sabato 30 giugno 2012

l’Unità 30.6.12
Harlem Dèsir: «Decisiva l’alleanza tra Francia e Italia»
«L’Unione non può essere quella in cui il più forte fa soccombere il più debole»
Il coordinatore del Ps francese: coinvolgere i cittadini, perché l’Europa non è un affare di élite politiche e tanto meno un affare dei mercati
di Umberto De Giovannangeli


«Francois Hollande ha dimostrato che il suo non è un europeismo di facciata. Quello di Bruxelles è stato il suo primo vertice europeo da presidente. L’asse con Monti ha funzionato, non solo in termini “difensivi” – lo scudo anti-spread – ma con le prime misure concrete – un investimento di 120 miliardi di euro per rilanciare la crescita”. A parlare, dal meeting di Firenze del gruppo S&D (socialists and democrats) del Parlamento europeo, è Harlem Dèsir, europarlamentare e coordinatore nazionale del Ps francese.
Qual è la sua valutazione del Consiglio europeo di Bruxelles?
«Ritengo che questo vertice abbia segnato un tornante nella politica europea su molti versanti...».
Quali?
«Innanzitutto ha permesso di dare risposte alla crisi bancaria che attanaglia diversi Paesi europeila Spagna, l’Italia, la Grecia – ma ha rappresentato un tornante anche sul versante della crescita, che è stata il cuore della campagna elettorale di Francois Hollande. L’asse Hollande-Monti allargato ad altri leader europei, tra cui, sia pure per motivi contingenti, il premier spagnolo Mariano Rajoy e col sostegno della Spd che ha fatto pressioni su Angela Merkel per ottenere questo risultato – ha permesso di impostare in termini nuovi questo dibattito in Europa, affermando che il rigore è senza dubbio necessario ma, come diciamo da diversi mesi, l’austerità da sola non ci farà uscire dalla crisi, mentre va rafforzata la solidarietà europea».
Anche alla luce di quanto si è determinato al Consiglio europeo, quali sono a suo avviso le sfide che attendono i progressisti europei?
«Il vertice è stato un successo, ma ora occorre trasformare queste decisioni politiche in fatti. Ad esempio, creare degli strumenti di solidarietà e per la crescita. Il che significa investimenti in progetti per lo sviluppo durevole, per la rete di trasporto, per le tecnologie verdi, in altri termini dare corpo a questo Patto per la crescita che alla lunga sarà una lotta molto dura da intraprendere e da vincere. E per farlo c’è il bisogno di coinvolgere i cittadini, perché l’Europa, il suo futuro, non è un ”affare” di ristrette élite politiche, tanto meno un affare” dei mercati, ma è qualcosa che ha che fare con il futuro dei popoli e dunque ha bisogno di un coinvolgimento pieno, attivo, dei cittadini. Deve essere un processo molto partecipato. I progressisti devono aprire un grande dibattito sul Patto per la crescita con i cittadini, con le parti sociali, perché l’Europa è innanzitutto una visione politica, un grande progetto politico che ha bisogno non solo di scelte concrete nell’immediato ma di un’anima. Ciò significa cominciare a ragionare di nuovo su un progetto fondante, su valori condivisi, su temi che stanno al cuore di un progetto progressista di Europa, sulla pace, la cooperazione, che è agli antipodi di una competizione selvaggia, e soprattutto la democrazia che chiama in causa la centralità dei parlamenti, di quelli nazionali e del Parlamento europeo, nella costruzione dell’Europa dei cittadini che è molto più dell’Europa dei mercati.
Quali sono allora le iniziative da intraprendere?
«Dobbiamo rafforzare la dimensione democratica del progetto europeo: la Corte di Giustizia non può essere quella che decide al posto dei parlamenti. Ci vuole una collaborazione molto forte tra il Parlamento europeo e quelli nazionali e un maggiore coordinamento nella definizione degli interventi e nella legislazione che investe questioni che ormai travalicano i confini e le prerogative degli Stati-nazione: dalla crescita economica alla sicurezza, dal contrasto alla speculazione finanziaria alla difesa dell’ambiente.
L’obiettivo?
«Abbiamo una moneta comune, ma non abbiamo una politica economica comune e, soprattutto, non abbiamo una Europa politicamente più forte e unita nelle sue istituzioni. Perché l’Europa a cui dobbiamo tendere, per cui dobbiamo batterci, è l’Europa che allarga i diritti di cittadinanza, amplia le garanzie sociali e fa di questo il punto di forza di una offerta politica che dovrà essere messa alla prova nel 2014, con le elezioni europee, e prim’ancora nelle elezioni legislative in Italia e Germania. Le elezioni in Francia hanno dimostrato che l’Europa è centrale nella scelta tra progressisti e conservatori, per questo è decisivo che le forze progressiste europee sviluppino non solo un programma ma anche una visione alta dell’Europa».
In ultima analisi, qual è l’Europa dei progressisti?
«L’Europa non può essere, non deve essere quella in cui il più forte fa soccombere il più debole. L’Europa deve difendere il suo modello sociale: questa è l’Europa dei progressisti».

l’Unità 30.6.12
I progressisti europei: alla fine decide la politica
di U.D. G.


Da Parigi a Firenze. I progressisti europei rilanciano la sfida per una Europa che sappia coniugare rigore e crescita; una Europa in cui la politica non abdichi alle sue responsabilità riducendosi ad ancella dei mercati. «Rilanciare l’Europa: la nostra visione alternativa per il futuro. Istituzioni-Democrazia-Cittadinanza»: il titolo del convegno promosso a Firenze dal Gruppo S&D (socialists and democrats) al Parlamento europeo, ha l’ambizione di indicare una via maestra, una visione condivisa da quelle forze che si candidano a guidare l’Europa in un futuro che si fa già presente, come dimostra la vittoria del socialista Francois Hollande alle presidenziali francesi del maggio scorso.
PROGETTO CAMBIAMENTO
L’incontro di Firenze s’intreccia, temporalmente, con le conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles. La situazione che si è creata in Europa è «responsabilità di classi dirigenti conservatrici che oggi finalmente cominciano a essere contestate e sostituite in molti Paesi europei» annota Massimo D’Alema, tra i partecipanti al meeting fiorentino. «Finalmente aggiunge l’ex ministro degli Esteri c’è un’Europa che prende un altro colore politico: alla fine a decidere è sempre la politica, non bisognerebbe mai dimenticarlo». «Il problema non è l'Europa, sono le destre europee che hanno governato il nostro continente e che l’hanno portato alla crisi drammatica di ora. L’Europa è andata male spiega il presidente della Fondazione Italianieuropei perché è stata guidata da forze politiche, da ideologie che hanno negato il valore della solidarietà e hanno esaltato il mercato senza regole, consentito la speculazione finanziaria; oggi paghiamo il prezzo di questo».
Il vertice di Bruxelles rappresenta «un buon inizio, ma la strada da percorrere è ancora molto lunga e ha come obiettivo strategico quello di rafforzare le istituzioni politiche dell’Europa», rimarca Hannes Swoboda, presidente del Gruppo S&D all’Europarlamento. Un concetto ripreso e articolato da Leonardo Domenici, europarlamentare del Pd, e da Ani Podimata, vice presidente greca del Parlamento europeo. In molti guardavano al vertice di Bruxelles come a una prova d’esame per Mario Monti. Una prova superata brillantemente, secondo D’Alema. Il risultato ottenuto a Bruxelles da Monti «è stato molto positivo. Siamo davvero contenti», sottolinea l’ex titolare della Farnesina. «L’Italia ha ottenuto una doppia vittoria contro la Germania?», gli chiedono i cronisti. «Abbiamo vinto la partita di calcio risponde D’Alema, e questa è stata una grande gioia. Ma a Bruxelles hanno vinto tutti gli europei, tutti i cittadini. Non è stata una sconfitta della Germania, è stata una vittoria di tutti». «Il vertice spiega ha portato le decisioni che erano attese, che erano necessarie. Ora valuteremo tutti gli aspetti, anche tecnici, ma credo che da una parte era attesa una strategia per la crescita, un pacchetto di investimenti europei e regole urgenti per il patto di stabilità che consentano di distinguere nella valutazione dei conti pubblici le spese dagli investimenti. Dall’altra parte era assolutamente necessario affrontare la crisi del debito e la crisi bancaria e quello che, in particolare sul debito, aveva chiesto Monti è passato e siamo davvero contenti».
UNA NUOVA VISIONE
Ma i progressisti devono volare alto, oltre l’emergenza. Ed essere portatori di una «visione» di Europa che sia innanzitutto una visione politica e non tecnocratica, capace di uscire dalla marginalità a cui l’ha costretta il ciclo conservatore. «Con i governi conservatori, che hanno agito “sotto dettatura” dei mercati riflette D’Alema l’Europa è diventata il “problema” e non la “soluzione” di una crisi» che va oltre il Vecchio continente. L’Europa vista da sinistra, con uno sguardo progressista, è un’Europa che fa vivere in un’ottica di governo principi e valori che rappresentano l’essenza della sua identità: solidarietà, giustizia sociale, investimento sul capitale umano, e dunque sul sapere e sulle giovani generazioni.
È L’Europa che assume la crescita non solo come priorità, ma come sua «mission» strategica. Quella che vive anche nell’altro appuntamento fiorentino dedicato all’Europa: la tavola rotonda di presentazione del Manifesto «For a European Socialist Alternative», che ha tra i suoi promotori Harlem Désir, dirigente del Ps francese, e tra i primi firmatari presenti al dibattito gli europarlamentari del Pd Leonardo Domenici, Sergio Cofferati e Gianni Pittella, vice presidente del Parlamento europeo. Un incontro che ha visto tra i protagonisti anche il leader di Sel, Nichi Vendola. L’Europa guarda a sinistra. Una sinistra che si candida a governare. Per il cambiamento.

l’Unità 30.6.12
Vendola: senza Idv non c’è coalizione per le primarie
Il leader di Sel in conferenza stampa con Di Pietro: «L’Italia dei valori non può essere lo scalpo da offrire ai moderati»
di Andrea Carugati


Come Prandelli con Balotelli, Nichi Vendola s’incarica di fare da tutor a Tonino Di Pietro, definito «il discolo del Palazzo», ma comunque un «fondatore» del centrosinistra. E comunque, a chi nel Pd insiste a dare bassi voti in condotta a “Tonino”, a pensare di dargli un cartellino rosso alle prossime politiche, “Nichi” manda un messaggio chiaro: «Senza l’Idv, e dunque senza la coalizione di centrosinistra, di che primarie parliamo? Io non sono interessato a un’alleanza Pd-Udc in cui fare da gregario». In parole povere: «Se c’è Casini e non Di Pietro, non so cosa siano le primarie. Se saranno un congresso del Pd ne attenderò l’esito».
Conferenza stampa a due, nell’afa del venerdì festivo a Montecitorio. Il leader di Sel manda messaggi chiarissimi ai democratici, e in primo luogo a Bersani, cui riserva come sempre parole morbide: «Se lui vuole lavorare al dopo Monti noi siamo pronti. Ma non si parli di Grande coalizione, quella è la soluzione più nefasta».
Tonino-Franti fa di tutto per sembrare buono. Fa persino gli auguri di compleanno al Presidente Napolitano, per tentare di chiudere quella brutta pagina fatta di insinuazioni sulle telefonate intercorse tra il Colle e l’ex ministro Nicola Mancino. «Le prese di posizione politiche nulla hanno a che fare con la stima istituzionale. Non è solo un dovere ma un piacere fare gli auguri al Presidente Napolitano», scandisce l’ex pm.
Ma è Vendola a dare la linea, a dettare i primi cinque punti su cui aprire il cantiere di programma del centrosinistra che (forse) verrà: patrimoniale, reddito minimo, parità di genere, coppie di fatto, welfare ambientale. «Con chi non vuol parlare di coppie di fatto non prendo neppure un caffè», scandisce il governatore pugliese, che ha una lunga esperienza (per lui assai fortunata) di liti col Pd sul tema Casini, ultimo atto la candidatura alla guida della Puglia nel 2010, quando i democratici volevano candidare Michele Emiliano d’intesa con Casini e alla fine fu Vendola a spuntarla.
E ora è proprio dalle esperienze locali che il tandem Vendola-Di Pietro vuole far ripartire il centrosinistra. «Ma come, abbiamo vinto dappertutto con il centrosinistra, e perché mai ora dovremmo mutilare la nostra coalizione?» si domanda il leader di Sel. «Se lo scalpo di Di Pietro è un trofeo da offrire ai cosiddetti moderati, allora auguri, io la politica non la faccio così».
Un ultimatum al Pd? Vendola e Di Pietro negano con forza. «È un appello al Pd perché chiarisca la sua posizione sul piano programmatico, innanzitutto», dice il leader Idv. «Non siamo qui col coltello alla gola del Pd, semmai è la realtà che pone un ultimatum, visto il calendario...», rincara Vendola. Che aggiunge: «Abbiamo una tale volontà di fare il centrosinistra che siamo persino sdraiati, consapevoli che il popolo del Pd è una delle energie più preziose del Paese». E Di Pietro lancia una stoccata: «È l’accordo tra Pd e Udc che divide il popolo del centrosinistra». Vendola aggiunge una delle sue formule: «Bene il dialogo con i moderati, persino il compromesso. Ma non la resa». E ribadisce: «Non ci piace l’idea di un asse neo moderato tra Pde Udc. A quel punto tolgano addirittura il trattino dopo “centro” e la parola “sinistra”...». «Noi scandisce il governatore non vogliamo essere né alleati virtuali, né effimeri, eventuali o residuali».
Alla conferenza stampa di ieri avrebbero dovuto partecipare anche i “fab four”, i quattro sindaci eletti da Sel e Idv, Pisapia, Doria, De Magistris e Orlando. «Problemi di bilancio» li hanno tenuti nei rispettivi municipi. Tonino vedrà i suoi due sindaci oggi a Bari, mentre Pisapia e Doria hanno mandato una lettera per solidarizzare con le tesi di Vendola: e cioè ripartire dal centrosinistra che ha vinto e che governa le grandi città: «Per noi l’alleanza non può che essere quella che ha permesso al centrosinistra di vincere le elezioni e di governare grandi città come Milano e Genova», scrivono. E indicano la via dell’apertura alla società civile e anche del dialogo, «non subalterno», con forze moderate «disposte a confrontarsi col centrosinistra sui temi dello sviluppo, del rinnovamento della politica, della giustizia sociale».
Che faranno i due leader in caso di risposta negativa del Pd? Un listone progressista? Un rassemblement con pezzi della sinistra più radicale sul modello greco di Syriza, come li invita a fare il leader Prc Ferrero? Per ora non si sbottonano. «Immaginare subordinate vorrebbe dire indebolire la nostra proposta principale, che è quella di un cantiere del centrosinistra col Pd», spiega il leader di Sel. Di Pietro appare meno prudente: «Noi intanto ci avviamo...».

La Stampa 30.6.12
Vendola avvisa Bersani: se volete espellere Di Pietro, tanti auguri
Sullo sfondo anche la minaccia di allearsi con un listone civico di sindaci «vincenti»
di Carlo Bertini


«Non esiste alcun accordo tra Pd-Udc e Sel» e chi pensa di escludere l’Idv da un’alleanza si sbaglia di grosso «perché io non ci sto alla mutilazione di un pezzo del centrosinistra. E se l’espulsione è un trofeo da portare al tavolo dell’intesa con i moderati, auguri». Alla fine Nichi Vendola lo dice chiaro e tondo che smentire la vulgata secondo cui lui stia viaggiando a vele spiegate verso un’intesa con Bersani e Casini è il motivo per cui è stata convocata alla Camera una conferenza stampa in pompa magna. In cui la parte del leone la gioca appunto il leader di Sel, che non butta a mare l’idea di addivenire magari anche ad un «compromesso» con i moderati, ma dice «no ad una resa della sinistra». Stavolta l’ex pm fa la parte del discolo come lo definisce Nichi; temporaneamente rabbonito per non dare alibi alla sua «cacciata», che ricorda di aver portato «sempre rispetto alle istituzioni», facendo pure gli auguri di buon compleanno a Napolitano. E che incalza il Pd a fare una scelta di campo, «fuori dal Palazzo, perché di pane e spread si muore».
E se a Sel e Idv non piace affatto l’idea di un asse privilegiato tra Pd e Udc per essere poi chiamati a fare il ruolo di gregari, alleati residuali o virtuali», come dice Vendola, i due leader, pur non ammettendo che farebbero volentieri a meno di Casini, fanno capire in vario modo che «un’alleanza innaturale sui contenuti divide e non unisce il popolo di centrosinistra», per dirla in dipietrese. E tanto per stressare il concetto, Vendola chiarisce che «io con chi dice no alle coppie di fatto non mi accomodo al tavolo neanche per prendere un caffè». E stesse bordate rivolge a Renzi, definito su Facebook «una variabile estremista del liberismo», avvertendo che neanche correrà alle primarie se saranno una sfida tra lui e Bersani. «Se c’è Casini e non c’è Di Pietro, cosa sono le primarie? Io non sono interessato a un concorso di bellezza, né a un congresso del Pd».
Ma non a caso questa uscita nelle intenzioni avrebbe dovuto essere una specie di kermesse con quattro sindaci (impegnati però a votare i rispettivi bilanci) come Doria, Pisapia, De Magistris e Orlando, quasi a voler minacciare un listone civico nazionale capace di pescare nello stesso bacino elettorale del Pd quando sarà il momento.
Allo stesso tempo Nichi e Tonino, malgrado il piglio combattivo, sembrano quasi dare la sensazione di temere di essere alla fine esclusi da uno scacchiere di larghe intese nel 2013, «l’ipotesi più nefasta cui reagiremo esprimendo il massimo dell’antagonismo»; dunque non sorprende che non sfoderino l’arma di andare da soli se Bersani non raccogliesse il loro appello in tempi brevi; e che facciano pure di tutto per negare che il loro sia «un ultimatum» al Pd: entrambi lo definiscono più volte «solo un appello ad aprire subito un cantiere per allargare l’interlocuzione del centrosinistra con altre realtà, civili, sociali»; battendo sul tasto che anche un’apertura al dialogo con i centristi «non significa una resa ai finti moderati che sono contro i diritti civili».
Vendola non lo dice, ma i suoi uomini chiedono che senso abbia inseguire Casini che «è irrilevante» sotto il profilo elettorale, quando il centrosinistra da solo può farcela eccome. E la minaccia di una lista dei sindaci «vincenti» alleati al blocco SelIdv concorrente al Pd, di sicuro spaventa i piani alti del Nazareno. Bersani non replica, per lui conta solo «la volontà di rispettare gli impegni di governo...

Corriere 30.6.12
Vendola: con il Pd solo se c'è Di Pietro
L'aut aut del leader di Sel: altrimenti non mi interessano patti con l'Udc
di Alessandro Trocino


ROMA — Se qualcuno aveva pensato di poter scaricare la scomoda Idv e di affiancare a un'alleanza Pd-Udc la sinistra radicale in posizione subordinata, ha sbagliato i conti. Nichi Vendola non ha nessuna intenzione di aggrapparsi a un patto neocentrista, non esclude una qualche forma di «compromesso» con l'Udc, ma solo dopo che il Pd abbia accettato due clausole ben difficili da digerire, almeno per ora: «Discuto con Bersani solo se c'è l'Idv. E solo se c'è il sì alle coppie di fatto». Per dare più enfasi e ufficialità all'ultimatum (ma si preferisce chiamarlo «appello») Vendola si presenta in coppia affiancato ad Antonio Di Pietro davanti ai cronisti di Montecitorio.
Accelerazione dei tempi che Pier Luigi Bersani non gradisce affatto: «Son momenti decisivi, ci sarebbe la necessità di stare tranquilli», fa sapere. Nessuna preclusione all'Idv, dice: «Non spetta a noi dire sì o no o forse. Il problema sono gli impegni di governo. Di Pietro ha questa volontà di governare, di rispettare gli impegni che ci attendono? Benissimo, altrimenti, se questa volontà non c'è...». E ancora: «Il centrosinistra di governo non deve essere esposto a pulsioni populiste, a posizioni che mettono in dubbio presidi costituzionali come la presidenza della Repubblica».
Nelle scorse settimane Pier Ferdinando Casini, nell'intervista al Corriere della Sera, sembrava aver scelto un asse tra progressisti e moderati. Ma è noto che i centristi non amano affatto l'Italia dei valori. E allora, da parte di Vendola, imporre come precondizione il sì all'Idv, pone il Pd di fronte a un aut aut. Il governatore della Puglia spiega: «Io sono interessato a costruire un centrosinistra che sia una coalizione plurale e aperta. Non è impedito il dibattito con i moderati, neanche che ci sia un punto di compromesso, ma nell'agenda di centrosinistra l'avanzata sui diritti sociali e civili è il minimo che si possa chiedere». E poi: «Non possiamo essere considerati alleati residuali». Non solo. «Se c'è una coalizione, io sono interessato a primarie di coalizione: ma se c'è Casini e non c'è Di Pietro, che primarie sono? Non sono interessato né a un concorso di bellezza né a partecipare a un congresso del Pd». In pratica, un passo indietro rispetto all'ipotesi di correre con Bersani e Matteo Renzi. Su quest'ultimo, è tranchant: «Renzi è una variabile estremista del liberismo». Tanto che il sindaco di Firenze replica su Twitter: «Casini dice che lui è più a sinistra di me. Vendola dice che io sono un estremista e quindi niente primarie. Ma come, Nichi ci parla di primarie tutti i giorni da due anni e adesso se ne va portando via il pallone prima di giocare? Questa cos'è? Paura di confrontarsi sulle idee o effetto del caldo?».
Ma Vendola pone vere e proprie condizioni, tanto da stilare cinque punti su cui dovrebbe basarsi la coalizione di centrosinistra: «Patrimoniale, reddito minimo garantito, welfare ambientale, parità di genere e coppie di fatto». Su quest'ultimo punto, poco gradito al Pd e per nulla all'Udc, è irremovibile: «In una coalizione che non riconosce le coppie di fatto non ci si può accomodare neanche per prendere un caffè».
A dar manforte a Vendola, ecco Di Pietro, pasdaran dell'antimontismo, la cui linea attuale è decisamente distante da quella del Pd: «Non poniamo ultimatum, ma chiediamo al Pd di chiarire la sua posizione. Basta voti di fiducia al governo per tirare a campare. Il Pd faccia una scelta di campo, perché a pane e spread si muore di fame». E, giusto per fare un esempio, aggiunge: «Se essere moderati vuol dire abolire l'articolo 18, con i moderati non possiamo stare». E di una grande coalizione post-montiana, vagheggiata dai centristi, non se ne parla neppure: «Sarebbe l'ipotesi più nefasta per l'Italia».

Repubblica 30.6.12
I partiti dei cattolici
di Agostino Giovagnoli


Un anno fa, più o meno in questi giorni, è iniziato il dibattito sul “ritorno” dei cattolici in politica. Dopo che, per circa un ventennio, erano stati prevalentemente in diaspora — “presenti sempre e irrilevanti ovunque”, è stato notato acutamente — non poche voci sono tornate a parlare di ripresa di una loro iniziativa comune. Ma un anno dopo siamo — apparentemente — ancora allo stesso punto. C’è chi propone di ricostruire il Partito popolare di Sturzo, chi vorrebbe rilanciare la Democrazia cristiana, chi invece conservare la divisione bipolare dei cattolici nella Seconda repubblica. Qualcuno ha parlato di foto gloriose riesumate da vecchi libri di storia. E poiché un anno non è poco — specie se intanto molte cose sono cambiate — c’è chi ha tratto la conclusione che l’irrilevanza dei cattolici è destinata a durare a lungo. Ma le cose non stanno così. Proprio l’insistenza con cui si discute oggi il problema dell’irrilevanza rivela l’esigenza di un confronto con la concretezza della storia che un anno fa sarebbe stato impossibile, per le proteste dei “cattolici della Seconda Repubblica” preoccupati che venisse sminuita l’importanza della loro opera. E l’effetto complessivo dei diversi elementi in gioco non è a somma zero. Da un lato, nell’ultimo anno, non ci sono stati i cambiamenti che molti si attendevano e, in particolare, non è venuto, da parte dalla Chiesa, l’esplicito segnale per una nuova mobilitazione dei cattolici che tanti ritenevano imminente. Questa non-notizia è, a suo modo, una notizia. Se le cose finora sono andate così — anche se tutto può sempre cambiare — è poco probabile la rinascita di partiti come il Ppi di Sturzo o la Dc di De Gasperi, entrambi robustamente sostenuti, seppure in forme diverse, dall’istituzione ecclesiastica. Ma, d’altro lato, continuità di posizioni non significa necessariamente effetti identici: i riflessi politici “indiretti” dell’insistenza sulla difesa dei valori non negoziabili saranno diversi se continuerà lo scongelamento del bipolarismo cattolico di cui già si vedono vari segni. I più rilevanti riguardano il centro-destra: l’attuale implosione del Pdl rende infatti sempre più irrealistica l’ipotesi di un berlusconismo senza Berlusconi su cui molti cattolici hanno puntato fino ad oggi. Anche le difficoltà attraversate da Cl per la crisi del modello Lombardia spingono in questo senso. Non manca, inoltre, qualche difficoltà anche per i cattolici nel centrosinistra: il protagonismo ideologico dei “giovani turchi” nel Pd spinge gli ex popolari a temere un “ritorno” dal Partito democratico al Partito comunista. Inoltre, se dalla Chiesa non vengono atti vengono però parole — che possono essere, alla lunga, non meno importanti — come quelle autorevoli di Benedetto XVI e del cardinal Bagnasco per un maggiore impegno del laicato cattolico in politica, riprese proprio in questi giorni dal segretario della Cei, monsignor Crociata. Sembra dunque confermarsi quella spinta verso una “condensazione” della presenza cattolica di cui ha parlato più volte Andrea Riccardi. È una condensazione che trova un riferimento sempre più convinto nel governo Monti. Preoccupati dalle voci che, nel centrodestra o tra i grillini, invocano l’uscita dall’euro o azzardi simili, i cattolici sono spinti ad apprezzare il senso di responsabilità manifestato dall’attuale governo. Malgrado i residui di una freddezza iniziale verso i “tecnici”, questa spinta tocca anche molti di coloro che si sono ritrovati a Todi nello scorso ottobre e che stanno progettando un nuovo incontro, sempre a Todi, nel prossimo autunno. Tanto più che, mettendo insieme le parole pronunciate da Monti in circostanze diverse, emerge un disegno tutt’altro che tecnico ed egli appare il più vicino, tra gli attuali leader europei, allo spirito dei padri fondatori cattolici dell’Europa unita: De Gasperi, Schuman, Adenauer. La tendenza dei cattolici verso un’area di responsabilità nazionale sarà indubbiamente rafforzata dall’importante novità della convergenza dell’Udc e del Pd nella stessa direzione. Tuttavia, anche se il punto di arrivo è comune, non è detto che questi due partiti riescano ad assorbire pienamente le diverse spinte che animano oggi i cattolici, dal primato del bene comune alla tradizione europeista, da una specifica sensibilità per i problemi dei poveri all’attenzione verso le difficoltà della famiglia ecc. Se queste e altre istanze non verranno recepite adeguatamente, la condensazione cattolica potrebbe spingere per la creazione, insieme a personalità e componenti del mondo laico, di un nuovo soggetto, certamente molto diverso dal Ppi e dalla Dc.

l’Unità 30.6.12
Il Papa: «Nella Chiesa c’è il peccato, ma non prevarrà»
di R. M.


«La Chiesa è una comunità di peccatori, ma il potere distruttivo del male non prevarrà. Perché è fondata sul messaggio di Cristo». «Occorre restare uniti». Lo ha affermato papa Benedetto XVI nel giorno in cui si festeggiano gli apostoli Pietro e Paolo. Le forze del male non prevalebunt, scandisce il pontefice.
Dalla basilica di san Pietro durante la messa solenne dopo la consegna ai 44 arcivescovi metropoliti del «pallio», la stola di lana bianca simbolo del particolare vincolo che li lega al vescovo di Roma e alla Chiesa universale, il Papa lancia un invito che, viste le tensioni e le polemiche che attraversano la Curia romana, ha una particolare forza e valore: «Diventiamo noi tutti pastori della Chiesa», «cooperatori della verità», che è «una e sinfonica». Papa Ratzinger lo ricorda, di fronte alla debolezza umana occorre «l’impegno costante della conversione» da parte di tutte le comunità e l’unità. Indica la strada della «nuova fratellanza» da seguire sull’esempio offerto dai due apostoli sui quali si è costruita la Chiesa: Pietro e Paolo. «Benché assai differenti umanamente l’uno dall'altro e malgrado non siano mancati conflitti spiega -, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli».
I due apostoli, le due colonne su cui si fonda la Chiesa, sempre raffigurati l'uno con le chiavi e l'altro con la spada, non sono, rimarca papa Ratzinger, né Romolo e Remo, né Caino e Abele, cioè non sono «antagonisti», ma malgrado le differenze, «inseparabili». «Solo la sequela di Gesù conduce alla nuova fraternità: ecco il primo fondamentale messaggio che la solennità odierna consegna a ciascuno di noi, e la cui importanza si riflette anche sulla ricerca di quella piena comunione cui anelano il Patriarca ecumenico e il Vescovo di Roma come pure tutti i cristiani».
È un’indicazione precisa per la Chiesa di oggi. Con finezza e profondità Benedetto XVI lo affronta partendo dal ruolo del pontefice, dallo spirito di dedizione e servizio che deve segnare la sua missione, ma anche dalla «debolezza umana» con cui misurarsi, come l’apostolo Pietro e nei secoli ogni altro suo successore. Da superare con la «conversione», perché solo grazie all’umiltà spiega e alla trasformazione possibile «aprendosi a Dio» che si può essere quella «roccia» su cui si edifica la Chiesa. Non bastano le «capacità umane». In questo insiste c'è «tutto il dramma della storia dello stesso papato». Il pontefice ricorda pure l’autorità di «legare e sciogliere» conferita a Pietro che consente di rimettere i peccati. È così che si «toglie energia alle forze del caos e del male» e che si permette alla Chiesa, «comunità di peccatori» e non di «perfetti», di assolvere al suo ministero. Questo darebbe la certezza che le forze del male non prevarranno neanche se, come testimonia la cronaca di questi giorni la Chiesa è attraversata da tensioni e contrasti. Il mio potere in quanto Papa ha spiegato ancora davanti agli arcivescovi, tra loro anche i tre italiani Francesco Moraglia, Filippo Santoro e Arrigo Miglio, e i rappresentanti di tanti Paesi e di tutti i continenti «rassicura sul futuro della Chiesa».
All'Angelus il Papa non solo è tornato ad auspicare nel saluto al Patriarcato di Costantinopoli, la piena unità dei cristiani, ma ringraziando i giovani della diocesi di Roma radunati in piazza san Pietro, ha detto di contare sulle loro preghiere «per continuare a servire la Chiesa con la mitezza e la forza dello Spirito Santo». Non abdica. Resta alla guida della Chiesa.

Corriere 30.6.12
«Le forze del male non prevarranno»
Il Papa: «La Chiesa è una comunità di peccatori che hanno bisogno di Dio»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Le forze del male non potranno avere il sopravvento». Benedetto XVI ricorda «la chiara promessa di Gesù» a Pietro, «su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le forze degli inferi non prevarranno», e quel «non praevalebunt» ripetuto ieri nella Basilica vaticana, di là dalle letture sacre del giorno, non è un riferimento casuale in tempi di Vatileaks: lo stesso Pietro, la «roccia» su cui si fonda la Chiesa, «dovrà essere difeso dal potere distruttivo del male».
Era molto attesa l'omelia che il Papa ha scritto e limato nei giorni scorsi per la festa dei santi Pietro e Paolo, il giorno nel quale il Pontefice consegna ai nuovi arcivescovi di tutto il mondo — ieri ne sono arrivati 43 — il «pallio» che simboleggia l'unità dei successori degli apostoli intorno al successore di Pietro. E Benedetto XVI, pur senza accennare esplicitamente al clima di veleni e al furto dei suoi documenti privati, ha parlato dei «conflitti», della «debolezza degli uomini» che attraversa anche la vicenda bimillenaria della Chiesa, fino a parlare del «dramma della storia dello stesso papato». Allo stesso Pietro, del resto, Gesù una volta dice «tu mi sei di scandalo»: la «roccia» si fa «pietra d'inciampo», in greco «skandalon», ricorda il Papa. E questo proprio per la «compresenza» del dono divino e dei limiti umani: «Da una parte, grazie alla luce e alla forza che vengono dall'alto, il papato costituisce il fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo; dall'altra, lungo i secoli emerge anche la debolezza degli uomini, che solo l'apertura all'azione di Dio può trasformare».
Le parole del Papa suonano come una lettura teologica di ciò che sta accadendo: «La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di peccatori che si debbono riconoscere bisognosi dell'amore di Dio». Benedetto XVI parte da Pietro e Paolo, «due colonne della Chiesa» che la tradizione cristiana «considera inseparabili» e «assieme rappresentano tutto il Vangelo di Cristo», esempio di fratellanza opposto a Caino e Abele. Erano diversi, certo, ma proprio qui sta il punto: «Pietro e Paolo, benché assai differenti umanamente l'uno dall'altro e malgrado nel loro rapporto non siano mancati conflitti, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli, vissuto secondo il Vangelo».
È questo modello di «nuova fraternità» che il Pontefice indica come bussola. Ricordando che a Pietro è stata data l'«autorità di sciogliere e di legare», il «potere disciplinare» di «infliggere o di togliere la scomunica» e insieme di «rimettere i peccati». Benedetto XVI negli ultimi tempi ha deciso di intervenire in prima persona per «ristabilire» un «clima di serenità e di fiducia», dopo aver nominato due mesi fa la commissione di indagine cardinalizia sui «corvi» che risponde direttamente a lui. Il cardinale Julián Herranz, che la guida, ha annunciato che ci saranno «sorprese». Il clima non è dei migliori, si è parlato e si continua a parlare di «due cardinali» che sarebbero in qualche modo coinvolti, anche se la Santa Sede ha smentito ci siano porporati «indagati»: nel caso, del resto, ne risponderebbero direttamente al Papa. Benedetto XVI non ha fissato altri incontri formali ma ha avuto modo di continuare le sue «consultazioni» sulla governance curiale incontrando gli arcivescovi arrivati a Roma. Tra di essi c'erano personalità che rappresentano il presente e il futuro della Chiesa nel mondo, dall'arcivescovo di Philadelphia Charles Joseph Chaput al patriarca di Venezia Francesco Moraglia al cardinale di Berlino Rainer Maria Woelki, che in un'intervista a Die Zeit ha parlato di «corruzione» e della necessità di un «processo di autopulizia» nella Chiesa. Le indagini proseguono. E Benedetto XVI, per parte sua, richiama l'«impegno costante della conversione», chiede a tutti di sentirsi «cooperatori della verità» che «è una e sinfonica». All'Angelus si rivolge ai fedeli: «Conto anche sulle vostre preghiere per continuare a servire la Chiesa con la mitezza e la forza dello Spirito Santo». Durante la messa aveva ricordato le parole di San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia».

il Fatto 30.6.12
“Io, bimbo sordo violentato sotto l’altare”
Nuova denuncia a Verona Stavolta è l’istituto religioso Gresner
di Paolo Tessadri


Per troppi anni ha taciuto, mentre la rabbia gli esplodeva dentro. Ora ha trovato il coraggio di parlare, anche con l’aiuto della madre: “Per quasi una decina di anni ho subito le violenze di tre sacerdoti, ma soprattutto di un giovane prete. Hanno cominciato che avevo tre anni e gli abusi sono proseguiti fino a 12 anni, quando lasciai l’istituto”. Giuseppe Consiglio ha 22 anni e i fatti risalirebbero a dieci anni fa, all’istituto religioso Fortunata Gresner di Verona. Proprio di fronte all’istituto Provolo, teatro di orchi seriali, dove sessanta ex allievi sordi hanno denunciato le violenze di una ventina di preti, avvenute per trent’anni, fino al 1984. Al Gresner, invece, gli abusi sessuali sarebbero proseguiti fino al Duemila. Non ci sarebbe, dunque, prescrizione per reati così recenti.
Giuseppe, sordo, si fidava: mai avrebbe immaginato di diventare vittima dentro le mura di uno dei simboli della carità della Chiesa. In un istituto specializzato per rendere migliore la vita a bambini sordi, gestito dalle suore della Compagnia di Maria per l’educazione delle sordomute, sull’esempio dell’Istituto Pro-volo. Poi, negli anni, diventato istituto misto e ora centro di formazione professionale. Ma come al Provolo il dramma dei bambini sordi, e ancora più indifesi di un qualsiasi bambino, si è consumato sotto l’altare. In quell’istituto ci andava per le funzioni religiose anche quel giovane sacerdote, che allora aveva circa 25 anni, e lì sono cominciate le violenze, all’insaputa delle suore, sospetta Giuseppe.
GIUSEPPE sa che da domani potrebbe essere additato in pubblico come il ragazzo abusato, ma prende coraggio e trova la forza di raccontare. “Quando avevo tre anni la mia famiglia si spostò dalla Calabria a Verona. Io sono nato sordo e giù non c’erano istituti specializzati”. Ha, infatti, riconoscenza verso l’istituto, “perché a scuola ho cominciato a parlare”. Ma è proprio nel luogo più sacro, tra le mura della Chiesa del Pianto, davanti al crocifisso, che sono cominciate le violenze. “Mi toccavano nelle parti più intime, piangevo anche tre volte la settimana, ma loro non si fermavano. Lo facevano anche quando andavo a confessarmi, in una stanza, quando eravamo faccia a faccia”. Niente e nessuno fermava soprattutto un giovane sacerdote, non c’era pietà per quel bimbo che aveva l’età per andare alla scuola materna.
Non ricorda più il nome di quel prete, lo ha rimosso a forza dalla mente. Ma le cicatrici di quei torbidi momenti sono rimaste su quel dramma vissuto a lungo e taciuto per troppo tempo: “C’erano tre preti, due giovani e uno più anziano”. Giuseppe avrebbe avuto le attenzioni e gli abusi da tutti e tre, ma uno era il più cattivo, quello “giovane, attorno ai 25 anni, che aveva la pelle chiara, magro, alto di statura. Con lui andavamo solo per la messa e la confessione. Lui non dormiva all’istituto Gresner, ma al Provolo”. Giuseppe ne parla con sollievo, per non aver dovuto subire il tormento anche di notte. Ricorda anche l’aspetto dell’anziano prete, “con gli occhiali e quasi calvo. Io sono rimasto per un certo periodo completamente solo a Verona, perché mia madre andò in Calabria a prendere i miei fratelli. In quel periodo non parlavo e non riuscivo a capire e il prete ci ha obbligati a non parlare. Ci faceva paura, avevo paura che mi succedesse qualcosa di brutto”. Le violenze non sarebbero state solo sessuali. “Una psicologa mi diceva che mia mamma mi aveva abbandonato, ma non era vero, era andata in Calabria per i miei fratelli”.
Giuseppe apre uno squarcio ancora più inquietante, pensa di essere stato “una delle prime vittime” di quel giovane sacerdote, in un crescendo di violenza: “Prima mi toccava solo, poi pretendeva sempre di più. Voleva anche che lo baciassi, mi faceva schifo. Ero nervoso, mi allontanavo, ma lui mi teneva fermo, poi mi diceva di non parlare”. Un racconto dell’orrore con altre vittime. “Io sono stato il primo, poi è toccato ad altri, almeno quattro, subire le violenze di quell’uomo. Però continuava ad abusare anche di me, finché sono andato via, a 12 anni”. È più di un sospetto che altri ragazzi sarebbero stati abusati, Giuseppe ne è certo: “A Ferrara del Monte Baldo, nella colonia montana del Gresner, facevamo tra noi ragazzi quello che ci facevano quei tre preti. È allora che abbiamo scoperto il significato della parola omosessuale”. Con qualcuno Giuseppe è ancora in contatto e uno dei ragazzi abusati ha ora gravi problemi di socializzazione: non esce più di casa, non parla con nessuno, evita ogni contatto con le persone.
Ha cercato inutilmente di dimenticare e non ha più voluto fare il chierichetto per non rivangare il passato. Ha pure cancellato la Chiesa dal suo presente. “Non ho parlato con nessuno, mi dicevo che era troppo tardi, anche se con qualcuno volevo confidarmi. Ma mi prendeva lo stomaco, stavo male e se parlo, mi dicevo, che cosa mi succederà? Ero terrorizzato”.
HA RIVELATO il suo insopportabile segreto solo poco tempo fa, quando “ne ho parlato con mamma, perché pensava fossi gay. Si è messa a piangere. Adesso, davanti a voi, mi sento come spogliato” rivela a Giorgio Dalla Bernardina e a Marco Lodi Rizzini, responsabili dell’Associazione Provolo, che in questi anni si è battuta contro la pedofilia e che per oggi ha organizzato una marcia contro gli abusi sessuali avvenuti per trent’anni all’istituto Provolo, fino al 1984.
Un evento di risonanza internazionale a cui parteciperanno persone provenienti da Inghilterra, Olanda e Stati Uniti, con l’adesione di importanti organizzazioni internazionali contro la pedofilia. I manifestanti sfileranno fino in piazza Brà, sotto la sede del Comune del sindaco Tosi. Ed è proprio la firma del sindaco leghista che manca al patrocinio della manifestazione, che invece hanno dato Regione e Provincia.

Corriere 30.6.12
Nessuna malformazione nel bambino morto, gli accompagnatori hanno mentito sulla richiesta di soccorso
La scritta dei familiari di fronte alla parrocchia: quinto comandamento, non uccidere 
La sepoltura nel cimitero di famiglia, senza cerimonie religiose, senza sacerdoti
E lo striscione. Quasi un messaggio di accusa

PRATO — «Quinto comandamento: non uccidere», c'è scritto su uno striscione appeso sulla facciata della casa di Franco Lori, 11 anni, morto durante una gita parrocchiale sul monte Calvana, davanti a Prato. A scriverlo, quello striscione, sono stati i genitori del bambino, straziati dal dolore ma anche certi che dietro quella morte, sulla quale la procura ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo, ci sono responsabilità. Le prime indiscrezioni sull'autopsia non evidenzierebbero malformazioni congenite sul corpo del ragazzino e dunque Franco, un bambino sano, con tanta voglia di vivere, tifosissimo della Fiorentina (anche lui giocava a calcio), non sarebbe morto per un male non diagnosticato.
Il condizionale è d'obbligo, però, perché le indagini sono soltanto nella fase preliminare e tutto ancora deve essere scritto. E anche il registro degli indagati per ora resta in bianco.
Ma questa morte misteriosa, dopo una delle tante escursioni che don Carlo organizzava con l'entusiasmo e l'approvazione dei parrocchiani e dei genitori dei bambini che continuano a difenderlo, a Prato, non sta provocando soltanto dolore, ma anche rabbia e disperazione. Ieri due croniste della Nazione sono state aggredite davanti alla camera ardente allestita nella cappella mortuaria della Misericordia a Poggio a Caiano, un paese in provincia di Prato dove la famiglia abitava prima del trasferimento a Paperino avvenuto un anno fa. Le due giornaliste, Sara Bessi e Maria Serena Quercioli, sono state assalite dalla madre del bambino e sono finite al pronto soccorso per lievi contusioni e pochi giorni di prognosi.
Nel trambusto, fotografi e cameramen delle tv, inseguiti dai parenti del bambino, si sono rifugiati in una casa di due anziani. Soltanto dopo un'ora, con l'arrivo dei carabinieri che hanno riportato la calma, sono potuti uscire e allontanarsi.
Poi l'ultimo saluto a «Franchino», semplice e commovente, e la sepoltura nel cimitero di famiglia, senza cerimonie religiose, senza sacerdoti. E a casa lo striscione. Quasi un messaggio di accusa. «Almeno diteci come è morto nostro figlio», avevano detto il giorno dopo la tragedia i genitori del bambino. Ieri, agli amici, hanno chiesto anche giustizia. «Franco non ce lo ridarà nessuno, ma i responsabili, se ci sono, devono pagare». Le indagini sono concentrate su due direzioni: quella dei soccorsi, scattati dopo un'ora e venti minuti, un ritardo stigmatizzato anche dalla curia vescovile di Prato in una nota e le eventuali (ma non provate al momento dei fatti) inadempienze da parte di don Carlo Gestri e degli altri adulti che seguivano i 74 minorenni, bambini e ragazzini dagli 8 ai 16 anni. Alcuni ragazzi hanno raccontato che Franco aveva chiesto di non proseguire, diceva di essere stanco, come del resto tutta la comitiva dopo un'escursione impegnativa sotto un sole impietoso e in salita.


Repubblica 30.6.12
Enrico Letta
“Impossibile governare con chi insegue Grillo

Nichi è diverso, ma non ci lanci ultimatum”
qui

l’Unità 30.6.12
Bersani: basta polemiche, pensiamo al Paese
Il leader dei Democratici: «Serve una coalizione stabile, non la riedizione degli errori del passato»
In serata l’incontro con Libertà e Giustizia
di Simone Collini


Bersani non si farà tirare dentro il dibattito che si è aperto attorno alle primarie. Né, dopo l’apertura di Casini a un patto per governare tra progressisti e moderati, vuole entrare nella polemica sulle alleanze. «In momenti così importanti ci sarebbe la necessità di stare un po’ più tranquilli», si è sfogato ieri con i suoi quando gli sono stati riferiti i contenuti della conferenza stampa di Vendola e Di Pietro. «Il punto vero è se siamo in grado di costruire un centrosinistra di governo che si allea con un centro moderato per ricostruire il Paese. Bisogna essere all’altezza del compito, e mostrarlo in modo chiaro». Quanto al lamentato veto su Di Pietro, Bersani nega che sia questa l’intenzione del Pd, però ha già avuto modo di far filtrare che non potranno essere siglati accordi né con chi attacca le istituzioni (e gli auguri dell’ex pm a Napolitano non cancellano le bordate dei giorni scorsi) né con chi polemizza con gli alleati per ottenere qualche consenso in più: «Serve una coalizione stabile, non la riedizione degli errori passati».
Ma sono appunto sfoghi che Bersani cerca di mantenere all’interno della sfera privata, perché non intende farsi trascinare in una discussione che a questo punto sarebbe veramente incomprensibile. Il leader del Pd ieri ha focalizzato l’attenzione soprattutto sul Consiglio europeo (e twittato «l’Italia ha giocato bene anche a Bruxelles. Ma la partita non è finita») prima di partecipare in serata a un incontro promosso a Milano da Libertà e Giustizia (e parlare con Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky dei rapporti con la società civile e di come il Pd intenda «aprirsi»). E oggi sarà nel capoluogo lombardo per un’iniziativa del Pd sul Nord e su come far ripartire l’economia italiana.
Questa sarà la prima tappa di una serie di appuntamenti che Bersani ha fissato in agenda per le prossime settimane lungo tutta la penisola. «Pensiamo al Paese, adesso, non alle primarie» è il monito che ha consegnato sabato scorso ai segretari di circolo del Pd, riuniti a Roma per l’assemblea nazionale.
Le primarie per Bersani vanno affrontate al termine di un percorso che prevede prima la definizione di una «carta di intenti» (il leader del Pd presenterà la sua proposta di documento nella seconda metà di luglio, dopo che l’assemblea nazionale di metà mese avrà inserito una deroga allo statuto che consentirà a Renzi di correre): chi la siglerà potrà partecipare alla sfida per la candidatura a Palazzo Chigi. Non solo Bersani e Renzi, dunque, anche se dopo che Vendola ha fatto sapere di non essere interessato alla partita se le primarie dovessero essere un congresso interno al Pd, Salvatore Vassallo ha detto che a questo punto bisogna indire «primarie interne, cioè un congresso secondo le nostre regole», mentre il sindaco di Firenze ha twittato: «Vendola dice che io sono un estremista e quindi niente primarie. Accordo o solo scherzi del caldo?».
Bersani non entra nella discussione, e intanto archivia un sondaggio realizzato dalla Swg per “Agorà”: è dato primo alle primarie col 32%. Seguono Vendola col 23% e Renzi col 15%. Dietro, alla voce «altri», il premier Monti e il ministro Passera.

Corriere 30.6.12
D'Alema: «Renzi faccia il sindaco»


«A Matteo Renzi cosa dico? Niente... Gli dico soltanto di fare il sindaco». Così il presidente di Italianieuropei, Massimo D'Alema, ieri ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano che cosa si sentisse di dire al sindaco di Firenze che lo ha chiamato in causa sabato scorso in occasione della convention che ha organizzato a Firenze. Il primo cittadino dal palco del «Big bang», infatti, ha sostanzialmente invitato gran parte dei big democratici, tra cui Rosy Bindi, Franco Marini, Walter Veltroni e lo stesso Massimo D'Alema, a farsi da parte e lasciare più spazio ai giovani. Una provocazione, quella del primo cittadino, che non ha mancato di suscitare reazioni all'interno del partito. Intanto sempre ieri sul tema è intervenuto anche Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, che ha invitato a questo punto tutti a smetterla con le polemiche, dopo che lui stesso nei giorni scorsi aveva espresso giudizi al veleno sul sindaco rottamatore di Firenze. Fassina ha partecipato, proprio nel capoluogo toscano, a un incontro organizzato dal gruppo dei socialisti al Parlamento europeo: «Renzi? Basta. Ho solo ricordato il suo curriculum». Nei giorni scorsi Stefano Fassina aveva tra l'altro definito Renzi «un ex portaborse, diventato poi sindaco di Firenze per miracolo, per le divisioni interne al Pd fiorentino».

l’Unità 30.6.12
Parole violente a destra
di Michele Ciliberto


Vale la pena fare un piccolo esercizio di lettura sui titoli dedicati dal Giornale e da Libero alla vittoria dell’Italia sulla Germania, e agli insulti in essi contenuti verso la cancelliera tedesca Angela Merkel. Italia Germania è stata una bella partita di calcio.
E, come tutti gli eventi sportivi, ha coinvolto passioni e sentimenti assai intensi.
In Italia migliaia di persone si sono raccolte in piazza per assistere alla partita, ma in Germania è accaduta la stessa cosa. E chi in questi giorni si fosse trovato a Berlino avrebbe potuto vedere molte macchine tedesche avvolte in piccole bandiere nazionali in segno di festa e di augurio.
Nihil sub sole novi. Nulla di nuovo sotto il sole. Si sa: lo sport, specie il calcio, ha un forte valore simbolico ed è un luogo privilegiato di espressione e di manifestazione delle identità culturali, religiose, nazionali.
Stanno qui le radici del suo valore e, al tempo stesso, del suo possibile, e tragico, degenerare. Una partita può essere infatti una festa e una manifestazione di libertà, ma può
anche trasformarsi nel suo opposto, e diventare luogo, e strumento, di violenza e anche di sopraffazione. Come avviene in ogni festa popolare, anche in una partita di calcio il crinale fra «natura» e «cultura» è infatti precario, e può spezzassi in ogni momento, non solo sul piano verbale. Del resto, è un copione che in Italia, negli ultimi tempi, abbiamo visto recitare più volte ad opera delle fasce più estremiste dei tifosi, che hanno trasformato una festa popolare in una sorta di sanguinario rito tribale. La violenza e la volgarità dei titoli con cui i direttori del Giornale e di Libero hanno celebrato la vittoria italiana contro la Germania all’inizio non sono dunque originali; si tratta di un lessico di matrice «goliardica» (e so bene che dicendo questo offendo la goliardia) assai noto, contro cui non varrebbe la pena di polemizzare.
La novità sta nel fatto che questo lessico volgare e miserabile è utilizzato per insultare il capo del governo di un autorevole Stato europeo e per sviluppare, in questo modo, una violenta polemica politica contro l’idea di Europa e di unità europea, vista come l’origine di tutti i mali. E si fa questo cercando di sfruttare sentimenti anti-tedeschi oggi diffusi, e ulteriormente acuiti in questi giorni dalla partita con la Germania, con l’obiettivo politico di creare un senso comune di tipo nazionalistico contrapposto all’ethos europeo che si è cercato di costruire con fatica, ma con importanti risultati dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad oggi; un ethos, lo sappiamo tutti, che attraversa oggi un momento di massima difficoltà.
Sta proprio qui la violenza e l’insidiosità di quell’attacco: le parole non sono mai indifferenti. Al suo livello di rozzezza e di volgarità,
quel lessico pone infatti un problema politico ed etico-politico, ed è su questo terreno che esso va anzitutto contrastato, riaffermando con forza sia l’idea dell’Europa che quella della unità europea. Ma per poterlo fare in modo efficace, e rigettare ogni rigurgito nazionalista, occorre essere chiari su un punto essenziale.
L’Europa è senza alcun dubbio il comune destino di tutti i popoli europei. Lo è, oltre che per scelta, per necessità. Chi non capisce questo è fuori del mondo, oltre che della storia. Mentre l’Occidente si afferma e si espande, l’Europa rischia di tramontare; e tramonterà se non si ripensa, e si riafferra, in modi originali. Ma può farlo solo situandosi oltre il tradizionale orizzonte statale moderno; riuscendo ad intrecciare in nuove forme identità nazionali e «cosmopolitismo»; connettendo molteplicità e varietà delle tradizioni culturali, filosofiche e religiose e nuove forme di identità europea, liberamente condivise.
In altre parole, l’Europa può avere un futuro solo se riconosce le differenze di cui è fatta la sua storia, e che sono state, e sono, la radice della sua potenza e della sua libertà; se, cioè, non si riduce a un paradigma unico, a una dimensione unica. La vita, la storia si esprime, e vive, attraverso le differenze, a tutti i livelli: in politica come in economia e nella cultura; decade quando si risolve in grigia, indifferenziata, unità: il contrario esatto di ogni forma di vecchio e nuovo nazionalismo, anche di quello di rito berlusconiano, propagandato dai direttori del Giornale e di Libero.
E questo significa che in Europa non ci sono, e non possono esserci, Paesi guida e che l’Italia ha una sua parola da dire in questo grande continente. Non solo quando gioca a pallone.

l’Unità 30.6.12
Il documento dei diritti Pd. Occorre discutere ancora
di Gianni Cuperlo


IL PD DISCUTE DEI DIRITTI E QUESTA È LA BUONA NOTIZIA. LO HA FATTO IN UN COMITATO PRESIEDUTO DALLA BINDI CHE HA LAVORATO A UN DOCUMENTO consegnato adesso al confronto. Del testo è giusto parlare con una premessa. Sinora non abbiamo mai voluto affrontare alla radice il vincolo tra diritti, crescita e democrazia. L’esito è stato non aggregare in un discorso unitario la sfera dei diritti umani (politici, sociali, civili) come invece sarebbe doveroso per un partito che ha scelto l'aggettivo democratico a suggello della sua identità. Adesso è possibile colmare la lacuna facendo del testo elaborato l’occasione per un dibattito sereno e partecipato in una delle nostre sedi decisionali. Venendo al merito, ho letto con interesse i commenti pubblicati. È vero, si tratta di uno scritto colto e complesso. In venti righe si può solo chiosarlo, e malamente. Per questo mi limito a due notazioni. Ho apprezzato l’asse primario piantato attorno alla dignità della persona. Dovrebbe seguirne che il pluralismo delle identità va difeso e valorizzato riconoscendo però che non tutte le tradizioni storiche, culturali o religiose sono compatibili con quel primato. Per dire, l'infibulazione o il burqa integrale nulla hanno a che fare con autonomia e integrità del soggetto. Su un piano diverso, la stessa logica andrebbe applicata a una serie di normative formalmente democratiche (la legge 40 è tale perché un Parlamento l'ha votata) ma che stridono col principio. E non solo per la sperequazione dei diritti tra coppie ricche (in trasferta all'estero) e le altre. Ma per un divieto alla ricerca su embrioni non impiantabili che sottrae ai più una speranza di cura e non nel nome della dignità ma di un autoritarismo sorretto da un dogma confessionale. Potrei applicare parametri simili al capitolo della fine vita per come è stato inteso dal precedente governo. Ma restando al documento so bene che non doveva risolversi in un elenco di riforme bensì definire una cornice ideale e culturale da cui le norme fossero destinate a derivare. Tanto più mi permetto di suggerire una qualche cautela. Perché se l'ambizione è stendere non già una mappa di leggi possibili (che a me sarebbe bastata) ma la tavola dei principi allora conviene che l’opera di scrittura e legittimazione sia solidissima. Per dire, posso leggere un inciso come questo «la vita umana ha senso (ed è pensabile) solo entro le forme della socialità» se quel testo è un contributo al confronto di una forza come la nostra.
Se invece dovesse tradursi in un passo del manifesto sui nostri principi confesso un disagio (soprattutto per l’idea che un partito possa stabilire in un documento ciò che è o non è «pensabile»). Viceversa, se parliamo di un testo che ha la valenza detta, è quasi un obbligo che si riversino in esso le domande di senso sulle quali la politica è obbligata a rifondare se stessa, e non in un'ottica ristretta ma globale. Per capirci: in Europa, Usa e India i consumi per famiglie rappresentano tra il 60 e 70% del Pil. In Cina è meno del 30 anche perché un’ora di lavoro può esser pagata 70 centesimi di dollaro. Non parlo di economia e dumping sociale. Parlo di diritti umani. Poi, certo, centinaia di milioni di cinesi nell’ultimo ventennio sono usciti dalla fame ma il tema non è quello. Se parliamo dei principi del Pd sui diritti, come ci correliamo all'insieme di interessi commerciali e finanziari che hanno spinto per anni a delocalizzare le produzioni dove democrazia e libertà erano conculcate? O come la mettiamo, sempre ragionando di principi, con quei governi dell'Occidente che firmano patti e protocolli compromissori con le peggiori dittature in nome di sacri interessi nazionali? Insomma quale spazio istituzionale (quello culturale o della testimonianza è un altro piano) occupano i diritti umani – i caratteri costitutivi di tali diritti – nel definire i confini della politica e del mondo che andiamo progettando? Dove si fermeranno nell’epoca globale la liceità e illiceità dei comportamenti soggettivi e dell'azione pubblica? Come è sostenibile nel primato della dignità, una concezione utilitaristica dell'agire politico? Sono interrogazioni legate a filo stretto con quella bella formula del documento dove si scrive che della deliberazione democratica su temi sensibili va valorizzato «il suo carattere provvisorio e sempre perfettibile». Mi permetto l'aggiunta che tale storicità non è patrimonio esclusivo di una filiera di diritti ma investe il mondo contemporaneo e le discriminazioni che lo violentano. Mi fermo per ragioni di spazio.
Chiedo soltanto: non si corre il rischio per il timore di una parola di troppo, o troppo audace, sull'avvenire delle coppie gay di scrivere troppe parole di meno sul futuro della democrazia? In fondo conta capirsi. Vogliamo tutti aiutare il Pd ad avanzare sulle politiche per la cittadinanza e in questo senso, come ha detto Bersani, il documento chiamerà in causa l’agenda e la responsabilità della politica. Se invece l’impresa è un manifesto sulla nuova cultura in materia di libertà, diritti e democrazia, allora a maggior ragione ha senso estendere il confronto all’insieme del partito nella convinzione che potrà derivarne una ricchezza di punti di vista e una sintesi più avanzata e condivisa. Dunque, perché fermarsi?

Repubblica 30.6.12
“Nozze e adozioni gay entro un anno” la promessa del governo francese
Il ministro della Famiglia alla vigilia della sfilata dell’orgoglio omosessuale di oggi


PARIGI — Entro un anno, in Francia le coppie gay potranno sposarsi e adottare bambini. Lo ha detto ieri il ministro della Famiglia, Dominique Bertinotti, regalando una vigilia speciale al gay pride parigino di oggi. Bertinotti ha ribadito che si tratta di una precisa promessa elettorale di François Hollande, «il punto numero 31 del suo programma in cui è previsto l’accesso al matrimonio e all’adozione per le coppie dello stesso sesso». «Avranno gli stessi diritti e gli stessi doveri delle altre coppie sposate. Non c’è un unico modello di famiglia, e io sono la ministra di tutte le famiglie», dice. Il percorso politico sarà fortemente accidentato, con un tema già caldissimo Oltralpe soprattutto sull’adozione e sulla possibilità di inseminazione artificiale, ma Bertinotti sostiene che la riforma diventerà realtà in tempi rapidissimi: quelli necessari a redigere il testo e a ottenere l’approvazione del Consiglio Superiore dell’Adozione e del Consiglio di Stato, per poi presentare il progetto di legge in Parlamento entro giugno del prossimo anno. Il matrimonio gay esiste già in sette paesi d’Europa: Danimarca, Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia e Gran Bretagna.

La Stampa TuttoLibri 30.6.12
Dalle separazioni ai Pacs come cambia il luogo dell’intimità
La famiglia scuola di libertà
di Mariella Gramaglia


Un bambino su quattro nasce fuori dal matrimonio. Un famiglia su quattro è fatta di una sola persona che si appoggia come un atomo all’anagrafe. E tuttavia: quasi tre italiani su quattro non mettono più di dieci chilometri fra la propria residenza adulta e la casa della mamma.
Nella raccolta di saggi a cura di Claudia Mancina e Mario Ricciardi, Famiglia italiana, Vecchi miti e nuove realtà (Donzelli, pp. 188, 16) la prima cellula del nostro tormentato organismo sociale viene messa sotto attenta osservazione. Diffusa laicità dei matrimoni, soprattutto al Nord, convivenze lunghe e informali, instabilità dei vincoli, genealogie sempre più complesse per via delle coppie che si separano e si ricostruiscono, unioni gay, scarsa natalità: è di una nebulosa di affetti senza nome che stiamo parlando, oppure della famiglia?
Claudia Mancina non ha dubbi: è proprio della famiglia che stiamo parlando, istituzione plastica e in continua trasformazione, come la democrazia. E per coglierne il senso e il valore, e dunque apprendere ad apprezzarla e nutrirla, bisogna guardarsi da due errori. Il primo è l’idealizzazione nostalgica di un archetipo scomparso: mamma, papà e bambini (possibilmente due o più) per la vita. La politica e la Chiesa più tradizionali continuano a coltivarlo nell’immaginario collettivo e, da questo atteggiamento, nasce un’idea di dover essere avara di soluzioni, sia per le politiche empiriche, sia per l’ariosità delle relazioni sociali.
Il secondo è l’ideologia della morte della famiglia, debitrice alla scuola di Francoforte e al radicalismo politico di conio anti-autoritario. Le relazioni familiari vengono viste come bunker, tane, impacci alla libertà, luoghi non illuminati dal diritto e dall’autonomia del soggetto.
Sia Claudia Mancina, sia Mario Ricciardi, che conclude il testo, sono invece di scuola liberal. Ritengono che quello che conta non è stabilire o distruggere un modello, ma sapere che, per costruire la libertà degli individui, non può non esistere un luogo che, pur mutando nel tempo, è il luogo dell’intimità, autonomo dall’intrusione autoritaria dello Stato.
Ma, al rischio dell’autoritarismo pubblico, se ne può sostituire un altro, segreto e senza freni, quello del dominio patriarcale su donne e bambini? E’ a questo «dilemma liberale» che Mario Ricciardi dedica le sue pagine, sostenute da belle riletture di John Locke, John Stuart Mill, John Rawls, Martha Nussbaum. E le conclude con un augurio: che la famiglia possa evolvere e diventare una reale scuola delle virtù della libertà.
Fuori della teoria sistematica, il testo si illumina anche di schizzi e riflessioni. Il saggio di Giuditta Brunelli racconta l’involontaria permeabilità delle nostre istituzioni alla normativa europea sulle unioni civili: sempre più attivisti gay chiedono agli ufficiali di stato civile di procedere alla pubblicazione del loro matrimonio o, in subordine, di sollevare la questione presso la Corte
Costituzionale. Sempre più coppie omosessuali straniere o miste, pretendono che l’Italia ottemperi all’obbligo comunitario di applicare la normativa che le riguarda. Anche in questo campo, scettici come siamo sulle sorprese positive della politica, il lavoro di trasformazione plastica della famiglia toccherà con ogni probabilità alla giurisprudenza.
E persino il linguaggio evolverà. In Nord Europa le cupe espressioni «patrigno», «matrigna», «fratellastro», «sorellastra», evocatrici dei tormenti di Cenerentola e Biancaneve, si sono trasformati così: il prefisso bonus seguito dalla definizione del grado di parentela. Insomma un fratello in più, di un altro papà, una sorella in più, di un’altra mamma, potrebbero rappresentare un privilegio prezioso nella scuola delle virtù della libertà. Vecchi miti e nuove realtà: una raccolta di saggi, rileggendo Locke, Mill, Rawls, Martha Nussbaum

l’Unità 30.6.12
Immigrati, una risorsa per l’intero Paese
di Vera Lamonica
Segretario Confederale della Cgil

L'ITALIA CONTINUA A SPINGERE MIGLIAIA DI IMMIGRATI VERSO IL LAVORO NERO. LO ABBIAMO FATTO CON LEGGI COME LA BOSSI-FINI. Rischiamo di farlo di nuovo con gli effetti della crisi che allarga l’area del lavoro nero. Abbiamo stimato in circa 500 mila i lavoratori immigrati che essendo stati licenziati hanno perso il permesso di soggiorno e sono diventati irregolari.
Perché parliamo di 500 mila nuovi «sommersi»? Semplice: l'ultimo rapporto Caritas parla di 600 mila persone che hanno perso il permesso di soggiorno, avendo perso il lavoro tra il 2010 e 2011. Il censimento dell’Istat del 2011 parla di un milione di immigrati che hanno ricevuto il questionario, ma non l'hanno mai rispedito al mittente o compilato.
Tra questi due dati incontrovertibili è facile ricavare la cifra di almeno 500 mila persone che sono state risucchiate nel sommerso. Se infatti tutti costoro avessero deciso, per ipotesi, di tornare nei loro Paesi di origine, o di emigrare altrove, avremmo avuto un esodo di almeno 50 mila persone al mese, 1800 al giorno. Il Governo deve intervenire subito con un provvedimento di regolarizzazione.
Ma non è solo questo il problema. Abbiamo di fronte grandi problemi di civiltà e di democrazia, a partire dal riconoscimento dei diritti civili e della cittadinanza.
È infatti scandaloso il fatto che un bambino o una bambina che nascono in Italia da genitori «stranieri» debbano rimanere stranieri. Vanno a scuola come gli altri, giocano con i coetanei, parlano italiano, tifano per la nazionale, ma rimangono stranieri, colored.
Come è scandaloso che un Paese che si lamenta della scarsa partecipazione politica dei cittadini, releghi almeno il 7% della popolazione nell’area del non voto. È come se dovessimo rivivere la battaglia storica per il suffragio universale.
Più in generale, noi pensiamo che non si possa più continuare a guardare all’immigrazione come ad un fenomeno emergenziale: si tratta di un fenomeno strutturale e si tratta di una risorsa per il Paese. Una risorsa per i lavori che svolgono e il contributo degli immigrati al finanziamento del welfare, cui danno molto di più di quello che ricevono. Per il loro contributo culturale.
Si tratta di intervenire dunque con urgenza e lungimiranza sul tema della cittadinanza degli immigrati, a partire dalle iniziative di legge proposte dalla campagna «L’Italia sono anch’io» per il riconoscimento del diritto al voto amministrativo.
Con la Conferenza nazionale sull’immigrazione, abbiamo voluto rilanciare le nostre proposte; non si tratta di un piano esaustivo (perché quello che serve è una revisione generale di tutte la legislazione), ma se realizzate sarebbero già passi in avanti: ratifica della direttiva n.52 (che consente ai lavoratori di denunciare gli sfruttatori); la concessione di un permesso di soggiorno di protezione e convertibile per le vittime di sfruttamento; un provvedimento che affronti il problema dei rifugiati dal nord Africa e della Libia; un piano di formazione pubblica e gratuita per l’apprendimento della lingua italiana; un provvedimento di semplificazione delle norme burocratiche che riguardano gli immigrati per superare le inefficienze burocratiche e le vessazioni; cancellare l’odiosa e ingiusta sovrattassa sul permesso di soggiorno, provvedimenti specifici per gli effetti del terremoto in Emilia.
La Cgil, nell’esercizio della sua rappresentanza del lavoro, conta tra i suoi iscritti più di 400 mila immigrati; vogliamo rafforzare il percorso di una loro maggiore presenza in tutti i luoghi di lavoro dell’organizzazione, dalle Rsu agli organismi dirigenti locali e nazionali.

La Stampa 30.6.12
La carica dei nuovi italiani portacolori alle Olimpiadi
Naturalizzati per sport, nozze o “ius sanguinis”: ecco i 27 di Londra2012
di Roberto Condio


Tutti pazzi per Balotelli, adesso. Per l’Italia dei «nuovi italiani». C’è Super Mario, figlio di ghanesi nato a Palermo e adottato da bresciani. Ci sono anche Ogbonna, nato a Cassino da nigeriani, e Thiago Motta, oriundo brasiliano. Forzando un po’, c’è pure Montolivo, con mamma tedesca. Quattro su 23, nella Nazionale del calcio, specchio di un Paese che cambia. Un’anticipazione di quel che sarà la nostra squadra olimpica. Perché sui 276 atleti già col pass in mano, 27 sono «nuovi italiani». Quasi il 10 per cento. Quasi un record, considerati i 39 su 372 di Atene 2004, quando però il numero fu gonfiato dai 13 «paisà» del baseball. Guarda caso, l’ultima a qualificarsi è stata proprio una «sorella» di Balotelli. Anche Gloria Hooper, freccia dei 200, ha genitori ghanesi ma natali a Villafranca di Verona.
Mario e Gloria come tanti altri azzurri acquisiti che ci regalano emozioni. È il mondo del 21° secolo, indietro non si torna. Francia, Germania e Gran Bretagna, solo per restare alle altre «grandi» d’Europa, sono multietniche da decenni. Non ci fanno più caso. Da noi, il melting pot fa ancora notizia. Anche se a Sydney 2000 sfilò col tricolore in mano un cestista nato a Londra da padre caraibico e mamma pesarese. Carlton Myers segnò la storia. La prima vera accelerata, però, l’aveva data l’amore. Quello dei nostri uomini per le straniere. Matrimoni con atlete che hanno fatto più forte il nostro sport. Cominciò Josefa Idem, tedesca di Ravenna, a Barcellona 1992. Poi, ad Atlanta 1996, si aggiunse Fiona May, inglese di Toscana. E ancora, da Sydney 2000, la moldava modenese Natalia Valeeva; da Atene 2004, la cinese mantovana Wenling Tan e l’ungherese di Campania Noemi Toth. Fino al boom delle cubane di Pechino 2008: Grenot e Martinez nell’atletica, Aguero nel volley. Tutte mogli di italiani. Qualcuna, nel frattempo, è diventata anche madre. Tre di loro le ritroveremo dal 27 luglio: Londra sarà l’ottava Olimpiade per la canoa della Idem-Guerrini, la sesta per l’arco della Valeeva-Cocchi e la terza per la racchetta della Tan-Monfardini. Sarà invece la prima azzurra per Nadia Ejjafini, marocchina di Biella, e per Amaurys Perez, cubano che ha sposato la cosentina Angela.
Perez fa il difensore nel Settebello, l’Italia più eterogenea che ci sia. Con lui gioca Pietro Figlioli, nato in Brasile con un papà ex campione di nuoto carioca, poi naturalizzato australiano e azzurro dal novembre 2009. Ci sono poi Deni Fiorentini, croato fino al 2006, e Alex Giorgetti, natali e mamma Katalin ungheresi. E ancora non basta, perché del gruppo del ct Campagna fanno ancora parte Tamas Marcz, ungherese fino al 2004, e Daniel Premus, croato fino a due anni fa. Anche quelli del volley pendono verso Est. Ma i casi di Dragan Travica, Michal Lasko e Ivan Zaytsev sono diversi: i loro padri hanno tutti militato nella nostra A1 negli Anni 80. Dragan è nato a Zagabria, Michal a Wroclaw, Ivan a Spoleto ma s’è presto spostato nella Russia dei genitori. Poi, sono venuti in Italia. Qui hanno cominciato a giocare, qui sono diventati uomini e campioni. Con gli accenti delle loro regioni d’adozione. Cantano l’inno di Mameli a squarciagola, non vedono l’ora di vivere la loro prima Olimpiade. Anche per Jiri Kovak sarà il debutto. Papà Petr e mamma Milada erano pallavolisti: cechi trasferiti per sport in Germania, accompagnarono il figlio tredicenne a un camp della Sisley. Da allora, Jiri è trevigiano, anche se per la cittadinanza ha dovuto aspettare l’agosto 2010.
Funziona così, da noi. Si è italiani per diritto di sangue, trasmesso da papà e/o mamma. Altrimenti, lo si diventa per matrimonio. O, nel caso di figli di stranieri, dopo 10 anni di residenza. Che, per quattro azzurre, ormai sono molti di più. Come Gloria Hooper anche la spadista Nathalie Moellhausen è nata da noi. Però, da papà tedesco e madre brasiliana. Edwige Gwend, judoka, arrivò a Parma dal Camerun a soli 9 mesi. Oggi ha 22 anni, due in meno di Noemi Batki, tuffatrice, che quando ne aveva 3 lasciò l’Ungheria con la madre, da sempre sua allenatrice.
Storie di immigrazione, di sacrifici fatti per coronare un sogno che si chiama Olimpiade. Storie di permessi e passaporti sofferti. «Nuovi italiani» simboli di un Paese e, di conseguenza, di un movimento sportivo che viaggia al passo col mondo. Vite che s’incrociano, gente che si integra e, nelle diversità, fa crescere un popolo. Valgono le parole di Giorgio Napolitano: «Non comprendere la portata di questo fenomeno e quanto sia un necessario contributo per il Paese, significa non saper guardare la realtà». Quella degli «italiani 2.0» che, come disse il Presidente della Repubblica a fine 2011, «rappresentano un’energia vitale di cui abbiamo bisogno». Anche per vincere un Europeo di calcio o qualche medaglia olimpica in più.

Corriere 30.6.12
Il dono di Balotelli (e dei suoi gol) al Paese
Mario, il razzismo e l'orgoglio dei nuovi italiani Dagli striscioni e gli sfottò negli stadi alle piazze in festa per i suoi gol Così Balotelli con la maglia azzurra ha spazzato via decenni di stereotipi
di Gian Antonio Stella


«Patria e mammà». Vedere Mario Balotelli precipitarsi a far festa alla madre e sentirlo parlare della maglia azzurra fa tornare in mente la chiusa di quella stupenda canzone
che è «Foxtrot della nostalgia». Più italiano di così!
Piaccia o no ai razzisti, la gioia esplosa l'altra sera nelle piazze per i gol fantastici di quel nostro figliolo nero ha spazzato via per un momento magico decenni di stereotipi.
Capiamoci: lo sport è sempre stato un mondo a parte, su queste cose. Gli stessi tifosi juventini che tempo fa stesero contro «SuperMario» lo striscione razzista «non esistono italiani negri», erano già andati in delirio per Edgar Davids e Lilian Thuram e avrebbero dato un occhio per avere Eto'o o Drogba. E quel Cavaliere che in campagna elettorale sospirava su Milano «città africana» ha riempito per anni il Milan di formidabili giocatori d'origine africana: da Frank Rijkaard a Ronaldinho, da Ronaldo a Cafu, da Serginho a Dida, da Clarence Seedorf a Ruud Gullit.
Il quale, intelligente e spiritoso com'era, spiegò un giorno: «Se hai due miliardi in banca sei meno negro di un bianco povero». Sintesi perfetta che si ricollegava a un cippo del XIX secolo a.C. trovato ai confini col Sudan: «Frontiera sud. Questo confine è stato posto nell'anno VIII del Regno di Sesostris III, Re dell'Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l'eternità. L'attraversamento di questa frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibita a qualsiasi negro, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzino». Traduzione: negri «foera di ball», per dirla bossianamente, ma se fanno girare i dané...
Eppure, a dispetto dei razzisti di «Stormfront» che dopo la visita degli azzurri a Auschwitz e la confidenza di Balotelli sull'origine ebraica della madre adottiva riempirono il loro sito di fetide ironie su SuperMario «negro ed ebreo», è falso che i neri siano del tutto assenti nella storia italiana. Non solo la nostra discendenza da una popolazione di origine abissina («Abissinia» è lo sprezzante soprannome con cui i razzisti chiamavano il quartiere londinese degli italiani) è stata sostenuta dagli scienziati Giuseppe Sergi e Luigi Pigorini almeno un secolo prima che il «Mondo di quark» raccontasse ai telespettatori la storia di Lucy, l'Eva primordiale nera. Ma tutta la nostra devozione popolare, da San Zeno di Verona a San Filippo d'Agira, da San Nicola da Bari a San Calogero da Agrigento, trabocca di santi, madonne e cristi neri così numerosi da spingere gli xenofobi americani a vederci una prova della «negritudine» dei nostri emigranti. Non a caso marchiati a lungo, negli Stati del sud, col nomignolo di «Guinea».
E se SuperMario viene di colpo venerato oggi da chi magari fino a ieri lo vedeva come un corpo estraneo, c'è un nero italiano venerato da secoli. È San Benedetto il Moro, veniva da una famiglia di schiavi portati in Sicilia dagli arabi, si fece frate laico verso la metà del 1500 e pur essendo stato respinto nel suo sogno di dire messa (privilegio concesso ai neri solo molto ma molto più tardi) fu acclamato come santo patrono di Palermo nel 1703 e scelto come santo protettore di moltissime popolazioni nere sparse per il pianeta assai prima che Pio VII lo canonizzasse nel 1807.
E come dimenticare, oggi, chi amò l'Italia fino a morire per lei? Andrea Aguyar, nato in Uruguay da una famiglia di schiavi neri, seguì Garibaldi al suo rientro e combatté fianco a fianco col condottiero, salvandogli la vita due volte, fino ad attirare l'attenzione dell'«Illustrated London News», che lo descrisse come «un ragazzo minuto, vestito con un cappotto aperto rosso e uno sgargiante fazzoletto di seta legato attorno al collo che copriva le spalle». Morì, colpito da una granata francese a Santa Maria in Trastevere, il 30 giugno 1849. Ed è un peccato, riparato parzialmente solo qualche mese fa con la dedica di una strada, che non ci sia anche il suo tra i busti al Gianicolo di tanti stranieri che combatterono per l'Unità.
Quanto allo sport, vale la pena di ricordare almeno Leone Jacovacci, figlio di un agronomo romano che lavorava nel Congo belga e della figlia di un capotribù del Kinkenda. La memoria è corta, ma fu il primo pugile di colore che nel 1928 riuscì a conquistare il titolo nazionale ed europeo dei «medi». Racconta Mauro Valeri nel libro «Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l'invincibile mulatto italico» che la sua gloria, con il Duce al potere, fu di brevissima durata. Il giorno dopo il trionfo, Adolfo Cotronei s'incaricò di scrivere su «La Gazzetta dello Sport»: «Jacovacci è troppo nero per rappresentare l'Italia nel mondo».
Sono passati, da allora, 84 anni. È cambiato il mondo, è cambiata l'Italia. A dispetto di Gabriele d'Annunzio che si spinse a definire gli africani «non uomini ma cani» e a declamare che «col calcio del fucile si fa del ceffo d'uno schiavo una cosa informe». Di quel macellaio di Rodolfo Graziani che arrivò a usare gli islamici inquadrati nell'esercito italiano per decimare nel '37 tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi a Debra Libanos. Di Julius Evola che su «Il Regime Fascista» scrisse di suo pugno nel 1940 scemenze come quella che anche «dopo anni di cessati rapporti con un uomo di colore, donne bianche possono dar la vita a un figlio di colore, in nuove nozze con persone di razza bianca». Delle teorie di Giovanni Marro su «La difesa della razza» intorno a «Giuda ebreo, Giuda negroide». Dei fumetti del «Corriere dei piccoli» che esaltavano le conquiste coloniali: «Con l'elmo in testa, senza dir né ai né bai / fieri parton Trilli e Trulli pei Tigrai».
E poi a dispetto di chi come il deputato leghista Erminio «Obelix» Boso voleva «prendere le impronte dei piedi ai negri» o come Umberto Bossi e Roberto Calderoli (cavalcando il razzismo perché come dice Maroni «portava voti») chiamava i neri «Bingo-Bongo».
Una storia lunga e brutta di razzismo. Per molto tempo negata e velata, nonostante le accuse di storici come Angelo del Boca, dallo stereotipo autoconsolatorio che «gli italiani non sono mai stati razzisti». Una storia che ha pesato anche, nei suoi strascichi, su tutti i bambini neri che l'altra sera, pazzi di gioia per quei due gol straordinari di SuperMario, si sono sentiti un po' più orgogliosi di essere loro pure italiani.

Corriere 30.6.12
Quel bacio alla mamma Silvia più forte dell’urlo di Tardelli
di Paolo Di Stefano


Non si era mai visto un campione di calcio aspettare il triplice fischio di una partita trionfale di cui è stato il protagonista, per correre ad abbracciare la mamma. Ci voleva l'italiano SuperMario Balotelli. Quell'abbraccio tra madre e figlio è degno di entrare nella memoria collettiva più dell'urlo di Tardelli a Madrid, perché qui non c'è solo lo sport, ma c'è ben altro. Il ventunenne supereroe nero, l'incredibile Hulk nato a Palermo, il Bolt del football, il FootBolt, il guerriero postmoderno, la statua greco-romana che appena segnato il gol esibisce i pettorali in chiave wrestling — come piace da morire ai suoi coetanei —, il fuoriclasse guascone che raggiunge a braccia aperte mamma Silvia in tribuna, come un bambino che dopo l'esibizione scolastica a porte aperte è ansioso di prendersi i meritati complimenti e i dolci bacini dai genitori, che poi racconteranno con fierezza agli amici quant'è stato bravo il loro figliolo ormai diventato un ometto.
Poco importa che la signora Silvia, bresciana, sia la sua mamma adottiva: è sua madre e stop, basta guardare la mano aperta con cui, seduta in tribuna, teneva la nuca del figlio per avvicinarlo il più possibile a sé come fanno (quasi) tutte le mamme del mondo (specie quelle italiane) quando baciano i figli e non vorrebbero staccarsene mai. Poco importa che quel ragazzo già straricco sia un omone di quasi due metri con tanto di cresta sul cranio rasato; poco importa che da anni sia un principe del gossip, fotografato ovunque con mirabolanti donne sempre diverse; che sia un asso (così si diceva una volta, così bisognerà dire ancora per lui) del calcio internazionale venduto a suon di milioni, per quanto considerato fino a ieri un genio incompreso o un fenomeno incompiuto.
In realtà, un ometto (come l'ha definito provocatoriamente il suo compagno De Rossi) è proprio ciò che Balotelli non è: perché Balotelli o è un flagello-di-dio (e dei difensori) o è un bambino viziato e affettuoso come tutti i bambini: sia che abbia a che fare con i genitori sia che abbia a che fare con Mourinho, Mancini o Prandelli. Anzi, è l'una e l'altra cosa insieme, che convivono nel suo fisico monumentale. Sandro Modeo ha scritto acutamente (sul Corriere) di un paradosso tecnico che lo imprigiona e di un ibrido irrisolto sul piano caratteriale. Giovedì quel colosso geneticamente venuto dal Ghana, dopo essersi sfilato la maglia per mostrare i muscoli da bronzo di Riace, ha aspettato la fine della partita per togliersi anche la maschera da wrestler e trasformarsi in uno dei tanti figli italiani, il latin lover eterno mammone dello stereotipo cinematografico-letterario più abusato. Nessun calciatore italiano aveva mai spiattellato al mondo tanta italianità. Uno spot del familismo morale.
E mentre il suo amico Antonio Cassano corricchiava per il campo a testa alta portandosi sulle spalle il piccolo Christopher, Mario ha preferito mostrare (forse come una conquista) il suo essere figlio di una signora anziana («di una certa età»), con i capelli tinti e la permanente appena fatta come si addice alle occasioni migliori. «L'unica cosa che speravo era farla contenta»: dirle grazie e sentirsi dire grazie. L'ex enfant terrible Cassano è diventato un uomo maturo e responsabile, ormai molto ma molto più padre che figlio indomabile della Bari Vecchia in cui è cresciuto. Balotelli potrà avere tutte le donne che vuole, ma per il momento rimane figlio. E chissà che, a differenza del suo compagno di squadra, non intenda restarlo per sempre. Ne avrebbe tutto il diritto.

La Stampa 30.6.12
“Mario ha salvato l’euro con una mossa storica”
Emma Bonino: per la prima volta l’Italia ha usato il diritto di veto
Intervista di Antonella Rampino

qui

il Fatto 30.6.12
Obama e la vittoria rischiosa
di Furio Colombo


La notizia ha letteralmente sconvolto il paesaggio politico americano. Obama, con la sua riforma sanitaria ha vinto dove avevano fallito tutti, da Roosevelt ai giorni nostri: garantire a tutti gli americani, compresi i 40 milioni che ne sono esclusi, le cure mediche necessarie, ripristinando il valore di uguaglianza, che è fondamento della Costituzione americana. Come è noto, i conservatori americani, che hanno oggi il controllo del Partito repubblicano e la maggioranza alla Camera, si sono battuti proprio su questo punto: chiedere alla Corte Suprema di dichiarare incostituzionale la riforma sanitaria che restituisce l’uguaglianza ai cittadini americani. Quale era stato l'espediente per un percorso così arrischiato? Politicamente una buona idea: giocare il valore di libertà contro quello di uguaglianza. Le cure mediche garantite richiedono l'obbligo per ciascun cittadino di sottoscrivere un’assicurazione (facilitata dallo Stato e modulata secondo il reddito) come accade per gli automobilisti, ma senza il selvaggio mercato libero che tormenta e perseguita, negli Usa come in Europa, gli automobilisti.
DUNQUE i repubblicani si aspettavano, da una Corte suprema conservatrice, che l’invocazione di libertà (ciascuno si cura come vuole e si assicura se crede) avrebbe prevalso su una legge che riporta al centro il valore dell'eguaglianza. Non è andata così e la notizia ha sconvolto il mondo delle notizie americano (Fox Television ha annunciato e poi dovuto smentire la sconfitta di Obama), il mondo dei partiti e quello dell'opinione pubblica. I protagonisti sono dunque Barack Obama, il suo avversario della estrema destra repubblicana Mitt Romney, e la Corte Suprema degli Stati Uniti che, in quel Paese, è anche Corte costituzionale. In quella Corte i giudici “liberal” (noi diremmo “di sinistra”) sono in minoranza di uno, e perciò i repubblicani contavano di cancellare la legge sulla salute che per Obama è la più importante del suo mandato. È accaduto che, inaspettatamente, uno dei giudici conservatori abbia seguito un percorso curioso: accetta, da conservatore, che l'obbligo dell’assicurazione possa essere considerato incostituzionale, perché viola la libertà di scelta (“di commercio”). Ma fa notare che “l'obbligo” consiste solo nel modesto pagamento imposto dalla legge a ogni cittadino. e che quell'obbligo non è altro che una tassa. Ora le tasse non sono mai incostituzionali, perché rientrano nei poteri del governo e del Parlamento. Dunque, l'intera legge che prevede cure mediche garantite è accettata e legittimata dalla Suprema Corte. Obama vince e si presenta forte alla prima prova che lo attende, le elezioni presidenziali. Ma se vincerà contro Romney e resterà presidente degli Stati Uniti, lo aspetta la seconda prova, ancora più pericolosa, come in una favola dei Grimm: portare in salvo la sua legge attraverso la foresta della Camera e del Senato.
Obama, infatti, potrebbe restare presidente senza avere una maggioranza nelle due Camere o in una delle due Camere. E persino una maggioranza minima (per esempio, come accade non così di rado negli Usa, la maggioranza di uno o due senatori) non lo metterebbe al sicuro. Per tradizione, nella politica americana, le fughe a destra sono più frequenti delle fughe a sinistra. Clinton ne ha patito anche prima di perdere la maggioranza con cui era stato eletto.
PER CAPIRE il rischio che Obama continua a correre, vediamo per quali ragioni il presidente rischia la solitudine o il tradimento. Ci sono due grandi avversari sulla sua strada. Un avversario si mobilita per un immenso potere economico: Obama toglie potere alle potentissime compagnie di assicurazione che finora hanno tenuto in pugno la salute degli americani, decidendo persino chi vive e chi muore sulla base degli interessi di impresa. Un secondo avversario sono le chiese, sia la Chiesa cattolica che le miriadi di chiese e culti che formano il fronte del fondamentalismo cristiano. Insieme si battono contro qualsiasi versione, sia pure terapeutica, dell'aborto, e su ogni libera decisione delle donne sulla maternità. La legge sulle cure mediche garantite di Obama non pone i limiti, chiesti in nome di Dio, alle cure mediche garantite dallo Stato federale. La scelta allora è “cancellare tutto”. Meglio respingere in strada i pazienti di malattie gravi e troppo costose per le famiglie, che ammettere l'aborto in corsia.
Ecco, dunque, l'ostacolo all’impegno di un grande Paese a garantire cure mediche a tutti: la potente alleanza fra religione e finanza, fra chiese e compagnie di assicurazioni, fra Mitt Romney (che è mormone, una religione fondata nel 1849 e che crede nella poligamia) e coloro che giudicano “comunista” curare tutti. Come si vede, proprio mentre è a un suo punto alto di civiltà con Obama, l’America deve confrontarsi con un suo punto oscuro e basso: le grandi imprese assicurative che parlano per bocca di Dio. Il mago di Oz diventa grande politica e deciderà sull'esito delle prossime elezioni americane.

La Stampa 30.6.12
L’Unesco accoglie la richiesta dei palestinesi
La Natività di Betlemme patrimonio dell’umanità. Protestano Usa e Israele
di Alberto Mattioli


La Basilica della Natività è la chiesa più celebre di Betlemme dove la tradizione vuole che sia nato Gesù Per i palestinesi «esisteva il rischio che fosse danneggiata o distrutta»
Da ieri, la Basilica della Natività di Betlemme fa parte del Patrimonio mondiale dell’umanità. L’ha deciso l’Unesco durante la sessione del Comitato ad hoc a San Pietroburgo, in Russia. Il sito del «Luogo della nascita di Gesù» che comprende, oltre alla chiesa, anche la strada dei pellegrini, è stato ammesso con procedura d’urgenza, come chiedevano i palestinesi. A voto segreto, su 21 membri del Comitato 13 hanno votato sì, sei no e due si sono astenuti.
Fin qui l’aspetto culturale. La questione, però, è tutta politica. L’Unesco è la prima organizzazione dell’Onu ad aver ammesso lo Stato palestinese e la Basilica è il primo sito palestinese a ottenere il bollino dell’Unesco. Naturalmente, la decisione è stata pesantemente contestata da Israele e dagli Stati Uniti. Già l’ammissione dei palestinesi, nell’ottobre scorso, aveva scatenato una crisi politica, subito diventata anche economica per l’organizzazione perché gli Usa hanno congelato per rappresaglia il loro contributo. Adesso la polemica riparte. La lite non è se la Basilica sia o meno un patrimonio dell’umanità, ma se fosse opportuno applicare la procedura d’urgenza. Il Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti (Icomos) aveva infatti dato parere sfavorevole, chiedendo ai palestinesi di rivedere il dossier della candidatura e le misure di conservazione previste. Identica l’opinione delle tre chiese che celebrano nella chiesa, cattolica, grecoortodossa e armena, che temono «strumentalizzazioni».
I palestinesi, ovviamente, giubilano. «Questo riconoscimento da parte del mondo dei diritti del popolo palestinese è una vittoria per la nostra causa e per la giustizia», ha dichiarato Nabil Abou Roudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. Il delegato palestinese a Pietroburgo è andato più in là, motivando così l’urgenza: «Questi siti sono minacciati di distruzione totale dall’occupazione israeliana, dalla costruzione del muro di separazione, a causa delle sanzioni israeliane e dalle misure prese per opprimere l’identità palestinese». La Basilica, peraltro, è visitata ogni anno da due milioni di pellegrini.
Da parte israeliana, si obietta che «la decisione presa è assolutamente politica e costituisce una grave lesione alla convenzione sul Patrimonio mondiale». Più grave, per l’Unesco e soprattutto per il suo budget, la reazione americana. A Parigi, dove ha sede l’Unesco, l’ambasciatore David Killion ha detto che gli Usa sono «profondamente delusi». Ricordando che la procedura d’urgenza è stata usata solo quattro volte in 40 anni «e sempre seguendo le raccomandazioni del Consiglio», Killion ha accusato una volta di più l’Unesco di essere «politicizzata». E il braccio di ferro continua.

Repubblica 30.6.12
Dal disagio alla cura, storia vera di Basaglia
Una biografia di Pivetta sulla figura del celebre intellettuale
di Luciana Sica


Togliamoci dalla testa l’idea di Franco Basaglia come un san Francesco della povertà mentale, un guru sensibile e caritatevole votato alle ragioni di pazzi veri o presunti. Finiamola d’inchiodarlo a quella caricatura che lo etichetta come “il profeta dell’antipsichiatria”, come un uomo ossessionato dalla chiusura dei manicomi. Soprattutto non identifichiamolo con la legge 180, che porta sì il suo nome, ma di fatto è stata formulata da uno psichiatra e parlamentare democristiano, dal meno noto Bruno Orsini. Una legge discutibile e discussa, quella approvata nel ’78, non proprio il risultato di un pensiero culturale e politico contrario alla medicalizzazione della follia che ha consentito i peggiori abusi. Amato e odiato, considerato un genio e un impostore, oggi Basaglia andrebbe ripensato come uno dei grandi intellettuali del secolo scorso: questa è la tesi principale della biografia scritta da Oreste Pivetta, che esce ora con un titolo popular come Franco Basaglia. Il dottore dei matti (Dalai, pagg. 286, euro 17). È riuscito il tentativo di tracciarne un ritratto più autentico, ora che certe ubriacature ideologiche sono definitivamente alle spalle, ora che è più chiara la distanza di Basaglia dalle banalizzazioni antipsichiatriche, dall’esaltazione della devianza e delle sregolatezze individuali. In quei due decenni – Sessanta e Settanta – complessivamente segnati, per dirla con Magris, da “una confusa esigenza messianica”, Basaglia è stato un tipico leader carismatico, forse travolto dal successo e trascinato da un movimento che a tratti perdeva il senso della misura. Ma la sua utopia – ci dice l’autore del libro – non era mai “un sogno strampalato”, piuttosto una pratica rigorosamente etica, era un fare continuo e inventivo, la determinazione di “mettere una pietra accanto all’altra”. Ma a Pivetta non basta far intuire come la questione delle persone più sofferenti ed emarginate fosse diventata per Basaglia una sfida radicale per una società incapace di accogliere “tutte” le diversità che ospita, “tutte” le figure del disagio, di costruire relazioni meno brutali e più umane. Il suo controverso personaggio viene puntigliosamente contestualizzato in quella irripetibile stagione del nostro Paese, nei fatti ormai storici come nell’informazione, e anche nel cinema e nella fotografia, nel teatro e nella letteratura che ha ispirato. C’è tutto intero il percorso personale e professionale, il carattere dell’uomo, le idiosincrasie e le generosità del veneziano amico di Hugo Pratt. Dalla militanza antifascista all’esperienza fallimentare dell’università, alla direzione degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste, Basaglia risulta un protagonista del suo tempo, apprezzato da personaggi come Sartre e Pasolini, capace di senso politico, di costruire alleanze, di contare sempre su collaboratori eccellenti. Come lo stesso Giovanni Jervis, anche se poi se ne allontanò, seguendo tutt’altra strada – fino all’agosto di tre anni fa. Pivetta fa bene a non presentare Jervis come il nemico di Basaglia, a combattere l’idea di un duello che c’è stato solo per chi ama le più sciatte semplificazioni.

Corriere 30.6.12
Diritti umani, un sogno fragile
«Un patto tra gli Stati per liberare l'umanità dalle guerre»
di Arrigo Levi


È difficile, se non impossibile, per chi come me, nato nel 1926, si considera, col nome che porto, un uomo fortunosamente sopravvissuto alle tormentate vicende del Novecento, non trovarsi d'accordo col titolo (La libertà fragile, Mondadori) che Louis Godart ha dato a questa sua incursione nella storia di quella che il sottotitolo dell'opera definisce «l'eterna lotta per i diritti umani».
Abbandonando per un breve tempo gli studi prediletti, coltivati per decenni, che l'hanno reso famoso — l'arte e la cultura delle civiltà egee — e le cure che da diversi anni dedica a custodia e restauro del Quirinale e delle opere d'arte che esso custodisce, Godart ha scelto di raccontare, in un testo relativamente breve e di limpida struttura e comprensione, la faticosa marcia che la cultura occidentale ha compiuto, a partire dalla Grecia dei grandi filosofi e tragici, fino a raggiungere con le rivoluzioni americana e francese di fine Settecento la concezione contemporanea del diritto alla libertà degli individui e dei popoli: di tutti gli individui, e di tutti i popoli.
Chi conosce bene l'autore non può dirsi stupito da questa felice «invasione di campo». Lo stile discorsivo di quest'opera, che mantiene dal principio alla fine il carattere di un racconto, ne rende particolarmente gradevole la lettura. Non manca nessuna delle citazioni necessarie — dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo adottata dalla Convenzione della Virginia il 12 giugno 1776, all'ampia sintesi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950. Godart non corre alcun rischio di ricevere accuse di «dilettantismo» dagli specialisti della materia.
Emerge da questo racconto il confluire, nelle complesse radici delle due grandi rivoluzioni americana e francese, delle correnti di un pensiero illuminista e laico, dominante nella Francia che vuole liberarsi dall'assolutismo monarchico, accanto ai valori di un cristianesimo riscoperto, nei suoi principi essenziali, dalle comunità puritane e protestanti; che non a caso, di fronte alle difficoltà che incontravano in Inghilterra, scelsero l'emigrazione in America per crearvi una società in gran parte fondata sulla fede di cui erano portatrici. Può apparire stupefacente, ma a distanza di oltre due secoli lo è ancora oggi.
Quasi contemporanee, le due grandi rivoluzioni da cui nasce il mondo moderno possono apparire, a prima vista, assai diverse nei principi ispiratori. E tuttavia, nell'uno come nell'altro caso, quale che sia stato il percorso tormentato della storia europea, a partire dalla rivoluzionaria irruzione del pensiero biblico nella cultura greco-romana, è nel cristianesimo che si ritrovano la prima radice e l'ispirazione della nostra civiltà, sia nelle sue espressioni religiose che in quelle laiche. Le successive «riscoperte» dei valori fondanti espressi e conservati nei testi biblici, che proclamano la discendenza da un solo uomo di tutti gli esseri viventi e di tutte le nazioni, si rivelano di fatto, fino ai tempi nostri, terreno fertile per rivoluzionarie svolte storiche. Fino, appunto, alla maturazione di quella dottrina dei diritti umani che è l'essenza della cultura contemporanea: una radice che continua a dare frutti, come ci racconta Godart, anche in terre lontane, e che mantiene ancora oggi, a mio avviso, tutta la sua fertilità, tutto il suo valore creativo, anche nei confronti del mondo contemporaneo e di quello a venire, che si annuncia assai problematico.
Non tutti ne sono consapevoli: ma i problemi dell'era nucleare in cui viviamo, e in cui vivranno per sempre le generazioni future (giacché le armi nucleari, col loro potenziale distruttivo che non conosce limiti, potranno anche essere distrutte, ma non potranno mai essere disinventate), impongono alle nazioni del nostro tempo, e a quelle che verranno se vorranno sopravvivere, di costruire quella «federazione universale di liberi Stati» che alla fine del Settecento Immanuel Kant riteneva già necessaria per liberare l'umanità dallo «stato di natura», ossia dallo «stato di guerra», che era o sembrava essere il destino naturale della nostra specie. È un fatto che dei conflitti nucleari potrebbero segnare la fine di tutto.
Guardando al futuro con lo sguardo necessariamente ansioso che ha la nostra generazione di sopravvissuti, Godart coltiva e sogna un simile disegno kantiano. È profondamente consapevole dell'importanza immensa delle conquiste ottenute grazie all'«eterna lotta per i diritti umani». Ma se definisce «fragile» la libertà di cui godiamo, lo si deve alla consapevolezza che «non vi sono mai acquisizioni irreversibili». Se, volgendo lo sguardo a un passato non lontano, si riportano alla mente le speranze, anzi le certezze, di quella che appariva come una ormai acquisita pacifica convivenza fra tutte le nazioni europee, negli anni a cavallo fra l'Otto e il Novecento, quando in realtà si stavano preparando le condizioni che avrebbero scatenato le due guerre più distruttive di tutta la storia, non si può non riflettere sulla validità di quel giudizio di Godart che abbiamo appena riportato: la libertà è fragile, perché non cesseremo mai di «dover difendere dall'ignoranza e dall'intolleranza il terreno conquistato».
Averci riproposto questi amari avvertimenti è un forte motivo per essere grati all'archeologo Godart di essersi avventurato, dopo avere distolto lo sguardo dagli splendori della civiltà ellenica, in questa sua sorprendente ricerca delle origini e della storia dell'«eterna lotta per i diritti umani».

Repubblica 30.6.12
Il parco dei libri
Non sono semplici sale di letture ma luoghi dove il sapere si apre a tutti. La lezione di un’esperta spiega come sia l’ecosistema di una comunità
di Antonella Agnoli


Qualsiasi dibattito sulla rinascita culturale dell'Italia, e in particolare del Sud, deve partire dalle biblioteche e dalla lettura, quei servizi indispensabili quanto gli asili nido e i pompieri che nel Sud sono assenti, o presenti solo di nome, in molte regioni. Ma occorre riflettere anche attorno alla scuola perché ormai sappiamo che milioni di italiani sanno riconoscere i caratteri a stampa ma di fatto non riescono a seguire un discorso sulla pagina scritta. Il dibattito di questi mesi su vari giornali e in vari festival ha fornito una quantità di dati in materia. La scuola dovrebbe portare alla maturità quasi tutti i ragazzi e permettere a una quota rilevante di loro di accedere all’università. Cosa accade, invece? Nella classe d’età fra 20 e 24 anni solo il 6 per cento dei giovani è laureato, il 64 è diplomato. Il che significa che il 30 per cento, quasi un giovane italiano su tre, non arriva nemmeno alla maturità, con percentuali molto più alte al Sud. Nessuno ha ancora avanzato proposte concrete per riparare al disastro della scuola italiana, un comparto che nei fatti il governo Monti non sembra intenzionato a trattare diversamente da com’era stato trattato dal governo Berlusconi. Che ruolo possono avere le biblioteche in tutto questo? Le biblioteche possono essere un’ancora di salvezza, non perché abbiano virtù taumaturgiche ma perché esse sono uno spazio comune, dove anche chi è stato emarginato dalla scuola può scoprire un libro, un giornale, un sito web che ridia speranza o almeno susciti interesse. Le biblioteche sono luoghi di scoperta, di possibilità, a condizione che siano ben concepite e ben gestite, in modo innovativo. Anche in Italia ce ne sono, quasi sempre nel centro nord: grandi biblioteche come Sala Borsa a Bologna o la San Giorgio a Pistoia, o la Delfini a Modena, biblioteche di quartiere a Torino, Milano, Roma, biblioteche di piccoli comuni come Maiolati Spontini (AN), la Memo a Fano, le nuovissime di Meda e Mortara in Lombardia, Pieris in Friuli o il centro culturale di Cinisello Balsamo, di imminente apertura. Negli ultimi anni sono veramente molte la biblioteche che hanno fatto grandi sforzi per rinnovarsi. Da qualche tempo si parla molto di “beni comuni”, facendo una gran confusione tra gli acquedotti e le opere d’arte, fra un museo del cinema e le piscine comunali. La biblioteca deve mostrare la sua indispensabilità come risorsa a disposizione della comunità: per farlo deve essere risorsa “aperta”, non autoreferenziale o gestita nel modo gerarchico e burocratico tipico del settore pubblico italiano, deve essere invece uno spazio flessibile e neutrale, un luogo accogliente, dove domanda e offerta di cultura possano incontrarsi, dove le domande sociali possono trovare le competenze necessarie per realizzarsi. Non esistono altre istituzioni che possano accogliere tutti i ceti sociali, tutte le età, tutte le nazionalità. In questo sta la superiorità della biblioteca civica rispetto ai musei, alle librerie, ai festival, alle scuole: essa è un luogo dove si incontrano italiani e immigrati, studenti e professori, casalinghe e pensionati. Ha una vocazione a ricevere tutti su basi di uguaglianza e a rendersi utile a tutti: è un servizio universale che potrebbe reinventarsi fondendosi con altre istituzioni culturali in fondazioni che siano fuori dalle pastoie del pubblico impiego. Una biblioteca-teatro-cinema- museo-scuola per adulti è ciò di cui abbiamo bisogno, una sorta di “pronto soccorso” culturale. C’è una generazione di giovani da salvare e la nostra capacità di trovare informazioni, ampliare i contesti, dare spessore alla ricerca può essere messa al servizio di esperimenti di partecipazione che coinvolgano operatori del welfare, utenti, cittadini. La biblioteca è un luogo dove affluiscono persone con risorse culturali molto diverse: fare in modo che queste risorse vengano almeno parzialmente condivisestimolando la partecipazione dei cittadini può diventare una forma di welfare di nuovo tipo, un tentativo di auto-organizzazione della società sempre più necessario. Questo Nuovo Welfare si deve porre due obiettivi: uno è l’emergenza, l’aiuto ai cittadini in difficoltà attraverso la messa in comune di risorse culturali e organizzative, l’altro è l’obiettivo di lungo periodo di costruire una cittadinanza informata e competente. Gli amministratori che oggi pensano di tagliare i bilanci delle biblioteche non si rendono conto di stare segando il ramo su cui sono seduti: non ci possono essere consumi culturali per il museo del cinema, per i teatri o i concerti se non c’è un’educazione paziente al godimento di questi prodotti. Non saranno i telefonini, e neppure la scuola in crisi, a creare gli acquirenti di libri, i frequentatori del balletto o i visitatori dei bronzi di Riace di domani. I consumi culturali hanno bisogno di un ecosistema favorevole, continuamente alimentato da iniziative diverse, da un’offerta ricca e attraente. Possiamo creare dei nuovi fruitori solo se offriamo ai giovani la possibilità di entrare in contatto con un’offerta culturale diversa da quella veicolata dalla televisione o dalle multinazionali della musica. Da questo punto di vista è necessario creare nel Sud mille luoghi come il Parco della Musica di Roma, dove accade di tutto e dove la musica classica, i concerti rock, le letture sull’antica Grecia e le lezioni sulla storia della città convivono felicemente, con un grande successo di pubblico. (L’autrice ha diretto diverse biblioteche e ha scritto alcuni saggi su questo tema. Tra gli altri, “Le piazze del sapere” uscito per Laterza)

La Stampa TuttoLibri 30.6.12
Arendt, il mondo in un posacenere
Un ritratto controcorrente della più influente filosofa della politica
di Marco Belpoliti


Knott M. Luise HANNAH ARENDT. UN RITRATTO CONTROCORRENTE Raffaello Cortina pp. 120, 15

La foto è molto bella. Dovrebbe essere stata scattata a Parigi, o forse a New York, all’inizio degli anni Quaranta del Novecento, durante l’esilio. Hannah Arendt, oggi la più influente filosofa della politica, è appoggiata al tavolo su cui c’è un posacenere. Ha la sigaretta in mano. Guarda avanti. Sicuramente posa. Il punctum della foto è duplice: le mani, la sinistra che regge e sostiene la destra, in cui è infilata la sigaretta; l’ombra dietro di lei, sul muro. Ho il sospetto che sia una fotografia scattata da Gisèle Freund, ma nei crediti del libro non c’è.
Sto descrivendo la copertina di un breve volume davvero bello e acuto: Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente di Marie Luise Knott edito da Cortina Editore nella collana «Saggi». L’immagine partisce la faccia superiore del libro occupandone oltre la metà, mentre il nome dell’autore, in bianco su campo grigio, sottolineato da due filetti, è posto in alto. Lo schema grafico della collana prevede questa partizione, con il titolo all’interno dello spazio dell’immagine. Uno stile semplice e pulito attuato dallo Studio CReE cui si deve il progetto. Cambia solo, a seconda dell’argomento, il colore del fondo su cui è scritto il nome dell’editore, in alto a sinistra, in verticale.
Il libro davvero originale, fondato su fonti inedite, analizza il lavoro della Arendt seguendo tre percorsi: il riso; la sua scrittura in tre lingue, e quindi il tema della traduzione; la drammatizzazione. Sono sguardi obliqui, ma illuminanti, gettati sulla filosofa tedesca naturalizzata americana, una donna a cavallo di due imperi del XX secolo: l’hitlerismo e la democrazia di massa americana. Scritto in modo scorrevole allaccia i tre temi alle vicende intellettuali e di vita della Arendt. È un po’ come se l’autrice avesse dato forma a quell’ombra sul muro, leggendo il profilo della filosofa attraverso il riverbero che la sua persona getta sul muro.
Che ci siano ombre strane nell’opera della Arendt l’aveva capito anche Jaspers, suo maestro, che aveva progettato di scrivere un libro su di lei; negli appunti sottolinea come nei suoi testi gravi «l’ombra di un cavallo senza briglie». È l’ombra di un pensiero libero, come mostra Knott. L’immagine della copertina è quella di una giovane donna, dal tratto leggermente maschile, per via dei capelli corti e anche della postura con la sigaretta. Dove guardi non è chiaro. Guarda altrove, proprio come il suo inconsueto pensiero.

l’Unità 30.6.12
Protesta
Le film commission contro la chiusura di quella del Friuli


L’Associazione film commission italiane, protesta vivamente contro la decisione del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia di chiudere le attività della sua film commission. Secondo l’associazione, infatti, la decisione sarebbe una rappresaglia messa in atto dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia a seguito del finanziamento offerto dalla filmcommission al film di Marco Bellocchio, «La bella addormentata», sul caso Englaro. Si tratta di una decisione gravissime, prosegue l’associazione in una nota, «che mette in allarme l’intero sistema nazionale delle Film Commission». La «Italian Film Commissions», che rappresenta le più importanti film commission italiane, chiede a tutte le istituzioni del cinema, le associazioni, gli operatori, gli artisti audiovisivi e la politica più lungimirante di mobilitarsi,