lunedì 2 luglio 2012

l’Unità 2.7.12
Basta tagli alla Tremonti
I sindacati: basta accanirsi sul pubblico impiego
Pronti alla mobilitazione contro l’ennesima sforbiciata a organici e servizi. Oggi corteo a Napoli
di Giuseppe Vespo


In vista dell’incontro di domani sulla spending review e sui tagli agli statali, i confederali si ritrovano a Napoli per denunciare lo stato precario di salute dell’economia campana.
Siamo il «Sud nel Sud»,dice il segretario partenopeo della Cgil, Federico Libertino: «Viviamo una crisi senza precedenti, con numeri da brivido in termini di disoccupazione e cassa integrazione. La Campania ha bisogno di investimenti pubblici e privati».
Sul palco di piazza Matteotti, dove si fermerà la manifestazione partita da piazza Mancini, saliranno Camusso, Bonanni, Angeletti e Centrella, mentre lungo il corteo sono attesi il sindaco De Magistris e altri rappresentanti delle istituzioni. Il titolo della giornata è «La Campania e la crisi produttiva. Lavoro, equità, legalità», e per seguirla arriveranno a Napoli oltre trecento pullman dalle cinque province della regione.
Contemporaneamente, a Roma si terrà quello che Susanna Camusso ha definito «il gabinetto di guerra», riferendosi alla riunione dei ministri economici del governo Monti che dovranno discutere di spending review, tagli alla sanità e agli statali. Un pacchetto che dovrebbe permettere al governo di raggranellare fino a nove miliardi di euro e di evitare in questo modo l’aumento di due punti dell’Iva previsto per ottobre (a gennaio comunque l’imposta sui consumi salirà di un punto)
L’eventualità che il governo intervenga con nuovi tagli sul pubblico impiego mette in allarme i sindacati.
Raffaele Bonanni annuncia una mobilitazione immediata e «a tappeto» in caso di una sforbiciata all’organico e alle dotazioni degli statali. «Vogliamo collaborare alla condizione che sia tutto trasparente e che ci sia davvero l'occasione per dimagrire le troppe istituzioni e le troppe amministrazioni che fanno il bel pasto della politica», ha detto ieri. La Cisl, ha aggiunto, teme che alla riunione ci sarà «la solita storia dei tagli lineari senza senso»e per questo chiede un «piano industriale». «Dobbiamo vedere ha sostenuto ancora che missione si intende raggiungere».
I TAGLI DEL PASSATO
Il nodo sui tagli verrà sciolto all’incontro di domani, al quale prenderanno parte governo, sindacati e Regioni. Ma quella anticipata in questi giorni dai giornali, «sarebbe la quinta iniqua manovra contro i lavoratori del pubblico impiego», aggiungono dalla Cgil.
Il riferimento del sindacalista è alle finanziarie che dal 2008 si sono abbattute sugli statali. «Ha iniziato Tremonti ricorda Gentile - con il blocco del turnover (nuove assunzioni dopo i pensionamenti, ndr), le malattie e il salario accessorio. L’anno dopo è stata tolta ogni speranza di stabilizzazione ai precari, mentre nel 2010 è arrivato il blocco dei contratti da parte di Brunetta e l’anno scorso si è deciso di dilazionare nel tempo il Tfr e di cambiare le norme sulla mobilità obbligatoria per motivi finanziari».
La Cgil teme che il governo si presenti al confronto con un nuovo piano di tagli già definito.
Che anche stavolta, come è avvenuto per le pensioni non ci sia spazio per la trattativa con le parti sociali, alle quali verrebbe offerto un pacchetto «prendere o lasciare».
E a sondare gli umori di chi siederà domani a tavolo di palazzo Chigi, la preoccupazione ulteriore è che il pacchetto possa essere molto più corposo di quello anticipato dai quotidiani.
Cgil, Cisl, Uil e Ugl, vorrebbero avere invece la possibilità di contribuire con le loro proposte alla riorganizzazione del pubblico impiego e alla revisione della spesa (spending review).
Se ne avessero l’opportunità suggerirebbero di cominciare tagliando le consulenze affidate dalle diverse amministrazioni, per poi passare alla effettiva ripartizione delle competenze tra gli enti locali e lo Stato così come previsto dalla riforma del titolo Quinto della Costituzione.

Repubblica 2.7.12
Ora scatta l’allarme dei partiti sui tagli "Saremo noi a pagare in campagna elettorale"
l leader pd: Monti tratti con le parti sociali. Ma il premier tira dritto
di Francesco Bei e Alberto D’Argenio


Forse già giovedì il consiglio dei ministri per approvare i risparmi
Il presidente del consiglio parlerà con i segretari della maggioranza per spiegare le misure

ROMA - Pier Luigi Bersani, la scorsa settimana, lo ha detto chiaro e tondo a Monti. In colloquio riservato a palazzo Chigi Bersani ha piantato un paletto sulla spending review: «Presidente, ti sconsiglio di fare il Consiglio dei ministri lunedì. Non daresti il tempo ai sindacati di approfondire la materia. E se hai in mente tagli lineari, non concordati con le parti sociali, noi stavolta non ti possiamo coprire». Un analogo altolà è arrivato dal Pdl. Tanto che Fabrizio Cicchitto, premesso che «non sappiano nulla oltre quello che leggiamo sui giornali», mette in guardia il governo dal procedere con un colpo di mano: «Se pensano di arrivare in Parlamento con un pacchetto blindato e poi cavarsela con la fiducia, stavolta ballano davvero».
Il problema è che i partiti ormai sono in campagna elettorale. E la scure del governo sul Welfare, la Sanità e il pubblico impiego rischia di essere un costo troppo grande da pagare in vista del voto. Specie se sono vere le anticipazioni della vigilia. Oggi "Mr. Forbici", il consulente Enrico Bondi, consegnerà a Monti un pacchetto di tagli compreso tra i 9 e gli 11 miliardi. E l´obiettivo del premier, per coprire le spese del terremoto, gli esodati e, soprattutto, evitare l´aumento dell´Iva a ottobre, è di arrivare almeno a 9. Anche per costituire un margine di sicurezza nel caso i partiti e i sindacati si facessero troppo aggressivi nel percorso parlamentare dopo l´approvazione da parte del Consiglio dei ministri.
Nel governo c´è consapevolezza che «sarà dura», i partiti sono in tensione. E c´è anche fibrillazione nell´esecutivo con i ministri più colpiti - Salute, Esteri, Difesa, Giustizia - pronti ad alzare le barricate. Tanto che ieri, scherzando, a palazzo Chigi speravano nello stellone di Prandelli: «Se vince l´Italia per una settimana possiamo fare passare qualsiasi cosa». Quello che a molti nel governo non va giù è il fatto che la stretta finale venga decisa, come al solito, nelle chiuse stanze di via XX Settembre. Dal viceministro Vittorio Grilli e dal capo gabinetto dell´Economia, Vincenzo Fortunato. Lo ha confessato lo stesso Piero Giarda, autore di un corposo rapporto sulla spending review, a un capogruppo di maggioranza che nei giorni scorsi gli chiedeva qualche dettaglio sui tagli: «E lo chiedi a me? Noi ministri siamo ancora all´oscuro come voi».
Per superare le resistenze interne alla squadra di governo, oggi Monti ha convocato a palazzo Chigi una sorta di Consiglio dei ministri informale. Mentre domani ci sarà l´incontro decisivo, quello con i sindacati e gli imprenditori. Il premier ha deciso di tirare dritto, come sulla riforma delle pensioni: «Le parti sociali le informiamo, con loro non si tratta».
Quanto ai partiti, se sarà necessario Monti procederà a colloqui separati con i tre segretari di maggioranza. Un vertice "ABC" non è stato ancora fissato in agenda, ma giocoforza dall´entourage del premier ammettono che sarà necessario quantomeno informare i leader delle misure in arrivo. L´unico a sconsigliare Monti di procedere con queste consultazioni è stato Pier Ferdinando Casini. «Se ci convochi - è stato il "suggerimento" del leader centrista al premier - ciascuno di noi sarà obbligato a chiederti qualcosa. E non potremo uscirne a mani vuote. Meglio se il governo si prende la responsabilità di decidere». E comunque l´eventuale vertice di maggioranza verrebbe formalmente convocato per parlare del Consiglio europeo e della situazione economica alla luce dei risultati di Bruxelles. Poi ovviamente ci sarebbe il confronto sulla spending review.
Il Consiglio dei ministri per l´approvazione del decreto probabilmente sarà convocato giovedì, dopo che Monti avrà riferito in Parlamento sul summit Ue. Sempre che non slitti tutto alla prossima settimana. Il premier infatti ha fatto sapere di voler monitorare l´andamento dello spread che venerdì, sulla scia delle buone notizie arrivate da Bruxelles, si è abbassato di 50 punti. È chiaro che se dovesse confermarsi il trend positivo ci sarebbe un forte riverbero sugli interessi che l´Italia paga sul debito pubblico. Consentendo al governo di rivedere al ribasso l’importo dei tagli.
Ad ogni modo i ministri che lavorano sul dossier hanno già pronta la tattica per far approvare la manovra in tempi rapidi: «Minacceremo i parlamentari di lavorare tutto agosto, come si faceva ai tempi della Finanziaria. Alla fine il 22 dicembre veniva sempre chiusa per lo spauracchio degli onorevoli di perdersi le vacanze di Natale»

l’Unità 2.7.12
Intervista a Enrico Letta
«A Bruxelles c’è stato un chiaro avvicinamento tra il nostro premier e le tesi dei progressisti. Questo avrà conseguenze anche nel prossimo esecutivo»
«Il governo Bersani sarà in continuità con l’attuale»
«Un centrosinistra che abbia nel Pd il baricentro e che riconosca il ruolo di Casini e Vendola»
di Simone Collini


Del governo del dopo Monti Enrico Letta dice non solo che «avrà il Pd come perno» e Bersani come guida, ma anche che dovrà essere «in forte continuità» rispetto all’attuale esecutivo: «Continuità programmatica e anche di uomini», sottolinea il vicesegretario del Pd, facendo notare l’«avvicinamento tra Monti e le tesi dei progressisti europei» emerso in modo chiaro nel Consiglio europeo. Quanto alle forze che dovranno coalizzarsi, Letta insiste sul rapporto tra progressisti e moderati, apre a Vendola e chiude a Di Pietro: «Proprio in queste ore emerge in tutta chiarezza la contraddizione tra gli attacchi al Quirinale e il ruolo di Napolitano come massimo protagonista dell’Italia che vince a Bruxelles». Partiamo dalle conseguenze politiche del Consiglio europeo: nonostante le continue fibrillazioni del Pdl, il successo spazza via l’ipotesi di voto anticipato? «Il governo deve durare fino alla scadenza naturale della legislatura. Il dopo vertice è stato interpretato da tutti una sconfitta per il Pdl, che come testimoniano le parole sconnesse di Brunetta è ormai un’armata in rotta, e un successo per il Pd, che come dimostrano la serietà delle parole di Bersani e il fatto che nessuno nel partito le abbia messe in dubbio sarà il perno del prossimo governo».
Com’è da valutare il silenzio di Berlusconi?
«Berlusconi ha giocato un preciso ruolo in queste settimane, tentando di rientrare in gioco. E lo spauracchio di un suo possibile rientro ha terrorizzato i partner europei. Col vertice di Bruxelles Berlusconi, che si era messo in modo inquietante sulla scia di Grillo, è finito per sempre. Ora bisognerà vedere se ci sarà un’evoluzione verso un moderno centrodestra europeo, se Alfano saprà dare al suo partito un’impronta non antisistema».
Parlava di successo per il Pd, ma i risultati a Bruxelles li ha ottenuti Monti. «Intanto, le conseguenze politiche europee e italiane del vertice sono non solo molto significative e tutte a noi favorevoli sul lungo periodo, che è quel che ci interessa. È inoltre palese che c’è stato un avvicinamento tra le idee di Monti sul futuro dell’Ue e alcune idee forti dei progressisti europei. Decisivo è stato il rapporto Monti-Hollande. In più a Bruxelles è emersa in modo clamoroso la nostra bandiera, quella di Ciampi, di Prodi, quella che è stata la bandiera fondativa dell’Ulivo prima e del Pd poi. Una delle caratteristiche principali che differenzia noi dal resto del centrosinistra italiano è infatti che per noi l’interesse europeo vuol dire interesse italiano, e non c’è interesse italiano contrapposto o diverso dall’interesse europeista, che richiede un avanzamento dell’integrazione dell’Ue».
Anche se il rapporto con i partner europei, Germania in primis, non sempre ci ha fatto bene?
«L’Italia è un Paese dalla statualità debole, può vincere soltanto se c’è un’Europa forte e integrata. Con l’entrata in scena di Brasile, Cina, India è cambiato il peso specifico dei diversi Stati. E noi non abbiamo una dimensione tale da poter pensare che possiamo farcela da soli. Se oggi l’Italia è più forte è perché due italiani, Monti e Draghi, guidano i processi europei, attenti agli interessi comunitari e non a quelli di parte dell’Italia. Il successo di Monti è nato dal fatto che è stato visto al Consiglio europeo come una specie di surrogato di Barroso e Van Rompuy, non come il capo dell’Italia». Bastano le misure decise a Bruxelles ad uscire dalla crisi?
«Dalla crisi si esce con più Europa, mettendo insieme i debiti e facendo crescita. L’Ue ora può difendersi dalla speculazione facendo unione bancaria e dando alla Bce la vigilanza sulle banche, mentre con il meccanismo anti-spread comincia a mettere insieme il debito dell’Eurozona. Tutto questo è molto importante in vista del futuro ma non vuol dire, per quel che ci riguarda, che possiamo smettere di fare i compiti a casa. La forza di Monti è stata essere arrivato a Bruxelles avendo fatto i compiti a casa, a cominciare dalla riforma delle pensioni e quella del lavoro, avendo dimostrato ai tedeschi che abbiamo riforme rigorose quanto le loro, che non vogliamo chiedere a nessuno di pagare i nostri debiti». Parlava del ruolo decisivo che ha avuto il rapporto tra Monti e Hollande, leader socialista alla guida dell’Eliseo: a suo giudizio può significare qualcosa, guardando al futuro della politica italiana? «L’avvicinamento tra Monti e le tesi dei progressisti europei è segno che il governo che succederà a Monti sarà di centrosinistra, guidato dal segretario del Pd, e in forte continuità col governo Monti. Continuità programmatica e anche di uomini».
Come valuta il fatto che Casini abbia aperto all’ipotesi di una coalizione tra progressisti e moderati?
«Casini riconosce, pur venendo dalla famiglia europea in cui stanno anche Barroso e Berlusconi, che sono stati Monti e Hollande a guidare il processo e capisce che in Italia serve una cosa simile».
Con Vendola e senza Di Pietro, si sente dire nel Pd: perché?
«Il punto è che solo un processo riformatore può salvare l’Italia. Vendola in questi anni ha dimostrato di stare con i piedi dentro il disagio sociale del Paese e nello stesso tempo di essere capace di dare soluzioni di governo, guidando una regione importante come la Puglia. È quel che facciamo anche noi, anche Bersani in questi mesi è stato il paladino della fatica della società italiana mostrando un Pd capace di misurarsi con il governo dei processi in atto. Di Pietro a mio avviso non è invece in sintonia con questo tipo di obiettivo. Lo dimostra il suo approccio anti-istituzionale, aggressivo con il Capo dello Stato che è invece il vero architetto di questa operazione e in fondo è il vero vincitore del Consiglio europeo. È chiaro infatti che senza Napolitano non ci sarebbe stata l’Italia protagonista del Consiglio europeo».
A questo punto cosa deve fare il Pd?
«Costruire una proposta e mostrarla con chiarezza, lavorare a un centrosinistra che abbia nel Pd il baricentro, che riconosca in Casini e Vendola due protagonisti e che apra una fase costituente nella prossima legislatura. Ovviamente, questo deve passare attraverso una riforma della legge elettorale. Già entro questa settimana dobbiamo completare il successo di Bruxelles con un primo sì a un nuovo sistema di voto».
Pensa sia possibile? Dal Pdl arrivano segnali discordanti...
«È interesse di tutti andare alle prossime elezioni in una condizione di praticabilità di campo. Col Porcellum il campo sarebbe impraticabile e la prossima legislatura sarebbe disastrosa. Dobbiamo approvare in tempi rapidi una legge elettorale che garantisca stabilità al governo e ridia ai cittadini il diritto di scegliere i parlamentari».
Come pensate di trovare un accordo con l’Udc sui diritti civili: la discussione all’interno dello stesso Pd, ad esempio sulle unioni di fatto, non è facile...
«Il lavoro del comitato guidato da Rosy Bindi dimostra che su questi temi siamo molto più avanti di quanto si pensi. Oggi non siamo più nel 2007, una soluzione come i Dico passerebbe in modo molto più semplice nella società italiana. Ovviamente, a patto che nessuno usi questi argomenti per regolare conti di altro genere. E questo vale sia per i contrari che per i favorevoli».

Corriere 2.7.12
«Il Pd e Casini? Non capisco e non mi adeguo»
Vendola: «Distanza incolmabile se Bersani confermerà una strategia fatta di alleanze con Udc e Fini, e di continuità con Monti»
intervista di Alessandro Trocino


ROMA — A un'ora dalla finale, Nichi Vendola si può concedere «per la prima volta» il lusso di sentirsi «disinvoltamente patriottico, tifando una realtà che si fa beffe di un Paese miserabile, che fa fatica a smaltire le leggi razziste». I suoi due eroi sono Balotelli e Cassano. Inevitabile pensare alla nuova coppia Vendola-Di Pietro: «Se io sono Balotelli e Di Pietro è Cassano, non capisco D'Alema e Casini in che ruolo stiano. Per me stanno giocando una partita incomprensibile, che rischia di cantare il de profundis al centrosinistra».
Cominciamo da D'Alema. Nell'intervista al Corriere della Sera pone una domanda precisa: «Quali valori di sinistra vede Vendola in Di Pietro?».
«Domanda curiosa, se rivolta da chi in questi giorni vota assieme al Pdl lo sfregio dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, da chi si prepara a un'alleanza con Casini e Fini e prospetta un futuro non solo di continuità con Monti, ma che lo ingloba nell'orizzonte di governo. Sono allibito anche dall'entusiasmo quasi propagandistico di D'Alema per i presunti risultati di Bruxelles. Se Bersani dovesse confermare questo scenario strategico, la distanza tra il mio partito e il Pd diventerebbe incolmabile. Per ora, per fortuna, sono solo interviste».
Anche qualche elettore di sinistra, D'Alema a parte, si chiede che c'azzecca Di Pietro con la sinistra radicale. Lui si è sempre dichiarato liberale e l'Idv aderisce all'internazionale liberaldemocratica.
«Ma Casini è iscritto nel gruppo della Merkel, no? E allora? Io non ho guardato l'Europa per scegliere i miei alleati. Vorrei ricordare che con Idv e Pd abbiamo vinto le amministrative insieme».
Stupisce però la scelta di Di Pietro come alleato preferenziale. L'Idv che vota, assieme alla Lega, contro il decreto svuota carceri non è esattamente di sinistra.
«Se la domanda è se ci sono differenze politiche con Di Pietro, la risposta è: ovviamente sì. Mi fate queste domande proprio mentre il Pd vota vere e proprie controriforme, le riforme presidenziali, previdenziali e sul mercato del lavoro».
E i continui attacchi al Quirinale?
«Ho visto che gli auguri che ha fatto a Napolitano non hanno avuto grande successo sulla stampa. La verità è che c'è l'interesse a enfatizzare il discolo Di Pietro e offrirlo in un rito sacrificale per celebrare l'arrivo di Casini. E lo si fa proprio nel giorno in cui Sergio Marchionne, con un classismo irresponsabile, mostra totale insofferenza rispetto alle leggi e alla convivenza democratica».
Udc e Idv appaiono al momento antitetiche. Di Pietro spiega che «Casini è il carnefice del centrosinistra» e che dovrebbe essere accusato penalmente di concorso nel reato per essere stato alleato a lungo con Berlusconi.
«Ma è un'intervista vecchia. Questa contrapposizione è utile per costruire una coalizione neomoderata, sponsorizzata dai grandi gruppi editoriali. Alla quale noi ci dovremmo aggregare in maniera residuale e gregaria».
Il che non avverrà, pare di capire.
«Parafrasando il comico, non capisco e non mi adeguo. Vorrei solo essere ascoltato: mi sembra che chi ha un pensiero minimamente divergente non rischia l'olio di ricino, ma la quarantena mediatica e politica. Chiedo: c'è un centrosinistra? Quali sono i valori e i programmi? Io non ho pregiudiziali verso un allargamento: il centrosinistra discuta con i moderati. Ma neanche Di Pietro ne ha».
Le posizioni verso il governo Monti rendono inconciliabili voi e il Pd. Eppure è noto il sostegno all'esecutivo.
«Sì, ma stupisce il passaggio dal temporaneo all'eternità, l'eccezione che si fa norma, l'emergenza che diventa regime».
Se saltasse l'alleanza con il Pd, che farebbe Sel?
«Lavoreremmo per una coalizione di governo alternativa, che capovolga le politiche liberiste. C'è chi pensa che in Italia ci sia stata una lunga storia di buonismo sociale. Io dico, scherzando, che sono per un governo di buonismo sociale. Ma bisogna rendersi conto che il welfare è il veicolo fondamentale per portare il Paese fuori dalla crisi».

Repubblica 2.7.12
I dipietristi rispondono al leader centrista
Fioroni: l’ex pm è fuori dai nostri orizzonti, Vendola decida cosa fare
Il Pdl attacca Casini e il Pd: siete arroganti
I Democratici confermano il patto con l´Udc
di Silvio Buzzanca


Storace: "Abc sosterranno Monti dopo le elezioni. Abbiano il coraggio di annunciarlo"

ROMA - «Noi, talora anche autocriticamente, abbiamo sempre pensato che l´arroganza è una cattiva consigliera, ancor di più la sottovalutazione dell´avversario o della controparte che dir si voglia». Fabrizio Cicchitto non ha gradito l´intervista di Pier Ferdinando Casini a Repubblica, e quella di Massimo D´Alema al Corriere, sull´appoggio al governo Monti e le future alleanze. E così gli ricorda che i loro «sono prodotti assai sofisticati ed elaborati, anche se macchiati da qualche battuta sprezzante». Ma chiede il capogruppo del Pdl alla Camera: «Cosa succederebbe, se, magari senza preavviso, tutti i voti del Pdl diventassero di un bel rosso scarlatto». Cioè contrari al governo.
Secondo Cicchitto, Casini e D´Alema non hanno fatto un bel servizio a Monti. «Perché i problemi da affrontare sono ancora assai difficili e spinosi. Ciò diciamo al netto dei parziali risultati positivi di Bruxelles che richiedono riflessioni assai attente sulle loro luci, le loro ombre e i molti problemi lasciati aperti». All´attacco della coppia Udc-Pd va anche Daniele Capezzone. «Altri protagonisti della vita politica italiana puntano sui tatticismi e sul posizionamento verso il 2013, addirittura dedicandosi con anticipo a organigrammi e attribuzione di incarichi. Il Pdl farà bene ad avere un approccio più rivolto ai contenuti, ai temi veri, all´agenda dei cittadini», dice il portavoce del Pdl.
Le interviste suscitano consenso all´ipotetica futura alleanza. «Con Pd e Udc torniamo allo schema classico: il centro-sinistra all´italiana», commenta il centrista Enzo Carra. E Beppe Fioroni, ex ministro democratico aggiunge: «Di Pietro che cita l´articolo 110 del codice penale per Casini e i moderati merita una risposta netta: mai più con noi, non c´è possibilità e Vendola scelga».
Il dibattito nel Pd però è aperto. Vincenzo Vita, senatore democratico dice: «È evidente che Pd, Sel e Idv fanno parte di uno stesso universo. È per questo irragionevole supporre di rompere l´unità del nostro mondo per inventare una fusione a freddo con l´Udc». Replica immediata del senatore, compagno di partito, Lucio D´Ubaldo: «Il senatore Vita si aggrappa a un´illusione. Il rapporto con l´Udc va oltre le sigle».
Ma dall´Idv, arriva una chiusura su queste prospettive politiche. «Noi chiediamo una alleanza di centrosinistra programmatica. Se poi altri vorranno stare in laboratorio e costruire qualcosa di virtuale lo facciano pure, poi ci sono sempre gli elettori che decidono», dice Felice Belisario, capogruppo al Senato. E Francesco Storace, leader della Destra, stuzzica "ABC": «Dite che Monti è un presidente eccezionale, che ha successo, che governa bene. Lo sosterrete - lo si capisce - dopo le elezioni. Abbiate coraggio, annunciatelo agli elettori prima del voto, non nascondete le vostre intenzioni agli italiani».

l’Unità 2.7.12
Il vertice di Bruxelles porta consensi a Monti
Ora si attende meno rigore e più welfare
di Carlo Buttaroni


Il compromesso europeo ridà fiducia agli italiani

Questa volta la buona notizia che arriva dai mercati è che la politica può vincere la crisi. È solo l’inizio, un piccolo passo, ma i segnali sono evidenti. L’intesa del Consiglio europeo sul fondo per calmierare lo spread, infatti, ha avuto immediate ripercussioni positive: è sceso il differenziale tra i titoli italiani e quelli tedeschi e i mercati hanno ripreso fiducia, facendo registrare risultati positivi in quasi tutte le borse del mondo.
Il risultato del vertice rende politicamente più forte Barack Obama il quale, dopo aver incassato la sentenza della Corte suprema che rende esecutiva la riforma del sistema sanitario varato nel 2010, segna un altro punto a suo favore in vista delle prossime elezioni presidenziali. L’accordo raggiunto dai leader del vecchio continente, infatti, dà ragione alle pressioni del Presidente Usa rendendo, nelle previsioni, più forte e veloce la ripresa americana. Anche in questo caso, i segnali non si sono fatti attendere, visto che il tasso di cambio euro-dollaro è subito cresciuto di 2 punti base.
Ma a Bruxelles succede di più: la politica sembra disegnare nuovi equilibri. Terminata la “liason politica” Sarkozy-Merkel, a causa della mancata rielezione del primo, nuove e più ampie convergenze si stanno concretizzando e tra i promotori troviamo proprio l’Italia, la Spagna e la nuova Francia di Hollande.
Mario Monti è stato giustamente indicato come il protagonista del vertice. Aveva le idee chiare e ha posto fin da subito le condizioni che hanno evitato l’ennesima risposta palliativa alla crisi. Il premier italiano ha indubbiamente portato a casa i risultati che si era ripromesso e non è certo un caso che i mercati italiani siano stati quelli che hanno fatto registrare le performance migliori. Un indirizzo quello dato da Monti rispetto al quale Spagna e Francia non potevano che dare il loro avvallo. Ed è proprio il nuovo corso di Hollande a spingere gli eventi in questa direzione, gettando il seme di un’Europa meno tecnica e più politica.
È questa la vera grande svolta che arriva da Bruxelles: dopo averci spiegato che la politica deve guardare i mercati, abbiamo scoperto che i mercati guardano la politica. E che il corso degli eventi può essere governato, per portare a una soluzione per il bene dell’Europa nel suo complesso.
Il risultato del vertice di Bruxelles nasce però qualche mese fa, con l’elezione di Hollande. Le elezioni presidenziali avevano assunto un significato che andava oltre i confini della Francia nel momento in cui Francois Hollande aveva denunciato con forza i limiti, i ritardi e i problemi dell’Europa diretta dall’asse Merkel-Sarkozy. Da allora, lo scenario del confronto tra Sarkozy e il suo sfidante è stata l’Europa. O meglio, l’Europa politica. Per Francois Hollande, si può sconfiggere la crisi solo se la politica europea è in grado di agire sulla stabilità dell’Euro, ma non da sola, bensì intervenendo anche sulla qualità dello sviluppo, rimettendo in equilibrio crescita, solidarietà e coesione sociale. Per il Presidente francese, la linea del rigore fiscale e i tagli alla spesa pubblica in nome dell’equilibrio di bilancio sono inefficaci e rischiano di spingere l’Europa ancora più in recessione. Facendosi portatore di queste idee, Hollande ha vinto le elezioni e, fin dal primo giorno, ha fatto capire che la Francia avrebbe voltato pagina. Il vertice europeo è stata la prima occasione utile per imprimere questa svolta, cercando alleati nei Paesi più vicini dal punto di vista economico, Italia e Spagna appunto, e forzando la partita fino alla rottura dell’asse franco-tedesco.
Da Hollande è giunta anche la spinta ad andare oltre i risultati del vertice, con l’obiettivo di arrivare all’unione fiscale e a un ministero del Tesoro comune che emetta debito e lo mutualizzi, realizzando così una vera politica economica europea. Obiettivi che riecheggiano nelle parole del presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, quando dice che in due giorni sono state prese decisioni impensabili solo fino a pochi mesi fa. Italia, Spagna e Francia. Paesi, questi, che così raddoppiano il successo facendo oltretutto retrocedere la Germania dalla sua posizione iniziale rispetto alla possibilità di accesso al fondo di salvataggio, subordinato ai pareri della troika Ue-Bce-Fmi.
Finora erano i tecnici a decidere sugli aiuti da concedere a uno Stato in base alla sua “virtuosità” economica e alla capacità di rimborso. D’ora in poi non sarà più così e, dopo l’esperienza greca, la parola tornerà alla politica.
E questa è la vera buona notizia. Perché a rendere più acuta la crisi è stata proprio l’assenza di una politica europea che favorisse la crescita, l’occupazione e la lotta alle disparità.
In questa delicata partita di equilibri e visioni che si è aperta a Bruxelles, l’Italia era di mano. E Monti ha giocato bene le sue carte. Colpisce, semmai, che la partita più politica ha visto come protagonista italiano un “tecnico”, seppur di alto livello come Mario Monti. Il premier, tra l’altro, ha esibito un colpo di gran classe e di raffinata sapienza comunicativa e politica, dichiarando che l’Italia non intende comunque avvalersi dello scudo anti-spread, smorzando sul nascere qualsiasi accenno riguardante presunti interessi specifici e conseguenti conflitti d’interesse del Paese. Nello stile, la distanza con il suo predecessore non potrebbe essere più ampia. E forse è anche per questo che la maggioranza relativa degli italiani continua a esprimere un giudizio positivo sul governo Monti, anche se la fiducia è in calo rispetto ai primi mesi del suo insediamento a Palazzo Chigi.
Il vertice di Bruxelles segna comunque il primo passaggio di un percorso, dove la politica sembra essere tornata protagonista delle scelte e intenzionata a determinare gli indirizzi di politica economica. Una buona partenza che adesso, però, occorre riempire di contenuti e coerenza con quanto annunciato.
Secondo uno studio della Cgia, le sofferenze bancarie delle imprese italiane hanno superato quest’anno gli 82 miliardi di euro, le insolvenze sono aumentate dell’11,9%, mentre l’erogazione dei prestiti ha continuato a scendere (-1,7%). Sono invece aumentate le segnalazioni di sospetto riciclaggio, legate a operazioni d’intermediazione finanziaria (+243,6%). Sul fronte lavoro, l’Istat registra un tasso di disoccupazione pari al 10,2%, con un incremento del 2,2% su base annua e con punte del 37% tra i giovani. Tra i lavoratori dipendenti, intanto, il potere reale d’acquisto diminuisce e sempre più famiglie vengono trascinate sotto la soglia di povertà.
Ora, si possono avviare le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare o diminuire l’iva, immettere nuove tasse, ma fino a quando non si deciderà d’investire su uno sviluppo di qualità sarà difficile uscire dalla crisi. Serve un cambio di visione. E il coraggio di perseguire strade nuove perché l’asprezza della crisi merita risposte forti in termini di rilancio di politiche attive per il lavoro, di difesa e valorizzazione del patrimonio industriale, di rafforzamento del sistema di welfare. Se questa ricetta vale in Francia e sembra affermarsi anche in Europa, perché in Italia non dovrebbe avere effetto?
C’è bisogno di ridare fiducia alle imprese attraverso investimenti che consentano di produrre meglio. C’è bisogno di “piani casa” che puntino a recuperare, costruendo sul costruito, anziché realizzare edifici ex novo. C’è bisogno di più infrastrutture sociali, più scuole, più trasporti pubblici e di ridisegnare un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. Questa sembra la strada tracciata in Europa dopo le elezioni francesi. Al successo del nuovo corso europeo ha contribuito, in maniera decisiva, anche l’Italia. Ora c’è da attendersi che anche nel nostro Paese siano introdotte quelle novità che sembrano annunciarsi nella nuova Europa nata da Bruxelles. Grosso modo, l’auspicio dello stesso Monti dopo il vertice europeo. Speriamo sia così perché, oltre l’Europa, ne uscirebbe rafforzata anche l’Italia.

Repubblica 2.7.12
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Iveco chiude 5 stabilimenti, a rischio 1100 posti di lavoro
di Paolo Griseri


TORINO - Mario Monti «ha fatto un capolavoro che può davvero cambiare lo scenario in Europa». Sergio Marchionne, ultimamente molto pessimista sulle prospettive del vecchio continente, sembra dare molto credito alle possibilità aperte dall´accordo di Bruxelles: «Con quella intesa abbiamo trovato la struttura necessaria a uscire dalla crisi», dice l´ad della Fiat a margine della presentazione del nuovo Stralis della Iveco.Non è al prima volta che il manager di Torino mostra di apprezzare la linea del governo tecnico. In questa occasione però è andato oltre: «Monti non è stato bravo, di più. Eravamo andati vicini a una situazione molto complicata. Non ce ne rendevamo conto o non volevamo rendercene conto, ma certo questo accordo è un fatto molto, molto positivo che fuga molte nubi. Credo che non abbiamo mai avuto in Italia qualcuno in grado di fare una cosa del genere». Troppo difficile resistere alla tentazione di spingere l´ad di Torino ad attaccare il governo di Berlino. Dai tempi della fallita scalata alla Opel, Marchionne è piuttosto avaro di giudizi positivi nei confronti dei tedeschi. Dunque Monti ha sconfitto la Merkel? Il manager dribbla l´insidia: «Sarebbe profondamente sbagliato metterla sul piano del tifo come se si trattasse di una partita di calcio. Abbiamo trovato un accordo che va bene per tutta l´Europa e che rispetta tutti. Metterla in termini di vincitori e vinti significherebbe entrare in una mentalità dannosa che potrebbe provocare reazioni pericolose».
In ogni caso l´accordo «dovrebbe consentire di investire con maggiore tranquillità in Europa». Parole importanti dette da un manager che fino a pochi giorni fa annunciava il taglio di 500 milioni di investimenti in Italia nel 2012 proprio a causa delle incertezze della zona euro. Gli effetti dell´intesa si faranno sentire comunque a medio termine. Nell´immediato l´ad della Fiat prevede ancora un anno difficile. «Per quanto riguarda il mercato dell´auto in Italia, il mese di giugno chiuderà con una diminuzione inferiore al venti per cento e superiore al dieci mentre per il 2012 la previsione è confermata a 1,4 milioni di pezzi». Un livello decisamente basso. Non migliori sono le prospettive del mercato dei camion. In occasione dell´ultimo modello dell´Iveco l´ad di Fiat industrial, Alfredo Altavilla ha confermato «il taglio di 5 stabilimenti entro l´anno in Germania, Austria e in Francia». Complessivamente verranno tagliati oltre mille posti di lavoro.
Al termine della conferenza stampa Marchionne ha assistito alla partita della nazionale durante la cena con i giornalisti. Trattenuta a stento la gioia della folta delegazione spagnola: il nuovo camion presentato ieri si produce infatti in uno stabilimento vicino a Madrid. Nella serata Marchionne ha parlato a lungo con Alberto Bombassei, titolare della Brembo e candidato della Fiat alla guida di Confindustria anche dopo l´uscita del Lingotto dall´organizzazione degli imprenditori italiani.

Repubblica 2.7.12
L’intesa Ue alla prova dei mercati
"Siete sempre il malato d’Europa" Usa scettici sulla rinascita italiana
Washington Post:"Produttività, evasione e corruzione i mali storici"
di Federico Rampini


"È un problema culturale: le parti peggiori dominano sulle aziende innovative"
Dalla nascita della moneta unica i tedeschi ci hanno sottratto quote nell´export globale

È l´Italia la grande malata dell´euro. Non basta un vertice europeo per curare il suo problema numero uno: un prolungato crollo di competitività verso la Germania. L´allarme viene dal Washington Post, e accentua lo scetticismo americano sugli esiti del summit di Bruxelles. Scudo anti-spread, aiuti alle banche spagnole non possono sanare gli squilibri strutturali. Il più grave è il "male italiano". A questo tema il quotidiano della capitale Usa dedica l´intera sezione economica con un titolo-shock: "It´s the culture, stupido". Rievoca il celebre slogan della campagna elettorale di Bill Clinton contro George Bush padre, la frase "It´s the economy, stupid" che invitava a concentrarsi sull´unico tema davvero decisivo.
In questo caso, il «modello culturale» italiano per il Washington Post è segnato dall´evasione fiscale record, la mancanza di spirito civico, il nepotismo che esclude la meritocrazia. Un insieme di "disvalori" che a loro volto sono alimentati dall´inefficienza dello Stato, la corruzione, il collasso della giustizia. Con quali conseguenze sulla produttività complessiva del paese? «L´Italia soffre per una crisi di produttività endemica - scrive il Washington Post - , il problema dura da così tanto tempo e ha effetti così profondi sull´economia, che mette in pericolo l´intero tessuto della vita nazionale». Le inefficienze di sistema sono esemplificate da un paradosso: gli italiani che hanno un posto, in media lavorano più di tutti i loro concorrenti: 1.744 ore all´anno contro le 1.705 degli americani, 1.480 in Francia, 1.411 in Germania. Ma la produttività reale di questo lavoro è rovesciata. Campioni mondiali di produttività sono gli Stati Uniti con 60,9 dollari all´ora, seguono Germania e Francia sopra quota 55, poi la Svezia a 52 e l´Inghilterra a 47,8. L´Italia è in fondo alla classifica, con 45 dollari di Pil per ogni ora lavorata. «E da anni l´Italia continua a perdere terreno. Le zone improduttive della sua economia si espandono, prevalgono sulle parti migliori». Questo spiega il dato più allarmante: dall´introduzione della moneta unica ad oggi, abbiamo perso il 30% di produttività nei confronti della Germania.
Visto dagli Stati Uniti, questo è il vero punto debole di tutta la costruzione europea. L´attenzione di recente si è concentrata su altri aspetti: sfiducia dei mercati, aumento degli spread. Le soluzioni adottate venerdì a Bruxelles hanno dato una risposta ad alcuni di quei problemi, con la promessa di interventi del fondo salva-Stati per acquistare bond spagnoli o italiani e mettere un tetto allo spread; nonché con l´impegno a ricapitalizzare direttamente le banche spagnole senza gravare sul debito pubblico di Madrid. Gli stessi osservatori americani sono rimasti positivamente sorpresi dal "decisionismo" del summit e ne hanno attribuito il merito in gran parte a Mario Monti. Ora però dagli Stati Uniti l´attenzione torna a concentrarsi sui "fondamentali". I saldi finanziari sono solo la spia e la risultante finale di problemi strutturali più profondi come l´inefficienza dello Stato. Se non si risolvono le cause, curare gli effetti e cioè i soli saldi finanziari non basta. Per gli americani «la madre di tutti gli squilibri» è proprio il divario di competitività illustrato dal Washington Post. Come possono convivere usando la stessa moneta, due nazioni tra le quali si scava un fosso così profondo di produttività? Se l´Italia ha perso la possibilità di svalutare, la Germania continuerà a sottrarci quote di mercati esteri, quindi la nostra industria e la nostra occupazione sono destinate a rattrappirsi ulteriormente. Con un ulteriore effetto perverso: crescerà ancora il peso dei settori improduttivi, la palla al piede dell´economia italiana. Gli Stati Uniti, avendo mercato unico e moneta unica da oltre due secoli, nonché un solo mercato del lavoro e un sistema politico anch´esso unificato, conoscono le dure regole dell´integrazione. Se la Louisiana non regge la crescita della produttività della California, non può svalutare un "dollaro della Louisiana". Perciò l´aggiustamento avviene in due forme: o la manodopera emigra in massa verso la California, oppure i salari crollano in Louisiana e la produttività sale, fino ad attirare investimenti che fanno risalire la competitività e il Pil locale. Più spesso accade un mix di queste due cose. Naturalmente c´è l´unione bancaria (una banca locale non teme un assalto agli sportelli: è assicurata da Washington) e c´è la solidarietà fiscale che trasferisce un minimo di aiuti dal centro alle periferie povere. Nulla funzionerebbe però senza una flessibilità interna che consente alla Louisiana di non essere eternamente una palla al piede della California. Sono questi meccanismi che appaiono inesistenti in Europa, e rendono meno assurda la resistenza di Angela Merkel, quando gli americani si calano nei suoi panni. L´assenza di questi ingredienti di base, resta agli occhi degli americani una debolezza che inficia la costruzione della moneta unica. Di qui lo scetticismo che si mescola al giudizio positivo sul summit di venerdì. Lo scudo anti-spread può dare un sollievo al Tesoro italiano, riducendo il costo del suo rifinanziamento. Ma se l´economia italiana non innesca un boom di produttività, come può essere sostenibile la sua permanenza nell´euro? Il Washington Post avverte che «l´Italia resta il numero due nella produzione industriale europea, grazie a migliaia di imprese efficienti e innovative; alcune delle sue regioni non temono confronti con Germania e Francia», e tuttavia le aree di eccellenza «sono troppo poche, su di esse gravano una cultura imprenditoriale arretrata e i costi delle inefficienze di sistema». Per cui sta diventando insopportabile «il fardello di quelle regioni e settori che sono al livello di Grecia e Portogallo».

Repubblica 2.7.12
E Bertone sbottò: mi dimetto. Il Papa: ora no
Vaticano, la mossa del segretario di Stato. Che però potrebbe restare fino al 2013, in attesa delle elezioni
di Marco Ansaldo


Per settimane, tra corvi e veleni, è rimasto sulla graticola. Poi l´incontro col pontefice. E la riconferma a tempo

«Santità, se le cose stanno così, allora mi tiro indietro». «No, non è il caso, né il momento. Tu resti lì». L´ufficio del Papa, dentro il Palazzo apostolico. Una decina di giorni fa. Uno davanti all´altro, con un tavolo fra loro, siedono Benedetto XVI e il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. È la settimana che prelude alla fine di giugno.
Sono i giorni più difficili per il cardinale piemontese. Bertone è appena tornato da una visita di cinque giorni in Polonia. Ma la bufera per il caso Vatileaks, i documenti diffusi sui media che rivelano una situazione di sofferenza all´interno del Vaticano, lo travolge. Il braccio destro del Pontefice lotta e decide di rilasciare al settimanale Famiglia Cristiana un´intervista in cui si difende e ribalta le accuse: «Io sono al centro della mischia. C´è chi vuole dividere il Papa dai cardinali». Ma i giornali, tutti i più importanti quotidiani italiani, lo danno per uscente e scrivono: «L´addio di Bertone è vicino». Il toto-successore impazza.
È qui che il segretario di Stato vaticano, furente in volto, sale a parlare da Joseph Ratzinger, per capire se i suoi giorni come numero due della Santa Sede siano a una svolta. Bertone compie la sua mossa quasi in modo provocatorio, sapendo che il pontefice non può accettare. E Benedetto, che gli vuole bene e lo ha come collaboratore da tanti anni, fin dai tempi in cui dirigeva l´ex Sant´Uffizio, decide di non sacrificarlo. Almeno, non per ora.
L´offerta delle dimissioni di Bertone al Papa è un copione già visto. Era accaduto anche a fine maggio, quando il ciclone dei Vatileaks aveva portato, in un corto circuito improvviso, prima al siluramento del presidente dello Ior, il professor Ettore Gotti Tedeschi, e il giorno dopo all´arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, accusato di essere il Corvo, cioè uno dei diffusori delle lettere. E il segretario di Stato, criticato in molte delle missive per la sua gestione di governo, aveva accarezzato l´idea di lasciare. Con Benedetto che però gli aveva fatto capire che non se ne parlava nemmeno. Lo stesso passo, in via formale, il cardinale lo aveva compiuto nel 2010, al compimento dei 75 anni, rimettendo il suo mandato nelle mani di Ratzinger, il quale lo aveva invece riconfermato, scrivendogli una lettera affettuosa che l´Osservatore Romano aveva poi riprodotto.
Eppure, l´ultima mossa del segretario di Stato appare in qualche modo strumentale. Il Papa non ha accettato, perché non vuole certo cambiare ora, sotto l´urto dei media. Significherebbe non solo piegarsi ai desideri dei Corvi che pressano il Vaticano, ma compiere un passo dirompente di fronte all´opinione pubblica internazionale. E tuttavia Ratzinger nelle sue certezze è scosso soprattutto da due fatti. La forte reazione degli arcivescovi stranieri (nei giorni scorsi confluiti a Roma per ricevere il pallio, la stola vescovile) contro il Segretario di Stato italiano. E la consultazione avvenuta nell´Appartamento papale sabato 23 giugno fra il Pontefice e cinque cardinali da lui considerati saggi: Ruini, Ouellet, Tauran, Tomko e Pell. Quest´ultimo soprattutto, eminenza australiana di riconosciuta esperienza, è stato inesorabile sulla necessità di un cambio di mano.
Benedetto ha però deciso di blindare Bertone. C´è, per il segretario di Stato, ancora lo spazio per una proroga. Terminato il colloquio con il Papa, infatti, il cardinale sostiene di poter rimanere anche nel 2013. E un motivo in effetti ci sarebbe: le elezioni italiane. Difficilmente la Santa Sede va a sostituire il segretario di Stato prima di conoscere il risultato del voto. E, a quel punto, la scelta potrebbe tener conto di chi ha vinto, e diventare così definitiva.

Repubblica 2.7.12
Parlano tutti la stessa lingua
Pronto l’avvicendamento Levada-Müller alla guida della Congregazione per la dottrina della fede
Torna un tedesco al Sant´Uffizio. Ratzinger promuove un fedelissimo


Un dicastero cruciale: Benedetto lo ha retto per 24 anni prima di succedere a Wojtyla
Settimana decisiva per la Santa Sede: mercoledì l´esame Ue sulle norme antiriciclaggio

CITTÀ DEL VATICANO - Tutto è pronto in Vaticano per la nomina da parte del Papa del tedesco Gerhard Ludwig Müller, arcivescovo di Ratisbona, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Cioè l´ex Sant´Uffizio, per ben 24 anni il dicastero retto dal cardinale Joseph Ratzinger, lasciato al momento della sua elezione al Soglio pontificio all´americano William Joseph Levada.
Una mossa che all´interno della Curia rivela molti significati: quello di riportare un tedesco al centro dello snodo fondamentale per il rispetto della dottrina, e quello di rinserrare le fila dei connazionali attorno al Papa, in un momento di difficoltà per il caso Vatileaks (L´Osservatore Romano titolava ieri a tutta pagina "Il dramma e la forza del Papato", mentre il suo direttore Giovanni Maria Vian ricordava in un editoriale siglato le accorate parole di Ratzinger cardinale sulla «sporcizia nella Chiesa»).
Müller è un fedelissimo di Benedetto XVI. Non solo ha preparato la sua visita a Ratisbona nel 2006 e in Germania lo scorso anno, ma è il curatore dell´Opera omnia del Pontefice teologo. E con lui diventano adesso molti i porporati di lingua tedesca che costituiscono la quinta colonna del Papa bavarese, in Curia e all´esterno. Perché oltre ai germanici Reinhard Marx (arcivescovo di Monaco, dunque anch´egli successore di Ratzinger in quella diocesi, e attuale presidente della Conferenza episcopale tedesca), all´anziano cardinale e storico Walter Brandmüller, al quasi imberbe porporato di Berlino (la più giovane eminenza attuale, con "soli" 55 anni) Rainer Maria Wölki, si aggiungono due grossi calibri: l´austriaco Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e lo svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l´Unità dei cristiani, in Vaticano confidenzialmente soprannominato «il cardinale con la doppia kappa». Senza contare l´influenza forte di uno dei migliori cervelli, ora in pensione ma sempre attivissimo, il porporato Walter Kasper.
Oggi si apre una settimana decisiva per la Santa Sede. Mercoledì si terrà l´esame dei valutatori europei sulle nuove norme anti-riciclaggio e per la trasparenza finanziaria. A Strasburgo l´organismo Moneyval, il comitato del Consiglio d´Europa incaricato di valutare i sistemi contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, esaminerà il dossier vaticano per giudicare l´adeguamento delle strutture finanziarie della Santa Sede agli standard internazionali. Un test delicato e molto atteso, e sul quale si prevede un giudizio tra luci e ombre ma non complessivamente negativo. Secondo indiscrezioni, gli esperti europei nella loro relazione avrebbero espresso una valutazione di «non conformità» o «parziale conformità» solo su 8 delle 49 «raccomandazioni» in tema di anti-riciclaggio. Dunque: non arrivando a 10 esiti negativi, il Vaticano, salvo modifiche dell´ultima ora, potrebbe essere promosso, o comunque non bocciato. Sarebbe il primo passo per l´ingresso nella "white list" dei Paesi virtuosi dell´Ocse.
(m. ans.)

La Stampa 2.7.12
Il paese delle donne che fanno paura alle cosche
Monasterace, dopo il sindaco nel mirino una consigliera
di Giulia Veltri


La lotta alla criminalità organizzata in Calabria cammina sempre più spesso sulle gambe delle donne. Amministratrici in prima linea, le prime a pagare sulla propria pelle la violenza e le prove di forza messe in atto da mani criminali.
E’ accaduto, ad esempio, a Clelia Raspa, una signora che nella vita fa il medico all’Asp di Locri ed è anche capogruppo di maggioranza al Comune di Monasterace, piccolo paesino sulla statale ionica in provincia di Reggio Calabria. Schierata, Clelia Raspa, a fianco di un’altra amministratrice donna, il sindaco Maria Carmela Lanzetta, che si era dimessa a marzo, proprio a seguito di una serie di intimidazioni, per poi decidere di rimanere in carica.
All’alba di sabato, la parte posteriore dell’Alfa Romeo Mito del capogruppo non c’era più, risucchiata dalle fiamme appiccate da qualcuno che è arrivato a pochi metri dall’abitazione della donna, ha appiccato il fuoco e se ne è andato indisturbato.
E così torna la paura nel paese in cui si sono precipitati qualche mese fa, subito dopo le dimissioni del sindaco Lanzetta, il ministro dell’Interno Cancellieri e il segretario nazionale del Pd Bersani. Anche sull’onda di questa catena di solidarietà e di vicinanza istituzionale, a marzo, la Lanzetta ha deciso di ritornare in sella al Comune. E da allora, suo malgrado, è diventata un simbolo dell’impegno civile in terre di illegalità. Le hanno distrutto la farmacia di famiglia e la sua auto è stata tempestata di proiettili e ieri ha trascorso tutta la giornata accanto all’amica e sostenitrice politica.
Nessun dubbio sul fatto che il destinatario finale dell’intimidazione fatta al capogruppo sia il sindaco: «E’ un regalo che hanno fatto a me – dice la Lanzetta – domani (oggi per chi legge, ndr) è una giornata speciale per il paese, perché ospitiamo Salvatore Settis (storico calabrese e direttore della Scuola Normale di Pisa) per la prestazione nazionale dei quaderni della Normale, dedicati per la prima volta agli scavi archeologici di Monasterace. Mi hanno voluto fare male un’altra volta – confessa lei che oggi vive sotto scorta – ma io provo ad andare avanti, finché posso, finché ce la faccio».
E’ difficile? «Sì certo che è difficile – risponde il sindaco – abbiamo avviato una serie di progetti con il ministero dell’Interno ma è il giorno dopo giorno che tempra e richiede tanto impegno. Le stanno provando tutte per convincermi a mollare».
In prima linea, le più esposte ma non sole in una quotidiana azione di resistenza alla criminalità organizzata. Non solo il caso Monasterace racconta di una Calabria di donne e amministratici che per muoversi nel solco della legalità e del buon esempio, convivono con auto bruciate, lettere intimidatorie, messaggi di morte. Da Monasterace a Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro – sempre in provincia di Reggio Calabria - dove comandano i Pesce e i Bellocco, e qui nel 2010 è scoppiata la rivolta degli immigrati costretti a vivere in capannoni distrutti.
Proprio nel 2010, qualche mese dopo gli scontri, è stata eletta Elisabetta Tripodi a capo di un’amministrazione di centrosinistra, che con il Comune si è costituita in tutti i processi di mafia e riceve continuamente lettere di minaccia.
A Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, un’altra storia di donne coraggio, con Carolina Girasole, biologa e sindaco dal 2008. Qui dove comandano gli Arena, le hanno provate un po’ tutte per convincerla a lasciare il municipio. Auto incendiate, portoni degli uffici sfondati, luoghi privati ripetutamente violati. Carolina resta al suo posto e insieme ad Elisabetta, Maria Carmela e altre ostinate e orgogliose amministratrici gira la Calabria e non solo, parlando di resistenza alle inciviltà, di buon esempio nell’agire pubblico, di determinazione e passione.

La Stampa 2.7.12
Marco De Paolis, procuratore militare
“La mia guerra solitaria per mandare in galera i criminali nazisti”
Il capo della procura militare si racconta in un libro: “Al ministero della Giustizia fascicoli fermi dal 2008”
di Niccolò Zancan


3555 vittime italiane. Le stragi nazifasciste in Italia hanno fatto oltre 3500 vittime, ma per lunghi anni quasi 700 fascicoli giudiziari sono rimasti chiusi negli armadi. Il procuratore De Paolis racconta la vicenda nel suo libro «La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia»
500 le inchieste. In dodici anni di attività la procura militare di Roma ha aperto oltre 500 fascicoli d’inchiesta; sono stati celebrati 15 processi (altri 3 sono in corso); 75 persone sono state rinviate a giudizio e 55 sono stati condannati all’ergastolo (molti indagati nel frattempo sono morti)"

Da piccolo sognava il mare. Da ragazzo voleva fare il magistrato. È diventato l’ultimo cacciatore di nazisti. Marco De Paolis, capo della procura militare di Roma, è l’investigatore che ha messo in piedi la Norimberga italiana, anche se forse in pochi se ne sono accorti. Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fucecchio, San Terenzo, le stragi della Romagna, La Certosa di Farneta e Falzano di Cortona: una geografia di sangue. Ha incontrato scampati e parenti, ha interrogato soldati delle SS di allora. Ha cercato di dare giustizia a 3555 vittime innocenti. In questi giorni sta girando il Paese per presentare il libro «La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia». Dopo dodici anni immerso nelle nostre memorie più tragiche, è tempo di bilanci.
Procuratore, può riassumere il suo lavoro con qualche numero?
«Abbiamo aperto oltre 500 fascicoli d’inchiesta. Sono stati celebrati quindici processi, altri tre sono in corso. Abbiamo rinviato a giudizio 75 persone e ottenuto 55 condanne all’ergastolo, anche perché molti indagati nel frattempo sono morti».
Come spiegherebbe a un ragazzo di 18 anni il famigerato armadio della vergogna: 695 fascicoli grondanti crimini nazisti nascosti e mai perseguiti fino al 1994?
«Con la “ragion di Stato”, purtroppo. Cioè con valutazioni di carattere politico che si sovrappongono alle esigenze di giustizia, in alcuni casi fino a cancellarle».
Lei dov’era quando qualcuno, finalmente, aprì quell’armadio?
«Facevo il gip al tribunale militare di La Spezia. Sono incominciati ad arrivare i fascicoli. Ne ho fatti archiviare un centinaio. Ma nel 2000, quando sono diventato procuratore, li ho riletti da un altro punto di vista. Molti processi andavano istruiti».
Cosa prova a rievocare in aula rastrellamenti, fucilazioni, bambini ammazzati a sangue freddo?
«È molto duro, complicato. Ma c’è anche un fortissimo riscatto morale. Anche se ci siamo arrivati tardi, ci sono centinaia di famiglie che sperano e ci sostengono, non chiedono vendetta ma giustizia».
Lei ha interrogato molti ex appartenenti alle SS. Cosa ha trovato in fondo ai loro occhi?
«Spesso un’estrema freddezza. Nessun desiderio di alleggerire la coscienza. Sono persone che continuano ad essere legate a quella ideologia, nazisti nell’animo. A molti di loro i processi sono serviti per dimostrarsi ancora “fedeli”».
Chi, per esempio?
«Gerhard Sommer, uno dei condannati di Sant’Anna di Stazzema. Oppure il sergente Helmut Wulf, condannato per l’eccidio di Marzabotto».
Nessuno dei condannati è in carcere. Come giudica il comportamento della Germania che respinge sempre al mittente i vostri mandati d’arresto?
«Non so spiegarmi questo atteggiamento. Se non con la paura di essere coinvolta direttamente e magari vedere pregiudicata la propria immagine. L’esecuzione delle pene renderebbe più evidente il coinvolgimento dello Stato tedesco nei crimini di guerra».
Formalmente come avviene questa risposta?
«Ci sono stati due momenti distinti. Il primo, quando abbiamo emesso venticinque mandati d’arresto. Le procure tedesche ci hanno richiesto delle precisazioni con un atteggiamento estremamente formale. Poi ci hanno risposto che gli arresti erano incompatibili con il loro ordinamento»..
Era la guerra, dicono. E la guerra è passata. Una storia chiusa.
«Sì, dicono così, con molte perifrasi».
Qual è il secondo momento?
«È stata prospettata la possibilità di chiedere l’esecuzione della pena in Germania, quindi abbiamo avviato la procedura. Prevede una valutazione di carattere politico da parte del ministro della Giustizia italiano. Che a sua volta, in caso di parere positivo, dovrebbe chiedere all’omologo tedesco di eseguire la pena in Germania».
A che punto siamo?
«Abbiamo inviato le prime richieste nel 2008 e poi a seguire... Saputo più nulla».
A parti invertite, come crede che si comporterebbe l’Italia?
«I mandati d’arresto europei noi li eseguiamo».
Ha mai la sensazione di essere un cacciatore di fantasmi?
«Al contrario. Andando a fondo in queste storie, per quanto siano lontane nel tempo, si capisce che sono molto reali. Storie di carne e ossa».
Il caporale Alfred Störk, unico responsabile ancora in vita della strage di Cefalonia, daleiaccusatodellafucilazione di almeno 117 ufficiali italiani, ha dichiarato: «Non avrei dovuto sparare. Ma adesso il procuratore De Paolis mi lasci in pace». Cosa gli risponde?
«Che non dovrebbe dirlo a me, ma agli orfani dei caduti. E forse non avrebbe il coraggio di dirglielo in faccia».
Crede che si chiuderanno mai i conti con la Storia?
«Non credo si possano saldare. Noi non siamo capaci di fare giustizia neanche nelle piccole cose, figuriamoci... Mi sento sempre molto inadeguato a esercitare il mio ruolo... ».
Tralasciando il mero piano giuridico?
«Forse. Se un popolo avesse la possibilità di riflettere e maturare, fino a compiere certi percorsi sulla pace e sui valori fondanti, allora il discorso potrebbe cambiare».
E invece?
«Credo che in questi ultimi dieci anni in Italia non ci sia stata un’attenzione adeguata all’importanza dei valori in gioco. Eppure sono convinto che ci sia un forte legame fra le stragi del nazifascismo e l’attualità. Conoscere quello che è stato - ma anche quello che è mancato - sarebbe estremamente importante».

La Stampa 2.7.12
La miniera di Marcinelle diventa patrimonio Unesco
In Vallonia nel 1956 morirono 136 minatori italiani Oggi il luogo della strage è un museo e un memoriale
di Marco Zatterin


Forse non c’era bisogno del certificato. Il Bois du Cazier è scolpito nel patrimonio di tutti, da quell’8 agosto di 56 anni fa in cui nelle viscere della terra persero la vita 262 minatori tra cui 136 italiani. La tragedia della miniera di Marcinelle ha impiegato poco a diventare il simbolo di un’epopea drammatica e gloriosa, un luogo della memoria fra i più simbolici per l’emigrazione del dopoguerra, la seconda più grave sciagura nel suo genere dei tempi moderni. Era un lembo di ricordo collettivo eppure è stato a lungo sul punto di diventare un supermercato. Ora è chiaro che non succederà più. L’Unesco l’ha riconosciuto, insieme con altri tre siti minerari della Vallonia, patrimonio dell’umanità, come il centro storico di Firenze o Mont Saint-Michel. E l’ha salvato per sempre dalla speculazione.
Il carbone al Cazier non lo estraggono dal 1967. Dalla fine del conflitto sono stati 140 mila gli italiani venuti in Belgio per scavare sino a mille e passa metri nel sottosuolo. I loro posti di lavoro venivano scambiati per carbone da importare, 200 chili al giorno per emigrato, e col tempo s’è scoperto che il prezzo imposto dalle autorità di Bruxelles (nazionali) non era poi così conveniente. Era la ricchezza del Paese eppure, una volta chiusi gli impianti, c’era chi era pronto a dimenticare.
«All' inizio degli Anni 90 le strutture della miniera erano in stato di totale abbandono», racconta Maria Laura Franciosi, autrice di un libro («Per un sacco di carbone») che ha contributo molto a sensibilizzare l’opinione pubblica. I minatori in pensione e i loro eredi si sono battuti perché la storia non finisse. Oggi il sito nei pressi di Charleroi è un museo sull’industria d’antan, oltre che un toccante memoriale. Jean-Louis Delaet, direttore del centro e promotore della campagna Unesco, lo definisce «luogo di confluenza culturale che ha assimilato scambi di tecnologie e apporti di conoscenze umane di origine assai diversa». Un luogo vivo, senza dubbio. Adesso ancora di più.

Corriere 2.7.12
Il museo israeliano dell'Olocausto e Pio XII
Ridimensionate le accuse contro il pontefice. Spazio anche ai «difensori» del Vaticano
di Davide Frattini


GERUSALEMME — I versi di Nathan Alterman stanno ancora lì, sopra al ritratto in bianco e nero. «Mentre i forni si riempivano di giorno e di notte / il venerato Santo Padre che abita a Roma / non ha lasciato il suo palazzo col crocifisso alzato / per essere testimone di un giorno di sterminio / Solo per stare lì, un giorno, / dove un agnello, ogni giorno di nuovo, è pronto per essere immolato, / l'anonimo figlio di un ebreo».
A essere cambiate sono le parole scelte dagli storici. La didascalia che accompagna la foto di Pio XII a Yad Vashem è più lunga, le ventitré righe della vecchia versione sono state aggiornate e in qualche modo ammorbidite. Le frasi che irritano il Vaticano dal 2005, quando è stata aperta la nuova area del museo, sono adesso accompagnate da quelle di chi difende l'operato di Papa Pacelli.
Il titolo non è più «Papa Pio XII» ma «Il Vaticano». Restano la formula «la reazione di Pio XII all'uccisione degli ebrei durante l'Olocausto è una materia controversa tra gli studiosi» e l'accusa di non aver firmato il 17 dicembre 1942 la dichiarazione degli Alleati che condannava il massacro degli ebrei. «Tuttavia — aggiunge il nuovo testo — nel suo discorso radiofonico del 24 dicembre 1942 fece riferimento "alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di origini etniche (stirpe), sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento"». I ricercatori di Yad Vashem fanno notare che «gli ebrei non sono menzionati esplicitamente» e proseguono come nella didascalia precedente: «Quando gli ebrei vennero deportati da Roma ad Auschwitz, il Pontefice non protestò pubblicamente». Vengono ricordati gli appelli ai governanti di Slovacchia e Ungheria.
Il penultimo paragrafo presenta le posizioni di chi lo incolpa: «I critici sostengono che la sua decisione di astenersi dal condannare l'uccisione degli ebrei da parte della Germania nazista costituisca un fallimento morale: la mancanza di linee guida chiare ha concesso a molti di collaborare con la Germania nazista, rassicurati dal pensiero che questo non contraddiceva gli insegnamenti morali della Chiesa. Ha anche lasciato l'iniziativa di soccorrere gli ebrei ai singoli preti e laici».
Il finale, tutto nuovo, offre la parola ai suoi sostenitori: «I difensori ribadiscono che questa neutralità abbia evitato misure più dure contro il Vaticano e le istituzioni della Chiesa in tutta Europa, permettendo così un numero considerevole di attività segrete di aiuto a livelli diversi della Chiesa. Evidenziano i casi in cui il Pontefice offrì incoraggiamento ad azioni che permisero di salvare ebrei».
Estee Yaari, portavoce di Yad Vashem, nega che la didascalia sia stata riformulata dopo le pressioni del Vaticano e che il testo sia stato negoziato con la Santa Sede. «La vecchia formula notava che la reazione di Pio XII era una questione controversa. Tra i visitatori del museo, qualcuno non capiva quale fosse questa controversia. Così abbiamo voluto aggiungere dei dettagli». Tra i visitatori che hanno criticato quelle parole c'è stato il nunzio apostolico Antonio Franco, che nell'aprile del 2007 aveva minacciato di disertare la cerimonia per la commemorazione della Shoah. «Mi fa male andare al museo dell'Olocausto — aveva spiegato — e vedere Pio XII così presentato. Forse si potrebbe togliere il ritratto o cambiare quel testo». Alla lettera del diplomatico — che alla fine aveva partecipato — aveva risposto Avner Shalev, presidente di Yad Vashem. «La valutazione del ruolo di Pio XII pone una sfida a chiunque voglia studiarlo seriamente. È una questione complessa e noi continueremo a fare in modo di essere ancorati alla verità storica più aggiornata».
È quello che chiedono ancora adesso gli studiosi del museo: «Le nuove ricerche sono state permesse dall'apertura degli archivi vaticani datati fino al 1939 — spiega Yaari — è importante che tutto il materiale diventi disponibile». Lo ribadisce al quotidiano israeliano Haaretz il professor Dan Michman, che ha supervisionato la formulazione del nuovo testo: «Il legame tra il Vaticano e le azioni di soccorso agli ebrei resta da provare».

l’Unità 2.7.12
Abdel Basset Sieda: «Assad gioca le sue ultime carte»
Il nuovo presidente del Consiglio nazionale siriano: «Gli accordi di Ginevra? Non esiste transizione con il raìs al potere. È disperato: vuole allargare il conflitto»
di Umberto De Giovannangeli


«Siamo disposti a discutere di un governo di unità nazionale ma Bashar al-Assad deve farsi da parte. Con lui al potere, la parola dialogo perde di senso». A sostenerlo, in questa intervista a l’Unità, la prima concessa a un giornale italiano, è il nuovo presidente del Consiglio nazionale siriano (Cns), l’organismo che raggruppa i principali movimenti di opposizione ad Assad: Abdel Basset Sieda, attivista curdo, 56 anni molti dei quali trascorsi in esilio in Svezia. Una volta eletto, Sieda si è affrettato a rassicurare le minoranze presenti in Siria sostenendo che cercherà di includerle il più possibile nelle decisioni che si troverà a prendere ed inoltre ha affermato che porterà avanti una ristrutturazione interna del Consiglio per renderlo più efficiente e responsabile. «Vorremmo rassicurare tutte le sette e gruppi, in particolare alawiti e cristiani, che il futuro della Siria sarà per tutti i gruppi», ribadisce a l’Unità. «Non ci sarà alcuna discriminazione basata sul sesso o sull’appartenenza etnica o religiosa. La nuova Siria sarà uno Stato democratico».
Al termine del vertice internazionale di Ginevra sulla Siria, sabato scorso, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha affermato che «il presidente siriano Bashar al-Assad deve capire che i suoi giorni sono contati».
«Il piano delineato a Ginevra contiene spunti positivi, da sviluppare, tuttavia permangono troppe ambiguità su questioni cruciali e, soprattutto, il piano è ancora troppo vago per prevedere un’azione immediata e incisiva. Definisce un processo di transizione ma non chiarisce il ruolo di Assad e con quali mezzi s’intende agire perché quel piano venga attuato; così come non stabilisce esplicitamente che lo stop delle violenze sia una pre-condizione per il processo politico. Per quanto ci riguarda, siamo disposti a esercitare la massima responsabilità ma nessuno può chiederci di sedersi allo stesso tavolo e partecipare allo stesso governo con chi si è macchiato dei crimini più efferati». Dopo un anno di guerra e oltre 15mila morti, qual è il presente della Siria?
«Il presente è un popolo che è insorto contro il dittatore e di un dittatore che ha dichiarato guerra al suo popolo; una guerra che non risparmia donne e bambini, divenuti un obiettivo sistematico delle squadre della morte organizzate dal regime. Mentre a Ginevra si discuteva, a Damasco Assad ordinava di aprire il fuoco contro una folla che partecipava a un funerale: i morti si contano a decine. Il messaggio è chiaro: nessuno può sentirsi al sicuro. Un popolo intero è tenuto in ostaggio. Quello di Assad è terrorismo di Stato. Il presente è una insurrezione popolare che sta conquistando consensi anche ai livelli più alti dell’esercito. Il dittatore ha perso il controllo in diverse città, ma non per questo accetterà di farsi da parte. Piuttosto che uscire di scena, Bashar proverà a distruggere il Paese».
Dopo l’abbattimento di un caccia turco, la tensione è salita alle stelle tra Ankara e Damasco.
«Non si è trattato di un episodio isolato né di un eccesso nell’esercizio del diritto di difesa da parte siriana. Assad sta giocando la sua ultima carta: regionalizzare il conflitto, coinvolgendo nemici e alleati. La sua è una scelta disperata quanto destabilizzante: far esplodere la polveriera mediorientale. Quello che sta orchestrando è un ricatto internazionale. C’è questo intento dietro la sua affermazione: “siamo in uno stato di guerra su tutti i fronti”. Bashar al-Assad non è più solo un problema interno siriano, Bashar al-Assad è un pericolo per la pace e la stabilità del Medio Oriente».
L’uscita di scena di Assad è un problema politico o militare?
«Quello tra politico e militare è un confine labile, praticamente inesistente, se chi hai di fronte conosce solo il linguaggio della forza. Non chiediamo un intervento militare internazionale ma un sostegno che riduca il gap di mezzi tra gli insorti e le forze fedeli al dittatore. Un sostegno attivo, sul terreno come sul piano politico: è ciò che chiediamo oggi alla comunità internazionale. Vogliamo tornare a vivere, a decidere del nostro futuro, liberamente. È questa l’essenza della “Primavera siriana”. Aiutateci a farlo».
Mosca ripete che la sorte di Assad deve essere decisa dal popolo.
«Di quale popolo parlano? Quello a cui Assad ha dichiarato guerra? In libere elezioni il regime sarebbe spazzato via. E Assad lo sa bene, per questo pratica un terrorismo di Stato che produce ormai centinaia di morti al giorno. Come si può parlare di pace e continuare, come fa la Russia, a difendere un uomo pronto a tutto pur di mantenersi al potere?»
In molti descrivono la situazione nel suo Paese in termini di guerra civile. È la definizione più appropriata?
«La definizione più rispondente alla realtà è, a mio avviso, quella di insurrezione popolare contro un regime sanguinario e un dittatore che si è macchiato di crimini contro l’umanità. Guerra civile presupporrebbe che una parte del popolo sostenesse il regime. Non è così, o comunque non lo è più da tempo. Mi lasci ribadire che non siamo pregiudizialmente ostili a soluzioni transitorie ma ciò che deve essere chiaro è che qualsiasi negoziato su un governo di transizione non può prescindere dall’uscita di scena di Assad. Il raìs ha perso ogni legittimità agli occhi del popolo siriano e non saremo certo noi a riabilitarlo. A quanti sono ancora dalla parte sbagliata ma non si sono macchiati di crimini contro il popolo, diciamo: vogliamo giustizia, non cerchiamo vendetta».
C’è chi sostiene che l’incertezza internazionale su Assad è anche dovuta alle divisioni interne all’opposizione siriana. Lei è stato da pochi giorni eletto nuovo presidente del Consiglio nazionale siriano, al termine di un confronto anche aspro. Cosa significa che ad essere scelto sia stato un esponente curdo qual è lei?
«Sta a significare che l’opposizione al regime di Assad è un’opposizione plurale, che non discrimina e non è animata da uno spirito di vendetta: sappiamo distinguere tra il “clan Assad” e quanti hanno servito lo Stato. Un discorso proiettato nel futuro. Vorremmo rassicurare tutte le sette e gruppi, in particolare alawiti e cristiani, che il futuro della Siria sarà per tutti i gruppi. Non ci sarà alcuna discriminazione basata sul sesso o sull’appartenenza etnica o religiosa. La nuova Siria sarà uno Stato democratico».

Repubblica 2.7.12
Pakistan, la nuova sfida dei Taliban "No all'antipolio, i medici sono spie"
di Daniele Mastrogiacomo


Secondo gli studenti coranici, le campagne di prevenzione servono a fornire le coordinate ai droni americani A provocare la diffidenza è stato l´arresto del dottore Shakil Afridi che aiutò gli Usa a individuare Bin Laden
Il Mullah Nazir: "Con una mano uccidono bambini innocenti, con l´altra li salvano"
La malattia è tra le più diffuse nelle Aree tribali al confine con l´Afghanistan

I Taliban mettono al bando il vaccino contro la polio. Brutta storia per migliaia di bambini pachistani. Rischiano di restare monchi, costretti a camminare su grucce di fortuna: pezzi di legno fissati a plantari di gomma usurata. Ossessionati dalle spie che vedono aggirarsi come fantasmi tra i vicoli polverosi del Waziristan, nelle valli dello Swat, lungo i villaggi del passo Khyber, i comandanti del Movimento coranico hanno deciso che la scienza medica non è neutrale. Per loro, sanitari, infermieri, volontari muniti di pillole e di siringhe per combattere una delle malattie più diffuse nelle Aree tribali di amministrazione federale (Fata), ai confini tra Pakistan e Afghanistan, sono in realtà al servizio della Cia. Entrano nelle case, visitano i pazienti, osservano cosa accade in giro e forniscono le coordinate ai droni americani con i loro carichi di bombe.
«Con la scusa della campagna di vaccinazione», ha sostenuto il mullah Nazir, leader dei Taliban nel Sud Waziristan, «gli Usa e i loro alleati hanno spedito nei nostri territori una rete spionistica. Con una mano ammazzano bambini innocenti; con l´altra giurano di volerli salvare». Hafiz Gul Bahadur, capo dei Taliban nel Nord Waziristan, ha ordinato l´uccisione di ogni medico che si aggira nell´area che controlla. Non sono i soli. Già nel 2007, il mullah Fazlullah, capo Taleban della valle dello Swat, ammonì la popolazione a non accettare alcun vaccino. Sfruttò paure e ignoranza: «Vogliono sterilizzare tutti i musulmani».
Tanto fervore contro la medicina preventiva non è casuale. Si sa che i combattenti radicali salafiti diffidano della modernità. Ma in questo caso c´è un precedente che li ha feriti nell´orgoglio: Osama bin Laden sarebbe stato individuato grazie a una traccia ematica carpita da un medico impegnato nella campagna contro la polio. Un retroscena mai provato. Ma che la messa al bando dei vaccini adesso conferma.
Per far scattare l´operazione Neptune spear, "Lancia di Nettuno", mancava un ultimo tassello. Il più importante: stabilire l´esatta identità di quel vecchietto, spacciato per un contadino della zona, che viveva blindato dentro una casa ad Abbottabad, 70 chilometri a nord est di Islamabad. La certezza poteva arrivare solo dal Dna. A dispetto della leggenda che lo descriveva malato ma sempre in giro, lo sceicco del terrore in realtà viveva braccato dai tempi di Bora Bora. Non si fidava di nessuno. Per comunicare ricorreva a messaggi cifrati. Nessuna visita, anche la spesa veniva ordinata e lasciata fuori il portone; i bambini che affollavano il suo compound dovevano chiedere il permesso per uscire a giocare.
Siamo nel marzo del 2011. La Cia ha già agganciato i messaggeri fidati del capo della jihad internazionale. I satelliti puntati sull´area e le centrali di ascolto confermano che la pista è quella giusta. Ma ci vuole la prova regina: la certezza assoluta che il contadino di Abbottabad sia proprio Osama Bin Laden. Qualcuno deve avvicinare l´uomo più ricercato al mondo e sottrargli una traccia del codice genetico. Uno degli agenti di Langley che bazzica la zona tribale si ricorda di un medico. Si chiama Shakil Afridi, 40 anni, il viso largo, gli occhi neri e profondi, i baffoni che gli circondano la bocca. Da due anni gira in quelle regioni distribuendo vaccini contro la polio. Lo conoscono tutti. È un medico ma anche un personaggio controverso.
Di lui non si sa nulla, ufficialmente. Il suo nome spunta un anno dopo la morte di Bin Laden. Viene arrestato nel mercato di Karkhano, nel Peshawar, dagli uomini dell´Isi, i servizi segreti pachistani. È accusato di alto tradimento: avrebbe complottato contro lo Stato partecipando ad attentati, estorsioni, sequestri. Ma soprattutto di aver ucciso e non guarito, con i suoi vaccini, almeno duecento abitanti delle aree tribali.
L´arresto fa clamore. L´Isi accredita le voci che si rincorrono tra le valli e le montagne dietro il passo Khyber. È un ciarlatano, non un benefattore. Ma i servizi conoscono bene la verità: sanno che è stato lui a fornire alla Cia la prova regina su Osama Bin Laden. È riuscito a vaccinarlo e a prendere un campione del Dna. Il tassello mancante all´operazione Neptune spear.
Shakil Afridi subisce una condanna a 33 anni di carcere dopo un processo frettoloso. La Cia protesta, propone l´asilo negli Usa. Si espone perfino Leon Panetta, il Segretario alla Difesa americano. Il Pakistan fa finta di niente, continua a sostenere le responsabilità del medico come complice dei terroristi. Dice e non dice. Un classico dei servizi pachistani: insinuazioni per provocare reazioni. E la reazione Usa arriva subito: il Dipartimento di Stato taglia 33 miliardi dal flusso di finanziamenti. Tanti quanti gli anni di condanna. Poi il silenzio. Iniziano le trattative dietro le quinte. Per chiudere la partita di Osama Bin Laden e del medico che lo ha tradito. Assieme ai vaccini delle spie.

Repubblica 2.7.12
Richard Rogers
“Panchine nei parchi e giustizia sociale per costruire un nuovo Rinascimento”
Il celebre architetto spiega come oggi la difesa degli spazi pubblici sia una questione di civiltà
intervista di Franco Marcoaldi


Richard Rogers, anzi Lord Richard Rogers di Riverside, membro della Camera dei Lord, è uno degli architetti più famosi del mondo. Artefice all´inizio degli anni Settanta assieme all´amico Renzo Piano del Centre Pompidou di Parigi, nel corso dei successivi decenni ha ideato, tra l´altro, la Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, il Millenium Dome di Greenwich e il Terminal 4 dell´aeroporto di Madrid. Studioso, docente universitario, a capo dell´Urban Task Force che indica le linee di sviluppo urbanistico di Londra, ha sempre coniugato l´aspetto teorico della sua ricerca con l´attività sul campo, prefigurando l´immagine di una città "compatta e sostenibile". Con Rogers il discorso sulla bellezza assume una nuova e diversa angolazione, perché si materializza nei suoi manufatti, grandi e piccoli, come l´elegante studio sul Tamigi in cui mi accoglie, situato nella zona sud occidentale di Londra e affiancato dal delizioso ristorante italiano della moglie, e grande chef, Ruth: il River Café.
«La mia idea di bellezza si ricollega a quella classica, formulata da Platone e Aristotele: le caratteristiche di un prodotto bello e finito sono ordine, simmetria, armonia e giuste proporzioni. Il mio lavoro di architetto, sempre in bilico tra arte e tecnica, conoscenza e intuizione, si fonda sull´idea di scala, ritmo, leggerezza e luce. L´architettura, fin dalle costruzioni primitive, è legata alle tecnologie, all´uso dei materiali, al rapporto con i committenti, alle decisioni del potere politico, allo specifico genius loci in cui quel certo edificio deve essere costruito. C´è però un´aggiunta sostanziale e riguarda la qualità statica dell´architettura classica. Oggi l´architetto deve pensare a costruzioni flessibili, modificabili nel corso del tempo, che rispondano alle esigenze in evoluzione della società. Un edificio che oggi è un centro finanziario, tra cinque anni potrà ospitare degli uffici e tra dieci un´università. Ecco perché la progettazione si deve allontanare da forme statiche, e attraverso la flessibilità, esprimere nuove forme che sappiano realizzare la bellezza nell´adattabilità. Si potrebbe dire che gli edifici sono sempre più dei robot, piuttosto che dei templi. Se dovessi fare un paragone musicale, direi che l´architettura, più che a una sinfonia, assomiglia a una jam session di jazz, che prevede un´improvvisazione all´interno di una struttura data».
Lei è nato a Firenze e ha lavorato in Italia. Come si spiega il terribile paradosso italiano: refrattarietà verso la nuova architettura e continua rapina del territorio, urbano e agricolo?
«Non solo sono nato a Firenze, ma ogni estate torno a Pienza, dove è presente in nuce l´idea stessa di città moderna. E con questo credo di aver già risposto alla prima parte della sua domanda: nessun passato architettonico è così pesante come quello che grava sulle spalle degli italiani. Accompagnato spesso, però, da una certa ignoranza, perché proprio quella straordinaria tradizione ci dimostra come siano possibili inserzioni architettoniche meravigliose che esaltano l´accostamento tra edifici vecchi e "moderni": pensi a piazza della Signoria di Firenze, dove la Galleria degli Uffizi del Vasari è in perfetto equilibrio con gli splendori medievali di Palazzo Vecchio. O a Venezia, dove la cattedrale bizantina è inquadrata dal loggiato di piazza San Marco. La buona architettura deve essere moderna nel suo tempo e sfidare il passato. Fatto sta che per un architetto di oggi lavorare in Italia è difficilissimo, se non impossibile. Come ben sa il mio amico Renzo Piano, che infatti vive a Parigi».
E per quanto riguarda invece la rapina del territorio?
«Qui purtroppo c´è di mezzo la politica, una cattiva politica, totalmente disinteressata a una vera pianificazione urbanistica. Quanto all´Inghilterra, si sta recuperando una lunga fase di disattenzione. E proprio qui a Londra si è presa una decisione molto semplice in tal senso: si può costruire esclusivamente sui brownfields, terreni già edificati in precedenza. E poiché l´Inghilterra è stata la patria della rivoluzione industriale, è piena di brownfields. Penso in particolare a tutta la parte est della città di Londra, la stessa dove si terranno le prossime Olimpiadi».
Rinnovare spazi già urbanizzati è uno dei fondamenti della sua idea di città "compatta" e "sostenibile".
«Le ripeto qui quanto già scrissi tanti anni fa in Città per un piccolo pianeta. Il teorico della politica Michael Walzer ha classificato lo spazio urbano in due categorie: "spazio bloccato" e "spazio aperto". Il primo si affida alla logica degli immobiliaristi e soddisfa l´esclusiva esigenza del consumo privato. Il secondo, la partecipazione a una vita comune. Sin qui sono stati privilegiati egoismo e segregazione, invece che contatto e comunanza. Così il mercato di strada diventa via via meno attraente del più sicuro centro commerciale, il quartiere universitario si trasforma in campus chiuso e la vita della città diventa una struttura a due livelli, con i ricchi chiusi in territori protetti e i poveri imprigionati nei ghetti o nelle squallide baraccopoli periferiche. La prima parola da recuperare è "cittadinanza", dunque l´idea dello spazio pubblico come teatro della cultura urbana. Quando penso a una città compatta, penso a questo: a una città ad alta densità e fortemente diversificata, dove le attività sociali si mescolino ad attività commerciali e i quartieri diventino finalmente il punto focale della comunità. Ma perché accada, ed eccoci così all´idea della città sostenibile, bisogna innanzitutto invertire il rapporto tra trasporto privato e pubblico. Perché è l´automobile che per prima ha minato la coesione sociale della città, incoraggiando il dilagare delle periferie. Dobbiamo seguire la strada di Hong Kong, dove il trasporto pubblico è arrivato a toccare il 94 per cento del traffico totale. Con tutti gli effetti benefici che ne conseguono: è più gradevole camminare, andare in bicicletta, mentre la congestione e l´inquinamento risultano drasticamente ridotti e aumenta il senso conviviale degli spazi pubblici».
Nulla come il teatro urbano ci fa capire cosa si intende quando si dice che il bello rimanda al bene. Un ragazzo che cresce in un ghetto di Los Angeles farà senz´altro più fatica a concepire il bene rispetto a un suo coetaneo che ha la fortuna di abitare, che so, a Cambridge, in prossimità di un parco. Eppure, almeno agli occhi dei politici italiani, discorsi come questi appaiono dandistici, estetizzanti, superflui.
«Dico sempre che tra i diritti della persona c´è anche quello di vedere un albero dalla propria finestra e di avere una panchina su cui sedersi nel parco del quartiere. La libertà di accesso allo spazio pubblico deve essere difesa alla pari della libertà di parola. Aggiungo, per tornare alla sua domanda, che proprio gli italiani dovrebbero ricordare la lezione del Rinascimento, quando la bellezza e la ricchezza viaggiavano assieme. Però oggi c´è una grande novità: visto che proprio le città sono la causa principale della crisi ambientale del pianeta, il termine ricchezza deve includere il capitale naturale. Dunque innanzitutto aria e acqua pulita. C´è un bel libro di Richard Wilkinson, The Spirit Level, in cui si dimostra come la qualità di vita delle società sia legata, da ogni punto di vista e per ciascun individuo, compresi i più ricchi, alla giustizia sociale. Ecco perché questo discorso sulla priorità della bellezza, in ambito urbanistico e architettonico, è compreso meglio nelle nazioni scandinave, dove la disparità tra ricchi e poveri è minore. Parlo di paesi in cui, non a caso, c´è un gusto medio più alto e diffuso anche in ordine agli standard abitativi. Altrove è più facile che le persone sappiano riconoscere una bella macchina o un bel vestito, perché quelli sono i veri status symbol, i valori sociali dominanti. Più difficile invece è condividere l´idea di una casa bella. Eppure la qualità architettonica non è un fatto meramente soggettivo. Esistono criteri precisi e precisi sistemi di giudizio. La comprensione e l´apprezzamento vengono dall´educazione, dall´esperienza, dall´affinamento dei sensi e forse, cosa più importante di tutte, da una buona leadership professionale».
Se la sentirebbe di sottoscrivere l´affermazione di Frank Lloyd Wright, secondo il quale il primo compito di ogni uomo è lasciare il mondo più bello di come lo si era trovato?
«Assolutamente sì, perché fa il paio con un´altra affermazione che la precede di duemila anni e viene dagli ateniesi della Grecia antica. Per loro l´agorà, i templi, lo stadio e gli spazi pubblici non erano solo una magnifica espressione dell´arte e della cultura, ma anche il maggior deposito di ricchezza morale e intellettuale, il volano dell´ideale civico. Tale consapevolezza era contenuta nel giuramento dei nuovi cittadini: "Lasceremo questa città più grande, migliore e più bella di come l´abbiamo ereditata"».

Repubblica 2.7.12
Scuola, l’illusione della severità
di Mariapia Veladiano


Alunni di 6 anni bocciati, esami difficili. L´istruzione in Italia è davvero più inflessibile? Pare proprio di no. Anzi, l´insegnante è diventato un badante
Le bocciature alle elementari e la difficoltà degli esami hanno riaperto il dibattito sulla severità dell´istruzione italiana. Eppure secondo i dati del ministero gli studenti promossi sono in aumento e la scuola tra patentini, sorveglianza psicologica e corsi extra si fa sempre più carico della custodia dei ragazzi
Si scrivono nelle pagelle dei "sei" che non dicono la verità sull´alunno e la sua preparazione

Una piccola inquietudine da notizia può venire: i giornali raccontano che la scuola ricomincia a bocciare i bambini di prima elementare, che l´Invalsi propone prove difficili di matematica in terza media, che all´esame di maturità arriva un Aristotele spiazzante.
Ci si chiede se sia l´effetto di una qualche maggiore severità, promessa o minacciata a seconda del proprio vedere.
Certo che no. Il ministero dell´Istruzione attraverso il suo rapporto annuale "La scuola in cifre" ci dice che negli ultimi due anni scolastici monitorati (2009/2010 e 2010/2011) sono aumentati sia gli studenti ammessi all´esame di terza media (dal 95,4 al 95,9 per cento) sia gli studenti poi diplomati (dal 99,5 al 99,6 per cento). Un aumento si è verificato anche per la maturità (dal 94,1 al 94,4 per cento di ammessi e dal 98,1 al 98,3 di diplomati). In entrambi i casi poi sono aumentate considerevolmente le votazioni alte (+1,4 per cento sia i nove che i dieci) e l´esito finale con la lode (+0,8 per cento). Negli anni intermedi di entrambi i cicli sono diminuite le bocciature e diminuiti anche, per le superiori, i ragazzi con "giudizio sospeso", ovvero quelli che devono a fine estate superare una prova di recupero in alcune discipline. Poiché i dati delle medie riportano un´inversione di tendenza netta rispetto ai cinque anni precedenti, quando le ammissioni all´esame erano in costante calo (-2,2 per cento dal 2005), vien chiedersi cosa sia rimasto del più imponente tentativo di "ritornare alla scuola del merito" che ha occupato per mesi i giornali e le televisioni durante il precedente governo. I cambiamenti sono stati presentati come l´azione salvifica di fronte al baratro in cui la scuola era scivolata con un impatto demagogico contundente: il voto di condotta entrava a far parte della media complessiva dei voti dello studente, e l´accesso agli esami di Stato (medie e superiori) veniva consentito solo a chi avesse la sufficienza in tutte le discipline. La prima norma ha ottenuto il risultato, scontato, di alzare la media di gran parte degli studenti perché, grazie al cielo, in generale gli studenti corretti sono ben più di quelli indisciplinati e se un ragazzo non disturba, segue moderatamente le lezioni e un po´ interviene, un otto o un nove in condotta lo prende.
La seconda, e anche questo era ben prevedibile, è diventata nei fatti una licenza a dichiarare per necessità il falso perché non si può far ripetere un ragazzo per due (forse anche tre) discipline, lo vietano il buonsenso e un´altra norma che chiede "insufficienze gravi e diffuse" per poter bocciare, e un qualsiasi TAR lo riconoscerebbe, e quindi con "voto di consiglio" si scrivono nelle pagelle dei "sei" che non dicono la verità sulla preparazione dello studente. E in più, alle superiori questi sei non veritieri contribuiscono a costruire il credito scolastico e il punteggio dell´esame finale. Doppiamente sbagliato e anche ingiusto.
Solo in una scuola superiore che funzionasse, come accade per l´università, con un sistema perfetto di crediti, un meccanismo di questo tipo avrebbe senso. Ma non è così, perché nell´ordinamento italiano si ripete l´anno scolastico intero, con tutto il suo corredo di discipline, non solo la disciplina insufficiente. E infatti, dove si è potuto grazie all´autonomia non recepire queste norme, lo si è ha fatto: in Trentino il voto sulle "capacità relazionali", così viene chiamata la condotta, non fa media e agli esami di stato di medie e superiori si accede con la media complessivamente sufficiente, e così le commissioni d´esame possono vedere nella trasparenza dei voti realmente dati quali sono le lacune vere di uno studente. Non è cosa da poco, perché si tratta di far vivere ai ragazzi proprio dentro la scuola quella giustizia che hanno assoluto bisogno di credere possibile nella vita.
La scuola non è oggi più severa. Quel che capita ci racconta qualcosa che va ascoltato. Ad esempio che non ce la può fare se non si decide bene quel che si vuole da lei. Nel tempo, un po´ alla volta, alla scuola è stato chiesto di tutto. Dal patentino per il motociclo all´accesso alla Normale. In mezzo c´è la custodia lunga dei figli, prima e dopo l´orario scolastico (le scuole private fanno la loro fortuna in parte anche su questo), la sorveglianza psicologica, il pronto intervento pedagogico, le certificazioni linguistiche, il patentino per il computer, l´organizzazione degli stage nelle aziende, la certificazione delle competenze. Qualcosa di tutto questo ci sta, è assolutamente pertinente. Ma pensare che risorse di tempo e di personale siano impiegate nell´organizzare la preparazione per il patentino del motociclo è davvero bizzarro. E la legge fa obbligo alle scuole di offrire anche questo, al pomeriggio (20 ore fino allo scorso anno, 13 da quest´anno) e le famiglie lo chiedono, perché a scuola i corsi sono gratuiti, nelle autoscuole no. Allora capita che nell´inseguire il tutto di quel che è indistintamente dovuto, non sia possibile tener gli occhi ben fissi su quel che davvero conta.
Le prove Invalsi hanno un´ambizione giusta (al di là poi delle scelte precise di testi e problemi). Sul modello delle indagini internazionali OCSE-PISA, vogliono verificare le competenze degli studenti in uscita dalla scuola media. Il lavorare sulle competenze ci è richiesto dall´Europa, dal mondo del lavoro e della ricerca, che vorticosamente frulla i saperi tradizionali, dalla vita di oggi. Le prove Invalsi sono un tentativo di riforma del modo di insegnare e programmare a partire alla fine, dalla verifica. Se le prove son così, qualcosa dell´insegnamento deve cambiare. Lo stesso meccanismo che nel 1999 è stato messo in atto per le nuove tipologie di scrittura richieste dall´esame di maturità. Una riforma che ha indotto gli insegnanti a lavorare diversamente.
Non suona bene, si può dire. Perché non lavorare diversamente grazie alla formazione degli insegnanti, all´aggiornamento? Ad esempio perché quest´anno per la formazione in servizio il Ministero ha stanziato 18,75 euro per insegnante. Per tutto l´anno. Poi perché in Italia la formazione in servizio non è un obbligo e di solito "la fa chi non ne ha bisogno", ha detto poco fa a un incontro pubblico Giovanni Biondi, capo dipartimento del Ministero dell´istruzione nel mentre che forniva queste cifre.
Ma in Trentino è un obbligo, ad esempio, sta nel contratto collettivo provinciale, e quindi cambiare si può, vien da dire. È difficile immaginare un lavoro che richieda continuamente di ricrearsi come quello dell´insegnante. In classe arriva il mondo, sempre nuovo perché è il mondo dei ragazzi. Se non si cambia non funziona nulla.
Certo, ci sono riforme che costano, e si dovrebbe avere abbastanza fiducia da credere che valga la pena di investire ancora nella scuola, perché vuol dire che un futuro c´è, riusciamo a rappresentarcelo. E allora, almeno, far davvero sparire le classi sovraffollate. Semplicemente perché, soprattutto nel primo ciclo, è impossibile seguire tutti i bambini se ne abbiamo trenta in classe, e chi resta indietro è di certo il povero: di cultura, di relazioni, di risorse economiche e sociali. Perché bocciare cinque bambini su cinquantanove in prima elementare non si può davvero. È una dichiarazione di impotenza della scuola pubblica che non ha saputo o potuto intervenire prima che tutto questo accadesse.
E ne devono essere capitate di cose durante l´anno. Vien da dire: rovesciamo il banco, prima di arrivare a questo. Condividiamo il problema: con i servizi, il comune, il ministero, i gruppi di volontariato. Inventiamo una rete. Alziamo la voce.
Ma ci sono anche riforme che non costano nulla. Tornare alla trasparenza del voto di ammissione agli esami eliminando il "sei necessario" non costa nulla, ad esempio. Alleggerire la scuola di richieste improprie può costare poco poco.
La domanda vera è: "che cosa vogliamo dalla scuola?" E la risposta non può essere la lista della spesa, deve essere un numero definito di priorità. Che offra un´opportunità a chi la frequenta di essere riconosciuto nel proprio valore. Che riconosca le diverse intelligenze. Che dia gli strumenti per guardare al futuro confidando nelle proprie forze. Che coltivi la convivenza civile. La convivenza non è un capriccio di pochi idealisti. È esattamente il futuro di tutti. Che, almeno, non funzioni da moltiplicatore di disuguaglianza sociale, come accade oggi, così ci dicono le ricerche. Che non confonda serietà e selettività. Le indagini Ocse-Pisa, e anche i dati del Ministero, ci dicono che hanno risultati migliori le scuole che bocciano meno.
È alzando il livello generale che si ottengono le eccellenze. La scuola del merito è la scuola del rigore morale irriducibile, che non si rassegna a perdere ragazzi lungo la strada. Che continua a lavorare per una nostra vita a lieto fine. Abbastanza lieto.
E niente più demagogia, davvero.

Repubblica 2.7.12
Crescono gli ammessi, mentre in Germania si propone di estendere la promozione a tutti
Ripetere l’anno è una rarità e secondo l’Ocse non serve
di Salvo Intravaia


La bocciatura di cinque bambini di prima elementare a Pontremoli (Massa Carrara) ha fatto ricadere la scuola italiana nell´incubo severità. Gli insegnanti, come aveva sperato invano – al punto di taroccare i numeri – la Gelmini, stanno diventando davvero più severi, bocciando "senza pietà" piccoli di sei anni? E, numeri alla mano, quanto è rigorosa la scuola italiana? Ma bocciare serve davvero? Per comprenderlo basta affidarsi ai dati. Nella scuola primaria la bocciatura è cosa davvero rara: nel 2007/2008, quando a viale Trastevere salì Mariastella Gelmini, in prima elementare si contavano 8 bocciati su mille: lo 0,8 per cento. L´anno dopo, nel 2008/2009, il dato calò allo 0,6 per cento per restare stabile fino all´anno scorso. Anche il computo dei bocciati su tutti e 5 gli anni ha seguito lo stesso trend: 0,4 per cento nel 2007/2008 e 0,3 l´anno scorso. Insomma, nell´ultimo quinquennio si boccia di meno.
Per avere un´idea di cosa fosse la scuola elementare alcuni decenni fa, basta guardare le statistiche dell´anno 1952/53. Sessant´anni fa, i ripetenti in prima elementare erano un numero 33 volte maggiore di oggi: il 19,78 per cento. In pratica, un bambino su 5. Altalenante il termometro della severità nella scuola media. Nel 2007/2008, i bocciati in prima media furono 3,8 su cento, due anni dopo, nel 2009/2010, schizzarono al 5,5 per cento. Ma l´anno scorso si sono ridimensionati al 5,2 per cento. Agli esami le cose cambiano: tra non ammessi e bocciati agli esami, nel 2010/2011, sono stati fermati 4,5 ragazzi su cento. Un anno prima, superavano il 5 per cento. Ma è in calo il numero dei promossi con punteggio minimo, che molti esperti considerano "analfabeti funzionali". Nel 2006/2007, più di un terzo dei diplomati (il 37,1 per cento) conseguì la licenza media con "sufficiente". L´anno scorso, la schiera dei licenziati per il rotto della cuffia si è assottigliata al 28,8 per cento. Alla maturità, da quando Giuseppe Fioroni reintrodusse l´ammissione agli esami, il numero dei non ammessi incrementò dal 4 per cento, dell´estate 2007, al 5,9 del 2010. Con una lieve flessione al 5,6 per cento l´anno successivo. Tra non ammessi e bocciati agli esami passiamo dal 6,6 del 2007 al 7,7 per cento del 2010, per scendere di mezzo punto nel 2011.
Per i primi quattro anni del superiore occorre partire dal 2007/2008, quando Fioroni – sotto forma di "sospensione del giudizio" – ripristinò le rimandature a settembre. Quell´anno, i "rimandati" ammontarono al 26,8 per cento, tre anni dopo salirono al 27,4 per cento. Ma a settembre 2011, complessivamente, i bocciati ammontavano al 15,1 per cento, facendo registrare un calo superiore ad un punto rispetto al settembre di tre anni prima. Quella sulle bocciature sembra una discussione che appassiona soltanto noi italiani. In Germania si parla di abolirle addirittura e non per eccesso di buonismo. L´Ocse, approfondendo l´indagine sulle competenze in lettura dei quindicenni, ha recentemente dimostrato che bocciare serve a poco. «Nei paesi in cui la percentuale di studenti che ripetono gli anni è elevata – spiegano da Parigi – le prestazioni complessive tendono ad essere inferiori».

Repubblica 28.6.12
Chiedo Asilo
Aspettando la scuola che non c’è
Quarantamila bambini non trovano un posto nella scuola materna
di Maria Novella De Luca


Quarantamila bambini non trovano un posto nella scuola materna. Così i tagli al corpo docente stanno privando l’infanzia di un diritto: quello di imparare, giocare e crescere insieme agli altri

Aumentano i bambini, diminuiscono le scuole. Cresce la voglia di istruzione, scompaiono gli insegnanti. Sembra un paradosso invece è così. Ovunque. In tutta Italia, al Nord come al Sud. Migliaia di piccoli allievi tra i 3 e i 5 anni rischiano dal prossimo autunno di non poter frequentare la scuola dell’infanzia. Chiedo asilo. Ma anche aule, giochi, colori, amici, favole. Le liste d’attesa scoppiano. Sono già oltre trentamila i bambini senza posto. Che resteranno a casa. Davanti alla Tv. O peggio, per strada. A Bologna come a Napoli si scopre che la materna non è più un diritto. Per un insieme di ragioni che rischiano di stritolare, dopo le primarie e le secondarie, anche la scuola dei più piccoli. Quegli asili spesso orgoglio e vanto dell’istruzione d’infanzia, frequentati negli ultimi anni da oltre il 90% dei bambini italiani, un record assoluto che ci mette ai primi posti in Europa. E invece anno dopo anno l’offerta si assottiglia, proprio adesso che la demografia è tornata a crescere, e i figli ricominciano a nascere, soprattutto nelle regioni del centro Nord, grazie agli immigrati e non solo. E così la richiesta di nidi, asili, luoghi per i bambini è diventata esplosiva. Ma l’Italia è avara, e la scuola dell’infanzia, al 60% statale, al 40% comunale, è oggi assediata dai tagli d’organico (10mila insegnanti in meno dal 2009 ad oggi) e dalla povertà dei Comuni che stretti dal “patto di stabilità” non riescono più a mantenere i loro asili. Alcuni così straordinari, come quelli di Reggio Emilia, da diventare un vero e proprio «logo» del made in Italy. Gli allarmi arrivano da tutte le regioni, nessuna esclusa. Anche da quelle zone d’eccellenza, Toscana, Emilia, Marche, Veneto, fino a ieri in cima alle classifiche per gli asili più belli del mondo. «Eppure è noto che frequentare fin da piccolissimi un nido o una scuola d’infanzia è fondamentale per lo sviluppo futuro — spiega Susanna Mantovani, docente di Pedagogia generale all’università Bicocca di Milano — e in Italia avevamo raggiunto davvero grandi risultati, con la copertura quasi totale dei bambini in molte regioni. Oggi quello che vedo è una grave caduta della qualità, le classi sono sempre più affollate, i Comuni non riescono più a garantire i servizi, tantomeno il tempo pieno, le insegnanti sono esauste, e sugli asili comunali e statali si è riversata la domanda di quelle famiglie che non possono più pagare le rette di una scuola privata…». Così il rischio è che da luoghi di crescita e di apprendimento, le classi per i più piccoli «si trasformino — aggiunge Mantovani — in null’altro che parcheggi». Le liste d’attesa sono ovunque. E l’intero “sistema infanzia”, cioè la fascia degli 0-6 anni, già profondamente in crisi per quanto riguarda i nidi, (soltanto l’11% dei bambini sotto i 3 anni riescono ad accedere alle strutture, quasi tutte nel Centro Nord), rischia di scomparire. In Campania i bambini senza posto sono 3.500, in Toscana più 4mila, a Bologna oltre 400, a Milano 650, nelle Marche gli allievi sono 400 in più ma le sezioni sono state tagliate. Soltanto un pugno d’esempi, che raccontano però un salto all’indietro di 40 o 50 anni, quando era normale in Italia dormire davanti ai cancelli delle scuole pubbliche per ottenere l’iscrizione dei figli, ed era consueto che i bambini approdassero alla prima elementare senza aver frequentato nemmeno un anno di asilo. Ma è nel Sud che i tagli alla scuola d’infanzia, oltre ad aver provocato un’emergenza sociale, hanno anche il sapore di una beffa. «Migliaia di bambini di tutta la Campania, e in particolare della provincia di Napoli, nell’anno che verrà non potranno avere accesso alla scuola» dice con amarezza Angela Cortese, consigliere regionale del Pd. «E questo vuol dire che resteranno in casa, in famiglie spesso disagiate, soli davanti alla televisione o più spesso per strada, senza stimoli e senza controlli. Vanificando così un lavoro duro e tenace per combattere la dispersione scolastica tra i ragazzi del Sud: perché più è precoce l’approccio con la scuola, minori sono gli abbandoni nell’adolescenza. E adesso si torna indietro…». E non importa poi ricordare Don Milani e l’esperienza di Barbiana per rendersi conto di quanto la scuola, ancor più oggi in un’Italia impoverita e depressa, possa essere non solo un volano per un buon futuro scolastico, ma una “diga sociale”. Antidoto alla solitudine, alle troppe merendine, ad una infanzia senza stimoli, senza libri e senza amici. Basta ascoltare Gilda, giovane mamma di Antonio e Benedetto, di 6 e 4 anni, che vive vicino a Napoli, a Varcaturo, e guida un comitato di genitori in lotta contro la chiusura della loro scuola dell’infanzia. Ex impiegata in un call center, il marito capo magazziniere, Gilda racconta perché vorrebbe la scuola aperta anche d’estate. «Questi tagli mi terrorizzano. Con Antonio, il mio primo figlio, sono stata fortunata, sono riuscita ad inserirlo al nido, e poi, subito, all’asilo. Ha avuto delle maestre bravissime, era sempre contento, ed è arrivato in prima elementare che già leggeva e scriveva. Con Benedetto è tutto diverso: adesso che non lavoro più ho perso anche la priorità per il nido. Ho dovuto tenerlo sempre a casa, qui non c’è nemmeno un parco, un giardino, le strade sono piene di immondizia, di siringhe, di tossici, di cani randagi. Ora che scuola è chiusa non sappiamo davvero dove andare. E per la materna siamo ancora in lista d’attesa». Se al Nord i posti mancano perché ci sono più bambini (centomila nascite in più tra il 2006 e il 2011), e i Comuni non hanno più fondi, al Sud, al contrario, gli organici della scuola sono stati tagliati perché il numero dei figli decresce di anno in anno. Ma evidentemente il principio non ha funzionato e non ha tenuto conto, dice ancora Angela Cortese «della voglia di scuola delle famiglie e dei bambini, una cultura nuova che oggi viene depressa ». Il timore di Lorenzo Campioni, pedagogista emiliano che a lungo ha lavorato con Loris Malaguzzi, il fondatore degli asili di Reggio Children, è che i bambini di questi anni difficili «perdano il diritto alla straordinaria esperienza della scuola dell’infanzia che tutto il mondo ci invidia, l’unico campo in cui l’Italia ha raggiunto gli obiettivi europei». E infatti, ciò che la Ue chiedeva nelle famose “raccomandazioni di Lisbona” al nostro paese era di arrivare al 60% di occupazione femminile, al 33% di presenza nei nidi per i piccoli al di sotto dei 3 anni, e al 90% di frequenza dei bambini trai 3 e i 6 anni negli asili. E quest’ultimo era l’unico traguardo raggiunto. Fino a ieri. Lo scenario che Campioni, presidente del “Gruppo nazionale nidi e scuole d’Infanzia” ipotizza, è quello di una scuola per i più piccoli, sottoposta agli stessi vincoli che oggi già esistono per i nidi statali e comunali. «Non potendo più ammettere tutti, se non si invertirà la rotta, potranno accedere agli asili pubblici soltanto i meno abbienti, in un’idea puramente assistenziale del servizio, tutti gli altri si dovranno rivolgere alle strutture private, e molti magari rinunceranno ». Tornando agli anni in cui il primo accesso all’istruzione avveniva a sei anni. «L’espediente di molti Comuni — denuncia Francesco Scrima, sindacalista Cisl — sarà quello di formare classi anche di 30 bambini. Perdendo così ogni possibilità di un vero lavoro pedagogico». È come deprimere un patrimonio, enorme, di esperienze. Dai bambini di «aiutami a fare da solo» di Maria Montessori, ai piccoli dei «cento linguaggi» di Loris Malaguzzi. Così accade che in Toscana è stata la Regione a decidere di colmare il “buco” dello Stato, con uno stanziamento di 6,5 milioni di euro per riuscire a salvare l’asilo di quattromila bambini. «Nel nostro paese — conclude Francesca Puglisi, responsabile scuola del Partito Democratico — dalla Gelmini in poi il Miur ha dimenticato, anzi rimosso, l’infanzia. Facendo regredire la scuola dai 3 ai 5 anni ad una sorta di servizio a “domanda individuale” invece che a istruzione per tutti, nei fatti una vera e propria scuola dell’obbligo. E togliendo alle bambine e ai bambini il loro fondamentale diritto di crescere imparando».

Corriere 2.7.12
Eufileto e il delitto d'onore ad Atene
di Eva Cantarella


Il processo a Eufileto (si era attorno al 403 a.C.) fu seguito dagli ateniesi con appassionato interesse. Eufileto aveva sorpreso la moglie in flagrante adulterio, e per difendere il suo onore aveva uccisi l'amante di lei, Eratostene. Nel corso dell'orazione difensiva Eufileto raccontò nei dettagli la storia: la schiava di una ex amante di Eratostene lo aveva avvertito che sua moglie lo tradiva. Una schiava di casa, sottoposta a tortura, aveva confessato. Che altro poteva fare Eufileto per riscattare il suo onore, se non uccidere il rivale? Si trattava di attendere l'occasione, che finalmente arrivò: pensando che Eufileto fosse assente, Eratostene raggiunse l'amante. Eufileto, che non attendeva altro, corse a chiamare i vicini, perché vedessero e testimoniassero. La legge infatti, concedeva l'impunità a chi uccideva l'amante della moglie solo se lo sorprendeva in flagrante. E così fu sorpreso Eratostene: i primi testimoni lo videro sdraiato nel letto accanto alla moglie di Eufileto, quelli giunti subito dopo lo videro in piedi sul letto, nudo. Quanto bastava. Terrorizzato Eratostene supplicava Eufileto di non ucciderlo, ma Eufileto non lo ascoltò. Eratostene lo aveva disonorato, e lo uccise dicendo: «Non sono io che ti uccido, Eratostene; sono le leggi della città».

Repubblica 2.7.12
La chiusura della Fvg commission decisa in Friuli
La crociata anti-Bellocchio danneggia tutto il cinema


ROMA - Era partita come crociata anti-Bellocchio, "colpevole" di girare un film indirettamente connesso alla vicenda di Eluana Englaro. È sfociata nella decisione del Consiglio regionale del Friuli di chiudere la Fvg Film Commission, una decisione che, secondo molti, danneggia economicamente prima di tutto il Friuli visto che, finanziata con un milione di euro, la struttura muove affari per otto e dà lavoro a centinaia di persone. Le film commission (19, ognuna con una struttura giuridica diversa attraverso cui riceve ed elargisce finanziamenti) danno un sostegno concreto al cinema italiano in anni in cui il Fus, il Fondo unico dello spettacolo, si sta assottigliando. Quella del Friuli, insieme alla Torino-Piemonte film commission e alla pugliese Apulia film Commission, è stata finora una delle realtà più efficaci. Tra i film finanziati ci sono Come dio comanda di Salvatores, La ragazza del lago di Molaioli, la fiction C´era una volta la città dei matti. La decisione del consiglio regionale di sopprimerla non danneggia solo, ed è già grave, i film di Marco Bellocchio e di Giuseppe Tornatore (The Best offer) in fase di produzione, ma tutta l´industria dell´audiovisivo perché le commission sono un grande baluardo contro la delocalizzazione. Chiudere la Fvg Commission significa anche dare una mano alla concorrenza straniera, ai set a basso costo in Bulgaria all´Argentina. (a.fi.)