rotta è possibile. Perché, alla fine, i bambini crescono tutti, anche malgrado noi. Ma diventano davvero grandi solo con qualche sana frustrazione. È la resistenza dell’aria che produce il volo, ricorderebbe Kant: piuttosto che sottrarre esperienza e desideri ai figli è importante costruire spazi di autonomia e occasioni che consentano ai bambini di sperimentarsi e sperimentare da soli.

il Fatto 28.6.12
Arte
C’è anche Caravaggio nella cripta dei cappuccini
di Claudia Colasanti


Ci passa il mondo intero qui - tranne italiani e romani”, racconta Padre Cordovani nel presentare il nuovo museo cappuccino, o quello che preferisce definire “un percorso che possa raccontare il vissuto dei frati” prima di percorrere lo stravagante e sconvolgente corridoio-Cripta. Un luogo, la celebre Cripta dei Cappuccini, nato da mente misteriosa verso il 1732, che rappresenta un’ipnotica anomalia formale, tattile e filosofica (pari solo a quella palermitana) in cui le ossa di 3700 frati diventano scenario, teatro di un altrove impossibile, ma soprattutto – e se qualcuno osasse farlo ora verrebbe definita ‘provocazione’ - ornamento, lampadario, greca, carta da parati, mattonella. Questo appena inaugurato è un museo ‘diverso’, non solo accompagna alla visione della Cripta, ma rispecchia l’Ordine nel gioco di contrasti fra semplicità e ricercatezza, per capire un viaggio, quello dei cappuccini sulla terra, che “vanno dove nessuno vuole andare”. Otto nuove sale, all’interno del Convento, che presentano con un allestimento interattivo paramenti liturgici, icone, manoscritti, reliquie e oggetti di uso quotidiano, ripercorrendo la storia di uomini devoti alla provvisorietà. A metà percorso, l’affondo, con un Caravaggio dedicato a “San Francesco in Meditazione” (1603), descritto, al contrario di altri maestri, con i buchi nel saio e il rovello  interiore nell’istante della devozione . Fortunatamente da ieri, nella nostra povera e piena estate, è un museo romano permanente, ed è da non perdere.
Il Museo dei Cappuccini, Via Vittorio Veneto 27, Roma. Orario lun-dom 9-19. Info: 0642014995

Corriere 28.6.12
Come sconfiggere l'antipolitica. Una sola soluzione: il bene comune
di Giuseppe De Rita e Luca Diotallevi


Il fenomeno dell'antipolitica attira crescente attenzione e non per un abbaglio collettivo. Esso infatti ha dimensioni ben superiori a quelle registrate dai risultati delle recenti amministrative o dagli stessi sondaggi degli ultimi giorni; rende costantemente inadeguate le reazioni di sdegno «morale» delle quali è oggetto; non è concentrato nel «grillismo» et similia, esso dilaga non solo in periferia, ma anche nel cuore del sistema, come dimostrano alcune signorili insofferenze per la politica da parte dell'attuale governo tecnico. Per tutte queste ragioni l'antipolitica va capita nel suo insieme. Può anche essere contrastata, ma può esserlo solo dopo averne comprese le ragioni. Non è, come qualcuno pensa, un fenomeno irrazionale; irrazionale è pensare che lo sia e comportarsi come se lo fosse.
Una analisi fredda e non moralistica ci dice che l'antipolitica è figlia della crisi che ha corroso le forme vigenti della mediazione politica. Le istituzioni e le organizzazioni che dovrebbero collegare la verticalità della decisione politica con l'orizzontalità del consenso politico non sono più in grado di assicurare tale collegamento e finiscono per costituirsi in «caste», quando la sopravvivenza materiale resta l'unica preoccupazione.
È in queste condizioni che l'antipolitica si manifesta: con l'illusione di fare a meno della politica; di evitare la raccolta di consenso specificamente politico; di legittimare la decisione propriamente politica con la competenza scientifica o con l'indignazione; o magari con un misuso di «valori non negoziabili». Ma senza politica non c'è una società davvero civile: non perché la politica sia tutto, ma perché di una società civile e della sua evoluzione essa è una struttura necessaria.
Sta nell'attenta considerazione di questo dato strutturale la moralità del discorso sulla politica. Quel che caratterizza l'attuale momento storico è certo l'imporsi della globalizzazione e di sempre più elevati livelli di policentrismo e differenziazione del potere. Questi due fenomeni non hanno messo in discussione il valore e la funzione della politica, ma solo la propensione, tipica della modernità europeo continentale, di collegare decisione politica e consenso politico attraverso una rigida superiorità delle istituzioni politiche (in particolare dello Stato) sulla complessa realtà delle istituzioni sociali. Una superiorità cui ci siamo nel tempo abituati e sulle cui fortune molto ceto politico nostrano aveva costruito i propri interessi; ma la sua crisi è ormai evidente, quasi un processo senza argini.
La centralità dello Stato implicava infatti la sicurezza che esso fosse «scatola del sociale». Oggi il sociale globalizzato e policentrico è troppo complesso per tollerare scatole. La politica non può più essere «il signore dell'ambiente», ma può ancora essere un particolare sistema che garantisce una funzione dentro un ambiente fatto di tanti altri sistemi. La adeguatezza della politica non dipende più da quanto è grande e grossa (in quanto gestione del contenitore Stato), ma da quanto sa essere intelligentemente semplice, selettiva, «agonistica» avrebbe detto Sturzo, capace di risolvere in modo nuovo il problema della connessione tra decisione politica e consenso politico, tra verticalità ed orizzontalità della politica.
La questione non è solo italiana: la Ue stessa, nata con la vocazione di andare oltre lo Stato (si pensi alla Ceca o alla Ced), è oggi costretta a cercare una via di uscita dalla morsa fra fallimento da un lato e rigore tedesco dall'altro; e non serve in proposito rilanciare sempre una centralità della cultura statuale, magari sempre più grande; serve, in Italia come in Europa, una nuova cultura politica: con nuove organizzazioni che accettino la sfida di un policentrismo complesso, senza indulgere in tentativi di rilanci istituzionali destinati a una generosa inadeguatezza.
Più politica nuova e meno statualità, questa la strada. E si vedrebbe subito che i limiti radicali di ogni risposta meramente antipolitica stanno nel fatto che una società sufficientemente sviluppata non sopravvive sotto la cappa della politica, ma non sopravvive neppure senza politica. La negazione della politica è una ingenuità sociale. Evitare la fatica della raccolta di un consenso politico non rende più forti, ma più deboli, restare sulla mera indignazione non rende più forti, ma più deboli.
Che fare? Per quanto assennata, un'analisi non è mai la soluzione di un problema pratico (ad es. politico). I problemi politici accettano solo soluzioni politiche.
Nell'era dello Stato la verticalità politica e l'orizzontalità politica, la decisione e il consenso, erano tenuti insieme dai conflitti ideologici o dallo smisurato ricorso alla spesa pubblica (e all'inflazione). Tutto ciò non è più possibile e non funzionerebbe più. Dire che non abbiamo ancora elaborato una nuova cultura politica significa dire che di quei due superati meccanismi non abbiamo ancora trovato un adeguato equivalente funzionale. E va detto che in proposito il mantra del richiamo alla coesione sociale (il cui eccesso non è da temere meno del difetto) non è l'indicazione di un equivalente funzionale alla politica, ma la denuncia inconsapevole della sua mancanza.
Se questo è il problema, l'unica risposta che può funzionare è una risposta politica. Né professori né indignati. Non ogni risposta politica, ma una risposta politica: comunque maledettamente pratica. Se la natura non fa salti, l'evoluzione di una società ne fa ancor meno. Se una risposta politica adeguata si formerà, essa non potrà nascere che dal ristabilirsi, magari fortuito, di una relazione tra dei politici che abbiano il coraggio di «tradire» le loro cerchie, e dei cittadini che, pur avendone motivi, resistano alla tentazione scettica di essere semplicemente indignati.
Ce ne sono le condizioni? Difficile dirlo. Tuttavia per cominciare il percorso c'è da fare un primo passo, superare cioè la cultura (vincente per la maggior parte del Novecento) del fondamentalismo istituzionale, e far progredire una diversa cultura, quella della mediazione politica come solo una delle forme di mediazione sociale. Cultura dell'interesse generale la prima, cultura del bene comune la seconda. Per la prima la società è una massa ancora informe di interessi da ordinare in una «polis», per la seconda gli interessi sono sempre inter-essi (rete e rete di reti) in una logica di inclusiva «civitas». Per la prima la politica è sintesi, per la seconda è scelta tra scelte. La prima ha dato il meglio di sé nell'era del primato dello Stato grande contenitore, ormai però infinitamente complicato e costoso, a responsabilità confuse e non più imputabili. Mentre la seconda, con la sua implicita carica di poliarchia, potrebbe risultare più coerente con i processi di globalizzazione e con la regolazione dei crescenti conflitti sociali e antagonismi di potere. Essa non sta sopra, ma dentro la società. Con questa non si confonde, ma accetta influenze e sa di poter rispondere a queste con un certo grado di parzialità, nella ricerca del faticoso collegamento tra la decisione e consenso, tra orizzontalità e verticalità.
Sarà permesso di segnalare, in un periodo in cui si indulge a evidenziare l'irrilevanza politica dei cattolici, come a questa cultura abbia dato negli anni un contributo importante il cattolicesimo politico che, ben lungi dall'appiattirsi su certi schematismi o arcaismi della vecchia dottrina sociale della Chiesa, ha invece largamente contribuito a rinnovarla (si pensi a temi come libertà religiosa, democrazia o mercato). Ed è su quella strada, di maturazione di una cultura politica che stia dentro e non sopra la società e la sua evoluzione, che il mondo cattolico deve proseguire. Una strada lunga, ma irrinunciabile per dare senso alla sua presenza di lungo periodo e strutturale, al di là delle tante parole che circolano nel «partito cattolico».

Corriere 28.6.12
La grandezza di Edipo alla fine del cammino
A Colono cala il sipario sulla tragedia classica
di Paolo Beltramin


«Sofocle compose tragedie fino a tarda età. Siccome per questa passione sembrava trascurare la gestione del patrimonio familiare, fu portato in tribunale dai figli: volevano che i giudici lo dichiarassero infermo di mente. Allora il vecchio recitò ai giudici la tragedia che aveva appena scritto, e chiese loro se poteva essere l'opera di un vecchio demente. Fu subito assolto». La tragedia in questione è l'ultima di Sofocle, Edipo a Colono; e questo breve brano del De senectute — scritto da Cicerone oltre tre secoli dopo —, in qualche modo ne riassume i temi e la grandezza. La vita del grande tragediografo greco sembra intrecciarsi a quella del suo eroe per eccellenza, proprio nel momento in cui entrambi si trovano a un passo dalla morte. Come l'episodio biografico del processo a Sofocle, anche l'Edipo a Colono racconta di un vecchio solitario e abbandonato da tutti, di figli che tradiscono il padre, di un mondo dove ormai dominano la brama di denaro e di potere. Ma alla fine, sulla scena come in tribunale, anche questa volta la grandezza del protagonista riuscirà a risplendere per l'ultima volta.
Edipo a Colono, domani in edicola con il «Corriere della Sera», non è affatto un sequel, una semplice prosecuzione degli avvenimenti rappresentati nell'Edipo re. La tragedia anteriore, e più celebre — modello a cui si rifà Aristotele nella Poetica per elaborare il canone della drammaturgia classica —, è la rappresentazione della forza del destino, della potenza divina capace di piegare l'eroe anche nel pieno delle sue forze. Questa, oggi meno nota e molto meno rappresentata, è invece la tragedia della vecchiaia, e della fine di un'era. Messa in scena per la prima volta nel 401 a.C., è una tragedia postuma non solo al suo autore (morto alcuni mesi prima, appena terminata questa sua opera-testamento), ma anche all'ambiente culturale che rappresenta, l'Atene classica, sconfitta da Sparta nella guerra del Peloponneso e condannata a un inarrestabile declino. Anche il più giovane e moderno dei tragici greci, Euripide, ormai è morto, secondo una leggenda addirittura sbranato dai cani.
All'inizio della tragedia Edipo, vecchio e cieco, giunge a Colono accompagnato dalla figlia Antigone e presto raggiunto dall'altra figlia, Ismene. Il potente tiranno di Tebe ormai non è che un vagabondo, «straniero in terra straniera». Non è più un eroe perseguitato dagli dei, ma l'ultimo superstite di un mondo che non c'è più. Nell'Edipo re il dolore era frutto del destino, della volontà divina; ora le cause della sofferenza sono tutte umane, troppo umane. E la battaglia fratricida tra i figli di Edipo non è affatto la conseguenza di una catena della colpa mitica, ma lo specchio del declino della polis greca, vittima della sua stessa mania di potenza.
Come il vecchio Edipo, il novantenne Sofocle guarda al nuovo mondo con totale distacco esteriore, e insieme con un profondo dolore interiore. La vecchiaia comporta sconfitte, tradimenti, umiliazioni, ma anche una straordinaria lucidità. Insomma, si può dire che nel demo di Colono — il borgo alle porte di Atene dove il drammaturgo era nato nel 496 a.C., prima ancora delle guerre persiane — è ambientato il Re Lear della Grecia classica.
Quando Edipo è ormai vicino alla fine del suo cammino, il coro sembra non lasciare alcuna speranza: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale affanno mai sta lontano, quale pena mai non è presente? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue; e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia». Ma proprio nell'ultima scena, la figlia Antigone riesce a ribaltare questa prospettiva della morte (e della vita) come sofferenza senza scopo: «Perfino dei mali v'è rimpianto: ciò che non è affatto caro, pur mi era caro quando tenevo mio padre tra le braccia. O padre, o caro, o tu per sempre avvolto nelle tenebre sotterranee, neppure lontano ti mancherà mai l'amore mio e di mia sorella».
La morte dell'eroe non è rappresentata sulla scena. Edipo scompare misteriosamente, tra gli alberi del bosco sacro di Colono. Con questa dissolvenza termina la saga di un eroe sacer (termine con cui gli antichi indicavano non solo chi è sacro, ma anche chi è maledetto). Si chiude l'era in cui gli dei camminavano tra gli uomini. Si chiude l'opera dell'autore tragico più amato dagli ateniesi del tempo. Si chiude la brevissima e immortale storia della tragedia greca.

Corriere 28.6.12
Nel bosco sacro delle Eumenidi


Il trentacinquesimo volume della collana è dedicato a Edipo a Colono di Sofocle, con la nuova prefazione di Edoardo Boncinelli (va ricordato che da oggi «I classici del pensiero libero» sono disponibili anche in versione iPad, scaricando da Apple Store l'applicazione «Biblioteca del Corriere della Sera»). Edipo è stato «uno dei grandi caratteri tragici dell'antichità, che ha trovato in Sofocle il suo cantore d'eccezione», come illustra Boncinelli nella prefazione, e il retroscena della tragedia è quello, notorio, dell'Edipo re, quello «di un uomo travolto dagli eventi e costretto dal Fato a commettere infamie ed errori che lo porteranno all'orrore di sé e alla perdizione». Ma questo «seguito» narra invece la conclusione della vita del vecchio nella selva sacra alle Eumenidi, in uno spirito del tutto differente. Il dolore ha reso più umano Edipo, e le vicende delle successioni nell'ormai distante Tebe, degli scontri di potere, fanno risaltare ancora di più il lirismo di queste pagine: «Proprio ora che sono annientato sarei finalmente un uomo?». (i.b.)

Corriere 28.6.12
Ifigenia, l'unica eroina tra i guerrieri in crisi
Si immola con coraggio e Artemide la salva
di Paola Casella


«Alla fine, eccomi sconfitto nel modo più completo», dice Agamennone, al colmo dello sconforto, davanti al dilemma se sacrificare la figlia Ifigenia secondo il volere degli dèi, per permettere alla sua flotta di salpare e sconfiggere i troiani, oppure lasciar prevalere l'amore paterno, risparmiando la ragazza innocente. Ifigenia in Aulide è una delle tragedie più complesse di Euripide, perché mostra le ragioni di tutti, fornendo per ogni personaggio tanti buoni motivi per agire in una direzione come nella direzione opposta, e rendendo per il pubblico impossibile non immedesimarsi nel dilemma che li affligge.
Agamennone, re di Argo, è in guerra contro i troiani per difendere l'onore del fratello Menelao la cui sposa, Elena, «Paride il bovaro un dì si prese», come recita il coro con disprezzo. Per sacrificare Ifigenia, il re convoca la figlia con il pretesto di darla in sposa ad Achille, poi — dilaniato dai sensi di colpa — fa marcia indietro e manda un messaggero a fermarla. Ma Menelao intercetta il messaggero e si apre con Agamennone il primo dei numerosi dialoghi che mostrano il punto di vista di entrambi, con quella vivacità e immediatezza che caratterizzano l'opera di Euripide. Al battibecco tra i fratelli seguirà l'alterco fra Agamennone e sua moglie Clitemnestra, poi lo straziante confronto fra padre e figlia, infine il chiarimento fra Clitemnestra e Achille, che, ignaro di tutto, si ritrova a dover scegliere fra la difesa di una vergine e il proprio dovere di soldato.
Euripide racconta i personaggi illuminando la psicologia di ognuno e sollevando un'infinità di argomenti di riflessione: a cominciare dal discutibile privilegio di appartenere ad una classe sociale elevata, chiamata ad una maggiore responsabilità e sottoposta al giudizio del «volgo», cui «è concesso piangere senza ritegno», mentre la vita degli aristocratici «è condizionata dal prestigio sociale: siamo schiavi della massa», come dirà Agamennone.
Fondamentale è il contrasto dei ruoli e delle reazioni fra uomini e donne, contrasto dal quale Euripide fa emergere la statura tragica della figura femminile, l'unica eroina di questa storia di guerrieri leggendari: la tenera Ifigenia, che passa dallo scoprirsi vittima inconsapevole all'immolarsi volontariamente affinché l'Ellade trionfi in battaglia. Alla madre, «da cui ho imparato la dignità», Ifigenia lascia un monito che riguarda il fratellino Oreste: «Educalo, fanne un vero uomo». E Artemide, dea (non dio) della caccia, premierà il suo coraggio e la sua abnegazione, sostituendola all'ultimo momento con una cerva, permettendo alla sola Ifigenia di assurgere all'Olimpo.
Al confronto con la ragazza impallidisce Agamennone, il condottiero indeciso e riluttante, persuaso a «osare l'inaudito», ovvero uccidere la sua stessa figlia, tacciato dalla moglie di viltà e dal fratello di ambizione sfrenata. Così come appare patetico Menelao, che Agamennone schernisce: «Sogni di avere una sposa onesta? Non te la posso procurare. Quella che avevi, l'hai mal governata». Involontariamente comico sembra persino Achille, colto a metà fra il proprio personaggio di paladino dei deboli e la propria fama di combattente, più preoccupato di difendere la propria «mitica» reputazione che la vita di una ragazza innocente. Dal paragone con l'eroica Ifigenia escono perdenti persino gli dèi, «seduti a dilettarsi al variegato combinarsi delle pedine», laddove le pedine saremmo noi esseri umani.
Ifigenia in Aulide, sabato in edicola con il «Corriere della Sera», è una tragedia di sotterfugi ed equivoci, di piccole meschinità e grandi bugie, che rendono ancora più straziante la sorte della protagonista. Euripide prende la leggenda, già raccontata da altri (vedi Eschilo nell'Orestea) nelle sue linee essenziali, e ne arricchisce ogni singolo snodo di uno spessore introspettivo di vertiginosa profondità, creando contrasti fra i personaggi che ne illuminano il carattere individuale e ne accentuano il portato drammatico. Indimenticabile il dialogo fra l'ignara Ifigenia e il padre che l'accoglie piangendo: «Queste lacrime, perché?», chiede sorpresa la fanciulla. «Lunga è la lontananza che ci attende», risponde il padre, disperato. «Quante vittime occorreranno per il rito?», domanda ingenua la ragazza, che sa che ci sarà un sacrificio propiziatorio. «Lo vedrai di persona», conclude criptico il padre, mormorando a se stesso (e a noi): «Beata te, che nulla intendi!».

Corriere 28.6.12
I turbamenti della polis


Con il volume dedicato all'Ifigenia in Aulide di Euripide, continua la collana dedicata ai classici dal «Corriere della Sera» (e adesso «I classici del pensiero libero» sono disponibili anche in versione iPad, scaricando da Apple Store l'applicazione «Biblioteca del Corriere della Sera»). In quest'opera è possibile osservare il mutamento dei caratteri tragici rispetto ad esempi più antichi, come sottolinea Eva Cantarella nella prefazione inedita al volume: Agamennone decide di sacrificare la figlia Ifigenia affinché gli dèi propizino la partenza delle navi alla volta di Troia, ma un susseguirsi di ripensamenti, intercessioni, preghiere e interventi di eroi o dèi mostra come ciascun personaggio sia «un uomo insicuro, che decide, si pente, si pente di essersi pentito e torna alla prima decisione». E proprio per questo rivela i cambiamenti nella società ateniese, impegnata nella guerra del Peloponneso e attraversata da profondi turbamenti, e costituisce dunque un documento di notevole interesse per la conoscenza del mondo antico. (i.b.)