venerdì 29 giugno 2012

l’Unità 29.6.12
I Progressisti Ue: decisivo il vincolo di solidarietà
Il vertice dei socialisti e dei democratici rilancia le proposte per la crescita e per la riduzione degli spread
Bersani: «Vanno prese decisioni chiare e incisive»
di Ninni Andriolo


È dell’Italia che si parla molto nel preconsiglio dei primi ministri e dei leader socialisti e progressisti europei che si riunisce in preparazione del summit Ue dei 27. «Possiamo anche discutere della struttura dell’Ue per i prossimi dieci giorni così Martin Schulz, annunciava il suo intervento al Consiglio europeo sul suo profilo twitter Ma la crisi dei debiti sovrani in Italia e in altri Paesi ha bisogno di risposte adesso». Crescita da una parte e misure per ridurre la pressione degli spread sugli Stati dall’altra: questa la ricetta del presidente tedesco del Parlamento di Strasburgo che chiama indirettamente in causa la cancelliera tedesca Angela Merkel.
L’esponente Spd è intervenuto per primo, ieri, al summit dei capi di Stato e di governo ponendo con forza il tema dei prezzi altissimi che potrebbe pagare l’Europa se non si opera subito per «allentare la pressione dei tassi che pesa su alcuni Stati membri»: Italia, Spagna, Portogallo, ecc. Schulz, così, si fa interprete della preoccupazione evidente nel prevertice al quale hanno partecipato, tra gli altri, gli italiani Bersani, D’Alema, Bresso e Nencini, il belga Di Rupo, i greci Venizelos e Papandreou, gli spagnoli Almunia e Rubalcaba, il portoghese Seguro. «L’Europa si smarrisce se si sgretola il vincolo di solidarietà che deve tenere assieme i suoi popoli e i suoi stati», spiega chi ha contribuito alla preparazione del documento finale.
Lo stesso documento che ripropone idee elaborate anche in Italia in un’ottica europea. «Non per interessi di bottega di questa o quella nazione, ma perché farsi carico di un Paese in difficoltà impedisce che vada in crisi l’intera Europa». E il testo approvato ieri a Bruxelles ripropone, con parole diverse, la golden rule che consente di scorporare dal computo del debito le spese per investimenti; misure per assicurare «la stabilità finanziaria» attraverso la riproposizione degli scudi anti-spread per i Paesi che hanno avviato un percorso «virtuoso». Misure immediate che tuttavia non archiviano la discussione sugli eurobond che «rimane sul tavolo», queste. Iniziative di cui si è parlato in Italia in queste settimane e che lo stesso Monti ha messo in campo tenendo conto dei veti di Angela Merkel. Mentre un esponente del Pd come Vincenzo Visco aveva elaborato già un anno e mezzo fa l’idea di un Redemption fund per la messa in comune del debito che supera il 60% del Pil con garanzie chiare sulle esposizioni dei singoli Paesi in modo che questi non gravino sugli altri. Una proposta fatta propria dal documento dei socialisti e dei progressisti europei.
«Il Pd lavora in un ottica europea guardando all’Italia, ma non solo agli interessi del nostro Paese», spiegano da Largo del Nazareno. Il Pd e Monti si danno reciprocamente una mano nell’allargare il campo delle alleanze europee per intaccare le rigidezze della Merkel. «Devono essere prese decisioni chiare che spieghino bene al mondo quali sono le intenzioni dell’Europa spiega Bersani. Bisogna mettere un freno alla speculazione sugli spread, adottare misure per la riduzione degli interessi sul debito, trovare coordinamenti per la sicurezza dei conti bancari, dare margini per la ripresa di una politica di investimenti e per il lavoro». Questi obiettivi, aggiunge il segretario democratico, «hanno dentro molte proposte tecniche che incrociano ciò che stiamo dicendo in Italia sia come Pd che come governo Monti».
Messaggio alla Germania, quindi. «Tutte queste proposte non comportano azzardi morali assicura il leader Pd o il fatto che un Paese faccia regali all’altro. Ma implicano meccanismi di cooperazione che fanno guadagnare l’intero sistema». Gli eurobond? «In questo momento non sono il punto essenziale aggiunge Bersani bisogna continuare a discuterne, ma i due obiettivi di limitare la forbice tra gli spread e di abbassare gli interessi sul debito si possono raggiungere a prescindere». La Spd tedesca, in realtà, non ha voluto spingersi in là sul tema degli eurobond. Nel documento finale del prevertice di ieri si propone, tra l’altro, una tassa europea sulle transazioni finanziarie che potrebbe dare un gettito di 100 miliardi di euro l’anno. Pse e progressisti chiedono anche i project bond e la separazione fra banche commerciali e banche di investimento. Il preambolo del documento, infine, invita la Ue a riallocare «tutti i fondi disponibili» per la formazione e l’occupazione giovanile. Mentre la priorità deve riguardare «la crescita»

l’Unità 29.6.12
Marchionne: «Folklore locale»
Confindustria: «Siamo negli abissi, crisi peggiore della guerra»
Il commento di Guglielmo Epifani:
«Il momento della verità. L’economia reale ci impone di cambiare rotta»


I dati dell’ufficio studi di Confindustria offrono una fotografia davvero preoccupante: un Pil in calo di oltre il 2% per quest’anno, e in calo ancora per il 2013, un pareggio di bilancio che si allontana, una flessione degli investimenti, dei consumi e del potere di acquisto delle famiglie, un aumento costante della disoccupazione.
Questo quadro, per quanto noto a chi conosce la realtà vera del Paese, rende però indifferibile una verifica onesta dei provvedimenti presi fino ad oggi dal governo e della loro efficacia, non tanto ai fini di una ritrovata credibilità internazionale, che fortunatamente è stata ristabilita, quanto dell’effettivo contrasto alla crisi.
Da questo punto di vista il vertice dei capi di governo ha una responsabilità storica. Una parte dell’edificio europeo sta bruciando e il contagio sta crescendo, creando una trappola che mette in ginocchio cittadini e imprese, minando le fondamenta stesse della moneta unica e dei trattati. Ogni Paese arriva a Bruxelles con le proprie ragioni e i propri interessi ma la moneta unica esige un compromesso comune, in assenza del quale la crisi da monetaria diventerà immediatamente una crisi politica. Per l’Italia il passaggio assume le caratteristiche di un guado decisivo, e non perché tocca agli altri affrontare o risolvere problemi che sono nostri, ma perché non è giusto né accettabile che l’incertezza europea renda ancora più pesante la strada del nostro Un compromesso basato su una delle tante soluzioni presentate ci
può aiutare nelle scelte che dovremo fare comunque; un risultato negativo renderebbe tutto più difficile ma altrettanto necessario. Quello che difficilmente può essere accettato dai nostri interessi è il protrarsi di una situazione di stallo e di incertezza, nella quale non si delinei nessuna via di uscita dalla crisi. Altri possono aspettare, come in fondo propongono le ultime considerazioni del cancelliere tedesco: noi abbiamo il bisogno di non perdere altro tempo e trovare da subito un bandolo per dipanare una matassa tanto complessa quanto pericolosa.
Da questo punto di vista, i dati di Confindustria hanno il merito di non abbellire né di sfumare la durezza del momento, riportando al centro dell’attenzione l’economia reale, con i problemi in carne e ossa di giovani, lavoratori e imprese. E anche di distribuire critiche e osservazioni, per la prima volta dopo tanti anni, sufficientemente oneste ed equilibrate. Per questo da lunedì, chiuso il vertice con i risultati che vedremo, ci sarà in ogni caso la necessità di provare a cambiare registro. Se il Paese non può restare in una lunga agonia e in una troppo lunga transizione verso non si sa dove, e se i provvedimenti presi fino ad oggi su tasse sulla casa, riforma previdenziale (pesantissima e iniqua), stimoli all’economia (modesti fino all’eccesso), e riforma del mercato del lavoro (assolutamente discutibile) non danno risultati effettivi, allora bisognerà pensare di cambiare l’asse e le priorità degli interventi.
Laddove non arrivano i suggerimenti della Banca centrale, altre strade fino ad oggi non prese in considerazione possono essere percorse. Da un lato bisogna provare a ridurre e ristrutturare lo stock del debito, dall’altro stimolare investimenti e domanda, anche trovando i modi per fare affluire la liquidità necessaria a imprese e famiglie. Qualcuno, negli ultimi giorni, l’ha chiamata la soluzione B; altri da tempo hanno avanzato proposte per un’operazione dai caratteri straordinari. Lo stesso governo ultimamente ha predisposto contenitori e società con finalità che si possono avvicinare, anche se non ancora nelle quantità, allo stesso obiettivo. Si tratta ora di scegliere, studiando bene le soluzioni anche dal punto di vista dell’equità sociale, e di affrontare il nodo dal suo fondamento. Insieme, utilizzando una parte di tali risorse, bisogna sostenere l’economia reale, dopo che per responsabilità del centrodestra restiamo l’unico Paese in Europa che non ha fatto, durante l’arco della crisi, alcuna manovra di stimolo anticlica.
Non si tratta di scelte facili, ma abbiamo una ragionevole possibilità di uscire dalla spirale recessione-debito in altro modo? E ancora: possiamo continuare a galleggiare, bruciando risorse e lavoro giorno dopo giorno? Stare fermi, mettere tamponi dalla discutibile utilità, sommare tanti piccoli interventi iniqui e anche occasionali, è forse una via migliore? L’unico vero problema può essere rappresentato dalla fragilità dell’equilibrio politico, e dagli incerti atteggiamenti di una parte dello schieramento che sostiene il governo. Ma anche su questo aspetto vale in fondo la stessa considerazione: meglio misurarsi con un progetto alto e con una scommessa di fondo che tirare a campare, finendo con il logorare tutti, la parte buona e quella che ha le responsabilità più grandi, chi ha a cuore il destino comune e chi lavora per propri e circoscritti interessi.

il Fatto 29.6.12
Corte dei conti: “Zoccolo duro dell’evasione appena scalfito”


Sul piano della lotta all'evasione e della riscossione coattiva è stato dispiegato uno sforzo straordinario e sono stati conseguiti risultati altrettanto straordinari ma lo zoccolo duro è stato appena scalfito”. Lo sottolinea il procuratore generale della Corte dei Conti, Salvatore Nottola, nel giudizio sul Rendiconto generale dello Stato. Che lancia l’allarme anche sul fenomeno delle consulenze e delle collaborazioni affidate a soggetti esterni alla pubblica amministrazione che è “rilevante ed inquietante nonostante gli interventi normativi tesi a ridurlo”. Secondo la Corte, “il fenomeno spesso nasconde fattispecie di elusione delle norme di riduzione del personale, con la vanificazione delle conseguenti economie, o ipotesi più gravi e inaccettabili quali la concessione di favori o addirittura illecite dazioni”. La Corte inoltre loda i tagli della spesa pubblica, ma avverte: attenzione a non mantenerli per un lungo periodo, perchè potrebbe innescare un circolo vizioso che bloccherebbe la crescita.

Corriere 29.6.12
La tassa-corruzione: 40% in più sui lavori pubblici
Il 17% degli italiani dice di aver ricevuto un'offerta o una richiesta di mazzette
Ma la legge per contrastarle arranca
di Sergio Rizzo


ROMA — Se la legge contro i corrotti arranca da ventotto mesi in Parlamento fra distinguo e mal di pancia travestiti da ansie garantiste, la corruzione avanza invece senza flessioni. Non lo dicono soltanto gli organismi internazionali, che nelle classifiche della vergogna ci hanno relegati dietro Paesi del Terzo mondo. Lo ricorda a ogni occasione anche la Corte dei conti. Ieri, per bocca del procuratore generale Salvatore Nottola, ci ha sbattuto in faccia questo dato: 40%. È la «lievitazione straordinaria che colpisce i costi delle grandi opere» a causa della corruzione. Tradotto, per un lavoro pubblico che dovrebbe costare 50 milioni ne paghiamo in realtà 70. Venti milioni se ne vanno mediamente in mazzette. Un dato impressionante, che fa ben capire perché, ormai da anni, la Corte dei conti indica in 60 miliardi di euro il peso che ogni anno il malaffare fa gravare sui contribuenti. Una somma che potrebbe quasi bastare a coprire gli interessi sul nostro mostruoso debito pubblico, e che rappresenta la metà dell'intero fatturato della corruzione nell'Unione Europea. La relazione della Commissione di Bruxelles al Parlamento europeo ha stimato giusto un anno fa in 120 miliardi di euro le dimensioni continentali della piaga. Si tratta dell'1% del Prodotto interno lordo dell'Ue, contro poco meno del 4% in Italia.
Ma a preoccupare maggiormente la Corte dei conti, che nella memoria del procuratore al giudizio sul rendiconto generale dello Stato dedica un lungo capitolo curato da Alessandra Pomponio, è il fatto che questo andazzo indecente non accenna ad attenuarsi. Da brivido sono le conclusioni a cui giunge, parlando dell'Italia, il rapporto stilato dal Greco (Group of states against corruption) lo scorso anno: «La corruzione è profondamente radicata in diverse aree della pubblica amministrazione, nella società civile, così come nel settore privato. Il pagamento di tangenti sembra pratica comune per ottenere licenze e permessi, contratti pubblici, finanziamenti, per superare gli esami universitari, esercitare la professione medica, stringere accordi nel settore calcistico». Conclusione: «La corruzione in Italia è un fenomeno pervasivo e sistemico che influenza la società nel suo complesso». Quanto alle forme che assume, sono le più varie. Anche le consulenze della pubblica amministrazione. Un fenomeno, dice la Corte dei conti, «sempre rilevante e inquietante nonostante gli interventi normativi tesi a ridurlo» che «spesso nasconde fattispecie di elusione delle norme di riduzione del personale» quando non «ipotesi più gravi e inaccettabili quali la concessione di favori o addirittura illecite dazioni».
In una delibera del settembre 2011 sul disegno di legge anticorruzione che era appena passato dal Senato alla Camera, i giudici contabili presieduti da Luigi Giampaolino rimarcavano come nel 2010 le quattro sezioni d'appello della Corte dei conti avessero confermato 47 sentenze per danno erariale condannando 90 dipendenti pubblici a risarcire l'Erario per 32,2 milioni. Precisando che ventisei di tali sentenze, oltre metà del totale, hanno riguardato reati di corruzione e concussione: il doppio rispetto al peculato e alla appropriazione indebita.
Il tutto, nella più completa indifferenza. Il primo rapporto del Greco sull'Italia, nel 2009, rivolgeva ben 22 raccomandazioni al nostro governo, cominciando proprio da una normativa per prevenire e colpire con durezza corruzione e concussione. Salvo rilevare, in un successivo rapporto del maggio 2011, che quelle «raccomandazioni» erano cadute pressoché nel vuoto. Il disegno di legge contro la corruzione, presentato dal governo di Silvio Berlusconi il primo marzo del 2010, non aveva ancora superato il primo passaggio parlamentare.
Il rapporto della Corte dei conti ricorda i risultati micidiali di un sondaggio dell'Eurobarometro risalente al 2009, secondo cui «i cittadini italiani che avevano ricevuto la richiesta o l'offerta di una tangente negli ultimi mesi di riferimento erano pari al 17 per cento, quasi il doppio di una media europea del 9 per cento». Per non parlare, insiste Alessandra Pomponio, di una rilevazione del Global corruption barometer che ha rivelato come fra il 2009 e il 2010 il 13 per cento degli italiani avesse ammesso il pagamento di tangenti per avere accesso a servizi pubblici. Ma anche per risolvere guai con il fisco, evitare problemi con le autorità, accelerare le procedure oppure ottenere da un ufficio pubblico una prestazione a cui aveva diritto. La media dei Paesi europei era del 5 per cento.
Non ci può dunque stupire se una organizzazione autorevole come Transparency International colloca l'Italia al posto numero 69, su 182 nazioni, nella classifica della corruzione percepita. E che la posizione peggiori anno dopo anno. Nel 2010 occupavamo la casella numero 67, mentre nel 2001 eravamo appena ventinovesimi: bei tempi. Nottola rammenta che in base alle stime di Transparency International Italia, «ogni punto di discesa nella classifica di percezione della corruzione provoca la perdita del 16 per cento degli investimenti dall'estero». Sarà un caso che il nostro Paese è in fondo anche a questa classifica europea?

Corriere 29.6.12
Un'azienda su 5 «inquinata» dalla corruzione
di M. Ger.


Un'azienda su cinque è «inquinata» dalla corruzione. È il risultato dell'indagine effettuata da Kroll su un campione rappresentativo di aziende italiane con attività internazionali. I contenuti, resi noti ieri dal gruppo leader mondiale nelle investigazioni e nella consulenza sul rischio, si riassumono in un dato: nel 2011 oltre 19% delle aziende è stato colpito dal reato di corruzione, quasi il doppio rispetto al 10% del 2010. Nel 2010 il 38% delle imprese si riteneva altamente o moderatamente vulnerabile, nel 2011 il 47% ha manifestato seria preoccupazione. Dati utili nel momento in cui arriva alle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato il ddl anticorruzione. «Un numero sempre maggiore di imprese italiane si rivolge a Kroll per problematiche relative alla corruzione — spiega Marianna Vintiadis, country manager di Kroll —. La preoccupazione derivante dall'extraterritorialità di molte leggi in vigore e dagli elevati costi delle sanzioni, unita alle evidenti ricadute reputazionali, hanno segnato una svolta decisiva».

Corriere 29.6.12
Montepaschi, senza utili dovrà pagare il Tesoro in azioni
di F. Mas.


MILANO — Il Tesoro, corso ieri in aiuto di Mps con 3,9 miliardi sotto forma di Tremonti bond, potrebbe diventare anche azionista diretto della banca. La nuova versione dei Tremonti bond prevede che se non ci sono (o sono insufficienti) «utili distribuibili» la banca assegna al Tesoro «azioni di nuova emissione per una quota del patrimonio netto» pari alla cedola non corrisposta»; nella prima versione — già sottoscritta da Mps per 1,9 miliardi e destinata a essere rinnovata — in mancanza di utili il Tremonti bond non sarebbe stato remunerato. Se il tasso delle nuove obbligazioni sarà confermato al 9%, la cedola sui 3,9 miliardi massimi ammonterebbe a circa 350 milioni l'anno. Se pagati in azioni calcolate sul patrimonio netto, secondo stime della banca, il Tesoro potrebbe ricevere lo 0,7-0,8% di Mps. E non è chiaro se nel 2013, primo anno di pagamento, la banca avrà utili. Anche sui dividendi l'amministratore delegato Fabrizio Viola ha detto ieri che Mps «non sarà generoso con i dividendi» nei prossimi tre anni e ha spiegato che nuove svalutazioni degli avviamenti sono in arrivo con i conti del primo semestre. E anche in Borsa il titolo ha perso il 3,5% a 0,185 euro. Ieri è maturata anche la rottura con i sindacati per il piano che prevede 4.600 dipendenti in meno su 31 mila totali tra società cedute, pensionamenti e altre uscite. Fabi, Fiba, Fisac, Uilca, Ugl, Dircredito hanno accusato Viola e il presidente Alessandro Profumo di «arroganza» verso i lavoratori e di «approssimazione» nel piano industriale, annunciando uno sciopero.

Repubblica 29.6.12
A migliaia clandestini per la crisi


PER la crisi, almeno 500 mila lavoratori immigrati licenziati negli ultimi due anni hanno perso il permesso di soggiorno e da allora vivono da irregolari. È l’allarme lanciato dalla Cgil. Il sindacato ha chiesto ieri al governo una norma “di salvataggio” che regolarizzi gli stranieri che hanno perso il posto o che ne hanno trovato uno in nero. Chiesta anche la concessione di un permesso di soggiorno di protezione per le vittime di sfruttamento che denunciano i loro sfruttatori.

il Fatto 29.6.12
La Fornero dopo la gaffe annulla il convegno sull’occupazione
Lavoro, la Costituzione è già stata calpestata?
Interventi di Furio Colombo e Lorenza Carlassare
Gli articoli della Carta
di Sal. Can.


Il giorno dopo la “gaffe” del “Wall Street Journal”, il ministro Fornero annulla tutti gli impegni. In particolare lascia delusa l'amministrazione milanese, a cominciare dal sindaco Pisapia, che l'aveva voluto ospite d'onore al convegno “Fondata sul Lavoro” in cui sarebbero dovuti intervenire anche i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil e il presidente di Confindustria. Ma l'appuntamento previsto nel pomeriggio di ieri è saltato per l'indisponibilità del ministro comunicata in mattinata al sindaco di Milano. Un modo per non esporsi dopo le polemiche? Può darsi. Resta il fatto che Elsa Fornero rimane il ministro più contestato dell'esecutivo con un'esposizione mediatica spesso negativa. Il dibattito sul rapporto con la Costituzione, poi, resta del tutto aperto e a questa discussione si agganciano le testimonianze raccolte oggi dal “Fatto Quotidiano”.

Furio Colombo: Lost in translation
Se lo chiedono in molti, non solo in questo giornale. Perchè le "gaffes". O meglio perché appaiono "gaffes" espressioni di pensiero che sono state dette e ridette da quando esistono i think tank vicini alle imprese e lontane dal lavoro, in cui l'unico tema di discussione è sempre e soltanto il costo del lavoro? Vorrei intervenire in questa disputa ricordando che Elsa Fornero non è affatto la voce più "a destra" che si sia ascoltata in Italia, dal tempo in cui il socialista Brodolini riuscì a scrivere e a far approvare lo Statuto dei Lavoratori. È molto più estrema e sgraziata la voce della Confindustria di Squinzi che parla di "boiata", ma solo perché non si licenzia abbastanza. Aveva spazio per agire diversamente la Fornero (ovvero Monti)? Credo di no. Monti va a discutere, ma prima gli hanno detto che cosa doveva esserci in valigia. C'è roba che a noi non serve, ma la richiesta è stata perentoria. Il fatto è che Fornero è un docente e non un politico. Il politico avrebbe forse fatto capire lo stato di necessità. L'intellettuale si batte per avere quella parte di ragione che pensa di avere. Faccio notare che frasi come la sua sono state pronunciate in questo Paese da tutte le voci di Confindustria, con imprenditori vecchi e giovani da decenni. Però mai l'on. Di Pietro ha commentato parole identiche a quelle di Fornero quando tutto il mondo conservatore italiano le ha pronunciate ai livelli più alti. Quanto al contrasto stridente tra certe frasi della Fornero e la Costituzione, ho visto che l'articolo de "Il Fatto" (26 giugno) ha già fatto notare l'errore di traduzione. “Job” vuol dire specifico posto di lavoro, e di esso si può dire che te lo devi meritare senza violare la Costituzione. “Work” è il lavoro sia come descrizione del fare una cosa, sia come descrizione di un vasto settore della vita organizzata. A quanto pare Fornero voleva dire “job” e ha detto (o le hanno fatto dire) “work”. Dunque la discussione con lei e su di lei, come quella con Monti e su Monti, va riportata nell'ambito di una conversazione meno stravolta, persino se quella italiana, oggi, e ormai da troppo tempo, è una vita stravolta.

Lorenza Carlassare: Colpa delle norme in contrasto
L’art.1 proclama la Repubblica “fondata sul lavoro” e già la collocazione assume valore simbolico. La formula, sottolinea Mortati, intende “invertire il valore ai due termini del rapporto proprietà-lavoro, conferendo la preminenza a quest’ultimo sul primo”. Tutelando il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” l’art.35 intende riferirsi al lavoro non solo manuale, ma anche spirituale e morale. L’art.4 oltre a riconoscere il diritto al lavoro impone alla Repubblica di promuovere le condizioni che lo rendono effettivo. Non è un’inutile proclamazione, ma ha conseguenze giuridiche precise. La Corte lo ha detto chiaramente. E’ un diritto sociale che obbliga lo Stato a una politica di sviluppo economico indirizzata a determinare “una situazione di fatto tale da aprire concretamente alla generalità dei cittadini la possibilità di procurarsi un posto di lavoro” (sent.61/ 1965, 105/1963). Neppure sulla conservazione del posto l’art.4 è privo di effetti: se il diritto al lavoro non è diritto ad ottenere un’occupazione, “ciò non esclude che per i rapporti già costituiti si imponga un’adeguata protezione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro” (Corte costituzionale,sent.45/1965). Così la libertà di recedere dal rapporto a tempo indeterminato era di-venuta residuale; ora la situazione si sta rovesciando in una politica che tende ad annientare l’intero sistema sociale previsto in Costituzione: ma questa parte è fondamentale nel disegno di una Costituzione fondata sulla persona e la sua dignità. Nonostante l’art.36 la retribuzione e i tempi del lavoro sono ignorati: “la durata massima della giornata lavorativa” sembra dilatarsi a dismisura. Siamo – come dice Rodotà al “neomedievalismo istituzionale”. Diritti e garanzie che circondano il lavoro non si possono infrangere: neppure il diritto a “mezzi adeguati” alle esigenze di vita assicurato ai lavoratori, anche in caso di disoccupazione involontaria: l’art. 38 è infatti una norma che da sostanza al diritto al lavoro quando il lavoro non c’è. La Costituzione pone un chiaro ordine di priorità: primo il lavoro, legato alla dignità della persona. Norme in contrasto sono incostituzionali e i giuristi hanno grosse responsabilità.

CARTA CANTA
ART. 1
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
ART. 4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
ART. 35
La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.
ART. 36
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
ART. 37
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.
ART. 38
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera.

il Fatto 29.6.12
Quant’è duro rinunciare a un tesoro
Nonostante i proclami, i partiti non mollano i loro 180 milioni di rimborsi
di Wanda Marra


Lunedì in Consiglio dei ministri il governo farà il decreto”. È Carlo Vizzini, relatore dimissionario del ddl sulle riforme costituzionali ad annunciarlo in Commissione. Sta parlando dello sbandierato dimezzamento della rata dei rimborsi ai partiti per il 2012 ben 180 milioni di euro e rotti complessivi con la conseguente destinazione dei soldi risparmiati – 91 milioni di euro – ai terremotati dell’Emilia. Vizzini annuncia che ad annunciarglielo è stato il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi. Strana soluzione: che c’entra la Funzione pubblica con i partiti? Peraltro, tra tutti i Cdm possibili, quello di lunedì promette di essere tra i più movimentati, visto che dovrà “fronteggiare” i risultati del vertice europeo.
SOLO l’ultima barzelletta (e l’ennesimo rimando) di una storia che più si va avanti più diventa surreale: approvare in via definitiva il ddl che taglia il finanziamento, dopo il sì di Montecitorio, sarebbe dovuto toccare al Senato. Ma la cosa è andata per le lunghe, tanto che è stato lanciato l’allarme: mancano i tempi tecnici per riuscire ad approvare il testo in tempo da bloccare la legge. Scadono all’inizio di luglio, tuonano i Radicali. Poi si capisce che in realtà si può arrivare a metà mese. Nel frattempo il governo fa un gioco di rimpalli: “Approviamo noi il decreto”. Poi: “No, forse Palazzo Madama ce la fa a licenziare la legge”. Di nuovo: “Anzi no, tranquilli il decreto lo approviamo noi”.
Evidentemente c’è un problema. E il problema sta nelle cifre ricevute dai singoli partiti, che per quanto abnormi di fatto fino ad ora non sono riuscite ad evitare bilanci perennemente in passivo. Figuriamoci se si ridurranno della metà (o giù di lì: i tecnici della Camera dicono che finché non c’è una legge precisa, non si possono fare conti precisi”). Prendiamo il Pdl: negli ultimi 4 anni ha ricevuto ben 238 milioni di euro, solo per chiudere con un disavanzo di poco meno di 6 milioni nell’ultimo rendiconto pubblicato, quello del 2010. L’ultimo bilancio l’ha approvato in una riunione lampo martedì, ma non è dato sapere con quali esiti: lo pubblicheranno domani, dicono dal partito. Ad ogni modo, previsioni fosche erano state avanzate dallo stesso tesoriere, Rocco Crimi, nonostante il fatto che nel 2011 nelle casse del partito di Berlusconi fossero arrivati quasi 69 milioni di euro. E se fossero la metà quest’anno?
IL PD dal 2008 ad oggi ha ricevuto 200 milioni di euro, eppure il tesoriere, Antonio Misiani, confessava al Fatto lo scorso aprile un disavanzo di 43 milioni, ammettendo senza mezzi termini che senza i soldi dei rimborsi il partito non poteva sopravvivere. Nel 2011 ha ricevuto poco meno di 58 milioni di euro. Il rendiconto per lo stesso anno si chiude con un attivo di 3 milioni e mezzo di euro. Con una cifra di circa 30 di milioni in meno, cosa ne sarebbe dei Democratici?. Lo stesso Misiani, presentando i conti, ha parlato di “uno scenario radicalmente nuovo”, che “ci dovrà portare a cambiare profondamente il nostro modello di partito”. Insomma, “la scommessa è un grande progetto di autofinanziamento e una drastica riduzione dei nostri costi, a partire da quelli di struttura”. Scommessa quanto meno difficile, visto che – secondo lo stesso rendiconto – le entrate complessive del partito per il 2011 si attestavano a 63 milioni di euro e mezzo. Il Pd peraltro sta sbandierando in tutti i modi, con tanto di volantino ad hoc, che comunque vada destinerà i soldi ai terremotati. Aspettare per vedere. Ma certo, una cosa è una legge, un’altra una eventuale donazione liberale.
D’ALTRA parte, pure l’Udc registrava nel 2010 una perdita di 3,2 milioni di euro. Quest’anno gliene sarebbero dovuto arrivare 9 milioni, ora si parla di 4 e mezzo. E in tutti i partiti, nessuno escluso, i rimborsi elettorali rappresentano la stragrande maggioranza delle entrate complessive. Senza contare “l’ombra” rappresentata dai partiti morti. I Ds, secondo il bilancio appena reso noto, partito morto e dunque non beneficiario di rimborsi, hanno circa 150 milioni di debiti. Nonostante ben 2.399 immobili, in gran parte (1.819) “utilizzati dalle organizzazioni territoriali del Partito democratico (...) nella maggior parte dei casi con comodato d’uso gratuito”. E se a un certo punto il tesoriere Sposetti per far fronte ai debiti chiedesse un affitto?
Non se la cava bene neanche un altro partito morto, An: che al 31 dicembre 2011 secondo il bilancio pubblicato ieri sul Secolo denunciava un disavanzo di 4 milioni e 700mila euro.

l’Unità 29.6.12
Legge elettorale?
No al premio di coalizione
di Michele Prospero


Anche con gli avversari più irriducibili è talvolta necessario stringere intese tattiche per gestire una manutenzione ordinaria delle regole del gioco comuni. Fa parte della politica il momento del compromesso che, anche nelle fasi storiche più convulse, si applica almeno su talune questioni istituzionali.Con questa destra è però davvero arduo mantenere saldo un principio base della politica che, oltre al conflitto aperto, prevede anche il tempo della contrattazione per intervenire, con alcuni ritocchi concordati, su istituzioni che mostrano segnali di usura.
Il fatto è che, dopo il baratto sconcio tra Senato federale e presidenzialismo, la via del dialogo in aula per rottamare una mostruosità giuridica come il Porcellum pare ostruita. A destra non ci sono degli interlocutori credibili, che pensano in termini di sistema. Innescare la bomba del presidenzialismo a pochi mesi dalla scadenza naturale della legislatura è la prova della mancanza completa di una cultura dello Stato nelle forze orfane del defunto «asse del Nord». Sostenere che il presidenzialismo si può innestare nella Costituzione vigente in appena sei mesi di lavoro forzato, e poi proporre uno scambio con la sinistra che prevede la gentile concessione del doppio turno elettorale, è un ennesimo indizio di sfrontata improvvisazione istituzionale.
È del tutto evidente che il presidenzialismo, da imporre con la provocazione di un emendamento, rompe tutti gli ingranaggi del sistema costituzionale vigente. L’investitura plebiscitaria di un capo priva la Repubblica di un prezioso momento di equilibrio super partes. Offrire, come ricompensa ai soccombenti custodi della Costituzione, la promessa dell’adozione del doppio turno elettorale in cambio di un loro benevolo lasciapassare, è una scempiaggine. Non esiste alcun nesso stringente tra la formula di traduzione dei voti in seggi parlamentari e il regime presidenziale. L’elezione popolare del Capo dello Stato è la sostanza vera, il metodo elettorale per esprimere i deputati è invece solo il contorno effimero. Il mito della unzione carismatica di un grande decisore, affrancato dai partiti imbelli, è l’ultimo gioco di prestigio che resta al Cavaliere incantatore per tentare ancora una volta di manipolare gli elettori indossando gli abiti ingannevoli dell’uomo nuovo del destino.
La carta della seduzione plebiscitaria viene gettata sul tavolo per conservare in extremis gli equilibri ormai infranti della Seconda Repubblica. Un capo assoluto, e al seguito della sua carrozza di commissario una coalizione eterogenea di liste civiche collegate, è il sogno reiterato di una destra che non vuole ridestarsi dagli incubi di un bipolarismo molto malato. Il Porcellum, per questa destra infarcita di dozzinale populismo, è una grande ideologia, non un semplice incidente di percorso. La porcata escogitata da Calderoli è un enorme e irrinunciabile condensato di valori. È quanto di più si avvicina a una contesa plebiscitaria tra capi solitari che, con il nome inserito sulla scheda, presumono di ricevere in dono una metafisica investitura popolare.
Il premio di maggioranza conferito alla coalizione è poi un unicum, un espediente bizzarro di cui non esiste traccia alcuna nelle grandi democrazie dell’occidente. Sebbene sia una fonte accertata di malesseri, e causa di profonde disfunzioni istituzionali, la destra si guarda bene dal congedare il premio alla coalizione. Il suo progetto prevede infatti che i parlamentari nominati in blocco non servano a nulla: siano, per l’autorevolezza del tutto sfumata, soltanto il contorno passivo di un capo “presidenzializzato” per vie di fatto.
La Seconda Repubblica è da tempo morta. Intorno al suo cadavere si aggirano però gli antichi fantasmi bipolari che bloccano il cammino di riforme che favoriscano una competizione ruotante su grandi partiti, ripensati nella loro autonomia culturale. Invece di celebrare i funerali del rovinoso bipolarismo meccanico, i partiti sono bloccati dalle nostalgie passatiste della destra. Abile nell’aprire vie di fuga verso la grande rottura presidenzialista, essa si mostra anche risoluta nell’impedire delle puntuali riforme, minimali e condivise. In troppi sembrano aver concordato una inaudita proroga all’esanime seconda Repubblica imperniata sugli anomali premi di coalizione, alla radice di un pernicioso presidenzialismo di fatto.

l’Unità 29.6.12
Bersani: «Bene Vendola, la sinistra apra ai moderati»
Il governatore della Puglia assicura: niente veti sull’Udc. Ma intensifica
il dialogo con Di Pietro
Il leader del Pd: «Apprezzabile la disponibilità ad allargare l’alleanza. Nel costruire l’alternativa vanno coinvolte tutte le energie positive del Paese»
Fioroni: «Le primarie? Evitiamo il boomerang»
di Virginia Lori


«Quelle sentite dal leader di Sel sono parole apprezzabili che consentono di proseguire con decisione un lavoro di costruzione di alternativa per il Paese». Così Pier Luigi Bersani commenta l’intervista di Nichi Vendola, pubblicata ieri su l’Unità, in cui spiegava di non aver «mai posto obiezioni alla prospettiva di un allargamento della coalizione di centrosinistra o di un punto di compromesso con i cosiddetti moderati», a patto di impegnarsi, per prima cosa, a «ricostruire il centrosinistra».
«È giusto, come dice Vendola, partire dalla crisi che sta colpendo l’Europa e l’Italia e da un confronto largo, ampio su un progetto di ricostruzione democratica e civica. È esattamente questo che intendo ha continuato il segretario del Pd quando propongo una carta di intenti capace di coinvolgere i progressisti e i democratici italiani». E proprio questa, secondo Bersani, deve diventare l’occasione per coinvolgere tutte le energie positive del Paese, per «costruire un centrosinistra di governo, anche attraverso l’appuntamento di partecipazione delle primarie, aperto al dialogo e alla collaborazione con quelle forze moderate di ispirazione europeista e costituzionale».
Intanto, se da una parte il leader di Sel ha parlato anche del «deficit di dialogo, di tessitura comune» tra il centrosinistra e Di Pietro con il quale «ci sono cose che non condivido», ha detto dall’altra prosegue chiaramente il confronto con il leader dell’Idv. Tanto che per oggi pomeriggio, alla Camera, è fissato già l’appuntamento per una conferenza stampa, presenti gli stessi Vendola e Di Pietro, non a caso intitolata «Costruire l’alternativa per cambiare l’Italia». Un incontro in cui, a quanto pare, si parlerà di come tenere in vita la foto di Vasto. Negli ultimi giorni il governatore della Puglia ha intensificato la comunicazione con l’Italia dei valori, anche per evitare che cresca la distanza tra il Pd e Di Pietro. Ma l’apertura ai moderati può entrare in contraddizione con l’alleanza aperta a Di Pietro. La partita resta aperta e, al momento, è condizionata anche dai comportamenti nei confronti del governo Monti. All’interno del Pd la questione si intreccia anche con il tema delle primarie.
Il deputato Beppe Fioroni, ad esempio, osserva che oggi c’è di nuovo la possibilità concreta di costruire una coalizione centrata sull’alleanza tra riformisti e moderati, «con la prospettiva di trovare una convergenza programmatica anche con una sinistra responsabile e di governo come quella di Vendola». In un’intervista Fioroni esprime il suo consenso a un’alleanza con l’Udc, ma mette in guardia dal rischio che le primarie possano «rovinare tutto». Lo stesso Vendola, nel colloquio con l’Unità, aveva rimarcato i suoi dubbi su quelle consultazioni: «Se sono il congresso del Partito democratico aveva detto io sono semplicemente curioso di attenderne l’esito. Se l’opzione è tra un Pd socialdemocratico e un Pd liberista sono interessato a un’alleanza con la prima ipotesi e mi sento alternativo alla seconda». «Abbiamo tutti lavorato sodo nota adesso Fioroni per trovare una condivisione tra Pd, moderati e Vendola. Evitiamo che queste primarie, trasformandosi in una conta interna, diventino un boomerang per mandare all’aria tutto». «Casini prosegue Fioroni rischia di sentirsi estraneo a questo processo e Vendola e le liste civiche di sentirsi escluse per eccessivo protagonismo del Pd». Allo stesso tempo Fioroni ammonisce: dentro al Pd vanno «evitate le diaspore dei cattolici. Lo dico a Rosy Bindi, a Letta, Franceschini e tanti altri: basta dividerci tra di noi, altrimenti siamo destinati all’irrilevanza dei cattolici in politica».

Repubblica 29.6.12
“Pasticci sulla Costituzione meglio tenercela com’è e liberarci del Porcellum”
Zagrebelsky: Camere lontane dai cittadini
di Goffredo De Marchis


ROMA — Stasera a Milano Libertà e Giustizia ospita in un dibattito pubblico il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. È un primo contatto con la cosiddetta “società civile” in vista delle elezioni del 2013. A discutere con il leader democratico ci saranno Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Il presidente emerito della Consulta apprezza alcune aperture del Pd nei confronti del mondo esterno ai partiti. Come la scelta di votare per il cda della Rai due personalità delle associazioni.
Intanto sulle riforme istituzionali si procede in ordine sparso e Berlusconi sembra pronto a far saltare anche quel tavolo.
«Ma davvero crediamo che il discorso sulle riforme costituzionali sia un discorso onesto, fatto cioè per il bene della Costituzione? A me sembra viceversa che serva strumentalmente a creare assi politici particolari, a lanciare messaggi all’opinione pubblica che sono appunto puri messaggi perché non si arriverà mai in fondo. Infine viene usato da alcune persone, anche nel Pd, per accreditarsi come protagonista di un clima costituente strizzando l’occhio all’avversario».
Fa bene Napolitano a difendere l’intesa raggiunta in commissione e ad avvertire la politica che fughe in avanti sono destinate al fallimento?
«Il presidente della Repubblica difende la funzionalità delle istituzioni e in questo svolge il suo ruolo. Ma a me non piace affatto la bozza in discussione. Me-
glio, molto meglio tenersi la Costituzione che c’è. Altri costituzionalisti la pensano così e loro non trafficano con la Carta, a differenza di quello che fanno i politici. Il rapporto tra Senato federale e Camera è un pasticcio inverecondo, la sfiducia costruttiva ingessa la vita politica estromettendo il presidente della Repubblica dalle sue funzioni di garante. Non sono il solo a essere contrario a certe proposte. Mi piacerebbe che il capo dello Stato rappresentasse anche queste posizioni».
Libertà e Giustizia al di là dei contenuti sostiene che questo Parlamento non è legittimato a cambiare la Costituzione.
«La risposta dei partiti è che l’articolo 138 sancisce la possibilità di modifiche. Definitive con il voto dei due terzi delle Camere, soggette a referendum con maggioranze della metà più uno. Ma quell’articolo presuppone che una larghissima maggioranza parlamentare coincida con la grande maggioranza del Paese. Oggi, siamo sicuri che sia così? Con i risultati delle amministrative, l’astensionismo, con l’esplodere del grillismo, questo Parlamento può pensare di mettere mano in profondità alla Costituzione?».
Però a questo Parlamento chiedete di cambiare la legge elettorale.
«Cambiare il Porcellum sarebbe un atto di resipiscenza attiva. Dopo essersi accorti di aver fatto una schifezza, gli autori corrono ai ripari. Per pentirsi, qualsiasi rappresentanza politica è buona».
Rispetto al Porcellum va bene tutto?
«Con la legge attuale abbiamo raggiunto il punto zero costruendo un sistema rovesciato dove il
mondo politico non è al servizio dei cittadini ma il contrario. Però non dobbiamo affidare agli strumenti di tecnica elettorale la soluzione di gravi disfunzioni politiche. Per dire, c’era qualcuno che aveva addirittura immaginato nelle prime bozze tre premi di maggioranza per i primi tre partiti. Ecco dove si può arrivare senza un’opinione pubblica vigile».
Quel qualcuno era il Pd. Con queste premesse il confronto diventerà un duello.
«Sulle questioni istituzionali LeG ha posizioni nette e vuole risposte altrettanto nette. Ma il dibattito con Bersani nasce nel clima più amichevole e costruttivo possibile. La nostra associazione è legata all’idea che una democrazia senza partiti non esiste. Siamo interessati a partiti che funzionino come canali di comunicazione tra cittadini-elettori e la politica. Temiamo la critica cieca ai partiti perché sappiamo dove conduce».
Bersani si è mosso in questa direzione con la scelta sulla Rai e con l’annuncio di un’apertura delle liste all’esterno?
«La vita politica non è fatta quasi mai di sole buone intenzioni bensì di risposte a necessità oggettive. Credo che il segretario del Pd sia davvero interessato, per convinzione, a un discorso di apertura e partecipazione. Ma anche se non fosse così il problema è recuperare alla vita politica due intere generazioni di elettori e contrastare fenomeni come l’astensionismo e il grillismo. Spero che in Bersani si realizzi un’unione feconda tra buona disposizione e stato di necessità».
Sulla Rai ha prevalso la prima?
«Badi che nessuno di noi ha mai chiesto posti e infatti nessuna associazione ha indicato nomi di propri membri presenti negli organismi dirigenti. La nostra aspirazione non è l’”entrismo”. Chi teme si voglia cercar posti, stia tranquillo. Ci auguriamo che molto presto non ci sia più bisogno di rivolgersi all’esterno per trovare persone degne di fiducia. La richiesta di aiuto è consolante da un lato perché dimostra disponibilità ma dall’altro è un segno di fragilità e impotenza. Perciò il nostro incontro ruota intorno alla domanda: come rianimare la vita politica del nostro paese ridando forza ai partiti e facendoli tornare ad essere attrattivi. Oggi sono repulsivi, soprattutto per le giovani generazioni».

Il Fatto 29.6.12
Ior: i conti non quadrano ancora
di Marco Politi


La versione di Barney, nella veste di Paolo Cipriani direttore dello Ior, è l’esaltazione della banca vaticana come specchio di tutte le virtù. “Non ci sono conti cifrati”, assicura negando ripetute rivelazioni giornalistiche. Segue un elenco, corredato da accattivanti diapositive, delle misure adottate per impedire qualsiasi forma di riciclaggio e bloccare operazioni sospette. La performance si svolge nel Torrione di Niccolò V, la stanza dei bottoni dell’impero finanziario vaticano. Per la prima volta sessanta giornalisti di tutto il mondo vengono ammessi nella banca del Papa. Quarto piano, tappeti persiani, divanetti rococò dai bordi dorati, soffitti affrescati. Paolo Cipriani, elettrizzato dall’emozione suda, sorride, snocciola dati. Depositi per circa 6 miliardi di euro (un terzo in dollari e una piccola parte di riserve auree nel bunker della Federal Reserve di New York). Trentatremila conti correnti. Cinque per cento di investimenti azionari. Un bilancio segreto inviato alla commissione cardinalizia di vigilanza, che finisce sul tavolo di Benedetto XVI.
L’INCONTRO è ingessato. Niente riprese né fotografie, niente registrazioni, niente domande libere. La Sala Stampa vaticana ha fatto sapere via mail che “non bisogna in alcun modo attendersi una conferenza stampa a tutto campo su questioni di attualità o su tutte le problematiche economiche o legali della Santa Sede e del Vaticano”. Le domande vengono convogliate in bigliettini a padre Lombardi, che seleziona. Piacerebbe sapere ai lettori del Fatto Quotidiano perché il faccendiere Bisignani avesse un conto o come si concilia la proclamazione che lo Ior si muove “nel rispetto dei principi etici fondamentali della Chiesa cattolica” e poi un certo psicoterapeuta dott. Pietro La Salvia manda al direttore Cipriani un perfido ‘ritratto psicologico’ di Gotti Tedeschi, accostato a sua insaputa durante un rinfresco, contro tutte le regole professionali ed etiche. Che ne è stato di La Salvia: premiato o rimosso? La domanda si insabbia. Nix, nada, nicevò.
L’esposizione del direttore generale è incalzante. Non esistono conti cifrati, l’elenco dei titolari di conti correnti è ben definito (organismi della Santa Sede, nunziature, fondazioni canoniche, congregazioni religiose, monasteri, diocesi e conferenze episcopali, parrocchie, seminari, collegi, clero secolare, religiosi, religiose autorizzate, ambasciate presso la Santa Sede, famiglia pontificia), le procedure di individuazione hanno regole severe. Abbonda l’inglese. Know Your Customer… Customer Due Diligence. Non ci sono conti anonimi. L’Istituto non ha relazioni con banche di paesi off shore. I trasferimenti avvengono secondo standard internazionali. I “bonifici devono contenere i dati completi su ordinante, beneficiario, causale”. I bonifici in entrata sono sottoposti a procedure interne di verifica.
CONTROLLI interni sono finalizzati a bloccare il riciclaggio. Dal 2009 i bilanci Ior sono certificati dall’agenzia internazionale Deloitte e dal 1995 si conformano all’International Accounting Standard. Passaggio più rischioso dell’intervento: “Non esistono conti cifra-ti, ma l’uso di codici alfanumerici è previsto nello scambio dei flussi informatici tra le banche per la registrazione delle singole operazioni…. per l’identificazione, su richiesta dell’AIF (Autorità vaticana di Informazione Finanziaria) o della Banca d’Italia, si può aprire il codice”. Dal profluvio di assicurazioni, in mancanza di contraddittorio, si deduce che incombe l’assemblea plenaria di Moneyval. Il 4 luglio dovrà valutare se ammettere la banca vaticana – “anzi lo Stato Città del Vaticano”, si precipita a precisare Cipriani – nella “white list” degli stati non sospettati di permettere manovre di riciclaggio o finanziamenti al terrorismo. Pare abbastanza evidente che la dirigenza dell’Istituto si mostra molto impegnata a raggiungere il traguardo agognato. Ogni assicurazione dello Ior diventa a questo punto una lama tagliente: o è la prova di un miglioramento in atto oppure, se un domani smentita da fatti, diventerà un pesante capo d’accusa.
Più volte Cipriani assicura che si lavora per “togliere le ombre del passato”. Lombardi evoca una “linea di trasparenza, correttezza e legalità della Santa Sede”. Restano aperte molte domande, e grosse. Perché i dubbi del cardinale Nicora e di Gotti Tedeschi sulla realizzazione di una trasparenza totale, evidentemente non avvenuta? Perché Bertone si è fatto fare dal giurista Giuseppe La Torre un “parere”, secondo cui lo Ior non deve fornire informazioni sulle transazioni anteriori al 2011? (Cipriani ora nega e promette il contrario). Perché la legge 166 vaticana ha riscritto la legge 127, che dava pieni poteri all’Autorità Informazione Finanziaria, limitandone l’attività di ispezione? Perché non vengono finalmente pubblicati il bilancio dello Ior e la certificazione Deloitte? Stravolto dall’emozione Cipriani alla fine sbrocca: “Il Papa è tiranno, un sovrano che può fare e disfare”. Padre Lombardi, imperturbabile come un gommista, mette la toppa: “Il Papa non è proprietario dello Ior, che è al servizio della Chiesa universale”. Moneyval non scherza. La disdetta della banca americana Morgan è un monito allarmante.
LA MORGAN chiedeva allo Ior informazioni precise sui conti correnti relativamente a eventuale cointestatari, origine di certi fondi, loro congruità, attività dell’ “ordinante”. Lo Ior ha traccheggiato, poi ha detto che serve inoltrare richiesta all’Autorità di Informazione Finanziaria. La Morgan si è stancata di risposte burocratiche ed evasive e bruscamente ha interrotto i rapporti.

La Stampa 29.6.12
Ior, parte l’operazione trasparenza “Da noi nessun conto segreto”
La banca vaticana apre le porte ai giornalisti: “Qui c’è sempre massima chiarezza”
di Andrea Tornielli


CITTÀ DEL VATICANO La banca vaticana è al centro dello scontro per la scelta del successore di Gotti Tedeschi.
Nel torrione di Nicolò V, che un tempo ospitava le prigioni, oggi ci sono le sale ovattate dello Ior. Ricordando l’antica destinazione, il direttore Paolo Cipriani dice: «Ho letto che stanno costruendo delle nuove celle in Vaticano, spero non siano per noi…». Trascorrono così, tra qualche battuta e molte informazioni sciorinate a tamburo battente, le oltre due ore di visita all’Istituto per le Opere di Religione. Iniziativa senza precedenti, un «open day» per oltre cinquanta giornalisti da ogni parte del mondo. Un modo per trasmettere un messaggio positivo dopo le vicende del recente passato e gli eventi accaduti nelle ultime settimane, con il clamoroso licenziamento di Ettore Gotti Tedeschi.
«Quello che si vuole portare avanti è la linea di legalità, della trasparenza e della correttezza fino in fondo, per questo diamo elementi a chi deve fare informazione», dice soddisfatto padre Federico Lombardi. Trasparenza sì, ma senza eccedere. Vietate le telecamere, vietato far fotografie o registrare: un po’ di mistero deve pur sempre continuare ad aleggiare su questo luogo, che assomiglia a una qualunque banca, ma ha sportelli con addetti in grado di esprimersi in diverse lingue, il bancomat che parla latino e la foto del Papa regnante che accoglie il cliente all’ingresso.
Protagonista indiscusso dell’open day è il direttore dello Ior, Paolo Cipriani, completo scuro e parlata inconfondibilmente romana. Riceve i suoi ospiti nella sala delle riunioni, soffitto con affresco antico e una statua della Madonna di Lourdes in un angolo, a vegliare. Appare emozionantissimo. Spiega che lo Ior «non ha l’obiettivo primario di creare utile di bilancio, ma di soddisfare il cliente». E racconta il cambiamento di prospettiva per lui che è arrivato Oltretevere dopo aver lavorato alla Banca di Roma: «Là eravamo degli schiacciasassi, pensavamo solo a far denaro, e invece qui gli obiettivi sono diversi…». Si diverte, Cipriani, a smentire quanti favoleggiano sui rendimenti al 12 per cento per i fortunati clienti Ior: «Se riuscissi a dare un interesse così alto con gli investimenti a basso rischio che abbiamo, Soros dovrebbe prendere lezioni da me! ». Più volte nel corso dell’esposizione il direttore, attorniato dagli altri cinque dirigenti, ripete che lo Ior vuole «togliere il velo di segreto» sulle sue attività e il sospetto di operazioni poco pulite. Spiega che l’istituto gestisce circa 6 miliardi di euro, ha una piccola riserva aurea presso la Federal Reserve, vanta circa 25mila clienti e 33mila conti correnti (ci sono istituti religiosi che ne hanno più d’uno) ma non ha conti cifrati o anonimi né ha rapporti con banche di Stati offshore. Attua invece controlli «molto severi» sui trasferimenti di denaro, garantisce la tracciabilità dei bonifici, e sta facendo ogni sforzo per adeguarsi sempre di più alle normative internazionali antiriciclaggio in attesa che il Vaticano entri nella white list dei Paesi virtuosi. Per poter diventare clienti dell’istituto bisogna essere un cardinale, un vescovo, un istituto religioso, un prete o una suora autorizzati dal superiore, una parrocchia, una fondazione canonica, un seminario, un dipendente vaticano. Le verifiche sui clienti sono accurate: «Purtroppo prima non veniva fatto». Il 77,3 per centro dei correntisti è europeo, il 7,3 sta in Vaticano. Dal 1996 vige un sistema informatico che impedisce la possibilità di aprire e gestire conti anonimi o cifrati. «Se anche ci fossero stati conti strani in passato – afferma Cipriani – ora non è più possibile, non può uscire un solo euro non tracciato». Il direttore dello Ior offre le sue spiegazioni anche in merito all’inchiesta che lo ha coinvolto, per un trasferimento di fondi dal Credito Artigiano, fondi sequestrati dalla magistratura italiana e poi dissequestrati ma non ancora disponibili. Poi quando deve rispondere sul potere del Papa nell’istituto, per dire che – almeno sulla carta – è un sovrano assoluto e dunque può fare ciò vuole, gli sfugge: «È come un tiranno….». Anche se in realtà Benedetto XVI non ha neanche un suo conto personale. Alla fine, visibilmente sollevato, Cipriani mostra una maglietta che gli è stata regalata e che porta la scritta «Anti money laundry expert», esperto antiriciclaggio. È l’inizio di una nuova strategia comunicativa. In Vaticano sperano che serva a migliorare la pessima immagine mediatica dell’istituto.

Corriere 29.6.12
E l'istituto apre le porte ai giornalisti
Cipriani: lavoriamo per la trasparenza
Non abbiamo rapporti con Paesi offshore
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — Il Torrione quattrocentesco di Niccolò V è dall'inzio del secolo scorso la sede dello Ior. Sembra quasi essere posto a difesa delle mura stesse del Palazzo Apostolico dove vive e lavora il Pontefice. E invece spesso si trasforma in una debolezza per il Vaticano. Per fugare i fantasmi che evocano storie di mafia e di denaro sporco, con un'iniziativa senza precedenti, il direttore dello Ior, Paolo Cipriani, e tutta la dirigenza dell'Istituto hanno partecipato ieri a un briefing con sessanta giornalisti e corrispondenti di tutti il mondo.
Con un messaggio chiaro, mai ribadito con tanta nettezza, dopo le polemiche seguite alla destituzione dell'ex presidente Gotti Tedeschi che ha attribuito la sua «cacciata» alla mancata volontà di trasparenza. Motivazione respinta subito dal board dell'Istituto che ha rivendicato di voler «lavorare per la trasparenza, non con le parole ma con i fatti». Ma, ieri, nell'open day allo Ior, Cipriani ha detto anche di più. Ha detto che allo Ior non ci sono conti cifrati. Ha detto che lo Ior non lavora con i cosiddetti Paesi offshore, né che fa investimenti speculativi. Ha detto che lo Ior usa, come tutte le banche, dei codici alfanumerici che servono a «tracciare le operazioni e non a nasconderle» e che «sono stati richiesti dalla Vigilanza italiana». Ha detto che i conti intestati ai laici sono meno dell'1 per cento delle circa 25 mila posizioni (per circa 33 mila conti) e si tratta solo di dipendenti o pensionati vaticani, di dipendenti o pensionati dello Ior, del personale diplomatico presso la Santa Sede (ambasciatore, primo e secondo segretario per ogni delegazione) e poche decine di «Gentiluomini di Sua Santità». «Da quando sono diventato direttore generale il primo ottobre 2007 — ha spiegato Cipriani — nessun nuovo conto è stato aperto a quest'ultima categoria di persone, che in ogni caso sono sottoposte ai controlli di rischio (procedure Ccd) come tutti gli altri utenti e alle segnalazioni all'Aif, organismo di vigilanza per l'eventuale sequestro del denaro impegnato in operazioni anomale». Anche preti e suore non possono avere un conto Ior solo per il fatto di esserlo, ma devono essere autorizzati dalle proprie congregazioni o diocesi per i compiti loro attribuiti. «Una suora di per sé — ha detto con un lapsus Cipriani — ha fatto voto di castità (intendendo, povertà, ndr) e non può avere un conto allo Ior». Non è possibile, inoltre, per un utente operare per conto terzi.
Cipriani ha spiegato anche cos'era lo sweep account, cioè la combinazione di due conti presso la JPMorgan di Milano (sempre a zero a fine giornata) e la JPMorgan di Francoforte. Si tratta di un servizio fornito da moltissime banche anche a singoli utenti, in quanto utile per gestire un costante flusso di danaro tra un conto cash usato per effettuare pagamenti e un conto di investimento. «Fu la JPMorgan a chiedere a Ior di aprire il "conto secondario" la cui clausola contrattuale era stata avallata dall'Autorità di vigilanza italiana», niente a che fare — quindi — «con lo spostamento dei soldi all'estero per motivi di riciclaggio». Alle richieste di chiarimento extracontrattuali di JPMorgan — ha spiegato Cipriani — «lo Ior rispose che ormai dovevano essere poste all'organismo interno di vigilanza (l'Aif presieduta dal cardinal Nicora) e non più direttamente a Ior». Secondo Cipriani, infine, la nuova legge antiriciclaggio dell'aprile di quest'anno (che modifica quella del 2010, epoca Gotti), avvicina maggiormente la normativa della Santa Sede agli standard e ai principi internazionali sulla materia, recependo le indicazioni degli ispettori di Moneyvall del novembre 2011 e marzo 2012. In quasi due ore di incontro il nome di Gotti Tedeschi non è mai stato fatto. Cipriani si è limitato a ricordare di quando, assieme al «presidente» andò spontaneamente a deporre dai magistrati romani che avevano iscritto entrambi nel registro degli indagati.

Corriere 29.6.12
Ior, un conto segreto intestato a un laico «Per il riciclaggio»
I pm a caccia del nome del beneficiario
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — La prima indicazione l'ha data Ettore Gotti Tedeschi nel suo interrogatorio di fronte ai magistrati romani. Ma poi ha rifiutato di svelare l'identità del titolare del conto. E tanto è bastato per avviare una nuova fase di indagine. Perché quel deposito aperto presso lo Ior appartiene a un laico e perché potrebbe essere il veicolo di operazioni di riciclaggio di soldi. È la pista più scottante dell'inchiesta avviata nella capitale, quella che esplora i rapporti tra le gerarchie ecclesiastiche e i pochi privilegiati — politici, faccendieri, funzionari dello Stato — ammessi all'interno della banca vaticana che lì, con la garanzia dell'anonimato, possono mettere al sicuro il proprio denaro.
Accade tutto due settimane fa, quando il banchiere licenziato dal board dell'Istituto opere religiose il 24 maggio scorso, viene interrogato dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Rocco Fava. I pubblici ministeri hanno già esaminato il suo memoriale che attraverso lettere, email e appunti ripercorre i suoi due anni al vertice, gli scontri con il direttore generale Paolo Cipriani, le «pressioni» della segreteria di Stato, la sua ricerca di consenso da parte del Pontefice. «Quando chiesi notizie sui conti laici iniziò la guerra», aveva scritto Gotti in quella sorta di «testamento» affidato alla segretaria e destinato proprio al Papa e a due amici «se dovesse succedermi qualcosa». Ed è su questo che i magistrati sollecitano spiegazioni, tenendo conto che il banchiere ha indicato alcuni «nemici» e nella lista ha inserito lo stesso Cipriani, ma anche alcuni fedelissimi del cardinale Tarcisio Bertone come Marco Simeon, potente direttore di Rai Vaticano e responsabile delle relazioni istituzionali della televisione di Stato.
Ecco quanto racconta Gotti ai magistrati romani: «Mi ero incuriosito perché avevo letto che una personalità coinvolta in un'inchiesta giudiziaria era titolare di un conto presso lo Ior. Chiesi subito spiegazioni a Cipriani, ma lui si rifiutò di parlarmi di quella vicenda. E di fornirmi dettagli. Mi confermò soltanto il nominativo, non volle dirmi nulla». I pubblici ministeri cercano di saperne di più, vorrebbero conoscere il nome della persona. A questo punto il banchiere decide di avvalersi «della facoltà di non rispondere». E tanto basta per infittire il mistero e convincere gli inquirenti ad avviare una nuova fase di accertamenti. È vero che il presidente dello Ior non ha competenza sulla gestione dei depositi, ma il rifiuto di Cipriani alimenta il sospetto sulle operazioni compiute.
Il direttore generale è inquisito con lo stesso Gotti dalla Procura di Roma per il riciclaggio di 23 milioni di euro transitati su un conto esterno. E nel corso di quell'indagine avrebbe mostrato forti resistenze rispetto alla possibilità di aiutare gli investigatori a ricostruire le movimentazioni di denaro. Un atteggiamento analogo a quello di Gotti che però, dopo il licenziamento avvenuto il giorno prima dell'arresto del maggiordomo del Papa e con un velenoso strascico di polemiche circa l'eventualità che fosse proprio lui uno dei «corvi», ha fatto sapere di voler collaborare e dagli inizi del mese risponde alle domande dei magistrati della capitale e di quelli napoletani che indagano su Finmeccanica e su alcuni appalti assegnati alla Santa Sede.
A chi appartiene dunque quel conto? E perché tanto mistero? Il fatto che Gotti lo leghi a notizie apparse sui giornali fa presumere che possa essere collegato a una delle inchieste sulle tangenti avviate negli ultimi anni. Certamente durante le verifiche sui soldi versati per ottenere commesse nell'ambito dei «Grandi eventi» sono stati scoperti «passaggi» su conti Ior e non è escluso che la persona di cui parla Gotti sia legata proprio a quella «cricca». Ma le verifiche si indirizzano anche su altri filoni come la P4 o la stessa Finmeccanica. Indagini che riguardano centinaia di migliaia di euro pagati per accaparrarsi i lavori e che i destinatari potrebbero aver fatto transitare su depositi «garantiti» proprio per farne perdere le tracce.
Le verifiche sono state affidate al nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza che già indaga su una decina di conti intestati a religiosi, ma che in realtà sarebbero stati utilizzati come prestanome da chi aveva bisogno di muoversi dietro il paravento dell'anonimato. Preti e suore che avrebbero messo a disposizione il proprio conto consentendo ai reali beneficiari di poter occultare le proprie ricchezze tra i proventi di donazioni benefiche e i fondi accantonati per il sostentamento dei bisognosi.

Corriere 29.6.12
Presto beato Alvaro Del Portillo

Alvaro Del Portillo, il più stretto collaboratore di san Josemaría Escrivá de Balaguer e suo successore alla guida dell'Opus Dei, sarà presto beato. Benedetto XVI ha infatti firmato il decreto con cui viene riconosciuta l'eroicità delle virtù cristiane di Del Portillo. Il vescovo spagnolo, morto nel 1994 all'età di 80 anni, diventa così «venerabile», primo passo verso la beatificazione, per la quale servirà ora il riconoscimento di un miracolo.

Repubblica 29.6.12
Accordo ministero-Cei. Dal 2017 l’insegnamento possibile solo a chi ha frequentato un master universitario
Accanto alla maestra un prof di religione a scuola 10 mila posti per laureati in teologia
di Salvo Intravaia


ROMA — Fra pochi anni, per insegnare religione alle elementari occorrerà la laurea. Ieri mattina, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo e il presidente della Cei Angelo Bagnasco hanno firmato due intese che modificano completamente il quarto punto dell’accordo tra Stato e Chiesa sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. La novità riguarda i titoli che occorre possedere per questa disciplina. La nuova intesa, ha spiegato Profumo, prevede che per accedere all’insegnamento della religione cattolica in ogni ordine e grado di scuola si debba essere in possesso dei titoli accademici di baccalaureato, licenza o dottorato in teologia o in altre discipline ecclesiastiche oppure che si sia conseguita una laurea magistrale in scienze religiose secondo il nuovo ordinamento. Una novità che cambia poco o nulla nella scuola media e superiore, dove è già previsto un titolo di livello universitario, ma che nelle scuole dell’infanzia e primarie rischia di estromettere per sempre dall’insegnamento della religione le tante maestre che oltre a questa insegnano anche altre discipline. Il decreto numero 751 del 1985 stabiliva, infatti, che «nella scuola materna ed elementare l’insegnamento della religione cattolica può essere impartito dagli insegnanti del circolo didattico che abbiano frequentato nel corso degli studi secondari superiori l’insegnamento della religione cattolica, o comunque siano riconosciuti idonei dall’ordinario diocesano». E sono 18.915 le maestre che in virtù di questo dettato insegnano ai bambini religione, oltre che a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma dal 2017 questo non sarà più possibile. In futuro, spiega Profumo, «verrà richiesto il conseguimento di un apposito master universitario di secondo livello in scienze religiose». Per il cardinale Bagnasco, l’intesa «migliorerà il Concordato del 1984 all’interno del processo di Bologna» sull’omologazione dei titoli accademici in base ai parametri Ue. Ma, con tutta probabilità, creerà ampi spazi agli specialisti di religione: quelli che insegnano soltanto questa disciplina per effetto del titolo e della certificazione di idoneità rilasciata dall’ordinario diocesano. Saranno disposte, infatti, le quasi 19 mila maestre che insegnano anche religione a sobbarcarsi il master, in genere biennale, di cui parla Profumo? Se non lo facessero, per le maestre over 50 in questione cambierebbe poco: essendo insegnanti statali, le due ore settimanali all’elementare e le sessanta ore annue alla materna attualmente impartite verrebbero assegnate ad uno specialista gradito alla curia e a loro, al massimo, sarebbero assegnate ore in più per coprire l’orario di cattedra.

La Stampa 29.6.12
Secondo i primi rilievi dell’autopsia franco non aveva malformazioni
Prato, il 118 smentisce la diocesi “Nessuno chiese l’elisoccorso”
I legali dei genitori chiedono l’analisi delle telefonate di quel giorno
di Grazia Longo


I soccorsi Per la diocesi l’operatrice chiese l’intervento dell’elicottero ma il 118 di Prato smentisce: «Fummo noi a decidere di farlo decollare» Nessuno avrebbe chiesto l’intervento dell’elisoccorso, che è stato inviato su precisa indicazione della centrale del 118. La tesi ribadita dall’Usl 4 di Prato trova conferma da indiscrezioni di inquirenti e investigatori che hanno ascoltato la registrazione delle conversazioni tra l’animatrice della parrocchia e il 118.
Alla disperazione per il vuoto incolmabile che ha lasciato il piccolo Franco, si aggiunge la rabbia all’idea che se fosse stato soccorso in tempo sarebbe ancora in vita. «Non ne abbiamo la certezza, ma vogliamo che si faccia tutto il possibile per scoprirlo. Chiediamo giustizia per il nostro bambino». Stefania e Stefano Lori, i genitori dell’undicenne morto mercoledì pomeriggio durante una gita del centro estivo della parrocchia di Paperino sul monte Calvana si sono rivolti a tre avvocati (Caciolli, Fiorentino e Magni) e hanno nominato due medici legali per la perizia di parte all’autopsia che si è svolta ieri pomeriggio. I primi rilievi autoptici escludono che Franco soffrisse di patologie particolari che ne possano aver causato la morte. Ma i medici hanno chiesto di poter effettuare analisi più approfondite.
E se dagli esami scientifici potrà arrivare la risposta al motivo del decesso, è dall’analisi delle conversazioni telefoniche che si può scoprire se le indicazioni sono state date nei modi e nei tempi adeguati per un intervento tempestivo. «La nostra animatrice - ribadisce la Diocesi di Prato - ha detto subito che la situazione era grave e ha chiesto l’elisoccorso». Ma dal 118 replicano che «non è andata così: l’elicottero è decollato per nostra decisione quando ci è stata comunicata l’entità del caso, mentre all’inizio si alludeva ad un colpo di sole. Poi le informazioni sono state più allarmanti».
La prima chiamata è giunta alle 13,08 (ma pare che Franco abbia iniziato a stare male prima delle 13), le altre 3 alle 13,16, 13,33 e 13,46. L’elicottero è stato autorizzato alle 14,08, è arrivato sul posto alle 14,33 e ha lasciato Franco all’ospedale Careggi, vicino Firenze, alle 15,25. Prima dell’équipe dell’elisoccorso era intervenuta quella «via terra». Per ora non ci sono indagati, la procura ha aperto un fascicolo per «omicidio colposo» contro ignoti. Prezioso l’esito dell’esame autoptico, eseguito dalla dottoressa Martina Focardi, nominata dalla procura. Consulenti di parte sono il professor Marello e il dottor Gennai.

l’Unità 29.6.12
Intercettazioni legittime ma non opportune
La telefonata di Mancino: la legittimità dell’intervento dei pm è fuori discussione, ma resta un’obiezione di sostanza
di Giovanni Pellegrino


Ventitré magistrati della Procura di Palermo hanno sottoscritto un documento di pieno e incondizionato sostegno ai colleghi che hanno firmato il provvedimento di chiusura delle indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
I firmatari difendono senza riserve la correttezza dell’operato del pool, che ha condotto le indagini, opportunamente riconducendone i dissensi alla fisiologia di una dialettica propria di ogni organo collegiale; e respingono critiche esterne, perché fondate «su una errata se non inesistente conoscenza degli atti», se non addirittura ispirate «da palesi intenti strumentali».
Agevole è però osservare che almeno alcune critiche o perplessità non hanno posto in dubbio la correttezza degli atti di indagine, riconoscendo che gli stessi non esorbitavano dai poteri attribuiti dalla legge alla magistratura inquirente; e ciò anche per le intercettazioni telefoniche tra Nicola Mancino e gli uffici del Quirinale, una volta che le stesse risultavano motivatamente richieste dai pm e motivatamente autorizzate dal Gip, nel pieno rispetto delle regole processuali.
Ciò che si è posto in discussione non era quindi la legittimità di specifici atti indagativi, ma soltanto la loro opportunità, una volta che sono apparsi alla pubblica opinione (more solito schieratasi nella logica delle tifoserie contrapposte) come una ulteriore pagina del conflitto tra politica e giustizia, che da oltre un ventennio caratterizza la vicenda nazionale.
Almeno in parte quindi critiche e perplessità sono state nutrite da una preoccupazione sull’ordinato svolgersi della vita democratica del Paese, preoccupazione che ha basi oggettive e che non può essere disinvoltamente esorcizzata.
Vero è infatti che ogni democrazia richiede non solo distinzione, ma anche un equilibrio tra i poteri, che ne valga a superare la «naturale invidia», già segnalata con preoccupazione da Tocqueville e Franklin agli albori della moderna democrazia.
È noto peraltro che il punto di equilibrio tra i poteri non può essere fissato una volta per tutte, ma va faticosamente ricercato per realizzare tra i poteri quelle leale cooperazione, di cui la Corte costituzionale ha tante volte sottolineato la necessità; una leale cooperazione, cui è funzionale da parte di ciascun potere un criterio di self restraint e cioè di autolimite, che lo induca ad astenersi da atti, pure in astratto consentiti, la cui adozione non può dirsi quindi illegittima e/o scorretta, restandone però predicabile la inopportunità.
Una valutazione di questo genere resta quindi ben possibile sugli atti dell’indagine palermitana e in particolare su intercettazioni telefoniche, che sono apparse inopportune anche perché non corroborano in modo apprezzabile l’accertamento di una effettività della cosiddetta trattativa o anche soltanto della falsità di quanto anteriormente dichiarato ai pm dagli intercettati.
La richiesta e l’autorizzazione delle intercettazioni erano state infatti motivate dalla possibilità che il personale politico sospettato di aver partecipato alla trattativa potesse telefonicamente concordare versioni di comodo da offrire ai magistrati inquirenti.
Per chi conosce le cose del mondo appariva improbabile che un simile concordamento avvenisse tra chi già da tempo non era più investito di funzioni pubbliche di rilievo e venisse comunque... affidato al telefono. I risultati delle intercettazioni confermano la improbabilità della ipotesi, in vista della quale erano state disposte, perché Mancino parlando con D’Ambrosio fin troppo ovviamente non ammette la effettività della trattativa, né riconosce di aver reso falsa testimonianza, al contrario manifesta disagio e preoccupazione per un sospetto di cui ingiustamente si sente investito, chiede in qualche modo protezione, ma altro non ottiene, se non la richiesta al pg della Cassazione di un coordinamento tra indagini di procure diverse per evitare che ciascuna andasse per conto proprio.
Nella stessa logica e cioè quella di un esame sereno delle risultanze istruttorie rese pubbliche è ben legittimo dubitare che la lettera del Dap smentisca Conso, che aveva riferito ai pm di avere assunto in solitudine la decisione di attenuare l’applicazione del carcere duro.
È ben difficile che la decisione di un ministro non trovi qualche addentellato in atti anteriori della struttura; il che non esclude il carattere solitario della decisione finale assunta da chi ha ritenuto di ascriversene per intero la responsabilità.
Si trattava peraltro dell’adozione di un criterio appunto di self restraint nell’applicazione di una norma, che si pone ai limiti estremi di compatibilità con il dettato costituzionale, secondo cui la pena non può «consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», perché deve «tendere alla rieducazione del condannato».
Sul punto nelle sue conversazioni telefoniche con D’Ambrosio, Mancino ha rammentato il dibattito pubblico, che nei primi anni 90 si era acceso sulla legittimità costituzionale dell’art. 41 bis.
Sul piano di un bilancio costi-benefici (e cioè mettendo a raffronto modestia dei risultati indagativi e intensità della fibrillazione istituzionale, che hanno determinato) resta quindi legittimo il dubbio sulla opportunità di quelle intercettazioni da parte di chi nutra preoccupazione sul funzionamento complessivo delle nostre istituzioni democratiche.
È questo un tema di discussione, cui non dovrebbero sottrarsi magistrati, che abbiano a cuore non soltanto l’applicazione della legge, ma la funzionalità complessiva dell’ordinamento e cioè di una realtà non riducibile ad un insieme di regole, una volta che a determinarne la effettività è anche il modo concreto, con cui le regole vengono applicate.

Corriere 29.6.12
Quella frattura insanabile nel fronte anti Cosa nostra
Ingroia, Violante e le polemiche sulla «trattativa» Divisi da quando il nemico non è più il Cavaliere
di Pierluigi Battista


È una frattura insanabile, irreversibile, sovraccarica di reciproca tossicità polemica. Tra Palermo e Roma un'alleanza giudiziaria e politico-giornalistica si è frantumata. Uno stillicidio di rivelazioni che non risparmia nessuna istituzione, Quirinale compreso, chiude una stagione e all'ombra dello spettro della «trattativa tra Stato e mafia» scardina un fronte antimafia che si è retto per decenni, magari con dissensi anche rilevanti, ma mai così rilevanti da compromettere una linea divisoria netta e inequivocabile tra gli schieramenti politici.
Antonio Ingroia si fa intervistare dal direttore, Maurizio Belpietro, di un giornale tradizionalmente «nemico» come Libero e lascia intendere che «è più facile indagare su Berlusconi che sui politici della trattativa»: che poi sarebbero uomini della sinistra, ex presidenti della Repubblica e del Senato e della Camera vicini alla sinistra. Luciano Violante, invece, denuncia in un'intervista al Foglio il «blocco politico-mediatico» di «Di Pietro, Travaglio e Grillo che gioca con il disagio popolare» fino al punto di «aggredire il Quirinale». È una guerra aperta, inimmaginabile quando sulla graticola del sospetto politico-giudiziario veniva rosolato il binomio Berlusconi-Dell'Utri. Una guerra che sfiora la crudeltà e i risentimenti di un conflitto fratricida.
È anche una guerra filosofica tra metodi e visioni del mondo diversi che hanno convissuto solo quando il Nemico era il bersaglio unico e aveva un nome e cognome: Silvio Berlusconi. Dice invece Ingroia nella sua intervista che la novità è questa: «nel circuito politico, con le dovute eccezioni, prevale una certa allergia alla verità». Scritto con la «v» minuscola, ma il concetto è con la «V» maiuscola: la Verità. Secondo il magistrato che rivendica di essere andato sul palco del congresso del Partito dei comunisti italiani e di essersi proclamato «partigiano della Costituzione», il compito della giustizia è di scoprire la Verità, anche a costo di svellere tutti gli strati che nel tempo, e nelle oscure stanze del «circuito politico» hanno oscurato e inquinato la limpida purezza del Vero. E Violante risponde appunto che, sin dai tempi di Falcone e delle polemiche con cui Orlando contestava al giudice di tenersi le prove nei cassetti, si scontrano due modi opposti di condurre un'inchiesta. Uno è di chi «si pone come obiettivo la verifica delle responsabilità intorno a un fatto preciso»: accertamenti circostanziati, avvenimenti specifici e circoscritti, responsabilità verificabili, fatti e fatti e fatti, «elementi irrefutabili». L'altro metodo, sempre secondo Violante, è invece una ricostruzione suggestiva ed emotivamente intensa di una storia. Il materiale di cui si nutre questo metodo non sono gli «elementi irrefutabili», ma le «connessioni», gli scenari, le concatenazioni, i chiaroscuri, il non detto, le ambiguità, le contiguità, le irresolutezze della «zona grigia».
Nell'indagine sulla «trattativa Stato-mafia» questo metodo è diventato totalitario e debordante. Partendo dal presupposto che in quegli anni qualcosa di torbido si è mosso sul crinale del «rapporto tra mafia e politica», nell'epoca delle stragi, bisogna pur colmare il divario logico e cronologico tra il materializzarsi di un oscuro disegno trattativista e cedevole di una parte «deviata» dello Stato risalente al biennio '92-'93 e la presa del potere di Berlusconi, che è del '94. Il Fatto quotidiano ha appena trovato un nuovo uomo dei «ricordi tardivi» che avrebbe assistito a torbidi rapporti tra Cosa Nostra e i nuovi «referenti politici» individuati nei vertici di Forza Italia. Ma è evidente che qualcosa non quadra con le date e che le leve del potere tra il '92 e il '93 non sono (ancora) a disposizione del malefico binomio Berlusconi-Dell'Utri. E dunque, restituendo dopo vent'anni la torbida atmosfera delle trattative, la «ricostruzione» della Verità deve inciampare su altri bersagli, tutti di uno schieramento diverso da quello berlusconiano. Ecco allora i ministri Conso e Mancino, il governo Ciampi, la presidenza Scalfaro e ora addirittura Giorgio Napolitano, per le telefonate al suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio da parte di Nicola Mancino, che veniva intercettato nel sospetto che la sua ricostruzione si discostasse dalla Verità.
La ricostruzione di quella Verità arriva perciò a vedere ostacoli e resistenze persino nel Capo dello Stato. Ma con la sua intervista al Foglio, Violante assesta un colpo basso a Ingroia, che del «blocco» scatenato nell'«aggressione al Quirinale» sembra essere l'incarnazione: «una volta mi ha interrogato con un altro pm sulle questioni intorno alle quali indaga e mi è successa una cosa strana. Uscito dal suo ufficio sono stato raggiunto da una telefonata della mia segreteria: "La tua deposizione è già sulle agenzie". In quella stanza, in Procura, eravamo in tre e io non avevo parlato con i giornalisti». La grande frattura era già diventata insanabile.

«L’appuntamento è per lunedì 16 luglio, all'ora dell'aperitivo. In piazza San Cosimato, quartiere Trastevere»
il Fatto 29.6.12
Zingaretti si candida “sarò sindaco di Roma”
Pronto a dimettersi dalla Provincia dopo le primarie: “Non rifarò l’errore del candidato Pd a Parma”
di Paola Zanca


L’appuntamento è per lunedì 16 luglio, all'ora dell'aperitivo. In piazza San Cosimato, quartiere Trastevere, Nicola Zingaretti annuncia alla città la sua candidatura a sindaco di Roma. In verità è un progetto che costruisce da mesi e che mercoledì sera l'attuale presidente della Provincia ha già ufficializzato ai compagni di avventura: i colleghi del Pd, gli alleati di Sel e Idv, alcuni rappresentanti del mondo delle imprese. Un altro aperitivo, raccontavano ieri le pagine di Repubblica, questa volta alla casina Valadier, storico luogo di incontri della politica romana, incastonato dentro villa Borghese. È così che la non-notizia della candidatura di Zingaretti diventa più gustosa: “Le cose facciamole all'aperto, non alla casina Valadier”, si infervora il segretario dell'Idv di Roma Vincenzo Maruccio. Non è dato sapere se sia il risentimento di chi non c'era (Maruccio era assente all'incontro, anche se giura di essere stato invitato) ma di certo esprime un malumore che non è solo suo. Anche in Sinistra e Libertà c'è chi non ha gradito l'annuncio alla stretta cerchia. Più che altro, ci si chiede, perché partecipare all'investitura di un candidato che alle primarie dovrebbe essere avversario? Luigi Nieri, consigliere regionale e già assessore al bilancio della giunta Veltroni, lo ha scritto nei giorni scorsi in una lettera ai compagni di partito: “A Cagliari, Milano e Genova non ci siamo affidati mani e piedi al Pd, ma abbiamo messo al centro sin dalle primarie nostre candidature. Abbiamo scelto nostri autorevoli candidati e abbiamo vinto le primarie. Dove non l’abbiamo fatto e ci siamo affidati al Pd abbiamo perso e male (vedi Napoli e Palermo). Non c’è ragione logica – scrive Nieri – perché Sel sostenga alle primarie il candidato del Pd”.
UN ESPONENTE del partito di Vendola, in realtà, il suo passo l'ha già fatto: Sandro Medici, presidente del municipio di Cinecittà, si è candidato da solo alle primarie del centrosinistra. Lo stesso ha fatto Patrizia Prestipino, Pd area Renzi, anche se i rottamatori doc hanno già fatto sapere che da Firenze non è arrivata nessuna investitura. Per Zingaretti non sembrano avversari preoccupanti. Tanto più che è stato lui stesso, pochi giorni fa, a dire che “sicuramente il confronto elettorale non sarà nello schema classico tra centrodestra e centrosinistra”. Resta da chiarire l'incognita Grillo: la prova di Roma è la prima importante dopo il “boom” delle amministrative. Nei giorni scorsi è circolata l'ipotesi di una candidatura a sindaco per i Cinque Stelle dell'economista Loretta Napoleoni, amica personale del comico genovese. Ma pare che non abbia fatto breccia tra i militanti. Sul blog dei grillini romani, la sintesi dei giudizi sulla Napoleoni-sindaco recita più o meno così: “Comunque se fosse, si faccia vedere ai banchetti e ai gruppi di lavoro, sarà una bravissima persona ma qui da noi non si è mai vista e fatta viva, né in rete, né in carne ed ossa”. E giusto per scansare ogni equivoco, Zingaretti fa sapere che a Roma non si ripeterà “l'errore di Parma”. Anche lì, a sfidare Pizzarotti, c'era un presidente della Provincia, che non si è dimesso fino all'esito del ballottaggio. “Lascio il mio incarico appena divento candidato del centrosinistra”, dice invece Zingaretti, aiutato dalla coincidenza per cui, a Roma, Comune e Provincia scadono nello stesso istante.
A destra, comunque, nell'effetto Parma ci sperano. Dicono che chi considera Alemanno già sconfitto fa “training autogeno”. Il sindaco, in verità, potrebbe più beneficiare delle divisioni altrui che della riconferma sua: tanto che non si trova un nome (si era parlato di Giorgia Meloni) che voglia raccogliere i 5 anni di disastri di Ale-danno. La Destra di Storace andràdasola. El'Udc? ARomapiù che il partito di Casini è la macchina del cemento del suocero, Francesco Gaetano Caltagirone. Ognuno lo accredita come più vicino a sé. Ma si domanda un autorevole esponente Pdl: “Chi mai può sapere con chi sta l'Udc? ”.

il Fatto 29.6.12
Renzi. Le parole giuste
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, ho notato che, quando Renzi parla, fa subito centro a destra. Lo citano, lo celebrano, lo chiamano. So che a sinistra ha i suoi sostenitori e i suoi nemici, ma la domanda che le pongo non è polemica. Vorrei solo capire il perché della sua presa immediata a destra. Come un attaccatutto che non fallisce.
Salvatore

CERCHERÒ anch’io, che non trabocco di entusiasmo per Matteo Renzi, sindaco part-time di Firenze (il resto del tempo lo dedica a se stesso come leader nazionale), di non fare polemiche ma di analizzare. Provo con un argomento che non mi sembra sia stato notato. Finora, nella storia politica degli ultimi decenni, i giovani che irrompono sulla scena, non sono mai più allegri degli anziani. Al contrario, li sorprendono e li svergognano portando dramma e tempesta. Il caso classico è Robert Kennedy. È entrato in scena con il carico della pena del mondo, della pesante ingiustizia patita dai poveri del Sudamerica, delle dittature favorite dagli stessi Stati Uniti, della disperazione dell’Africa, del sanguinoso apartheid del Sudafrica. Sua è la famosa esortazione a calcolare il Pil della felicità umana, non quello della produzione di beni e ricchezze. Era il tempo della guerra nel Vietnam, ma non pensate che tutta l'America fosse altrettanto coinvolta e preoccupata. Sono stati i più giovani a rompere l’armonia interna, con i non ancora ventenni Joan Baez e Bob Dylan alla testa dei cortei. Era il tempo in cui gli americani scoprivano il problema della immigrazione clandestina, e il giovane senatore Robert Kennedy guastava la festa mettendosi, lui, ex ministro della Giustizia, alla testa dei clandestini messicani che chiedevano paghe umane e documenti legali. Riconosciamo a Renzi (che non è il Bob Kennedy italiano, ma un fenomeno ancora da capire) un primo merito. In un’epoca buia, Renzi si adatta bene e rapidamente alla nota espressione proverbiale “cuor contento il ciel l'aiuta”. Lui è contento (certo di se stesso) o almeno giovanilmente sfrontato. Secondo, non è colpa sua se i suoi competitori adulti sono cupi. Per contrasto lui, contro la tipica tradizione dei giovani, deve portare un po’ di allegria, che poi dovrebbe diventare fiducia. È la materia del dibattito che non convince. Infatti, gli “anziani” della tribù sono cupi perché pensano di perdere il posto. E il giovane guerriero che si è lanciato nella danza del potere, punta a prendere quel posto, non a guidare verso la nuova frontiera. Lo scontro è su chi comanda, sempre, solo su chi comanda. Allora, è naturale che Pierluigi Battista noti con enfasi non priva di ammirazione, parlando di un discorso di Renzi (Il Corriere della Sera, 24 giugno) che “due minuti del discorso di Matteo Renzi sono stati strettamente dedicati a Mary Poppins, tra una parabola sulla Polaroid e una citazione dei Righeira”. Il commentatore è entusiasta perché Renzi spazza via il vecchio, senza romperci le scatole con il nuovo. Che volete di più? Chi ha dato ha dato, e gentilmente se ne vada. Chi non ha ancora avuto, scalpita di giovinezza per entrare. Fate largo prima che qualcuno si intestardisca a voler discutere un punto, un solo punto, sulle urgenti e disperate cose da fare, di cui tanti sono in attesa.

La Stampa 29.6.12
«Roma». Ritrovato il relitto
Un pezzo di resistenza da non dimenticare
di Umberto Gentiloni


In pochi minuti, meno di mezz’ora, va a picco la Corazzata Roma. Il gioiello della marina militare italiana era in navigazione a nord della Sardegna nel pomeriggio del 9 settembre 1943, il giorno dopo l’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani. Varata alla vigilia dell’ingresso in guerra, il 9 giugno 1940, grazie al lavoro dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico aveva raggiunto in pochi mesi risultati invidiabili. Tra le corazzate che solcavano i mari tempestosi della Seconda guerra mondiale i suoi 32 nodi di velocità rimangono insuperati e la dotazione militare la qualifica sin dalle prime miglia: cannoni di avanguardia progettati dall’Ansaldo e costruiti dalla Odero Terni Orlando. Il dramma dell’8 settembre non risparmia nessuno, una vergogna nazionale che pesa come un macigno: la nazione allo sbando, la famiglia reale in fuga, l’esercito senza ordini e indicazioni, migliaia i soldati abbandonati sui diversi fronti di guerra. Che fare della flotta? Come comportarsi nelle ore cruciali? In un primo momento si ipotizza di dover distruggere le imbarcazioni per impedire che finiscano in mano nemica. Roma è alla fonda nel golfo di La Spezia. Dalla Capitale arriva un’indicazione chiara, probabilmente un’intesa tra governo Badoglio e comandi alleati: salpare rapidamente, direzione La Maddalena, rotta per 218°. E cosi avviene, sotto la guida dell’Ammiraglio Carlo Bergamini, alle prime luci dell’alba del 9 settembre. La navigazione procede per poco, prima di essere modificata da nuovi ordini. L’arcipelago è occupato dai tedeschi, giunti a largo dell’Asinara occorre invertire la rotta repentinamente e puntare verso Sud. È troppo tardi. L’aviazione tedesca decollata da Istrés (Marsiglia) è sopra la flotta italiana, i bombardieri bimotore volano a pochi metri dal livello del mare. La corazzata diventa un facile bersaglio: poco prima delle 16, la Roma viene colpita due volte e ferita a morte. Si ferma, sbanda, prende fuoco, si piega di dieci gradi a dritta. Si spezza in due (46 mila tonnellate di stazza) e si avvia verso il fondo del mare portando con sé l’antico orgoglio. In 20 minuti tutto è finito, il mare si richiude dietro i due tronconi della corazzata. Le cifre sono impietose: dei quasi duemila uomini di equipaggio, i superstiti sono circa seicento. Un pezzo di Resistenza da non dimenticare.

Corriere 29.6.12
Ottanta colpi di mattarello, primario uccide la moglie
di Cesare Giuzzi


LEGNANO (Milano) — L'ha colpita ottanta volte. Cinque minuti di follia, chiuso nell'androne del palazzo di via Marconi, 6 a Legnano, venticinque chilometri da Milano, verso l'aeroporto di Malpensa. Lo hanno bloccato due vicini di casa, uno gestisce un ristorante proprio in via Marconi, quando, finalmente, sono riusciti a trovare le chiavi per aprire il portone.
Per una manciata di minuti sono stati costretti ad assistere impotenti all'assurdità di quella scena. Hanno provato a sfondare la porta, hanno tentato in tutti i modi di fermarlo: il dottor Roberto Colombo, 58 anni, primario del reparto di oculistica dell'ospedale di Gravedona, nel Comasco, con un mattarello di 80 centimetri in pugno, l'ex moglie, che lo aveva anche denunciato per stalking, Stefania Cancelliere, di 19 anni più giovane, mamma di tre bambini, sul pavimento di marmo ormai in balia della sua furia.
Lui, l'ex marito diventato assassino, ammanettato nella volante della polizia del commissariato di Legnano non ha detto una parola. A chi lo ha fermato ha chiesto solo una bottiglia d'acqua. Gli agenti sono riusciti a rianimare la 38enne, i medici del 118 hanno sperato fino all'ultimo in un miracolo. È morta ieri mattina dopo 16 ore di agonia all'ospedale di Legnano. Stefania Cancelliere era al secondo matrimonio. Il figlio più grande, sette anni, avuto dal precedente marito, ha assisto per pochi istanti al delitto. Era sceso dall'attico al quarto piano dove la donna vive con i figli, (altri due, più piccoli, avuti da Colombo erano rimasti in casa con la babysitter), la madre invece aveva preso l'ascensore. È arrivata per prima, ha trovato l'ex marito ad attenderla. Il figlio ha visto l'aggressione ed è scappato di sopra. La bambinaia è corsa giù dalle scale, ha cercato di intervenire poi, terrorizzata, è tornata nell'attico per chiamare il 113.
Roberto Colombo e Stefania Cancelliere erano separati, lui aveva abbandonato l'attico e s'era stabilito al piano terra, dove aveva un altro appartamento, comprato come investimento. Da qualche settimana aveva lasciato anche quella casa per trasferirsi nell'hinterland milanese. Famiglia facoltosa, quella del medico Colombo. Lui, schivo e sempre gentile, si era candidato alle amministrative della primavera scorsa a Legnano con l'Italia dei valori. Non era stato eletto. «I soldi non sono mai mancati, né a lei, nè ai bambini». Stefania Cancelliere negli ultimi tempi aveva iniziato a frequentare un nuovo fidanzato. Lo si era visto anche nel palazzo di via Marconi. Forse questo, oltre alle liti frequenti legate ai beni del medico e al mantenimento dei bambini, potrebbe aver fatto precipitare la situazione. «Si sentiva in pericolo», ripetono la madre e il fratello della vittima.
La denuncia per stalking presentata alcuni mesi fa alla Procura di Milano, non aveva prodotto effetti. Solo il sequestro di una collezione di armi del medico da parte degli agenti della polizia. Quasi una prassi. Non c'erano segnali — secondo gli investigatori — che facessero temere pericoli concreti.

Repubblica 29.6.12
Un verdetto che cambia l’America così i “Supremes” scrivono la Storia ora la salute non è più una merce
Il “tradimento” del giudice Roberts una bandiera d’indipendenza
di Vittorio Zucconi


NELL’AFFERMARE la legittimità della riforma voluta da Barack Obama per estendere d’imperio, quasi di forza, il diritto/ dovere alla sanità a milioni di cittadini ha fatto molto più che regalare al presidente in lotta per sopravvivere una vittoria politica insperata e un posto nella storia americana.
Ha aperto una breccia — come hanno capito subito i conservatori e l’opposizione che già gridano allo scandalo e all’avvento dello «stalinismo sanitario» — nel muro di interessi, di sfacciato lobbismo assicurativo, di tabù e paure che ha fatto degli Stati Uniti l’unico paese sviluppato, fra i trentaquattro che formano l’Ocse, senza un servizio sanitario nazionale. Pur spendendo, con duemila e cinquecento miliardi di dollari all’anno, e oltre ottomila pro capite, più di ogni altro, e questo senza essere affatto più «sano», più longevo o meglio curato degli altri.
La riforma di Obama, la «Obamacare » come derisoriamente era stata ribattezzata, non è la «mutua », non è il servizio sanitario nazionale, non è la formula del «single payer», di uno che paga per tutti (lo stato) che pure ottimamente funziona nel vicino Canada. S’impernia ancora sul privato, con l’obbligo di estendere a tutti e non negare
a nessuno coperture a costi ragionevoli e paragonabili a quelli che le nostre «previdenze» prelevano dai salari, non esistendo mai nulla, in nessun luogo, di «gratutito». Ma accetta e costituzionalizza il principio che un governo federale possa imporre, per il più grande bene comune, leggi e norme universali sul terreno anche della salute. Magari impopolari e invise, come questa è. Che questa breccia nella diga della anomalia americana sia stata aperta da una Corte Suprema formata da cinque giudici di provata fede conservatrice contro quattro considerati più progressisti, ha sorpreso tutti. Osservatori e allibratori avevano scommesso sulla cassazione di una norma che obbliga i cittadini non protetti già dallo stato — come gli anziani over 65 e i bambini sotto il livello ufficiale di povertà — a comperare polizze sanitarie, ma il «tradimento» di un magistrato, Roberts, passato da destra a sinistra per fare maggioranza 5 a 4 è la conferma del ruolo magnificamente super partes e indipendente che la massima Corte ha svolto e che è sopravvissuto a ogni prova. Il suo compito è di essere non un semplice verificatore robotico di coerenza costituzionale, ma interprete di giustizia, nel senso più profondo della parola. Più ancora della sentenza, è la sensazionale riaffermazione dell’autonomia della magistratura suprema dalle infiltrazioni della politica la buona notizia che ancora la Corte
Suprema americana ci trasmette.
I giureconsulti si scandalizzeranno — e già lo stanno facendo insieme con i «boia chi molla» delle destra parlamentare decisi a demolire alla Camera la legge che la Corte ha approvato — di fronte all’acrobazia compiuta dalle cinque toghe del «sì». Esse hanno interpretato l’obbligo di acquistare e offrire polizze a tutti, e di sovvenzionarle nel caso i cittadini non possano permettersele, come una «tassa», non come un’intrusione nella libertà individuale di commercio. Poiché sulla tassazione, la Corte non ha competenza, non può intervenire e cassare. È un evidente «escamotage», molto simile a quel «diritto alla privacy» nel quale altri giudici, ormai 40 anni or sono, lessero la legittimità dell’aborto, visto come evento privato nella vita di una donna. Proprio come nel caso di Roe vs Wade sull’interruzione di gravidanza volontaria, nel Brown vs the Board of Education, il provveditorato del Kansas al quale fu imposta l’integrazione razziale, nello scontro fra Stati Uniti vs Nixon quando fu stabilito che neppure il Capo dello Stato è al di sopra della legge, anche in questa occasione la Corte ha confezionato una scelta politica dentro la carta della Costituzione. Tutte le sentenze che nei due secoli di attività le nove toghe supreme, che scherzosamente sono spesso chiamate «The Supremes» dal nome di un famoso gruppo musicale, hanno emesso sono state di immensa portata politica, nei fatti, se non nelle intenzioni e non soltanto per gli Stati Uniti. Basti ricordare, oltre al caso dell’aborto legittimo che aprì la strada a leggi e referendum anche nelle nazioni più tradizionaliste, la decisione, sempre presa con il margine minimo di 5 contro 4 che nell’autunno del 2000 consegnò la Casa Bianca a George Bush.
Gli uomini e le donne (oggi tre, massimo storico, e tutte nominate da presidenti Democratici, Clinton e Obama) che compongono la Corte ne sono ovviamente consapevoli. Sanno che le loro rare sentenze — accettano circa 100 casi all’anno sugli oltre diecimila che vengono proposti — cambiano la storia della società, più di elezioni e presidenze. Ma se anche la loro assunzione a quel sommo trono giudiziario sul quale siedono a vita ha sempre una sponsorizzazione politica, essendo scelti da Presidenti in carica e poi sottoposti al voto del Senato, la loro indipendenza, il loro prestigio, la loro sensibilità ai venti del momenti, sono sempre stati rispettati. Anche dai perdenti, come fu Al Gore che accettò la sentenza e come quei 26 stati che si erano ribellati all’Obamacare vissuto come un diktat centralista contro la autonomia federalista.
La data del 28 giugno 2012 entrerà di diritto nel catalogo delle decisioni che hanno cambiato l’America, grazie al «ribaltone» di John Roberts, il presidente della Corte, un giudice che era stato scelto da George W Bush nel 2005 proprio per garantire una maggioranza di destra fra i «Supremes». Se anche Roberts, fiore di quella che altrove sarebbe chiamata spregiativamente la «casta», prodotto delle elite Harvardiane, protegè di un altro presidente ultra conservatore della Corte, consigliere legale di Reagan, alto funzionario di ministeri, giudice di Corte d’Appello, ha ascoltato la propria coscienza anziché il richiamo delle ideologie, significa che l’ora in cui l’America si riunirà al convoglio delle nazioni che considerano la sanità un diritto civile, e non un prodotto, è più vicino.

Corriere 29.6.12
Zapatero riappare ad Avila. E sfida un cardinale
di Andrea Nicastro


AVILA — Cosa deve succedere al più influente abortista, laicista, pro gay degli ultimi trent'anni, quando compare davanti a duemila persone raccolte dall'Università Cattolica di Avila? Ovvio, viene fischiato. Salve di «buu» all'arrivo e alla partenza con contorno di critiche e improperi online su tutti i canali disponibili. La Grande Speranza (svanita) della sinistra europea non poteva scegliere una maniera più spettacolare per tornare sulla scena pubblica.
José Luis Rodríguez Zapatero stava annegando ieri mattina tra i fischi quando per ripescarlo è intervenuto il cardinale Antonio Cañizares, suo «avversario» sul palco del dibattito. «Chi non lascia parlare entrambi — ha tuonato il prelato —, ha sbagliato indirizzo. Siamo qui per parlare di Umanesimo e l'Umanesimo esige rispetto delle persone». Zapatero, l'Ottimista Antropologico, rassicura ironico: «Vedete? Ho ancora il mio ottimismo». L'obbiettivo, andreottianamente parlando, è raggiunto: male, ma siti e social network parlano di lui.
Zapatero torna a 13 mesi di distanza dal «no» alla ricandidatura, a 7 mesi dalla disfatta elettorale del suo Partito socialista, a 6 mesi dall'addio alla politica attiva. L'ha fatto contro il parere dell'attuale dirigenza socialista, forse spaventata dalla contestazione, forse dal possibile successo del vecchio leader. E l'ha fatto in contemporanea con il vertice europeo che deve salvare, tra le altre cose, anche l'economia di una Spagna che lui ha contribuito ad affossare.
Zapatero non vuole più essere un politico, ma un intellettuale. Più sognatore che pragmatico. Più filosofo che risolutore. Un pungolo a favore di ciò in cui ha sempre creduto. Che poi è quello che, anche nei suoi quasi otto anni da primo ministro, ha saputo fare meglio.
Neri e rossi, benpensanti e mangiapreti, noi e «quelli là»: gli strascichi della guerra civile dividono ancora la Spagna. Zapatero lo ricorda di sicuro mentre lo fischiano. Da premier, con la legge sulla memoria, avrebbe voluto riaprire le fosse comuni del 1936 ed è riuscito quasi solo a riaprire ferite. «ZP», come lo chiamavano quando era un eroe del pensiero europeo, ha legiferato su aborto, divorzio, matrimoni gay, adozioni, procreazione assistita, tanto da diventare il nemico numero uno delle gerarchie ecclesiastiche spagnole.
L'insolito dibattito tra Diavolo e Acqua santa organizzato dall'Università e dal quotidiano cattolico La Razón ad Avila, la terra di Santa Teresa, si svolge in punta di fioretto. Molto respeto, rispetto (la più bella parola in castigliano, secondo, Zapatero). L'ex premier ribadisce il suo credo: laicismo, separazione Stato-Chiesa, diritti umani. Monsignor Cañizares ribatte con «radici cristiane, valori al servizio dell'uomo e della famiglia. Siamo tra democratici, ma non c'è democrazia senza coscienza». «Condividiamo molte cose — risponde l'ex politico — perché, come ha detto Sancho Panza, la «libertà è il bene più prezioso». È chiaro, ZP è tornato.

La Stampa 27.5.12
Nel caotico dopo-Gheddafi gli islamisti si preparano a prendere il potere in Libia
L’ex ambasciatore Gaddur: unità, o siamo perduti
di Guido Ruotolo


Il rischio? Che la Libia diventi una Somalia al confine dell’Italia. È preoccupato Hafed Gaddur, ambasciatore della Libia a Roma fino a pochi giorni fa. La magistratura della nuova Libia l’ha assolto dalle accuse (anonime) di essere stato un «disonesto» e poco «patriota».
L’ambasciatore Gaddur ammette che quando con un grappolo di ambasciatori, nove giorni dopo l’inizio della rivolta contro Gheddafi, decise di aderire alla Rivoluzione, sperava «che la Libia sarebbe diventata una Svizzera dell’Africa»: «Ma oggi la situazione si presenta drammaticamente diversa».
È appena iniziata la campagna elettorale e il 7 luglio si voterà per l’Assemblea costituente, che dovrà redigere e approvare la nuova Costituzione. Lo scontro è tra lo schieramento integralista che vede al suo interno formazioni che vanno dai Fratelli Musulmani al Fronte nazionale per la salvezza della Libia, che prospettano una Costituzione fotocopia della Sharia, e l’Alleanza delle forze nazionali che ha fatto dell’Islam moderato il suo cavallo di battaglia.
In tutto il paese si registrano scontri armati. Bengasi da culla della Rivoluzione è diventata il regno della paura controllato soprattutto dagli integralisti, con agguati e sparatorie. Gli ultimi clamorosi attacchi hanno riguardato il consolato americano e il corteo d’auto dell’ambasciatore inglese in Libia.
Gli islamisti si sentono i padri e i martiri della Rivoluzione e non sanno cosa sia il rispetto delle regole, delle leggi, dello Stato. Qualsiasi contrasto i bengasini lo risolvono con l’uso della forza. Prevale la mentalità beduina. Qualche esempio? Il primo ministro El Kiebi viene circondato all’aeroporto e deve scappare per partire da un altro scalo.
«Naturalmente la forma dello Stato è, sarà materia di discussione nell’Assemblea costituente». L’ambasciatore Gaddur si ferma qui, però non è un mistero che in Libia si discuta su una forma di Stato federale come quando Re Idris nel 1952 si ritrovò il «Regno della Libia Unita».
Oggi nel paese regna il caos. La tribù Mashashia ha combattuto con Gheddafi e oggi è in guerra con la tribù Gontran di Zintan. Misurata è in guerra con Taurga i cui uomini si schierarono con Gheddafi. Per Misurata, Taurga deve «sparire». Lo stesso accade tra Zwarah e Jmail e Regdaline. Tra Sabratah e Zwarah. E a Kufra è peggio ancora. A Derna, regno dei qaedisti e degli integralisti islamici, tutti gli occidentali, anche dei «paesi amici» come la Francia «sono nemici perché occidentali».
La Libia è una polveriera, non c’è polizia e l’esercito nazionale, lasciando alle milizie il controllo del territorio. Poco più di un mese fa sulla strada per l’aeroporto di Tripoli è stata trovata una fossa comune: mille morti. Molti avevano in tasca ancora i cellulari.
Con il vento della rivincita islamista che soffia dall’Egitto al Maghreb, la possibilità che il responso delle urne consegni la Libia agli estremisti è reale.

Corriere 29.6.12
Poincaré, la sublime imperfezione che porta alla verità
La ricerca scientifica procede sempre per errori
di Cédric Villani


Cento anni fa si spegneva Henri Poincaré, «primo matematico di Francia e del mondo», come si diceva in Francia, e anche nel resto del mondo.
Borghese tranquillo e grassottello, miope come una talpa, ha fatto comunque sognare, grazie al forte vigore della sua mente, gli uomini dei secoli a venire. Poincaré non era soltanto un grande matematico; era anche un grande fisico, un grande astronomo, un grande ingegnere, un grande filosofo, in una parola un grande uomo universale, consultato in tarda età come un oracolo, e su qualsiasi argomento. Simbolo della forza e dell'unità del pensiero umano, fragile e prezioso, sul quale Poincaré ha scritto pagine mirabili: «Il pensiero non è che un lampo nel mezzo di una lunga notte, ma è un lampo che significa tutto».
Poincaré s'interessava a tutto, imparava tutto, rivoluzionava le teorie matematiche e fisiche, vedeva tutto in grande. Non stupiamoci, dunque, che commettesse anche dei grossi errori! In fondo, solo i morti non fanno errori; e Poincaré non era di quelli che preferiscono concentrarsi su enunciati prudenti e poco impegnativi che non hanno neanche il merito di essere falsi.
Il suo errore più celebre, quello che illuminerà a lungo la leggenda delle scienze, l'ha commesso studiando il problema dei tre corpi. Perché tre corpi? Perché, da Newton in poi, si sapeva risolvere il problema di due corpi in interazione, ma non quello di tre corpi, o di quattro corpi, o di qualsiasi altro numero ancora maggiore di corpi. Prendete due corpi, due masse: la Terra e il Sole, per esempio; prescindete da tutto il resto dell'universo e calcolate il loro movimento servendovi delle equazioni di Newton. La soluzione è presto trovata: la Terra disegna una meravigliosa ellisse attorno al Sole, una traiettoria semplice ed elegante, scoperta già molti millenni fa dai matematici greci, ben prima che si venisse a conoscenza di una Terra orbitante — e riscoperta dall'astronomo tedesco Johannes Kepler ancor prima che Newton avesse compreso l'attrazione gravitazionale.
Con due corpi, abbiamo dunque una bella ellisse, stabile all'infinito, che si perpetua fino alla fine dei tempi. Ma se consideriamo gli altri corpi, gli altri pianeti, che cosa accade? Dopotutto, se la Terra è attratta irresistibilmente dal Sole, è anche influenzata da Giove, Marte e da tutti gli altri pianeti più lontani. Certo, sono influssi che non hanno gran peso rispetto alla formidabile attrazione esercitata dal Sole, ma non potrebbero turbare l'equilibrio della bella macchina?
La Terra continuerà a girare per sempre attorno al Sole, o un giorno finirà per entrare in collisione con un altro pianeta? A partire dal momento in cui consideriamo l'influsso del terzo astro, siamo perduti, non sappiamo più che cosa rischia di prodursi; e, quel che è peggio, nel sistema solare ci sono 9 o 10 pianeti! Ma cominciamo con i tre corpi, e cerchiamo la risposta nel cuore delle equazioni. Stabilità o instabilità?
A 35 anni, per concorrere al premio per le matematiche offerto dal re Oscar di Svezia, Poincaré studiò il problema dei tre corpi, sebbene in una versione ancora lievemente semplificata.
Un problema che lo appassionava — lui che amava osservare il mondo circostante solo per ricavarne le leggi costitutive. Un problema che gli fece superare se stesso! La giuria non stentò a riconoscere lo stile del giovane matematico francese in quel manoscritto anonimo che traboccava di idee nuove dai nomi originali, e che dimostrava la stabilità in modo tanto elegante. Poincaré vinse il primo premio per alzata di mano.
La sua relazione non era comunque perfetta. Tutt'altro. Quante incertezze, imprecisioni, ambiguità nella dimostrazione di Poincaré! Nulla di sorprendente — tutti sapevano che il geniale matematico non era un modello di chiarezza.
Stesura ellittica, asserzioni ingiustificate, digressioni pedagogiche che interrompevano il ritmo del discorso; erano difetti del tutto familiari ai lettori di Poincaré.
I suoi articoli ribollivano di idee, ma la verifica di quelle idee non risultava affatto agevole, e nessuno rimase sorpreso dal lungo elenco di osservazioni preparato da Phragmén, il giovane e talentuoso assistente incaricato della pubblicazione del manoscritto di Poincaré.
Poincaré corresse tutto ciò che poteva, fino a sentirsi convinto di aver ripreso il controllo di tutto. Un manoscritto ben costruito, un edificio inattaccabile!
Eppure, una delle lucertole che Phragmén aveva scovato all'interno del monumento si mise a tormentare Poincaré più del lecito. Finché un giorno egli non dovette arrendersi all'evidenza: era tutto sbagliato! La crepa si era ingrandita fino a formare una voragine che comportava il crollo dell'intero edificio del teorema!
Ma Poincaré aveva già ricevuto il premio, le onorificenze e il denaro, il suo articolo era pubblicato, era una celebrità mondiale. Che pressione terribile sulle spalle del giovane matematico! Che fare di quella prova infetta?
Prima di tutto, non diffondere l'infezione — e l'editore riuscì a riavere indietro tutte le copie dell'articolo pubblicato. Meno male che Internet non esisteva ancora! Fu possibile recuperare tutto e distruggere tutto. La faccenda costò cara a Poincaré, ma era in gioco la sua reputazione. E poteva fare di nuovo lavorare il suo potente cervello.
E… incredibile! Poincaré riuscì a riparare tutto quanto. Certo, con una differenza di spessore: la sua conclusione, cambiando totalmente, aveva messo il dito sulla difficoltà maggiore, e scoperto come nella bella meccanica cosmica, retta da equazioni impeccabili e precise come orologi, potesse prender vita l'instabilità.
Equazioni più esatte del più preciso orologio svizzero, ma così sensibili alle condizioni iniziali che le predizioni ultime possono essere modificate da un granello di polvere, dal battito d'ali di una farfalla, come si dirà in seguito. Viene in aiuto a Poincaré un altro francese, Jacques Hadamard, e i due devono per forza constatare che la perfezione kepleriana ha lasciato il posto a una sublime imperfezione, ricca e piena di possibilità.
Come Cristoforo Colombo che intoppò per sbaglio nel continente americano, Poincaré scopre un nuovo continente scientifico, un mondo imperfetto e caotico, le cui leggi, anche se rimangono deterministiche, conducono a comportamenti imprevedibili, comprensibili ormai solo sotto il profilo statistico. (...)
L'imperfezione ci è familiare. Ci bagniamo nell'imperfezione, siamo i figli dell'imperfezione, le dobbiamo tutto. È l'imperfezione della riproduzione che ha permesso l'evoluzione delle specie; centinaia di milioni di mutazioni, forse, a partire dell'invenzione del batterio, che fa di noi ciò che siamo; selezionati dal nostro stesso sovrappopolamento, di errore di trascrizione in errore di trasmissione.
Come cantava la cantante di protesta Mama Bea Tekielski, «Siamo il risultato di un'equazione sbagliata». Per fortuna! L'imperfezione, statutaria e salutare, è la nostra forza; se fossimo tutti perfetti, saremmo condannati.
La variabilità genetica è la nostra migliore risorsa nei confronti del mondo biologico, così mutevole e così minaccioso. E dà luogo a mescolanze così meravigliose.
L'imperfezione la ritroviamo in tutto ciò che facciamo.
Nelle lingue, la cui favolosa diversità è il frutto di innumerevoli sbagli di traduzione, errori di ortografia e di grammatica, alterazioni e pronunce erronee, cattivo latino cristallizzato in un buon italiano, dialetti incerti travolti da inflessioni tenaci, e centomila storie di errori consolidati che contribuiscono a formare la nostra torre di Babele.
L'imperfezione è anche, ovviamente, acquattata in tutti i nostri programmi informatici, sempre più faraonici, di cui nessuno riuscirà a debellare tutti i bachi…
Ed è acquattata nelle nostre realizzazioni tecnologiche, condannate a vivere con i loro intrinseci errori d'impostazione, che nessun progresso potrà emendare — come le nostre macchine da scrivere, dotate in modo ridicolo, e forse per sempre, di una tastiera dalla disposizione assurdamente inefficace.
E il pensiero, quell'illuminazione di cui tutti andiamo fieri, è forse perfetto?
Mi viene da ridere! Che confusione è mai il pensiero umano! Ha creato il ragionamento matematico, perfetto nella sua forma e nella sua logica, solo con uno sforzo enorme.
Ma non è qui la sua essenza originaria. Poincaré l'ha spiegato molto bene analizzando alcune delle sue scoperte più magistrali: le associazioni d'idee, spontanee e incomprensibili, che subentrano ai periodi di riflessione cosciente, in un caos imprevedibile come quello previsto dalle sue teorie fisiche. Anche i grandi matematici devono far leva sull'irrazionale. E, contestualmente, sono esposti a errori. Anche i matematici migliori, com'è il caso di Poincaré. A volte commettono due errori alla volta, errori che hanno il buon gusto di annullarsi a vicenda. Come accadde a Galileo quando descrisse la traiettoria di una palla di cannone; o, a volte, più drammaticamente, se la devono vedere con tre errori, i quali si rafforzano l'un l'altro, come accadde a Lord Kelvin quando calcolava l'età della Terra. E si potrebbero moltiplicare esempi e controesempi.
Non c'è però nulla di tragico; nel campo del pensiero umano, come in quello delle lingue e in quello della biologia, la possibilità di errore è una fortuna, perché da essa scaturirà l'inatteso e qualche volta il sublime!...
(Traduzione di Sergio Arecco)

Repubblica 29.6.12
Internazionale nera 2.0 il network dei nuovi fascisti da Roma verso l’Europa
Si moltiplicano. Eludono i controlli. Eguadagnano consensi
di Paolo Berizzi e Marco Mathieu


Migliaia di siti Internet, Facebook e gruppi “chiusi” così comunicano i giovanissimi della destra radicale
Dal rock “identitario” al circuito “Blood & honour” i concerti diventano occasioni di adunate politiche

Cambiano pelle. Riappaiono. Si trasformano, si mimetizzano, poi riemergono. E, come i loro gemelli europei, cavalcano l’onda populista che da un decennio monta sulle macerie della crisi economica, «nelnomedellaxenofobiaedell’anti-europeismo », come spiega il rapporto del think-tank indipendente inglese Demos, che ha studiato comportamenti e motivazioni delle nuove generazioni di “camerati” «attraverso l’osservatorio privilegiato dei social network». Perché i nuovi fascisti d’Italia fanno parte di una più ampia Internazionale Nera 2.0 che, tra risse, faide e successi, continua a fare proseliti e piazzare rappresentanti in Parlamento. Se li pesi in cabina elettorale, da noi, sono una piuma: sotto il 2%, nemmeno 500mila voti. Però occupano piazze, curve degli stadi, università e licei, puntellano consigli comunali e si mettono alla testa di un nuovo ribellismo sociale di ritorno: dai Forconi siciliani alla rivolta ultrà contro i rom di Pescara.BANDE NERE E ITALIANE
Si dividono in conservatori e modernisti, istituzionali moderati, affaristi, nostalgici, stradaioli squadristi, movimentisti. Questi ultimi in leggero vantaggio sugli altri, ma poi neanche tanto se è vero che i numeri più importanti oggi li fa la Destra in doppiopetto di Storace alleata col Pdl: 7-8mila militanti, inglobando formazioni come la Fiamma Tricolore di Luca Romagnoli (quello che dichiarò: «Le camere a gas? Non sono certo che siano esistite»), il Fronte Sociale Nazionale di Adriano Tilgher e sigle del “laboratorio” romano vicine al sindaco Alemanno. Ma anche quelli del Veneto Fronte Skinhead, che all’ultima “adunata di piazza” (3 marzo) hanno sfilato nel corteo di Storace, seppur con il proprio “servizio d’ordine”. In competizione con quel che è diventata CasaPound: duemila iscritti, diciotto sezioni in tutta Italia, l’anno prossimo il primo centro sociale di destra, oggi brand nazionale, festeggia i 10 anni e si è regalato un sindacato (BLU, blocco lavoratori unitario). Strategia politica e comunicativa all’insegna del mimetismo (o del fascismo “di sinistra”, sul modello di Terza Posizione)? Perché intanto recupero di spazi sociali abbandonati e iniziative di solidarietà (terremotati, senza casa, nuovi poveri, anziani) convivono con l’urlo violento degli scontri di piazza e dei pestaggi. Spinta a doppio binario adottata, recentemente, anche da Forza Nuova: il partito di Fiore — la più cattolica e oltranzista delle formazioni della destra radicale — si gioca la carta “sociale”: dopo la partnership con gli ultrà pescaresi insorti contro i rom, l’ultimo esperimento, un po’ acrobatico e per ora naufragato, è stato il tentativo di confluire nel movimento No Tav. «Non saremo più cacciati dalle piazze, faremo sollevare il popolo», ringhiano i forzanuovisti che continuano a organizzare prove di servizio d’ordine nei parchi (Verona), corsi di autodifesa “politica” (Reggio Emilia) e che, per recuperare il calo di consensi degli ultimi anni, stanno provando anche un gemellaggio con il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo (lo spot di un’iniziativa di Fn è stata ospitata sul sito del comico-blogger).
Ma altre sigle minori guadagnano terreno, tra Roma e Milano. Militia, per esempio, attiva da qualche anno nonostante le operazioni di polizia come quella che — il 7 giugno 2011 — ha portato all’arresto del leader Stefano Schiavulli per sequestro di persona, rapina e lesioni: romani, anti-sionisti, si firmano con simbolo runico e ricoprono i muri della capitale con slogan inneggianti alla famiglia e minacce a “ebrei” e immigrati. Poi ci sono “quelli” di Contro Tempo: giovanissimi della Roma “bene”, si ispirano alla «sovranità nazionale d’annunziana, ai moti risorgimentali e a Roma, dove sono nati i diritti ». Ai primi di marzo due studenti del liceo Righi sono finiti in ospedale col naso rotto dopo un’aggressione “firmata” ControTempo: intenzionati a far fare ai giovani dell’estrema destra un “salto di qualità” nella contrapposizione politica sono duri ma non “puri” come i milanesi di Lealtà e Azione. Costola degli Hammerskin, i temuti “martelli incrociati” con filiali in tutto il mondo, sono considerati la struttura più militante e organizzata dell’estremismo nero: un centinaio di aderenti “molto palestrati”, raccolgono l’eredità di Cuore Nero, esperimento di centro sociale affiliato a Casa Pound morto sul nascere. I punti di riferimento politici sono ex di An confluiti nel Pdl: Paola Frassinetti e il capogruppo in Provincia Mamo Turci, fotografato il 23 aprile al cimitero Monumentale in occasione dell’anniversario dei Fasci di Combattimento.
L’IDENTIKIT DELL’EURO-CAMERATA
Fin qui, l’Italia. Ma come funziona il collegamento tra estremisti italiani ed europei? «Oltre la politica, l’ideologia e gli stadi, sono la musica e il web a costituire i nuovi veicoli internazionali di comunicazione tra gruppi dell’estrema destra radicale europea», riconosce il tedesco Bodo Becker, portavoce dell’Ufficio Federale della Protezione della Costituzione (Bundesamt fur Verfassungsschutz). «Il web è cruciale, perché è lì che si riconoscono e aderiscono, si organizzano, si tengono in contatto e riescono a mobilitarsi », aggiunge Kinga Goncz, parlamentare europea ed ex ministro degli Esteri ungherese. «A differenza dei vecchi partiti, queste nuove organizzazioni sono brave a usare Internet. Li aiuta anche la maggiore conoscenza dell’inglese da parte dei più giovani». E sono proprio le decine di migliaia di militanti di gruppi e partiti — da CasaPound Italia al National Front, da Dansk Folkeparti e Sverigedemokraterna al Front National, fino ai loro omologhi austriaci, tedeschi, finlandesi, fiamminghi e spagnoli — che nello studio firmato Demos tracciano il ritratto del camerata europeo 2.0: «Giovane, sotto i trent’anni, in prevalenza maschio, cultura media, spesso “sotto-occupato”, si identifica nei valori dell’organizzazione di appartenenza e cita la “difesa” nei confronti dell’immigrazione straniera come motivo di militanza. Non crede nel sistema giudiziario, né nell’Unione Europea che accusa di “non far nulla contro l’immigrazione”, ma sostiene esercito e polizia. Afferma di votare e non esclude il ricorso alla violenza per “difendere” i propri diritti o la patria dalla “minaccia islamica” che prevale come nemico rispetto agli antichi bersagli dell’estrema destra».
A questo proposito il rapporto cita un momento cruciale: giugno 2009, un gruppo fino a quel momento sconosciuto — English Defense League — scende in strada a Luton (estrema periferia londinese) per manifestare in modo violento contro i musulmani. Da lì a un anno, il “Partito della libertà” olandese avrebbe ottenuto il 16% alle elezioni, gli estremisti svedesi di Sverigedemokraterna sarebbero entrati per la prima volta in Parlamento, mentre in Ungheria continuava la trionfale marcia degli xenofobi di Jobbik (14,7% alle Europee del 2009, quasi 17% alle politiche del 2010). Fino al 18% sfiorato alle presidenziali dal Front National di Marine Le Pen e il 7% (prima volta in Parlamento) dei neonazi di Alba d’Oro in Grecia.
«Senza dimenticare quel che da anni succede in Italia, con lo sdoganamento dell’estrema destra realizzato da partiti di governo, così come in Slovacchia e Romania», avverte Kinga Goncz. «Le urne ultimamente hanno premiato i partiti socialdemocratici e quelli di estrema destra, perché i cittadini cercano soluzioni politiche, ma anche i colpevoli. Penso all’intolleranza nei confronti dei Rom oltre che degli arabi. Il pericolo esiste, lo dimostrano i programmi razzisti e xenofobi di questi partiti di estrema destra: sono contro l’Europa, restano una minoranza, ma bisogna vigilare». Perché le nuove bande nere «attualizzano le gesta del primo movimento fascista ma evolvono anche verso il neonazismo, assumendo riferimenti storici, miti simboli tratti dalla storia del Terzo Reich», spiega Saverio Ferrari, dell’Osservatorio sulle nuove destre. Anche quando l’ideologia si confonde e i nuovi gruppi radicali «mischiano idee politiche mutuate dall’estrema sinistra,così come dall’estrema destra,individuando nelle banche e nell’Europa i responsabili della crisi», ricorda il rapporto di Demos.
Così entrano in gioco nuove sigle, nuovi atteggiamenti. «Gli Autonomi Nazionalisti,
per esempio», segnala da Berlino Maik Baumgaertner, studioso dell’estrema destra. «Copiano simboli e stile dagli “autonomi” e dagli anarchici del Black Bloc, cercando di apparire più contemporanei e raccogliere consensi nelle sottoculture giovanili, tanto che ora in Germania esiste anche un  gruppo di estremiste di destra hiphop».
HATE MUSIC E NAZI-SKIN
In Italia non si arriva ancora a tanto, ma è proprio CasaPound a vantare crescenti contatti europei, a cominciare da quelli con i francesi del Bloc Identitaire, per continuare con i luoghi dove la band simbolo del movimento, gli Zeta Zero Alfa di cui Gianluca Iannone è cantante, è stata invitata a suonare in questi anni. Olanda, Spagna. «E anche Germania, dove affascina il loro modo di proporsi, soprattutto tra le nuove generazioni», aggiunge Baumgaertner, «perché sono molto bravi a usare il web e attenti nel non utilizzare vecchi simboli e slogan: questo li rende interessanti, direi quasi non convenzionali».
Più “tradizionale” è invece l’approccio del Veneto Fronte Skinhead, formatosi negli anni Ottanta sull’onda della degenerazione “nazi” di una parte del movimento skinhead che si era prodotta in Inghilterra, per iniziativa di una band — Skrewdriver — e del suo leader — Ian Stuart — affiliato al National Front. Più tradizionale perché legato al tifo ultras (Hellas Verona) e alla cosiddetta “ hatemusic”, la musica dell’odio appunto, trasfigurazione dell’oi! music, storica colonna sonora skinhead: dal circuito Rock Against Communism, avviato proprio dagli Skrewdriver, al conseguente “Blood & Honour”, network europeo di band musicali neonaziste o comunque votate all’intolleranza violenta (dai veneti Peggior Amico agli inglesi Brutal Attack, i tedeschi Lunikoff Verschworung, Oidoxie, Endstufe, Kraftschlag e Blitzkrieg, e ancora gli italiani Legittima Offesa e Timebombs), che ha recentemente trovato un “referente” romano negli Spqr Skins subentrati a Casa Pound Italia nell’occupazione della casa di Colle Verde dove organizzano concerti. Senza dimenticare che «nelle province di Bolzano e Verona, appartenenti al Veneto Fronte Skinhead hanno partecipato in questi anni a manifestazioni in favore di criminali nazisti, organizzate dai tedeschi dell’Npd», come rivela una fonte investigativa italiana. Esiste poi un livello “politico” di questi collegamenti europei, che vede particolarmente attivo il ruolo di Forza Nuova: ogni mese decine di militanti del partito di Roberto Fiore, che nel 2002 — insieme alla Falange spagnola e allo scopo di «sviluppare una piattaforma politica comune di orientamento cristiano e identitario»—hacostituitoil“Fronte NazionalistaEuropeo”, raggiungono i camerati di Alba d’Oro in Grecia, ma anche quelli del tedesco Npd, del Narodowe Odrodzenie Polski in Polonia o quelli di Noua Dreapta in Romania. Ed è già storia il “gemellaggio” del partito di Fiore con gli xenofobi ungheresi di Jobbik, se ne trovano tracce nella comune organizzazione di convegni, così come nel materiale di scambio presente nelle relative sedi. Perché la rete dei camerati 2.0 è composta da una moltitudine di siti web per comunicare (1.000 nella sola Germania), oltre che da decine di concerti e raduni per stringere gemellaggi ideologici e alleanze politiche. Tra parate militari e “corsi di difesa”. Ma cosa si può fare per controllare e fermare questa deriva? «Ci vogliono direttive e leggi europee contro i rigurgiti di razzismo e fascismo», sostiene Kinga Goncz. «Serve un’Europa più forte e condivisa, espressione di valori democratici e diritti umani. Ma anche un maggiore coordinamento tra le diverse polizie, per fronteggiare questi fenomeni eversivi».
Dal fronte investigativo risponde infine Bodo Becker: «Allo stato attuale tutto ciò che possiamo fare è passare le informazioni ai nostri colleghi oltre confine, ogni volta che i soggetti da noi “attenzionati” perché appartenenti a organizzazioni e gruppi pericolosi si spostano, ma certo non è abbastanza». No, non è abbastanza.

Corriere 29.6.12
L'antiebraismo cattolico sopito dal Vaticano II
La svolta del Concilio e il ritorno dei pregiudizi
di Francesco Margiotta Broglio


Il mese scorso Benedetto XVI ha riaffermato che il Vaticano II «non solo ha preso una posizione chiara contro tutte le forme di antisemitismo, ma ha gettato le basi per una nuova valutazione teologica del rapporto Chiesa-ebraismo», mentre, qualche giorno dopo, il cardinale Koch, presidente della Commissione per i rapporti con l'ebraismo, ha dichiarato che nel mondo di oggi «la piaga dell'antisemitismo sembra inestirpabile», che la Chiesa ha l'obbligo di «denunciare l'antigiudaismo e il marcionismo come tradimento della stessa fede cristiana» e che «il negazionismo non è ammissibile nella Chiesa, ma anche in una onesta visione storica».
Posizioni molto chiare, ben diverse da quelle del cattolicesimo italiano del secondo dopoguerra oggetto dell'analisi originale e, per alcuni aspetti pionieristica, di Elena Mazzini (L'antiebraismo cattolico dopo la Shoah, Viella, 2012, pp. 200, 25), che si affianca ai volumi di Zanini e di Di Figlia dei quali il «Corriere» ha già parlato (29 aprile e 15 maggio). Un'analisi che conferma che, se per gli anni della guerra si deve parlare di «rimozione psicologica» e di invisibilità di Auschwitz, per quelli del dopoguerra si deve riconoscere che la memoria dell'Olocausto è rimasta sostanzialmente marginale fino al processo Eichmann (1961) e alla guerra dei Sei giorni (1967) (Laqueur, Traverso). E dimostra che la Chiesa di Roma non sfugge fino al Concilio alla tentazione neo-antisemita: l'ebreo del genocidio diventa gradualmente sionista e israeliano grazie al comodo alibi che camuffa il razzismo da questione di politica internazionale. E non sfugge a quella rimozione delle leggi del 1938 che anche per la Santa Sede erano rimaste una «memoria estremamente imbarazzante», che non veniva integrata in quella della Shoah (A. Foa).
L'autrice isola e discute i momenti che segnano continuità e discontinuità storiche della tradizione antiebraica cattolica esaminando per gli anni Cinquanta l'«Enciclopedia cattolica» e la «Civiltà Cattolica». Tra i lemmi della prima (razzismo, genocidio, ebrei, Israele, sionismo, antisemitismo) fa notare che solo nell'ultima voce una sola riga, «più allusiva che storicamente determinata», è dedicata alla Shoah e che se vi si legge che «l'antisemitismo… è contrario alla morale cristiana e comporta gravi pericoli per la fede», vi si osserva anche che «è lecito un antisemitismo nel campo delle idee, volto alla vigile tutela del patrimonio… della cristianità». Le interpretazioni della seconda, nota per la propaganda antisemita tra fine '800 e primi decenni del '900, si segnalano essenzialmente per la strenua difesa di Pio XII messo in discussione, negli anni Sessanta, da «Il Vicario» e da una serie di opere storiche: certo è che l'attenzione riservata alla Dichiarazione conciliare che segnò la svolta nel rapporto con l'ebraismo fu del tutto esigua.
Particolarmente riuscito lo studio pionieristico della «letteratura del pellegrinaggio» degli anni Cinquanta e Sessanta — essenzialmente diari e testimonianze di ecclesiastici che utilizzano «stereotipie dell'antiebraismo per decifrare lo Stato d'Israele» e che, in alcuni casi, trasformano in antisionismo il tradizionale antisemitismo, evitando ogni riferimento allo Stato, ma richiamando spesso il conflitto arabo-israeliano. Seguono l'analisi del viaggio di Paolo VI in Terra Santa e dei commenti sulla stampa ebraica, lo studio dei riflessi della conciliare «Nostra Aetate» nella stampa cattolica (aperture religiose e dinieghi politici, con le posizioni anticonciliari del vescovo Carli) e della sua «ricezione» nella stampa ebraica. Per la Mazzini anche la «Nostra Aetate» non ha consentito una riflessione «incisiva e matura sull'antisemitismo cattolico» fino a quando la Chiesa non ha sciolto «il problema della sua posizione nei confronti di Israele». Un problema che resta, comunque, irrisolto per il molto che riguarda Gerusalemme e i Luoghi Santi, e che se ha mutato la retorica dell'antisemitismo, non ne ha completamente rimosso tutti i profili sistematici.

Corriere 29.6.12
Quella sentenza sulla circoncisione che fa arrabbiare ebrei e musulmani
di Paolo Lepri


La tesi paradossale di Abraham Yehoshua è che la religione abbia reso gli ebrei meno creativi perché «dalla mattina alla sera bisognava pensare a quello che era lecito o no». È molto probabile, però, che anche un laico convinto come il grande scrittore israeliano abbia accolto con perplessità la notizia che per la corte d'appello di Colonia la circoncisione di un bambino è un reato da perseguire penalmente, una lesione corporale che deve essere punita.
In Germania vivono quattro milioni di musulmani e circa 100.000 ebrei. Secondo le statistiche del 2007, il 10,9 per cento dei giovani di sesso maschile fino ai 17 anni è stato circonciso. Queste cifre spiegano da sole l'impatto che una sentenza come questa può avere. Non è vincolante, ma stabilisce un principio a cui altre amministrazioni tedesche potrebbero decidere di adeguarsi. «Avrà l'effetto di un segnale, rivolto soprattutto ai medici», dicono i giuristi.
Il consiglio centrale degli ebrei tedeschi ha definito la decisione della magistratura di Colonia «un'intrusione drammatica e senza precedenti sul diritto di autodeterminazione delle comunità religiose». Il presidente del consiglio centrale dei musulmani tedeschi, Aiman Mayzek, ha detto che «la libertà religiosa è molto importante nella nostra costituzione» e ha aggiunto che la sentenza è «ispirata da pregiudizi e li rafforza». Un altro esponente islamico in Germania, Ali Demir, ha ricordato che la circoncisione «è una pratica inoffensiva e una tradizione millenaria e altamente simbolica».
Un altro pericolo è che tutto questo possa creare un caso diplomatico tra Germania e Israele o aprire un conflitto istituzionale in Germania. Reuven Rivlin, presidente della Knesset, ha chiesto l'intervento del Bundestag, «perché in una democrazia parlamentare ad avere l'ultima parola è chi fa le leggi». Forse in tutta questa vicenda basterebbe un po' di buon senso. O qualche parola opportuna di un uomo sensibile e attento come il presidente tedesco Joachim Gauck.

Corriere 29.6.12
Caracalla

«Una cattedrale per il corpo. Con un fascino democratico»
di Roberta Scorranese


Roma, terzo secolo dopo Cristo. Crisi demografica e pressione fiscale stremavano una popolazione sempre più sfiduciata. C'era un esercito silenzioso, quello della plebe, a cui dar da mangiare e soprattutto, «da lavare». Ecco l'intuizione dell'imperatore Lucio Settimio Bassiano, detto Caracalla (per via di un indumento di origini galliche): garantire una pulizia corporea a tutti, nonché uno spazio dove distrarsi, prendersi cura di sé e non pensare alle tasse, alla situazione geopolitica incandescente ai confini dell'Impero, insomma ai grossi problemi del tempo.
«Nacque così quella gigantesca cattedrale del corpo passata alla storia come le Terme di Caracalla — afferma Andrea Carandini, ordinario di Archeologia Classica alla Sapienza di Roma — molto più di un complesso di bagni: era un monumentale centro polifunzionale, che offriva trattamenti per il fisico, ma anche due biblioteche all'esterno, nonché taverne nelle vicinanze destinate al popolo».
Sta qui il progetto di uno degli imperatori più discussi (Machiavelli, ne Il Principe, ne tratteggia un quadro pieno di ombre): unire la grandeur romana con una specie di democrazia igienica. «Il complesso termale era imponente — continua il professore, che alla struttura ha dedicato una parte del suo recente libro Atlante di Roma antica, edito da Electa —. Poteva accogliere fino a ottomila persone al giorno, si snodava in migliaia di metri quadri e nei sotterranei brulicavano schiavi addetti al riscaldamento delle vasche. Una gigantesca macchina, dunque, che impoveriva le foreste africane».
La grandeur, appunto. Tipica della romanità a partire dalla conquista delle paludi Pontine, in sostanza appena si spinsero oltre le porte di Roma. «Pensiamo solo alle case degli imperatori — dice Carandini —. Quella di Augusto misurava 8 mila metri quadrati. Un rapporto proporzionale con l'Impero e la sua grandezza. Ma anche le strutture pubbliche risentivano di questa spinta al gigantismo». E le Terme assomigliavano (all'esterno) a una grande stazione ferroviaria. Non è un caso che la Pennsylvania Station di New York sia stata realizzata (nel progetto originario) sul modello delle Terme romane. E che Sybille Bedford, la scrittrice amata da Chatwin, descrisse la Grand Central Station «splendida come le terme di Caracalla». Chiese per il corpo, si diceva. «Il Cristianesimo, più tardi — continua il professore — abolirà questo culto del corpo, accostando le terme a luoghi viziosi. Ma in origine erano sede di una duplice cura: mentale e fisica, una complessa ambizione all'armonia».
Caracalla, poi, verrà ricordato principalmente per il discusso editto con cui allargò la cittadinanza romana a tutti i residenti nei confini imperiali e per la spietatezza (fece uccidere il fratello, per dire). Ma c'è anche chi ne sottolinea lo spirito «imprenditoriale» e il tentativo di modernizzare le strade e i trasporti. «Quella Roma — conclude Caradini — in cui tutto si fondeva in un eterno presente. E dove anche la grandeur faceva parte di un disegno raffinato. E spesso incompreso».

Repubblica 29.6.12
La matematica aiuta a vivere meglio a 30 anni il picco dell’istinto dei numeri
di Elena Dusi


I ricercatori dell’università di Baltimora hanno sottoposto a un test diecimila persone tra gli 11 e gli 85 anni Lo studio, uscito sulla rivista scientifica “Pnas”, conferma che studiare bene a scuola fa mantenere l’allenamento

ROMA La matematica è un istinto che cresce e invecchia con noi. Come la forza dei muscoli, la capacità di manipolare i numeri si rafforza rapidamente nei bambini, raggiunge il massimo intorno ai 30 anni di età, poi inizia lentamente a decadere. In maniera sempre simile allo sport, un buon allenamento sui banchi di scuola migliora il rapporto con cifre e insiemi. E fa sì che l’agilità nelle operazioni resti intatta nonostante gli anni.
Il senso dell’uomo per la matematica ha la forma di una curva a forma di scudo, con il picco che coincide con la tarda gioventù. L’hanno messa insieme per la prima volta i ricercatori dell’università di Baltimora sottoponendo a un test numerico 10mila persone tra gli 11 e gli 85 anni. Raccogliere un numero così grande di “cavie” è stato possibile grazie a Internet,
che sempre più spesso viene sfruttato negli esperimenti scientifici su larga scala per la sua capacità di riunire grandi coorti di volontari provenienti da tutti i paesi del mondo.
Il test proposto dai ricercatori (ancora disponibile in rete su www.panamath.org) misura una funzione innata del nostro cervello: il sistema numerico approssimativo. Sullo schermo di un computer, per un tempo brevissimo, vengono proiettati due gruppi di cerchi di due colori diversi. I volontari devono decidere quale dei due gruppi è più numeroso. La capacità di soppesare e confrontare due quantità anche senza calcolarne la cifra esatta ha accompagnato la storia della nostra specie. Insieme alla geometria appartiene (in forme meno specializzate) anche ai bambini di pochi mesi e ad alcune tribù aborigene o amazzoniche che non hanno mai affrontato la matematica sui banchi. Alcuni esperimenti l’hanno riscontrata perfino in scimmie, piccioni e ratti. E i neurologi hanno individuato l’area dell’“istinto per i numeri” nel solco intraparietale: una delle pieghe della corteccia del cervello situata verso la nuca. Lo studio uscito su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) conferma che ottenere buoni voti, dalle elementari all’università, rende l’istinto più acuto e meno vulnerabile all’età. Curiosamente però, lo stesso numero della rivista pubblica un altro articolo che bacchetta gli scienziati. Loro per primi sarebbero troppo refrattari all’uso dei calcoli, con buona pace di Galileo secondo cui il grandissimo libro della natura è scritto in lingua matematica. Le pubblicazioni scientifiche che contengono molte equazioni, secondo lo studio di Pnas, vengono citate negli articoli scientifici successivi il 50% in meno rispetto a quelli scritti completamente nel “linguaggio delle lettere”. I ricercatori dell’università di Bristol che hanno misurato la pigrizia numerica dei loro colleghi suggeriscono di migliorare la preparazione matematica dei laureati nelle materie scientifiche. Ma secondo gli esperti di Baltimora, svolgere più operazioni sui banchi può migliorare l’“istinto dei numeri” nella popolazione in generale, aiutando chi invecchia a mantenere l’agilità mentale. «Abbiamo scoperto — scrivono gli autori — che la sensibilità ai numeri cresce durante l’età scolare e diventa massima intorno ai 30 anni. Questo miglioramento è comune a tutti, ma ci sono profonde diffidenze tra individui della stessa età. Quelli che vanno meglio in matematica a scuola, restano i più bravi per tutta la vita». Il sistema numerico approssimativo serviva ai nostri antenati a misurare, ancorché a spanne, il mondo della natura per decidere quale fonte di cibo era più abbondante o per darsi alla fuga nel momento in cui i nemici erano troppo numerosi. Oggi saper confrontare due insiemi può aiutare a scegliere la fila più corta o a sommare a grandi linee le calorie introdotte con la dieta. Cambiato il contesti, affidarsi al senso del cervello per i numeri conviene ancora.