domenica 1 luglio 2012

l’Unità 1.7.12
Susanna Camusso: «Ora una svolta in Italia patrimoniale e sviluppo»
Diciamo no ai tagli lineari. Tassare i patrimoni e colpire l’evasione fiscale e il sommerso
«Monti ha fatto un buon lavoro in Europa, ma abbiamo bisogno di interventi urgenti e forti per lo sviluppo»
intervista di Rinaldo Gianola


Bravo Monti. Ha giocato un ruolo decisivo in Europa, ha contribuito a dare una risposta finalmente politica alla speculazione e alla crisi finanziaria, ha dato credibilità e prestigio all’Italia. Susanna Camusso, leader della Cgil, riconosce il buon lavoro realizzato dal presidente del Consiglio al vertice europeo, ma esprime preoccupazione per le condizioni economiche e sociali del Paese e sollecita il governo a una vera svolta per lo sviluppo.
Segretario Camusso, come giudica l’azione di Mario Monti in Europa?
«Ha dato un contributo importante, direi decisivo per segnare un cambiamento, per spingere l’Europa a reagire unita alla crisi e agli attacchi della speculazione. È stato importante che a livello europeo si sia fatta strada l’idea della crescita, degli investimenti per lo sviluppo. Speriamo che non siano solo affermazioni di principio, attendiamo il 9 luglio per capire come si realizzerà la capitalizzazione della Bei. Siamo stati tante volte critici con il governo, ma questa volta Monti ha fatto un buon lavoro per il Paese».
Cosa è cambiato in Europa?
«La vittoria dei socialisti in Francia ha cambiato gli equilibri politici e le priorità dell’agenda. Con Hollande al posto di Sarkozy è un’altra musica, la cancelliera Merkel non può imporre la sua esclusiva visione sull’Europa. Hollande ha dato spazio e fiato anche all’Italia e alla Spagna che, altrimenti, sarebbero state penalizzate. È l’inizio di una nuova fase, di un lavoro lungo e condivido il protagonismo del nostro premier nel valorizzare l’idea di un’Europa che si costruisce e non si chiude. Monti ha ridato prestigio e credibilità all’Italia e non dimentico quando il nostro veniva sbeffeggiato. Ora mi piacerebbe che questa azione positiva a livello europeo potesse riflettersi in Italia, questa è la prossima sfida».
A che cosa pensa?
«Tutti sappiamo che la crisi dei mercati, la crisi finanziaria si sommano in Italia a un’altra nostra crisi, alla caduta dell’industria, dei consumi, alla perdita di occupazione, a una tensione sociale che sconfina nell’emergenza. Dobbiamo restare legati all’Europa, ma non basta. Ci vogliono interventi straordinari rispettosi dei conti e, sotto il profilo della crescita e degli investimenti, devo dire che il governo Monti non ha soddisfatto. E vorrei che le critiche della Cgil e del sindacato confederale fossero colte dal governo come un costruttivo contributo alla soluzione dei problemi e non come una pretesa di ingerenza o di tutela di interessi particolari». Monti si è un po’ risentito perché Confindustria ha parlato di un’economia ridotta come in tempo di guerra.
«Questa volta non posso dissentire da Confindustria, è una realtà che vedo anch’io. Ogni giorno chiudono decine di imprese, cresce la disoccupazione, crollano i consumi, il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni è in caduta e metà degli italiani non farà le ferie. Una parte sempre più ampia del Paese non ce la fa più. Dobbiamo fronteggiare subito questa situazione con misure straordinarie finalizzate a una redistribuzione fiscale. Non possiamo continuare a parlare di riforme strutturali e poi procedere con interventi che creano ulteriori diseguaglianze e ingiustizie come è stato nel caso della riforma delle pensioni con gli esodati e del mercato del lavoro».
E allora come ne usciamo?
«I soldi si trovano con una vera patrimoniale. L’Italia si rimette in moto colpendo le grandi ricchezze, i privilegi, il sommerso e l’evasione fiscale. La patrimoniale è il grande intervento redistributivo, di giustizia, necessario a voltare pagina».
Il governo, però, oggi pensa a nuovi tagli nel settore pubblico.
«Un errore. Se si taglia il perimetro pubblico in questa crisi drammatica i cittadini staranno sempre peggio. Avevamo chiesto un confronto con il governo prima di queste decisioni sui tagli, ma l’incontro è stato rinviato a martedì, dopo la riunione del “gabinetto di guerra” di domani. Quindi mi pare di capire che il confronto sarà limitato a una comunicazione del governo delle decisioni già prese. Così non va. Così come non sono d’accordo sui tagli lineari di cui si parla».
Ma per abbattere il debito pubblico qualche taglio bisogna farlo...
«Certo, facciamo interventi radicali sulla pubblica amministrazione che non funziona, eliminiamo le consulenze, chiudiamo le società inutili create solo per tutelare privilegi. Però stiamo attenti a quando parliamo di privatizzare le municipalizzate e tagliare i servizi. E chi propone l’abolizione delle province dovrebbe dire chi svolgerà le politiche attive per il lavoro, chi governerà grandi territori lasciati soli».
A questo punto si voterà nel 2013.
«Andare al voto anticipato per discutere dell’uscita dall’euro non mi sembrava una grande idea. C’è tempo in questi mesi di creare un’agenda politica per lo sviluppo e il lavoro».
Marchionne dice che la sentenza di Pomigliano è folklore locale...
«Marchionne è in grande difficoltà. Non è credibile, i suoi piani vengono tagliati e annullati. La sentenza di Pomigliano è buona per tutti i lavoratori non solo per gli iscritti alla Fiom ingiustamente discriminati. Di questa vicenda mi ha sorpreso negativamente una cosa...»
Che cosa?
«Il silenzio del ministro del Welfare, Elsa Fornero. Possibile che non abbia nulla da dire?»

il Fatto 1.7.12
Il governo dei tagli e delle pensioni d’oro
I soliti noti
Pronta la stangata sugli statali: licenziamenti e sforbiciata da 10 miliardi
Ma è vietato toccare i ricchi assegni della previdenza dei soliti noti: ministri, generali e papaveri di Stato
Spending review, lunedì il decreto: Catricalà parla di “bottino” da recuperare
Ma la Casta pensa alla vecchiaia. La sua
di Salvatore Cannavò


Il governo, lo stesso che si appresta a sforbiciare la spesa pubblica con la spending review e che ha varato la riforma della previdenza, ha detto no all’inserimento di un tetto alle pensioni d’oro. Perché? Di pensioni a 5 stelle tra i banchi dell’esecutivo ce ne sono diverse, basta leggere le indennità di diversi ministri e sottosegretari. Un pacchetto di alti redditi che in parte aiutano a spiegare la reticenza con cui l'esecutivo ha affrontato finora il tema dei tetti agli assegni della previdenza pubblica. La lista, del resto, chiama in causa addirittura il super-commissario ai risparmi, Enrico Bondi. Ma spicca anche un sottosegretario, Gianfranco Polillo, il sospettato numero uno del rinvio della norma. Non è ancora chiaro, infatti, come sarà il provvedimento che il Consiglio dei ministri è chiamato a varare la spending review (10 miliardi di tagli quest’anno, il doppio nel 2013, per disinnescare la bomba dell’aumento dell’Iva previsto da Berlusconi). E soprattutto non è chiaro se ci sarà o no un tetto massimo per le pensioni pagate dall'amministrazione pubblica che l'emendamento presentato dal deputato Pdl, Guido Crosetto, indicava in 6mila euro netti mensili. Quell'emendamento è stato ritirato dopo le insistenti “pressioni” da parte del governo e degli stessi colleghi di Crosetto. “Smuovi un campo troppo ampio” gli aveva detto in Commissione proprio Polillo. Il sottosegretario sa bene di cosa parla perché è titolare di una pensione di 9.541,13 euro netti al mese percepita dall'ottobre del 2006 dopo oltre 40 anni di servizio come funzionario della Camera. A pensar male, ovviamente, si dovrebbe ritenere che è la propria pensione a indurre a smussare un provvedimento tutt’altro che simbolico (consentirebbe un risparmio di 2,3 miliardi solo per il pubblico, di 15 estendendolo anche al privato). Ma questo presupporrebbe un'azione retroattiva del taglio che, a eccezione dei pensionati comuni (ai quali hanno bloccato l’adeguamento all’inflazione per gli assegni superiori ai 1.400 euro), come gli esodati, non si dà mai nella legislazione italiana. Forse si tratta invece di una mera rappresentanza di un interesse “di casta”. Se però si volesse capire chi potrebbe effettivamente essere beneficiato dal mancato tetto, ecco il nome di Elsa Fornero. Il ministro del Lavoro che in pensione ancora non ci è andata ma che gode di una lunga carriera a cui aggiunge importanti consulenze e incarichi prestigiosi. Nel 2010 ha dichiarato un reddito di 402mila euro lordi annui, per cui non è difficile prevedere per lei una pensione al limite della soglia-Crosetto. Ma quanti altri “cloni” di queste figure potrebbero essere salvati? Ancora altri esempi, magari proprio considerando l’estensione al privato: il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dichiarato nel 2011 oltre 7 milioni di euro. Il suo collega allo Sviluppo Corrado Passera, oltre 3,5 milioni. Per non parlare di Piero Gnudi, con una dichiarazione dei redditi da 1,7 milioni. Legittimo attendersi che, quando andranno in pensione, saranno ben oltre il tetto.

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il Fatto 1.7.12
Nel Paese reale: stop agli scatti perl’inflazione e via dal lavoro a 66anni


Da quest’anno le anzianità contributive maturate dopo il 31 dicembre 2011 verranno calcolate per tutti i lavoratori con il sistema di contributivo (conteggio dei contributi versati durante l'intera vita assicurativa). Le pensioni d’oro in essere si basano sul calcolo retributivo (media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di vita lavorativa). La pensione di vecchiaia, per le donne, a partire dal 2012 si conseguirà a 62 anni ed entro il 2018 si arriverà a 66 anni. Gli uomini nel privato e nel pubblico (dipendenti e autonomi), già dal 2012 conseguono la pensione a 66 anni. Tutti, uomini e donne, devono avere un’anzianità contributiva di almeno 20 anni. Dal 2012 scompare la pensione di anzianità, è sostituita da quella anticipata. Non bastano più i 40 anni ma ce ne vogliono 41 e 1 mese per le donne e 42 e 1 mese per gli uomini. Sulle anzianità contributive maturate prima del gennaio 2012 è applicata una riduzione dell’1% per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto ai 62 anni, che sale al 2% per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni (ovvero rispetto ai 60 anni di età). Blocco dell’adeguamento all’inflazione per il 2012 e il 2013, per le pensioni che superano 1.402 euro.

il Fatto 1.7.12
Tagli per 10 miliardi, stangata sugli statali
Spending reiew, lunedì di passione: l’esecutivo prepara il “bottino”
di Sara Nicoli


Insieme alla geometria appartiene (in forme meno specializzate) anche ai bambini di pochi mesi e ad alcune tribù aborigene o amazzoniche che non hanno mai affrontato la matematica sui banchi. Alcuni esperimenti l’hanno riscontrata perfino in scimmie, piccioni e ratti. E i neurologi hanno individuato l’area dell’“istinto per i numeri” nel solco intraparietale: una delle pieghe della corteccia del cervello situata verso la nuca. Lo studio uscito su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) conferma che ottenere buoni voti, dalle elementari all’università, rende l’istinto più acuto e meno vulnerabile all’età. Curiosamente però, lo stesso numero della rivista pubblica un altro articolo che bacchetta gli scienziati. Loro per primi sarebbero troppo refrattari all’uso dei calcoli, con buona pace di Galileo secondo cui il grandissimo libro della natura è scritto in lingua matematica. Le pubblicazioni scientifiche che contengono molte equazioni, secondo lo studio di Pnas, vengono citate negli articoli scientifici successivi il 50% in meno rispetto a quelli scritti completamente nel “linguaggio delle lettere”. I ricercatori dell’università di Bristol che hanno misurato la pigrizia numerica dei loro colleghi suggeriscono di migliorare la preparazione matematica dei laureati nelle materie scientifiche. Ma secondo gli esperti di Baltimora, svolgere più operazioni sui banchi può migliorare l’“istinto dei numeri” nella popolazione in generale, aiutando chi invecchia a mantenere l’agilità mentale. «Abbiamo scoperto — scrivono gli autori — che la sensibilità ai numeri cresce durante l’età scolare e diventa massima intorno ai 30 anni. Questo miglioramento è comune a tutti, ma ci sono profonde diffidenze tra individui della stessa età. Quelli che vanno meglio in matematica a scuola, restano i più bravi per tutta la vita». Il sistema numerico approssimativo serviva ai nostri antenati a misurare, ancorché a spanne, il mondo della natura per decidere quale fonte di cibo era più abbondante o per darsi alla fuga nel momento in cui i nemici erano troppo numerosi. Oggi saper confrontare due insiemi può aiutare a scegliere la fila più corta o a sommare a grandi linee le calorie introdotte con la dieta. Cambiato il contesti, affidarsi al senso del cervello per i numeri conviene ancora.

il Fatto 1.7.12
Il fisco inguaia Passera
Il ministro indagato per un’operazione di Banca Intesa Giro di milioni all’estero per risparmiare sulle tasse
di Vittorio Malagutti


Milano Parte da Biella, in Piemonte, una nuova inchiesta penale sui trucchi fiscali delle grandi banche italiane. E questa volta la pista porta fino a Corrado Passera, l'ex capo di Intesa che da novembre siede sulla poltrona di ministro dello Sviluppo economico. L'indagine riguarda un gioco di sponda finanziario con una società inglese creata ad hoc. Questa ed altre acrobazie contabili, che risalgono al 2006, hanno consentito al grande istituto milanese di risparmiare più di un miliardo di tasse. Un articolo del quotidiano La Stampa, che ieri ha anticipato la notizia, rivela che Passera è indagato perchè, in qualità di amministratore delegato, ha firmato la dichiarazione fiscale di Intesa.
CHE C'ENTRA Biella? Semplice, nella cittadina piemontese ha sede Biverbanca, che faceva capo all'istituto guidato dal futuro ministro. Come succede normalmente per i grandi gruppi, i proventi di un affare gestito a livello di tesoreria centrale sono stati poi suddivisi tra diverse controllate, compresa l'ex Cassa di risparmio di Biella e Vercelli, ribattezzata Biverbanca. L'indagine nasce da una una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza di Milano che portato a un processo verbale di contestazione all'Agenzia delle entrate. Quest'ultima un anno fa ha girato la documentazione alla procura di Biella perchè approfondisse eventuali aspetti penali che riguardano la posizione di Biverbanca. Va detto che segnalazioni analoghe sono state inviate alle procure di tutte le città dove hanno sede le banche targate Intesa coinvolte nel presunto illecito fiscale. A cominciare, ovviamente, da Milano, dove si trova il quartier generale della capogruppo. Al momento, però, che si sappia, solo Biella ha ritenuto che ci fossero gli estremi per avviare un'indagine.
L'operazione sotto inchiesta assomiglia molto a quella che poco meno di un mese fa è costata il rinvio a giudizio all'ex amministratore delegato di Unicredit (ora presidente del Monte dei Paschi) Alessandro Profumo. Negli anni tra il 2004 e il 2008, gli anni della grande bolla finanziaria tra derivati Borsa e boom del mattone, i banchieri nostrani avevano scoperto una nuova miniera d'oro. Aggrappandosi a norme e cavilli della nostra legislazione tributaria sono state allestite operazioni miliardarie in cui grandi flussi di denaro partivano dall'Italia rimbalzavano oltrefrontiera, il più delle volte a Londra, e infine rientravano alla base. Questo gioco virtuale ha fruttato profitti altissimi. E le tasse? Il minimo indispensabile, perchè il gioco di sponda era stato studiato con l'unico obiettivo di creare un cuscinetto di crediti fiscali da utilizzare per dare un taglio alle imposte complessive della banca in questione.
A muovere questa giostra off shore erano i grandi broker della finanza internazionale che proponevano pacchetti chiavi in mano ai maggiori istituti di credito italiani. Intesa, per esempio, ha utilizzato un veicolo societario britannico, denominato La Defense II plc, messo a disposizione dal Credit Suisse. Unicredit invece si è affidato all'inglese Barclays bank, che ha allestito il progetto con il nome i codice di “Brontos”. Il giocattolo è andato in frantumi quando a partire dal 2009 la Guardia di finanza e poi l'Agenzia delle entrate hanno contestato alle banche di aver abusato di norme di legge con il solo scopo di aggirare o ridurre le imposte dovute. È il caso per esempio del credito fiscale creato da Intesa con l'operazione via Londra.
DOPO LE PRIME schermaglie legali, tutti gli istituti coinvolti nell'indagine hanno preferito arrivare a una transazione con le autorità tributarie. Già nel 2010 il Banca Popolare ha pagato 190 milioni per metter fine alla vertenza. Nel 2011 Unicredit ha versato 191 milioni per gli esercizi tra il 2005 e i 2006, mentre il Monte dei Paschi si è accordato per 270 milioni. La stessa Intesa, come risulta dal bilancio 2011, ha regolato una serie di pendenze con il Fisco sborsando 270 milioni contro una contestazione complessiva tra mancate imposte, sanzioni e interessi di oltre un miliardo, per la precisione 1.150 milioni di euro.
Il fatto è, però, che la vertenza penale è andata avanti per la sua strada. E la procura di Biella, dopo aver acquisito una gran mole di documenti anche nella sede centrale dell'istituto, ha deciso di muoversi ipotizzando i reati di dichiarazione infedele e dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Un'indagine che comunque, al momento, riguarda solo i proventi dell'affare attribuiti a Biverbanca, una parte minima, quindi, della somma contestata a suo tempo dall'Agenzia delle entrate. Curiosità finale. Nel 2007, l'anno dopo l'affare finito sotto inchiesta, Intesa ha venduto per 399 milioni al Monte dei Paschi la quota di controllo della banca biellese. Che aveva in bilancio anche il profitto del gioco di sponda fiscale.

il Fatto 1.7.12
Una tegola per Mr. Banca sulla via di Palazzo Chigi
di Stefano Feltri


In Italia essere oggetto di un’indagine non basta a stroncare una carriera politica, ma lo scoop de “La Stampa” sulla procura di Biella che indaga su Corrado Passera rischia di ridimensionare ancora le ambizioni politiche del ministro dello Sviluppo. I fatti risalgono al 2006-2007, quando era a capo della banca Intesa Sanpaolo. Se il profilo penale dei fatti contestati resta incerto, quello fiscale è già stato chiarito: la banca ha pagato all’Agenzia delle entrate 270 milioni per sanare le irregolarità contestate (eludere il fisco italiano con una triangolazione societaria tra Svizzera e Gran Bretagna). La vicenda crea problemi a Passera per vari motivi. Da quando è arrivato al governo, nel novembre 2011, ha fatto di tutto per restare a distanza dal suo passato bancario (tutto tranne rinunciare a portarsi al ministero Mario Ciaccia, a occuparsi delle infrastrutture che a Intesa finanziava ). Non ha ritenuto opportuno negoziare sulla buonuscita - che per il suo omologo Alessandro Profumo di Unicredit era stata di 40 milioni - proprio perché sapeva che i banchieri, specie se milionari, in politica non possono aspirare a grande popolarità in questi anni. Adesso il suo passato bancario torna a tormentarlo e, da ministro, dovrà difendersi per un’operazione ambigua che la sua stessa banca ha ammesso essere illegittima, tanto che ha pagato la sanzione al fisco.
Scandali a Palazzo Chigi
Finora gli imbarazzi giudiziari per il governo Monti erano derivati soltanto da personaggi di un’epoca precedente. Il sottosegretario all’editoria Carlo Malinconico, già prodiano ma non lontano dai mondi di Gianni Letta, si è dimesso per le vacanze pagate - ovviamente a sua insaputa - da Francesco De Vito Piscicelli, coinvolto nelle inchieste legate alla ricostruzione de L’Aquila. E poi Andrea Zoppini, giovane ma ben inserito avvocato titolare di ricchi arbitrati, amico del figlio di Giorgio Napolitano, il giurista Giulio, ma anche lui considerato ben visto e apprezzato da Letta. Zoppini, indagato anche lui per aver assistito una potente impresa bresciana in un’operazione fiscale considerata illecita, si è subito dimesso, per non creare imbarazzi al governo.
Dimissioni zero
Passera sa che per lui il discorso è diverso: le sue dimissioni sarebbero un colpo alla leadership di Mario Monti proprio all’indomani del successo europeo al vertice di Bruxelles. Quindi è abbastanza inutile aspettarle, le dimissioni non arriveranno. Ma il già prudentissimo ministro dello Sviluppo diventerà ancora meno sicuro proprio nella fase in cui deve prendere la decisione finale sul ruolo che intende assumere alle elezioni del 2013. Al momento il suo appeal è un po’ diminuito: le sue scelte sul beauty contest per le frequenze tv hanno ridotto l’entusiasmo di alcuni berlusconiani che lo consideravano più affidabile.
La fine di Fini?
I provvedimenti per la crescita di cui è titolare, celebrati da interviste in cui annunciava interventi da decine di miliardi, si sono scontrati con la diga della burocrazia ministeriale del Tesoro, riducendosi a poca cosa. Tutti lo indicano come competente, preparatissimo, totalmente immerso nel suo ruolo istituzionale in cui, un po’ come Gianfranco Fini, rischia però di rimanere intrappolato. Finora Passera ha anche faticato a costruirsi un’identità politica forte, pur avendo fatto capire più volte che non ha intenzione di tornare in banca dopo la primavera 2013 ma spera di restare tra Montecitorio e Palazzo Chigi. Il ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi è diventato il principale referente dei cattolici militanti, anche se dal convegno di Todi di un anno fa si poteva immaginare che a quel ruolo fosse destinato Passera. La Confindustria, per quanto sempre meno rilevante, si è collocata all’opposizione anche del governo tecnico, e la prudente diplomazia di Passera viene periodicamente compromessa dalle violente polemiche tra il leader degli imprenditori Giorgio Squinzi e Mario Monti o Elsa Fornero. Proprio la professoressa torinese - lei sì interessata a tornare nel mondo bancario da protagonista - ha tolto a Passera anche quel ruolo di “Tremonti di Monti” cui pareva destinato, lo batte anche come presenzialismo televisivo e dunque popolarità nei sondaggi. Non sarà un’indagine a carico - che pure al momento al ministro non risulta - a compromettere le ambizioni politiche di Corrado Passera, ma di certo contribuisce a rendere il momento attuale dell’ex capo di Intesa assai meno memorabile di quanto ci si potesse immaginare all’epoca del giuramento ministeriale.

l’Unità 1.7.12
Bersani agli alleati «Prima il progetto e poi chi ci sta...»
Il leader Pd dice no «alla proprietà transitiva per cui se c’è Vendola c’è Di Pietro, e se c’è Di Pietro c’è Grillo»
«Il Paese è ancora in una fase di transizione: il pericolo è grande»
di Laura Matteucci


Non vuole essere tirato per la giacchetta, tantomeno sentir parlare di veti incrociati sulle alleanze. Prima lo dice con una metafora: «Non mi si chiedano particolari di cronaca, perché io parlo dell’onda di fondo, e le increspature le vedremo». Poi si fa esplicito, e boccia «la proprietà transitiva per cui se c’è Vendola c’è Di Pietro, e se c’è Di Pietro c’è Grillo. Noi non siamo gente fatta così. Discutiamo di cosa serve fare per governare l’Italia. Dopodiché chi ci sta, ci sta. Noi partiremo da una carta d’intenti». Dal Forum delle assemblee regionali del Pd del Nord, a Milano, Pier Luigi Bersani replica a Sel e a Di Pietro, che attacca Casini, mentre promuove il partito delle larghe intese: «L’apertura non disorienti: non si tratta solo di inglobare, c’è del buono anche fuori di noi dice il segretario dei democratici Datemi un elenco di tutte le liste civiche, organizziamo una giornata di discussione. Dobbiamo accumulare forze per un cambio di passo, perché adesso tocca a noi. Non è una pretesa, ma una sfida. Indico la volontà di non avere paura di metterci in gioco». Il piano è aprirsi al «civismo» e «portare una proposta di dialogo con forze centrali, moderate e democratiche». Niente nomi, nessuna citazione per l’Udc, piuttosto una sorta di identikit: dovranno essere «pro Europa» e non per «no euro, no tasse o no immigrati».
L’ipotesi del voto anticipato, definita da Bersani «fumisteria che non tiene conto del punto principale: prima di tutto viene l’Italia», è parecchio raffreddata, se non archiviata. Anche perché «siamo ancora in una fase di transizione: dobbiamo cavare fuori i piedi da un pericolo grandissimo», dice, nonostante «il risultato di Bruxelles». Il cui merito va all’Italia, «che ha giocato molto bene», senza però tralasciare il fatto che alla guida della Francia non c’è più Sarkozy: «Credo che la spinta dei progressisti europei, anche italiani, con un governo Monti che ha saputo difendere le esigenze del nostro Paese, abbia portato i primi risultati. Bisognerà averne altri».
LA SFIDA DEI 5 STELLE
Dopo aver rassicurato alcuni esodati che l’avevano avvicinato, c’è spazio per una battuta: Monti come Balotelli? «Sì, ma non gli chiedo di togliersi la maglia». Poi si torna alla politica, quella interna al partito («le primarie saranno un grande confronto per scegliere dal lato dei progressisti la guida del governo: stiamo parlando di Italia, non di beghe tra di noi»), e quella rivolta agli avversari: il Pdl, avverte, non può fare un patto con il Pd sulle riforme costituzionali e poi votare con la Lega sul presidenzialismo. Sul Pdl l’affondo è severo: «La destra di Berlusconi è condizionata da elementi di populismo. Perché altrimenti dice “fuori dall’euro”? Perché ha guardato gli orientamenti dei sondaggi, in particolare la torta dei voti che vanno a Grillo, e ha visto che in modo più significativo sono voti del Pdl e della Lega. E quindi lui deve fare un fischio per richiamare il cane». Un’alleanza col Movimento 5 stelle è peraltro improponibile: «Non ci sto certo pensando», chiude Bersani. Un Movimento che contiene un «nucleo di verità», ammette, che va dalla critica alla scarsa sobrietà della politica alla ricerca di partecipazione, all’uso della tecnologia, «che è sfidante per noi», oltre il quale però c’è «una sovrabbondanza di consensi che deriva dal rifiuto», quella che Bersani chiama una «distruzione creativa del tipo: andate a casa tutti».
Il sommovimento politico in atto da tempo, conclamato con le amministrative, è anche più evidente al Nord dove, secondo il segretario Pd, Pdl e Lega pagano il fatto di aver «separato l’orgoglio del Nord dalle sue responsabilità: lo si è gonfiato a parole, ma ridotto nei fatti». E se Roberto Maroni, che dovrà guidare la prossima Lega, ha adottato lo slogan «prima il Nord», Bersani lo stoppa subito: «Se la vediamo in modo gerarchico, ci sarà sempre un Nord più Nord. Per la Finlandia, sei un terrone». Il Settentrione non è «prima», piuttosto la parte «davanti di un tandem», la sala macchine del Paese, che si deve assumere le proprie responsabilità collegandole ad un patto nazionale che vive in un contesto europeo. E la Lega ultimamente «sta troppo al guinzaglio: un tempo almeno abbaiava, adesso nemmeno più».
Nord, ovvio, è anche la Lombardia dell’agonia di Formigoni. Da tempo il Pd chiede le dimissioni del governatore, anche con una mozione di sfiducia (poi bocciata). «Abbiamo fatto bene a porre un tema oggettivo ricorda Bersani che va al di là di quello giudiziario: una regione come la Lombardia in tutta questa fase viene paralizzata». La sua previsione è che si vada a votare il prossimo anno, mentre è cauto a parlare di primarie per scegliere il candidato a succedere al Celeste. «Il nostro metodo è quello, ma vediamo l’evoluzione dei fatti». Insomma, sì alle primarie «purchè ce ne siano le condizioni». «Mandarlo a casa, comunque, è un pezzo della questione. È cosa si fa dopo il problema».

l’Unità 1.7.12
L’alleanza e le pulsioni populiste
di Massimo Adinolfi


È STATO DETTO CHE IL POPULISMO ESPRIME, SIA PURE IN MODO DISTORTO, UN’ESIGENZA DI PARTECIPAZIONE CHE I MECCANISMI ISTITUZIONALI DELLA DEMOCRAZIA rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: «embé?». Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.
E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti, istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile.
Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.
Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.
E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’Idv, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.
Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del Paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro

Corriere 1.7.12
Bersani «tallonato» da Renzi e Di Pietro
I democratici e l'ipotesi di primarie di coalizione. Nel Pdl le vuole il 74%
di Renato Mannheimer


Si parla sempre più di consultazioni primarie. Esse costituiscono comunque un evento molto richiesto dalla popolazione: la netta maggioranza le vede con favore, ritenendole un importante momento di partecipazione e di democrazia. Tanto che la gran parte degli italiani dichiara che si recherebbe a votare.
Può sorprendere il fatto che la massima diffusione dell'intenzione a partecipare si trovi nell'elettorato del Pdl. Qui quasi tre elettori su quattro si dichiarano pronti («sicuramente» o «probabilmente») a votare alle primarie di partito. Segno forse dell'ampiezza e dell'importanza del dibattito in corso nella formazione di Alfano e Berlusconi. Appaiono particolarmente sensibili al tema — e intenzionati a partecipare — gli elettori più giovani (tra gli under 24 la quota supera addirittura il 90%, prova della particolare sensibilità di questa generazione verso gli ambiti di partecipazione), i laureati e i residenti nel Nordest. Non molto dissimile risulta l'intenzione a recarsi a votare per le primarie tra gli elettori del Pd, che raggiunge il 70%. In questo caso, tuttavia, appaiono relativamente più sensibili i meno giovani, oltre i 55 anni, (la generazione «storica» del partito) e gli operai.
Come si sa, è anche in discussione la possibilità di permettere la partecipazione alle primarie non solo agli elettori del Pd, ma al complesso dei votanti o simpatizzanti per tutte (o alcune) forze del centrosinistra, indicendo le cosiddette «primarie di coalizione». Anche in questo caso, la partecipazione sembrerebbe coinvolgere la netta maggioranza (più di due terzi) degli aventi diritto (abbiamo considerato tutti i votanti per i partiti del centrosinistra, nessuno escluso).
L'insieme di questi dati fa ritenere che l'afflusso (per ora potenziale) alle urne delle primarie potrebbe essere elevato. Ma con quali risultati? Fare previsioni oggi è arduo. Se non altro perché la consultazione sarebbe preceduta da una combattuta campagna elettorale, che potrebbe formare o modificare l'orientamento di molti elettori. Al momento sembrerebbero prevalere, in entrambe le competizioni, i leader attuali: Alfano e Bersani. Con percentuali di consenso relativamente simili, entrambe poco sotto al 50% dei voti. Tuttavia, c'è una differenza significativa. Nel caso del Pdl, ad Alfano si contrappone una pluralità di competitor, nessuno dei quali riesce a minare il predominio del segretario (abbiamo escluso Berlusconi, anche se alcuni intervistati dicono che lo vorrebbero votare comunque). Nel Pd, viceversa, pur senza intaccare la vittoria di Bersani, Renzi concentra su di sé più di un quinto dei voti, arrivando a costituire una minaccia consistente. Nel caso di una competizione allargata a tutto il centrosinistra, il risultato appare meno scontato. Bersani giungerebbe comunque primo, ma viene «tallonato», a pochi punti di distanza, da Di Pietro e, ancora una volta, da Renzi. L'esiguità della differenza di voti rende dunque, nel caso di primarie della coalizione del centrosinistra, il possibile esito aperto.
Insomma, le primarie rappresentano un desiderio assai diffuso in tutto l'elettorato, di centrodestra e di centrosinistra. Con risultati che sembrano oggi privilegiare lo status quo costituito dagli attuali segretari di partito. Ma con possibili evoluzioni difficilmente stimabili in questo momento.

Corriere 1.7.12
Di Pietro, no a Casini «Carnefice, mai alleati»


MILANO — Il problema delle alleanze, nel centrosinistra, è complesso e delicato come un domino. Dopo l'appello del centrista Pier Ferdinando Casini a costruire un'asse tra progressisti e moderati, l'entusiasmo con il quale il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha accolto il progetto porta a galla i veti su chi sarà dentro e chi sarà fuori: Casini preferisce Nichi Vendola e boccia Antonio Di Pietro, Vendola punta su Di Pietro e Bersani, costretto alla scelta, non esita a sbarrare la strada all'Idv. Ma l'ex pm non ci sta e lancia il suo controappello al Pd in un'intervista al settimanale Left: «Con Vendola proponiamo un programma ai democratici: sviluppo, solidarietà, legalità. Nessuna alleanza con Casini: è il carnefice del centrosinistra. Vorremmo ricordare che Berlusconi ha governato per 15 anni con Casini, mettendo in pratica una politica di gestione personale del potere, di spartizione e lottizzazione, di utilizzo da pirata delle istituzioni, basata sulle leggi ad personam. Se fossi in tribunale per Casini varrebbe l'articolo 110 del codice penale: "Concorso diretto nella commissione del reato". Questa idea di allearsi col carnefice del nostro elettorato, noi la consideriamo masochista e contraddittoria. Ma abbiamo il dovere di proporre un'alternativa. Un'alternativa non al Pd ma col Pd. Vorremmo cioè rilanciare una coalizione di programma in cui ci aspettiamo che il Pd e il suo elettorato riflettano sulla diversità e sulla qualità del programma che noi proponiamo, cioè sui contenuti. Se poi il Pd ritiene di sposarsi con gli avversari politici, a quel punto parleremo al suo elettorato per ricordare che noi manteniamo ferma la barra». Nel pomeriggio arriva la risposta di Bersani: «Discutiamo di cose serie per governare l'Italia. Poi chi ci sta, ci sta. Qui non si parla né di Pd né di Idv o di Sel. Si parla di Italia. Quindi queste proprietà transitive secondo cui c'è Vendola se c'è Di Pietro, c'è Di Pietro se c'è Grillo... No, noi non ci stiamo».

Repubblica 1.7.12
Di Pietro tende la mano a Bersani “Scriviamo insieme il programma”


ROMA — Una proposta a Bersani - «Scriviamo assieme il programma» - e una dura stoccata a Casini: «Con lui nessuna alleanza: è il carnefice del centrosinistra». Antonio Di Pietro cerca l’alleanza con il Pd e stronca ogni intesa elettorale con i centristi. E affida ai sindaci il compito di scrivere «un nuovo programma di governo che metta da parte le formulette delle alleanze per fare finalmente spazio ai bisogni reali della gente». Proposta lanciata da Bari, dove il leader dell’Idv ha riunito, in occasione di una convention per il Mezzogiorno, Michele Emiliano, Luigi De Magistris, e Leoluca Orlando. I tre sindaci negano la nascita del partito dei sindaci. Di Pietro invece attacca Casini. Il leader dell'Idv ricorda che il centrista ha governato a lungo insieme a Berlusconi. «Se fossi in tribunale dice - per Casini varrebbe concorso diretto nella commissione del reato».

Corriere 1.7.12
Fini pronto a sciogliere Fli: mai con gli anti Monti
Il leader verso un polo riformatore Nuova svolta sugli omosessuali: vanno tutelate le unioni tra persone
di Alessandro Trocino


ROMA — «Un nuovo polo europeo, patriottico e riformatore». Gianfranco Fini sceglie il centro congressi di Eataly, neotempio dei gourmet romani (tra loro c'è anche Italo Bocchino), per lanciare ufficialmente la campagna elettorale. All'ultimo piano del mega centro, dopo aver superato fritti e mozzarelle di bufala, culatelli di Zibello e piadine, ecco l'assemblea nazionale di un partito che, come molti altri, deve ancora decidere la sua direzione di marcia. Niente «proposte choc», nonostante gli annunci della vigilia. Ma il leader di Fli prova a mettere qualche punto fermo nella complicata strategia delle alleanze. Barra dritta al centro, con due veti. Uno a destra e uno a sinistra: no a un Pdl che rimanga agganciato alla Lega e resti antimontiano; no a un Pd che si allei con Vendola.
Fini comincia con una spietata autocritica: «Alle Amministrative abbiamo dimostrato la nostra marginalità e in certi casi ininfluenza». Archiviato anche il Terzo polo, inteso come alleanza tra partiti (Fli, Udc e Api): «È stato percepito come una somma di entità, uno stare insieme per disperazione. Oggi non esiste più il Terzo polo per come è stato concepito, ma le potenzialità di quella operazione sono ancora più valide di prima».
E allora ecco la nuova rotta, che incrocia da vicino quella di Monti: «Il giudizio verso il governo sarà la cartina di tornasole per le future alleanze. Non staremo mai con chi ha contestato l'esecutivo Monti». Di più, Fini non esclude affatto che del suo progetto entrino a far parte anche esponenti del governo («Non il presidente del Consiglio», precisa).
Già, ma qual è il progetto? Troppe le variabili per dirlo subito. Si guarda naturalmente al centro e magari anche a Luca Cordero di Montezemolo (a pochi metri da qui partono i suoi treni Italo). Il partito più vicino è naturalmente l'Udc, ma non mancano le differenze di vedute. Casini ha aperto a un patto tra moderati e progressisti. Ma Fini cita il leader di Sel: «La foto di Vasto è salda. E ha ragione Vendola quando dice che non si può staccare Di Pietro dalla foto. Bersani è simpatico e bravo ma qui non si tratta di smacchiare i giaguari».
E dunque via a un nuovo attivismo per «dimostrare che non siamo un partito in liquidazione», in vista dell'assemblea dei 1.000 di settembre, «quando speriamo siano maturi i tempi del confronto con altri». Intanto Fini ripete alcuni punti fermi: legge elettorale uninominale con maggioritario secco (plauso di Marco Pannella); semipresidenzialismo (plauso di Ignazio La Russa); ius soli e cittadinanza per «la generazione Balotelli»; detrazione dell'Imu dalla dichiarazione dei redditi; «un quadro giuridico per regolare le unioni tra persone», vedi alla voce «coppie di fatto», «senza mettere in discussione la famiglia». Questa è la linea dentro Fli, dice Fini: «O si è d'accordo o se ne prende atto».

Repubblica 1.7.12
“Nel 2013 al governo con Monti e Bersani serve un patto per salvare l’Europa”
Casini: il Pdl decida cosa fare. Di Pietro si mette fuori da solo
di Francesco Bei


ROMA — L’Italia ha ancora davanti «tempi duri». Per Pier Ferdinando Casini non è il momento di «abbandonarsi a una visione illusoria, pensando che i problemi siano ormai alle spalle». Tuttavia, «grazie al successo di Monti a Bruxelles», l’Italia può rialzare la testa. E la prospettiva è quella di «un’alleanza tra moderati e progressisti che prenda il testimone delle riforme nella prossima legislatura». Con un premier che potrà essere del Pd. Oppure lo stesso Monti, che «non si ritirerà certo a vita privata».
Dopo il summit Ue i rischi per il governo sono cessati? O bisogna aspettarsi qualche colpo di coda da un Pdl che appare sempre più riluttante nel suo sostegno a Monti?
«I colpi di coda ci possono essere da parte di tutti. Molti, non solo nel Pdl, hanno dato vita all’intesa su Monti pensando soltanto a un escamotage per superare un momento difficile. Per noi invece c’è sempre stata la convinzione che soltanto grazie a un armistizio politico, unito all’autorevolezza del presidente del Consiglio, si potessero risolvere i problemi del paese ».
Dunque, passato il Consiglio europeo, ci sono ancora pericoli per l’esecutivo?
«Ora dovremo affrontare la spending review e ci saranno da approvare dei tagli dolorosi. È bene che si sappia: il risanamento è ben avviato, ha consentito a Monti di conseguire un grosso risultato a Bruxelles, ma pensare che i problemi siano finiti è una visione illusoria che può rivelarsi pericolosa».
Alfano è sembrato tornato ad appoggiare Monti, anche contro alcuni pasdaran del Pdl. È una svolta?
«Nel Pdl in molti la pensano come noi. E tutti conoscono la mia stima per Alfano. Ma penso che, senza chiarezza, la corda alla fine si romperà: deve scegliere se stare con i vari Brunetta, Crosetto, Martino, oppure sposare una linea di piena responsabilità nazionale».
Lei ha suggerito un’alleanza tra moderati e progressisti per la
prossima legislatura. Bersani ha risposto positivamente. Come conciliare questa intesa con Vendola
e Di Pietro?
«Qui si finge di non capire che sono saltati tutti gli schemi della politica tradizionale. Metà dei partiti della destra europea, a partire dal Pdl, ha fatto il tifo contro Sarkozy. La Merkel ha dovuto cercare i voti della Spd e, se non ci fosse stato il socialista Hollande, il popolare Rajoy sarebbe uscito dal summit Ue con le ossa rotte. Questo per dire che ovunque, nella prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, il tema del rapporto fra moderati e progressisti è diventato centrale».
Torniamo a casa nostra. Di Pietro oggi dice “con Casini mai, è il carnefice del centrosinistra”. Sarà dura mettere insieme tutti questi pezzi...
«Capisco la sua nostalgia per il governo Prodi, ma non intendo fare da schermo. Lui si è messo al margine con attacchi dissennati e ripetuti al presidente della Repubblica
e anche al Pd».
Per Vendola un’alleanza centrata sull’asse tra Pd e Udc sarebbe «una scelta di palazzo». È rottura?
«Le alleanze per noi si creano in Parlamento, sulle cose concrete, andando a vedere come votano le forze politiche. Noi ci siamo trovati a condividere con gli amici del Pd il peso di una stagione drammatica, prima all’opposizione di Berlusconi poi nel sostegno pieno a Monti. Su queste cose nasce la prospettiva di un patto di legislatura. Capisco il disagio di Vendola e Di Pietro, ma non riguarda Casini. Riguarda piuttosto le scelte politiche del Pd in Parlamento, scelte che loro non condividono».
Si è visto un Berlusconi di nuovo attento al rapporto con voi. Ma il Pdl sembra ormai fuori dalla vostra prospettiva. È così?
«Io faccio riferimento alle famiglie dei popolari e dei socialisti europei. Se il Pdl, o una sua parte, ha atteggiamenti costruttivi è evidente
che sarà parte del gioco. Ma dipende da loro e dall’atteggiamento che scelgono: il populismo e la demagogia anti-euro sono incompatibili con un progetto di governo ».
Ma il Pdl cosa farà?
«Mi auguro che scelga la responsabilità. Ormai, quando votano alla Camera, nel tabellone elettronico appaiono in corrispondenza dei loro banchi lucine bianche, verdi e rosse. Va bene il patriottismo calcistico, ma qui c’è una gran confusione ».
Torniamo a voi e al Pd. A chi spetterà la guida del governo?
«Eeeh, quanta fretta! Oggi è un discorso prematuro, non sappiamo nemmeno con quale legge elettorale si voterà».
Bene, ma alziamo lo sguardo ai prossimi mesi...
«Il suffragio universale ha un valore, chi prende più voti governa».
Quindi Bersani?
«C’è un signore a palazzo Chigi che sta facendo il suo lavoro benissimo e non credo che si ritirerà a vita privata nella prossima legislatura. E c’è un segretario del Pd che, nei sondaggi, è il più grande partito italiano. Ma, nel momento in cui si realizzerà una convergenza, che io mi auguro ancora più vasta, le assicuro che decidere la guida del governo non sarà un problema».
C’è spazio per il terzo polo e per Fini in questo progetto?
«Con Fini siamo in sintonia. Non può nascere niente di nuovo dalle burocrazie del Terzo polo ma le energie del Terzo polo possono essere il lievito per qualcosa di nuovo».
E la legge elettorale? L’intesa ABC regge?
«Solo un kamikaze ormai può pensare di presentarsi ai cittadini con l’attuale legge elettorale. Io vorrei che la riforma fosse approvata entro luglio in almeno uno dei rami del Parlamento».
Ma c’è una cosa, almeno una, che rimprovera a Monti?
«Sì, mi auguro che andando a vedere la finale a Kiev non dimentichi la Tymoshenko. I diritti umani esistono anche se siamo in finale».

Corriere 1.7.12
«C'è un nuovo centrosinistra europeo Monti in sintonia con questa svolta»
D'Alema: «È un liberale che può mitigare le resistenze stataliste»
di Dario Di Vico


«Se permette inizio con un suggerimento. Legga il documento approvato dai socialisti europei prima del Consiglio di Bruxelles. Troverà anticipati tutti i punti qualificanti dell'accordo successivamente raggiunto tra i governi. Tutti. Il meccanismo anti spread, la clausola salva-banche e tante altre cose. È questa la grande novità. Le interpretazioni meramente geopolitiche che parlano del nuovo Club Med, dell'isolamento della Germania, della fine di questo o quell'asse non spiegano tutto». Dire che Massimo D'Alema è soddisfatto dell'esito del negoziato di Bruxelles è un eufemismo, per lui si tratta di una svolta, con la maiuscola. «Le destre, nella loro doppia versione liberista e populista, hanno indebolito l'Europa. E oggi la svolta avviene nel segno di un nuovo centrosinistra europeo che potrà rafforzarsi con le elezioni del 2013 in Italia e in Germania. Non credo che i mercati debbano avere paura dei socialisti che tornano al governo».
I commenti della stampa italiana hanno sottolineato di più i meriti di SuperMario Monti...
«Sono innegabili. L'Italia dopo gli anni di Berlusconi è tornata in campo e lo ha fatto grazie al nuovo governo. Ma senza la vittoria di Hollande alle elezioni francesi non sarebbe stato possibile ottenere nessun risultato. La novità è politica, dunque. So che i giornali italiani fanno fatica a parlare della vera politica ma è così. Ora naturalmente ci sono da implementare le decisioni prese ma ci si può legittimamente attendere che dopo Bruxelles cambi anche il clima psicologico, che gli europei e non solo le istituzioni coltivino nuove aspettative».
Come si fa ad aprire un nuovo ciclo europeista con la Germania contro?
«Concordo con Prodi, la Germania con la sua straordinaria forza produttiva è fondamentale per la crescita europea. Bisogna, dunque, registrare la fatica che i tedeschi fanno a entrare in una logica di solidarietà. Conto sulle forze che, all'interno di quel grande Paese, si muovono con questo spirito. Non ci sono solo Spd e Verdi che insistono su una linea europeista, anche nel partito della Merkel la riflessione è tutt'altro che chiusa. Penso alla dialettica aperta dalle sortite di Schauble, alle critiche avanzate da Kohl e non dimentico che nelle ultime elezioni locali la Merkel ha sempre perso. L'opinione pubblica tedesca è quantomeno divisa e gli industriali sanno che il loro interesse di business non può prescindere dall'esistenza dell'eurozona».
Se sta nascendo un centrosinistra europeo che ruolo potrà giocarvi Mario Monti?
«In un nuovo centrosinistra europeo Monti può trovarsi a perfetto agio. È una personalità liberale che con la sua azione può mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti. La sua insistenza sul completamento del mercato unico è giusta. Ha posizioni che a me paiono compatibili con il nostro orizzonte programmatico».
Domani si attende la reazione dei mercati per brindare o meno al successo del Consiglio di Bruxelles. Più in generale si può dire che qualsiasi nuovo equilibrio politico nel Vecchio Continente deve fare i conti con il consenso dei mercati. Gli analisti però considerano il Pse come il partito degli investimenti finanziati con il deficit spending.
«Mercati è una parola che mette assieme più interessi, magari contraddittori. Se parliamo delle società finanziarie con interessi speculativi penso proprio che non siano interessate a una svolta politica europea. Investitori e imprese sanno, invece, che c'è bisogno di creare nuove opportunità di sviluppo. Non sto parlando di incrementare la spesa corrente e del resto le nostre credenziali sono quelle di Tommaso Padoa Schioppa che sostenne la spending review e ridusse il rapporto debito/pil al 103%. La borghesia italiana preferì però Berlusconi e la spesa con lui è risalita».
Il Pd dunque sosterrà «senza se e senza ma» il governo Monti fino alle elezioni?
«Sì. Non siamo interessati a rovesciare il governo. I nostri interlocutori in Europa ci considererebbero dei matti proprio perché hanno visto Monti all'opera. Se c'è qualcuno che in Italia vuole andare all'opposizione è Berlusconi e già lo sta facendo. Il suo gruppo parlamentare per un terzo vota sì, un altro terzo vota no e il resto si astiene. Il governo lo stiamo sostenendo noi, basta dare un'occhiata in aula, e non deambulare in Transatlantico, per accorgersene».
Pensa che Berlusconi si farà da parte?
«L'azionista di riferimento è lui, Alfano è tuttalpiù un amministratore delegato che cerca con fatica di marcare il suo ruolo. Se il Pdl non si libera della matrice padronale l'evoluzione della destra sarà difficile. Per questo sostengo che l'unica prospettiva per il Paese viene da quel centrosinistra europeo di cui il Consiglio di Bruxelles è stato l'atto costitutivo. Vedremo se lo capirà anche l'establishment italiano».
Lei è sempre molto polemico nei confronti della borghesia. Le serve come richiamo ideologico o pensa davvero che il suo orientamento sia ancora centrale nella transizione italiana?
«Dico solo che una parte del ceto economico e del ceto intellettuale non accetta la democrazia dei partiti. Nel loro dna c'è l'elitismo e il qualunquismo antiparlamentare di Gaetano Mosca. Pur di bloccare la sinistra abbracciarono Berlusconi e ora flirtano con Grillo».
Lei ha da tempo puntato a includere nel centrosinistra Casini e l'ultima evoluzione sembra darle ragione. Ingaggiandolo però sta perdendo Vendola.
«Vendola ha ragione quando chiede di discutere i contenuti, ha torto quando regala le chiavi del suo partito a Di Pietro. Glielo chiedo con amicizia, quali valori di sinistra vedi in lui? E poi non siamo noi che vogliamo escluderlo. È Di Pietro con i suoi attacchi continui contro il partito, le istituzioni, il Quirinale, che si mette in una posizione difficilmente compatibile con una seria prospettiva di governo».
Vendola in verità teme che una maggioranza con Casini veda prevalere, in materia di diritti civili, l'orientamento dei cattolici.
«Sono assolutamente favorevole a riconoscere i diritti delle persone che convivono fuori dal matrimonio. Credo anche che una gran parte del mondo cattolico consideri ciò ragionevole. Bisogna discutere apertamente e ricercare soluzioni ampiamente condivise, al di là delle maggioranze di governo».
Lei è anche favorevole alla formazione di una lista della società civile apparentata al Pd?
«La lista del Pd sarà già rappresentativa della società civile, aperta a personalità che rappresentino movimenti e apportino competenze utili alla vita pubblica. E comunque non è compito dei partiti promuovere liste civiche, sarebbe una contraddizione in termini. Se però dovesse nascere una lista di quel tipo ne esamineremo, senza preclusioni, il profilo politico, il programma, l'idea del Paese che sosterrà».
Grillo nei sondaggi cresce e secondo Weber (Swg) intercetta il vostro elettorato. Addirittura, secondo lui, i grillini assomigliano ai figiciotti degli anni 80.
«Il movimento di Grillo è un partito politico, va giudicato in base alle sue proposte e agli effetti che una sua affermazione elettorale produrrebbe negli equilibri del Paese. Un movimento che parla dell'uscita dall'euro e di non restituire il debito pubblico, non incoraggia certo gli investitori a comprare Bot e Cct. Detto questo bisogna far politica, prendere atto che Grillo specie nei confronti dell'elettorato giovanile è fortemente competitivo e si presenta con l'immagine della freschezza e della novità. Il Pd deve raccogliere la sfida puntando sulla democrazia, la partecipazione, la sobrietà».
Un'ultima domanda legata alla congiuntura politica immediata. La prossima settimana arriveranno i provvedimenti legati alla spending review. Bersani ha messo le mani avanti e ha detto «speriamo che non sia una manovra aggiuntiva» e intanto c'è chi consiglia al governo un rimpasto dei ministri. Qual è invece il suo suggerimento?
«Giudicheremo le misure quando saranno presentate. Spero proprio che non siano la riproposizione dei tagli lineari con l'etichetta cambiata. In generale credo che se il governo si aprisse a qualche contributo del Parlamento non farebbe male. Quanto a cambi nella squadra non manderei in campo uomini nuovi nei tempi supplementari, conviene lasciar lavorare gli attuali ministri. Si stanno appena impratichendo...».

Repubblica 1.7.12
Quei cavalieri inesistenti
di Massimo L. Salvadori


Immaginiamo di trovarci in una scena di teatro e di assistere a due diversi copioni con un unico soggetto: l’attuale situazione politica italiana. Il primo, ipotetico, si svolge come segue. In un Paese colpito da una gravissima caduta politica ed economica, in seguito al cedimento del sistema dei partiti è stato formato un governo di non professionisti della politica, investito dell’onere di apprestare rimedi. La barca del governo naviga in acque assai procellose, ma avanza nella direzione giusta, giusta naturalmente nei limiti di un difficile possibile. Intanto i partiti impegnati nel sostenere il governo, consapevoli del grave discredito causato anzitutto dalla prova palese di incapacità di promuovere essi un esecutivo e da una profonda perdita di credibilità, si sono messi con decisione all’opera: hanno sostenuto importanti riforme in precedenza non varate, hanno approvato una nuova legge elettorale in sostituzione di quella pessima vigente, si sono riorganizzati, hanno definito i loro programmi, hanno chiarito la composizione delle proprie alleanze in vista del futuro e si sono dotati di leadership riconosciute e autorevoli. A questo punto, all’interno dei partiti, resisi più solidi e rilegittimati del risanamento del sistema politico, si sono levate insistenti richieste di elezioni anticipate, al fine di riaffidare la direzione del Paese ad un esecutivo espressione dei vincitori. Si tratta di un copione che ha una sua ratio, insomma una sua plausibilità e sostenibilità. Il secondo copione, questo invece reale, si delinea (e qui passiamo dall’astratto al concreto) così. Disarmati dalle condizioni di assoluta emergenza, i due maggiori partiti, in assenza di alternative, hanno dato il loro sostegno al governo Monti, che si è trovato nella necessità di fare riforme assai impopolari. In una prima fase lo hanno dato abbassando il capo. Poi a mano a mano che l’azione del governo ha dispiegato i suoi costi molto pesanti in termini economici e sociali – immemori delle responsabilità che, in varia misura e a seconda dei rispettivi ruoli, su di essi (ma non dimentichiamo le forze imprenditoriali e sindacali) ricadono per le linee sostenute in passato in tema di dissesto della finanza pubblica, di assecondamento delle incrostazioni burocratiche, degli interessi corporativi, dell’evasione fiscale, delle cause alla base della bassa produttività e via dicendo – hanno rialzato il capo, ciascuno rivolgendo critiche non di rado feroci e di diverso contenuto nei confronti dell’azione del governo dei non eletti. Resi via via più inquieti dal vento dell’antipolitica esaltata dal clamoroso e imprevisto successo della bandiera delle Cinque Stelle, sono stati presi dall’ansia di battere un colpo, dal desiderio di riaffermare, ciascun per sé, il proprio primato. Ma quest’ansia si esprime mandando messaggi disordinati e contraddittori, in un quadro che vede da un lato il Pdl e dall’altro il Pd divisi al loro interno in correnti che persino si contrappongono circa le strategie da seguire nei confronti del governo in carica, in materia delle politiche economiche, rispetto all’opportunità di andare o meno ad elezioni anticipate. E tutto ciò fanno mentre offrono uno spettacolo misero e inquietante per quanto riguarda i modi in cui concepiscono le prospettive proprie, del sistema politico e della direzione del paese. Nel Pdl e sulla scena politica in generale è tornato a impazzare il Cavaliere, che parla e straparla, mettendo in piena luce la crisi organica di un partito sbandato in cui il povero mortificato Alfano ogni giorno boccheggia. Dal canto suo il Pd presenta a sua volta uno spettacolo sconcertante: il sindaco di Firenze si fa largo a gran voce, con l’intento di rottamare pressoché l’intero gruppo dirigente; il segretario Bersani resiste ai colpi ondeggiando; si lanciano primarie con modalità che contrastano con lo Statuto del partito; il responsabile economico Fassina, affiancandosi a molti dello schieramento opposto, invoca la caduta del governo impopolare che invece Bersani, pur mostrando verso Monti le proprie insoddisfazioni, mira a tenere in piedi fino alla primavera del 2013. Intanto non si intravedono segni di accordo sulla universalmente invocata riforma elettorale, non si fa capire quali siano le alleanze per il governo che seguirà alle elezioni, non si è in grado di risolvere i problemi della leadership. È davvero grande la confusione nel regno di Danimarca.
Ed eccoci alla conclusione. Abbiamo delineato due copioni. L’uno, dicevo, ha una sua razionalità e plausibilità. Infatti, se davvero fossimo in presenza delle condizioni in esso indicate, allora la richiesta di un ritorno ravvicinato al governo dei partiti, potrebbe avere un certo senso. L’altro è irragionevole, velleitario, preoccupante: appare essenzialmente la manifestazione di un lacerante affanno del sistema dei partiti che non solo non è passato, ma addirittura si approfondisce, comunicando l’impressione che l’oscuro desiderio di mandare a casa Monti altro fondamento non abbia se non la paura di quelli di ridursi ancor più a cavalieri inesistenti. Sennonché una caduta al buio del governo proprio a questo li ridurrebbe. Tutto il Paese può augurarsi meno che vedere serrarsi la tenaglia tra un governo che, tra tante difficoltà, lotta per salvare il salvabile, e partiti in cui prevalessero le correnti che pensano, “staccando la spina”, di salvare in tal modo se stessi, prendendo in mezzo che più malamente non si potrebbe, un popolo italiano già tanto disorientato e sofferente. E sia bene inteso che le critiche ai partiti, anche le più aspre, altro scopo non dovrebbero avere che quello di vederli rinascere all’altezza dei compiti che le istituzioni loro assegnano.

l’Unità 1.7.12
Pomigliano, Fiat contrattacca: «Stop alla sentenza»
Il Lingotto chiama in causa la Corte d’Appello
E minaccia Cig e mobilità in caso di assunzioni forzose
di Massimo Franchi


Dopo nove giorni di silenzio, la Fiat contrattacca. Una nota ufficiale del Lingotto annuncia la richiesta di sospensione dell’esecuzione della sentenza su Pomigliano che intima al Lingotto di assumere 145 iscritti alla Fiom. Lo farà appellandosi alla Corte d’Appello di Roma, chiedendo la sospensiva dell’ordinanza del 21 giugno del giudice del Lavoro Anna Baroncini. La nota della Fiat poi mette le mani avanti, motivando la richiesta con il fatto che l’applicazione «arrecherebbe un danno irreparabile all’attuale contesto lavorativo» e «causerebbe gravi distorsioni nell’attuale contesto operativo di Fabbrica Italia Pomigliano». Fiat poi arriva a “minacciare” ritorsioni: «Qualsiasi ulteriore assunzione continua la nota comporterebbe il contemporaneo ricorso alla cassa integrazione, se non a procedure di mobilità, per un numero di dipendenti corrispondente a quello dei nuovi assunti, inclusi probabilmente alcuni provenienti dal gruppo dei 145 appena assunti in esecuzione all’ordinanza del Tribunale».
In pochi, nonostante le rassicurazioni ufficiose sul rispetto della sentenza, avevano creduto al fatto che il Lingotto avrebbe riassunto 145 iscritti alla Fiom. Le divergenze fra Marchionne e alcuni suoi avvocati sulla linea da adottare hanno dilatato i tempi. Ad accelerarli è arrivata mercoledì l’ultimatum della Fiom. Una lettera del collegio di avvocati indirizzata ai colleghi del Lingotto in cui si chiedeva di «comunicare le determinazioni» del cliente «in merito all’adempimento spontaneo all’ordinanza del giudice». Ma il succo della missiva stava nel passaggio in cui si specificava che «in caso di mancato positivo riscontro entro 5 giorni» la Fiom sarebbe stata «costretta a dare avvio a tutte le iniziative, anche giudiziarie, utili ad ottenere l’esecuzione dell’ordinanza» del 21 giugno. E quei cinque giorni sarebbero scaduti proprio domani. Ecco dunque spiegate le ragioni dell’accelerazione voluta da Marchionne: linea dura ad alzo zero, per l’ennesima puntata di una guerra giudiziaria che va avanti, con esiti alterni, dal luglio dello scorso, proprio con la prima sentenza del giudice di Torino Ciocchetti e il “pareggio” proprio su Pomigliano.
LANDINI: GOVERNO NON SIA SILENTE
La risposta della Fiom alla nota della Fiat è altrettanto dura. «La richiesta di sospendere l’ordinanza equivale a richiedere la sospensione dell’applicazione delle leggi attacca Maurizio Landini -. La sentenza parla di discriminazione e sarebbe direttamente applicabile in qualsiasi Paese europeo e negli Stati Uniti. Siamo alla richiesta di extraterritorialità. Dovrebbe poi preoccupare continua Landini il fatto che si citino problemi occupazionali perché l’impegno della Fiat fino a ieri era quello di riassumere tutti i 5mila dipendenti. Siamo forse di fronte alla notizia che non sarà più così? Cosa hanno firmato gli altri sindacati con Fiat?», si chiede polemicamente il segretario generale della Fiom.
Secondo Lello Ferrara, avvocato della Fiom di Napoli, poi la decisione Fiat di appellarsi non comporterebbe la sospensiva della sentenza: «A noi pare che questo procedimento di ricorso non possa portare alla sospensiva dell’ordinanza».
Landini poi ribadisce la richiesta che «l’ordinanza sia applicata, altrimenti siamo già di fronte ad una violazione delle leggi. La Fiat vuole stravolgere il sistema di regole e di diritti sul lavoro e noi continuiamo a porre il problema che il governo e il Parlamento non possano continuare ad assistere questa vergogna in silenzio».
La Fiom ha comunque già in programma per martedì 10 luglio una assemblea degli iscritti a Pomigliano, aperta a tutti i lavoratori dell’indotto e della zona in preparazione di «iniziative» già in cantiere che lo stesso Landini definisce «forti e fantasiose».
Ma oggi pomeriggio alle 18,30 quasi certamente arriverà una risposta da Sergio Marchionne. Dopo le prime dichiarazione in materia espresse dalla lontana Cina, il manager canado-abruzzese sarà alla presentazione del nuovo Iveco Stralis, la nuova versione della ammiraglia del gruppo che produce camion. Anche questa nuovo presentazione conferma che la Fiat non produce nuovi modelli: si tratta infatti di un aggiornamento di un modello già esistente, esattamente quanto successo per la Nuova Panda a Pomigliano. Se in Cina Marchionne e lo staff del Lingotto avevano confermato comunque il «rispetto della sentenza», stasera però si preannuncia come una nuova ghiotta occasione per Marchionne di attaccare il sistema giudiziario italiano ed evocare l’addio all’Italia.

il Fatto 1.7.12
Marchionne e i suoi fratelli
di Furio Colombo


Marchionne ha questo di bello. A differenza dei poliziotti (ex poliziotti, spero) che insultano la signora Aldrovandi, dopo averle ammazzato il figlio (sentenza esecutiva), non si pente e non chiede scusa. I grandi compensi (annuali e via bonus) danno grande forza morale a personaggi che non si piegano (non alle piccole cose). Ed ecco che Marchionne va in Cina e dice, di una sentenza di un tribunale italiano che ordina il reintegro di 145 operai espulsi dalla Fiat perché colpevoli di essere Fiom): “Folklore locale”. Come nel famoso e celebrato “ablativo assoluto” che ci raccomandava tanto, ai vecchi tempi, il professore di latino, due parole bastano al leader di quella che fu e sta per non essere più la grande fabbrica simbolo di tutta l’industria italiana, per irridere sulla Costituzione, sulle leggi, sui giudici del Paese che ha preso a prestito per fare ricchezza (strettamente personale). Infatti Marchionne, con efficacia retorica e infinita maleducazione, vuole dimostrare che per lui sindacato e magistratura, leggi, costituzioni e statuti (non parliamo di esseri umani) sono paccottiglia a confronto con lui.
ATTENZIONE, non sto dicendo “a confronto con lui e la Fiat”. Della Fiat non parla mai e non gli importa niente, a meno che sia una sottomarca a Detroit (anche perché ha la fortuna di avere accanto gli eredi e proprietari Fiat di un tempo, che tacciono o mitemente consentono ). Dunque parla di sé Marchionne, con barba e senza barba, con e senza pullover, in questo mondo o in un altro. La sua lezione è quella antica così bene illustrata dagli aneddoti coloriti sul potere, che dà alla testa, nei secoli: Io sono io e voi non siete, etc ). Una cosa dobbiamo ammettere. Il linguaggio pretenzioso e villano di Marchionne provoca attenzione ma non meraviglia. Marchionne è l’uomo del momento e parla come si parla in questo momento, a insulti e spallate, lasciando il segno con lo schiaffone, mai con un argomento. Diciamo che è il postberlusconismo.
MA ECCONE un altro. Vi presento Squinzi, presidente di Confindustria, non proprio carismatico ma abbastanza potente (benché Marchionne non sia più dei suoi). Nel cast del brutto film “Italia oggi”, Squinzi avrebbe un ruolo di primo piano, come Marchionne. Con la stessa dignità e senso di responsabilità - dato il momento - Squinzi definisce “una boiata” la riforma del lavoro della ministro Elsa Fornero. E il punto non è se sei d’accordo. Il punto è nel non detto ma risonante “tanto io me ne frego”. Il punto è nel deliberato rifiuto di elaborare, spiegare, entrare, da competente e da responsabile, nel difficile discorso. Per un errore, forse voluto, di molti (commentatori e politici) la limpida espressione “boiata” è stata interpretata come una critica feroce, chissà perché, da sinistra, come le invettive della Lega o le critiche dei sindacati al ministro del Lavoro. Niente affatto. Squinzi voleva dire che la Fornero ha creato un grande scompiglio senza neppure offrire una vera libertà di cacciare chi vuoi, quando vuoi e come vuoi dall’azienda. Qui “boiata” vuol dire “tanto rigore per nulla” (so che qualcuno ha già usato questa parodia shakespeariana) e anche il dovuto disprezzo dell’imprenditoria (ammettendo che Squinzi la rappresenti) verso una che parte per cambiare (qui “cambiare” vuol dire un bel salto indietro) e resta impantanata a metà del guado.
DUNQUE, un gesto non nobile, tipo Maramaldo. E nessuna voglia di dire “invece” quale doveva essere il percorso. Però devo confessare che sono rimasto sorpreso e disorientato quando, nell’aula di Montecitorio (mercoledì 27 giugno, ore 18 circa), il leader dell’Italia dei valori ha definito Mario Monti “ricattatore e truffatore”. È uno strano errore per la mancanza completa di rapporto con la realtà, perché non è il senso di quello che accade, perché non significa altro che un violento sgarbo, ma senza alcun peso o valore politico.
DEVO spiegare. Non sto invocando, in un momento come questo, la buona educazione, né sto pensando alla difesa dell’attuale presidente del Consiglio (del quale tuttavia non riesco a dimenticare che siede al posto di Berlusconi). Lo so, siamo la repubblica di Gasparri, Brunetta, La Russa, Calderoli, Bossi, di quello che mangiava mortadella e sporcava di prosecco i sedili del Senato (il suo nome era, giustamente, sen. Strano) il giorno della caduta di Prodi. E siamo la stessa repubblica della scenata di un altro senatore, Quagliariello, dedicata a Eluana Englaro. Lui punta il dito contro l’opposizione e grida “È morta ammazzata, e voi l’avete uccisa”. Mi rendo conto che non è né tempo né luogo di riguardi e cautele.
Ma essere uguali a loro, no. Ho l’impressione, forse non isolata, che nel momento in cui, come Marchionne e come Squinzi, Di Pietro invece di argomentare la sua posizione politica e il suo dissenso, si affida alle parole che ha detto, voglia solo essere ricordato con un’ammirazione del tipo “quello si che è forte, hai visto che botte gli ha dato? ”. La lista degli errori, quelli veri, quelli presunti e quelli delle diverse teorie economiche a confronto, compiuti di Monti può anche essere lunga e drammatica. Ma non dovrebbe portarci mai sull’orlo del vecchio e non compianto mondo di Brunetta.

il Fatto 1.7.12
Preti pedofili, la marcia delle vittime. Altre quattro denunce a Trento
Reati prescritti. In centinaia a Verona contro gli abusi sessuali
di Paolo Tessadri


Verona Un’altra pagina nera della pedofilia nella Chiesa. Il nuovo caso emerge dal passato di quattro trentini, ora cinquantenni, che hanno denunciato gli abusi sessuali all’Istituto per sordi de Tschiderer di Trento, fra gli anni Sessanta e Settanta. Le loro storie riemergono dai cupi tormenti di quegli anni e l’accusa è stata sottoscritta con nomi e cognomi. I reati sono cancellati dal tempo, tuttavia si portano dentro il dramma di quegli anni. In quell’istituto che avrebbe dovuto rappresentare il loro inserimento nella vita sociale e il loro futuro, intitolato al beato Giovanni Nepomuceno de Tschiderer.
CHE QUALCOSA di strano succedesse in quell’istituto dietro la Curia trentina lo sapevano in molti. “C’era un andirivieni di soldati dall’ufficio del direttore, don L. D., a volte anche cinque o sei per volta e stavano dentro per ore”. Non sono solo i ragazzi che ricordano quegli episodi, pure le persone che lavoravano lì lo confermano. La caserma era poco distante e i militari, tutti ventenni, venivano in divisa e prima di uscire dall’istituto ricevevano un compenso. Sarebbe stata anche presentata una denuncia al Tribunale di Trento per i comportamenti del direttore, forse da un militare, ricorda un sordo, che ha preso visione del fascicolo processuale. La Procura di Trento avrebbe infatti condotto le indagini, ma non avrebbe riscontrato reati e la denuncia fu poi archiviata. Ma non era solo il direttore che molestava i ragazzini.
Flavio ricorda: “Ho frequentato l’istituto sordomuti di Trento dal 1966 al 1973. Il pomeriggio, durante la scuola, don A. S. mi toccava il culo, tutto il corpo a me e al mio compagno. Quasi tutti i giorni, io avevo sei anni”. I racconti sono abbastanza simili: abusi e violenze di vario genere da tre preti su circa cinque presenti in quegli anni, tra il ’60 e ’70. Allora l’istituto trentino era frequentato da circa 40 ragazzi, c’erano poi quattro assistenti, cinque preti, un maestro e una maestra. I ragazzini erano spesso figli di gente povera e per loro avere un figlio sordo era un ulteriore aggravio di una vita già difficile. L’istituto rappresentava per queste famiglie la speranza che il loro figlio riuscisse a imparare a farsi capire e a trovare un lavoro. Era quello che desiderava la famiglia di Sergio, diventato sordo a tre anni: “Io avevo quattro anni la prima volta che entrai all’istituto. Le difficoltà erano enormi e fra noi bambini cercavamo di farci capire con le mani, con i segni”. Ma anche per lui arriva l’orco: “In prima elementare don A. S. mi toccava il pisello. Tutti i giorni, anche quando facevo la doccia, ogni sabato, don G. B. veniva da me e da altri bambini. Questo è successo fino agli otto anni. Ho visto spesso i militari andare nell’ufficio del direttore. Sono uscito dall’istituto nel 1979 e ho avuto problemi psicologici e difficoltà di rapporti con le donne. Il mio primo rapporto è stato a 23 anni con una prostituta”.
I RAGAZZINI dormivano nell’istituto e nelle loro camere arrivavano di notte alcuni preti, che s’infilavano fra le lenzuola. Anche nel letto di Renzo: “Don L. D. è venuto nel mio letto, mi sono spaventato e non sono più riuscito a dormire”. Tolta la tonaca, i preti a volte accontentavano le loro perverse voglie con palpeggiamenti, ma a volte non si fermavano. Non c’erano luoghi sacri da rispettare. Paolo racconta quello che gli succedeva durante la confessione. “Dopo tre o quattro anni ho preso la Prima Comunione e sono andato a confessarmi da don A. S., mi sono inginocchiato e lui è venuto quasi sopra di me. Io recitavo le preghiere e lui mi toccava e pretendeva che lo toccassi e gli facessi altre cose. È successo ogni settimana, quando andavo a confessarmi, per tre anni”.
Uomini che ora, a distanza di molti anni e dopo lunghe sofferenze, hanno trovato il coraggio di ritrovarsi e raccontare gli abusi subiti in un istituto che pensavano fosse la loro speranza e la loro salvezza.
E a Verona ieri hanno marciato in centinaia contro gli abusi sessuali su ragazzini sordi all’istituto Provolo, accaduti circa trent’anni fa. Slogan e manifesti, soprattutto contro il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, che finora non ha fatto nulla contro i preti colpevoli degli abusi, benché la commissione presieduta dall’ex magistrato Mario Sannite abbia accertato le violenze e i preti abbiano confessato. Nel corteo anche gli onorevoli Maurizio Turco e Maria Antonietta Coscioni che presenteranno due iniziative: la richiesta al Parlamento di istituire una commissione d’inchiesta sugli abusi nella Chiesa e alla Cei di promuovere una commissione indipendente per l’apertura degli archivi diocesani, com’è accaduto negli Stati Uniti, in Irlanda e in Belgio.

La Stampa 1.7.12
Polemiche per la frase di monsignor Gemma
Il vescovo choc: “Il diavolo ha le movenze di un down”

ROMA Polemiche per le parole di monsignor Andrea Gemma, vescovo emerito di Isernia: «Il posseduto dal diavolo ha le movenze e il portamento simile a un down», aveva detto il vescovo, esperto di esorcismi, durante la trasmissione «Vade retro», andata in onda il 9 giugno su TV 2000, il canale di proprietà della Cei. Il parallelo ha irritato un gruppo di 52 genitori di ragazzi affetti dalla sindrome, che hanno scritto una lettera di protesta. «È un pregiudizio sbagliato, il parlare senza sapere, il voler a ogni costo giudicare senza conoscere. Esigiamo le scuse del vescovo», hanno lamentato. I familiari di persone Down non possono «accettare che queste affermazioni vengano espresse dal paladino dei più deboli». E quindi, come genitori «chiediamo le scuse dal vescovo».
Il consiglio a monsignor Gemma è «di passare un po’ del suo prezioso tempo con ragazzi disabili per conoscerli e confrontarsi con loro». «I nostri figli, pur avendo questa condizione genetica che comporta dei ritardi cognitivi, non sono simili a degli indemoniati», afferma il gruppo dicendosi «amareggiato».

Corriere 1.7.12
L’irrilevanza dei cattolici in politica
Tornare alle origini, ricordando Moro
di Pasquale Pellegrini


L'irrilevanza dei cattolici in politica ha radici complesse. La loro divisione tra centrodestra e centrosinistra riflette l'originaria contrapposizione tra intransigenti e transigenti ossia tra la fronda clericale e conservatrice e quella liberale aperta al dialogo. La Dc di De Gasperi, ma soprattutto quella di Moro, il quale aveva appreso da Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, l'arte della mediazione alta, cercò di coniugare il dialogo. Diceva Aldo Moro, ricordando l'insegnamento di Jacques Maritain, «Ed il dialogo, ogni dialogo, è aperto. Eravamo chiamati ad andare al di là della mera tolleranza, della mera ammissione di dissenso per un incontro più profondo, per un'autentica dialettica democratica». Tutto ciò ha costituito il nerbo di una politica di costante apertura e attenzione alle altre forze popolari, in particolare al Pci, almeno fino a quando Moro non è stato ucciso dalle Brigate rosse. Poi qualcosa ha cominciato a sfilacciarsi e a cambiare.
L'onorevole Rotondi afferma che «l'ultima Dc dava fastidio alla Chiesa». Probabilmente ha elementi per sostenerlo. In realtà, dall'esterno lo spettacolo dell'ultima Dc non sembrava un granché edificante. Da tempo aveva smarrito le idee originarie dei padri fondatori, era diventata un coacervo di interessi contrapposti e di correnti che avevano svuotato di valori il partito cattolico dall'interno. Quella Dc non aveva più futuro perché non aveva più capacità di indirizzo morale e politico per il Paese, non aveva più «profezia», era uno dei tanti centri di potere. La crisi degli anni Novanta e la discesa in campo di Berlusconi ha soltanto preso atto di quello che già si era consumato: l'inconsistenza dei cattolici in politica. La diaspora conseguente e la polarizzazione dei cattolici tra destra e sinistra, in realtà, si è prodotta semplicemente e soprattutto per mancanza di un progetto ideale e autonomo. Prova ne è che, durante gli anni della Seconda Repubblica, non hanno mai avuto un rigurgito di dignità di fronte a fatti moralmente controversi e comunque in contrapposizione con l'etica cristiana di cui dovrebbero essere garanti. Anzi, hanno persino giustificato l'esercizio della doppia morale. Nulla sono riusciti a proporre sul piano dell'etica pubblica, del bene pubblico, degli assurdi privilegi dei parlamentari che pure sono aspetti fondamentali di un agire politico cristianamente inteso. Quanti cattolici hanno avanzato proposte di annullamento dei vitalizi e di prebende ingiustificate e, pertanto, moralmente illegittime? La risposta è nei fatti, in quello che è oggi la democrazia italiana e lo stato del Paese.
Quello che in questi anni i cattolici hanno fatto, in maniera assai strumentale, è di appoggiare i valori indisponibili della Chiesa cattolica, senza neppure preoccuparsi di mantenere una coerenza personale con essi. Famiglia, diritto alla vita, tutela della salute, tutti ambiti che non hanno ricevuto l'attenzione che meritano a fronte di una difesa strenua dei propri privilegi. Salvo poi rendersi conto che negli altri Paesi europei, meno cattolici, questi istituti sono meglio tutelati. Persino la corruzione non ha risparmiato politici cattolici. Ce n'è d'avanzo.
«La questione politica, come quella sociale — sosteneva Igino Giordani in Rivolta cattolica, un libro che dovrebbe essere letto con attenzione da chi, come cattolico, è impegnato in politica — è primariamente questione morale». Lo stesso De Gasperi, da noi riportato nella premessa di Cattolici dal potere al silenzio, scriveva nelle «Idee ricostruttive della Democrazia cristiana»: «Le riforme politiche, sociali ed economiche, le garanzie costituzionali, i controlli amministrativi, le stesse sanzioni penali restano inefficaci se non è viva ed operante la coscienza morale (scritta in corsivo nel testo)». «Il problema — aggiungeva Igino Giordani — non è formare una massa degna di dirigenti quanto formare dirigenti degni della massa». Questo a me sembra il problema vero, prima ancora di un partito o di un'aggregazione cattolica. In questi anni sono mancate sia nella Chiesa italiana voci profetiche, capaci di formare coscienze robuste, sia in politica di larga coerenza morale. Quel che è sotto gli occhi è lo spettacolo di una mediocrità che il Paese non merita. Il tentativo del «Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro» lascia piuttosto perplessi. Non per la bontà dell'iniziativa, è indubbio che ci sia buona volontà, ma per la mancanza di una visione profetica della società e del futuro. Il Manifesto presentato alcune settimane fa è una proposta di conservazione che serve ad alcuni dei componenti del Forum a mantenere le proprie posizioni. Mancano in quel documento tante cose. Per esempio, l'attenzione ai poveri, la partecipazione dei lavoratori agli utili aziendali, il diritto alla salute oggi non uniformemente garantito su tutto il territorio nazionale, il diritto allo studio per i meno abbienti e tanti altri temi che sono il «core» dell'azione politica di un cattolico.
Non è una garanzia il riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa, se poi in pratica non se ne dà attuazione. Per uscire dall'irrilevanza il mondo cattolico deve riguadagnare il senso delle origini e attuare un dialogo costante su tutti i temi, non esclusi quelli che attengono ai valori indisponibili, senza complessi di inferiorità. Non c'è altra via di uscita in una società complessa che richiede risposte condivise. Occorre attuare «un incontro più profondo, un'autentica dialettica democratica». Moro lo aveva capito già nel 1973.

Corriere 1.7.12
L’attacco dei vescovi americani contro la sanità di Barack Obama
di Marco Ventura


L'opposizione cattolica alla riforma sanitaria di Obama ha ragioni profonde e grandi spazi di fronte a sé. La Chiesa difende la libertà dei cittadini dall'ingerenza di uno Stato che limita l'autonomia privata in nome di valori secolari. Se il governo rende obbligatoria una polizza sanitaria che copra anche spese contraccettive giudicate abortive dalla morale cattolica, esso, protesta la Chiesa, attenta alla libertà degli americani e alla legge naturale. Inoltre l'«Obamacare» obbliga ogni datore di lavoro, anche quelli cattolici, a coprire le spese abortive dei propri dipendenti. La lotta alla politica sanitaria laica di Obama è dunque una questione di libertà religiosa: libertà della Chiesa di affermare le proprie prerogative; libertà dei cattolici di sottrarsi a obblighi in contrasto con la loro coscienza. Si potrebbe credere che il salvataggio della riforma giovedì scorso a opera di una Corte suprema composta da sei giudici cattolici su nove sia uno smacco per la Chiesa. In un intervento per Vatican Insider, il giurista Pasquale Annicchino spiega che non è così. La Corte ha salvato soltanto la copertura medica obbligatoria (individual mandate) e non si è pronunciata sulle spese abortive (contraception mandate). Resta dunque ampio lo spazio di manovra per i cattolici americani: i cui numerosi ricorsi (23 già pendenti in 14 Stati diversi) sfideranno la clausola abortista della riforma Obama e il cui sostegno al candidato repubblicano Romney diventa un'arma potente. Il criterio che ha salvato la riforma oggi, il primato della decisione politica sui tribunali proclamato dal Presidente della Corte Roberts, potrebbe condannarla domani, se il decisore dovesse essere Romney.
Mercoledì prossimo, festa del 4 luglio, si concluderanno le due settimane di «preghiera, studio, catechesi e azione pubblica» dedicate dai vescovi alla difesa della libertà religiosa. Si ricorderanno i martiri del «potere pubblico»: il Battista, Pietro, Tommaso Moro. Coinciderà con l'Independence day la celebrazione della lotta per l'indipendenza della Chiesa di Roma e di tutte le chiese.

Corriere 1.7.12
La visita del papa in Emilia, terra di legazioni pontificie
risponde Sergio Romano


Ho visto in tv il concerto per l'Emilia. Quando il presentatore Fabrizio Frizzi ha ricordato che sarebbe venuto anche il Papa in visita ho sentito tra il pubblico qualche fischio. C'è una ragione storica per cui l'Emilia sia così anticlericale?
Marco Sostegni

Caro Sostegni,
D opo il crollo dei regimi napoleonici e la restaurazione dello Stato pontificio, l'Emilia e la Romagna divennero nuovamente provincie papali e furono amministrate da tre governatori inviati dalla Santa Sede con il nome di Legati. Da quel momento le tre Legazioni — Bologna, Ferrara, Romagna — si distinsero, fra le diverse regioni della Penisola, per il numero delle società segrete, delle proteste, delle cospirazioni e delle rivolte. Vi furono i moti del 1831, a Modena e a Parma, ispirati dalla rivoluzione francese del luglio 1830 e da quella belga dei mesi seguenti. Vi fu l'insurrezione di Rimini del settembre del 1845, quando una trentina di congiurati dette l'assalto a una caserma e liberò i prigionieri politici. Esisteva forse una relazione fra questa continua turbolenza e i caratteri del governo pontificio? Ne furono convinti in quegli anni molti governi stranieri, preoccupati dai metodi retrivi e polizieschi con cui la Chiesa Romana amministrava le sue province. Ne fu convinto in particolare uno dei maggiori esponenti del liberalismo italiano che corse in Romagna per meglio capire che cosa era successo e per cercare di indirizzare i ribelli verso la strategia moderata e riformatrice di Carlo Alberto. Il risultato di quel viaggio fu un piccolo libro — Degli ultimi casi di Romagna — che resta una delle opere più interessanti della letteratura risorgimentale.
L'autore era Massimo d'Azeglio, cattolico liberale, uomo politico, ma anche scrittore di romanzi, saggista, polemista, pittore e soprattutto straordinariamente capace di parlare chiaro, senza peli sulla lingua. D'Azeglio ricordò ai suoi lettori che non credeva nella violenza e disapprovava i moti di Rimini. Ma chiese subito dopo se fosse lecito aprire una discussione sul modo in cui quelle province erano governate e in particolare se fosse possibile indirizzare al Papato alcune domande: «Credete o non credete nella giustizia? Credete o no in quello che predicate?». Con un artificio retorico e un pizzico di ironia suggerì al Papa (Gregorio XVI) di essere finalmente un monarca terreno e un principe assoluto. Doveva dire con chiarezza quale fosse la sua volontà, tradurla in leggi e applicarle a tutti i suoi sudditi, senza distinzioni di casta e di censo. Doveva mettere fine, in altre parole, a un sistema opaco e arbitrario in cui il Papa non rispondeva di nulla e i suoi legati si nascondevano dietro le sue spalle. Vi è persino un passaggio del libro in cui disse al governo papale: «Dei moti di Romagna, delle uccisioni, degli esilii, delle lacrime di tanti infelici, n'avete a rendere conto a Dio, voi governo, e non i vostri calpestati sudditi».
Il libro apparve a Firenze nel 1846 e il suo autore fu espulso dallo Stato toscano. Ma ebbe una grande eco, non soltanto in Italia, e fu definito da Francesco De Sanctis «un atto d'accusa indirizzato all'Europa civile contro un governo debole e nella sua debolezza feroce». La Chiesa d'oggi non è quella d'allora e Benedetto XVI non è né Gregorio XVI né il suo successore, Pio IX. Ma certi ricordi si depositano sul fondo della memoria popolare e sono duri a morire.

Repubblica 1.7.12
L’antologia
Notizie dal Vaticano mezzo secolo di storie
di Orazio La Rocca


Oltre 50 anni di informazione religiosa sui giornali laici e cattolici, dal Concilio Vaticano II a oggi, per la prima volta con la “benedizione” della Santa Sede attraverso il libro Giornalismo e religione edito dalla Lev (Libreria Editrice Vaticana). Nel volume – curato da don Giuseppe Costa, direttore della Lev, don Giuseppe Merola e Luca Caruso – sono stati pubblicati, come una antologia, le biografie e i più importanti articoli di 63 vaticanisti (da Alceste Santini dell’Unità a Orazio Petrosillo del Messaggero, Domenico Del Rio de La Repubblica, Giancarlo Zizola, fino ai contemporanei Gianni Gennari, Gianfranco Svidercoschi, Benny Lai, Marco Politi...). Nomi che, a parere dei curatori del libro, hanno seguito con più attenzione le vicende della Chiesa dagli anni ’50, «quando in Vaticano si incominciò ad organizzare la prima struttura informativa che – spiega don Giuseppe Costa – sarebbe poi diventata la futura sala stampa a partire dal Concilio Vaticano II. Pagine che non intendono affrontare l’ampio tema del rapporto tra Chiesa e mass media, ma soltanto analizzare come viene descritta la notizia religiosa e come essa appare nei giornali italiani».

il Fatto 1.7.12
Allarme fedeli e vocazioni
Cattolici addio, il Brasile è evangelico
di Giuseppe Bizzarri


Rio de Janeiro Sono sempre meno i fedeli in Brasile, il paese con il più gran numero di cattolici al mondo. L’inarrestabile emorragia della fede cattolica nel paese sudamericano, considerato strategico per il Vaticano, ha avuto - secondo la statistica divulgata venerdì scorso dall'Ibge, Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica - un calo record. Tra il 2000 e il 2010 il numero di cattolici si è ridotto del 12%, mentre quello degli evangelici è cresciuto del 44%. Quello di Rio de Janeiro - dove papa Ratzinger verrà nel 2013 a celebrare la Giornata mondiale della gioventù – è lo stato meno cattolico del Brasile. Sono fedeli alla chiesa 123,3 milioni di brasiliani, mentre gli evangelici raggiungono i 42,3 milioni.
IN SOLI cinquanta anni, i cattolici – rivela la statistica Ibge - sono passati dal 93,1 al 64% della popolazione brasiliana che supera i 190 milioni di persone. Aumenta anche il numero dei brasiliani che si dichiarano di non avere una fede, mentre rimane stabile la percentuale dei seguaci delle religioni afro-brasiliane.
Il successo evangelico - secondo la sociologa francese dell’Ecole des hautes etudes en science sociales, Barbara Serrano, la quale per motivi di ricerca si è infiltrata per 6 mesi in una delle cellule dell’Igreja universal do reinho de Deus a Rio de Janeiro - deriva dal fatto che l’organizzazione agisce nelle situazioni sociali più degradate, dove i pastori protestano contro l’esclusione sociale, ma non in termini rivoluzionari. “Direi più come un sistema d’auto aiuto e sempre seguendo i valori di una società capitalista” afferma la sociologa. I rappresentanti evangelici incitano i fedeli all’auto-stima, elemento non indifferente per resuscitare l’ego di un brasiliano che vive in miseria. I dati dell’Ibge danno ragione a Serrano, poiché mostrano che le religioni di origine pentecostale sono quelle che possiedono il maggior numero di fedeli (63,7%), con reddito procapite inferiore a un salario minimo (243 euro). Al secondo posto si trovano i cattolici, con il 59,2% dei fedeli.
“HANNO FATTO dei danni tremendi alla chiesa brasiliana”, afferma l’esperto brasiliano in ecumenismo, Marco Lucchesi, riferendosi al revisionismo conservatore di papa Karol Wojtyla, il quale inviò negli anni Ottanta l’ex prefetto del Sant’Uffizio Joseph Ratzinger a rimuovere dalla gerarchia ecclesiastica brasiliana. e nel resto dell’America Latina, i rappresentati di quello che è considerato fino ad oggi il più grande movimento cattolico di base: la Teologia da Libertação. Il progressivo allontanamento della chiesa dalla base - secondo Lucchesi – aprì una breccia alle pragmatiche sette evangeliche non solo in Brasile, ma nel resto dell’America Latina, dove il Vaticano perde sempre più adepti. Oggi gli evangelici in Brasile possiedono la più grande lobby politica; senza il loro sostegno politico, né Inacio Lula da Silva, né Dilma Rousseff avrebbero mai potuto raggiungere la presidenza.

«un grande musicista... (?) confessa la sua omosessualità e le tendenze pedofile»
l’Unità 30.6.12
Benjamin Britten, la sensualità morbosa di  un grande musicista
Ha debuttato a Spoleto
«The Turn of the Screw», dove confessa la sua omosessualità e le tendenze pedofile
di Luca Del Fra


CON L’APPROSSIMARSI NEL 2013 DEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI BENJAMIN BRITTEN TORNA SUI NOSTRI PALCOSCENICI IL SUO TEATRO MUSICALE, e The Turn of the Screw (1954) con cui si è aperto ieri il Festival dei 2 mondi di Spoleto ne rappresenta uno snodo fondamentale: la confessione da parte del compositore della sua omosessualità – il suo compagno di vita è stato il tenore Peter Pears per cui ha scritto indimenticabili ruoli–, ma anche delle sue tendenze pedofile.
Il libretto di Myfanwy Piper, ispirato all’omonimo racconto gotico di Henry James, narra di una istitutrice mandata a seguire i due giovanissimi fratelli Miles e Flora in una villa solitaria nella campagna inglese dove abitano con una governante. La casa è popolata anche dai fantasmi di miss Jessel e Peter Quint che, l’istitutrice apprende, quando era vivo ha «fatto i suoi comodi» con il ragazzino. Colpisce l’assoluta amoralità (ma non immoralità) con cui l’intera vicenda è presentata da una delle più efficaci partiture di Britten, fino alla tragica morte di Miles dopo la confessione di aver nascosto una lettera, comandato dal fantasma di Quint.
Un «outing» diremmo oggi, ma sorprendente all’epoca in Gran Bretagna, dove l’omosessualità era ancora perseguita da quella legge che aveva colpito Oscar Wilde e Alan Touring. Nel 2006 il libro Britten’s Children di John Bridcut ha fatto luce sui numerosi amori del compositore britannico per adolescenti in fase prepuberale o puberale. Dalle testimonianze risulta come con i ragazzini facesse il bagno, dormisse, ma senza fare avance sessuali. Con l’eccezione del tredicenne Harry Morris, che lo respinse strillando, spaventando Britten e facendo accorrere la sorella nella stanza –Morris fu rimandato subito a casa, probabilmente con un compenso in danaro visto che proveniva da una famiglia povera. Non è escluso che emergano altre testimonianze e al di là dei giudizi morali, la benedizione della Britten Pears Foundation al libro testimonia come l’interesse per i lati scabrosi della
vita del musicista non sia solo voyerismo, poiché questi si riversano anche nel suo teatro musicale: da Peter Grimes, passando per The Turn of the Screw, Midsummer Night’s Dream e altre partiture fino all’ultima Death in Venice, troviamo un giovane personaggio oggetto di violenza fisica o sessuale, oppure di attenzioni morbose. La sensualità morbidamente dolorosa, dai tratti oscuri e luminescenti con cui Britten, uno dei gradi compositori del Novecento, ha messo in musica tutto ciò affascina l’ascoltatore contemporaneo, ed è quindi motivo di ulteriore inquietudine. Così, occorre anche considerare che Britten stesso è stato un fanciullo prodigio, amato e colmato d’attenzioni per la sua musicalità. E un atteggiamento di fanciullaggine non lo abbandonerà mai: il poeta Wystan Auden, suo amico che gli scrisse anche un libretto d’opera, lo definì «childish», infantile.
Si può allora azzardare un’interpretazione che superi una lettura meccanica di The Turn of the Screw: Britten, l’eterno fanciullo, si riflette in primo luogo nel giovane Miles, parte che non a caso scrisse per la voce bianca di David Hemmings –uno dei suoi giovani prediletti–, e al tempo stesso è anche il «perverso» Quint. Che il ragazzino non si lamenti per la violenza di Quint ma anzi si dimostri una emanazione della sua volontà suggerisce che siamo di fronte a due facce della stessa medaglia -la scoperta di una sensualità morbosa e comunque socialmente censurata che si ricongiungono nella morte, simbolo del metamorfico passaggio all’età adulta. «La cerimonia dell’innocenza è annegata», frase cardine dell’opera presa da una poesia di Yates, si avvera completamente.
Spiace constatare come il complesso e inquietante universo di Britten e di The Turn of the Screw sfugga all’allestimento presentato a Spoleto: alla generale aperta alla stampa la regia di Giorgio Ferrara è apparsa scialba, rimandando a un gotico da racconto del terrore, non senza scivolate verso i vampirelli di Twilight e con qualche trovata involontariamente grottesca. Il cast poi possedeva un’allegra vocazione all’urlo –e meno male che Britten ha scritto più volte che componeva opere con orchestra da camera per permettere ai cantanti di non forzare la voce. La direzione di Johannes Debus, era piuttosto rigida nel ritmo e non del tutto a fuoco nell’orchestrazione, ma migliorerà sicuramente nelle repliche di stasera e domani.


Repubblica 1.7.12
I diritti, la chiesa e la sessualità
di Nadia Urbinati


La repubblica di San Marino ha riconosciuto in questi giorni le convivenze tra omosessuali. Il riconoscimento è entrato attraverso la legge che stabilisce che il permesso di soggiorno nella repubblica del monte Titano verrà garantito anche al partner straniero in quanto convivente, senza specificazione di sesso e di legame matrimoniale. La legge approvata a larga maggioranza (e con l’opposizione della Democrazia Cristiana) è stata salutata dai sostenitori come un atto di giustizia che mette fine a una palese discriminazione. A questa vittoria di civiltà dovrebbero ispirarsi i democratici italiani. Tra i quali il tema del riconoscimento delle coppie omosessuali è ragione di divisione, di separazione laici e cattolici tradizionalisti. Le ragioni di giustizia sono una ragione di diritti uguali, un principio difficile da metabolizzare come le reazioni al documento del Pd sui diritti ha provocato (ragioni bene analizzate su questo giornale da Chiara Saraceno). La difficoltà riflette quella che è forse la più importante questione della modernità: la tormentata relazione del pensiero cattolico con il liberalismo dei diritti individuali.
In un pregevole studio su Chiesa e diritti umani appena uscito presso Il mulino, Daniele Menozzi ci offre una chiara mappa storica e concettuale di questa tormentata relazione. Il libro si chiude con la menzione del recupero in anni recenti (soprattutto sotto questo pontificato) della dottrina della legge naturale con l’intento ideologico di contrastare l’ideologia liberale, la sua difesa di principio dei diritti individuali, primo fra tutti quello della scelta in questioni morali. La filosofia della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini e interpretata dalla Chiesa che ne è il custode supremo in terra, si propone esplicitamente come alternativa alla filosofia che, a partire dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si è imposta come la sfida più radicale al potere della trascendenza religiosa nella vita civile e politica. Cadute le ideologie totalizzanti che hanno mesmerizzato le società europee del ventesimo secolo, queste due letture dei diritti e della libertà – l’una tomistica e l’altra liberale-- sono a tutti gli effetti le due visioni antagonistiche che si confrontano oggi.
La tensione non è peculiare al nostro paese, benché da noi si esprima con la forza di una tradizione religiosa che è largamente maggioritaria. Basti ricordare che il Presidente Obama, che qualche mese fa difese esplicitamente il riconoscimento delle unioni omosessuali, si è tirato addosso la condanna feroce dei cristiani di tutte le denominazioni, dagli evangelici fondamentalisti ai cattolici tradizionalisti. Una simile reazione, benché nei toni più civile e contenuta, si manifesta in Italia verso la proposta di Bersani di includere il riconoscimento delle coppie gay nel programma del Pd. L’obiezione all’interno del partito ha avuto nell’Onorevole Fioroni il suo portavoce. L’argomento usato da Fioroni è inquietante e consiste nel mettere su un piatto della bilancia le urgenze economiche che assillano la maggioranza degli italiani e sull’altro la proposta di sollevare le coppie omosessuali dallo stigma e dall’ineguaglianza di considerazione da parte dell’autorità pubblica. Di fronte all’erosione del benessere delle famiglie, ai problemi della disoccupazione, che senso ha preoccuparsi di una questione che pertinenze solo a una minoranza di italiani/e? C’è il rischio che questa strategia retorica sia efficace poiché in tempi di crisi i diritti possono apparire un lusso. Ma è pernicioso fare uso di questa strategia. I diritti individuali – di uguale considerazione e non discriminazione – non sono negoziabili, mai. Le esigenze economiche non valgono né devono valere a mettere un fermo ai diritti.
È comprensibile che un fedele che voglia essere coerente al magistero della Chiesa si senta a disagio con una cultura civile che mette il bene dell’individuo, la sua dignità di considerazione e la sua libertà di scelta morale, al primo posto, prima dell’interesse della comunità. Ma i diritti, quelli contenuti nella costituzione, non sono stati scritti per la maggioranza e nemmeno per proteggere una specifica comunità o particolari visioni della vita buona. I diritti sono stati scritti per le minoranze, per chi non ha altro baluardo contro la volontà della maggioranza se non lo scudo del diritto. E la democrazia moderna ha accettato di limitare la sfera di decisione della maggioranza per una ragione che è intrinseca: perché presume che è possibile che anche quelle persone che oggi sembrano non averne bisogno (perché la loro vita scorre lungo i binari della morale della maggioranza) domani potrebbero per le ragioni più disparate trovarsi ad essere minoranza. Poiché non possiamo ipotecare il futuro, i diritti individuali sono di tutti e per tutti, non di una minoranza; sono stati scritti proprio per impedire che il legislatore decida quando e con chi rispettarli. Senza di essi avremmo uno stato fondato sull’imperio della forza.
Tornando ai fondamenti ideali delle due culture, quella liberale e quella cristiana, la tensione riguarda quindi non la morale individuale, ma l’estensione del potere politico. Infatti che gli omosessuali o altre minoranze godano di diritti uguali non significa che lo Stato prescriva ai suoi cittadini di usare quei diritti. I diritti sono prescrittivi per lo Stato, non per il singolo. Dunque, il problema che angustia il cattolico tradizionalista non riguarda la scelta morale delle persone ma il comportamento dello Stato, il fatto che lo Stato faccia un passo indietro nella definizione di quale sia la giusta forma di convivenza o di scelta sessuale. Dietro alla tensione tra le due visioni dei diritti, sta la vera tensione, quella che riguarda il ruolo del pubblico. Rispetto al quale la Chiesa non intende abbandonare la sua millenaria missione di rendere la legge e la vita civile coerente al dettato, non di una costituzione politica, ma della dottrina religiosa. Il contenzioso è allora ben più radicale di quello che la discussione sui diritti delle coppie omosessuali implica. Anche per questa ragione, aprire un contenzioso sui diritti – quali e per chi – è inquietante.

l’Unità 1.7.12
Un piano per la Giustizia senza bavagli
di Antonio Ingroia


Quale deve essere oggi la priorità delle priorità nell’agenda politica nazionale? Domanda diretta che impone risposta altrettanto secca. Una risposta, a prima vista, perfino facile. Tutti direbbero, senza esitazione, che la priorità è la crisi economica. Una crisi che impedisce la crescita del nostro Paese, che sta mettendo a rischio l’euro e la stessa idea di Europa, e che avvilisce la quotidianità degli italiani. Non è un caso che la politica abbia fatto un passo indietro per cederlo a un governo di tecnici, qualificatissimi proprio per fronteggiare l’emergenza e rilanciare l’economia nazionale. E la Giustizia?
Dove collochiamo la Giustizia nella scala gerarchica delle priorità? L’impressione è che la comune opinione la faccia scivolare se non nel fondo, quanto meno a metà classifica. Un errore gravissimo che pagheremmo salato aggravando la stessa crisi economica.
Mi spiego. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei Diritti umani per l’ingiustizia dei tempi della sua giustizia. Troppo lunga la durata del processo, sia penale che civile. E pensate che sia indifferente per gli operatori economici sapere di non potere contare sull’efficienza di un sistema di soluzione del contenzioso civile e di un processo penale che li protegga dalle mafie e dalla pressione corruttiva di ogni sorta? Certo che no. Se chi deve investire sa di non poter contare su un’adeguata tutela giudiziaria per le vittime di reati e soprusi, indirizza i propri capitali altrove. E addio speranze di crescita...
Del resto, veniamo da una stagione, quella del berlusconismo delle leggi ad personam, anzi dovremmo dire ad classem, che ha creato ampie sacche di impunità, grazie al combinarsi dei vari ostacoli frapposti all’azione giudiziaria. Ostacoli che si sono risolti nell’allungamento a dismisura dei tempi del processo e nella cultura dell’impunità e dell’elusione della legge ben oltre il limite della decenza. Il che ha mortificato sempre di più l’immagine del nostro Paese agli occhi degli stranieri, investitori compresi, e delle nostre istituzioni agli occhi dei propri cittadini, dando luogo ad una sempre più allarmante disaffezione nei confronti dello Stato e della politica. Ed allora, se si vuole arrestare la deriva del Paese, occorre dare una sterzata alla politica della giustizia in Italia. Recuperare il terreno perduto, azzerare le nefandezze del passato per costruire un’Italia più giusta. Serve un nuovo «Piano per la Giustizia», iniziando a capovolgere le priorità. Alla priorità dell’impunità dei potenti che ha costituito il nocciolo della politica del diritto nel ventennio berlusconiano, contro la magistratura e la Giustizia, va contrapposta una priorità di supporto alla magistratura anziché di ostacolo, che venga incontro alle esigenze di giustizia dei cittadini. Una giustizia efficiente nelle garanzie, che dia risposte in tempi ragionevoli.
Occorre, insomma, una grande riforma della giustizia, articolata su alcuni punti forti. Innanzitutto un’urgente revisione dei tempi della giustizia, anche attraverso interventi drastici. Riforma della prescrizione, una «prescrizione lunga» il cui decorso inizi solo dal momento in cui viene scoperto il delitto e si interrompa con l’apertura del processo, dimostrativa della volontà statale di perseguire il (presunto) colpevole. Riforma delle impugnazioni, che possa contemplare l’abolizione dell’appello, e incentivazione dei riti alternativi che preveda l’esito dibattimentale come extrema ratio. Ma anche riduzione del contenzioso penale attraverso una robusta depenalizzazione dei reati minori, restituendo efficienza deterrente alle sanzioni amministrative alternative allo strumento penale. Il tutto, se accompagnato ad una razionale revisione delle circoscrizioni giudiziarie, senza remore nell’abolire sedi giudiziarie inutili, consentirebbe anche di recuperare personale per una più razionale politica delle risorse. E, a proposito di risorse, potenziamento degli strumenti di recupero del maltolto alla comunità da parte del mondo del crimine tutto, delle organizzazioni mafiose, ma anche della corruzione, e destinazione del confiscato, almeno in parte, allo stesso pianeta giustizia.
Riforma del diritto penale cominciando dalla riforma della normativa anticorruzione, ed il recente ddl in materia può essere solo un primo passo. Ma anche adeguamento della legislazione antiriciclaggio e del diritto penale economico per contrastare ogni forma di finanza criminale, delle mafie e dei colletti bianchi, a cominciare dal ripristino dell’incriminazione per falso in bilancio fino alla introduzione del reato di autoriciclaggio, così colmando una lacuna che agevola i riciclatori di professione delle grandi organizzazioni criminali. Riforma del codice antimafia per dargli reale efficacia anche su settori del tutto scoperti, ad esempio introducendo un efficiente reato di scambio elettorale politico-mafioso che sanzioni il patto politico-mafioso, oggi di fatto impunito.
La riforma della disciplina degli strumenti di investigazione deve indirizzarsi verso il suo potenziamento e non certo verso la neutralizzazione dei poteri della magistratura e delle polizia giudiziaria. A partire dai collaboratori di giustizia, fenomeno pressoché estinto perché vittima di una legge che, introdotta nel 2001, ha disincentivato la collaborazione, dove bisogna invece avviare un’inversione di tendenza per affrontare la nuova emergenza costituita dalla mafia politico-finanziaria. E scongiurare il pericolo all’orizzonte di rivitalizzare il progetto di legge-bavaglio sulle intercettazioni, magari strumentalizzando le polemiche sorte intorno alle legittime e doverose intercettazioni disposte in alcuni procedimenti in corso, come quello sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», quando si è sostenuta la «inopportunità» delle intercettazioni stesse, criterio di opportunità che però non può e non deve entrare nelle valutazioni giudiziarie. Inopportune semmai sono certe polemiche da parte di chi dimostra di conoscere poco gli atti d’indagine, benché ormai a disposizione di molti a seguito del deposito delle carte, quando si tratta, come in questo caso, di intercettazioni dimostratesi rilevanti rispetto al procedimento in corso perché contenenti risultanze illustrative di aspetti non secondari della vicenda oggetto dell’indagine. Ciò che più conta, anche per evitare esercizi di dietrologia, diventa allora non dare l’impressione di voler enfatizzare le polemiche per legittimare la rivitalizzazione di quell’ormai antico minacciato intervento legislativo sulle intercettazioni, equivalente ad un colpo di spugna della residua efficienza dell’azione di magistratura e forze di polizia contro ogni forma di criminalità occulta.

Corriere 1.7.12
Stato-mafia, la lettera inedita
di Giovanni Bianconi


«Di Maggio estraneo alla trattativa Questa è la lettera che lo dimostra»
Il fratello dell'ex giudice: sulla revoca del 41 bis fu tagliato fuori

La vicenda della presunta trattativa Stato-mafia si arricchisce di nuovi documenti. Il fratello dell'ex giudice Francesco Di Maggio, Tito, mostra una lettera inedita su carta del ministero della Giustizia, probabilmente scritta a inizio '94, che potrebbe scagionare l'allora vicedirettore delle carceri (scomparso nel 1996) dall'aver avuto un ruolo nell'alleggerimento del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi: «Mio fratello fu di fatto esautorato in quella decisione», spiega Tito Di Maggio mostrando la missiva a Capriotti, all'epoca capo del Dap.

MATERA — Ha letto sui giornali che, se fosse ancora vivo, suo fratello sarebbe indagato nell'inchiesta sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi del 1993. In concorso con boss del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano, in qualità di ipotetico intermediario del loro ricatto verso le istituzioni. Ha letto e riletto il capo d'imputazione e gli stralci di verbali che sostengono la ricostruzione dell'accusa. E ha deciso di presentarsi alla Procura di Palermo, per chiedere copia degli atti giudiziari e offrire testimonianze e documenti in difesa del fratello che non può più farlo: l'ex giudice Francesco Di Maggio, vicedirettore delle carceri italiane a partire dal giugno di quel drammatico '93, morto nell'ottobre del 1996.
Nei prossimi giorni Tito Di Maggio, imprenditore che lavora a Matera, presenterà la sua istanza, volta a proteggere la memoria e l'onorabilità di un fratello che tanto gli somigliava nel fisico, e del quale raccoglieva sfoghi e confidenze. Forte non solo dei ricordi, ma anche delle carte inedite conservate da Francesco Di Maggio, che in famiglia chiamavano Franco, dopo l'esperienza vissuta come numero due del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
«Leggo che ci sarebbe un mistero sulla sua nomina — spiega Tito Di Maggio —, ma io so quali sono le ragioni. E leggo che avrebbe avuto un ruolo nell'alleggerimento del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr), ma io ho i documenti dai quali si può capire come mio fratello fu di fatto esautorato in quella decisione». I documenti che Tito ha ritrovato e conservato sono la minuta di una lettera inviata da Di Maggio al suo superiore dell'epoca, il capo del Dap Adalberto Capriotti, e alcuni capitoli del libro che suo fratello stava scrivendo dopo aver lasciato la gestione delle carceri nell'autunno del '94, in forte polemica col nuovo ministro della Giustizia Alfredo Biondi.
«È con lui che Franco litigò dandogli del tu e probabilmente alzando la voce — dice Tito Di Maggio —, non con Conso come ha erroneamente testimoniato Capriotti. È vero invece che tra lui e Capriotti ci furono incomprensioni e diversità di vedute, di cui è prova anche questa lettera di Franco».
Si tratta di tre pagine scritte sulla carta intestata del Ministero di Grazia e Giustizia, con la dicitura «Riservata-personale». Non c'è la data, ma è la copia di uno sfogo che Di Maggio indirizzò a Capriotti presumibilmente all'inizio del 1994, giacché in un passaggio si legge: «Come ti è noto, il 30 dicembre scorso ho firmato, con il tuo consenso, tutta la posta giacente». Il punto che riguarda l'inchiesta palermitana è quello in cui Di Maggio si rammarica: «Debbo constatare che da parte tua resistono nei miei confronti talune riserve che, francamente, mi è difficile comprendere. La vicenda Calabria è, in questo senso, significativa. Te ne ho scritto e parlato. Attendevo che tu mi facessi conoscere il tuo punto di vista, apparendo del tutto naturale che la questione (e qui c'è un'aggiunta a mano dove s'intuisce tra parentesi la scritta «41 bis», ndr), in sé delicata, venisse trattata dal Direttore generale insieme al suo più stretto collaboratore (cioè lo stesso Di Maggio, ndr). Non solo così non è stato, ma Calabria è stato ricevuto, per tuo tramite, dal Ministro, realizzandosi così quell'obiettiva delegittimazione che, insieme, abbiamo rimproverato proprio al Ministro in casi analoghi».
Questo brandello di corrispondenza interna al Dap potrebbe gettare nuova luce sulla decisione dell'ex ministro Conso di liberare dal «carcere duro» oltre trecento detenuti nell'autunno del '93, che per gli inquirenti costituisce la controprova della trattativa con Cosa nostra. L'ex Guardasigilli ha sempre detto che la prese «in solitudine», svincolandola da qualunque patto con gli emissari di Cosa nostra, senza essere creduto. Anche perché agli atti c'è un appunto del 26 giugno '93, firmato da Capriotti appena giunto al Dap, che suggerisce quella soluzione per dare «un segnale positivo di distensione». Appunto sul quale c'è il sospetto che abbia giocato un ruolo proprio Di Maggio, ma redatto da un altro magistrato all'epoca in servizio nell'amministrazione penitenziaria, Andrea Calabria. Ora, con questa lettera, si affaccia un'altra ipotesi: da quella vicenda Di Maggio fu tenuto fuori, come lui stesso lamenta. E il riferimento a Calabria lascia trapelare un contrasto nonché un contatto diretto tra l'estensore dell'appunto in cui si suggerisce l'allentamento del «41 bis» e il ministro che l'ha deciso.
Quanto ai motivi dell'arrivo di Di Maggio alla vice-direzione delle carceri, il fratello Tito racconta: «Franco fu chiamato a Roma dall'allora presidente della Repubblica Scalfaro, il quale l'aveva conosciuto quando era ministro dell'Interno. All'epoca lui faceva il pm a Milano e aveva raccolto le confessioni di Angelo Epaminonda, il quale chiese protezione per i suoi familiari; Franco investì della vicenda il ministro Scalfaro, che tramite il cardinale Martini trovò rifugio ai parenti del boss in un istituto religioso. Da allora nacque un rapporto di stima di cui il presidente si ricordò all'inizio del '93 quando l'inchiesta Mani Pulite stava creando grossi problemi alla politica. Franco s'era trasferito a Vienna come consulente giuridico della rappresentanza italiana alle Nazioni unite, ma aveva conservato buoni rapporti con i suoi ex colleghi; Scalfaro gli chiese se poteva fare da trait d'union con i magistrati milanesi. Lui accettò, e lavorò a quella "soluzione politica" di Tangentopoli poi abortita. Per tenerlo ancora a Roma, gli fu proposto il Dap dove lo stesso Falcone, un anno prima, gli aveva suggerito di andare».
Anche di questa ricostruzione si può trovare qualche riscontro nelle pagine lasciate da Di Maggio, scritte poco prima di morire con una prosa ridondante e a tratti irridente. Nel capitolo intitolato «Antefatto semiserio» si legge: «Con uno stratagemma tipicamente capitolino mi avevano richiamato in Patria... Qualcuno aveva conservato memoria della mia assiduità al lavoro, e concepito di affidarmi le funzioni di ufficiale di collegamento tra la giurisdizione Padana e il Palazzo...». Poi si parla dell'accordo bruciato «col primo decreto cosiddetto SalvaLadri», ed ecco lo spostamento al vertice dei penitenziari: «Il Pianeta Carcere stava per esplodere e mi spedirono a dar manforte, così mi era stato assicurato, al nuovo Direttore generale. Nella Casa madre di tutte le galere ho trascorso diciassette mesi di spaventosa detenzione».
Il capitolo che doveva intitolarsi «Diciassette mesi di disgrazie», però, Francesco Di Maggio non ha fatto in tempo a scriverlo. Restano altri brani del memoriale, in cui si rievocano i diverbi con Capriotti che voleva liberarsene perché lo considerava «un fottutissimo forcaiolo» che «si è bevuto il cervello con il doppio binario, un circuito per i comuni e uno per i mafiosi»; e l'ultimo incontro romano con Falcone che, prima della strage di Capaci, gli aveva detto: «Devi rientrare in Italia, devi occuparti del carcerario».
Rileggendo queste carte e ripescando nei suoi ricordi — anche dei rapporti tra suo fratello e l'ex generale dei carabinieri Mori «che lui considerava uno dei migliori ufficiali dell'Arma»; o della confidenza con il caposcorta che di recente ha testimoniato sulle pressioni subite dall'ex vicedirettore delle carceri a proposito del 41 bis, «ma di a me non parlò mai» — Tito Di Maggio ha deciso di presentarsi alla Procura di Palermo. «Perché è giusto che i magistrati indaghino in ogni direzione per far luce sui fatti ancora oscuri di vent'anni fa, ma io non posso permettere che il nome di Franco venga affiancato a quelli di Riina e Provenzano. Significa che il Paese s'è capovolto, e se mio fratello non può più provare a raddrizzarlo, devo provarci io».
Giovanni Bianconi

il Fatto 1.7.12
Cittadinanza, “Balo” non basta
di Corrado Giustiniani


La “generazione Balotelli” dovrà ancora aspettare. Per pungolare le sonnolente stanze del Parlamento non basta l'uno-due con cui SuperMario ha scardinato la difesa della Germania (e tocchiamo ferro per stasera). La legge per la concessione della cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri, fa melina alla Commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Non è stata messa affatto all'ordine del giorno dei lavori dell'aula per l'ultima settimana di giugno, come era stato assicurato, e nemmeno per la settimana che si apre domani. Del resto Gianfranco Fini, uno dei paladini della riforma, all'inizio di giugno aveva messo le mani avanti: se non sarà per questa legislatura, la approveremo nella prossima. Campa cavallo. E l'altro Mario, presidente del Consiglio, di fronte al catenaccio di Pdl e Lega, aveva detto chiaramente che non avrebbero avuto il suo placet delle modifica normative che mettessero a rischio la tenuta del suo governo.
Rivediamo la storia di vita di Mario Balotelli, visto che oggi è più che mai il simbolo delle seconde generazioni di immigrati. Nasce a Palermo da due emigrati ghanesi, Thomas e Rose, che poi si trasferiscono in provincia di Brescia, abbandonando il figlio in ospedale. Sarà il personale medico ad accudire Mario fino all'età di due anni. Nel 1993 la famiglia Balotelli di Concesio, sempre nel Bresciano, ottiene l'affidamento del bimbo dal Tribunale dei minori, e Mario cresce assieme ai tre figli della coppia, Giovanni, Corrado e Cristina. Soltanto che loro sono italiani, Mario no.
L'AFFIDO non era stato trasformato in adozione, e lui dovette aspettare la maggiore età per ricevere, dalle mani del sindaco, la carta d'identità italiana: era il 13 agosto del 2008. Per tutti gli “stranieri” nati in Italia debbono trascorrere 18 anni di residenza ininterrotta (un anno dai nonni, all'estero, e l'occasione sfuma) prima di poter ottenere la cittadinanza. E almeno venisse concessa loro automaticamente, al passaggio alla maggiore età: no, debbono fare domanda entro un anno. Se non si sbrigano, a 19 anni perdono il giro. Una legge non si sa se più crudele o più demenziale, la 91 del 1992, che venne approvata all'unanimità da tutte le forze politiche. E nel Pd che ha presentato diverse proposte di modifica (ultima, quella che reca l'on Bressa come primo firmatario) c'è forse anche la voglia di cacciare, una volta per tutte, questo fastidioso cadavere dall'armadio.
Sono ormai un milione i ragazzi figli di immigrati nati nel nostro paese o venuti da piccoli al seguito dei genitori. In Italia quasi un neonato su cinque e a Milano addirittura uno su quattro, secondo i dati Ismu relativi al 2010, ha genitori stranieri. Non pensare a loro significa semplicemente mettere un macigno sul nostro futuro. Una legge di iniziativa popolare, che ha ottenuto 100 mila firme regolarmente consegnate in Parlamento (e da questo altrettanto regolarmente ignorate) propone che un bimbo nato sul nostro suolo da genitori stranieri sia italiano se almeno uno di loro è regolarmente residente da almeno un anno. Un anno è poco: meglio i cinque proposti da Bressa, perché è giusto che un nuovo italiano nasca da una famiglia sufficientemente integrata. E che, se non nasce in Italia, possa diventarlo dopo aver frequentato un ciclo di studi. Ma fare spallucce non davvero è più possibile.

l’Unità 1.7.12
Niente più pagamenti in contanti sopra i mille euro
Entra in vigore la norma del decreto “Salva Italia”
Pensionati tenuti ad aprire un conto
di Marzio Cecioni


Dalla riscossione della pensione al pagamento dello stipendio alla badante, dal conto all’agenzia di viaggi al regalo “importante”. Da oggi non si potrà più pagare in contanti se l’importo supera i 1.000 euro. Entra, infatti, in vigore, dopo un paio di rinvii, la norma del decreto Salva-Italia sulla tracciabilità dei pagamenti. Nessun pagamento per valori pari o superiori a 1.000 euro in contanti o con assegno non intestato o non recante la clausola “non trasferibile” potrà più essere effettuato senza avvalersi di intermediari finanziari abilitati, come banche o poste.
La regola vale anche per stipendi e pensioni delle pubbliche amministrazioni. L’aspetto più delicato della nuova normativa riguarda proprio i pensionati che dovevano entro ieri aprire un conto corrente su cui poter accreditare gli assegni superiori alla soglia massima del cash consentito, appunto 1.000 euro. Per chi non si è messo in regola, da oggi scatta una fase transitoria: per tre mesi l’Inps continuerà a disporre i pagamenti mensili in attesa che il pensionato effettui la scelta delle modalità alternative alla riscossione in contanti.
I pagamenti disposti saranno sospesi da Poste italiane o dalle banche, che verseranno le somme in un conto di servizio transitorio, per trasferirle poi, senza oneri per il beneficiario, sul conto corrente o libretto aperto dal pensionato. In caso contrario, le somme accantonate saranno restituite all’Inps una volta decorso il termine del 30 settembre 2012.
In ogni caso, l’Inps assicurerà il pagamento delle somme spettanti nel momento in cui gli interessati provvederanno all’apertura di un conto corrente o libretto.
Nel caso in cui un pensionato non abbia avuto la possibilità, per motivi di salute o per provvedimenti giudiziari restrittivi della libertà personale, di aprire il conto, spetterà ai delegati alla riscossione, aprire un conto corrente bancario o postale o un libretto postale.
ADICONSUM: CONTI A COSTO ZERO
L’Adiconsum ricorda che si può anche «utilizzare l’accredito della propria pensione o degli assegni sociali sulla carta di credito (ad esempio l’Inps Card)». «In virtù del Decreto Salva Italia aggiunge l’associazione dei consumatori sul suo sito on line è possibile aprire il cosiddetto “conto di base”, un conto, che, accogliendo le proposte di Adiconsum negli incontri con Abi e Ministero dell’Economia e delle Finanze, presenta condizioni particolarmente vantaggiose o addirittura zero costi per le categorie più deboli».
Il decreto ha efficacia anche sui libretti postali o bancari al portatore (anonimi) sui quali non potranno essere depositati più di 999,99 euro.

l’Unità 1.7.12
Stop al cash? Non risolve ma è già qualcosa
La tracciabilità delle operazioni è essenziale come deterrente per il fenomeno dell’evasione
di Ruggero Paladini


LA LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE AVVIENE ATTRAVERSO UNA VARIETÀ DI STRUMENTI; qualche tempo fa l’Agenzia dell’entrate ha dato pubblicità ad operazioni, condotte insieme alla Guardia di finanza, di controllo su alberghi e negozi in note località turistiche, attività, per la verità, che in precedenza veniva svolta con molto minor rilievo sui mass media. La limitazione nell’uso del contante rientra negli strumenti di lotta all’evasione, anche se una ventina di anni fa era nata come lotta al riciclaggio.
La questione è in effetti rilevante: l’uso del contante permette lo svolgersi di attività economiche, di per sé del tutto lecite, che generano redditi che i percettori nascondono al fisco.
La tracciabilità delle operazioni economiche risulta essenziale quindi nell’ambito delle misure volte alla deterrenza del fenomeno dell’evasione. Vi è una relazione statisticamente solida tra il livello di evasione fiscale in un Paese e l’uso del contante nei pagamenti, al punto che alcuni studi sull’evasione fiscale usavano proprio il circolante come variabile esplicativa del grado di evasione.
Il contrasto del contante ha determinato inconvenienti che hanno riguardato in particolare i pensionati, la domanda è quindi se il gioco vale la candela. La mia risposta è positiva, se il processo di restrizione nell’uso del contante non si limiterà ai mille euro, ma scenderà a livelli inferiori, gradualmente nel tempo. In realtà anche con pagamenti di 999 euro si può alimentare un circuito rilevante di economia sommersa, per tutto il settore delle micro imprese (artigianato, commercio al minuto, ecc...).
Finché il contante continua a circolare non lascia tracce, ma se ad un certo punto un operatore volesse depositarlo in banca, rischierebbe di vedersi chiedere da dove siano usciti fuori quei soldi; questo purché l’Agenzia organizzi un efficiente sistema di controllo dei flussi finanziari, quindi depositi bancari e postali, che il decreto Salva Italia ha stabilito nelle norme sul contrasto dell’evasione fiscale.
Può sembrare fantascientifico, ma la tecnologia moderna è in grado di mandare in soffitta tutte le banconote, ammettendo l’uso delle sole monete metalliche. In realtà siamo ben lontani da una società in cui le impronte digitali diventano lo strumento principale di pagamento; del resto anche le misure che sono state introdotte prevedono deroghe per i non residenti, turisti o immigrati che siano.

La Stampa 1.7.12
I santuari di Timbuctù crollano sotto i colpi dei fanatici di Al Qaeda
Protesta dell’Unesco, i jihadisti insistono: “Li demoliremo tutti”
di Domenico Quirico


Tra mistero e ricchezza Un tuareg davanti a una delle moschee più antiche di Timbuctù, la città nel cuore dell’Africa rimasta per gli esploratori europei un mito di ricchezza e mistero fino al 1828

I fanatici, i salafiti versione Sahel hanno commesso, finalmente! un errore. Eppure da aprile tengono nelle loro mani Timbuctù, e Gao e tutto il Nord del Mali. In alleanza, stretta e efficace, con gli emiri saheliani di Al Qaeda, hanno ucciso, flagellato, stuprato, torturato, vietato gridando «haram», impuro; e poi saccheggiano, vendono droga e comprano armi, sequestrano, assistono tutte le jihad più mortifere, gli assassini algerini e quelli nigeriani. Hanno ridotto gli abitanti della città dei 333 santi a una massa che sogna una sola cosa, fuggire, unirsi alle decine di migliaia di profughi che hanno cercato rifugio a Bamako, in Niger, in Burkina Faso.
La comunità internazionale, nel frattempo, non ha battuto ciglio. Poi ieri l’errore: Ansar Eddine, il gruppo di tuareg che ha aderito al credo salafita, rigorista fino al fanatismo e al delitto, ha annunciato di aver avviato la distruzione dei mausolei dei santi della città: «tutti, senza eccezione» ha precisato petulante il loro portavoce Sand Ould Boumana. Sedici di questi rientrano nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Il primo, quello di Sidi Mahmud nel Nord della città, sarebbe già stato ridotto in polvere ieri mattina. Eppure questi santi sono musulmani, è la loro fede, titanica o dotta, muscolare o profetica, che li ha resi tali. «Dio è unico. Tutto questo, i santi, il culto di uomini, è proibito. Noi siamo musulmani. L’Unesco? che cosa è? »: ha risposto beffardo il portavoce. A maggio avevano iniziato questo lavoro funesto, gli abitanti, dimenticando la paura, si erano ribellati e tutto era stato sospeso. Questa volta non si fermeranno nei loro propositi neroniani. Un altro tempio venerato, quello di Sidi Moctar, stava cadendo in pezzi, sempre ieri, sotto i colpi dei folli di Dio. La distruzione sarebbe la risposta alla decisione del’Unesco di inserire, con un gesto che voleva richiamare l’attenzione del mondo, la città nella lista del patrimonio in pericolo.
Dal 2 aprile Timbuctù è una città fantasma, case sventrate, archivi saccheggiati, palazzi trasformati in stalle. Sono possibili solo due attività, restare a casa o andare in moschea. Ansar Eddine, che all’ inizio della rivolta contava in tutto il Nord Mali 300 miliziani, oggi ne schiera 500 nella sola Timbuctù. E gli islamisti, secondo una tattica che ha ben pagato nel Sahel, vogliono integrarsi e cercano mogli locali, offrendo doti di 500 mila franchi CFA. In città comanda il luogotenente del capo di Ansar Eddine, Ag Ghali, nome da jihad Abu Fadil. È Sanda abu Mohammed, mauro nato nella zona, spiritaccio ascetico e efficiente. Controlla tutto, i missili difensivi posti a cintura della città e i rifornimenti. Sorveglia anche l’applicazione della sharia su quanti restano dei 50 mila abitanti. La polizia islamica che ha preso quartiere nella sede devastata della Banca di solidarietà, vigila che le donne abbiano testa, braccia e caviglie coperte e i sessi si tengano a debita distanza. Il tribunale giudica nei locali de «La maison», uno degli alberghi più noti per i turisti di un tempo. Prime sentenze: nerbate ai bevitori di birra, per ora nessuna mano mozzata. La paura funziona da deterrente. L’ospedale ha ricevuto l’ordine di offrire assistenza gratuita; ma non riceve rifornimenti da marzo e sono rimasti solo un medico, un’ostetrica e due infermieri.
Ora Ansar Eddine ha commesso lo stesso errore dei taleban quando infransero con furore iconoclasta i grandi Buddha scolpiti nella roccia. Si possono scuoiare popolazioni intere, ridurle in schiavitù, rubare ai poveri tra i poveri. Si troverà sempre qualche buon motivo, qualche bizantinismo per non intervenire, per fare gli indifferenti: il rispetto terzomondista per altre «culture» o la preoccupazione di non commettere intromissioni colonialiste. O semplicemente l’avarizia. La vergogna di Daadab, il campo dei 500 mila profughi somali in Kenya che è in piedi da 20 anni, ne è il tangibile monumento. Ma un graffio a una pietra venerabile, un tempio abbattuto come quelli di Timbuctù che abbiamo adottato nel nostro catalogo del Bello, dell’Intoccabile, del Nostro può scatenare invece le reazioni più nibelungiche.

Repubblica 1.7.12
Quella guerra ai simboli del pluralismo religioso
di Renzo Guolo


ANCORA una volta, il radicalismo islamista mette nel mirino monumenti patrimonio dell’umanità. Come già i Taliban con i Buddha di Bamiyan, presi a cannonate dai seguaci del Mullah Omar, in quanto “idoli pagani”, sono ora i tuareg di Ansar Dine, i “fedeli della religione”, a distruggere i santuari, questa volta musulmani, di Timbuctù. La cosa non deve stupire. Anche i filoqaedisti africani sono ideologicamente caratterizzati da una visione rigidamente monoteista e purista dell’islam. Una visione secondo cui l’adorazione è legittima solo verso Dio. Tutte le forme di “associazione”, che mettono “accanto” a Dio, uomini, sia pure pii e devoti, sono da rigettare come forme di eresia. Da qui la decisione degli jihadisti maliani di distruggere i mausolei di Timbuctù, la “città dei 333 santi”. Non a caso, storico luogo d’incontro tra l’islam arabo e l’Africa nera.
Dunque, prodotto di una religione che, per espandersi, per penetrare nei cuori dei locali ha dovuto incorporare, sincreticamente, elementi delle religioni preesistenti. In questo caso la tradizionale reverenza verso i marabutti, gli antichi sciamani del villaggio nella tradizione animista, che hanno sempre goduto di un’aura sacrale perché ritenuti mediatori tra la dimensione del sacro e quella del profano e dispensatori di intercessioni capaci, nella credenza religiosa, di essere ascoltate da Dio. Figure, quelle dei santi, divenute in tutto l’islam africano, oggetti del culto popolare. A Timbuctù — patrimonio culturale dell’umanità, luogo in cui tre grandi moschee ricordano l’età dell’oro tra il XII e il XV secolo, e in cui sono custoditi preziosi manoscritti di quei secoli e persino le opere di Avicenna giunte nella straordinaria “città di fango” dopo la cacciata dei musulmani dalla Spagna — vi sono molti dei mausolei loro dedicati, oggi minacciati dalla distruttiva furia radicale islamista.
Una situazione, quella nel Mali, creatasi con la penetrazione del qaedismo in Africa. Nella regione opera Al Qaeda nel Maghreb islamico, il suo gruppo dissidente del Movimento per il monoteismo e la jihad e, appunto, la deriva tuareg di Ansar Dine. Quest’ultimo, non vuole uno stato indipendente nel Nord separato dal Mali, ma ha sposato l’idea transterritoriale della costruzione di uno Stato islamico nel cuore dell’Africa subsahariana che applichi integralmente la sharia. Uno stato che faccia piazza pulita non solo dei confini pre-esistenti ma anche del pluralismo religioso e cultuale che città come Timbuctù rappresentano. Accade anche questo, oggi nel continente dilaniato da devastanti conflitti.

La Stampa 1.7.12
Il leader comunista e gli affari di famiglia che valgono milioni
Cina, Bloomberg svela i ricchi interessi di Xi Jinping
di Ilaria Maria Sala


L’articolo di Bloomberg pubblicato venerdì lungo, dettagliato, ricco di informazioni e preciso - ha richiesto diverse giornate di lavoro, ed ha impegnato un gruppo di giornalisti attivi in Cina, negli Usa, e a Hong Kong. Alla fine delle loro fatiche, questi hanno messo online un pezzo di 26.000 battute in cui, letteralmente, fanno i conti in tasca alla famiglia del probabile futuro Segretario Generale del Partito Comunista, nonché Presidente, della Cina, Xi Jinping, che dovrebbe essere nominato quest’autunno per prendere i pieni poteri il prossimo anno. Così facendo, i giornalisti di Bloomberg hanno anche illustrato, azienda per azienda, la ricca (è il caso di dirlo) rete d’interessi industriali e finanziari che consente ai famigliari dei potenti cinesi di accumulare delle fortune incomparabili, grazie anche a gruppi-fantasma, una danza indiavolata di nomi falsi, pseudonimi, e prestanome, e connessioni di sangue con cui l’élite si mette al sicuro da eccessivi controlli.
Quanto rivelato da Bloomberg è esemplare: Xi Jinping stesso, che molti descrivono come non guidato dall’avidità di denaro e che si è più volte pronunciato contro la corruzione, sembra essersi mantenuto discreto, e non avere le mani in pasta in aziende e gruppi finanziari. La sua famiglia estesa, però, e in particolare sua sorella, Qi Qiaoqiao, la famiglia della sorella e quella acquisita dopo il matrimonio con la cantante Peng Liyuan, hanno un vero e proprio impero industriale e finanziario, che si estende dai minerali all’immobiliare, passando per la telefonia mobile, ritrovandosi a controllare aziende che valgono diversi milioni di dollari Usa.
Un’inchiesta di questo tipo, con indirizzi delle aziende, nomi, cognomi, e pseudonimi delle persone che le hanno fondate e che ne sono alla guida, date, capitalizzazione, etc., ha dell’inaudito, dal momento che per quanto negli ultimi tempi la stampa di Stato cinese sia un po’ più libera di pubblicare articoli sulla corruzione di alcuni potenti (ma solo una volta che sono caduti in disgrazia) e di alcune aziende, il tabù sulle famiglie degli alti membri del Partito è esplicito, e nessun giornalista cinese potrebbe spezzarlo impunemente. Trattandosi però di giornalisti stranieri che lavorano per un gruppo editoriale americano, l’ira dei censori non può spingersi più in là di tanto. Di certo, il sito di Bloomberg è stato bloccato in Cina nel giro di pochi minuti dalla comparsa dell’articolo, ma per stare sul sicuro, anche i nomi dei familiari di Xi sono stati bloccati dalle ricerche online. Gli stessi giornalisti di Bloomberg, poi, si sono resi conto che man mano che proseguivano nelle loro ricerche e chiedevano interviste ai diretti interessati - che rifiutavano quasi sempre di concederle - sparivano dai siti web le biografie e anche i nomi dei familiari «scoperti» in importanti ruoli imprenditoriali.
Da quando sono iniziate le riforme economiche cinesi, più di trent’anni fa, è stato chiaro che, tranne che per operazioni commerciali su scala piccola o media, l’accesso alle risorse e ai permessi per sfruttarle sarebbe stato riservato a chi era vicino ai vertici del Partito - una realtà che ha portato a un divario enorme fra ricchi e poveri, e un risentimento acuto. Così, sui social media, il cinismo nei confronti dei potenti, ma ancor più dei ricchi, è ormai moneta corrente, mentre molti s’infuriano per i «funzionari nudi»: quei funzionari che, pur servendo in posizioni amministrative in Cina, hanno mandato l’intera famiglia all’estero e i figli a studiare nelle università più prestigiose e care del mondo, malgrado salari ufficiali di poche migliaia di euro. Gran parte di essi, inoltre, esportano illegalmente ingenti quantità di denaro, acquistando immobili di lusso a Hong Kong, Londra, New York, e depositandoli nelle banche svizzere. Ma se la rabbia diventa eccessiva… ci pensano i censori a spegnerla, se non altro sul web.

Corriere 1.7.12
L'esilio è il luogo dell'impotenza
«Divenni un rifugiato dopo i fatti di Tienanmen La mia Cina globalizzata oggi punta solo sui valori del mercato»
di Yang Lian


E ' il 1993 l'anno che considero il più buio del mio esilio. Il sogno di tornare in Cina era ormai infranto, mentre il vagabondare nell'Occidente sconosciuto era più nebbioso che mai. Più che come vivere, era ancora più seriamente crudele capire come scrivere. Come posso creare una nuova profondità nella mia vita?
Quell'anno è stato uno spartiacque tanto quanto il 1976, durante la rivoluzione culturale: due «stazioni» in cui il destino mi aveva gettato violentemente, dove potevo solo affrontare un «per forza», una «impossibilità». Capivo chiaramente che avevo toccato il fondo. La realtà si svelava totalmente nel suo corpo nudo e orribile: una estrema imperfezione.
Ma, proprio come nel 1976, l'assenza di aiuti e il vuoto lasciati dalla morte di mia madre, mi hanno invece insegnato ad ascoltare il mio cuore. Sono diventati quell'inizio che, seppure lontano dalla «poesia», mi ha fatto toccare per la prima volta il «senso poetico» della vita: la profondità della poesia e la sua bellezza, il rapporto diametralmente opposto tra la giustizia e la disperazione cruda e vera. Forse ancora deve guardare alla morte di mia madre la poesia che è la mia vita?
In questi trent'anni lei non ha letto neanche una riga delle mie poesie. Però lei ha scritto me. Il suo sguardo è entrato a vivere in tutte le mie poesie. «Nascere nella forma della morte è il vero nascere», questa frase l'ho scritta prima dell'esilio dalla Cina. Forse comprende ogni esilio dentro e fuori dalla Cina? Come quando nel ‘93, lì su quel precipizio che domina l'oceano Pacifico, io usavo i quattro atti di Dove finisce il mare per trasformare l'esilio esteriore in un viaggio interiore, attraverso le diverse stratificazioni, verso una condizione dell'anima quasi onirica.
La perfezione è ideale. Ciò che vi è insito, più che tensione verso la completezza e la compiutezza, è una ricerca della mancanza — della consapevolezza dell'imperfezione. La nostra cosiddetta «soddisfazione» non è verso la realtà ma verso le acque morte dell'autoinganno spirituale. La parola «esilio» viene tradotta in cinese come «liu wang», che significa «liu» — «galleggiare-scorrere» — e «wang» — «morire». Il significato è scorrere verso la morte? O «scorrere» è già morire? O piuttosto è scorrere a partire dalla morte? Manca di coniugazione temporale e quindi in un tempo racchiude ogni esilio.
Chi ha tirato fuori questa parola dalle poesie di Qu Yuan nelle Domande al Cielo deve essere stato davvero un genio. Ha delineato e valutato la qualità dell'uomo: non riconoscersi in esilio non vuol dire che non sei in esilio, ma solo che non hai le capacità per riconoscerlo. Abbandonare la conoscenza è qualcosa di imperfetto, ma è una premessa, perché dall'abbandono ci si volga faticosamente verso la perfezione.
L'ideale si è ritirato, lasciando la realtà alla pratica, alla globalizzazione dei valori assoluti dello scambio. Il mondo di oggi, l'idea della politica e del sociale sono poveri fino allo stremo. E ogni persona si sente di una impotenza cosmica. E pure la maggior parte della letteratura non fa altro che coprire i buchi neri e abbellire il piattume. Nell'involucro dell'«uomo» si espande il puzzo di marcio e ci si chiede dov'è la perfezione.
Le caratteristiche cinesi dell'esilio post Rivoluzione Culturale e Piazza Tienanmen, ogni egoismo, freddezza cinismo e impossibilità, testimoniano da sempre l'assolutezza dell'imperfezione.
«Il punto del destino» è un punto senza via di fuga. Non rimane che guardare negli occhi al destino e alle viscere più profonde dell'uomo, per comprendere Qu Yuan, Ovidio, Du Fu, Dante. Anche la solitudine non ha coniugazione temporale. Quando il poeta della dinastia Tang, Wang Wei, scrisse «viaggiare fino a laddove le acque s'impoveriscono e sedersi a contemplare le nuvole salire», il senso poetico, spinto nuovamente verso il confine povero e reale, vede di nuovo aprirsi il mare dello spirito. Quando dico «commuoversi per il tradimento dell'antichità», vedo passare in un secondo migliaia di anni. I predecessori hanno lasciato in me il loro vissuto e non posso fare a meno di ricominciare da qui. La versione originale dell'idealismo è forse proprio la vita stessa. Forse l'assoluta imperfezione nasce da quella terribile parola che è «zhi dao-zhi tao» — «sapere»: quando uno conosce («zhi») il «tao», che possibilità nuove ha ancora? Ma allora è giusto così. Ogni vita è da sempre sul precipizio che sovrasta il nulla, e più è sola ed estrema più è ricca, e più non ci si appoggia su nessuna comunità e comodità, più la propria «ribellione estetica individuale» è profonda.
Questo va al di là della forma? È implicito nella ricerca di una forma dentro la vita o è al di là di essa? Nel continuo dare vita a un verso di poesia, finalmente si compie la perfezione della purezza della vita.
(Traduzione di Yang Shi)

Corriere 1.7.12
Morto Shamir guerriero, premier e falco d'Israele
di F. Bat.


GERUSALEMME — Il politico Yitzhak Shamir, settimo premier d'Israele, per sette anni sulla poltrona che più conta, era già morto due decenni fa: dopo la Conferenza di pace a Madrid, che aveva subìto; dopo la sconfitta elettorale che aveva spianato la strada a Rabin e agli accordi di Oslo. L'uomo Yitzhak Jazernicki, l'immigrato polacco dalla Bielorussia che aveva perso madre e sorelle nei lager, il sionista venuto nella Palestina britannica degli anni 40 a combattere con la Banda Stern, prendendosi il nome di Shamir, è morto ieri a 96 anni: gli ultimi sedici li ha passati in clinica, perso nella solitudine dei malati d'Alzheimer.
«Shamir ci ha lasciato», ha comunicato il primo ministro Netanyahu: «Faceva parte di quella meravigliosa generazione che ha lottato per il popolo ebraico».
Il «guerriero coraggioso», come lo ricorda anche il presidente Peres, che pure ne detestava la politica, lottò davvero tanto. Con la bomba irredentista all'hotel King David di Gerusalemme, dove alloggiava il comando britannico. E poi con l'attentato all'ambasciata inglese a Roma, con l'uccisione del mediatore Onu, il conte Bernadotte... Killer implacabile, uomo senza compromessi, Shamir servì a lungo nel Mossad. E fu solo con la crisi depressiva e le dimissioni di Begin che il suo ruolo, nella destra Likud, diventò determinante: prima da ministro degli Esteri, quindi coi due mandati da premier, 1983-84 e 1986-92. Falco del processo di pace, fautore delle colonie nei Territori palestinesi, Shamir si trovò a gestire fasi delicate come l'intifada delle pietre o il ponte aereo che salvò migliaia d'ebrei etiopi intrappolati nel regime di Menghistu, o come la prima Guerra del Golfo che fece piovere su Israele 40 missili Scud di Saddam. Un recente sondaggio l'ha messo al 29° posto fra gl'israeliani più importanti della storia. Sognava Eretz Israel, un solo Stato dal mare al Giordano, convinto che fosse l'unica via per non essere spazzati dai vicini. Perché «gli arabi sono sempre gli stessi arabi», diceva. E se servirà, «i palestinesi saranno schiacciati come cavallette».

«Il sistema capitalista non funziona più dal 2008 con il collasso del sistema finanziario internazionale... Però la gente non è più felice. La felicità non si misura con la sicurezza materiale»
La Stampa 1.7.12
Eric Hobsbawm storico britannico
“Il nostro mondo è in crisi perché nessuno decide”
«La globalizzazione funziona in campo scientifico, culturale economico ma non politico»
intervista di Alain Elkann


Il professor Eric Hobsbawm mi riceve nella sua casa a Hampstead, arredata in modo perfettamente coerente con la sua vita, libri, dischi, fotografie di famiglia, quadri che ricordano i viaggi in Russia o in Italia. È molto lucido e comunicativo.
Lei è l’autore di «Il secolo breve». Ha visto con i suoi occhi la fine della I Guerra Mondiale, l’avvento di fascismo e comunismo, la II Guerra Mondiale, la Guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, l’11 settembre. A che punto siamo oggi nel mondo?
«È chiaro che siamo in un’epoca di instabilità. Gran a parte dell’umanità è preoccupata e pochissimi sanno cosa succederà. Tra il 1945 e i primi Anni 70 eravamo invece in un’epoca di stabilità, oggi pochi individui o governi sanno cosa accadrà tra cinque anni. Questo è il sentimento di questo periodo. C’è chi è più ottimista e chi meno, ma non c’è fiducia».
Pensa che ci sarà una guerra?
«Un’altra guerra mondiale non riesco a immaginarla. Non vedo in ogni caso l’unica guerra possibile, cioè tra Cina e Stati Uniti. Sono possibili guerre marginali in Medio Oriente, nel Sud est asiatico appoggiate dall’esterno, ma non una vera guerra mondiale».
E la Primavera Araba?
«Ero molto favorevole, felice perchè non mi aspettavo di vivere abbastanza a lungo per vedere gente buttare per aria dei regimi militari. Sembrava il 1848. Una delle grandi lezioni però è che è più facile far finire un regime che sostituirlo».
In Europa cosa succede?
«Il sistema capitalista non funziona più dal 2008 con il collasso del sistema finanziario internazionale. La parte debole oggi è in Europa ma è un aspetto dell’incapacità di organizzare un sistema economico globale che funzioni».
Qual è il problema?
«La mancanza di leadership, di persone che decidono. Lo dicevo in passato e lo ripeto oggi: questo è il tallone di Achille della globalizzazione che funziona in tutti i campi, linguistico, culturale, scientifico, economico ma non in politica. Non ci sono accordi tra i due o tre principali paesi del mondo, nessuno decide più».
Nemmeno gli Usa?
«No. Sono ricchi, potenti, forti dal punto di vista economico e militare ma non decidono».
E la Germania?
«La Germania è l’economia più forte in Europa, ma non è così forte se paragonata a Usa o Cina perchè è molto più piccola. È importante in quanto fa parte dell’Europa. L’ Europa è un esempio concreto di quello che dicevo prima e cioè il fallimento della politica, che non sa essere globale. Sarebbe possibile per esempio un accordo sugli Eurobond ma francesi e tedeschi non riescono a mettersi d’accordo».
E la Gran Bretagna?
«Forse andrà a pezzi. No! Ha cercato di mantenere la sua posizione di grande impero troppo a lungo e questa è una delle ragioni principali per cui alla fine abbiamo deciso di stare con gli Usa e non con l’Europa. La Gran Bretagna è semi europea».
Lei crede nell’Euro ?
«Non sono qualificato per giudicare, ma se si abolisse l’euro il costo di cambiare tutti i sistemi economici sarebbe enorme e nessuno lo vuole veramente. Quindi anche se non funziona durerà».
Come sta oggi il mondo?
«Molto meglio. Le condizioni dell’uomo oggi sono migliori perchè gli uomini vivono più a lungo e hanno molte più scelte nella loro vita. Anche quando pensiamo a potenziali catastrofi e a quante persone sono morte nel ventesimo secolo, la vita umana è migliorata. Tra quarant’anni le persone staranno ancora meglio e noi stiamo già molto meglio dei nostri nonni e dei nostri genitori».
Per via del progresso tecnologico?
«Sì, e anche per la grande capacità di produrre e scambiare. Ci saranno problemi veri come quello delle risorse, per esempio la mancanza d’acqua, ma non credo che in termini materiali si possa essere pessimisti per i prossimi cinquant’anni. Però la gente non è più felice. La felicità non si misura con la sicurezza materiale. Fino alla fine degli Anni 50 si viveva più o meno come negli ultimi millenni, la gente era povera, contadina, ma vi erano regole, tradizioni, ruoli, religioni e quindi delle certezze e una guida. Dagli Anni 70 questo sistema di regole è stato distrutto e la gente non sa dov’è e dove andare. Non ci sono più ruoli precisi».
Cosa succederà ?
«Il fondamentalismo religioso è una reazione a questa situazione. Da un altro lato la gente non avendo direttive vede delle opportunità e le prende. In Occidente siamo ancora affezionati a marche di cui ci fidiamo e che continuiamo a comprare. In Cina non si interessano ai marchi e soprattutto non c’è lealtà perchè sono soprattutto dei giocatori».
Lei è ancora comunista?
«Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello in cui ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia».

l’Unità 1.7.12
Piazza Statuto, 1962
Un accordo separato alla Fiat scatenò la rivolta sociale. E preparò il ’69 operaio
Erano dieci anni che non si scioperava alla Fiat, la protesta fu una sorpresa per la città, per Valletta, per il Pci
Una storia che travolse Torino e propose nuovi soggetti: operai, giovani, immigrati, proletariato urbano... Le testimonianze di Diego Novelli, Goffredo Fofi e Giuseppe Berta
di Rinaldo Gianola


C’ERA STATO, ANCHE ALLORA, UN ACCORDO SEPARATO. LA FIAT DI VITTORIO VALLETTA, ANTICIPANDO UNA FILOSOFIA EFFICACEMENTE PREDICATA fino ai nostri giorni da Sergio Marchionne, aveva chiamato la Uil e il sindacato padronale Sida a firmare per chiudere velocemente un contratto aziendale e tagliare così le gambe agli operai torinesi che, per la prima volta dopo dieci anni, erano tornati a scioperare in quell’estate del 1962. Ma quella volta, in quel luglio reso torrido dalla rabbia sociale, i lavoratori, i giovani, gli immigrati meridionali e quel neoproletariato urbano penalizzato e soffrente, sorpresero Torino, la grande fabbrica e anche il pci. Scioperarono gli operai della Fiat e delle piccole boite produttive della cintura, i giovani occuparono le strade e si scontrarono con la polizia, presero per qualche giorno la città turbata da quell’improvviso disordine. Per la storia è “La rivolta di piazza Statuto”. C’è ancora qualche cosa da imparare da quei fatti lontani, ci sono testimonianze e racconti che ci possono aiutare a capire anche il presente di una grande impresa.
Diego Novelli, già sindaco di Torino: «Nel 1962 ero il responsabile della redazione piemontese dell’Unità. In quell’estate i lavoratori della Fiat avevano ripreso a scioperare. Si trattava di una grande novità. Ricordavamo l’ultima manifestazione operaia, nel 1955. Poi più niente. “Il ghiaccio è rotto” dicevano gli operai. La Fiat volle fare un’operazione delle sue, facendo firmare al volo la Uil e il sindacato giallo. Fiom e Fim si opposero. Ma successe qualche cosa di imprevisto. La notizia della firma venne fuori il sabato, 7 luglio. Mi telefonarono al mattino avvertendomi che da Stura, la fabbrica Fiat vicino all’imbocco dell’autostrada per Milano, gli operai erano usciti e stavano andando in centro. Raggiunsi il corteo, che scese in corso Giulio Cesare, a porta Palazzo poi in piazza Statuto dove c’era la sede della Uil. Volò qualche sasso, ci fu un po’ di confusione, ma nulla di straordinario. Nel pomeriggio la situazione cambiò, perchè insieme agli operai arrivarono anche altri soggetti. C’era tanta gente incazzata che non c’entrava niente con la Fiat, giovani, immigrati, anche personaggi malavitosi. Gli scontri diventarono violentissimi. Sergio Garavini e Giancarlo Pajetta vennero presi a sassate mentre erano sotto una pensilina. Verso sera il brigadiere Rizzo della squadra mobile, fratello di un compagno segretario della federazione di Avellino, vide gli arrestati e suggerì di portarli alla buon costume invece che alla squadra politica. Poi con Pajetta andiamo a cena alla birreria Mazzini. Pajetta tira su un calzone ed era tutto sporco di sangue, era stato ferito a una gamba. Domenica sembra tutto liscio, ma mi arriva una telefonata dalla questura. La telefonata è da parte del dottor Passone, capo della squadra politica, che mi dice di informare il mio direttore che all’indomani sarebbero ripresi i disordini. Ma la questura cercava un altro Novelli, mio cugino Piero, che stava alla Gazzetta del Popolo ed era corrispondente del quotidiano di Roma di destra Il Tempo. Mi feci l’idea che la protesta era stata infiltrata e strumentalizzata, c’era una grossa provocazione in atto e arrivò il famigerato Battaglione Padova della Celere, il centro città venne messo in stato d’assedio. La rivolta venne spenta con la forza, la repressione fu durissima e le condanne molto pesanti perchè allora la magistratura torinese era molto sensibile alla Fiat. La Fiat chiamava e il giudice si alzava. Però la rivolta di piazza Statuto preparò l’autunno operaio, mise in discussione le scelte di Valletta che per anni aveva obbedito agli americani contrastando i comunisti e la Cgil, con i reparti confino, le schedature, i licenziamenti. La novità? La vecchia classe operaia aveva fatto una trasfusione di sangue, erano i giovani, i contadini, i braccianti sfruttati alla catena di montaggio, che affittavano un letto a ore per dormire. Nel pci discutemmo a lungo, ci dividemmo su quella rivolta. Ma la città stava mutando, nel 1963 ci fu il primo successo elettorale dei comunisti a Torino».
Goffredo Fofi, saggista e critico. «Nel 1962 vivevo a Torino, lavoravo mezza giornata al Centro Gobetti e l’altra metà ai Quaderni Rossi di Raniero Panzieri. La rivoltà arrivò improvvisa, per come la vidi io fu uno strano connubio tra i giovani comunisti, gli operai delle piccole fabbriche e gli immigrati meridionali. All’inizio della protesta un telegramma mi informò che era morta mia nonna, feci in tempo ad andare in Umbria e a tornare ma gli scontri continuavano. Quelli della Cgil e del pci pensavano che noi dei Quaderni Rossi avessimo qualche ruolo. Il sindacalista Pugno incontrò Vittorio Rieser e gli intimò di far cessare le manifestazioni. Ricordo che da Milano arrivò un inviato del Giorno, Umberto Segre, un bravissimo giornalista, Panzeri mi chiese di accompagnarlo in giro per Torino. Scrisse degli articoli molto belli. Nei santuari torinesi, nel pci e nella Cgil, c’era un po’ di isteria, molti vedevano complotti.
La verità era che la vecchia Torino non teneva più, erano arrivati migliaia di immigrati e molti non sopportavano la vita in fabbrica, la mancanza di diritti e di dignità. Il controllo della Fiat era totale, dai giornali alle case editrici, fino alle prostitute. Non sfuggiva nulla. Sul bollettino dei Quaderni Rossi scrissi la cronaca di quei giorni, Panzieri li ripulì perchè non erano abbastanza operaisti. Asor Rosa mi definiva “il populista” dei Quaderni Rossi. Su piazza Statuto si consumò uno scontro tra Raniero e Vittorio Foa, che lo abbandonò e si schierò deciso con la Cgil. Ma quei giorni furono importanti, diedero il segno del cambiamento che stava maturando anche se Einaudi si rifiutò di pubblicare la mia inchiesta sull’immigrazione meridionale perchè non gradita alla Fiat. Panzieri non fece in tempo a vedere la riscossa operaia del 1969. Morì nel 1964 a Torino, carico di ansie. Ai funerali eravamo quattro gatti. Da Milano arrivò Giovanni Pirelli che ci aiutava con qualche lira. Giovanni portò una bella stoffa rossa, la mise sulla bara di Raniero. Un’epoca era finita».
Giuseppe Berta, storico, già direttore dell’Archivio Fiat. «Piazza Statuto è il simbolo del confronto tra capitale e lavoro a Torino. È la piazza dove ai primi del ‘900 terminavano le manifestazioni delle fabbriche delle barriere operaie, qui ha sede la prima Lega industriale, che anticipa Confindustria, in questa piazza è ambientato “Prino maggio” , il racconto di Edmondo De Amicis. La rivolta di Piazza Statuto ha un alto valore simbolico e politico, perchè determina la rottura tra i Quaderni Rossi di Panzieri e la sinistra. Dario Lanzardo scrisse poi un bel libro su quei fatti. Si disse che quella radicalità dei giovani operai derivava dalla loro frustrazione e dunque avevano reagito con una violenza spontanea. Per altri c’era qualche cosa di diverso, faceva parte di un fenomeno più ampio di protesta giovanile collettiva tipica degli anni ‘60.
La sinistra non era pronta a capire cosa stava cambiando, vennero evocati fascisti e provocatori, ma c’era molto di più. Torino passa da 650 mila abitanti a fine anni ‘50 a oltre un milione nel 1961, una bomba sociale. Neanche la Fiat era pronta, Valletta era vecchio e la gerarchia militare dell’azienda non poteva più funzionare. Con piazza Statuto si preparano le condizioni per il ritorno in fabbrica del sindacato».

Repubblica 1.7.12
La nuova ideologia
“Felicismo”, la scienza del piacere obbligatorio
di Maurizio Ferraris


Bisogna distinguere questa tendenza dalla ricerca spirituale, etica e politica che ha attraversato altre epoche
Forse oggi andrebbe recuperato un testo di 30 anni fa: “Istruzioni per rendersi infelici” di Watzlawick
Si sta affermando un algoritmo che cataloga le persone in base al loro grado di benessere e che spiega come aumentarlo
Da sempre ci sono stati libri e metodi per questo genere di cose ma ora tutto si sta spostando su un piano edonistico e quantitativo

Nelle prossime settimane, finanze permettendo, ci impegneremo in una periodica ricerca della felicità, le vacanze. Si tratterà di un episodio minore di “happyism”, che potremmo tradurre con “felicismo”, una specie di feticismo della felicità in cui la felicità diventa una ragione di vita. Intendiamoci: la felicità è sempre di moda, come dimostra la quantità di saggi anche recenti sull’argomento, da David Malouf, La vita felice (Frassinelli), a Economia della felicità di Bruno S. Frey e Claudia Marti (il Mulino), da L’arte della felicità in un mondo in crisi del Dalai Lama (Mondadori) a servizi speciali di riviste (come l’ultimo numero di Colors), da testi come Pensieri lenti e veloci del premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman (Mondadori) alla moltitudine di guide di self-help per essere felici. Ed è sempre stato così, basti dire che uno dei grandi successi editoriali di vent’anni fa era stato la Lettera sulla felicitàdi Epicuro. Tuttavia, il caso del felicismo è più specifico. Come ricorda l’economista americana Deirdre N. McCloskey in un articolo apparso l’8 giugno su The New Republic, si sta affermando una “scienza della felicità”, identificata con il piacere, che classifica le persone sulla base di un punteggio da uno a tre: “non troppo felice”, “piuttosto felice”, “molto felice”. E che spiega come passare da uno a tre seguendo il consiglio di economisti e psicologi. Di qui curiose statistiche sui paesi più felici al mondo, come se le nazioni fossero persone. Secondo una indagine recente, nella scala dei trenta paesi più felici troviamo in testa la Danimarca e in fondo la Germania (l’Italia è terzultima). Il che alla fine è bizzarro, perché significa che passando un confine, quello tra Danimarca e Germania, si entra in un abisso di infelicità, o quantomeno si passa dal massimo al minimo. Il padre del felicismo è lo stesso filosofo che ha inventato il Panopticon, cioè il dispositivo che permetteva a un solo secondino di controllare a vista tutti i carcerati, Jeremy Bentham, che nel 1789, con la Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, aveva proposto un’algebra morale, capace di quantificare il piacere e il dolore per ottimizzare i nostri comportamenti. Bentham era un uomo geniale e infantile, fondatore della London University dove dispose che si conservasse in una specie di armadio la sua mummia, con un curioso ideale di socialità (e felicità) postuma. In questa centralità della felicità è all’opera una ideologia fortissima, che è coestensiva alla modernità illuministica. In effetti, l’idea che l’uomo sia destinato a scontare un peccato originale o quantomeno la colpa di essere nato è il carattere fondamentale dei reazionari, da Dostoevskij a Cioran, passando per Renan che poco prima della Comune considerava che la rovina della Francia dipendeva dalla “felicità volgare” delle masse eccitate contro il potere. Gli illuministi, invece, affermano che è nostro diritto ricercare la felicità, ed è nostro dovere non considerare l’infelicità nostra e altrui un retaggio naturale. Nel 1738 Mirabeau aveva detto che “il nostro unico scopo” è la felicità, e Voltaire, nel suo Elogio del mondano, scriveva “Dio mi ha detto: sii felice! ”. E sappiamo tutti che nella Costituzione americana del 1776 sono considerati diritti inalienabili dell’uomo la vita, la libertà e, per l’appunto, la ricerca della felicità. Una simile ricerca della felicità incarna i più alti ideali di un’epoca, espressi in un’altra frase sempre citata, di Saint-Just: “La felicità è un’idea nuova in Europa”. Il senso della dichiarazione si capisce nel seguito del discorso: “Non tollerate che ci sia nello Stato un solo povero e infelice”, perché la felicità è una felicità comune (come si legge nel primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793). Questa felicità, dunque, si oppone alla “felicità illusoria” di cui parla Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, cara ai conservatori (Domenico Losurdo ha ricordato che un giornale ultraconservatore austriaco si intitolava Eudaemonia, richiamandosi alla dottrina che identifica il bene con la felicità) e imparentata con la “felicità vegetativa” dei poveri durante l’Ancien Régime, di cui parla Tocqueville, quella a cui si appellavano i proprietari terrieri che pretendevano che gli schiavi fossero felici, e ai quali Condorcet ribatteva: “Non si tratta di sapere se i Negri sono felici ma se godono dei diritti di cui tutti gli uomini devono godere”. C’è dunque una contrapposizione tra una felicità illuminista ed emancipativa e una felicità apparente e conservativa. Così come è ovviamente controverso stabilire che cosa si intenda con “felicità”, che per Aristotele è un equilibrio virtuoso, mentre Bentham la identifica apertamente con il piacere e con un elemento quantitativo, tanto che Carlyle dirà che la sua è “la felicità dei porci”, e John Stuart Mill suggerirà di cercare un piacere qua-litativo, osservando che un dotto infelice è preferibile a un ubriacone felice. Tutto sommato il felicismo radicalizza l’elemento edonistico e quantitativo, e suggerisce la ricerca di una felicità compulsiva e bulimica, un po’ come quella di Shame di Fassbender, cioè imparentata più con la dipendenza che con la emancipazione. Come evitare di confondere la felicità con il felicismo? Suggerirei conclusivamente tre elementi di buon senso. Primo, la felicità richiede un oggetto. Nelle istruzioni degli psicofarmaci si legge talora, tra gli effetti collaterali, che potrebbero provocare “euforia”, e suonerebbe davvero strano che uno psicofarmaco potesse provoca- re, sia pure a livello di effetto collaterale, della felicità. Perché? Secondo me la differenza tra euforia e felicità sta nel fatto che la felicità dipende dall’esistenza di qualcosa nel mondo (e questo mondo può essere anche la nostra psiche) che ci rende felici: una persona, una cosa, una speranza, anche una idea. Non una reazione enzimatica senza oggetto, che creerebbe per l’ap- punto una semplice euforia. Secondo, non può essere un fatto puramente individuale. Freud diceva che non si ride e non si piange mai da soli, e credo che avesse ragione. L’uomo è un animale politico, vale a dire un animale che sta in società. Tanto è vero che il solo fatto di stare da soli può essere una causa di infelicità. E d’altra parte non c’è felicità, per immensa che possa es- sere, che non risulti un po’ diminuita dal fatto di non poterla dire ad altri, così come ci sono felicità che per essenza non ci sarebbero se non ci fossero degli altri. Immaginiamo qualcuno che riceva una medaglia, ma in segreto, e con l’ordine di non dirlo a nessuno e di nascondere la medaglia. Sarebbe felice? C’è da dubitarne. Un corollario di questo punto è che risulta piuttosto difficile essere felici se si causa l’infelicità degli altri, e questo purtroppo è un problema che si dà spesso. La conclusione, dunque, come suggeriva Socrate (e come è stato confermato nel 2004 in un monumentale volume curato da Seligman e Christopher Peterson, Character Strengths and Virtues: A Handbook and Classification, e più recentemente da Il senso della vita del grande critico letterario americano Terry Eagleton) è che si è felici quando si è virtuosi. Infine, e soprattutto, non si deve dimenticare che la ricerca ossessiva della felicità è da annoverarsi tra le cause maggiori di infelicità. Kierkegaard ha osservato che gli uomini inseguono così ostinatamente la felicità che a volte la sopravanzano. Credo che sia verissimo, ed è per questo che le Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick (1983, tradotto in italiano da Feltrinelli) è un libretto da cui si può imparare molto. Così come da La felicitàdi Paolo Legrenzi (il Mulino, 1998), la cui tesi fondamentale è che non ha senso misurare la felicità, ma che si possono invece riconoscere con precisione gli ostacoli che si frappongono tra noi e lei. Senza dimenticare che la felicità è uno stato: si è felici non quando si cerca la felicità, ma quando, cercando qualcos’altro o non cercando affatto, ci accorgiamo di essere felici, e questa consapevolezza spesso coincide con la fine della felicità perché, come ha scritto Adorno “Per vedere la felicità, se ne dovrebbe uscire. L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine”.

Repubblica 1.7.12
Ma tra malinconia e spleen quanti poeti “nati sotto Saturno”
di Valeri Magrelli


C’è una lunghissima tradizione, letteraria e filosofica, che collega creatività e tristezza Ecco un piccolo atlante per orientarsi tra gli autori che l’hanno trasformata in arte Molti anni fa, invitato a tracciare una sommaria mappa del concetto di depressione, iniziai dal suo remoto sinonimo: melanconia. Dietro l’espressione usata ai nostri giorni, si cela infatti una nozione che traversa la storia della medicina, per investire l’etica, l’estetica e la religione. Quel che oggi definiamo calo di tono o abbattimento del regime psico-fisico, nasconde cioè una genealogia millenaria, come si legge nel saggio Saturnoe la malinconiadi Klibansky, Panofsky e Saxl. Al loro studio, che spazia dalle teorie ippocratiche a quelle neoplatoniche, va accostato Nati sotto Saturno, in cui Rudolf e Margot Wittkower approfondirono il nesso con l’idea rinascimentale di Genio. Intesa come erede della melanconia (ossia della “bile nera”), la depressione si rivela dunque assai diversa da un semplice disturbo nervoso. In una tradizione che passa dal medico greco Galeno alla scienza araba, per approdare all’Europa del Quattro-Cinquecento, proprio al più sciagurato fra i quattro umori del corpo umano veniva associata la produzione dei massimi frutti dello spirito. «Perché», si chiedeva Aristotele, «gli uomini che si sono distinti nella filosofia, nella vita pubblica, nella poesia e nelle arti sono melanconici, e alcuni al punto da soffrire dei morbi che vengono dalla bile nera? ». Egli stilò una lista dei melanconici che includeva eroi e intellettuali quali Ercole, Bellerofonte, Eraclito e Democrito. Ed è proprio a partire da questi nomi che Agamben ha tratteggiato un’ideale prosecuzione dell’elenco. In esso, dopo una prima ricomparsa tra i poeti d’amore del Duecento, il grande ritorno della melanconia veniva fatto risalire all’Umanesimo, con Michelangelo, Dürer e Pontormo. Una seconda epidemia era poi individuata nell’Inghilterra elisabettiana di John Donne. Infine, un’ulteriore ondata melanconica colpiva il secolo diciannovesimo, annoverando tra le sue vittime Baudelaire (lo spleen), Nerval, De Quincey, Coleridge, Strindberg. «In tutte e tre le epoche», ha concluso Agamben, «la melanconia fu sempre interpretata, con un’audace polarizzazione, come qualcosa di positivo e insieme negativo». Davanti a una famiglia così ampia (su cui lavorarono Jaspers e Biswanger, Freud, Abraham e Jung), resta poco da aggiungere, se non che scrittori come Proust o Beckett risulterebbero incomprensibili fuori del cerchio magico dell’umor nero. Per non parlare poi di personaggi come l’Oblomov di Goncarov, la cui melanconia riannoda il suo antico legame con l’accidia, l’acedia monastica. Quanto alla narrativa italiana, ecco spiccare Fogazzaro e De Roberto, Pirandello e Brancati, per non parlare di Landolfi, Moravia e Berto, che a questa malattia dedicò il romanzo autobiografico Il male oscuro. Infine, almeno un poeta: Attilio Bertolucci, le cui esperienze cliniche si trasfusero nei versi della Camera da letto. Questo per dire come la depressione, così devastante sul piano psichico, possa talvolta tramutarsi in stimolo per la creazione, la riflessione, il pensiero.

Repubblica 1.7.12
Se la scienza ci aiuta a essere razionali
risponde Corrado Augias

qui
l’Unità 1.7.12
Alle origini del nome Europa
di Bruno Bongiovanni


L’EUROPA, NONOSTANTE I TIMORI DEI GIORNI SCORSI, E LE MOSTRUOSE VOLGARITÀ DEI QUOTIDIANI BERLUSCONOIDI, HA FATTO UN PASSO AVANTI. Da dove viene? Il toponimo arriva dal greco «Europe», che significa qualcosa di simile ad Occidente, tanto è vero che, pur non riferendosi sempre allo stesso spazio quando ne discorrevano, sin dall’inizio i geografi hanno considerato l’Europa, più che un continente autonomo, la penisola occidentale dello sconfinato Oriente asiatico. Tale penisola si protende dagli Urali per arrivare sino all’Atlantico. Dal che si deduce che questo eurospazio non è stato un’invenzione di De Gaulle. L’Europa è stata, del resto, anche una figura della mitologia greca. Zeus la rapì. Ebbero tre figli, tra cui Minosse, che diede vita alla civiltà cretese. Il nome Europa, da quel momento, indicò le terre poste a nord del Mediterraneo. Già gli Assiri, comunque, avevano definito Ereb (Europa?) ciò che per loro era l’Occidente. E Asu (Asia ?) i paesi del Sol Levante. Il termine compare poi anche in latino e per Plinio è la parte del mondo che si protende dall’Ellesponto sino all’Atlantico. Né manca l’Euro, che non è solo la (quasi) comune moneta dell’Unione, in circolazione dal gennaio 2002, ma anche il vento che spira da sud-est, tanto da essere sinonimo di Levante (la parte dell’orizzonte dove si leva il Sole). Esiste inoltre, onde cogliere il legame tra le due realtà, il termine Eurasia. Non è stato d’altra parte precoce l’uso moderno e politico del termine Europa. La quale, in particolare dopo l’invasione dei Balcani da parte dei turchi, era il mondo cristiano in contrasto con l’Islam. L’autonomizzazione del termine politico-diplomatico-pluristatale Europa, rispetto al termine geo-religioso-civilizzatore cristianità, si ebbe nel ‘700. Fu questo il periodo del rafforzarsi degli Stati, dell’inizio della globalizzazione contemporanea. Non a caso l’aggettivo europeo comparve nello stesso ‘700. Per la sua semantizzazione unitaria si è iniziato nel 1992 dall’economia. Ma è la politica il fine.

Repubblica 1.7.12
“Il Discorso sul metodo fu scritto in francese Cartesio lo fece per i barbari dell’epoca”
di Alessandro Baricco


È un libretto, e già questo è affascinante. Se vi aspettate un tomazzo erudito e noioso non sapete di cosa stiamo parlando. È un libretto, e Cartesio lo scrisse in francese. Come ha insegnato Fumaroli, la cosa è assai più significativa di quanto possa sembrare. Ai tempi (1637) l’erudizione era scritta in latino, era alluvionale e oscura, ed era infarcita di citazioni di classici (il sapere coincideva con il sapere i classici). Cartesio, che veniva da quel mondo lì, buttò tutto all’aria e fece un gesto tipicamente barbaro: cinquanta paginette scritte in una lingua che ai tempi si credeva inadeguata a qualsiasi eloquenza. Perché lo fece? Perché voleva davvero voltare pagina, fondare un nuovo metodo per capire le cose: sapeva che gli eruditi non avrebbero apprezzato e non scrisse per loro: scrisse per le nuove, superficiali élites dei salotti parigini, che il latino non lo conoscevano e i libri li leggevano solo se si potevano tenere in una mano mentre con l’altra ti sventolavi (o facevi altro, come annotò una volta Rousseau, parlando di romanzetti erotici). Scrisse per i barbari dell’epoca. Si fidò di loro, e quelli, in effetti, covavano una rivoluzione culturale vera e propria. Per loro scrisse un libro di filosofia, ma la realtà dei fatti è che per almeno metà delle pagine gli venne fuori un libro di avventure. Per quanto possa sembrarvi strano, il Discorso sul metodo ha una struttura narrativa precisa, da manuale. Il viaggio dell’eroe. Un ragazzo intellettualmente superdotato fa il giro del mondo per imparare tutto, e quando torna a casa scopre che non sa niente. Allora si chiude nella sua cameretta e sconfigge i suoi demoni. Da manuale, ve l’ho detto. Se pensate che sia una mia elucubrazione, allora sentite lui: «Proponendo io questo scritto solo come una storia, o se preferite come una favola (…) spero che sarà utile a qualcuno e a nessuno nocivo (…) ». Non è interessante? Il libro che fondò l’idea moderna di sapere, agli occhi di chi lo scrisse era fiction. Liquidati i preamboli, inizia praticamente con questa espressione: «Fin dall’infanzia sono stato allevato nello studio delle lettere…». Quasi Proust. Ah. Una volta ho chiesto alla mia professoressa di italiano dove cavolo Proust aveva preso quel modo di scrivere. Cioè, quella sontuosa capacità di srotolare sintassi per venti righe senza la minima fatica. I saggisti francesi del Sei e Settecento, mi ha risposto. Non ne avevo letto neanche uno, quindi non capii bene, ma come risposta mi piacque: in effetti saltava in un colpo la letteratura tutta, e mi spiegava come mai mi riuscisse impossibile dedurre da un Balzac o da un Flaubert il mestiere con cui lavorava Proust. Quadrava. Ma ho capito cosa esattamente la professoressa volesse dire solo quando ho letto Cartesio, il francese di Cartesio: dato che questa edizione Laterza è bilingue, lo potete fare anche voi. Un francese di un’eleganza e di un virtuosismo che incantano (non sto dicendo che la traduzione non è bella, lo è, dico solo che il suono del francese è violoncello, e quindi diverso da quello dell’italiano, che è violino. Quanto a Proust, suonava la viola da gamba). Così non è nemmeno poi così importante che capiate la riflessione filosofica. Un libro come questo si può leggere anche solo per il piacere della bellezza pura e semplice. E per alcune, tante, perle. A un certo punto se la prende con gli eruditi e il loro modo di mettere giù le cose, oscuro e arcigno. Non gli andava che quei sapienti si prendessero gioco dei lettori, molto migliori di loro. Lo disse in tre righe: «Mi sembrano come un cieco che per battersi senza svantaggio con un vedente l’avesse fatto venire nel fondo di un sotterraneo molto oscuro». Stesi. Come si sa, lui era per un pensiero capace di idee chiare e distinte. La limpidezza, e una qualche forma di geniale semplificazione, erano quel che lui intendeva per intelligenza: con sublime coerenza scriveva frasi come queste: «Ho sempre avuto un immenso desiderio di imparare a distinguere il vero dal falso per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere sicuro nel cammino della vita». Limpido, appassionato, esatto. Una lezione. A un certo punto sfiora il tema della gloria e del successo, che per uno che pensava di aver risolto tutti i problemi aperti del sapere era un tema in qualche modo inevitabile. Al proposito, Cartesio aveva idee molto prudenti ma determinate, che riuscì a stilizzare in una frase che mi è cara in ogni sua singola piega, e che mi è immensamente gradito copiare qui. «Benché io non nutra eccessivo amore per la gloria, o addirittura, se posso dirlo, la odii in quanto la giudico contraria alla tranquillità che apprezzo sopra ogni cosa, tuttavia non ho mai tentato di nascondere le mie azioni come se fossero delitti, né ho fatto uso di grandi precauzioni per restare sconosciuto: avrei creduto di far torto a me stesso, e, d’altronde, me ne sarebbe venuta una sorta di inquietudine che, torno a dire, sarebbe stata in contrasto con la perfetta tranquillità che io cerco».

Corriere 1.7.12
«Morire per Sagunto» Lungimiranza dei romani
di Luciano Canfora


L'osso duro nella conquista romana dell'Occidente fu la Spagna. Per conseguire il controllo completo o quasi della penisola, i romani impiegarono secoli: dal III a.C. alle campagne di Augusto. Né va dimenticato, quando si parla di conquista, che il controllo delle città, delle piazzeforti, delle vie di comunicazione, non significava ancora il controllo totale del Paese: teatro di una risorgente, inesauribile guerriglia. Nemmeno la feroce distruzione di Numanzia, al termine di un decennale conflitto (143-133 a.C.), valse a fiaccare quel popolo. I nomi e le vicende di Viriato e di Sertorio simboleggiano una capacità di resistenza di cui ancora millenni dopo fece esperienza (senza imparare del tutto la lezione) il Bonaparte.
Alla metà del III secolo a.C., la maggior parte della penisola iberica che affaccia sul Mediterraneo era sotto controllo cartaginese. Sagunto, città e piazzaforte distante pochissimi chilometri dalla costa mediterranea, segnava, per un certo tempo, il confine tra la zona di influenza cartaginese e quella romana. Antichi scienziati come Strabone e Plinio strologavano intorno alla possibile origine greca di quel toponimo.
Nella grande politica, Sagunto svolse allora un ruolo. Ben prima che Annibale fosse eletto stratego (221 a.C.), Sagunto era in rapporto di amicizia con Roma. Nel 220, la repubblica romana inviò una ambasceria ad Annibale che intimava al neocomandante di non interferire negli affari interni della città, favorendo, con la pressione militare, il rientro di esuli filo-cartaginesi. Per tutta risposta, Annibale mise l'assedio e Sagunto capitolò nel novembre 219. Roma non si mosse con prontezza al soccorso della città, che pure costituiva il suo avamposto. Non era pronta a un secondo conflitto con Cartagine. Quando però Annibale varcò il fiume Ebro, l'esercito romano si mosse al comando dei due Scipioni e Sagunto fu riconquistata e ricostruita. Così incominciava la nuova e lunghissima guerra romano-cartaginese, a poco più di vent'anni dalla fine del precedente conflitto. «Morire per Sagunto?»: a questa domanda il governo della repubblica romana rispose con maggiore lungimiranza che non le cancellerie europee all'analogo, provocatorio quesito, «morire per Danzica?».

Corriere Salute 1.7.12
Perché si dice che il collerico è una persona «biliosa»
di Armando Torno


Il collerico è sempre una creatura interessante, soprattutto se non rappresentiamo l'oggetto delle sue attenzioni. Lo è per lo psicologo che ne registra la labilità emotiva e lo è per la caratteriologia. René Le Senne, che nel 1945 pubblicò un autorevole trattato su tale materia, ci assicura che il soggetto in questione è denotato dai seguenti tratti: attività, emotività, primarietà. Qualcuno, a dire il vero, preferisce le soluzioni antiche per individuare un collerico. Per esempio, se si riaprono i testi di Ippocrate — il medico greco che s'interessava alle cause naturali delle malattie e attribuiva solo alla Natura il potere di guarirle — si scopre che il povero paziente soffrirebbe di un eccesso di bile nel sangue. Non è così semplice o scontata la sua spiegazione. E poi occorre stabilire di quale colore sia questa dannata bile. Ippocrate aveva cercato di comprendere la natura umana attraverso quattro umori base, ovvero bile nera, gialla, flegma (ciò che è prodotto dalle mucose nelle vie respiratorie) e sangue. Il buon funzionamento di un organismo dipendeva dall'equilibrio che si instaurava. Ma la sua, oltre a essere una teoria eziologica della malattia, consentiva agli umori di gettare luce sulla personalità: l'eccesso di uno dei quattro avrebbe condizionato carattere, temperamento e la cosiddetta «complessione». Il malinconico, per esempio, soffre di sovrabbondanza di bile nera (si presenta magro, debole, pallido, sostanzialmente triste) ; il collerico, invece, denuncia un eccesso di bile gialla. Anch'egli è magro, ma è altresì irascibile, permaloso, a volte è colto da generosità, sovente diventa superbo. La teoria delle passioni era all'inizio, ma se un collerico si fosse presentato a Platone, ne avrebbe sentite di tutti i generi passando tra i diversi suoi dialoghi, dal Fedro al Timeo. Forse avrebbe fatto meglio a presentarsi ad Aristotele che, tra l'altro, oltre ad avere difeso la collera, gli avrebbe ricordato il termine orgé. Di cosa si tratta? Semplicemente dell'agitazione che gonfia il cuore, il sentimento o la passione, in particolare l'irritazione. È complementare, per taluni aspetti, a thumos, il soffio della vita, il muscolo cardiaco come sede delle passioni, in particolare di coraggio e collera. Ma senza entrare nelle questioni anatomiche, Seneca avrebbe risposto — come ha scritto nel De ira — che alla collera sono da attribuire i delitti più gravi, dall'omicidio alle lotte civili, dai dissensi familiari alle guerre, anche se essa resta «il desiderio, non la possibilità concreta di infliggere un castigo». Tutti in quel tempo, ad Atene e a Roma, ricordavano l'ira di Achille, che si legge ancora oggi sui banchi di scuola quando si apre l'Iliade di Omero, e allora come ai nostri giorni ci si rende conto che essa ha determinato gran parte dell'andamento del celebre poema.
Non tutte le collere sono uguali e, come osserva con arguzia Gisèle Mathieu-Castellani che ha appena pubblicato un Éloge de la colère dall'antichità al Rinascimento (Hermann Éditeurs, pp. 452, 35), «merita che noi la consideriamo come una risposta ragionevole, una reazione tutta naturale a un atto di ingiustizia che non possiamo tollerare con il pretesto di preservare la nostra tranquillità egoista». Gli effetti dello squilibrio degli umori a volte lo accettiamo, altre volte ci provoca orrore. Due esempi? Il più classico dei collerici che apprezziamo è Gesù, così come il Vangelo di Giovanni lo descrive in un momento in cui ricorre alle mani: «Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato"» (2, 13-16). L'altro, che non è facile condividere, è l'uccisione dello zar Paolo I. Prendiamo in prestito la descrizione lasciataci da Maurice Paléologue nel suo saggio dedicato al figlio dell'assassinato, il vincitore di Napoleone Alessandro I (Mondadori 1938): «Lo zar non sospetta nulla. È nel primo sonno, quando un rumore formidabile, una visione spaventosa lo buttano giù dal letto. I congiurati, dopo aver sfondato la porta della sua stanza, si precipitano, la più parte ubriachi, sul disgraziato sovrano, gli squarciano il cranio e il petto a colpi di spada, a pugni, a calci, e, finalmente, lo strangolano con una sciarpa. E poiché il cadavere, a tratti, sembra rabbrividire ancora, uno degli assassini gli salta sul ventre a piè pari, "per fargli uscir l'anima"». Era impazzito, ma non meritava un simile trattamento. La collera che alimentò con le sue follie, va comunque ricordato, aveva superato ogni immaginazione.
Che aggiungere? L'ira di Gesù è buona e quella dei congiurati russi no? Mentre ogni lettore cercherà la sua risposta, ci limitiamo a notare che, partendo proprio dai testi antichi e di Aristotele in particolare, i teologi gesuiti — quelli che stavano sullo stomaco a Blaise Pascal — riuscirono a stabilire che l'ira, o collera che la si voglia intendere, al pari di tutte le passioni non ha una moralità propria e può essere diretta a compiere sia il bene che il male. Ovviamente ci fu qualcuno che notò come, intesa quale sentimento, si possa trasformare in desiderio di vendetta. Ma i figli di Sant'Ignazio risposero che proprio questo desiderio, se rimane tale, non ha ancora ragione di peccato.

Corriere Salute 1.7.12
Dalla Francia l'elogio del caratteraccio


Le riflessioni sulla collera occupano tutta la storia del pensiero. Il libro di Gisèle Mathieu-Castellani, Éloge de la colère, dopo aver esaminato i filosofi greci, Ippocrate e Galeno (che non si occupò particolarmente della questione), arriva a Michel de Montaigne e ad Agrippa d'Aubigné, senza dimenticare Petrarca. Pone il suo limite alla fine del Rinascimento. È ancora il tempo in cui Francesco Bacone, pur nemico della logica di Aristotele, nei suoi Apoftegmi può attribuire alla regina Elisabetta I questa massima: «L'ira rende intelligenti uomini stupidi, ma li mantiene poveri». Se nel Medioevo questa forte emozione veniva intesa quasi come un habitus della malvagità, che contrasta con la naturale bontà dell'uomo, dopo il Concilio di Trento si cercò di analizzare anche in termini teologici tale passione. Ancora Carton de Wiart nel Tractatus de peccatis et vitis in genere (la quinta edizione è del 1932), riprendendo temi tradizionali, aiuta il lettore a comprendere che i moti dell'ira il più delle volte sono venialmente peccaminosi, in quanto imperfettamente deliberati. Nel XVIII secolo l'argomento, fino ad allora oggetto soprattutto di analisi letterarie e teologiche, comincia a interessare la scienza. O almeno si affronta con metodologia diversa.

Corriere Salute 1.7.12
Uno sbilanciamento tra le attività nervose della corteccia prefrontale e del sistema limbico
di Danilo di Diodoro


Quando ci si lascia sopraffare dalla collera, accompagnata talora da aggressione verbale e fisica, vuol dire che c'è uno sbilanciamento tra il sistema di freni inibitori, situati nella corteccia cerebrale prefrontale, e il motore ancestrale dell'aggressività, collocato nella profonda area cerebrale del sistema limbico.
In chi soffre di certi disturbi psichici, come il disturbo borderline di personalità, c'è una predisposizione all'aggressività, proprio per il malfunzionamento del sistema di controllo della corteccia prefrontale. Studi di visualizzazione cerebrale hanno dimostrato una riduzione di volume di questa corteccia in pazienti con personalità violenta. «Ma anche i lobi temporali possono essere implicati nella suscettibilità all'aggressione» dice Larry Siever del Department of Psychiatry della Mount Sinai School of Medicine di New York, in una recente revisione sulla neurobiologia dell'aggressione e della violenza pubblicata sull'American Journal of Psychiatry, «visto il comportamento aggressivo di pazienti con tumori del lobo temporale». L'attivazione dei circuiti nervosi della reazione di collera dipende da specifici neurotrasmettitori, come la serotonina. «Anomalie serotoninergiche risultano associate a impulsi aggressivi in vari soggetti, inclusi pazienti psichiatrici, criminali e soggetti sani» dice Gabriella Gobbi, del Department of Psychiatry della McGill University di Montreal, coautrice di un articolo su questo tema appena pubblicato sul Journal of Clinical Psychopharmacology.
Un dato dal quale si è partiti per contenere l'aggressività, ad esempio con farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina o di antipsicotici. «In particolare antipsicotici atipici, molti dei quali agiscono sui recettori 5-HT2A, che giocano un ruolo importante nella neurobiologia dell'aggressione» dice ancora Gobbi. Anche dopamina, noradrenalina acetilcolina e glutammato sono coinvolti, così come vasopressina e ossitocina. Ma i meccanismi sono complessi e non del tutto conosciuti, quindi c'è bisogno di ulteriori ricerche. «Per stabilire non solo come funziona il circuito emozionale» conclude l'esperta «e quali aree corticali e sottocorticali sono coinvolte, ma anche per chiarire il ruolo dei differenti sistemi di neurotrasmettitori in questo circuito».

La Stampa 1.7.12
Viva Marx, viva Gramsci viva Gargantua
Una storia politica e sociale delle Feste dell’Unità: tutto cominciò nel ’45 con la “scampagnata” di Togliatti
di Mirella Serri


Il cibo è sempre stato al centro delle Feste dell’Unità. Già nel meeting che si tenne nel 1960 a Ferrara si annotarono un milione di cappellaci, 26 quintali di lasagne, 20 quintali di anguille, 30 quintali di salama da sugo Il biglietto di partecipazione alla «grande scampagnata de l’Unità» che si tenne a Mariano Comense il 2 settembre 1945: una sorta di incunabolo dell’annuale festa organizzata dal Pci (ora Festa democratica)
Un milione di cappellacci, 26 quintali di lasagne, 20 di anguille, 30 di salama da sugo. È lo spuntino di Gargantua e Pantagruel? Macché. A far fuori tutto questo ben di Dio sono migliaia di persone il cui assalto a cosciotti e piadine viene letto in chiave politica: «È povera gente che di rado si mette a tavola e vuol trattarsi in modo eccezionale». Come dire che questa non è la festa del cibo ma il cibo della Festa dell’Unità. Siamo a Ferrara e sono passati 15 anni da quando ha visto la luce il primo meeting organizzato a Mariano Comense nel settembre del 1945 dal Partito comunista italiano. Ma che differenza! Quella che Togliatti aveva definito la scampagnata «gioconda del nostro popolo» era un bivacco con piè fritta e maccheroni.
Da quel lontano esordio la vita della Penisola è stata segnata da un lungo serpentone di Feste dell’Unità, tra sagra paesana e salotto buono della cultura italiana, tra balera e musica live, effluvi di salsicce, dibattiti sulla scuola e baracchini equi e solidali. Proprio in questi giorni la kermesse ricomincia. Ma quali sono le ragioni della longevità di queste manifestazioni che un tempo prendevano il nome dal giornale fondato da Antonio Gramsci e che, dal 2008, si chiamano democratiche? Si tratta di quasi un settantennio di ininterrotti successi e li illustra Anna Tonelli nel bel libro Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità (1945-2011) (a giorni in uscita per Laterza). Qual è dunque la peculiarità di questi meeting? È un rituale laico, un cerimoniale dove gli officianti sono militanti e simpatizzanti. Che sono però impegnati a mantenere un difficile equilibrio tra passato e presente, tra la voglia di avere la stessa identità e la necessità di non perdere il contatto con gusti e opinioni dei fruitori-elettori in continua evoluzione.
Nei primi tempi, paradossalmente, nelle assise di massa la politica non giocava alcun ruolo. Il modello della Festa era mutuato dalla Rivoluzione francese e gli italiani si gustavano la «serena felicità» senza la presenza di politici. Dal 1947 Togliatti e gli altri leader diventano però i grandi protagonisti. È la guerra fredda che detta le sue leggi: non si balla più l’americano boogie-woogie ma si lascia spazio solo a nazionalpopolari «valzerini pizzicati, mazurche saltate». Ben presto si incappa in quella che diventerà una costante preoccupazione. Le Feste connotate dalla loro liturgia, religione dei militanti senza chiesa, sono legate agli stereotipi del passato. E continuamente si teme di restare appiccicati a quello che è stato, di essere antiquati. Questo dilemma segnerà l’intera storia degli appuntamenti sotto il rosso vessillo. Allora ecco che ci si piega a Sanremo. In nome del «valore politico del ballo» la canzone moderna comincerà a echeggiare tra gli stand con Domenico Modugno, Gianni Morandi e il Molleggiato che conquista le folle.
Il dubbio se affiancare al liscio il rock è altamente simbolico: ci pensano poi i capelloni con la lunga coiffure a disgustare i militanti che preferiscono «chi si presenta con il collo pulito». Ma quello di cui si diffida alle Feste in realtà è la novità. I ragazzi a Bologna nel ’68 protestano: «Vogliamo contare di più». È d’accordo anche il gentil sesso: le ragazze vengono utilizzate per pubblicizzare la stampa di partito. Indossano grembiulini di carta confezionati con le pagine dell’ Unità o dell’ Avanti!. Partecipano all’elezione di «Miss Stellina» oppure stanno tra pentole e fornelli. I compagni, afferma la notabile del Pci Adriana Seroni, le fanciulle le vorrebbero tutte con «la testa di Lenin e il corpo di Marilyn Monroe».
Ad aprire le porte alle esigenze femminili sarà la Festa dell’Unità dell’estate dell’85. Sono passati circa vent’anni dalle prime richieste delle donne di non essere solo gli angeli della cucina. Fin dagli inizi per mantenere alti gli obiettivi pedagogici ci sono gli intellettuali: Eduardo De Filippo mette in scena le commedie, c’è il teatro di Brecht e il cinema neorealista di Visconti a cui poi negli anni si aggiungeranno Camilleri, Fo, Benigni e tanti altri. All’inizio del Settanta le adunate raggiungono il loro acme con un incremento della diffusione del 62 per cento. I nuovi trend fanno irruzione: 30 mila metallari invadono la rassegna di Bologna «sotto gli occhi stupiti dei compagni più attempati», come scrive Anna Tonelli; Jovanotti propone un rap per «far ballare anche chi è abituato solo alle polche» e Vasco chiuderà l’ultima Festa del Novecento con 30 mila spettatori.
Com’è cambiata oggi la kermesse? Una novità radicale si affaccia, c’è tanta nostalgia della politica di un tempo. Aumentano i giovani, diminuiscono gli operai, crescono gli insegnanti e gli impiegati: lo afferma un sondaggio dell’Ipsos svolto su commissione del Pd. Solo il 7 per cento degli spettatori a Genova, il 17 a Milano e il 20 a Firenze, per esempio, dice di gradire i dibattiti e gli spettacoli, mentre la maggioranza dichiara di partecipare soprattutto «per mangiare e per divertirsi». Però ci si lamenta anche che il commercio fa la parte del leone e che conquista tanti, troppi spazi. Un consistente 21 per cento vorrebbe infatti, dopo tante novità, tornare al passato. A una Festa (democratica) in cui i politici facciano poca passerella e dove la vera discussione possa avere il sopravvento.