venerdì 6 luglio 2012

l’Unità 6.7.12
Confermate le condanne per il massacro alla Diaz, azzerati i vertici della polizia
Per i dirigenti della Polizia scatta l’interdizione, lo ha promesso il ministro Cancellieri dopo la conferma in Cassazione delle condanne per le violenze durante il G8 di Genova. Prescritti i reati di lesione per gli agenti
di Claudia Fusani


ROMA  La notte in cui in Italia fu sospesa la democrazia adesso ha dei colpevoli. Undici anni dopo giustizia è fatta. In nome del popolo italiano e di quei 93 ragazzi e ragazze ridotti in fin di vita. Il sangue della scuola Diaz adesso può essere lavato dai termosifoni e dalle pareti della scuola che nei giorni del G8 di Genova ospitava il quartier generale del Genoa social forum. Non può essere lavato dalla memoria, perchè le mattanze con l’alibi della divisa non possono mai essere ammesse in un paese civile. Ma, almeno, dalla lista dei conti in sospeso. Adesso si può tutti guardare avanti, le vittime, i magistrati, anche i condannati che non pagheranno con il carcere ma con l’interdizione dai pubblici uffici (per 5 anni) oltre ai risarcimenti. A suo modo, anche questa, una rivoluzione: tra i condannati in via definitiva per falso aggravato ( arresto arbitrario e calunnia sono già prescritti), ci sono infatti i vertici della polizia, il capo del DCA (divisione centrale anticrimine) Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, uno dei suoi collaboratori più stretti. Si tratta degli uomini, ottimi investigatori, che tre settimane fa hanno consegnato alla giustizia l’attentatore di Brindisi, solo l’ultimo dei successi di una squadra di investigatori che ha segnato la storia dell’antimafia e dell’anticrimine ma che quella notte del 21 luglio 2001 a Genova ha sbagliato tutto, non l’ha mai ammesso e l’errore più grave non ha mai chiesto scusa. Condannato in via definitiva anche Gianni Luperi, capo sezione analisi dell’Aisi (ex Sisde), Filippo Ferri (oggi capo della squadra mobile di Firenze), Fabio Ciccimarra (numero 1 della Mobile a L’Aquila). Sono i “pezzi grossi” tra i 27 imputati che annoverano anche la manovalanza e i quadri intermedi dei reparti mobili che quella notte decisero e fecero l’irruzione nella scuola alla ricerca di pericolosi black bloc armati di molotov e spranghe e invece si trovarono davanti solo ragazzi e ragazze che stavano dormendo nei loro sacchi a pelo esausti dopo tre giornate d’inferno. Eppure, nonostante l’evidenza dell’errore, quegli agenti non si fermarono.
Nessuno esulta alle sette di sera nell’aula magna della Cassazione quando il presidente della V sezione Giuliana Ferrua legge il dispositivo dopo nove ore di camera di consiglio segnate dal caldo e dal nervosismo. Assenti, come sempre in questi anni, gli imputati. Delusione tra i banchi dei legali. Ma non c’è voglia di esultare neppure tra i pochi protagonisti di quella notte. Ci vuole tempo per comprendere il verdetto. E forse lo si capisce di più e prima guardando le facce degli avvocati dei poliziotti. Lorenzo Guadagnucci è un giornalista di QN, quella notte era nel suo sacco a pelo al primo piano della scuola e ne uscì in barella con altri 92. È il protagonista del film «Diaz» (interpretato da Elio Germano) nonchè l’autore di due libri-testimonianza, Noi della Diaz (2002, ed Altra economia) e L’eclisse della democrazia (Feltrinelli, insieme con Vittorio Agnoletto). Temeva, come molti, il peggio: assoluzioni parziali, soluzioni piolatesche, qualche rinvio in Appello, altre dilazioni che avrebbero significato la pietra tombale su un processo già sbranato dalla prescrizione. «Ringrazio la Cassazione dice per aver scritto parole di giustizia nonostante le condizioni di estrema pressione. La Corte è l’unica istituzione che ha saputo e voluto cogliere quest’ultima chance dopo undici anni in cui tutte le altre istituzioni, Governo, Parlamento, Polizia di stato, hanno sempre deciso di stare dalla parte sbagliata accettando la copertura e nascondendo l’evidenza che quella notte c’è stata una spaventosa lesione dei diritti umani».
Una sentenza inattesa quella della V sezione. Molti, quasi tutti, erano convinti che la Suprema Corte non avrebbe mai avuto il coraggio di confermare la sentenza di Appello che nel maggio 2010 aveva condannato tutti gli imputati ribaltando il verdetto di primo grado (novembre 2008) che aveva assolto quasi tutti, tranne gli agenti che avevano materialmente alzato i manganelli. Come se non ci fossero stati ordini superiori a farli alzare, quei manganelli. Ordini superiori che invece hanno deciso a tavolino di fare quel blitz a freddo, nei modi e nei tempi della mattanza. I giudici dell’Appello avevano sentenziato che per quei fatti dovevano essere ritenuta colpevole tutta la scala gerarchica, i capi e gli esecutori, chi ha dato gli ordini e chi li ha eseguiti. E, sempre l’Appello, aveva anche deciso che non potevano scattare le attenuanti (che avrebbero già fatto scattare la prescrizione) perchè «dai servitori dello Stato si deve pretendere un comportamento integerrimo sempre, anche durante il processo». Invece in questi anni ci sono state omissioni, reticenze, 20 imputati su 28 non hanno voluto testimoniare in aula.
È questo alla fine che ha pesato di più: l’atteggiamento di sufficienza, non aver mai preso coscienza e consapevolezza di quello che era successo. Quando ricopri certi ruoli, quando sei responsabile della sicurezza di un Paese, l’assunzione di responsabilità è un obbligo morale prima ancora che giudiziario. «La catena di comando è stata condannata e questo è un grande risultato. La Diaz però pagina nera per la democrazia italiana e il Parlamento non ha mai voluto una Commissione per individuare le responsabilità politiche» dice l'avvocato Francesco Romeo.
Una sentenza severa. Dura. A suo modo beffarda: gli otto capisquadra del VII Nucleo Speciale della Squadra Mobile di Roma, i primi e gli unici ad essere condannati in primo grado per lesioni, si sono salvati grazie alla prescrizione che non fa scattare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
Ora scatta l’obbligo del ricambio dei vertici della polizia. «Attueremo il dettato della Cassazione» dice il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri per cui la sentenza «chiude una vicenda dolorosa che ha segnato tante vite in queste undici anni». Ma, aggiunge Vittorio Agnoletto all’epoca portavoce del Genoa Social Forum, «se sono stati condannati il numero 2, 3 e 4 della polizia dell’epoca, come è possibile che non ci siano conseguenze per l’allora n ̊1 Gianni De Gennaro che oggi è addirittura sottosegretario del governo?». De Gennaro non è mai stato imputato per questo processo. Aveva delegato La Barbera (scomparso nel 2002). Lui, Il Capo, seguiva e concordava ogni passo da Roma.

l’Unità 6.7.12
Amnesty International
Importante, ma nessuno ha ancora chiesto scusa


«Una sentenza importante, ma resta l’amaro in bocca perché nessuno ha chiesto scusa». Così Amnesty International sulla sentenza della Corte di Cassazione su quanto avvenuto a Genova nel luglio 2001. «Finalmente e definitivamente dice Amnesty , anche se molto tardi, riconosce che agenti e funzionari dello Stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani di persone che avrebbero dovuto proteggere». Tuttavia, Amnesty ricorda che i fallimenti e le omissioni dello Stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l’amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all’accertamento di fatti tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a nascondere i reati compiuti.

l’Unità 6.7.12
Undici anni dopo ma ora devono spiegarci il perché
di Oreste Pivetta


LA CASSAZIONE CONFERMA LE CONDANNE. CADE IL RISCHIO DELLA PRESCRIZIONE. QUALCOSA S’AGGIUNGE ALLA VERITÀ CHE SI SAREBBE DOVUTA COSTRUIRE NEL CORSO DI UNDICI ANNI FA ATTORNO A QUEL LUGLIO DI GENOVA, IL LUGLIO DEL G8. La sentenza riguarda quanto avvenne nella notte alla scuola Diaz: quattrocento agenti a caccia di no global, giovani, ragazzi e ragazze, anche qualche signore e qualche signora di mezza età, tutti coricati nei loro sacchi a pelo sul pavimento della palestra della scuola Diaz. Accanto ad ognuno di loro la borsa, con gli indumenti di ricambio, lo spazzolino da denti, i biscotti, i barattoli di marmellata, qualche libro, qualche giornale. Questa la scena del delitto: una «scena» che secondo i «vertici» di polizia e carabinieri meritava l’assalto, lo sfondamento dei cancelli (aperti) con i gipponi, le botte, le manganellate, il sangue... Nel cuore della notte. Davanti al mondo intero. La coraggiosa sentenza, che certifica falsificazioni, bugie, i soliti tentativi di insabbiare, dice molto. Non tutto però. Undici anni dopo ancora non sappiamo perché.
Ricordo le parole, il giorno dopo, di un appuntato della pubblica sicurezza, non più giovane, uno che, agente in strada, aveva seguito tanti cortei, tante manifestazioni, dal nostro Sessantotto in poi: «Qui hanno perso tutti la testa». Ricordo quanto ancora testimoniò, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma: «Sembrava una macelleria messicana».
Mi è capitato di assistere alla macelleria messicana, di raccogliere le voci delle vittime e quelle di chi, dalle case attorno, risvegliate nel cuore della notte, vi aveva assistito e la mattina dopo constatava di persona: la palestra ridotta a un tappeto di banali oggetti di ogni giorno; i caloriferi, alti termosifoni di ghisa, impiastrati di sangue; i gradini delle scale allo stesso modo sporchi di sangue, mentre qui e là ciocche di capelli erano l’evidenza di un corpo trascinato giù per le scale; le porte dei gabinetti, un ingenuo rifugio nel caos, sfondate; i computer di un’aula tecnica rovesciati a terra; fino alla staccionata che chiudeva il corridoio, perché dall’altra parte era aperto il cantiere di un’ala dell’edificio in ristrutturazione (non è un particolare da poco, perché due mattine più tardi, per la conferenza stampa dei carabinieri, erano stati esposti come corpi di reato, martelli da carpentiere, chiodi da carpentiere, qualche asse spezzata).
Tutto nella sequenza di quei giorni, dagli scontri ai primi cortei delle “tute bianche” alla morte di Carletto Giuliani in piazza Alimonda, dall’assalto alla Diaz all’ultimo attacco alla manifestazione popolare, alle violenze nella caserma di Bolzaneto, ai cori fascisti, tutto continua a stupire, scandalizzare, inorridire, perché dai tempi di Scelba, dei caroselli con le jeep, delle cariche a cavallo, dei morti in strada (l’altro luglio, quello del Sessanta), malgrado il terrorismo, malgrado le bombe e i depistaggi, malgrado le perdite di memoria di ministri e generali, qualcosa sembrava cambiato nel rapporto tra istituzioni, forze dell’ordine, cittadini, e nel segno della democrazia. Genova, piazza Alimonda, la Diaz, Bolzaneto furono un salto nel buio di un passato, un salto cercato, voluto, pensato, come una rivincita e una vendetta, rispetto al quale non teneva e non tiene una giustificazione che si richiama alle tensione di quei giorni, alla forza dei “neri” spacca vetrine. Come se invece si fosse cercata la “lezione”. Per questo un conto sono i poliziotti o i carabinieri violenti, un conto sono quanti hanno armato quei poliziotti e quei carabinieri, quanti li hanno “istruiti”, anche ingigantendo le paure e le minacce.
Molti, giudicando quelle vicende, si sono chiesti che cosa avesse ordinato Berlusconi; quali disposizioni avesse dato il ministro Scajola; che cosa ci facessero a Genova tra i tavoli dei comandi dei carabinieri o della polizia Fini e il suo parlamentare Filippo Ascierto. Loro potrebbero raccontare, dire, ricordare, aiutarci a dissolvere la nebbia, che le condanne non hanno dissolto, perché certo si possono indicare le responsabilità dirette della “catena di comando”, ma siamo lontani dal dare un nome e un cognome a chi architettò quell’esplosione di violenza sotto gli occhi del mondo e per quale ragione. Dopo undici anni, si potrebbe (e qualcuno lo farà) organizzare il bilancio dei condannati e degli assolti (la maggioranza), sommare gli anni di pena, contare le prescrizioni, elencare quanti non hanno visto neppure le porte di un tribunale. Si potrebbero confrontare le accuse (per lo più falso aggravato, calunnia, lesioni gravi). Si potrebbero citare quanti hanno fatto carriera. Qualcuno è andato in pensione. Molti abbiamo imparato a conoscerli: Gratteri, Luperi, Mortola, Canterini (ha lasciato per limiti d’età), eccetera eccetera. Si potrebbe... Resta inevasa quella domanda: perché? Cioè, di chi fu la responsabilità politica. Resta, dopo undici anni, una pagina oscura, scritta con impressionante e imperscrutabile (per noi) determinazione.

l’Unità 6.7.12
Daniele Vicari
Parla il regista del film Diaz «Quei dirigenti condannati oggi sono ai vertici. La stampa mi chiama, ma perché non si chiede conto ai politici di allora?»
«Senza il reato di tortura quell’incubo può ripetersi»
di Massimo Solani


ROMA «C’è poco da festeggiare. Questa vicenda è talmente grave che neanche la sentenza definitiva rende giustizia». Daniele Vicari è il regista di “Diaz. Non lavate questo sangue”, il film che ha sconvolto il festival del cinema di Berlino, vincendo il premio del pubblico, e che ha riportato alle cronache le violenze della “macelleria messicana” di Genova 2001. «Tuttavia dice queste condanne possono essere un punto di partenza per una discussione pubblica, interna alle istituzioni, ai partiti, ai movimenti e alle associazioni, che prenda in esame il tema dei diritti civili».
Perché propri i diritti civili?
«Perché il fatto che in Italia non esista una norma sul reato di tortura rende vicende come quelle di Bolzaneto e della Diaz ripetibili. Per questo dico che non c’è molto da festeggiare: invece di metterci a saltare sui marciapiedi dobbiamo metterci a lavorare, perché fin quando non saranno affrontati e risolti i nodi che hanno portato alla degenerazione di momenti della nostra vita sociale corriamo il pericolo di riviverli».
In questo senso il film è servito. È come se avesse risvegliato il paese da un preoccupante torpore della memoria.
«Io ho avuto istintivamente la voglia di raccontare non tanto le trame delle vicende, quanto il modo in cui sono state massacrate le persone che erano alla Diaz e a Bolzaneto, il modo in cui sono state costruite le prove false e come è stato comunicato in maniera distorta l’accaduto alla stampa. A mio avviso queste tre cose sono importantissime, perché riguardano tre principi fondamentali della convivenza civile: la libertà delle persone e la loro integrità, il rispetto delle regole da parte delle forze dell’ordine e la libertà di pensiero e di informazione».
Nella preparazione del film lei ha incontrato alcune delle persone che furono pestate nella Diaz e ha rivissuto attraverso le loro parole quelle ore terribili. Che impressione ne ha avuto?
«Chi era lì non dimenticherà mai quello che ha vissuto e visto. Soprattutto chi, arrestato nella scuola, è stato poi portate a Bolzaneto. Un incubo durato giorni per persone ridotte all’impotenza, torturate e umiliate. Persone che non avevano commesso alcun reato improvvisamente spogliate della loro identità e private di ogni diritto per giorni e giorni, un tempo lunghissimo trascorso a convivere spalla a spalla con la paura di essere uccisi. Questo non può succedere in un paese democratico».
Che tipo di accoglienza ha avuto la sua pellicola nel pubblico?
«Quella del film è una narrazione molto dura, eppure il pubblico l’ha sempre ac-
colta favorevolmente. Soprattutto la cosa che più mi ha colpito e stupito maggiormente è la passione con cui la gente poi è venuta da me per parlare di ciò che è accaduto. Nelle loro parole ho letto lo spaesamento e l’incredulità. “Ma è possibile che siano davvero accadute queste cose?”, ho sentito chiedermi più e più volte. È la stessa incredulità che si leggeva negli occhi delle persone che erano state arrestate alla Diaz, gli sguardi di quei ragazzi feriti che uscivano guardandosi intorno incapaci di credere a cosa gli era capitato».
Diversa l’accoglienza del dipartimento di pubblica sicurezza che, come raccontò mesi fa l’Unità, ha di fatto vietato ai poliziotti di parlare del film con la stampa. «La settimana corsa sono stato invitato a Bologna da un gruppo di agenti che hanno deciso di manifestare il proprio dissenso nei confronti della circolare. Io credo che quel documento mortifichi non solo il ruolo delle persone che vestono una divisa, ma mortifichi anche la loro intelligenza».
Serve una discussione pubblica, dicevamo. Ma parte della politica ha fatto fallire il tentativo di istituire una vera commissione parlamentare di inchiesta.
«La stampa mi chiama per commentare la sentenza, ma perché non si chiede invece conto ai politici? Perché non si chiede a loro il motivo per cui non hanno voluto affrontare questioni che oggi sono una bomba atomica all’interno delle istituzioni? Quei poliziotti condannati ai tempi erano dirigenti importanti, ma oggi rappresentano i vertici della polizia italiana. Il trauma che queste condanne portano dentro le istituzioni è enorme, e chi si prende la responsabilità di tutto questo?».

La Stampa 6.7.12
Quel delitto che l’Italia non punisce
di Vladimiro Zagrebelsky


La sentenza della Cassazione conclude sul piano della giustizia penale una vicenda nazionale tra le più gravi. Riferendosi ai dirigenti della polizia e agli agenti che avevano agito nella scuola Diaz in coda alla giornata di proteste contro il G8 del 2001, la Corte di appello di Genova, nella sentenza che ora la Cassazione sostanzialmente ha confermato, aveva parlato di «tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile» e di «enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. E’ noto anche che costoro furono minacciati ed umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo ad imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione.
E’ sui fatti gravissimi cui si riferiscono le imputazioni di lesioni che merita qui soffermarsi. Sul resto almeno, pur dopo undici anni, la giustizia penale si è pronunciata. Ma le violenze fisiche, pur accertate, sono rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste hanno avuto la sostanza di ciò che a livello internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che l’Italia ha ratificato nel 1988: l’atto con il quale un agente della funzione pubblica - personalmente o da altri su sua istigazione o con il suo consenso - infligge dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, per ottenere informazioni o confessioni, o per punire o intimorire la vittima. Oltre ad episodi di vera tortura, nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha ratificato nel 1955.
La Convenzione Onu contro la tortura impone agli Stati di prevedere nel loro sistema penale interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, mettere in atto opera di prevenzione e assicurare la punizione dei responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e da quella europea contro la tortura.
Ma l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni. Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce, l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore, come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal Tribunale di Asti, ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo nel nulla. Nel frattempo sembra che nemmeno siano state applicate sanzioni disciplinari e anzi che qualcuno dei responsabili abbia ottenuto promozioni.
Se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo. Accanto all’inadeguata gravità delle pene e l’operare dei condoni, è il meccanismo italiano della prescrizione che rende solo apparente la repressione dei fatti di tortura (come peraltro anche quella di altri gravi reati). Ma di questo, nella sua risposta al Consiglio dei diritti umani, il governo non ha fatto cenno.
La conseguenza sul piano della credibilità internazionale dell’Italia è seria. Essa sarà aggravata e certificata quando sulla responsabilità del governo italiano, per aver lasciato impunite quelle violenze, si pronuncerà la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale già sono stati presentati ricorsi.
In Parlamento si sono arenate iniziative legislative. Il pretesto fatto valere è stato quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono anche accuse più che fondate. Per altro verso in Parlamento si è preteso che le violenze, per costituire tortura, dovessero essere «ripetute» e non soltanto, come è ovvio, raggiungere un certo livello di gravità. In conclusione nulla si è fatto. Recentemente la discussione è ripresa. V’è chi si preoccupa e sostiene che solo ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è offensivo per i corpi di polizia. Purtroppo i fatti dimostrano che non si tratta di ipotizzare, ma di prevedere ed essere pronti a punire. E a me pare sia offensivo piuttosto pensare che le forze di polizia, nel loro complesso, preferiscano l’impunità di coloro che tradiscono la loro missione di legalità e rispetto delle persone.
Per attenuare l’impressione che si abbiano di mira le forze di polizia e trovare in Parlamento la necessaria condivisione, sta emergendo l’ipotesi di prevedere un delitto generico di tortura, che potrebbe essere commesso da chiunque, aggiungendo un’aggravante quando il fatto sia commesso da un agente pubblico. Un recente disegno di legge di iniziativa del sen. Marcenaro ed altri va in questa direzione. Soluzione tuttavia non facile, perché la finalità che muove il torturatore, nella definizione data dalla Convenzione Onu, rinvia naturalmente alla azione di forze di polizia o comunque ad organi dello Stato e difficilmente invece ad un soggetto indifferenziato. Ma, se serve a sbloccare la situazione, può trattarsi di soluzione opportuna.
E sarebbe bene che, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo discuterà i ricorsi contro l’Italia o il Consiglio dei diritti umani dell’Onu riprenderà in esame la questione, il governo si presenti potendo dire almeno che è stato messo rimedio, per il futuro, alla grave mancanza.

La Stampa 6.7.12
L’amarezza del Viminale: colpite le nostre eccellenze
Delusa la speranza di una “decisione saggia” da parte dei giudici
L’interdizione dai pubblici uffici e l’ipotesi radiazione significa carriera stroncata
di Guido Ruotolo


Undici anni dopo quella ferita si è riaperta. E oggi quel solco è diventato ancora più profondo. In molti speravano che arrivasse una sentenza «saggia» prima ancora che «giusta», che rendesse giustizia e nello stesso tempo facesse rimarginare quella ferita aperta. E invece la scelta della Suprema Corte di Cassazione di confermare le condanne di secondo grado rende quel solco quasi insanabile. Che avrà delle conseguenze.
Non potrà non averle intanto perché è stato condannato il gruppo «dirigente» del Viminale che in questi anni - prima, durante e dopo il G8 di Genova del 2001- ha rappresentato l’«eccellenza» degli investigatori italiani. Oggi, con la sentenza esecutiva, quel gruppo dirigente viene pensionato, dovendo scontare, come pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni (e rischiando la radiazione dalla polizia). La scelta dei giudici supremi se da una parte sembra rendere giustizia a chi, quella tragica notte del 21 luglio di undici anni fa, si ritrovò nelle aule della Diaz di Genova, pestato a sangue da una furia bestiale di «celerini» che uscivano da tre giorni di cariche, scontri, lacrimogeni e molotov, dall’altra parte lascia molti dubbi e rende insoddisfatti tutti coloro che da questa sentenza si aspettavano una decisione «saggia».
Con la vicenda della Diaz di Genova si è incrinato - non oggi ma allora il rapporto di fiducia tra magistratura e forze di polizia. La procura di Genova e il Viminale si sono ritrovati a combattere in questi anni un inusuale braccio di ferro. Oggettivamente, gli inquirenti hanno cercato di coinvolgere il vertice del ministero dell’Interno nella catena di comando responsabile del disastro del G8. Ma non trovando le «prove» di questo coinvolgimento, hanno processato il capo della Polizia dell’epoca, Gianni De Gennaro, accusandolo di aver indotto il questore di Genova, Francesco Colucci, a rilasciare false dichiarazioni. De Gennaro è stato assolto dalla Cassazione.
Ma per la Diaz vengono condannati l’attuale responsabile dell’Anticrimine in Italia, il prefetto Gratteri, il numero uno dello Sco Caldarozzi, il capo del reparto Analisi dell’Aisi (servizio segreto interno) Luperi e Mortola della Polfer di Torino. Era il gruppo dirigente sul luogo del «crimine» la Diaz. Ma l’allora prefetto plenipotenziario su tutta la gestione dell’evento G8 di Genova, Ansoino Andreassi, e lo stesso questore Colucci che di quella catena di comando hanno rappresentato i vertici, sono stati tenuti fuori dai processi.
La responsabilità penale è individuale, naturalmente. E i giudici di Cassazione hanno ravvisato per ciascuno degli imputati che quelle responsabilità individuate dai giudici di Appello andavano confermate. Attenzione, gli studenti e i ragazzi pestati selvaggiamente alla Diaz non potranno dire: «Sono stati condannati quelli che mi hanno pestato». Per le lesioni, gli agenti condannati sono stati graziati dalle prescrizioni. I Gratteri, Luperi, Caldarozzi e via a seguire sono stati condannati perché hanno cercato di gestire, per dirla con uno dei vertici del Viminale, «quella macchina impazzita».
Undici anni dopo, il potere giudiziario nei fatti decapita i vertici del Viminale: non sono affidabili, anzi sono un pericolo per la democrazia e la tenuta dell’ordine e della sicurezza nazionale. Questo è il messaggio, al di là degli aspetti penali, che arriva dal “Palazzaccio” e che viene raccolto dal Viminale con molta amarezza, per dirla eufemisticamente. Eppure stiamo parlando di investigatori eccellenti, di promettenti capi della Mobile (come quello di Firenze, Ferri) che oggi e per cinque anni non potranno più lavorare.
La «macelleria messicana», per dirla con i vertici dei reparti mobili presenti alla Diaz, fu l’esempio drammatico del fallimento della gestione dell’ordine pubblico a Genova. Il decennio appena concluso, gli Anni Novanta, era stato quello tragico dello stragismo eversivo dei Corleonesi e le forze dell’ordine e gli investigatori della polizia e dei carabinieri furono impegnati con successo nel contrasto e nella cattura dei mafiosi stragisti.
Fu un errore, certo, mandare alla Diaz funzionari “abituati” a fare le irruzioni nei covi dei mafiosi, ma allora, sarebbe onesto riconoscerlo, non c’era un gruppo di funzionari in grado di gestire al meglio l’ordine pubblico. Dopo Genova si è posto il problema, si è creata una Scuola e i risultati si sono visti in questi anni. Dopo Genova si è creata una nuova emergenza terrorismo e la si è saputa affrontare (dalle Br di Lioce e Galesi agli anarcoinsurrezionalisti terroristi della Fai). La conferma della condanna della Cassazione è sale su una ferita che andava rimarginata.

l’Unità 6.7.12
Il leader di Sel scrive in risposta all’articolo di Mario Tronti pubblicato ieri su l’Unità
Dopo le due sinistre una forza fondata su lavoro e uguaglianza
Fondamentale mettere all’ordine del giorno la crisi di valori lascito del berlusconismo
di Nichi Vendola


HO LETTO CON GRANDE INTERESSE E PROFONDA CONDIVISIONE LA RIFLESSIONE DI MARIO TRONTI PUBBLICATA IERI SU L’UNITÀ. Tronti squaderna la domanda che in tanti si stanno facendo, ovvero se esista la possibilità di costruire una soggettività politica di sinistra autonoma, che non sia più incastrata tra riformisti succubi dell’egemonia neoliberista e i radicali avvolti nelle scarlatte bandiere della testimonianza. Siamo partiti dalla nostra parzialità. Non volevamo un ennesimo «nuovo partito» ma provare a «riaprire la partita». La nascita di Sinistra ecologia libertà è tutt’uno con la domanda «si può uscire dalla crisi da sinistra?». Abbiamo iniziato dalle parole, dal vocabolario di un nuovo progetto di liberazione: beni comuni, diritti civili, diritti dei lavoratori, energie rinnovabili, sviluppo sostenibile... E soprattutto dalla parola eguaglianza, così densa di storia e ancora piena di promesse. È proprio la diseguaglianza prodotta dal finanz-capitalismo ad essere la radice della crisi di convivenza, ripartire da qui è indispensabile. Abbiamo poi immaginato una nuova grammatica, fatta di relazioni tra persone vive e non di mediazione tra apparati e blocchi di potere morti. Per noi, che amiamo la Costituzione repubblicana, nulla è più straordinario della pratica della democrazia, meglio se diretta e partecipata: in primo luogo nei luoghi di lavoro e poi nelle istituzioni rappresentative, mai tanto mortificate. Una grammatica nuova che scoprisse anche la forza delle primarie, con il primo obiettivo di aprire le scatole cinesi che hanno imprigionato i partiti.
Ad un certo punto della nostra storia siamo stati chiusi nel vicolo cieco delle due sinistre. Oggi, come giustamente ammonisce Tronti, la crisi non permette più dispute nominalistiche, ma richiama l’ambiziosissimo obiettivo di essere lievito per la nascita di una sinistra nuova e unitaria, moderna e legata alle sue radici vitali. Per questo Sel ha subito dichiarato di volersi mettere a disposizione di un processo più vasto, un comune campo che potesse costruire una comune soggettività politica.
Oggi questa meta, che appena pochi anni fa pareva una chimera, è a portata di mano. Il berlusconismo è rovinato nella polvere, ma è l’intera «fase neoliberista del capitalismo-mondo», per usare la definizione adoperata da Tronti, che svela tutta la sua potenza distruttrice, proprio nel momento in cui più è in crisi. A fronte di questa realtà, molti degli ostacoli ideologici che impedivano di ricostruire una sinistra moderna avrebbero dovuto dissolversi.
Penso che sia il nostro comune interesse guardare a questo livello i problemi, non ritornando alla pigra riedizione del terreno dell’alternanza. Il rapporto con i moderati rischia di essere solo tra ceti politici e, ancora peggio, tra i ceti politici interni ai nostri partiti. Del resto è opinione comune che il Pd non abbia affrontato tanti punti controversi che invece sarebbero facilmente risolti rivolgendo il proprio sguardo agli elettori del Pd stesso e di tutto il centrosinistra, dai diritti civili a quelli del lavoro.
Il punto oggi è come affrontare la prossima scadenza elettorale e, soprattutto, con quale progetto. Monti fa parte dell’orizzonte dopo il 2013? Il suo essere stato un governo «eccezionale per uno stato d’eccezione», tesi che per altro non ho mai condiviso, si è trasformato in norma, rigore e regola? Lo pensa sicuramente chi ha nostalgie del quindicennio blairiano, anche dentro il Pd. All’epoca si vinceva, alcuni dicono, eppure è da allora, come ci ricorda spesso Jacques Delors, che si sono aperte le via al trionfo della destra liberista, che oggi detta l’insostenibile linea dell’austerità. La nuova sinistra non può accontentarsi di temperare gli appetiti del neoliberismo e fare da sentinella alla casta dei superfinanzieri che hanno prodotto la crisi. La nuova sinistra deve essere invasa dall’irruzione del suo popolo, che oggi accumula distanza e rancori, piuttosto che speranze e fiducia.
A questo servono le primarie, e sono, esse stesse, soltanto un primo passo. Noi per primi non sapremmo che farcene se dovessero ridursi a un berlusconiano concorso di bellezza, a una gara di telegenicità. Esse devono essere il terreno privilegiato per confrontare le diverse idee dell’Italia.
Una nuova e unitaria sinistra ha quindi bisogno di idee e di gambe per sostenerle. Ci sono tre aspetti irrinunciabili, che ritengo costituenti in Italia ed in Europa.
Il primo e fondante è una nuova valorizzazione del lavoro, invertire il metodico processo di sgretolamento della dignità del lavoro che ha costituito l’essenza dell’egemonia neoliberista. Mettere al centro il lavoro significa anche garantire reddito a chi il lavoro non ce l’ha o lo ha solo in via saltuaria e precaria. Per questo abbiamo proposto un reddito minimo garantito per tutti, per liberare il lavoro e per disegnare un moderno welfare universale. Vale la pena sottolineare che il lavoro incrocia la base materiale di una società diseguale, anche nel rapporto maschile-femminile, e che il lavoro non può più estrarre ricchezza dalla dissipazione dell’ambiente. L’uguaglianza modernamente oggi vive nella parità di genere, nella critica della svalorizzazione delle diversità, in una nuova profezia laica fondata sul custodire i beni comuni, la bellezza del creato, la dignità di ogni singolo individuo.
In secondo luogo bisogna costruire gli Stati uniti d’Europa. Dall’alto, integrando i processi istituzionali e politici, a partire dall’elezione diretta del presidente del Consiglio europeo, garantendo una governance federale della finanza pubblica continentale ed un controllo forte sugli eccessi della finanza. Dal basso, mettendo insieme soggetti politici e sindacati che non si richiudano negli egoismi nazionalisti. Per me non è più tollerabile che un operaio greco sia contro uno tedesco, ed entrambi contro quello italiano, mentre i loro affamatori speculano allegramente insieme sulle loro disgrazie.
Infine, credo che sia fondamentale mettere all’ordine del giorno la crisi morale e di valori che l’ingordigia neoliberista, e a maggior ragione da noi il berlusconismo, ci lascia come pesantissima eredità. La miseria della politica sta proprio nell’essersi ridotta a riflesso e incarnazione di questo degrado etico, senza alcuna capacità di affrontarlo offrendo un orizzonte, un progetto complessivo e una speranza fondata. Una narrazione e il rinnovamento dei narratori, questo è il nostro obiettivo.
Su questa strada non c’è distinzione tra gli elettori dell’una o dell’altra forza della sinistra, o tra molti di quelli che, stomacati e disillusi, non votano più. È il nostro terreno comune, la somma di domande uguali per tutti alle quali dobbiamo rispondere cogliendo, perché anche in questo Mario Tronti ha ragione, la preziosa occasione che la crisi ci offre.

l’Unità 6.7.12
L’intervento di Valter Veltroni
«Il governo fa bene, Ora tocca a noi cambiare il Paese»


Pubblichiamo ampi stralci del discorso pronunciato ieri a Montecitorio durante il dibattito sul recente Consiglio europeo di Bruxelles

Due cose non abbiamo il diritto di permetterci. Il provinciale trionfalismo nazionalista con la conta arrogante e rischiosa dei vincitori e dei vinti e il tentativo di iscrivere a questo o a quello schieramento europeo o italiano il grande risultato che il governo italiano ha ottenuto a Bruxelles. Non ha vinto l’Italia e non ha perso la Germania, o il contrario. Ha fatto un passo in avanti l’Europa. Abbiamo dimostrato di poter essere non un problema per l’Europa, ma un soggetto decisivo per tenere unite le diverse culture e i diversi interessi che legano nazioni così dissimili. Ma l’Europa non può restare un’opera incompiuta. Viviamo una condizione certo inedita, ma la storia ci dovrebbe aver ammaestrato sui rischi di declino di nazioni e civiltà.
Il presidente Monti ha detto parole giuste, di accorata preoccupazione, circa lo stato della democrazia in Europa. Le nostre istituzioni, nazionali e comunitarie, faticano a decidere, zavorrate da lentezze intollerabili agli occhi di cittadini scossi dalla prospettiva di una inaspettata retrocessione sociale e, peraltro, abituati ad una società veloce in tutto, dalle tecnologie alla comunicazione. Per questo vorrei dire oggi che il principale contributo al veleno dell’antipolitica spesso viene proprio dalle furbizie e dalle ipocrisie della politica. Nel momento in cui il vostro lavoro è iniziato le regole di ingaggio prevedevano che il governo cercasse di arrestare il rischio del declino o del tracollo del Paese e che i partiti facessero due cose: la riforma istituzionale e quella elettorale. Si può discutere la qualità dell’azione del governo, è legittimo farlo. Ma non che abbia provato e in parte sia riuscito.
È la politica in ritardo, in grave ritardo. Un accordo sulla riduzione del numero dei parlamentari e sul miglior funzionamento dell’esecutivo e delle Camere è stato stracciato in nome di una manovra propagandistica volta a riagganciare vecchi schieramenti politici. Lo dico con dolore perché penso che una seria discussione sul modello istituzionale ed elettorale francese sarebbe stata legittima. Ma, come è evidente, non si passa da un sistema parlamentare ad uno semipresidenziale con un emendamento. È materia da affrontare in una sede costituente, ormai necessaria. Il risultato è che l’accordo raggiunto è stato fatto irresponsabilmente saltare. E lo stesso è con la legge elettorale. Non si riporti il Paese, tra un anno, a votare con un sistema incivile come il Porcellum. Il tempo sta scadendo, chi ritarda se ne assumerà la responsabilità. Ma è il contrario di quello che il Pd auspica.
Questo è un tempo di decisioni difficili, non di slogan. Ed è un tempo nuovo, davvero nuovo. Viverlo e affrontarlo con il bagaglio o la rassicurante corazza delle ideologie non aiuta nessuno. Per questo vorrei che abbandonassimo le due che più danneggiano il nostro Paese oggi. La prima è quella di un liberismo che ha poco a che fare, davvero poco, con la cultura liberale. È l’ideologia dello Stato minimo, della deregulation, del liberi tutti. È l’ideologia della finanza che sovrasta l’economia reale, la fatica, il talento, il coraggio di chi intraprende e lavora. Roba vecchia, ormai. Una idea della modernità che, per dirla con Calvino, assomiglia a «un cimitero di macchine arrugginite». Le democrazie non possono essere minacciate da poteri invisibili e sottratti ad ogni controllo.
La seconda ideologia è quella della conservazione sociale. Nulla si può mai toccare, per fare efficienza, per combattere sprechi e disonestà, per tutelare i meno protetti. Ci si scaglia contro il lavoro di chi contrasta l’evasione fiscale dimenticando che solo se pagheremo tutti pagheremo meno. Si difende l’esistente in un legittimo, ma devastante, esercizio di particolarismi che, per me, è il contrario di ciò di cui l’Italia ha bisogno: riformismo, equità, opportunità, innovazione. Non dobbiamo aver paura del nuovo, specie noi. Sarebbe paradossale se proprio le culture progressiste, finissero, magari involontariamente, col difendere l’esistente e col sostenere, sempre involontariamente, che questa società è, in fondo, la migliore possibile e che è meglio non cambiarla. No, questo Paese è un pozzo senza fondo di diseguaglianza e di ingiustizia sociale, di corruzione e di immobilismo. È un Paese devastato, più di ogni altro, dalla criminalità organizzata che è sempre più forte e controlla affari e politica in misura sempre crescente. È un Paese cattivo con i suoi giovani.
Non si può continuare ad aumentare le tasse, e l’Iva non può crescere, come il governo precedente aveva stabilito. Allora bisogna tagliare. I lavoratori che faticano sanno che gli sprechi sono il loro peggior nemico. Se la presidenza della Regione Sicilia ha più dipendenti di Downing Street è evidente che c’è qualcosa che non va. Ricordo quello che diceva un grande sindacalista come Lama: «I lavoratori sono parte di un tutto, una parte che lotta, che si batte, ma che è pur sempre collocata all’interno di quella cornice che è l’interesse generale del nostro Paese». Lo dico in primo luogo a me stesso e alle culture della mia vita.
Ma lo dico anche al governo, che si appresta, solo nell’interesse del Paese, a nuovi tagli. A voi dico, pensate agli ultimi. Pensate ai ragazzi che non trovano lavoro, ai cinquantenni che lo perdono, ai piccoli imprenditori che stanno decidendo se chiudere l’impresa di famiglia. So che il tempo che ci è dato di vivere è il più difficile dal dopoguerra. E so anche che forse dovremo rivedere in Occidente standard che si sono ininterrottamente espansi per decenni. Ma rinunci per primo chi ha. Non chi sta al confine con la sopravvivenza, non chi deve costruire il Paese del futuro, non chi rischia con il proprio lavoro o con il proprio talento. Tagliate sprechi e privilegi, ovunque li troviate. Abolite carrozzoni e snellite le istituzioni, senza esitazioni. Ma salvate e migliorate lo Stato sociale, salvate la più grande conquista del secolo scorso. Potenziate la scuola, l’università, la ricerca, la cultura, l’ambiente.
Una società dinamica, equa, aperta. Ci vorrà tempo, fatica e coraggio. Ci vorrà di ritrovare le parole sepolte sotto la polvere di quelle troppo usate, parole come solidarietà, comunità, sussidiarietà. L’Italia è un grande Paese. Monti a Bruxelles lo ha fatto pesare. Alla politica il compito di sostenere oggi, lealmente e unitariamente, questo lavoro e domani di indicare, ciascuno per la sua parte, un cammino di vero, radicale, cambiamento dell’Italia.

l’Unità 6.7.12
La sfida del cambiamento per ripartire
La nuova identità della sinistra deve essere al centro dell’agenda politica del Pd e della società civile
di Marina Sereni


PROPRIO DALLE GRANDI CRISI TENDONO A SCATURIRE LE ROTTURE PIÙ PROFONDE», scriveva qualche giorno fa Gianni Cuperlo, sollecitando il Pd e le forze progressiste a non rinunciare a coltivare l’utopia, la prospettiva di un cambiamento radicale. Condivido. Siamo di fronte al fallimento di un modello in cui è stata egemone la destra su scala mondiale e rispetto al quale la sinistra di governo, in Europa e non solo, non è stata in grado di elaborare una visione alternativa e credibile. Questa inadeguatezza ha coinciso con la perdita di peso della politica, organizzata ancora in gran parte su scala nazionale, nei confronti dei poteri globali della finanza e della comunicazione. È dunque indispensabile prendere le mosse da una riflessione strategica sull’Europa che affronti le contraddizioni che questa crisi ha fatto emergere drammaticamente.
Queste contraddizioni possono avere un effetto deflagrante oppure spingere l’Europa, e i soggetti politici che credono nell’utopia realistica del progetto originario, a compiere una svolta. «In ogni singolo stato dell’Europa scrive Ulrich Beck si è finora potuta adottare la metafora nota e diffusa secondo cui quanto più è grande la torta da spartirsi, tanto più saranno grandi le fette che toccheranno ai singoli paesi. Finora non era mai accaduto che la spartizione fosse in negativo. (...) Negli Stati Uniti la disparità concerne gli individui, nell’Unione Europea le nazioni. (...) Sulla scia della crisi finanziaria globale si inasprisce la differenza tra stati creditori e stati debitori, il che provoca reazioni antieuropeistiche e xenofobe in entrambi i gruppi di Paesi».
L’attacco all’Euro ci costringe a fare in fretta. È bene non alimentare miti e dirci che su questo terreno il confronto in Europa non è semplicemente riconducibile alla dialettica destra/sinistra, conservatori/riformatori. Ha ragione Bersani quando dice, anche in riferimento all’esito positivo dell’ultimo Consiglio Europeo, che a Bruxelles come a Roma c’è spazio e bisogno di un’alleanza tra tutte le forze che intendono contrastare le pulsioni populiste e antieuropee.
Ciò non significa che siano venute meno le ragioni di una competizione tra destra e sinistra e che non sia necessario, per tornare alla suggestione di Cuperlo, cogliere l’occasione di questa crisi, e dell’implosione che essa sta provocando in Italia nel campo conservatore, per misurarci con la sfida di dare alla sinistra una nuova identità, di allestire un treno fatto di vagoni nuovi. Proporrei di tematizzare questo lavoro e di metterlo definitivamente al centro dell’agenda politica di questi mesi come grande discussione pubblica nel Pd e con le forze vitali della società italiana.
«La società post-industriale, la globalizzazione portano con sé dilemmi in larga misura nuovi: equità-efficienza, tutele-merito, protezione-concorrenza, diritti sociali-competitività. Dilemmi che non possono essere ricondotti al confronto pubblico-privato. Se i progressisti, i riformisti, vogliono essere una forza che aspira a governare gli eventi e non a subirli devono accettare la sfida di questi cambiamenti».
Così iniziava il documento conclusivo del nostro ultimo incontro di Cortona in cui identificammo alcune questioni-chiave che mi sembra possano risultare utili per riassumere la natura della sfida: democrazia e rappresentanza, ovvero come dare governo democratico ai processi politici ed economici e come regolare la sfera pubblica per rendere più efficiente la pubblica amministrazione e l’azione di governo; bene comune, ovvero come rileggere criticamente la stagione delle privatizzazioni senza liberalizzazioni e come costruire ambiti e meccanismi in cui gli attori economici interagiscano tra di loro fuori dai puri rapporti di potere o di forza economica; protezione, per una comunità aperta e inclusiva, ovvero come ridare centralità al lavoro e rileggere il welfare alla luce delle trasformazioni avvenute in questi decenni; nuovo patto per il futuro, ovvero come premiare il merito e offrire opportunità. Sono soltanto dei titoli, che provano tuttavia a scendere dai valori e dai principi alla concretezza delle proposte politiche, sapendo che per un tempo non breve l’Italia e più in generale l’Europa dovranno fare i conti con una disciplina di bilancio stringente. A risorse decrescenti dobbiamo far corrispondere un tasso crescente di innovazione e fantasia, per proporre un’idea dello sviluppo e del benessere capaci di dare valore ai beni relazionali, alla qualità, alla conoscenza, alla sostenibilità ambientale.
Ecco, se nei prossimi mesi a partire dall’Assemblea del 14 luglio potessimo confrontarci su questi temi, sul merito della nostra idea di cambiamento dell’Italia e dell’Europa, credo troveremmo anche la risposta più equilibrata sul grado di continuità/discontinuità che possiamo immaginare tra la proposta che il Pd porterà agli elettori nel 2013 e l’esperienza complessa del Governo Monti che noi stiamo sostenendo.

l’Unità 6.7.12
Primarie, l’Assemblea del Pd non ne parlerà
Renzi: rispettare i patti
Bersani vuole seguire il percorso annunciato in Direzione:
prima il programma, poi la sfida
Bindi: «Avviare la costruzione dell’alternativa»
di S. C.


Il segretario vuole delineare il decalogo su cui comporre la «carta di intenti» della coalizione

ROMA Una giornata anziché due e niente discussione sulle regole delle primarie. L’Assemblea nazionale del Pd si svolgerà il 14 (inizialmente era prevista l’apertura venerdì 13, ma causa lavori parlamentari si è deciso altrimenti). E, stando a quanto scrive la presidente Rosy Bindi nella lettera di convocazione spedita ieri, si parlerà della situazione politica italiana, degli sviluppi nel panorama Europeo, del confronto sulla legge elettorale e su come «avviare la definizione dei punti programmatici per l’alternativa che il Pd intende presentare al Paese». Si adotterà anche il documento elaborato dal Comitato diritti del Pd, spiega sempre Bindi nella lettera di convocazione, mentre nel testo arrivato ai membri dell’Assemblea nazionale non c’è alcun riferimento alle primarie per scegliere il candidato premier del centrosinistra.
Nei giorni scorsi, tra i membri della Direzione, si era sparsa la voce che all’Assemblea si sarebbe approvata una deroga che consentisse a qualunque iscritto e non soltanto al segretario del Pd (com’è da Statuto) di correre per la premiership del centrosinistra. Una deroga che consentirebbe a Matteo Renzi di candidarsi stando in regola con le norme previste dal suo partito. Ma ora la mancanza di ogni riferimento alle primarie ha fatto scattare l’allarme tra quanti temono che l’appuntamento con i gazebo possa saltare. Sandro Gozi chiede che il 14 si stabilisca la data delle primarie e parla di «un ordine del giorno vuoto, che arriva dopo una serie di dichiarazioni di diversi dirigenti del Pd miranti a smontare la decisione presa in Direzione».
Renzi interviene via web dicendo che vuole confrontarsi «sulle idee per il futuro dell’Italia, non sulle meschine questioncine tattiche interne». E poi: «Dopo che Bersani aveva annunciato le primarie per il 14 ottobre, ci comunicano dalla regia che probabilmente la data slitterà e che la prossima Assemblea del Pd forse fisserà la data, ma rinvierà le regole. Molti vorrebbero stracciarsi le vesti e fare polemica, ma io credo che Pierluigi Bersani sia un galantuomo e che manterrà l’impegno preso».
In realtà Bersani non ha mai annunciato primarie per il 14 ottobre (in Direzione disse «entro la fine dell’anno»). E a decidere la data saranno tutti quelli che sigleranno la cosiddetta «carta di intenti». È proprio per «rimettere ordine alla discussione», spiegano al quartier generale dei Democratici, che si è deciso di non discutere all’Assemblea del 14 di primarie, foss’anche di regole interne al solo Pd. Bersani vuole rispettare il percorso annunciato alla Direzione, che prevede innanzitutto una proposta politica e la scrittura della «carta d’intenti», poi la costruzione del perimetro dell’alleanza dei progressisti (ne farà parte chi siglerà la «carta») e infine la sfida per la premiership (ovvero le primarie, che difficilmente potranno tenersi prima della fine di novembre o dell’inizio di dicembre).
Diversi dirigenti del Pd, dopo la Leopolda di Renzi e l’accendersi della discussione sulle primarie, avevano espresso perplessità sul fatto che «di fatto» si stesse «partendo dalla fine» (Massimo D’Alema) e avevano anche consigliato, dopo l’apertura di Casini a un patto tra progressisti e moderati, di rinviare l’Assemblea del 14 (Pierluigi Castagnetti).
Bersani ha deciso di confermare l’appuntamento, ma anche di approfittarne per «mettere ordine» ridando forza al percorso politico. Così il 14 aprirà i lavori con una relazione in cui inizierà a delineare le linee guida di quel «decalogo» che nelle sue intenzioni dovrà essere la «carta di intenti». Tra le parole che daranno il titolo ai diversi paragrafi ci sono questione democratica e questione sociale, civismo, riforme, responsabilità. Ci sarà anche una parte dedicata alla necessità, per chi volesse far parte della coalizione dei progressisti, di cedere una parte di sovranità in Parlamento, prevedendo decisioni prese a maggioranza tra i gruppi e il vincolo a rispettarle.

l’Unità 6.7.12
Alle primarie vincerà un mix di conservazione e radicalità
di Roberto Weber


SO CHE GLI ELETTORI IN QUESTIONE NON AMANO SENTIRSELO DIRE, MA OGGI CHI È ALLA RICERCA DI VALORI TRADIZIONALI, MAGARI CONDITI CON UN FILO DI CONSERVATORISMO e non scevri da un certa dose di moderazione, deve guardare al centro, al centro-sinistra e a sinistra. Non c’è da stupirsene: il grande studioso americano Tony Judt, in uno dei suoi ultimi lavori, sostenne che è sempre stato compito della sinistra (concetto che lui naturalmente utilizzava in termini piuttosto inclusivi) difendere le cose che andavano giustamente conservate a fronte della aggressività trasformativa delle varie forme di capitalismo. E non c’è nemmeno da vergognarsene: un certo spirito patriottico, un più forte sostegno all’Europa, una maggior consapevolezza del valore dei cosiddetti beni pubblici (dall’acqua all’energia, al territorio, alla sanità, etc), una faticosa difesa dell’intervento pubblico nel mercato e nella vita dei cittadini, sono sempre stati al centro dell’attenzione della sinistra (fosse essa cattolica, comunista o per certi versi socialista). Così è stato e così è.
È molto probabile quindi, anzi è certo, che le elezioni primarie verranno vinte in buona misura da chi saprà interpretare, o meglio da chi simbolicamente riuscirà a rappresentare questi valori, in misura più o meno intensa. Salvo prendere in considerazione un nuovo e diverso scenario: potrebbe infatti accadere che alla luce di una situazione economica suscettibile di inasprirsi, al riverbero di certi non chiusi pasticci politici, di fronte alla scarsa incidenza della proposta politica e al contemporaneo chiacchiericcio che l’accompagna, l’insofferenza e la rancorosità che pure intaccano nel profondo anche gli elettori del cosiddetto centro-sinistra travalichino e sfocino in una domanda nettissima di cambiamento dell’attuale personale politico.
In questo caso è abbastanza evidente il candidato vincente sarebbe quello che, oltre a quei valori che abbiamo citato, saprà farsi carico anche della promessa di cambiamento, naturalmente qui ed ora e non in una supposta stagione che verrà. Fino a oggi i sondaggi dei vari istituti di ricerca hanno assegnato un certo vantaggio a Bersani, rispetto a Vendola e Renzi. Un vantaggio che tende ad accentuarsi all’interno della platea tendenzialmente votante e ad attenuarsi nella platea (finora) di opinione, ma obiettivamente siamo ancora piuttosto lontani dal voto e in tempi di forte volatilità come quelli attuali è bene sospendere il giudizio e quindi le agevoli pre-visioni.
Credo tuttavia ci siano alcuni punti fermi: conteranno i valori di cui abbiamo detto, conterà quasi certamente un bisogno di cambiamento, ma conterà ancor più un bisogno piuttosto diffuso di radicalità, di discontinuità. Non basterà per affermarsi né la formula dell’usato sicuro, né l’invito alla rottamazione condito da tweet, né il lirismo di sinistra.
Qualcuno potrebbe obiettare che vi sia una contraddizione fra quel conservatorismo di cui abbiamo parlato e la contemporanea richiesta di radicalità cui abbiamo fatto cenno. Credo invece che le due cose convivano, si compenetrino, abbiano un forte bisogno di rappresentazione e siano l’esito di una stagione politica per molti versi esasperante per i moltissimi che pure sulla politica continuano a investire. E credo che gli elettori primaristi chiederanno ai loro candidati di uscire da quella mediaticità che li avvolge tutti, di apparire insomma veri, liberi da filtri. Il paradosso ma è il paradosso di sempre è che per farlo Bersani, Renzi, Vendola dovranno comunque affidarsi ai media, accettando la subdola sfida di essere o apparire veri. Come tutti sanno, infatti, solo raramente le due cose coincidono.

l’Unità 6.7.12
Non possono esistere diritti e dirittucci
di Ilda Curti

Assessore all’Urbanistica Comune di Torino

CI SONO ARGOMENTAZIONI, USATE ANCHE DA ALCUNI ESPONENTI DEL NOSTRO PARTITO NELLA DISCUSSIONE SUI DIRITTI CIVILI E IL MATRIMONIO TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO, CHE PUR SFORZANDOMI FACCIO FATICA A CAPIRE. Iniziano con una premessa: non si vuole discriminare, il Pd è un partito progressista che riconosce i diritti (e ci mancherebbe, direi). Tutti sono uguali MA è indispensabile promuovere una «piattaforma di diritti differenziati», così dice su l’Unità di giovedì l’onorevole Lucà. Le variazioni sul tema sono molteplici. Chi ha una situazione difforme rispetto ad un “diritto naturale” non può rientrare con pienezza tra chi gode di diritti civili uguali per tutti. Ha bisogno di una piattaforma di “dirittucci”: concessi perché siamo buoni. Parliamo di quei diritti civili che, all’atto del loro godimento, non limitano la libertà di nessuno. La cornice è lo Stato di diritto, laico per antonomasia: la laicità comprende le differenze, le rispetta e le tutela. Si incardina su alcuni principi fondamentali: tra questi quello dell’uguaglianza e quello della libertà. Non può esistere l’una senza l’altra. Consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso non impedisce ad altri di godere dello stesso diritto. Si può tranquillamente credere nella sacralità del matrimonio, ci si può sposare tra eterosessuali, davanti all’altare o vestiti di bianco. Il matrimonio civile è un contratto tra due persone davanti alla Comunità civile: gli articoli del Codice che lo regolano implicano diritti e doveri tra le due parti. Si parla di coniugi, al plurale.
Al di là della propria convinzione etica, sono quelli che regolano la famiglia come patto di mutua solidarietà e responsabilità tra due persone. Faccio fatica ad escludere Daniele, Andrea, Massimo o Roberta e i loro compagni/e da questo perimetro. Introdurre un generico riconoscimento delle coppie di fatto, siano DICO o PACS, appanna di un velo di ipocrisia la questione: le coppie eterosessuali un’opzione ce l’hanno, possono sposarsi civilmente. Sono le coppie omosessuali che sono private della libertà di scelta. Le argomentazioni che vengono portate dai fautori dei “dirittucci” contengono dei forti elementi di ambiguità.
Come ci fosse un non detto: la propria sensibilità etica deve permeare le scelte del legislatore. Deve valere per tutti in quanto si suppone maggioritaria. Però non si può essere “un po’ laici”, come non si può essere “un po’ incinta”, “un po’ antirazzisti”. Se si è laici e si crede nei principi di libertà e di uguaglianza bisogna ammettere che le proprie convinzioni personali o collettive rappresentano, comunque, una parte del tutto. Pretendere non venga limitata la propria libertà garantendo di non limitare quella degli altri. Lo sforzo della politica, in particolare la nostra, è di rappresentare il tutto tenendo conto delle parti. Accettando l’evoluzione sociale e il cambiamento in società sempre più complesse e plurali che non possono essere, usando una sineddoche, ridotte ad una parte sola. Ad un modello che vuole dirittucci per cittadinucci, io credo si debba opporne uno che vuole diritti per i tutti. Nell’uguaglianza e nella libertà. Allargando il perimetro dei diritti per concorrere a quella democrazia inclusiva di cui parlava Bobbio. In quanto a me sono eterosessuale, donna, nei comportamenti appartenente alla maggioranza. Ma non riesco a sentirmi libera ed eguale se non lo sono tutti.

l’Unità 6.7.12
Beltrandi, il fine radicale che non si giustifica mai
di Toni Jop


Non votando, ha consentito l’elezione del pidiellino Pilati. Ma questa è solo l’ultima mossa del deputato che è stato promotore del bavaglio ai talk show

In coda alle faticosissime nomine nel consiglio di amministrazione della Rai del tutto imperscrutabili per il grande pubblico ecco una nota di colore che fa brillare la complessità delle culture custodite dal Pd e insieme contribuisce a delineare un autentico personaggio dei nostri giorni. Si chiama Marco Beltrandi ed è deputato radicale eletto nelle file del Pd. Ottima persona, ma ieri, polemizzando con i suoi colleghi di schieramento, è riuscito ad accusare Luigi Zanda di essere un comunista.
Il senatore Zanda, Pd, ha maturato un ricchissimo passato navigando nel mare della Dc e perfino a un esame lombrosiano risulterebbe del tutto estraneo alla sofferta fisiognomica comunista. Ma Beltrandi è sicuro di quel che dice: «Capisco ha detto rivolto al povero Zanda che per le influenze della cultura comunista i fini giustifichino sempre i mezzi...». Ci vorrebbe una foto di Zanda; poi, bisognerebbe spiegare perché Beltrandi si è arrabbiato e capire com’è che dentro il medesimo partito ci possa essere un radicale, eletto coi voti della base Pd, che accusa un ex democristiano, ora Pd, di essere un comunista. Proviamo.
Torniamo a quando pareva che il partito di Berlusconi sarebbe riuscito a far collassare ogni tentativo di dare alla Rai un Cda rinnovato. Il Partito democratico stava introducendo un elemento di rottura nei confronti della melina spartitoria del passato. Infatti, il Pd si è rifiutato di partecipare alla spartizionechiedendo alla società civile l’espressione di un paio di nomi al di sopra di ogni sospetto sui quali si sarebbe impegnato poi a votare. Fatto. Bisognava agire in fretta, altrimenti la tagliola del Pdl avrebbe terminato di spezzare le reni alla Rai congelando gli equilibri di potere nel Cda costruiti a vantaggio di Berlusconi. Schifani fa il suo mestiere: patrocina l’eliminazione del consigliere di Vigilanza (Amato) non più «affidabile» per Berlusconi e la sua «opportuna» sostituzione (con Viespoli) in vista delle votazioni, alla velocità di un bosone.
Beltrandi, intanto, provvede a non votare togliendo la possibilità concreta di ridimensionare il ruolo del Pdl nel Cda e grazie solo alla sua assenza passa il nome di Pilati, grand commis berlusconiano. Poi, a rinnovo fortunatamente concluso, attacca Zavoli «per la sua gestione di regime» (gasp!) mentre in seconda battuta lamenta con morigerata formalità «l’errore» («grave», ammette ma in un inciso) di Schifani. Zavoli sarebbe colpevole, secondo il deputato radicale, di non aver vagliato i curricula degli aspiranti, cosa che il presidente non avrebbe potuto fare, a rigore di normativa. Ma conta la sostanza, soprattutto in tempo di guerra e questo tempo lo è. Tanto è vero che Pilati è passato, il Pdl conserva per questo il controllo berlusconiano sulla Rai e intanto Beltrandi rigoroso pannelliano se la prende con Zavoli. Zanda replica a Beltrandi: ma cosa dice?
Zavoli ha salvato la Rai dal marasma che era nelle intenzioni del Pdl. Beltrandi conclude che Zanda respira un’aria comunista. Ma il radicale è l’uomo che provvide a suo tempo a votare, con il Pdl in vena di dispetti, Riccardo Villari alla presidenza della Commissione di Vigilanza, azzerando le scelte del Pd al quale anche Villari apparteneva. Beltrandi fu il promotore di quel bavaglio normativo anti-Santoro che avrebbe voluto, in campagna elettorale, conduzioni bipartisan, a due quindi, nei talk show politici. Una demenzialità quasi affascinante.
Lui, infine, fu il responsabile di uno storico scacco ai danni dei costi della politica e a vantaggio del partito di Berlusconi, quando con il suo voto riuscì a disaccoppiare le amministrative dai referendum. Quattrocento milioni di euro. Beltrandi iniziò a forare il velo dei personaggi contemporanei e il suo busto fu posto nella rastrelliera dei “mandarini”.

l’Unità 6.7.12
Nardò, un anno dopo la rivolta di nuovo schiavi
Parte la campagna della Flai Cgil per denunciare gli invisibili delle campagne di raccolta. In Puglia, ma anche in Calabria, tutto è tornato come prima
Dormono all’aperto, controllati dai caporali: le loro condizioni sono insostenibili
di Massimo Franchi


Le denunce, e le vittorie, contro i caporali sono servite a poco. Arriva l’estate e puntuale riparte la “tratta degli schiavi” nelle nostre campagne. La Flai Cgil stima che siano 80mila «uomini e donne giunti nel nostro paese con la falsa promessa di un permesso di soggiorno e di un lavoro regolare che non è mai arrivato» e che vivono in queste «condizioni vergognose».
Ieri da Nardò (Lecce) è partita la campagna della Flai Cgil dal titolo “Gli invisibili delle campagne di raccolta”. Un progetto che avrà durata biennale e che vuole dare assistenza a 360 gradi a tutti lavoratori, spesso di origine straniera, impegnati nelle campagne di raccolta. La Flai, insieme alla Cgil e ai suoi servizi, con camper attrezzati raggiungerà lavoratori e lavoratrici per portare loro assistenza con medici, avvocati, assistenza fiscale e contrattuale, dando un supporto concreto per conoscere e far valere i propri diritti.
Questi lavoratori, spesso invisibili, arrivano in Italia e si spostano seguendo le attività stagionali di raccolta: dalle angurie a Nardò alla raccolta dei pomodori nella Capitanata; dalle olive e ortaggi in Salento alla raccolta delle patate e degli agrumi nel Siracusano; dalle pesche e ortaggi nel casertano agli agrumi nella piana di Gioia Tauro; dalla raccolta dei pomodori in Basilicata ai prodotti orticoli a Latina; dall’uva in Veneto alle mele in Trentino, dal Piemonte con frutti e ortaggi vari e il caso di Castelnuovo Scrivia con gli schiavi trovati malnutriti dalle forze dell’ordine la scorsa settimana. Le condizioni in cui si trovano a dover lavorare e vivere, da Nord a Sud, sono vergognose per un paese civile: mancato rispetto dei contratti, lavoro nero, sotto salario, senza orari e senza sicurezza, obbligati a comprare dal caporale cibo e acqua.
«Partiamo da Lecce per poi andare in Sicilia, Campania, Veneto, Trentino per porre il problema dei lavoratori immigrati spiega Gino Rotella, segretario nazionale Flai Cgil -. Parliamo degli operai visibili, ma senza diritti e di quelli “invisibili”, anche se non per tutti. Infatti, sono visibilissimi ai caporali, alle aziende che li sfruttano, ma non sono visti dalle autorità, dal mondo imprenditoriale serio con cui vogliamo cercare di interloquire per risolvere le questioni che i lavoratori immigrati pongono. Si tratta continua Rotella di questioni di natura contrattuale e di vivibilità, quindi contratti, giuste retribuzioni, ma anche alloggi e accoglienza. Assistiamo troppo spesso a situazioni che non sono degne di un paese civile e per noi sono inaccettabili. La stessa legge Bossi-Fini, non serve solo per fare le espulsioni, ma conclude andrebbe rispettata anche quando dice che il lavoratore straniero regolare deve poter accedere ad alloggi messi a disposizione».
NIENTE È CAMBIATO
«A Nardò non è cambiato niente». La scelta di partire da Nardò è tutt’altro che casuale. La cittadina salentina è stata teatro l’anno scorso dello sciopero dei braccianti immigrati e della prima denuncia per caporalato. Quei lavoratori, guidati da Ivan Jean Pierre Sagnet, vivevano nella Masseria Boncuri, uno spazio messo a disposizione dei migranti dove, seppur non fosse un paradiso, c’erano corrente elettrica, acqua corrente, bagni chimici. Quella stessa masseria quest’anno rimarrà chiusa per decisione del prefetto di Lecce. «Abbiamo ricevuto una lettera del prefetto che motiva la mancata apertura con il fatto che quest’anno non ci sarà produzione agricola per ragioni di poche piogge denuncia Gino Rotella, segretario nazionale Flai Cgil . La lettera cita l’intervento di un presidente di Coldiretti che anticipava la previsione. Ma i fatti smentiscono la decisione attacca Rotella : oggi con il nostro camper abbiamo potuto constatare che i lavoratori sono gli stessi dell’anno scorso, stanno raccogliendo cocomeri e presto inizieranno altre raccolte. Senza la masseria sono in una villa diroccata o dormono all’aperto, controllati dai caporali: le loro condizioni sono insostenibili».

l’Unità 6.7.12
Italia Razzismo
La burocrazia e lo studente palestinese «sospeso»
di Luigi Manconi e altri


Il percorso per ottenere la cittadinanza si conferma lungo, tortuoso ed estenuante. Ecco una testimonianza, particolarmente istruttiva, inviata a questo giornale.
«Sono uno studente palestinese di religione cristiana (Chiesa Greco-Ortodossa) costretto a lasciare Gaza per le ragioni che si possono intuire. Sono arrivato in Italia il 30 dicembre 2004 ed ho ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di studio. Dal mio arrivo ho conseguito una laurea in Scienze e Tecnologie Orafe presso l’Università Milano Bicocca e, attualmente, frequento il Master in Ingegneria nel settore orafo presso il Politecnico di Torino, sede di Alessandria. In questi anni ho pagato le tasse universitarie svolgendo un lavoro part-time come guardiano notturno presso la Fondazione “la Vincenziana”. Il 15 ottobre 2008 ho presentato domanda per asilo politico ed il 6 novembre dello stesso anno ho ottenuto lo Status di rifugiato politico.
Nel 2010 ho fatto la richiesta per ottenere la cittadinanza italiana, presso la Prefettura di Milano. A un anno dalla domanda, ho ricevuto comunicazione dalla Prefettura da cui si deduce che per concedere la cittadinanza si tiene conto non degli anni di residenza in Italia (che nel mio caso, nel 2010, sarebbero stati 6) ma della data in cui ho ricevuto lo Status di rifugiato politico, il 2008. Solo da quel momento partiva il conteggio dei 5 anni utili perché un rifugiato possa richiedere di diventare cittadino. In seguito a questo parere ho fatto ricorso al TAR, vincendolo. Ad aprile di quest’anno il mio avvocato ha inviato i documenti alla prefettura di Milano, ma a oggi non ho ricevuto alcuna risposta.
Il motivo principale per il quale chiedo che mi venga concessa la cittadinanza italiana nel più breve tempo possibile è che mi è stato offerto di lavorare presso una importante azienda orafa nel Canton Ticino, Svizzera, e lo Status di rifugiato politico è incompatibile con la normativa dell’Ufficio svizzero di Immigrazione. Se avessi la cittadinanza italiana, invece, potrei lavorare come “frontaliero”, senza neppure togliere la possibilità di impiego ad alcuno in Italia.
La mia famiglia vive in Australia. Anche loro, come me, sono rifugiati. Per andarli a trovare ho chiesto il visto all’Ambasciata australiana ma mi è stato negato perché sono rifugiato in Italia.
Sono molto amareggiato e mi domando come non sia possibile trovare un rimedio che consentirebbe a me di risolvere una questione vitale, alla società svizzera di trovare il collaboratore tecnico che da tempo cercava e allo Stato italiano di applicare le imposte sulle mio reddito in quanto residente in Italia».
La storia dello studente palestinese, ormai rifugiato, non è così singolare. Ogni anno numerose persone, oltre 40mila, presentano la richiesta di cittadinanza e dovrebbero ottenere una risposta entro 730 giorni, come prevede l’attuale legge in materia. Ma bisogna ricordare che i tempi sono rispettati solo in una percentuale irrisoria di casi. Ai più si prospettano anche tre, quattro anni di attesa. Non è forse giunta l’ora di darci un taglio?

il Fatto 6.7.12
Giovanni Sartori
«Colle-Mancino, eccesso d’amicizia Il Quirinale oltre i suoi poteri»
intervista di Marco Travaglio


Napolitano è incorso perlomeno in un “eccesso di amicizia” e s’è spinto oltre i suoi poteri. A leggere le telefonate viene in mente un’espressione inglese, ‘charms’, lingua in bocca”, dice Giovanni Sartori al Fatto.
Professor Giovanni Sartori, ha seguito l’affaire Quirinale-Mancino?
Sì, ho letto i giornali anche se sono in vacanza. Sa, bisogna ritemprarsi un po’, perché alla ripresa fino alle elezioni ne vedremo di cotte e di crude. Berlusconi ne farà ancora di tutti i colori pur di tornare a galla, l’ho rivisto in gran forma. E non solo lui...
Dicevamo delle telefonate fra Mancino e il Quirinale. Lei che idea si è fatto?
Distinguerei fra Mancino e Con-so, anche se tutti e due sono indagati per aver mentito ai magistrati. Su Mancino, posso tranquillissimamente credere a qualche suo zampino nelle faccende della trattativa. È un vecchio democristiano e la Dc, di trattative con mafiosi, camorristi eccetera, se ne intendeva.
Conso, invece?
Beh, Conso lo conosco bene, è una persona integerrima: non certo il tipo che, da ministro della Giustizia, toglie il carcere duro a centinaia di mafiosi spontaneamente per favorire la mafia. È evidente che l’ha fatto perché gliel’ha chiesto qualcuno per le vie brevi, senza lasciare tracce, come si fa in questi casi .
Ma è proprio questo il punto: lui invece dice di aver fatto tutto da solo, senza consultarsi con nessuno né obbedire a nessuno. Invece c’è la prova documentale che qualche mese prima il direttore delle carceri gli aveva chiesto di revocare il 41-bis a centinaia di boss come “segnale distensivo” a Cosa Nostra.
Ma è chiaro che è andata così! Gli han detto “fai così” e lui l’ha fatto. Temo che i mandanti della trattativa resteranno l'ennesimo segreto di Stato. Se però i magistrati o il Fatto quotidiano riusciranno a svelarlo, sarò il primo a battere le mani.
Però ai magistrati, sotto giuramento, Conso ha negato di averne parlato con chicchessia. Per questo è indagato per false dichiarazioni.
Ma questo, paradossalmente, fa parte della sua pulizia. Lui si prende tutta la colpa, anche negando l'evidenza, per non tradire, non coinvolgere chi l'ha tirato dentro a questa brutta storia. È un uomo d’onore, in senso buono: copre tutti gli altri.
Torniamo a quelle telefonate. Mancino, quando capisce che sta per essere indagato per falsa testimonianza perché due suoi ex colleghi ministri, Martelli e Scotti, lo smentiscono, comincia a tempestare il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D'Ambrosio. E quello, invece di liquidarlo, lo sta a sentire, soddisfa le sue richieste, mobilita alti magistrati. E interviene personalmente anche Napolitano in persona.
Eh beh per forza, come facevano a staccargli il telefono in faccia? Mancino ha avuto le mani dappertutto, ha occupato quasi tutte le poltrone che contano, e da ultimo è stato vicepresidente del Csm quando Napolitano ne era il presidente. Non mi meraviglio di nulla, se non della sua sprovvedutezza: da un volpone come lui, mi sarei aspettato che certe cose le dicesse a voce, e non al telefono. Ma come, vuoi chiedere un favore al Quirinale e alzi la cornetta facendoti scoprire e mettendo nei guai pure la Presidenza della Repubblica? Altri della sua scuola, al suo posto, avrebbero messo i piedi in spalla e sarebbero andati di persona al Quirinale, per non lasciare impronte digitali. Non lo facevo così incauto e sciocco.
Franco Cordero ha ricordato che in base all’articolo 104 della Costituzione la magistratura è autonoma e indipendente da ogni altro potere e la sua autonomia è garantita proprio dal Csm, presieduto da Napolitano. Dunque non rientra fra i suoi poteri sollecitare “coordinamenti” fra procure su un’indagine in corso, solo perché glielo chiede un soggetto che è parte in quell’indagine. Lei condivide?
Perfetto, non fa una grinza: in nome della vecchia colleganza, il Quirinale s’è spinto oltre i suoi poteri.
Ora, nell’opinione pubblica, si rafforza la sensazione che la legge non sia uguale per tutti. E soprattutto che, in barba all’articolo 3, non tutti i cittadini siano eguali davanti alla legge.
È quel che pensano molti dei nostri politici. Mancino, in quelle telefonate, dimostra chiaramente di considerarsi niente affatto uguale agli altri: semmai un “eguale fra i diseguali”...
Sì, ma anche il Quirinale, intervenendo in suo favore, ha dimostrato di considerarlo più uguale degli altri.
E certo, quello del Quirinale è stato un errore quantomeno di stile. Non so quanto ha sbagliato il capo dello Stato e quanto il suo consigliere, né fino a che punto sono arrivati a interferire o a intervenire nelle indagini. Ma è chiaro che Napolitano è incorso perlomeno in un “eccesso di amicizia”. Conosce Mancino da una vita e s’è spinto troppo in là. Lui o il suo consigliere o tutti e due, si vedrà. A leggere quelle telefonate, i due sono proprio “charms”, come dicono gli inglesi: traducendo liberamente, “lingua in bocca”...
Sentimento umano, per carità: che però non dovrebbe condizionare l’imparzialità di un’istituzione di garanzia come il Quirinale.
Sì, ma siamo in Italia e sappiamo come vanno queste cose negli alti palazzi. Fra di loro i potenti hanno tutti un eccesso di pietas cristiana, anzi democristiana...
Anche l’ex comunista Napolitano?
Ma il comunismo lui l’ha superato da un pezzo, che diamine. Quando era ancora nel Pci, fu il primo comunista a tenere due conferenze negli Stati Uniti. Io lo conobbi lì. Fu impeccabile, maestro di savoir faire, padronanza della lingua e diplomazia.
Non sarà che, sotto sotto, gli è rimasto un pizzico di cultura comunista, quella per cui il rispetto delle regole è subordinato agli interessi superiori del partito?
Eh certo, un po’ di togliattismo ti rimane sempre, quando vieni dalla scuola delle Frattocchie... Chi esce dalle Frattocchie, frattocchio resta...
Lei ha insegnato per una vita negli Stati Uniti: se l’immagina che sarebbe accaduto se un Presidente avesse interferito in un’indagine a gentile richiesta di un politico? No che non me lo immagino. Perché gli Stati Uniti non sono l’Italia. Un presidente americano si guarda bene dal fare certe cose.

il Fatto 6.7.12
Gli investimenti negli Usa
Perché Repubblica tifa Marchionne


Perché Repubblica di Carlo De Benedetti è così indulgente verso la Fiat di Sergio Marchionne e il suo decisionismo, spesso illegale secondo i tribunali italiani? Una risposta la offre il figlio dell’Ingegnere, Rodolfo De Benedetti, in un’intervista al Financial Times di ieri. De Benedetti junior parla della Sogefi, controllata della Cir (la holding capogruppo) che si occupa di componentistica, anche per l’auto. Rodolfo spiega che il peso del Nord America sul giro d’affari di Sogefi è passato dall’1,9 per cento del 2009 all’11 per cento di inizio 2012, e nel 2015 arriverà al 15 per cento. “Prima che la Fiat entrasse [nel mercato Usa], non fornivamo Chrysler perché temevamo che l’azienda potesse scomparire”. Per fortuna è arrivato Marchionne, sostenuto dai soldi pubblici di Barack Obama. E così oggi Rodolfo De Benedetti può dire: “Con Chrysler gli Stati Uniti diventeranno per noi preponderanti”. Più Marchionne investe sugli Usa, peggio stanno le fabbriche italiane (almeno una la vuole chiudere). Ma le prospettive della Sogefi migliorano.

il Fatto 6.7.12
Ior, la banca più amata da Monti
di Marco Politi


Lo Ior non passa ancora l’esame delle autorità finanziarie europee. Dietro gli annunci ottimisti del Vaticano, secondo cui si è “sulla buona strada”, rimane il fatto che su 16 requisiti cruciali elencati lo Ior rimane inadempiente per 7.
Dice il viceministro degli Esteri vaticano, mons. Ettore Ballestrero, recatosi personalmente a Strasburgo a dimostrazione del bruciante interesse della Santa Sede a far parte della “Lista bianca” degli Stati affidabili in tema di riciclaggio, che entrare nel sistema Moneyval richiede la necessità di “apprendere in breve tempo il linguaggio, le regole, le tecniche di un sistema complesso”.
Un prelato qual è mons. Ballestrero non ha bisogno per la sua missione di padroneggiare le sottigliezze del sistema bancario. Sarebbe ridicolo, invece, affermare che il direttore dello Ior, Paolo Cipriani, si sia trovato improvvisamente impreparato, come Alice nel paese delle meraviglie, dinanzi alle regole di trasparenza, che Moneyval esige. Cipriani proviene dal Banco di Santo Spirito e dalla Banca di Roma, è stato rappresentante di questi istituti a New York e a Londra: il massimo della finanza mondiale.
PUÒ SPIEGARE allora perché a un anno e mezzo dal decreto di Benedetto XVI – che impegnava lo Ior a una totale trasparenza – la banca vaticana non si è messa ancora al passo con le regole internazionali? Una settimana fa, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Lombardi, si era sforzato di aprire una breccia nei misteri dello Ior, organizzando un briefing nella sede dell’istituto. Cipriani non ha avuto il coraggio di accettare il gioco delle libere domande dei giornalisti e fino a quando non lo farà, i discorsi più belli rimarranno a metà strada. Perché nelle democrazie occidentali funziona così: si risponde senza rete all’opinione pubblica.
La cosa più sconcertante nelle ultime vicende riguardanti lo Ior riguarda tuttavia la notizia – pubblicata ieri dal solo Fatto Quotidiano – che il governo italiano ha imbavagliato la delegazione dei funzionari della squadra antiriciclaggio della Banca d’Italia, impedendo loro di esprimere le proprie valutazioni professionali sulla condotta tenuta sinora dalla banca vaticana.
Va detto in proposito che a tutt’oggi, i dirigenti dello Ior non hanno ancora fornito dati precisi su che fine abbiano fatto i celebri (e spesso opachi) conti correnti presso l’istituto dei cosiddetti “laici esterni”, cioè di quelle persone che non appartengono assolutamente alla lista rigorosa di persone abilitate ad averne uno. Conti esterni di cui il faccendiere Bisignani è figura simbolica, ma non l’unica.
Non importa qui indagare attraverso quali canali contorti si sia espresso il veto. Contano i fatti. Il direttore dell’Unità di Informazione Finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, Giovanni Castaldi, ha ritirato i suoi due delegati dalla riunione di Strasburgo perché impossibilitato a fare il proprio dovere. È evidente che in un consesso internazionale – a una scadenza cruciale per Oltretevere – il governo Monti ha voluto fare un favore macroscopico alla Santa Sede, privo di qualsiasi motivazione (diciamo così) professionale. È un episodio che fa cadere le braccia specialmente a coloro che hanno sempre provato stima per il “tecnico” Monti e il suo stile da gentiluomo. All’assemblea Moneyval di Strasburgo proprio il governo tecnico italiano si è comportato da politicante, impedendo ai “tecnici” della Banca d’Italia di dare il proprio giudizio su ciò che manca allo Ior per presentarsi pulito sulla scena europea. Da chi è stato commissario Ue per il mercato interno e per la concorrenza, da un liberale per il quale la pulizia e le regole del sistema finanziario dovrebbero essere la stella polare, questo “sopire... troncare... sopire” era lecito non aspettarselo.
L’INCIDENTE non è peraltro isolato. È la terza volta che il governo Monti, abituato a usare il guanto ruvido con i ceti popolari, i pensionati e gli operai, fa dei favori incomprensibili e inaccettabili al Vaticano nel momento in cui tutti sono chiamati – e tanti cittadini ci credono anche – a stringere la cinghia per risollevare le sorti dell’Italia.
Implacabile nel chiedere a ogni padre di famiglia di pagare gli aumenti Imu sull’unghia nel 2012, Monti ha disposto che gli enti ecclesiastici (evasori da anni) la paghino soltanto nel 2013. Non esiste uno straccio di ragione economica che giustifichi questo privilegio. Ancora: mentre gli italiani redigevano la loro dichiarazione dei redditi, Monti si è rifiutato di indicare la destinazione della quota dell’8 per mille, che va allo Stato per “iniziative umanitarie”. Avrebbe potuto dire che andava ai terremotati dell’Emilia. Non lo ha fatto. Il governo ha taciuto, perché è noto che il Vaticano esige che non vi sia pubblicità “concorrente” quando si tratta dell’8 per mille.
Lo scandalo di Strasburgo si inserisce in una linea di per sé inquietante. Laicità non significa denigrare la religione. Laicità significa che nessuna confessione può imporre i propri interessi alla comunità nazionale. Laicità significa la regola aurea del costituzionalismo americano: nessun comportamento dello Stato per “ostacolare o favorire una religione”. Questa laicità gli italiani hanno il diritto di pretenderla dal liberale cattolico Monti.
E visto che si parla di spending review, gli italiani hanno il diritto di pretendere anche dal premier di attivare la commissione bilaterale italo-vaticana per rivedere il gettito dell’8 per mille, molto ma molto superiore a quelli che sono i bisogni reali della struttura della Chiesa in rapporto agli anni Ottanta (quando c’erano assai più preti).

Repubblica 6.7.12
Vaticano, all’Idi un crac da 800 milioni
I pm: svuotate le casse dell’ospedale. Perquisizioni, braccio di ferro Gdf- Santa Sede
di Maria Elena Vincenzi


ROMA — Un buco che rischia di arrivare a 800 milioni. Una voragine ottenuta grazie a una spoliazione continua delle casse dell’Idi, istituto dermatologico dell’Immacolata di Roma. Soldi, tanti, che sparivano dai conti dell’ospedale e finivano nelle tasche dei dirigenti. Ma quando la Guardia di finanza ieri si è presentata davanti al portone degli uffici della Congregazione che gestisce l’ospedale, si è sentita rispondere che no, non potevano entrare perché quello era territorio vaticano. Momenti di tensione diplomatica che si sono risolti solo nel primo pomeriggio, quando il Governatorato della Santa Sede ha permesso alla Fiamme gialle, per la prima volta e «a patto che non costituisca precedente», di varcare la soglia di quello che secondo loro è proprietà dello Stato pontificio. Secondo loro, già. Perché il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi e il pm Michele Nardi, titolari del fascicolo, erano sicuri che quel civico di via della Conciliazione, la strada che porta alla basilica di San Pietro, fosse soggetta alla legge italiana.
È dovuto intervenire il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, per chiarire che il palazzo è extraterritoriale ma gli uffici no.
Sta di fatto che, per entrare, gli uomini del nucleo di polizia tributaria di Roma sono stati costretti ad aspettare mezza giornata. E farsi accompagnare dalla gendarmeria. Perché se è vero che quelle stanze non appartengono alla Santa Sede, è altrettanto vero che per accedervi bisogna varcare il confine. E quindi servirebbe una rogatoria.
Una questione di diritto che ha fatto perdere parecchio tempo, ma che alla fine si è risolta: fino a tarda sera i militari hanno sequestrato carte, fatture e corrispondenza per fare luce su un buco che, secondo le stime degli inquirenti, va da un minimo di 300 a un massimo di 800 milioni di euro.
Non sono andati solo lì. Perquisizioni a tappeto anche nelle sedi degli ospedali della Congregazione (l’Idi e il San Carlo Da Nancy), del Priorato e a casa di Giuseppe Incarnato, attuale manager del-l’Idi, iscritto nel registro degli indagati qualche settimana fa insieme ad altri sei dirigenti. A tutti la procura contesta l’associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita e la fatturazione per operazioni inesistenti.
In piccolo un altro “caso San Raffaele”. Nato da un esposto di decine di dipendenti dell’istituto che lamentavano il mancato pagamento degli stipendi. È bastato alzare il tappeto per far fare luce su un ammanco da centinaia di milioni. Un’emorragia che ha messo in ginocchio un ospedale che è un fiore all’occhiello della dermatologia europea. E che va avanti da anni. «Nonostante il formale cambio al vertice - si legge nel decreto di perquisizione - la gestione delle strutture è rimasta saldamente nelle mani di un gruppo omogeneo». Che aveva un solo obiettivo: «La spoliazione continua delle casse in favore dei
sodali». Un metodo che si basava su fatturazioni per prestazioni inesistenti, sul «pagamento dei fornitori, scelti su base arbitraria e preferenziale, ben oltre i prezzi di mercato» e su continue sottrazioni dalle casse degli ospedali. Soldi che, secondo l’accusa, venivano
girati sui conti dei dirigenti. Basti pensare che agli atti vi è persino un unico prelievo di Franco Decaminda (fino a gennaio consigliere delegato dell’Idi, considerato dall’accusa il dominus della struttura) da 6 milioni e 800 mila euro.

La Stampa 6.7.12
“Dobbiamo trattare fino all’ultimo perché così salta il servizio sanitario”
Rossi: neanche le regioni virtuose potranno reggere l’impatto del decreto
di Pa. Ru.


Regione Toscana Il governatore Enrico Rossi è convinto che le cifre dei tagli saranno devastanti e non si potrà più garantire i servizi

Trattare, trattare e ancora trattare. «Perché è bene che Governo e Parlamento comprendano che con un taglio di queste dimensioni il sistema sanitario salta». Il governatore toscano Enrico Rossi, per anni assessore alla sanità, parla anche a nome dei suoi colleghi quando fa capire che al di là degli annunci di rottura con il governo la parola d’ordine è tornare a sedersi intorno a un tavolo per modificare quel che non va della spending review. A cominciare dalla cifre.
Vi preoccupano più le misure o l’entità dei tagli?
«Non c’è dubbio: l’effetto devastante che potrà avere sulla sanità pubblica il cumulo di questo taglio di 5 miliardi con le manovre del precedente governo. Guardi questa tabella. Per effetto delle misure varate dal 2010 ad oggi nel prossimo triennio il servizio sanitario nazionale dovrà sopportare un taglio di 22 miliardi. Solo nel 2014, a regime, mancheranno 10 miliardi e mezzo, che diventeranno oltre 16 se il fondo sanitario, oltre a subire i tagli, non sarà adeguato all’inflazione. Dire ridurre il finanziamento del 15% significa far saltare tutto».
Quindi cosa proponete?
«Comprendiamo che il Paese ha bisogno di scongiurare l’aumento dell’Iva e di trovare i soldi per terremotati ed esodati ma rivediamo il taglio del 2012 e il resto rimandiamolo al confronto governo-regioni che entro ottobre devono siglare il nuovo Patto della salute».
Se non sarà così?
«Sarebbe rottura. Potremmo arrivare a chiedere la violazione del Patto Costituzionale e restituire le deleghe in sanità. Ma prima abbiamo il dovere di trattare, fare le nostre proposte, facendo capire però che se l’entità dei tagli resta questa non reggerà nessun servizio sanitario regionale. Neanche quelli delle regioni virtuose».
Proposte?
«Per esempio sui beni e servizi, va bene dire adeguiamo i prezzi a una linea mediana come dice Bondi, ma attenti a tagliare senza distinguo i prezzi del 5% come fa il decreto perché in regioni come la mia dove abbiamo fatto gare che hanno già ridotto all’osso i prezzi rischiamo di rimanere senza forniture. Creiamo piuttosto un Fondo con la Cassa depositi e prestiti per velocizzare i pagamenti e ridurre così i prezzi».
Sui piccoli ospedali è stato braccio di ferro fino all’ultimo… «Ma anche li non si può fare di tutta un’erba un fascio. Alcuni sono di qualità. In Toscana ho mantenuto delle sale operatorie per interventi in day surgery. Ho trasformato alcuni piccoli ospedali in centri di prevenzione e di farmacologia oncologica evitando così chilometri e chilometri a pazienti sotto chemioterapia. Poi dico, il Ministero faccia le ispezioni e chi non è nei parametri di qualità ed economicità venga chiuso. Ma non illudiamoci che la rete ospedaliera si migliori per decreto».

Repubblica 6.7.12
Salvate le spese militari e gli F-35 da 12 miliardi
di Giampaolo Cadalanu


E’ TEMPO di sacrifici per tutto il Paese e il ministro Giampaolo Di Paola ha già segnalato la disponibilità delle Forze Armate a bilanci più austeri. Ma alla fine i tagli della Difesa sembrano davvero poca cosa, sia nel testo della Spending Review sia nel progetto di riforma dello strumento militare, in discussione al Senato.
Dal confronto fra i due documenti sembra che la scure, più che sulle spese in sistemi d’arma non sempre indispensabili, si abbatta di più sui posti di lavoro: «Il totale degli organici delle Forze armate è ridotto in misura non inferiore al 10 per cento», diceva la bozza delle Disposizioni per la revisione della spesa pubblica.
Nel 2013 un militare su dieci — a meno di essere riassorbito nella Pubblica amministrazione — doveva andare in aspettativa. Poi un ritocco dell’ultimo momento ha ridotto i militari «di troppo»: saranno solo 2.500 a lasciare i ranghi (ma con il 95 per cento dello stipendio, che verrà pagato sempre dal bilancio della Difesa).
Un sacrificio generalmente ben accolto è quello sulla cosiddetta mini-naja, voluta dall’ex ministro La Russa, i cui fondi vengono tagliati per 5,6 milioni di euro. Al contrario sembra tramontata del tutto la proposta di tagliare i risarcimenti per le vittime dell’esposizione a uranio impoverito, un’idea che aveva suscitato indignazione fra i militari e le famiglie. Il fondo per le missioni di pace, recita il testo di legge, «è incrementato di 1.000 milioni di euro». In realtà è una riduzione di oltre 400 milioni, perché gli stanziamenti attuali prevedevano 1.430 milioni. E questo vuol dire che i contingenti schierati in Afghanistan, nei Balcani e in Libano dovranno probabilmente essere ridotti. Non è ben chiaro come, dato che la presenza dell’Italia è concordata con l’Onu e la Nato: dall’Afghanistan, per esempio, non si potrà partire se non a fine 2014.
Nella bozza di legge è stato cancellato il comma sulla «Rimodulazione delle forniture militari », quello che avrebbe imposto al ministro «un risparmio non inferiore ai 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013 e 2014». Una quota già considerata modesta dagli addetti ai lavori, che però è sparita.
Se non ci pensa la legge sul risparmio, i sacrifici dovrebbero essere contenuti nel progetto di riforma complessivo, firmato dall’ammiraglio Di Paola, su cui il Senato discute in questi giorni. Invece proprio su questa legge quadro si sono indirizzate le perplessità della Ragioneria generale dello Stato. Durante le audizioni a Palazzo Madama, i rappresentanti della Ragioneria hanno definito la bozza «un documento che non comporta risparmi, ma rimodula la spesa». In altre parole, il piano della Difesa è quello di «ridurre le spese del personale, ma per aumentare le spese destinate all’esercizio e agli investimenti». La prima voce riguarda la spesa destinata all’addestramento, ridotta negli anni scorsi fino al limite, e considerata invece essenziale. La parola «investimenti», invece, è quella su cui le discussioni sono accanite: comprende anche l’acquisizione di sistemi d’arma. Di Paola parla di «alta tecnologia
», intendendo di fatto due programmi: uno è quello del «soldato futuro», la digitalizzazione delle truppe, per cui si prevede una spesa pari a 16 miliardi. L’altro — 12 miliardi — riguarda i controversi F-35, gli aerei più costosi della Storia, duecento milioni di dollari l’uno. I cacciabombardieri sono al centro di polemiche ovunque: negli Usa sono stati considerati «un disastro » dai commentatori politici di Foreign Policy, poi il Pentagono ha ammesso i caccia non sono protetti contro la guerra elettronica e potrebbero essere persino «hackerati». Nei giorni scorsi persino il senatore Carl Levin, presidente della commissione Forze armate, ha chiesto che Pentagono e Congresso premano sulla Lockheed perché l’azienda abbassi i suoi listini. In Italia i caccia sono al centro della campagna «Taglia le ali alle armi », ma il ministro non è disposto a rinunciarci, anche perché gli F-35, nella versione a decollo corto, sono indispensabili per la prediletta portaerei Cavour.
Ora però i tagli previsti nella Spending review impongono una revisione anche alla leggequadro: i risparmi ottenuti dalla riduzione del personale saranno riassorbiti, ma non potranno essere indirizzati verso «investimenti di alta tecnologia».

l’Unità 6.7.12
Ricerca choc. Sono i figli le altre vittime della violenza domestica
Telefono Rosa: i bimbi introiettano le brutalità
La brutalità dei genitori viene ereditata dai bambini
La storia di Federico e Sofia inghiottiti nell’inferno creato da un padre che picchia la propria moglie
di Mariagrazia Gerina


ROMA Federico, lo chiameremo così, ha solo undici anni. Sua sorella, appena nove. Ma sa già come funziona la violenza, sa che ha un andamento ciclico. Sa che per quanto terribile sia l’esplosione di rabbia, prima o poi, finirà. E dopo, comunque, tornerà una specie di calma. Per questo mentre guarda sua fratello che si dimena, non si scompone. Federico sembra una furia. Urla, tira calci. Non c’è verso di calmarlo. E chi ci prova, si ritrova un morso sul braccio. Sua sorella, invece Sofia la chiameremo se ne resta in disparte. Assiste impassibile alla scena. «Non vi preoccupate», rassicura le operatrici del Centro Antiviolenza dove lei e Federico sono ospiti da qualche giorno insieme alla madre: «Fra un po’ si calma, papà fa la stessa cosa con mamma e poi smette...».
Scene dall’inferno domestico, da cui con fatica le donne vittime di violenza cercano di risalire, insieme ai loro bambini. In un anno, più di mille donne vittime di violenza si sono rivolte al Telefono Rosa, in cerca di aiuto. In nove casi su dieci, a picchiarle sono i loro mariti, compagni, fidanzati. In otto casi su dieci, le donne sono madri. E questo significa che dietro di loro, ci sono altre vittime, i loro figli: 760 minori, 404 di età compresa tra gli 0 e gli 8 anni, 356 ragazzini tra i 9 e i 17 anni, 438 maggiorenni, che da bambini non hanno ricevuto l’aiuto di cui avevano bisogno.
Il paradosso è che spesso proprio il pensiero dei figli a convincere le madri a restare, almeno fin tanto che sono «troppo piccoli». «Meglio un padre violento che nessun padre», è la regola che si ripetono per uno, due, cinque anni. Molte si illudono di poter tenere al riparo i bambini. Con stratagemmi che riempiono di pena. «Ormai ha spiegato una giovane madre a Paola Matteucci, psicologa e volontaria del Telefono Rosa so riconoscere quando arriva l’esplosione di violenza: mi prende per i capelli e allora io piano piano mi trascino in stanza da letto, così i bambini non vedono e non sentono nulla».
Poi, arriva il giorno che anche quella convinzione crolla. E le madri sono costrette a fare i conti oltre che con la loro sofferenza con quella inflitta ai loro figli. La letteratura scientifica la chiama «violenza assistita», ma è un termine che non dà abbastanza conto dell’orrore che i bambini nati in una delle tante case dove si consuma la violenza sulle donne sono costretti a subire. Figli di padri violenti e vittime, come le loro madri, anche quando sembrano non vedere e non sentire quello che il papà fa alla mamma. La «trasmissione della violenza» avviene lo stesso. Di padre in figlio, di madre in figlia, seguendo tutte le traiettorie possibili. Le bambine reagiscono chiudendosi in se stesse, con una timidezza che non lascia varchi. I bambini invece più spesso reagiscono imitando il padre. E allora le esplosioni di rabbia, i calci, i morsi. Violenza infantile, che è ripetizione della violenza adulta.
A SCUOLA
Nel caso di Federico e di Sofia è successa una cosa a che purtroppo spesso non accade. A scuola, gli insegnanti si sono accorti che qualcosa nel loro comportamento non andava. E da lì è iniziata la risalita. Per loro, e per Antonia. La chiameremo così, la loro mamma.
Un giorno, Antonia, dopo l’ennesimo episodio di violenza, si è presentata a scuola con i suoi figli, esausta. Aveva appena capito sulla sua pelle che poteva davvero rimetterci la vita. E ha chiesto aiuto. La preside ha chiamato i carabinieri. E quando il papà è andato a prendere i bambini lo hanno arrestato.
Ora lui è agli arresti domiciliari. Mentre lei, dopo tre mesi presso il Centro Antiviolenza gestito dal Telefono Rosa, è tornata a casa. Insieme ai suoi bambini. Il cerchio si è spezzato, la vita è ricominciata. La violenza, almeno per loro, è una trasmissione interrotta.
«Anche questa storia ci dice che è la scuola il luogo più importante dove agire», spiega la presidente di Telefono Rosa Maria Gabriella Moscatelli: «È lì che dobbiamo intervenire in aiuto dei bambini e degli insegnanti che hanno bisogno di strumenti mirati per imparare a riconoscere nei bambini i comportamenti sintomo di violenza domestica». Con il Dipartimento delle Pari Opportunità, durante la settimana contro la violenza, il Telefono Rosa quest’anno è riuscito a raggiungere 100 scuole. Ma la prevenzione dovrebbe essere condotta a tappeto, «anche a partire dalla scuola dell’infanzia». Il punto attacca Maria Moscatelli è che «per portare avanti delle politiche all’altezza dell’emergenza che abbiamo davanti, 71 donne uccise dai loro mariti dall’inizio dell’anno ad oggi, ci vorrebbe un ministero vero con poteri e portafoglio».

Repubblica 6.7.12
Hollande spaventa i ricchi più tasse per superare la crisi
di Giampiero Martinotti


PARIGI — I simboli colpiscono l’immaginazione, ma portano pochi soldi in cassa. E la Francia non sfuggirà al rigore, malgrado il governo preferisca parlare di “responsabilità”. In ogni caso, l’aumento delle tasse per i più ricchi sarà solo una piccola parte dello sforzo chiesto al paese: François Hollande deve trovare 33 miliardi per rispettare l’impegno a riportare il deficit pubblico al 3 per cento nel 2013 e a pagare saranno tutti. Il neo-presidente, tuttavia, ha perlomeno trovato il modo di dare l’esempio, di evitare l’impressione che a pagare siano sempre i soliti: gli stipendi dei manager pubblici saranno calmierati a un tetto massimo attorno ai 450mila euro; la più alta aliquota Irpef sarà portata al 75 per cento sopra un milione di euro, record assoluto nel mondo occidentale; le aliquote della patrimoniale, abbassate da Sarkozy, saranno riportate ai vecchi valori. I ricchi, insomma, pagheranno, anche se il loro contributo non basterà a raddrizzare i conti. La stampa anglo-sassone, sulla scia di David Cameron che ha detto di essere pronto ad accogliere i ricchi che fuggiranno dalla Francia, si diletta nell’illustrare le “pene” dei contribuenti più fortunati. Da tempo si dice che in molti siano tentati dall’abbandonare il paese, malgrado il fenomeno sia rimasto finora marginale. L’aliquota al 75 per cento può essere punitiva per artisti, sportivi e manager, l’unica vera preoccupazione del governo è quello di non spaventare questi ultimi, il cui talento è essenziale per risollevare l’economia transalpina. Per il resto, la misura riguarderà una fascia ridottissima della popolazione. Potrebbero colpire più generalmente le classi medio-alte i tagli alle numerose agevolazioni fiscali, la cui riduzione era già stata avviata dal governo Fillon. Tutto ciò non basterà: per trovare 33 miliardi ci vorrà altro. La Pubblica amministrazione pagherà: il congelamento dei salari è già stato confermato, gli organici saranno al massimo mantenuti. Per gli altri, siamo ancora nel vago. La Corte dei conti ha suggerito un aumento dell’Iva (un punto rende 6,5 miliardi), ma Hollande si è impegnato a non toccarla e anzi a sopprimere il recente aumento per i libri. Resta un’altra ipotesi, su cui il governo non si è pronunciato: l’aumento della Csg. Una sigla che all’estero non dice niente, ma dietro cui si nasconde un contributo sociale che colpisce tutti i redditi e che non è detraibile dall’Irpef: incrementarlo di un punto significa far entrare nelle casse dello Stato ben 10 miliardi. I ricchi, insomma, pagheranno un po’ di più, proporzionalmente ai loro redditi, il resto verrà dalla massa. D’altronde, il discorso del primo ministro in parlamento è stato percepito dal 68 per cento dei francesi come l’annuncio del rigore. Hollande non può far altro: la rapida approvazione del fiscal compact, che potrebbe intervenire entro un mese se non ci saranno intoppi costituzionali, lo obbliga a rispettare alla lettera gli impegni presi con Bruxelles in materia di deficit. Senza contare il fatto che a fine anno il debito pubblico transalpino toccherà il 90 per cento del Pil, una soglia che molti economisti considerano come un punto di non ritorno.

La Stampa 6.7.12
È il turno di Christofias L’ultimo comunista alla guida dell’Europa
Da domenica Cipro presidente Ue, chiede aiuti a russi e Bruxelles
di Marco Zatterin


Spero di ottenere i soldi da tutti e due», confessa Demetris Christofias, un uomo il cui profilo è un prontuario di storia mediterranea. Guida Cipro dal 2008, è l’ultimo leader comunista del nostro emisfero e, da domenica, è anche il nuovo presidente di turno dell’Unione europea. Il suo è un paese piccolo quanto complesso, culla e crocevia di culture, commerci e faide, diviso e conteso da 38 anni. Vive male la recessione, ha i conti in rosso profondo e i disoccupati alle stelle. La crisi l’ha costretto a chiedere aiuto per ricapitalizzare le banche esposte con la Grecia, 10 miliardi, pare. Lo ha fatto col partner naturale, l’Ue, e con la Russia, amico fedele degli ultimi lustri. Strano?
Il comunista Christofias si difende con un versetto capitalista: «E’ normale andare sul mercato a cercare le condizioni migliori».
Christofias è nato a Dhikomo, Cipro Nord, nel 1946. «Posso vedere la mia casa, quasi toccarla, tanto è vicina», racconta ora che c’è un muro taglia isola e la capitale. E’ così dal 1974. A settentrione i musulmani protetti dalla Turchia, a sud la gente di lingua greca socia del club di Bruxelles. Da ragazzo era garzone nel caffè del padre, il locale dove si riuniva la resistenza ai britannici che allora governavano l’isola. E’ entrato del partito comunista Akel come strillone e non si è più fermato. Quando di prima mattina incontra un gruppo di cittadini in teatro di Nicosia la prima domanda è sulla sua fede comunista, Inevitabile. «Mi spaventa questa definizione», dice un polacco. «Non c’è nulla di male», lo tranquillizza il doppio nocchiero delle molte tempeste, le relazioni con Ankara «l’intransigente», i rapporti strettissimi con Russia e Israele, le banche al tracollo, la fresca responsabilità dei Ventisette che pur mica se la passano bene. Ha ambizioni importanti e programma con metodo. Consapevole che la sua capitale è la più lontana da Bruxelles, ha spostato un team di 200 persone in Belgio per evitare un costoso e laborioso avantindietro. Non vuole fare la figura del topolino. La cerimonia ufficiale, ieri sera con Commissione e Consiglio al teatro di Kourion, è stata toccante.
Orchestra sul mare, discorsi in inglese, «Inno alla Gioia», vento mediterraneo caldo, proteste dei turchi ciprioti che si sbracciano per reclamare attenzione. Per una volta non s’è parlato di crisi, delle banche da ricapitalizzare che Cipro porta in dote con la presidenza.
Christofias ha comunque chiesto soccorso all’Ue e questa ha mandato la troika a fare i conti e vedere cosa chiedere in cambio. L’hanno accolta male. I quotidiani ha pubblicato in prima pagina la foto degli sherpa, una sorta di “Wanted” post moderno. Per far pagare al fondo salvastati Esm una somma di 5-10 miliardi, Bruxelles esigerà riforme e magari anche l’innalzamento della “corporate tax” al 10% che stimola ricchezza relativa di Cipro, insieme coi miliardi fluiti dalla Russia. Christofias giura che non se ne parla. «Così affameremmo il popolo», ha spiegato. E’ per questo che il “comunista” di Nicosia si è rivolto anche a Mosca, aprendo un’asta competitiva senza precedenti. Lo ha già fatto lo scorso anno (2,5 miliardi), sa che i tassi sono bassi e non ci sono condizioni. Gli osservatori temono che Cipro diventi una isola rossa dipendente da Mosca. «La Russia non è l’Urss di una volta - controbatte Christofias -. Sono amici che si occupano di Cipro senza chiedere nulla in cambio». Difficile credergli. Nella zona di Limassol abitano 40 mila cittadini della Federazione, vengono in cerca di affari. In primavera è girata la notizia di un traffico d’armi russo a largo della costa. «Si narrano molte favole sul nostro paese», ha smentito il presidente.
Lunedì i ministri Economici dell’Eurogruppo parleranno dei denari per Nicosia. «Mosca non ha ancora risposto», precisa il presidente. Bruxelles dovrà decidere se ammorbidire le regole, oppure rischiare di perdere un cliente di casa, il che politicamente sarebbe una sconfitta. «Ho parlato dell’opzione russa al Consiglio Ue - ha rivelato Christofias - non hanno avuto nulla da ridire». I tempi devono essere brevi e tutto si intreccia. C’è lo sconto greco aperto, così come lo è l’intervento sul credito spagnolo. Qualcuno dice che anche la Slovenia è in arrivo. Renderebbe il caso cipriota meno grave, ma di poco. «Il caso cipriota», come lo chiama anche il presidente Christofias, è molto di più. E’ una mina economica e politica. Se Cipro cadesse, sarebbe un terremoto negli assetti politici mediterranei, con ripercussioni dalla Grecia alla Siria, passando per Ankara che ancora sogna l’Europa.

La Stampa 6.7.12
Azienda di Finmeccanica rifornisce l’esercito siriano
I “Syria Files” di Wikileaks: dall’Italia sistemi di comunicazione
di Gian Antonio Orighi


MADRID Wikileaks colpisce ancora e questa volta nel mirino c’è la Siria, ma non solo. Il celebre sito web che ha diffuso milioni di cablo segreti della diplomazia statunitense, ha presentato ieri a Londra la pubblicazione online di 2.434.899 e-mail riservate del regime siriano, i cosiddetti Syria Files.
Sono comunicazioni dei ministeri della Presidenza, Esteri, Finanze, Trasporti e Cultura, 400 mila delle quali scritte in arabo e 68 mila in russo, inviate a 678.752 destinatari. E da parecchi messaggi salta fuori che l’italiana Finmeccanica collabora con Damasco tramite una azienda controllata, la Selex Elsag.
«I documenti pubblicati mostrano le questioni interne del governo siriano e la sua economia, e rivelano come l’Occidente e le sue imprese dicano una cosa e ne facciano un’altra - ha detto la portavoce di Wikileaks, Sarah Harrison -. Non possiamo dare altri particolari sul database. Lo faremo una volta che siano state analizzate le informazione, che crediamo siano per la maggior parte autentiche».
Per sbrogliare la matassa, il sito ha scelto sette partner, cinque occidentali, tra cui il giornale progressista spagnolo online «Público», e due arabi.
Il leader di Wikileaks, l’hacker australiano Julian Assange, si è da poco rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per evitare l’estradizione in Svezia per presunti reati sessuali. Ma ha fatto leggere alla Harrison un suo messaggio personale: «I files sono imbarazzanti sia per la Siria che per i suoi oppositori. Ci aiutano non tanto a criticare una parte o l’altra, quanto a comprendere gli interessi del Paese, le azioni, i pensieri. Solo capendo questo conflitto si può trovare una soluzione».
«Público» ha subito messo in rete una delle perle dei Syria Files. «L’Italia vende alla Siria alta tecnologia, che serve per coordinare la repressione», titola il quotidiano, ormai diffuso soltanto online. Sul banco degli imputati c’è la compagnia hi-tech Selex Communications, dal 2001 Selex Elsag, società del gruppo Finmeccanica specializzata nell’elettronica per la difesa e la sicurezza. Un suo prodotto venduto in tutto il mondo, il sistema satellitare Tetra, permette la trasmissione, pubblica o privata, anche criptata e wireless, di dati multimediali a grande velocità da diverse piattaforme sia fisse che mobili (come elicotteri o blindati) - via telefono, radio, video o Internet.
Selex Communications (che nel video di presentazione di Tetra fa vedere un centro mobile comunicazioni dei Carabinieri su un furgoncino), ha firmato un contratto con le governative Syrian Wireless Organization e Syrian Telecom Establishment in tempi non sospetti, nel 2008, via la multinazionale Intracom Telecom, di capitale sia greco che russo, specializzata in tecnologia militare e presieduta dall’ateniese Sokratis Kokkalis, sospettato in passato di essere stato un agente segreto della Stasi. Un contratto da quaranta milioni di euro.
«Púbblico» assicura che le e-mail di Wikileaks provano che i gioielli di Tetra furono spediti proprio nelle caserme dell’esercito e della polizia delle località dove la repressione sarebbe stata più brutale: Damasco, Deir Ezzor, Moadamia, Tartus e Latakia. In concreto, Selex ha venduto 11.700 unità della radio Puma T3, 3.484 radio VS3000 per auto, 1.407 per moto, 60 per la flotta, 1.600 terminali fissi e 30 AS3000 per gli elicotteri. «Tutta tecnologia - sostiene Público usata per i bombardamenti contro i civili dalle truppe di Assad ». La Selex Elsag non ha ancora commentato le rivelazioni di Wikileaks.

La Stampa 6.7.12
Entro il 2020 le forze armate scenderanno a 80 mila uomini
Londra archivia l’impero Esercito ridotto del 20%
di Andrea Malaguti


Ci voleva la colonna sonora di Ennio Morricone ieri mattina alla House of Commons. C’era una volta l’Impero. Mentre il ministro della Difesa, il conservatore Philip Hammond, annunciava pallido la necessità di ridurre l’organico delle forze armate del 20% entro il 2020 - da 102 mila a 80 mila uomini - il silenzio doloroso dell’aula umiliata era la certificazione plastica di una sconfitta collettiva. «Il morale delle nostre truppe è fragile e di certo questa notizia non le aiuterà, ma creeremo una forza bilanciata, efficace e adattabile». Furbizia verbale piuttosto debole da applicare a un sermone funebre immaginata per mettere il silenziatore alle campane a morto sull’epica orgogliosamente guerriera di una nazione fondata sull’identità da campo di battaglia. «Mai litigare con un inglese, perché quello tende a non raccogliere la provocazione, ma se lo fa è per ucciderti», spiegava Churchill ai capi di Stato in visita a Londra. Erano gli Anni 20 e un quarto del mondo era britannico. Cinquecento milioni di persone, dal Canada alla Guyana, dall’Egitto al Sud Africa, dall’India all’Australia, dominate dalla forza economica e militare della Corona. Preistoria.
La liofilizzazione muscolare è stata costante: nel 1978, culmine della Guerra Fredda, i soldati del Regno erano il doppio di quelli odierni. E, nonostante l’erosione, l’idea di partecipare a qualunque presunta guerra «democratica» del terzo millennio è stata la stella polare della politica estera di un’Isola che oggi, col taglio di diciassette unità, compresi quattro prestigiosi battaglioni di fanteria, non è più nemmeno sicura di potere garantire la protezione a se stessa. «Ci saranno riflessi pratici anche sul nostro peso e sulla nostra influenza nel mondo», ha sussurrato il laburista Jim Murphy. La sinistra che si affligge per mancanza di pistole e si domanda come reagirà il Paese quando l’alleato americano chiederà il solito aiuto per risistemare pezzi inquieti di pianeta. Ammaina bandiera.
Alla base militare di Tidworth, sede del secondo battaglione reale del Galles, una donna bruna, elegante, con fianchi da gitana, consegna alle telecamere di Sky il proprio disappunto. «Mio marito è nell’esercito da vent’anni, ha combattuto a Elmand e ora vive con l’ansia di sapere se sarà anche lui uno dei 700 esuberi annunciati. E’ così che il governo rispetta il nostro sacrificio?».
Dal 2001 sono stati 422 i soldati britannici uccisi in Afghanistan. Il loro sacrificio sembrava almeno la polizza d’assicurazione sul futuro delle famiglie. «Invece ci prendono a schiaffi in faccia. A che cosa sono serviti i nostri morti? »

Corriere 6.7.12
Giustizia per i bimbi rubati dai generali
Sentenza storica: l'ex generale Videla condannato a 50 anni di carcere
di Alessandra Coppola


L'uomo che per 32 anni s'è finto suo padre da bambino gli raccontava delle storie: «Quando prendevamo le terroriste, sosteneva, ingoiavano pillole di cianuro per suicidarsi. Le guerrigliere incinte, gli ho sentito ripetere tante volte, usavano i figli che avevano in pancia come scudi umani». Invenzioni. Non per addormentare: per prolungare l'incubo. «Ero il suo bottino di guerra — dice ora, quasi urla al telefono, Francisco Madariaga Quintela —, non m'aveva rubato per crescermi con amore, ma per perpetuare la violenza, fisica e psicologica. Era un piano».
L'ha stabilito ieri anche una corte di Buenos Aires (nella notte in Italia), tre decadi dopo la fine della dittatura (1976-83), pronunciando una sentenza che è un pezzo di Storia argentina. Lacrime, e poi applausi, festa, musica davanti al maxischermo che trasmetteva dal tribunale in diretta. Condannato a cinquant'anni di reclusione, come aveva chiesto l'accusa, il capo della prima giunta militare, il volto più duro e celebre del regime, Jorge Videla, adesso vecchio e incerto nel banco degli imputati, accanto all'ex generale Reynaldo Benito Bignone (15 anni). Alla sbarra altri sette repressori del calibro del «Tigre» Acosta (30 anni) e di Antonio Vañek (40). Insieme ai genitori che raccontavano le favole dell'orrore: l'ufficiale dell'esercito Victor Gallo (15 anni) e sua moglie Susana (5). L'ultima a parlare in aula: «Per me è stato un inferno. Francisco figlio di un desaparecido? Io non lo sapevo...».
Una cricca di ladri di bambini, portata a giudizio per 35 casi su 500 neonati che mancano all'appello, rapiti dopo il parto all'Esma, all'Automotores Orletti, all'Olimpo o in altri centri clandestini di tortura e morte. Affidati a famiglie vicine al regime. Non vittime isolate, ha confermato il giudice, ma cavie di un esperimento preciso e perverso: estirpare il germe dell'opposizione; far scomparire i genitori, «correggere» il Dna dei figli educandoli al nazionalismo, alla forza militare, all'economia dei latifondi e dei grandi capitali. «Piano sistematico di appropriazione di minori», lo chiamano.
Francisco risponde dalla Casa delle Abuelas de Plaza de Mayo. «Sì, sono anche io un nipote ritrovato». Il numero 101, sui 105 finora riabbracciati dai nonni. La sua vicenda ne contiene molte altre: «Ho vissuto 32 anni di angoscia e maltrattamenti, ero come un fantasma, con un vuoto dentro che non si può spiegare». Finché due anni fa si è rivolto alla Banca nazionale dei dati genetici che raccoglie il Dna dei familiari dei desaparecidos (quel codice che i militari volevano sanare), ha fatto il test e ha scoperto di essere un altro: «Avere la propria identità è la cosa più bella. E io sono stato anche fortunato: sono tra i pochi ad avere il padre in vita», Abel Madariaga, ora segretario delle Abuelas, rifugiatosi all'estero durante la dittatura. «È meraviglioso averlo trovato, e potergli chiedere di mia madre», Silvia Quintela, sequestrata dagli squadroni nel '77 incinta di quattro mesi, tenuta in vita fino al parto al Campo di Mayo, «eliminata» nel Río de la Plata con un «volo della morte».
Sapere la verità, andare avanti. «Con mio padre non ci siamo mai detti "avremmo potuto incontrarci prima". Abbiamo deciso di ripartire dal momento in cui ci siamo riabbracciati, guardando oltre».

Corriere 6.7.12
Il miracolo della particella di Dio. La scienza che arriva alla gente
Grazie alla «cattura» del bosone la superfisica è scesa sulla terra
di Edoardo Boncinelli


È stato dato finalmente l'annuncio dell'esistenza del bosone di Higgs, la particella che mancava per far «scendere sulla terra» la superfisica delle particelle di oggi, cioè per confermare la nostra comprensione del piccolo «zoo» delle più fondamentali particelle di cui è costituito il mondo. Era un annuncio atteso da tempo e salutato con grande entusiasmo dalla comunità dei fisici di tutto il mondo, quelli che si ostinano a combattere contro l'ignoto per strappare alla natura i suoi segreti più riposti. Tutti parlavano da anni della «particella di Dio», che figurava nel titolo di un libro divulgativo del grande fisico Leon Lederman. Il titolo originale era The Goddamn particle, la «dannata particella», ma per ragioni editoriali è poi divenuto The God particle, cioè la «particella di Dio». E come tale era passata nei media e nell'immaginario collettivo.
La notizia è assai rilevante per almeno due motivi. Sul piano della fisica pura, quella fatta dagli scienziati, è stata una conferma eccezionale e un trionfo della capacità della grande fisica di fare predizioni a lungo termine. La particella in questione viene a volte definita bosone, perché appartiene a una delle due famiglie nelle quali possono essere suddivisi gli «attori» principali della fisica subatomica: quella dei fermioni (che prendono il nome da Enrico Fermi) e quella dei bosoni appunto (che prendono il nome da Satyendra Nath Bose, fisico indiano). Un bosone è quindi un particolare tipo di particella subatomica. La sua esistenza era stata prevista esclusivamente su base teorica da Peter Higgs quasi cinquanta anni fa e la sua individuazione porta una straordinaria conferma del cosiddetto Modello Standard che domina la fisica delle particelle di oggi.
Il modello prevede l'esistenza di dodici tipi di particelle veramente elementari — suddivise a loro volta in 6 famiglie di quark e 6 famiglie di leptoni, quali l'elettrone e i neutrini — e sei tipi di forze o interazioni elementari (la più celebre delle quali è il fotone, mediatore di tutte le interazioni elettromagnetiche) che tengono insieme le particelle stesse. È un'eccezionale teoria fisica, capace di spiegare quasi tutto, ma c'era un problema. Non si capiva perché le particelle hanno una massa e in particolare perché hanno la massa che hanno. In questo quadro il bosone di Higgs ha il compito di conferire una massa a ciascuna di quelle particelle, interagendoci. In verità la dimostrazione della sua esistenza è un completamento ma anche un'estensione. Il Modello Standard non è infatti l'unico piatto nel forno della moderna teoria delle particelle elementari: esistono la teoria delle stringhe e le diverse teorie denominate supersimmetrie. Ebbene, l'individuazione certa del bosone di Higgs getta un ponte tra le diverse visioni, facendo scendere per la prima volta sulla terra la grande fisica teorica del nostro tempo. Ogni nuova scoperta costituisce un ponte verso futuri problemi e future risposte. Questa è la scienza, piaccia o non piaccia.
C'è poi l'aspetto di divulgazione della scienza e della sua fruizione da parte del grande pubblico. Si è constatato che tutti avevano almeno sentito parlare della fantomatica particella di Dio, anche se non ne avevano comprensibilmente un'idea chiarissima, e qualche mese fa si è avuto la conferma del fatto che tutti sanno che la velocità della luce non può essere superata da nessuna realtà materiale, come ha dimostrato la sfortunata storia dei neutrini «superveloci». Nell'un caso come nell'altro la comunicazione scientifica è quindi riuscita ad «arrivare» alla gente. E questo non può fare che piacere. Quando non ci sono resistenze ideologiche dunque è anche possibile farsi capire da tutti.

Repubblica 6.7.12
“Piazze e politica, più Keynes per tutti”
Il filosofo Walzer analizza i movimenti, dagli Usa all’Europa
di Roberto Festa


Da Occupy Wall Street al futuro. Dopo i mesi della protesta sono arrivati quelli della riflessione. Su questo movimento e non solo, per capire cosa è successo. «Trovo davvero incoraggiante che così tanti giovani si siano uniti alle manifestazioni di protesta», racconta Michael Walzer. Abbiamo incontrato questo filosofo della morale e della politica nel suo ufficio dell’Institute for Advanced Study di Princeton, per cercare di analizzare il fenomeno. Per Walzer (76 anni, direttore della rivista Dissent, autore di libri fondamentali per la riflessione su radicalismo politico e religioso, nazionalismo, violenza: Esodo e rivoluzione, Sfere di giustizia, Guerre giuste e ingiuste), l’occupazione di una piazza di Manhattan è stato il segnale di un più vasto movimento di risveglio democratico e di cittadinanza. Michael Walzer, perché “Occupy Wall Street” è stato un fenomeno positivo, per la politica e la società americana? «Anzitutto per ragioni geografiche. Nella nostra storia recente abbiamo avuto grandi manifestazioni pacifiste, a Washington, a New York, a San Francisco. Ma niente può essere paragonato a quello che è successo nei mesi scorsi. La protesta si è diffusa a tante piccole comunità, alla periferia del Paese. È una cosa straordinaria, che mi ha emozionato». Qual è stata la molla che ha spinto così tanti a protestare? «C’è una parte ormai consistente della popolazione, negli Stati Uniti, che pensa che il livello di diseguaglianza sia ormai diventato insopportabile. Storicamente, gli americani hanno una particolare avversione per l’invasione del governo federale. Ma in questi anni è cresciuta la consapevolezza che questo sistema economico non è più sostenibile, e che è necessario introdurre cambiamenti profondi. Pare ormai chiaro che il piano di incentivi all’economia pensato da Obama e dalla sua squadra economica all’inizio del primo mandato non sia stato sufficiente. D’altra parte Obama, a differenza di Roosevelt negli anni Trenta, non ha cercato di approfittare della crisi per una radicale riforma del sistema finanziario. Il suo obiettivo era restaurare il vecchio sistema, quello degli anni di Clinton. Non a caso, molti suoi collaboratori economici sono stati gli stessi di Clinton. Non mi sembra siano andati molto lontani. Le condizioni di partenza erano molto difficili. Forse, ci sarebbe voluto più coraggio». Lei si è sempre definito “socialdemocratico”. Lo è ancora? «Sì. Penso che la situazione attuale richieda più democrazia sociale. Non sono un economista, ma mi sembra che una certa forma di keynesianesimo, interno e internazionale, sia a questo punto necessario. Come è necessario ridare alla politica la sua funzione di rappresentatività sociale. E queste sono strategie socialdemocratiche ». Molti hanno rimproverato a “Occupy Wall Street” la mancanza di un vero progetto politico. «È vero che “Occupy Wall Street” è stato segnato da una forte ideologia anarchica, dalla mancanza di leader e di programmi. Ma questo non è il compito dei movimenti di protesta. Dovrebbero0 essere i politici – soprattutto quelli democratici – a interpretare i movimenti, a trarre dalla protesta stimolo all’azione. Dovrebbe essere la politica a dare risposta ai bisogni che sorgono, anche confusamente, dalla società. È così che funziona la democrazia. E così non avviene, purtroppo. Quello che un movimento come “Occupy Wall Street” rivela è che forse la nostra democrazia non funziona più tanto bene. Le istanze di cittadinanza, le richieste di partecipazione, non trovano più sbocchi nei partiti politici». Questi sono stati anche i mesi delle “primavere arabe” e delle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria. C’è un filo comune, che lega questi movimenti all’Occidente? «“Occupy Wall Street” non ha avuto come obiettivo quello di rovesciare i tiranni, e si è sviluppato all’interno di uno Stato democratico. Un po’ come è avvenuto in Spagna e Israele. Nei Paesi arabi, soprattutto in Libia e Siria, dove è scoppiata una vera e propria guerra civile, la situazione è molto diversa. Vedo analogie soprattutto a livello generazionale. È stata la generazione più giovane, quella di Facebook, di Twitter, a nutrire la rivolte in Tunisia ed Egitto, un po’ come è avvenuto in molti Paesi occidentali. I social media sono uno straordinario strumento di risveglio e riappropriazione civile e democratica. Non sono comunque certo sugli esiti di queste rivolte. Temo che i gruppi che le hanno guidate siano uno strato molto sottile, ed esterno, all’interno di queste società. Non hanno particolari legami con la popolazione delle campagne, con la gente delle periferie urbane povere. Questi giovani possono cacciare i tiranni. Ma non riescono a sostituirli. Temo che i tiranni come sta già succedendo vengano sostituiti da partiti islamici di orientamento vario: partiti non liberali, non laici, probabilmente più moderati rispetto agli islamici in Iran».

Corriere 6.7.12
Compito del Cnr è il dialogo fra i saperi
di Luigi Nicolais


Caro direttore, Tullio Gregory (sul Corriere del 27 giugno) attribuisce all'equilibrio imperfetto del Comitato internazionale di esperti la distrazione del Documento strategico del Cnr sulla cultura umanistica.
Avendo auspicato un dibattito ampio e costruttivo, non è mia intenzione replicare difendendo posizioni e indirizzi, ma portare punti a chiarimento e se possibile provocare ulteriori riflessioni.
L'equilibrio imperfetto non è un felice ossimoro, ma un dato di fatto. È inutile negarlo. È più agevole dialogare per macroambiti culturali piuttosto che per singole specificità. Ed è indubbio che alcune aree scientifiche, per storia, metodo, sensibilità, probabilmente scaltrezza degli stessi ricercatori, tendano con maggiore facilità a proporsi, presentarsi, riconoscersi e farsi riconoscere come masse critiche omogenee e coese, salvo poi frantumarsi in mille e mille rivoli.
La ricca articolazione della cultura umanistica dovuta alla specificità, autorevolezza e spesso anche alla individualità delle ricerche non ha fino a oggi favorito l'agglomerazione, tanto che quella più utilizzata resta sostanzialmente un ibrido concettuale di scarsa capacità attrattiva e rappresentativa. Ma non per questo però si disconosce valore e presenza. Quanto poi questa debba pesare all'interno di un ente che auspica, per la ragione stessa della sua esistenza, la concentrazione di strutture, risorse e competenze, nonché l'individuazione certa di interlocutori è questione aperta che il Documento indirettamente affronta. In esso, poi, Gregory legge e denuncia un'insofferenza diffusa per la ricerca di base. Premesso che, per la complessità espressa dalle attività di ricerca e la forte interazione dei diversi saperi, andrebbe superata la tripartizione della ricerca che la vuole di base, applicata e industriale, per arrivare a una distinzione solo tra ricerca qualitativamente buona e interessante e ricerca d'accatto, il documento tenta, azzarda, probabilmente non riuscendoci, di fare ordine.
L'obiettivo è restituire chiarezza di funzione e finalità a un ente, il Cnr, che ha il compito di far avanzare le frontiere di tutti saperi, sollecitandone a tal fine le interazioni. Ma al tempo stesso ha anche l'obbligo, il dovere civile, di utilizzare, applicare e far capitalizzare a livello sociale i risultati scientifici conseguiti o maturati. Questo comporta una specificità rispetto alle università cui spetta il compito di formare e indirizzare principalmente la creatività e le potenzialità dei giovani. È indubbio poi che le priorità derivino da una visione di un Cnr forte posizionato sul territorio come interfaccia fra il mondo dei saperi, quello della produzione e dell'innovazione. In questo sicuramente ci sarà stata qualche omissione, ma le stesse sono dettate anche dalle caratteristiche endogene del sistema sociale e produttivo italiano.
Infine sui rilievi per le competenze bibliometriche e le capacità manageriali. Il Documento assume solo apparentemente una posizione omologa alla moda imperante e sollecitando la crescita di consapevolezze e competenze su entrambi gli ambiti pone la necessità di stressare la trasparenza, la misurabilità e l'efficacia delle azioni e della conduzione delle strutture pubbliche di ricerca, avendo a riferimento non più solo il proprio contesto, locale o nazionale, ma quello internazionale.
Sono consapevole e certo che nessun documento potrà mai accampare pretese di esaustività e completezza. I testi vanno interpretati e migliorati nell'applicazione, per questo ho sollecitato il dibattito, fidando nell'onesta intellettuale degli interventi — così come intesa dallo stesso Gregory — e sull'opportunità di poter sviluppare insieme una nuova visione per l'intero sistema della ricerca pubblica.
Una visione organica che inevitabilmente porrà dei distinguo e delle differenze, ma che dovrà poggiare almeno su alcune consapevolezze: non possiamo più trincerarci dietro posizioni autocelebrative e autoreferenziali; non possiamo permetterci di progredire in un settore scientifico a scapito di un altro, non possiamo disporre di cattedrali nel deserto.
E se per innescare processi virtuosi di cambiamento è necessario adottare, anche e non solo, metodi e strumenti quantitativi, questi ultimi ben vengano. Perché la meta deve essere quella di ottimizzare, razionalizzare, concentrare gli sforzi; formare, trattenere e tutelare nuove leve di studiosi e ricercatori; far avanzare la frontiera della conoscenza; attrarre risorse private; aumentare il credito sociale di tutti i saperi.
Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche

l’Unità 6.7.12
Miracolo Cavaraggio
Trovati cento tra dipinti e disegni giovanili
Due studiosi hanno rintracciato il tesoro dopo una lunga caccia. Era conservato nel castello Sforzesco di Milano Il valore delle opere si aggira sui settecento milioni
di Giuseppe Montesano


SONO PIÙ DI CENTO I DISEGNI DI CARAVAGGIO CHE AFFIORANO IMPROVVISI DALL’OSCURITÀ DEI SECOLI: È QUESTA LA NOTIZIA CHE È ESPLOSA IERI. IN REALTÀ È DAL FONDO PETERZANO del Castello Sforzesco di Milano dragato da due studiosi, Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, che escono questi disegni, disegni che sono pubblicati oggi da Amazon in un e-book in cui gli studiosi presentano la loro scoperta. I due studiosi hanno confrontato i disegni di teste e di corpi ritrovati alle figure dei grandi quadri caravaggeschi, ipotizzando, anche tramite rielaborazioni al computer, che il corpus di disegni sia stato usato da Caravaggio per fissare sulla tela alcune delle sue immagini più potenti.
Naturalmente la scoperta sarebbe di importanza fondamentale per la Storia del pittore maledetto più amato dal pubblico delle mostre, ma susciterà sicuramente le perplessità, i dubbi e gli attacchi della litigiosa comunità degli storici dell’arte e degli esperti di attribuzioni. Tutti vorranno prendere visione degli originali da vicino, pretenderanno di studiarli autonomamente, e come sempre accade in questi casi ci saranno scettici e convinti, e grande sarà il polverone. Di fatto si parla già di un valore approssimativo di settecento milioni di euro, il che, vista l’appartenenza dei disegni al Comune di Milano, sarebbero una manna piovuta dal cielo per i buchi di bilancio.
DI NOBILI ORIGINI?
Ma, bilanci a parte, se i disegni fossero accettati come autentici dall’intera comunità scientifica, ci sarebbe una mostra: e chi non si sposterebbe per vedere i disegni del genio adolescente? E anche nell’incertezza, i disegni eserciteranno una forte attrazione sul pubblico: ognuno vorrà vedere con i suoi occhi la carta, il segno, la pallida o scura traccia che il Maestro ha forse lasciato sul foglio. La scoperta trascinerebbe con sé anche una piccola rivoluzione nella biografia di Caravaggio, per esempio svelando, secondo le parole della Conconi Fedrigolli riportate dall’Ansa, che la madre di Caravaggio sarebbe stata di famiglia patrizia, o legata a famiglia patrizia, e esattamente a Costanza Sforza Colonna; Costanza Colonna avrebbe poi ospitato Caravaggio a Roma nel suo palazzo; e dopo l’omicidio compiuto dal pittore lo avrebbe ospitato in segreto in un suo feudo laziale e a Napoli: con l’ipotesi che il soggiorno presso i Cavalieri di Malta sarebbe stato compiuto per l’affiliazione, che avrebbe messo Caravaggio al sicuro dalla giustizia.
IN ATTESA DI VERIFICHE
Rivoluzione? Un terremoto, e soprattutto ancora una maniera di sognare e raccontare storie intorno al misterioso artista che sembra incarnare per noi una precoce e fascinosa modernità. Tutto accertato? Gli studiosi e la loro ricerca sono serissimi, ma il tempo per giudicarla ora è poco. Si può invece, in omaggio al geniale Michelangelo Merisi, la cui velocità di esecuzione era proverbiale, e che adoperava molti dei trucchi tecnici del suo tempo per affrettare ulteriormente la lavorazione delle tele, si può intanto andarsi a guardare alcuni di questi disegni, e giocare con essi: Caravaggio non disdegnava affatto il gioco.
Alcuni disegni del Fondo Peterzano sono visibili in rete, e sono estremamente interessanti per chi vuole «giocare» ai confronti, ai riconoscimenti e agli incroci. C’è per esempio una Testa di vecchio che ha un’incredibile somiglianza con certi disegni di Van Gogh, un altro pittore di culto per frequentatori di mostre: è una testa dal tratto modernissimo, aguzzo, che mostrerebbe in Caravaggio un precursore; c’è poi uno Studio di testa che è invece leonardesco, somigliante, e moltissimo, ai disegni e alle caricature che Leonardo amava fare delle facce e dei corpi di vecchi e vecchie. Che vuol dire? Solo che l’arte è metamorfica, fatta di incroci e continue derivazioni o anticipazioni, e che il mito dell’originalità è solo un mito.
Sarà vero tutto? Sarà tutto dimostrabile? Questo lo sapremo, ora la sola cosa da fare è consigliare agli studiosi di dragare con cura l’Italia e i suoi fondi. E se si scoprisse un affresco di Leonardo? E un dipinto di Botticelli? E una statua di Michelangelo?
Mostre, folle, miliardi di euro e fondi, sì, ma di investimento: e l’arte, disprezzata dai tecnopolitici, salverebbe il Belpaese...

La Stampa 6.7.12
Ma in questo caso i dubbi sono più che legittimi
Gli scopritori non hanno un pedigree caravaggesco
di Marco Vallora


Mah, che uno sia anche perplesso e guardingo, questo almeno sia concesso, e legittimo, visto che non è possibile che una settimana sì una settimana no venga fuori una notizia-choc su Caravaggio, sempre lui, il che, ovviamente, rende ogni volta più dubbiosi. E sempre queste parole-glamour, millantate: capolavoro, autografo, scoperta sensazionale che rivoluzionerà il secolo. Poi la coperta del silenzio, che tutto ricopre, e buonanotte al miracolo. Il che significa, probabilmente, che esiste una generazione o una task force di studiosi o pseudo-tali, che si è fossilizzata nella ricerca spasmodica (più o meno setacciante) dell’ultimissimo prossimo scoop caravaggesco, e che gratta solo in zona, e non attende altro che il momento sonnolento di dare all’Ansa lo squillo epocale dello scoop, pur di far parlare di sé.
Allora: se si trovassero dei disegni certi ed indiscutibili (cosa sempre relativa, per tutti) ma proprio di Caravaggio, eh, certo, che sarebbe notizia cruciale ed intrigante. A dire che non era quell’improvvisatore esagitato romantico, come solo gli sceneggiati tv ritengono. Perché è ben probabile che disegnasse anche lui, ma bisogna capire come, e in che occasione, e con che tecnica, in che stile. Non poca cosa. Ma soprattutto, capire se e come li conservasse, se li affidava a qualcuno, a che punto del percorso li utilizzava, ecc. Ed ascoltare poi un consesso affidabile di veri esperti, per capire se questa «scoperta» rivoluzionaria può risultare attendibile. Sempre tenendo conto che la valutazione dell’occhio dell’attribuzionista è essenziale. Non bastano illazioni fanfarone, pretese ingenue, verifichine al computer, documenti onniparlanti (come Nostradamus).
La sfumatura che onestamente un po’ sorprende, in questa agnizione estiva, che sarà verissima, per carità (non obiettiamo, non avendo ancora potuto visionare i fogli, ma già le foto lancian dubbi stilistici) consiste nello stile della notizia, nel contorno paratestuale, che non è piccolo indizio. Soprattutto senza prima un minimo, sereno confronto tra altri esperti e l’esigenza di verificare la scientificità di questi pur apodittici ed assolutistici strilli, dati per certi, alle stampe (la firma autografa assicurata del Merisi, ma dove?). L’ebook già pronto su Amazon, cotto per domani. Il filmatino ben confezionato, ove si dà per accertata la «scoperta rivoluzionaria» e l’effetto dirompente del «ritrovamento». Come se nemmeno più Iddio potesse metterla in discussione. Alla faccia della serietà. E poi una spia davvero inquietante e rivelatrice. Sono appena stati «scoperti»? Ma allora, che senso ha far subito i conti in tasca alla trouvaille (non sarà l’unica cosa che interessa davvero?) se valgono già 700 milioni o più, come un Cattelan-Hirst appena sfornato, e senza nessun confronto credibile con il mercato, perché appunto non ci sono esemplari di comparazione mercantile. Ma non sarebbe stato meglio sposare la più efficace soluzione del ritrovamento «senza confronti», «incommensurabile», versione forse più accattivante, misteriosa, sensazionale? altro che far conti e congratulazioni al Comune che ne è proprietario. Zappa sui piedi? Ma anche lì: «era da cent’anni che si cercavano». Come se fossero venuti fuori dalle cantine. Mettiamo i puntini sulle «i»: che esistesse un fondo di disegni, al Castello Sforzesco, del suo maestro manierista Peterzano, ove anche lui poteva essere contemplato, ma lo sapevano pure, a pappagallo, le maschere delle visite guidate e qualsiasi monografia, che si rispetti, del pittore. Che è stato a bottega dal milanese Peterzano, ci sono i documenti, che certo doveva disegnare come tutti i rampolli d’atelier, che certamente in qualcosa si sarà specializzato (in nature morte? Ovvio, prima della virtuosissima Cestella dell’Ambrosiana). Anni fa, uno dei più accreditati studiosi di Caravaggio e della scuola longhiana, Mina Gregori, aveva avanzato l’ipotesi, stilistica, che una celebre natura morta lombarda, potesse «passare» al giovane Caravaggio. Ed oggi sostiene: «Ma chi è che non sa che al Castello Sforzesco c’è un nutrito fondo di disegni della bottega di Peterzano, anch’io li ho studiati a lungo, e forse dopo tante scoperte si potrebbero analizzare meglio, ma bisogna verificare con quale credibilità si azzardano certe nuove attribuzioni». Adriana Conconi Fedrigolli (collaboratrice d’una monografia sulla collezione bresciana Avogadro) e Maurizio Bernardelli Curuz (responsabile di mostre bresciane, studioso che firma i suo saggi in catalogo con la referenza dott., un po’ inusuale) senz’alcuna prevenzione, non hanno però alcun vero pedigree caravaggesco, ma sole certezze, sull’ (ahimè) «Sistema Merisi».
Due piccole domande, visto che graficamente certi raffronti posson collimare: ma che prova c’è che non siano dei disegni successivi d’allievi, che copiano opere finite? Pentimenti? Schiaccianti prove grafiche? Ragioni espressive? E soprattutto, un vero enigma. Ma se vien dato per certo che questi autografi di bottega giovanili (di stile però posteriore, profetico? mah) siano stati anche «più volte ripresi nelle opere di maturità», ma possibile che con quella sua vita scapestrata, dimenticato anni luce il suo non-amato maestro, in tarda età, come un sentimentale uccello migratore, Caravaggio li abbia riportati nella cuccia adolescenziale, per farli riscoprire da Curuz e Fedrigolli?

Repubblica 6.7.12
Serve cautela ma il segno del genio c’è
di Claudio Strinati


TROPPA grazia! Prima non ce n’era neanche uno e adesso sarebbero un centinaio i disegni del Caravaggio. Sono attribuzioni, è chiaro: siamo su un campo minato. Non ci sono prove che quei disegni siano del giovane Michelangelo Merisi quando era a scuola da Simone Peterzano. Ma è plausibile che almeno qualcuno lo sia perché i documenti dicono che il Merisi studiò da Peterzano per quattro anni e qualche cosa l’avrà fatta.
Peterzano di suo era disegnatore efficace e maestro eccellente. Non risulta che il Merisi abbia mai avuto espressioni di deferenza per il vecchio maestro, eppure molti pensano, e non da oggi, che gli debba molto. Lo pensiamo anche noi e quindi non meraviglia che nel “fondo Peterzano” ci possano essere disegni del Merisi ragazzo. Identificarli, però, non è facile, perché dobbiamo basarci su paradigmi indiziari. Merisi era un rivoluzionario, quindi come si sarà comportato con il maestro? Seguendolo pedissequamente o facendo tutto il contrario di quello che tentava di insegnargli? Non ci sono documenti o testimonianze coeve per rispondere alla domanda. Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli sono egregi studiosi. Bernardelli dirige la rivista
Stile arte, bella e importante. Soffre un poco della sindrome del re Mida. Sembra, cioè, convinto del fatto che ciò che tocca diventi oro. Ma va riconosciuto che in molti casi ha dato prova eccellente di sé. La migliore analisi e spiegazione conseguente della mitica Fornarina di Raffaello si deve a lui e potremmo fare anche altri casi esemplari che testimoniano dell’acume dello studioso, talvolta inficiato da una certezza eccessiva di essere sempre e comunque nel giusto. Spesso capita che Bernardelli esamini casi studiati prima da innumerevoli esperti e mai risolti. Volete sapere il significato esatto di certi capolavori del Botticelli o dell’Allegoria di Ercole di Dosso Dossi? Volete sapere quali sono i quadri-talismano che portavano fortuna? Bernardelli può spiegare il perché con analisi sovente appropriate e profonde.
Qui però il metodo per riconoscere il Caravaggio va forse discusso con attenzione. Bisognerà leggere l’ebook che ora esce e meditarlo con calma, ma sembra che l’idea sia quella di individuare un canone dentro le forme, inequivocabile marchio del segno caravaggesco perché costante nelle opere certe del Merisi. Sembra un metodo di sicura scientificità sennonché quei pochi disegni che ieri circolavano sulla rete mostravano mani diverse. Affini, certo, ma diverse. E poi dicevano poco. Ben fatti, sì. Ma poco interessanti sul piano storicoartistico. Forse qualcuno lo avrà anche eseguito il Caravaggio, non dico di no, ma cosa ci rivela di lui? Niente
che non sapessimo già.

Repubblica 6.7.12
Il festival
Arte e psicoanalisi in scena a Spoleto


Arte e psicoanalisi s’incontrano domani al Festival di. Dibattiti, proiezioni, foto, performance ruotano sul tema L’enigma della creatività nell’arte, sulle dinamiche psichiche che conducono al pensiero e al gesto creativo. Manuela Fraire si occupa di un’artista straordinaria come Louise Bourgeois. Don Giovanni senza colpa e senza vergogna è invece il titolo di un dialogo tra l’analista Andrea Baldassarro e il musicologo Riccardo Giagni su un mito moderno che inquieta: scorreranno le immagini dei film più celebri ispirati all’opera di Mozart e l’attore Ubaldo Lo Presti leggerà alcuni brani di autori come Kierkegaard e Carmelo Bene. La giornata è promossa dalla Società psicoanalitica italiana.