sabato 7 luglio 2012

l’Unità 7.7.12
Tagli a sanità e Comuni: così non va
Una manovra recessiva
di Guglielmo Epifani


La manovra del governo è un insieme di tagli alla spesa pubblica con una previsione triennale e crescente di effetti. A fronte di ciò viene posticipato di quasi un anno il temuto aumento dell’Iva con una diversa modulazione dei suoi importi. Che si tratti o meno di una correzione dell’andamento dei conti pubblici, è comunque evidente il carattere ciclico della manovra nella sua componente di riduzione di servizi, investimenti e occupazione.
Mentre, infatti, gli interventi decisi in ordine alle spese superflue, alla riduzione di sprechi o sovrapposizioni di società ed enti pubblici, alla centralizzazione e trasparenza degli acquisti pubblici, rispondono ad un condivisibile e corretto criterio di efficienza generale, gli altri tagli non generano equità né svolgono una funzione anticlica. La Sanità può essere ragionevolmente assunta come metafora di questa affermazione.
I tagli si sostanziano infatti in una indiscriminata riduzione del perimetro delle funzioni e dei servizi pubblici, con l’effetto paradossale di colpire di più proprio quei modelli sanitari più virtuosi ed efficienti. La stessa riduzione degli organici prevista nel pubblico impiego sembra più frutto di un generico problema di riduzione dei costi che di un progetto di crescita di produttività, mentre la deroga alle nuove norme di pensionamento aprono evidenti contraddizioni con la situazione del settore privato e la mancata soluzione del problema di tutti gli esodati.
Il punto che resta più allarmante della manovra è quello del suo rapporto con l’andamento dell’economia reale. Dopo i dati forniti da Confindustria, il grido di allarme dei sindacati e i numeri recenti su disoccupazione e cassa integrazione, gli stessi interventi del governatore della Bce e del direttore del Fmi fanno il punto sulle difficili prospettive della crisi e le incertezze che perdurano. E qui sta il nodo della questione. Se rallenta tutta l’economia mondiale, se i Paesi dell’Euro sono costretti a rigide politiche di rigore, se gli investimenti europei mantengono tempi lunghi, l’uscita dalla trappola rigore-recessione-rigore diventa sempre più lontana nel tempo, con un evidente e inevitabile avvitamento di recessione e disoccupazione.
Questo è il nodo irrisolto che sta di fronte a tutti e, per quello che ci riguarda, al nostro Paese che da oltre 4 anni non ha visto politiche di stimolo alla domanda e agli investimenti. Il rigore senza interventi per la crescita è destinato così ad allungare la curva della recessione con gli effetti prevedibili sui consumi, la condizione delle famiglie e l’occupazione, a partire dalle nuove generazioni. Per l’insieme di questi motivi, accanto alla correzione di quella parte della manovra che taglia in modo indiscriminato i servizi pubblici fondamentali, c’è l’urgenza di mettere in campo una più forte politica anticiclica innanzitutto sul fronte degli investimenti sia privati sia pubblici, capace per questa via di evitare una caduta ulteriore del Pil. Le decisioni prese in queste stesse ore dal nuovo governo francese seguono un’altra strada. Lì si annunciano inasprimenti fiscali sui redditi alti, sui patrimoni, sulle rendite finanziarie, sulle imposte di successione e sulle compravendite immobiliari. E si riduce l’Iva sui libri e gli spettacoli dal vivo. La situazione dei due Paesi, il nostro e la Francia, non è uguale per il peso diverso del debito e perché l’economia d’Oltralpe non è in recessione e non lo sarà neanche per l’anno prossimo. Eppure colpisce il differente approccio seguito, il diverso effetto sulle economie reali, ed anche il dissimile segno di equità sociale.
Parlare esplicitamente di questo vuol dire tenere aperta un’altra risposta possibile di fronte ad una crisi che non ci lascia tregua. E vuol dire anche provare a tenere assieme le ragioni del rigore e quelle della crescita non solo a parole, che per la verità non mancano mai, ma soprattutto sul terreno dei fatti e, ancor prima, su quello delle convinzioni più profonde.


Europa 7.7.12
Verso un’altra Italia
di Enrico Morando

qui

l’Unità 7.7.12
Non chiamatela revisione della spesa
Il ministro Balduzzi si è battuto contro Grilli e anche Giarda ha mal digerito le misure: sono tagli lineari come quelli di Tremonti
di B. Dig.


Non è stato solo Renato Balduzzi a battere i pugni sul tavolo l’altra notte e a contrastare fino all’ultimo i tagli alla Sanità. Anche Piero Giarda non è stato affatto tenero. Anzi. La sua voce si è levata chiara e forte. L’obiettivo era il viceministro Vittorio Grilli, sempre statuario, immobile. Ormai tutti mormorano dell’insoddisfazione del ministro dei rapporti con il Parlamento. Colui che doveva essere il titolare della spending review non era neanche presente il giorno in cui a Palazzo Chigi sono state ricevute le parti sociali. Vero: Enrico Bondi lo ha chiamato lui. Ma poi il supercommissario ha lavorato in stretto contatto con Ragioneria e tecnici del Tesoro.
Il risultato è stato un testo che taglia con l’accetta (checché ne dica il premier) la spesa pubblica, senza tener conto di sprechi, di inefficienze, di razionalizzazioni. È questo che non è andato giù a Giarda. «Questi sono tagli lineari come quelli di Tremonti», avrebbe detto il ministro. A riprova della sua tesi c’è il fatto che una volta decisa la somma da tagliare, a ciascun ministero è stata richiesta una quota parametrata al suo peso specifico. Insomma, come si fa nei condomini con il sistema millesimale. Se non sono tagli lineari questi.
Della scure si è reso conto anche Giampaolo Di Paola, che sperava di liberarsi degli uomini, ma di mantenere le risorse destinate ai loro stipendi. Il titolare della Difesa si era detto consenziente a ridurre la «truppa», ma non il suo bilancio, per consentire di rimpinguare i fondi per gli armamenti e onorare i contratti per gli F35. Ma non è stato così: via gli uomini e anche le risorse relative ai loro stipendi.
Che questa non sia affatto una revisione della spesa, ma semplicemente un taglio (anche poderoso, soprattutto perché arriva a metà anno) lo stanno denunciando un po’ tutti in queste ore. «Nonostante vi siano misure apprezzabili e si enuncino intendimenti per certi versi rivoluzionari, come quello di dimezzare entro la fine dell’anno il numero delle Province, bisogna però dire che questa non è una spending review», scrive Tito Boeri su la Voce.info. In realtà siamo di fronte a una sfilza di numeri, che dicono poco sull’organizzazione della macchina pubblica (a parte i capitoli sugli acquisti). Non c’è una mappatura degli organici pubblici, non c’è un’indicazione precisa sulle aree da colpire. Questa è una manovra bella e buona.
Questo avrebbe osservato Giarda all’indirizzo del titolare dell’Economia. A sostegno della sua posizione c’è anche il fatto che tutta l’operazione sul pubblico impiego manca di alcuni semplici accorgimenti, che sarebbero stati utili a eliminare aree di spreco e di inutili prebende. Con una semplice disposizione, del tipo «a una posizione corrisponde una retribuzione», si sarebbe disboscata quella giungla di doppi stipendi che invade le figure apicali del Moloch pubblico. Magistrati comandati presso altri uffici che si portano dietro i loro stipendi, a cui si aggiunge l’indennità per il nuovo. E pensare che su quel punto c’è stata un’iniziativa parlamentare (Salvatore Vassallo, Pdl), eppure è «sfuggita» a «Mr.Risparmi» Bondi. Che dire, poi, delle doppie poltrone, che spesso sfuggono al tetto introdotto in manovra, visto che quella soglia si applica soltanto alla Pa e «salva» gli enti pubblici, come quelli previdenziali.

l’Unità 7.7.12
Camusso attacca e sciopera con la Uil
Contro la spending review il sindacato è sul piede di guerra
La denuncia: una mannaia sui servizi
di M. Fr.


Sciopero generale del settore pubblico a settembre. A proporlo sono Cgil e Uil, mentre la Cisl dice sì «alla mobilitazione» ma in favore di una «riorganizzazione». Sindacati dunque sul piede di guerra contro la spending review del governo.
Per Cgil e la Uil il decreto «è una mannaia per i servizi pubblici resi ai cittadini e per i lavoratori che li offrono», perché a pagare sono «sempre i lavoratori e i cittadini», mentre «manca il coraggio per colpire i poteri forti». In una nota comune, i segretari generali delle federazioni di funzione pubblica e scuola di Cgil e Uil denunciano la «confusa sommatoria di tagli lineari al personale, alla spesa sanitaria, al sistema formativo, alla ricerca, alla presenza dello Stato sul territorio: dal taglio degli organici a quello ai buoni pasto, passando per un’irrazionale riorganizzazione del sistema giudiziario e un’insopportabile colpo alle autonomie locali, si abbatterà ancora una volta sulla qualità dei servizi. Quanto ai lavoratori pubblici aggiungono Rossana Dettori (Fp Cgil), Domenico Pantaleo (Flc Cgil), Giovanni Torluccio (Uil Fpl), Benedetto Attili (Uil Fpl) e Alberto Civica (Uil Rua) siamo di fronte alla solita operazione mediatica che punta all’odio sociale e alla riduzione dello spazio pubblico».
La nota rilancia poi l’accordo sottoscritto il 3 maggio da tutti i sindacati con il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi e ora definitavemente cancellato «con un colpo di spugna» dal governo. «Per fare cassa si è preferita una scorciatoia, negando ogni confronto nonostante la disponibilità mostrata appena un mese fa dalle organizzazioni sindacali con la sottoscrizione di un’intesa unitaria frutto di una vera mediazione. Una disponibilità che avrebbe permesso una riforma e una revisione di spesa incisive». Poi arriva la decisione della mobilitazione: «Avvieremo un percorso di mobilitazione che dai singoli posti di lavoro giunga fino a Palazzo Vidoni per chiedere il rispetto dell’accordo sul lavoro pubblico, senza escludere l’indizione di uno sciopero generale di categoria per il mese di settembre».
La risposta del ministro Filippo Patroni Griffi è arrivata a stretto giro di posta. La preoccupazione dei sindacati sulle decisioni del governo sulla spending review «è comprensibile» ma «è importante che anche loro leggano il testo definitivo che stiamo mettendo a punto», ha dichiarato il ministro, che poi ha promesso: «Credo che non appena potremo avviare il processo intavoleremo un incontro con i sindacati per il tema della mobilità».
Da Cecina, dove ha partecipato al Meeting antirazzista, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha commentato in maniera molto dura il decreto sulla spending review. «Nei fatti è in corso un’altra manovra di carattere recessivo, che taglia molto lavoro, più di quello che non dichiari. Noi ha continuato eravamo molto interessati a fare un’operazione vera sugli sprechi e abbiamo fatto molte proposte. Ciò che non ci aveva mai visto d’accordo era l’idea di tagli lineari e soprattutto la riduzione dei servizi e delle reti di welfare dei cittadini o la penalizzazione del lavoro». Su questo argomento il comparto più citato è quello della sanità: «Siamo di fronte, nella somma tra le manovre Berlusconi e questa, a 13 miliardi di tagli nella sanità, cioè all’impossibilità di garantire i servizi. La stessa operazione di ulteriore taglio degli enti locali è una messa in discussione dei servizi. Il problema non è il nome: questo è un taglio lineare del welfare ai cittadini», ha concluso Camusso.
Sempre in campo sanitario, secondo uno studio dello Spi-Cgil con la spending review «si darà il colpo di grazia alla sanità che si rifletterà sulla condizione di milioni di anziani: i 4 miliardi di euro sottratti al Fondo sanitario nazionale si aggiungono, infatti, agli oltre 12 miliardi già tagliati dal governo Berlusconi, per un totale di 16 miliardi nel triennio 2012-2014. Anche la riduzione dei posti letto previsto dalla revisione della spesa targata Monti continua lo Spi Cgil si somma a quella operata da chi lo ha preceduto: si arriverà così alla cancellazione di 80mila posti letto e alla chiusura di centinaia di presidi sanitari sul territorio».
ANCHE UGL E USB MOBILITATI
Anche gli altri sindacati sono pronti alla mobilitazione. L’Ugl ha proclamato lo stato di agitazione di tutto il pubblico impiego contro le misure della spending review. Mercoledì verrano decise le iniziative di lotta. «Sono misure spiega il segretario confederale Fulvio De Polo volte solo a fare cassa a danno di una categoria che ha già fortemente subito misure ingiuste e inique, facendo i conti con carenze di personale e di mezzi adeguati a fornire un servizio efficiente».
Chi invece sta già protestando è l’Usb, la confederazione che riunisce i sindacati di base. Ieri a Milano un gruppo di lavoratori ha occupato il tetto dell’ex assessorato alla Sanità regionale srotolando uno striscione sull’edificio. A Roma in serata si è tenuta una fiaccolata dal ministero della Funzione Pubblica fino a piazza Montecitorio.

La Stampa 7.7.12
Chi protesta: lavoratori sul piede di guerra
I sindacati preparano lo sciopero generale
di Raffaello Masci


«Sciopero generale». Niente meno! I sindacati hanno reagito in questo modo alla spending review, sia per la parte che riguarda i lavoratori del pubblico impiego, falcidiati del 10% negli organici (e del 20% per la dirigenza), sia per il più generale impianto di politica sociale che dal documento del governo promana.
Insomma non bastano la mobilitazione, la protesta e il mugugno, ci vuole un intervento duro. Così la pensano, almeno, la Cgil e la Uil, mentre la Cisl - pur perplessa sull’impianto della misura varata dal governo - è più cauta. A queste fiammate, comunque, il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi replica proponendo «un tavolo» e facendo balenare l’ipotesi di un accordo, a settembre, ovviamente, quando le carte saranno precise e i dettagli definiti. Ma il sindacato scalpita, perché la base è agitata e perché molti vedono già all’orizzonte la mobilità se non un trasferimenti di sede non sempre gradito.
Linea dura «La Cgil - ha detto la segretaria della funzione pubblica Rossana Dettori, - è intenzionata ad andare oltre la mobilitazione ed è pronta ad uno sciopero generale se il governo non modificherà il provvedimento». E anche Giovanni Torluccio, il suo omologo della Uil, è di analogo intendimento: mobilitazione subito, sciopero generale a settembre. Meglio colpire subito, prima che le decisioni siano prese in maniera definitiva.
Solo Raffaele Bonanni, leader della Cisl, è per una linea attendista prima di sparare la cannonata di un eventuale sciopero: «Ci mobiliteremo sicuramente nei prossimi giorni ma per avere una riorganizzazione trasparente del pubblico impiego e per dare serenità ai lavoratori che continuano ad essere insultati». Di sciopero non ha parlato.
La scuola ha incassato un finanziamento di 103 milioni per i libri di testo gratuiti alla scuola media e ha visto svanire il minacciato taglio dei fondi all’università, ma i lavoratori di questo comparto (il più grande del pubblico impiego) sono molto preoccupati per la riduzione del numero dei collaboratori scolastici e per la gestione dei docenti in esubero. Per questo sia Mimmo Pantaleo, della Cgil che il suo omologo della Cisl, Francesco Scrima, sono sul chi vive.
Il controcanto Il ministro, in questo frangete, cerca di sedare gli animi e di prendere tempo: «Ai sindacati dico che comprendo la loro preoccupazione e credo che non appena potremo avviare il processo intavoleremo un incontro con i sindacati per il tema della mobilità» .
Ma Patroni Griffi deve tenere conto anche del controcanto, di coloro cioè - e sono molti tra le organizzazioni imprenditoriali ma anche nel centrodestra - che guardano con grande simpatia all’iniziativa del governo che, invece di pensare a nuovi balzi e balzelli, mette mano con decisione al «costoso» pubblico impiego: «Avanti con decisione sulla strada di una coraggiosa e progressiva riduzione della spesa pubblica - ha detto Giorgio Guerrini, Presidente di Rete Imprese Italia, la sigla del lavoro autonomo - C’è ancora tanto da fare per evitare altri insopportabili aumenti di pressione fiscale e per recuperare risorse da destinare alla crescita».

l’Unità 7.7.12
Bersani con i sindaci e le Regioni: tagli non sostenibili
Il leader democratico su Monti: «Non si può dare la colpa
al pompiere per il fuoco appiccato da Pdl e Lega»
Ma avverte che «il Pd dirà come la pensa e come farà»
di Simone Collini


ROMA Parla di primo mattino con il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani e con quello dell’Anci Graziano Delrio, oltre a molti altri amministratori locali sparsi in tutta Italia, per ascoltare la loro valutazione. E il discorso che Pier Luigi Bersani ascolta è ogni volta lo stesso: questa spending review non è sostenibile. Col passare delle ore emergono poi tutti i dettagli del decreto varato dal Consiglio dei ministri. E l’allarme lanciato da sindaci e presidenti di Regione, soprattutto per quel che riguarda i tagli alla sanità e i trasferimenti agli enti locali, si dimostra tutt’altro che infondato.
«È paradossale che il titolo del decreto sia “revisione della spesa pubblica ad invarianza dei servizi ai cittadini”», scuote la testa Bersani. Perché i servizi, a leggere le 73 pagine del testo, inevitabilmente saranno a rischio. E nel Pd già si inizia a discutere di quali emendamenti presentare in Parlamento quando (molto probabilmente dopo la chiusura delle Camere per la pausa estiva) ci dovrà essere la conversione in legge del decreto.
Questo passaggio per il Pd rischia di essere anche più delicato di quanto non sia stato quello riguardante la riforma del mercato del lavoro. Con i sindacati sul piede di guerra, gli enti locali che lanciano un grido d’allarme e i potenziali alleati che o attaccano duramente il governo (il leader di Sel Nichi Vendola parla di «decreto ammazza-Italia») o lo sostengono senza se e senza ma («la spending review è cura dimagrante dello Stato, tagli sprechi e burocrazia inutile, noi con Monti, gli altri facciano quel che vogliono», dice il leader Udc Pier Ferdinando Casini) il crinale su cui Bersani deve muoversi è stretto e scivoloso: né può venir meno all’impegno di sostenere Monti, né può assecondare le misure decise dal governo, senza peraltro il confronto chiesto nei giorni scorsi (contatti diretti tra presidente del Consiglio e il segretario Pd non ci sono stati). E allora Bersani ricorda che «non si può dare ora la colpa al pompiere» per il fuoco appiccato da chi c’era prima («negli ultimi dieci anni di governo Pdl-Lega la spesa ha sempre sforato e poi tra Ruby e bunga bunga stavamo facendo la fine della Grecia») e ricorda anche che quella di sostenere Monti è stata una «scelta di responsabilità» che verrà rispettata con «lealtà» dal suo partito. Ma aggiunge anche che il Pd dirà come «la pensa» e cosa «farà».
IL PD RAGIONA SUGLI EMENDAMENTI
E allora non manca, da parte di Bersani, l’apprezzamento per le misure volte a razionalizzare l’organizzazione pubblica, la riduzione dei costi per le auto blu, la sforbiciata alle Province. Ma non mancherà neppure una battaglia in Parlamento, in particolare su sanità e trasferimenti agli enti locali, quando i partiti potranno dire la loro.
«Nella prospettiva dei prossimi due anni, per la sanità, a Tremonti si aggiunge Monti: ci sono troppi “Monti” da scalare, 12 miliardi di tagli sono troppi», dice Bersani ricordando la scure che già si è abbattuta col governo Berlusconi. Ricorre alla battuta, di fronte ai giornalisti che di primo mattino gli chiedono un commento su quelli che sembrano essere i contenuti della spending review, perché pensa ci sia ancora qualche margine di manovra, e infatti lancia un ultimo appello ad uso e consumo del governo: «Attenzione a non dare una mazzata al Servizio sanitario nazionale». Poi le indiscrezioni diventano parole messe nere su bianco nelle 73 pagine uscite nel primo pomeriggio da Palazzo Chigi. «Ci sono cose che ci preoccupano molto», dice Bersani facendo poi capire che quel “ci” non riguarda soltanto il suo partito. «I governatori hanno ragione, è gente che pensa, non sono azzeccagarbugli o agit-prop».
Tra gli amministratori locali la tensione è alle stelle. Il presidente dell’Emilia Romagna Errani, che come presidente della Conferenza delle Regioni ha chiesto un incontro «urgentissimo» a Monti, parla di «tagli lineari insostenibili», mentre il sindaco di Reggio Emilia Delrio dice a nome dei Comuni italiani: «Non accetteremo i due miliardi di tagli che ci propone il governo, i nostri bilanci scoppierebbero, abbiamo già dato 8 miliardi di risparmi in questi anni come Comuni, altri non possono dire d’aver fatto altrettanto».
Ma non è solo il capitolo sanità a preoccupare il Pd. Il responsabile Trasporti della segreteria Matteo Mauri fa notare che con i tagli alle Regioni il trasporto pubblico locale finirebbe in una «situazione drammatica», e diversi parlamentari lanciano un allarme sui rischi che comporta nella lotta alla criminalità organizzata la chiusura di diversi tribunali (soprattutto in Calabria, ma Michele Meta cita anche il caso di Cassino, che fa da «diga» alle infiltrazioni camorristiche).
Nel Pd, la voce scevra di accenti critici è quella di Enrico Letta, che dice: «Ricordiamo che la spending review serve ad evitare l’aumento dell’Iva che serviva ad evitare il taglio alle esenzioni fiscali sul welfare deciso dal governo Berlusconi». C’è però anche chi fa notare che l’aumento dell’Iva è solo rinviato a luglio del prossimo anno. Insomma sarà l’eredità lasciata da Monti al prossimo presidente del Consiglio.

La Stampa 7.7.12
Bersani preme per le modifiche
E Monti ha già previsto aggiustamenti al Senato
di Ugo Magri


Bersani farà muro contro le amputazioni alla sanità e ai comuni. Qualche correzione al decreto dei tagli vorrà infilarla pure Alfano. E Monti, al quale è ben chiara la sofferenza del Pd, non pare del tutto sordo alle grida di dolore. Per cui il passaggio in Senato, dove da lunedì incomincia l’esame della «spending review», sarà tutt’altro che un prendere o lasciare. Palazzo Chigi per il momento esclude un voto di fiducia, che solitamente viene deciso dal governo quando vuole mettere in riga i partiti. Semmai dalle parti di Monti si considerano scontati un tot di aggiustamenti, purché (si capisce) restino invariati i saldi, e la quota complessiva dei risparmi risulti alla fine sufficiente per bilanciare il mancato aumento dell’Iva.
La sensazione tra gli addetti ai lavori è che al voto di fiducia si arriverà per colpa dei tempi strettini; però dopo l’esame del testo in commissione, e quando le principali richieste Pd e Pdl saranno state almeno in parte soddisfatte. Insomma: dalle parti di
Monti nessuno prevede sbocchi traumatici, tensioni politiche insuperabili. Oltretutto i riflettori, anche mediatici, già si stanno orientando verso la delicata riunione dell’Eurogruppo lunedì sera, quando lo scudo anti-spread verrà discusso nei suoi dettagli tecnici, e pessimisti come l’ex ministro Brunetta già scommettono giulivi su un buco nell’acqua, con conseguente nuova tempesta valutaria. Circola nei palazzi istituzionali un filo di inquietudine per questa tanto attesa svolta sui mercati che, nonostante i sacrifici chiesti alla gente, non sta prendendo corpo. Monti conosce bene i rischi, ma parte per Bruxelles più sereno (assicurano i collaboratori) anche grazie al decreto sui tagli, che Napolitano ieri ha immediatamente controfirmato: agli occhi degli europei, una prova in più che l’opera di risanamento nel Belpaese non si è arenata.
Quanto al fronte interno, il presidente del Consiglio crede di aver fatto il possibile. Ha chiesto (e ottenuto) dai partiti di maggioranza degli «sherpa» con cui il confronto è stato «intensissimo», dicono dalle sue parti. In qualche caso Monti ha colloquiato per telefono direttamente coi segretari. L’altro ieri, per esempio, si è sentito con Alfano, il quale tutto sommato approva la manovra dei tagli («Vigileremo per evitare sbilanciamenti e squilibri, ma la strada di fondo è quella giusta»). Fonti del Pd negano, invece, che Monti abbia mai alzato il telefono con Bersani, «forse avrà sentito qualcun altro». Se si fossero parlati privatamente, il segretario avrebbe rivolto al premier le stesse critiche che muove nei comizi al decreto: «Sulla sanità e sugli enti locali i tagli mi sembrano un po’ troppo pesanti, qui andiamo oltre il segno e tocchiamo le prestazioni, per noi si entra sul problematico». Fassina, responsabile economico del partito, definisce senza mezzi termini «insostenibili» le sforbiciate che vanno giocoforza a colpire i trasporti locali, le mense scolastiche, gli asili, i servizi per gli anziani...
Che nel decreto ci sia qualcosa di buono, a Sant’Andrea delle Fratte nessuno lo nega, specie per quanto riguarda gli accorpamenti delle province, i costi standard. Ma forte è la pressione del sindacato, con la Camusso sul piede di guerra, e scatenata la concorrenza a sinistra di Vendola, in prima fila nella lotta contro il «decreto ammazzaitalia», come il leader di Sel lo definisce arrivando quasi a rimpiangere Berlusconi che «neanche aveva osato dove Monti è riuscito». La morale è che il decreto dovrà cambiare. Martedì convocata la segreteria del Pd per discutere il come e il dove. Fa del sarcasmo da destra Gasparri, «questa sinistra si dimostra meno montiana di quanto faceva finta di essere», e magari c’è del vero. Però pure il Pdl cercherà di piazzare qualche ritocco per andare incontro alle categorie di riferimento, tra cui immancabile quella dei farmacisti. L’unico che non avanza richieste (almeno su Twitter) è Casini: «Noi stiamo con Monti, gli altri facciano quel che vogliono! », con tanto di esclamativo.

La Stampa 7.7.12
I grattacapi di Bersani: sindacati e governatori
di Marcello Sorgi


Non è proprio un altolà, ma poco ci manca. L’annuncio di Bersani e del responsabile economico Fassina che il Pd proporrà emendamenti piuttosto consistenti al testo della spending review, soprattutto nella parte che riguarda la Sanità, lascia intendere che il cammino del decreto in Parlamento non sarà affatto sereno. Monti non a caso ha chiesto ai presidenti delle Camere di ridurre al minimo le vacanze dei parlamentari: i due mesi di tempo che deputati e senatori hanno per trasformare il decreto in legge scadranno all’inizio di settembre, e se la discussione sarà, per così dire, approfondita, il rischio che non si faccia in tempo è concreto.
Come nella vicenda della riforma del mercato del lavoro, è evidente che il Pd accusa pressioni sui due fianchi. Da un lato quella dei sindacati, e in particolare della Cgil. La Camusso ha confermato che si sta muovendo per uno sciopero generale, ed anche se non è detto che Cisl e Uil la seguano, il giudizio dato dalla segretaria sulla manovra è durissimo: per la Cgil si tratta solo di un taglio al welfare che va fermato.
L’altra pressione difficile da reggere per Bersani è quella dei governatori delle Regioni di centrosinistra, che nella Sanità vedono colpito un settore di loro diretta competenza, con tagli di personale inevitabili e pesanti da sopportare. Il Pdl per ora tace o fa commenti di circostanza, perchè convinto che la manovra crei più problemi al centrosinistra, come in effetti è. Ma in sede parlamentare non farà nulla per favorire un compromesso che consenta a Bersani di uscire dai guai. Resta da vedere, insomma, fino a che punto il Pd possa spingersi nel tentativo di rinegoziare con il governo il contenuto del decreto. La fretta con cui Monti ne ha preteso il varo a notte fonda in consiglio dei ministri, con la coda, ieri, di tagli all’articolazione di tribunali e procure sul territorio, lascia capire che, malgrado il successo diplomatico della scorsa settimana nel vertice di Bruxelles, la situazione dell’Italia rimane molto problematica, come dimostrano gli spread alti registrati negli ultimi due giorni.

Corriere 7.7.12
Il no della Cgil, l'imbarazzo del Pd I paletti di Monti: saldi invariati
Apertura del Pdl. Bersani: siamo leali, ma non staremo zitti
di Roberto Zuccolini


ROMA — Dopo la lunga notte della spending review e il nuovo Consiglio dei ministri per il riassetto dei tribunali, Mario Monti se n'è andato a Milano. Da lì ha ascoltato le reazioni che arrivavano dai partiti e, soprattutto, dai sindacati. Ha sentito il Pd che protesta per i tagli alla sanità e i trasporti locali, la Cgil che annuncia una «mobilitazione generale», Di Pietro che parla di «batoste per la povera gente». Tutto registrato, anche se la sensazione di chi gli sta vicino, a Palazzo Chigi, è di grande determinazione nel portare avanti quella che a suo giudizio è una «indispensabile» opera di risanamento della spesa pubblica.
Certo, sa bene che dopo la firma di Giorgio Napolitano, arrivata nella serata di ieri, comincia l'iter parlamentare del decreto e non sarà una passeggiata. E che, in questo caso, all'interno della sua «strana» maggioranza, le critiche partono soprattutto dal centrosinistra. Ma attende di sapere quali sono le proposte, le «alternative». Perché il Professore non dirà mai no a «eventuali miglioramenti», ma li accompagnerà sempre a un preciso paletto che si chiama «saldi invariati». Deve essere chiaro, in altre parole, che le cifre date ieri in conferenza stampa notturna non potranno essere toccate, altrimenti tutto tornerà in discussione, dal congelamento dell'Iva (che interessa sia la destra che la sinistra) ai fondi per le zone colpite dal terremoto e per gli esodati (che stanno a cuore in primo luogo al Pd). Anche perché, si ricorda a Palazzo Chigi, «questa volta non ci sono stati tagli lineari», ma si è proceduto secondo un criterio di «equità sociale» ricorrendo al sostegno di un esperto del risanamento aziendale come Enrico Bondi.
Ma siamo solo agli inizi di questa nuova battaglia per il governo Monti. Il Pd non appare soddisfatto. E non lo nasconde. Pier Luigi Bersani rassicura e avverte al tempo stesso: «Noi siamo leali, ma non staremo zitti». Spiega subito su che argomento parleranno i Democratici: «Sulla sanità e gli enti locali i tagli sono troppo pesanti: si rischia di dare una mazzata al sistema sanitario nazionale». Quasi d'accordo questa volta con Antonio Di Pietro, che parla di «nuove batoste per la povera gente». Un atteggiamento diverso da quello assunto dal Pdl, dove Angelino Alfano si dichiara convinto che «il governo sta andando sulla strada giusta» e, anzi, lo invita «ad avere più coraggio per ridurre le tasse». Per non parlare di Pier Ferdinando Casini, che da ieri mattina non fa altro che twittare a favore di Monti: «Noi stiamo con lui, gli altri facciano quello che vogliono».
All'attacco invece i sindacati. La Cgil con Susanna Camusso: «È di fatto una manovra recessiva, qui si continua a colpire solo chi già paga le tasse, moltiplicheremo le iniziative di lotta». La Cisl con Raffaele Bonanni: «Ci mobiliteremo a difesa del pubblico impiego». Invece il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, fa i complimenti a Monti: «È un leader europeo». Ma della spending review è soddisfatto solo a metà: «Mi sta bene come primo passo, però bisogna andare avanti con più determinazione». E fa l'esempio dei terremotati: «È inaccettabile che non sia stata accolta la richiesta di sospensione degli adempimenti fiscali e contributivi fino a giugno 2013 e la detrazione dell'Ires».

l’Unità 7.7.12
Caro Nichi, non è più tempo di tatticismi Serve un partito per tutti i progressisti
La nascita del Pd ha unito riformisti e cattolici democratici
Ora questo processo deve arricchirsi della partecipazione di Sel e dell’Italia che non accetta la deriva neopopulista
di Nicola Latorre


Caro Nichi, colgo nella tua riflessione pubblicata ieri sull’Unità alcuni spunti significativi sui quali si può costruire un confronto serio tra il Pd e il tuo movimento.
Sai quanto io consideri importante il ruolo che Sel può svolgere per affermare quel progetto di cambiamento che serve alla società italiana. E poiché penso che il dibattito nel centrosinistra rischia di svolgersi con evidenti limiti, penso sia arrivata l’ora di verificare se è possibile collocare in un comune orizzonte le nostre scelte di oggi.
L’attuale discussione sulle alleanze, infatti, è inquinata da un approccio che ripropone il vecchio vizio italiano del pregiudizio ideologico. Quel pregiudizio che ha alimentato tra gli schieramenti e negli stessi schieramenti contrapposizioni difficilmente sanabili e che, lungi dal risolvere i problemi, ha condotto a un loro aggravamento. Ora bisogna compiere un salto di qualità, non è più il tempo di restare nel vago, «l’urgenza appassionata dell’adesso», direbbe Martin Luther King, ci impone d’essere realisti e di passare alle scelte concrete e coraggiose.
La prospettiva politica indicata da Pier Luigi Bersani dell’alleanza tra progressisti e moderati è la strada giusta per chiudere in Italia la parentesi populista e liberista della nostra epoca. Perché abbia successo è fondamentale sciogliere alcuni nodi strategici, a iniziare da quello di unire tutti i progressisti, nelle forme e nei tempi possibili, nello stesso soggetto politico. Questo processo, già avviato con la nascita del Pd, che ha unito la parte maggioritaria dei riformisti con gli eredi del cattolicesimo democratico, ora deve arricchirsi della partecipazione di Sel, delle forze socialiste e di quella grande parte della società italiana, impegnata anche fuori dai partiti, che non vuole rassegnarsi a subire una pericolosa deriva neopopulista. Non possiamo più temporeggiare: lo stesso mondo del lavoro in un momento di grandi cambiamenti come quelli attuali reclama una ancora più solida rappresentanza politica.
Oggi c’è un governo eccezionale per gestire una situazione eccezionale. E questo non solo per la natura e la drammaticità della crisi che espone il Paese a rischi enormi. Ma anche perché siamo al punto massimo di discredito della politica e delle stesse istituzioni. Fatta salva quella rappresentata dal presidente Napolitano che ha avuto un ruolo decisivo per la stessa tenuta democratica e al quale non cesseremo mai di essere grati.
La stessa configurazione della maggioranza parlamentare che sostiene il governo Monti e la sua natura cosiddetta tecnica nascono proprio da questa eccezionalità. Con ragionevole certezza possiamo affermare che abbiamo evitato il peggio all’Italia.
Si tratta ora di curare le conseguenze delle misure adottate per fronteggiare l’emergenza risolvendo quei problemi che riguardano la vita di tante persone in difficoltà a partire da quello più urgente degli esodati, e avviare qualche concreta iniziativa per la crescita e il lavoro. Senza sprecare il tempo che ci separa da qui alla fine della legislatura per perseguire una seria rigenerazione della politica, approvare una nuova legge elettorale e ridurre il numero dei parlamentari.
Sono profondamente convinto che nonostante il nostro differente atteggiamento nei confronti del governo Monti ci siano tutte le condizioni per costruire un comune progetto di governo su cui chiedere il consenso degli italiani.
D’altro canto, proprio perché eccezionale, l’attuale maggioranza parlamentare cesserà con la fine della legislatura. E per il bene del Paese le elezioni del 2013 devono essere l’atto di nascita di una nuova fase della vita politica e istituzionale in netta discontinuità con quella precedente. Una stagione che ha visto i conservatori al governo di quasi tutti i Paesi europei portatori di quelle politiche liberiste che hanno prodotto la crisi attuale e favorito la crescita a dismisura del potere di ristrette oligarchie economiche e finanziarie.
La crisi non avrà soluzione compiuta se non quando la politica avrà riequilibrato il suo rapporto con l’economia. E su questo si gioca anche il futuro della democrazia.
Io credo, caro Nichi, che in questa discussione si possano ritrovare tutti gli elementi di un comune progetto politico. Ecco perché occorre distinguere tra un confronto finalizzato esclusivamente ad alleanze elettorali e una discussione che guarda a un più ampio orizzonte. Anche per questo non ho condiviso la tua recente iniziativa con Di Pietro poiché a tutt’oggi sugli aspetti essenziali di un progetto di governo futuro, Di Pietro è impegnato solo a esasperare i motivi di scontro con il Pd.
Mettiamo da parte le pur rispettabili esigenze tattiche e privilegiamo un più ambizioso progetto strategico fondamentale per cambiare l’Italia.

Corriere 7.7.12
Cattolici rilevanti anche senza partito
di Virginio Rognoni


Recentemente Ernesto Galli della Loggia, sulle colonne del Corriere, ha avvertito che «sarebbe davvero singolare che l'ethos cristiano restasse estraneo» alla sfida che il Paese ha davanti a sé: «Darsi un modello di vita su un abito nuovo di serietà e di sobrietà...».
Eppure egli vede nel mondo cattolico un generale silenzio. Per il ventennio che abbiamo alle spalle è difficile dargli torto.
In questi anni c'è stato un indubbio degrado sociale e civile del Paese e il laicato cattolico, che pur alimenta un'area estesa di volontariato attivo e generoso, non è stato capace di farsi sentire. Una cappa di mediocrità e di sgargianti cose fasulle è sembrata pesare su tutto. La denuncia, quando c'era, si consegnava a una voce timida e trattenuta; c'era la preoccupazione che essa potesse scombinare l'assetto di potere che il consenso politico aveva fissato in un certo modo, considerato rassicurante. La insignificanza della condotta privata nella sfera pubblica veniva evocata di continuo quasi a giustificare la propria tranquillità; anche questo si è visto. Su un altro piano la particolare insistenza della Conferenza episcopale italiana sui «principi non negoziabili», come primari criteri per l'orientamento civile e politico dei cattolici, ha finito per rendere sfuocate le voci su altri temi di straordinaria importanza. I cattolici, dunque, stretti da antiche «timidezze» e, quanti non lo fossero, inseguiti dalla pericolosa qualifica di «cattolico adulto»... Ma sono bastate, da ultimo, alcune apprezzate aperture perché molti tavoli fossero rovesciati (incluso quello politico) e aria fresca risvegliasse il «corpaccione» pigro del mondo cattolico, con sorpresa compiaciuta e interessata di ambienti laici avvertiti e civili.
Anche prima, naturalmente, voci importanti del mondo cattolico si erano levate, libere e forti; basti pensare alle Acli, alla stessa Azione cattolica, a non pochi uomini di Chiesa, presuli autorevolissimi, a riviste importanti, ma, per il contesto generale, segnato da incredibile opacità che tutto omologava, esse rimanevano isolate, quasi inascoltate.
Oggi non è più così. La crisi durissima che stiamo vivendo ha spazzato via molte cose, ha ridotto all'essenziale le scelte di campo; si sente diffuso il bisogno di verità. In questo nuovo contesto si spiega come un certo associazionismo cattolico, consapevole del passato silenzio, cerchi di uscire allo scoperto, di farsi «presenza» nel Paese. Il primo seminario di Todi e quello che verrà ne sono la dimostrazione.
Ma per Galli della Loggia la voce dei cattolici sarebbe comunque anche oggi di assoluta irrilevanza. Questa idea della «irrilevanza» non mi convince. Forse è male evocata; lo prova il fatto che per l'insigne studioso «neppure nessuna voce laica riesce oggi a dire qualcosa al Paese». Ma, allora, questa generale irrilevanza finisce per essere solo lo specchio della crisi profonda della vita collettiva, rispetto alla quale tutti sono allo stesso modo chiamati (laici e cattolici, credenti e non credenti) a un cambiamento radicale della vita del Paese; un cambiamento morale e civile con vantaggio, tra l'altro, della «buona politica» e dei canali della sua rappresentanza oggi insidiati da un populismo incalzante.
Ancora, mi sembra del tutto opinabile, ma per altre ragioni, la irrilevanza dei cattolici che Galli della Loggia vede sul piano più propriamente politico a partire dalla caduta della Dc in poi. Francamente mi pare difficile contestare che il progetto dell'Ulivo prima, e del Partito democratico dopo, non abbiano avuto un'impronta decisiva da parte cattolica. Più precisamente da parte di coloro (come non ricordare Nino Andreatta e Pietro Scoppola) che, nel quadro ormai pienamente acquisito del pluralismo politico dei cattolici, si riconoscevano nel cattolicesimo democratico. Questo progetto, sul filo della storia forte del Paese, di culture politiche diverse che si riconoscono ormai in una comune ragione democratica è stata una novità tutt'altro che irrilevante. Non solo la leadership di Prodi, per due volte, ne è stata la conseguenza non casuale; gli stessi presupposti per un sistema bipolare o comunque della alternanza dello schieramento politico nascono da lì. Non è cosa da poco.
Queste ultime osservazioni portano a escludere che la rilevanza nella vita pubblica italiana dei cattolici, oggi, sia legata alla presenza di un partito cattolico sul tipo della Dc o comunque organizzato. Se c'è, i cattolici sono rilevanti, se non c'è i cattolici non lo sono; non è così. Ed è bene che gli amici di Todi, che si sentono incalzati o che lo sono già per conto loro, riflettano e riflettano bene.

Corriere 7.7.12
Leader tentati dalla grande coalizione Trattative avanzate sulla legge elettorale
Il Pdl e il Pd restano divisi sul nodo del premio di maggioranza
di Francesco Verderami


Se si fa, non si dice. Perciò è scontato che nel Pdl e (soprattutto) nel Pd venga fermamente smentita l'ipotesi di lavorare a una grande coalizione per il 2013. D'altronde non avrebbe senso parlarne prima delle elezioni, sarebbe come invalidare anzitempo la partita.
Ma la prospettiva che il montismo succeda a Mario Monti non è sfumata, anzi. Più va avanti l'esperienza del governo tecnico, più aumentano le probabilità che la «strana maggioranza» possa ricostituirsi in Parlamento dopo la contesa nelle urne. Al momento non ci sono prove ma solo indizi, ed è attraverso l'analisi delle trattative sulla legge elettorale che si possono raccogliere degli elementi. Ecco perché è importante la mediazione in corso tra Pdl, Pd e Udc sulla riforma del sistema di voto: la tattica che stanno adottando disvela infatti dettagli sulla loro strategia politica.
Lo stallo di questi giorni non inganni, è tipico di una vertenza che sta arrivando a conclusione, tanto che gli sherpa impegneranno il weekend per lavorarci sopra. Altrimenti i leader dei tre partiti non si direbbero convinti di poter raggiungere un'intesa già la prossima settimana, Alfano non la metterebbe in conto, Bersani non sosterrebbe che «ormai dovremmo esserci», e Cesa non si farebbe scappare di essere «molto ottimista». Non c'è dubbio che i nodi ancora da sciogliere sono determinanti per disegnare il futuro sistema politico, ed è proprio dietro quei nodi che si può scorgere l'ombra della grande coalizione.
Il braccio di ferro sul premio di maggioranza ne è l'emblema. C'è un motivo se il Pd preferirebbe assegnarlo alla coalizione vincente, mentre Pdl e Udc vorrebbero affidarlo al partito vincente. Ed è chiaro come mai Bersani spinga per un premio comunque alto (15%), mentre Alfano e Casini puntino a tenerlo basso (10%). «Il 15% per noi è inaccettabile, Pier Luigi», ha detto il segretario del Pdl al capo dei democrat durante il loro ultimo colloquio. «Abbassando la soglia, si prefigura l'instabilità», è stata la risposta: «E tu, Angelino, dovresti convenire che sarebbe meglio puntare sulle coalizioni e non sui partiti. Perché se non si organizzano i due campi in contesa e andiamo in ordine sparso, Grillo potrebbe spazzarci via tutti».
Ecco spiegata l'importanza della discussione «tecnica» sul premio di maggioranza, che disegna gli scenari «politici» del dopo-voto e lascia intuire il cambio di strategia in corsa del Pdl. A dire il vero non è la prima volta che Bersani — dopo aver incontrato Alfano — ha pensato di aver chiuso il patto, rimesso poi in discussione da un vertice a palazzo Grazioli. L'opzione delle preferenze, per esempio, sembrava ormai abbandonata. E invece il Pdl ha preso a spalleggiare l'Udc, convinto — come ha spiegato Casini — che «i candidati nei collegi danno l'idea di persone paracadutate sul territorio, mentre le preferenze consentono di contrastare meglio il grillismo». «Con le preferenze — ha obiettato Bersani — aumenterebbero le spese elettorali, si aprirebbe un varco pericoloso, ci sarebbe il rischio del malaffare e ci ritroveremmo con le inchieste della magistratura».
Ma il cuore della trattativa è il premio di maggioranza. È da lì che si intuisce come il «montismo berlusconiano» abbia preso piede. Altro che elezioni anticipate, il Cavaliere vuole mantenere un ruolo determinante in un sistema dove nessuno prenda il sopravvento. E la grande coalizione è lo strumento idoneo all'occorrenza. Di più, è Monti il suo asso nella manica nonostante le tensioni del Pdl con il governo. Il rapporto riservato e preferenziale tra l'attuale premier e il suo predecessore sfugge ai riflettori e alle dinamiche di Palazzo. E Berlusconi sarebbe pronto a sconfessare anche se stesso pur di non uscire dal centro del ring. Come ricorda il segretario del Pri, Nucara, «fu Berlusconi a indicare Monti come commissario europeo, a proporlo come governatore di Bankitalia, a tentarlo con il ministero dell'Economia, e soprattutto a lanciarlo come candidato al Quirinale prima che ci arrivasse Napolitano».
Puntando su Monti, inchioderebbe Casini e manderebbe gambe all'aria ogni manovra fin qui ipotizzata. La grande coalizione insomma è più di una suggestione. Ma per farla non bisogna dirla, e se del caso è necessario smentirla. Perciò il Cavaliere fece finta di prendere le distanze dal progetto «Tutti per l'Italia» che Giuliano Ferrara lanciò mesi fa sul Foglio. Era troppo presto. E ora che sul Giornale Vittorio Feltri evoca Indro Montanelli per scrivere che sarebbe meglio «turarsi il naso» e guidare «tutti insieme» il Paese, ecco comparire un altro indizio.
Perché non c'è dubbio che il fondatore del Pdl sia tornato a dettare l'agenda del partito, bloccando le primarie, facendo mostra di essere un allenatore che si allena per rientrare in campo. «Io rappresento tutte le anime del partito», ha detto l'altra sera davanti al suo gruppo dirigente.
E la storia che una svolta grancoalizionista possa indurre l'area degli ex An ad abbandonare il Pdl, non sta in piedi. Ci pensa La Russa a far giustizia delle voci circolate negli ultimi tempi: «Nessun tipo di riforma del sistema di voto su cui stiamo discutendo presuppone di per sé la grande coalizione. Certo, sarebbe per me e per molti di noi inaccettabile precostituire o addirittura dichiarare la grande coalizione come obiettivo. Se invece questa formula di governo venisse imposta per effetto del risultato elettorale, sarebbe un'altra cosa». Più chiaro di così.
Il «montismo berlusconiano» è ben incardinato nel centrodestra, il presidente del Senato Schifani non manca occasione nei suoi colloqui di ripetere che «l'emergenza dettata dalla crisi non cesserà purtroppo il giorno dopo le elezioni». L'idea della grande coalizione nel Pdl si alimenta anche dei segnali che giungono dal campo avverso. Pare che Berlusconi abbia letto più volte l'intervista rilasciata al Corriere da D'Alema e abbia avuto la sensazione che contenesse un messaggio subliminale.

Corriere 7.7.12
Il Porcellum e gli alchimisti della Riforma
di Antonio Polito


Le notizie sul confronto tra i partiti sono ambigue e bisbigliate come fosse un negoziato tra privati.
Sono passate quattro settimane da quando Bersani e Alfano si diedero tre settimane di tempo
per trovare l'accordo sulla nuova legge elettorale, e non se ne sa più niente. Affiorano misteriosi riferimenti al Provincellum, a un lifting del Porcellum, a soluzioni Frankenstein.
L'impressione è che gli alchimisti versino ormai in uno stato confusionale.
Non che si debba aver fregola, in condizioni normali, di modificare di continuo le regole del voto. Anzi, il fatto che le riscriviamo per la terza volta in meno di vent'anni è la prova di un sistema politico malato. I modelli tedesco, inglese e francese, sono modelli proprio perché non cambiano mai. Ma le nostre non sono condizioni normali. Il Porcellum deve essere buttato nel cestino della Storia non solo per il difetto a tutti noto, cioè che fa scegliere i parlamentari dalle segreterie dei partiti invece che dagli elettori; ma perché assegna un premio al primo arrivato che è diventato, nella nuova situazione italiana, pericolosamente abnorme.
Alla Camera, infatti, la coalizione vincente prende il 55% dei seggi qualsiasi sia il numero di voti popolari. Iniquo ma tollerabile, finché i contendenti erano solo due: il primo arrivato stava infatti sempre intorno al 50% dei voti e il premio moltiplicava di poco la vittoria. Mentre il secondo arrivato, male che andava, prendeva il 45% dei seggi. Fu anzi per questo che il centrodestra escogitò quella che Calderoli definì la «porcata»: poiché era sicuro di perdere, voleva essere certo di perdere bene. Avemmo così, unici al mondo, una legge elettorale concepita per rendere facile la vita allo sconfitto.
Ma questo è il passato. Con i sondaggi di oggi, invece, l'alleanza con maggiori chance, e cioè quella tra Pd e Udc, sarebbe di poco sopra al 30%. Se si aggiungesse Vendola, che pure dice di non volere, arriverebbe sopra il 35%. Se proprio ci entrasse anche Di Pietro, cosa da ritenersi altamente improbabile, al massimo valicherebbe la soglia del 40%. E il discorso vale anche nell'ipotesi di vittoria del centrodestra: Pdl e Lega ora valgono poco più del 25%.
Con queste risicate percentuali di consenso popolare, senza contare l'astensione, i cosiddetti vincitori delle elezioni dominerebbero la Camera (lasciando invece nel caos il Senato, dove il premio non funziona nello stesso modo). Il che vuol dire, per esempio, che potrebbero eleggersi il capo dello Stato al quarto scrutinio senza bisogno di concordarlo con la minoranza. Qualsiasi sia l'affidabilità dei vincenti, ammetterete che il rischio democratico è troppo elevato e l'effettiva possibilità di governo troppo scarsa.
D'altronde, con una tale frammentazione dell'offerta politica, bisogna per forza mettere nel novero delle opzioni post-elettorali anche l'ipotesi di una grande coalizione. Grande si fa per dire, visto che oggi Pd, Pdl e Udc messi insieme fanno poco più del 50% dei voti. Eppure questa piccola grande coalizione rischia di essere l'unica dotata di una maggioranza di suffragi popolari. I partiti non possono ovviamente andare alle urne proponendola: si sfidano per vincere, soprattutto se molto distanti tra loro, e anche in Germania Cdu e Spd l'hanno sempre accettata dopo, mai propugnata prima. Ma è altrettanto ovvio che quell'esito non si può escludere, e dunque il sistema elettorale dovrebbe prevedere, accanto alla possibilità di un vincitore, anche l'ipotesi di nessun vincitore.
Di tutto ciò, però, nessuno parla. Le notizie che arrivano dalla trattativa tra i partiti sono ambigue e bisbigliate, come se si trattasse di un negoziato tra privati. Si sa che dalle menti costituzionalmente più raffinate di Violante e Quagliariello, l'affare è passato nelle prosaiche mani di Migliavacca e Verdini, e se ne deduce che il tema sia il vantaggio di partito più che l'interesse di sistema. Per esempio: il cosiddetto modello ispano-tedesco, che sembrava essere stato scelto perché privilegiava i maggiori partiti, è stato all'improvviso accantonato quando Grillo è diventato un partito maggiore. Se fossi un elettore di quel Movimento mi infurierei alquanto nel sapere che nel segreto di una stanza i miei avversari cambiano le regole del gioco un'ora prima che cominci la partita. D'altra parte da quella stanza oscura non esce nemmeno uno straccio di accordo. A questo punto meglio portare questa discussione alla luce del giorno, in Parlamento: contarsi e decidere.
Antonio Polito

l’Unità 7.7.12
Permesso di soggiorno per gli immigrati che denunciano i caporali
di Mariagrazia Gerina


Il governo prova a dare un colpo al lavoro nero: sanzioni fino a mille nero per chi sfrutta gli immigrati e permesso di soggiorno di un anno per coloro che denunciano i loro «caporali». La norma transitoria fortemente voluta dal ministro Riccardi. La segretaria della Cgil: una buona notizia che arriva dopo la nostra mobilitazione. Il provvedimento recepisce quanto previsto dalla direttiva europea del 2009.
Il governo prova a dare un colpo al caporalato e al lavoro nero. Sanzioni fino a mille euro per chi sfrutta gli immigrati irregolari e permesso di soggiorno di un anno per gli immigrati che denunciano i loro datori di lavoro. Ma anche «ravvedimento operoso» per quanti si autodenunciano. Una norma transitoria fortemente voluta dal ministro della cooperazione internazionale e dell’integrazione Andrea Riccardi, che entra a pieno nello schema di decreto legislativo approvato ieri dal Consiglio dei ministri. E che di fatto apre la strada ad una nuova regolarizzazione, perché se per i datori di lavoro che si autodenunciano c’è la possibilità di mettersi al riparo delle sanzioni per gli immigrati anche in questo caso c’è la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo ma rinnovabile.
Un provvedimento atteso da tempo quello approvato ieri dal governo, che recepisce in questo modo quanto previsto dalla direttiva europea 53 del 2009 in materia di contrasto allo sfruttamento dell’immigrazione irregolare. E che prova a mettere nelle mani di chi finora non aveva alternativa alla «schiavitù» uno strumento di riscatto. Che, unito alla norma transitoria del «ravvedimento operoso», dovrebbe servire a far emergere il lavoro nero.
«Finalmente dopo tre anni anche in Italia diventa legge la Direttiva europea che dichiara guerra al caporalato e tutela, anche con il diritto al permesso di soggiorno, i migranti che collaborano con la giustizia», si compiace Claudio Fava (Sel), che della direttiva fu relatore al Parlamento Europeo di Strasburgo.
È una delle «pochissime notizie positive di questo periodo», commenta la segretaria della Cgil Susanna Camusso. «Il provvedimento assunto dal consiglio dei ministri risponde alle richieste che da tempo abbiamo avanzato, frutto di una mobilitazione al fianco di numerose comunità di migranti che in questi anni hanno visto nel sindacato uno strumento per uscire dall'invisibilità e hanno deciso di ribellarsi», rivendica d’altra parte Stefania Crogi, segretario generale nazionale della Flai Cgil. L’unico augurio è che le nuove misure di contrasto allo sfruttamento dell’immigrazione irregolare diventino esecutive il prima possibile: «Si tratta di norme che non possono più essere rinviate se si vuole realmente contrastare l'illegalità nel mondo del lavoro e restituire dignità a tutti quei lavoratori e quelle lavoratrici, a partire dai migranti, costretti a lavorare al soldo dei caporali e sempre più spesso in condizioni di schiavitù».
«Siamo di fronte a strumenti straordinari che pongono fine ad enormi ingiustizie prodotte dall’attuale legislazione in materia di immigrazione», commenta anche il responsabile immigrazione dell’Arci, Filippo Miraglia. «Si tratta di un intervento legislativo importante specie per il settore agricolo», osserva il capogruppo del Pd nella commissione Agricoltura della Camera, Nicodemo Oliverio: «Il caporalato viene con queste norme messo a dura prova e a beneficiarne sarà l’intero paese». Chi storce il naso invece è il capogruppo del Pdl al senato Maurizio Gasparri, che vede soprattutto nella norma transitoria voluta da Riccardi un possibile cavallo di Troia per una nuova sanatoria.

Repubblica 7.7.12
Lo sfruttamento
Per 8 su 10 niente riposo settimanale, metà occupati anche di notte
Nei campi mezzo milione di schiavi al lavoro per venti euro al giorno
di Vladimiro Polchi


ROMA — Schiavi e caporali. Datori di lavoro opachi e immigrati invisibili. La nuova “legge Rosarno” mira a scoperchiare il mondo della clandestinità. Due le armi: permesso di soggiorno a chi denuncia lo sfruttatore e regolarizzazione per il datore di lavoro che esce allo scoperto.
MEZZO MILIONE DI INVISIBILI
Gli immigrati irregolari sono un esercito, anche se le loro fila si stanno sfoltendo. Stando al XVII rapporto Ismu (Fondazione di studi sulla multietnicità), al 1° gennaio 2011 non avevano un valido titolo di soggiorno 443mila stranieri, 11mila in meno rispetto al 1° gennaio 2010. Dove vivono? «Per lo più al Nord Italia, ma la loro incidenza percentuale raggiunge il record al Sud spiega Alessio Menonna, ricercatore dell’Ismu - in base a un nostro studio di qualche anno fa gli irregolari sono il 53% del totale degli immigrati a Cosenza, il 46% a Foggia e il 45% a Vibo Valentia. Sono impiegati in nero nell’agricoltura, nell’edilizia, ma il vero bacino della clandestinità è stato il settore domestico. Almeno fino alla sanatoria 2009».
SANATORIE E CLIC DAY
Per la sanatoria colf e badanti 2009 è arrivata al Viminale una valanga di domande (295.112) e sono stati firmati 173.997 contratti. Le nazionalità più rappresentate sono quella ucraina (37.211), seguita dalla marocchina (36.138), dalla moldava (25.685) e dalla cinese (21.633). «In questo modo - prosegue Menonna - si sono sanati molti irregolari impegnati nel lavoro domestico. Con due limiti: sono stati regolarizzati spesso i casi meno gravi, di chi aveva un sia pur minimo reddito. E molti lavoratori
domestici lo erano solo di facciata: in verità facevano tutt’altro, basta vedere gli alti numeri delle domande di cinesi». Poi ad arginare in parte il fenomeno degli irregolari è arrivato il decreto flussi col clic day di gennaio 2011: a vincere un posto sono stati i più veloci, vista la scarsità delle quote in palio (86.580 nuovi ingressi).
L’IDENTIKIT DELL’IMMIGRATO IRREGOLARE
A fotografare l’opaco mondo degli invisibili è un’indagine condotta nel 2009 dall’economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti. Cosa ne emerge? Gli irregolari lavorano
di più e guadagnano di meno rispetto a chi ha i documenti in regola. Insomma, sono una risorsa per molti imprenditori privi di scrupoli. Il 66% degli irregolari, infatti, ha un lavoro, nonostante sia privo di un titolo legale per rimanere in Italia. È impiegato in nero e fa turni molto pesanti: l’80% non si ferma neppure il sabato, il 31,8% lavora di domenica e il 38% fa anche turni notturni (contro il 22% degli immigrati regolari). Lavorano tanto, ma guadagnano poco. «Il 40% di chi non ha il permesso di soggiorno - spiega Boeri - guadagna meno di 5 euro l’ora, mentre fra i regolari la percentuale scende al 10%».
CAPORALI E SFRUTTATORI
Stando alla Flai-Cgil, oggi ci sono 400mila lavoratori che vivono sotto il giogo dei caporali e (secondo i sindacati) 60mila immigrati vivono ancora in condizioni di degrado simili a quelle riscontrare a Rosarno nei giorni della rivolta di due anni fa. Gli sfruttati dell’agricoltura guadagnano (al netto della mazzetta al caporale) sui 20 euro per una giornata di lavoro. Il contratto nazionale parla di 36,30 euro per sei ore e mezza di lavoro? Troppo. Oggi un bracciante è fortunato quando prende 3,50 euro l’ora. O meglio il padrone dà al caporale 3,50 euro l’ora per ogni operaio che gli porta e lui trattiene almeno 70 centesimi. Nell’edilizia è invece di 200-300 euro al mese la “provvigione” che pretende il caporale.

La Stampa 7.7.12
L’uomo che si ribellò agli sfruttatori: “Una vittoria, ed è solo l’inizio”
Un anno fa organizzò il primo sciopero a Nardò: “Servono multe più severe”
di Fabio Poletti


Ivan Sagnet ha 27 anni

Questa non è la mia vittoria. E’ la nostra vittoria». Ivan Sagnet, camerunese di Duala, 27 anni, è ancora nei campi dove da poco è iniziata la raccolta del pomodoro, l’oro rosso che fa girare l’economia di Nardò e di mezza Puglia. L’anno scorso era qui a spezzarsi la schiena per dodici euro e cinquanta centesimi al giorno per quindici ore di lavoro. E lui fu il primo a ribellarsi per uno sciopero che alla fine portò oltre trecento extracomunitari ad incrociare le braccia contro i caporali. Adesso fa il giro dei campi per conto della Cgil, ad ascoltare la voce degli immigrati come lui e un po’ le notizie del Consiglio dei ministri che arrivano da Roma.
«Ce l’avete fatta anche voi ad applicare la normativa europea sul lavoro nero... Ma avete ancora tanta strada da fare... », dice calpestando le stesse terre di Giuseppe Di Vittorio, il padre del sindacalismo italiano nato a Cerignola. Perchè alla fine cambia il colore della pelle e passano i secoli, ma i diritti da difendere e da conquistare sono sempre quelli. Denunciare il caporale che sfrutta e minaccia e in cambio ottenere un permesso di soggiorno di almeno sei mesi rinnovabile, per Ivan è solo il primo passo. «Mi hanno detto che i caporali se la caveranno con una multa di mille euro. L’anno scorso i caporali facevano girare quattro camion al giorno. Con ottantotto cassoni sopra. Ogni cassone veniva pagato quindici euro. Alla fine incassavano più di cinquemila euro al giorno. Una multa di mille euro è poco. Ce ne vorrebbero almeno diecimila. Come dite voi in Italia: “Per i caporali il gioco vale ancora la candela... ”».
Brucia il sole sopra Nardò dove sono in trecento quest’anno, con la schiena piegata dalle sei del mattino alle nove di sera. Una pausa pranzo da niente con il panino con i pomodori che costano niente o la frittata che costa poco ma tanto il caporale trattiene il costo dal salario. Solo dormire non si paga. Come materasso c’è la terra nuda davanti alla masseria. Per tetto, il cielo di stelle di sempre. Niente elettricità, niente servizi igienici, niente acqua corrente, figuriamoci il gas, niente di niente. Ma per arrivare fino a qui in questi campi verdi e rossi di frutti si fa la fila in Nord Africa. Perchè c’è sempre un peggio del peggio nel mondo. «Il fatto è che voi italiani vi dimenticate sempre che oltre al lavoro ci sono i diritti».
Per Ivan Sagnet arrivato dal Camerun nel 2008, il primo diritto che andrebbe sancito è quello dell’accoglienza. «E voi facevate i respingimenti... Li facevate con la legge Bossi-Fini ma pure con la Turco-Napolitano... E aveta ancora il reato di clandestinità». Poi il diritto al lavoro, certo. E alla giusta retribuzione. A un alloggio dignitoso. Ma pure alla cittadinanza e a documenti che non facciano sentire un migrante, clandestino a vita. O peggio vittima di allucinanti procedure, secondo cui per essere in regola devi avere un lavoro, ma non puoi avere un lavoro se non sei in regola. E allora siamo sempre lì: al coro spaventato e spaventoso che arriva dai palazzi della politica lontani di chi spera che questa non sia l’occasione per fare «una nuova sanatoria per aprire le frontiere agli immigrati che c’è la crisi e il lavoro manca e comunque prima deve andare agli italiani».
A leggergli le agenzie con le dichiarazioni dei «gasparri, cicchitti e dozzi» a Ivan Sagnet viene un po’ da ridere: «La solita retorica politica degli italiani... Voglio vedere uno di voi raccogliere i pomodori sotto il sole, riempire un cassone da trecentocinquanta chili, tutto per tre euro e cinquanta... Ci sono lavori molto faticosi che voi non fate più... ». L’anno scorso, Ivan e gli altri scioperarono per avere almeno sette euro a cassone. Crisi o non crisi, troppo poco per chiunque, nato a Nord di Lampedusa. «La raccolta è iniziata da pochi giorni e ancora non si è capito quanto pagano i caporali... Ma poi c’è il ruolo degli imprenditori. Di quelli che hanno le aziende agricole che non sono meglio di loro e che dicono sempre che c’è la crisi, la crisi, la solita crisi nera per sfruttarci... E allora io sono qui a girare per i campi con il camper a vedere quello che fanno ai miei fratelli. Perchè la nostra battaglia si vince qui, mica a Roma in Parlamento, si vince nei campi».

l’Unità 7.7.12
Claudio Giardullo: «Furono le scelte politiche a causare il disastro di Genova»
Il segretario del Silp-Cgil: «Il governo Berlusconi scelse di gestire l’ordine pubblico soltanto con la militarizzazione e la repressione della piazza»
intervista di Massimo Solani


«A Genova si sbagliò nel modello politico di ordine pubblico. Un modello che puntava esclusivamente a difendere il summit senza prevedere alcuna difesa della città, soprattutto dal punto di vista della prevenzione, che fu invece lasciata indifesa di fronte alle devastazioni. Ma non credo affatto che si sia trattato di una semplice sottovalutazione». Claudio Giardullo, segretario del Silp Cgil, non vuole commentare la sentenza della Cassazione sui fatti della Diaz. «Perché le sentenze si rispettano in silenzio», dice. Vuole invece, come fa da undici anni a questa parte, che quel pronunciamento riaccenda l’attenzione pubblica su quelle che furono le scelte del governo Berlusconi che portarono al disastro di Genova. «Perché la realtà dice è che quel modello di gestione dell’ordine pubblico, e probabilmente anche l’escalation di tensione che portò ai giorni del G8, erano funzionali ad un obbiettivo politico: separare in piazza i moderati dai progressisti».
Che intende dire?
«Per quel governo la piazza era un incubo e probabilmente qualcuno pensò che la cosa giusta da fare era evitare che la protesta sui temi del summit poi potesse ripetersi in autunno contro le scelte economiche e sociali di quel governo. Delegittimare la piazza, inasprire i toni e scegliere la repressione: oggi mi pare che si possa dire si sia trattato di una strategia chiarissima e mi pare che si possa affermare altrettanto che sia stato questo obbiettivo strategico a causare poi gran parte delle scelte sbagliate che hanno fatto dei giorni del G8 il dramma che tutti ricordiamo».
Si spiegherebbe così anche la presenza di Gianfranco Fini ed altri parlamentari di An nella sala operativa di Genova nelle ore degli incidenti in strada?
«Aldilà dei singoli episodi, fatti come questo confermano che c’era una attenzione politica del governo a come veniva gestito l’ordine pubblico. E c’era purtroppo anche un messaggio, che a mio avviso purtroppo ha pesato molto su quanto avvenuto in quei giorni, che l’esecutivo mandava alle forze di polizia: il governo è e sarà sempre con voi a prescindere da quello che succederà. In un momento così delicato e di grandi tensioni, quel genere di messaggio ha aiutato a creare le condizioni perché una minoranza di operatori si lasciasse andare a comportamenti e azioni gravissime».
Il ministro dell’Interno di quei giorni, Claudio Scajola, rivelò poi di aver dato ordine di sparare nel caso di violazioni della zona rossa...
«Ma era la creazione stessa della zona rossa che rientrava in quell’idea di gestione “pesante” dell’ordine pubblico al posto della scelta di utilizzare piccoli nuclei agili con capacità di movimento veloce. È vero che con il tempo abbiamo iniziato a conoscere a fondo le tecniche di guerriglia urbana dei black bloc, ma è evidente che in quelle condizioni sarebbe servita molta prevenzione nei confronti di coloro che avevano intenzione di creare disordini e una tutela maggiore di chi invece era in piazza per manifestare pacificamente». Eppure nei giorni precedenti al G8 c’erano stati numerosi avvertimenti sugli spo-
stamenti e la presenza del blocco nero. Nessuno fece nulla...
«Ma ripeto: tutto il modello era di tipo pesante, militaresco e finalizzato unicamente alla repressione. Non era adatto alla prevenzione che sarebbe stata invece l’arma vincente per garantire, per quanto possibile, la sicurezza delle manifestazioni. Il modello era sbagliato, ma era stato scelto esattamente quel modello perché rispondeva ad un obbiettivo politico».
Ora che la vicenda della Diaz si è chiusa, che insegnamento possono trarre le forze di polizia per il futuro? «Innanzitutto l’importanza della formazione degli operatori. L’istituzione della scuola di ordine pubblico ha dato un ottimo contributo, perché la formazione è un assetto strategico a tutela degli operatori e dei cittadini. Peccato che il governo Berlusconi, che a parole si diceva sempre dalla parte delle forze di polizia, negli anni abbia tagliato drammaticamente i fondi per il comparto sicurezza minando soprattutto lo strumento fondamentale della formazione».

Repubblica 7.7.12
Politici e dirigenti delle forze dell’ordine lasciati fuori dall’inchiesta. Da Gianni De Gennaro a Fini e Scajola
Gli invisibili e gli intoccabili ecco i convitati di pietra del G8
di Carlo Bonini


ROMA — Il processo è chiuso. Ma il giorno dopo, le parole dell’avvocato Rinaldo Romanelli, difensore del comandante del VII Nucleo Mobile Vincenzo Canterini, hanno il lampo della provocazione. «Se dovessimo ragionare da storici, ma con la logica della sentenza della Corte di appello, direi che, a spanne, alla condanna mancano almeno 500 persone». È un’iperbole, appunto. Che tuttavia tocca il nervo scoperto di questa storia: i suoi convitati di pietra. Uomini degli apparati ed ex ministri della Repubblica di cui, come in certe foto di gruppo ritoccate, è scomparsa la silhouette.
In 11 anni, Claudio Scajola, in quei giorni dell’estate 2001 ministro dell’Interno, non ha mai ritenuto opportuno dover chiarire o riferire quali indicazioni politiche aveva fornito al capo della Polizia Gianni De Gennaro. Quali comunicazioni ebbe con lui la notte della Diaz e nei giorni successivi. Perché non ne chiese le dimissioni o perché non gli furono mai offerte. Né è stato mai di alcun aiuto lo stesso De Gennaro, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e già capo del Dis, il vertice della nostra intelligence. In quel luglio del 2001, intervistato da Enrico Mentana, all’epoca direttore del Tg5, dice: «La Diaz era una semplice operazione di identificazione che si è trasformata in un'azione di ordine pubblico perché gli agenti sono stati attaccati. Se ci sono stati eccessi da parte di singoli saranno verificati. Comunque non ci sono stati errori di valutazione o di comportamento collettivi ». Nelle parole dell’allora capo della Polizia non c’è una sola circostanza vera, o anche soltanto verosimile, come il processo ha accertato. Ma, da subito, le sue parole definiscono il perimetro entro cui, per anni, l’intera catena di comando di quella notte comincia il suo lavoro di ostruzione alla ricerca della verità.
De Gennaro, evidentemente, scommette su un’inchiesta penale destinata nelle sue previsioni a non andare da nessuna parte. Anche perché il Parlamento decide di ritirarsi in buon ordine rinunciando a un’indagine indipendente, e soprattutto perché l’appoggio del governo è ventre a terra. Non fosse altro perché il disastro del G8 crea un legame malato e indissolubile tra chi, di quei giorni, ha avuto la responsabilità politica e chi quella tecnica e, dunque, dalla verità può solo ottenere un danno. Del disastro genovese nessuno sembra portare la paternità. Non De Gennaro, appunto. Non Scajola. Non il ministro della giustizia Roberto Castelli, il solo ad aver visitato la prigione di Bolzaneto nei giorni del G8 senza avere la percezione del lager in cui era stata trasformata. Non il vicepremier Gianfranco Fini, che pure ha ritenuto di essere presente nella sala operativa della questura di Genova non si capisce a quale titolo e con quale utilità. Accompagnato dall’allora maresciallo dei carabinieri e futuro deputato di An Filippo Ascierto.
Anche Arnaldo La Barbera e Ansoino Andreassi, rispettivamente capo dell’Ucigos e vicecapo della Polizia e dunque vertice tecnicooperativo della catena di comando presente a Genova, sembrano, almeno all’inizio, un problema risolto. La Barbera, allontanato dall’Ucigos, viene nominato vicedirettore del Cesis. Andreassi transita al Sisde come numero due del generale Mori. Così come un problema che viene presto risolto è Vincenzo Canterini, il comandante del VII Nucleo, premiato con una ricca sinecura in Romania quale alto rappresentante dell’Interpol. Finché la tela si straccia.
L’inchiesta penale afferra i primi bandoli della matassa e la morte di Arnaldo La Barbera (2002) convince tutti i protagonisti di quella notte che è bene sfilarsi e anche rapidamente da quel disastro. Ansoino Andreassi che, nei giorni successivi alla Diaz, ha arringato gli uomini del VII nucleo nella caserma di Castro Pretorio rassicurandoli che «la polizia italiana non si farà processare», diventa teste di accusa. Accredita la circostanza di essere stato «commissariato» da La Barbera (un morto che non può difendersi) e di aver espresso il suo dissenso nella riunione in questura che precedette l’irruzione nella scuola. Salvo, inspiegabilmente, non chiarire perché quel dissenso, a maggior ragione dopo gli esiti disastrosi di quella notte, non venne mai esplicitato nei giorni e nelle settimane successive. Altrettanto rapidamente si sfila e diventa teste di accusa il vicequestore Lorenzo Murgolo, che, quella notte, è il delegato dell’allora questore Francesco Colucci di fronte alla Diaz. Anche lui armeggia con Gratteri e Luperi intorno al sacchetto con le molotov portate all’interno della scuola. Ma ha più fortuna dei suoi colleghi. Il processo non lo coinvolge e la sua carriera prosegue nel Sismi di Nicolò Pollari.
Sulla notte della Diaz, negli apparati si consuma una resa dei conti che l’autorità politica finge di non vedere o che, se vede, ignora. Tra il luglio del 2001 e il maggio del 2010 si succedono al Viminale quattro ministri dell’Interno: Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu, Giuliano Amato, Roberto Maroni. Non uno di loro risulta abbia imposto o anche solo sollecitato che la Polizia consegnasse alla magistratura genovese l’identità dei 400 poliziotti che fecero irruzione in quella scuola e che, ancora oggi, restano incredibilmente degli incappucciati.

Repubblica 7.7.12
Troppo tardi e troppo poco le ferite di quella notte non sono ancora rimarginate
Resta senza mandanti la “macelleria messicana”
di Concita De Gregorio


È PER questo che la sentenza della Cassazione sulla Diaz genera sollievo, sì, perché una pagina di verità è stata scritta e certo assai peggio sarebbe stata un’assoluzione generale. Ma non basta, non riesce a ripristinare quella forse ingenua ma formidabile e condivisa sensazione di libera cittadinanza, di fiducia nel rispetto delle regole fondamentali, di possibilità di esprimersi e di manifestare consenso o dissenso che c’era prima. Prima di Genova, perché come le torri gemelle hanno segnato uno spartiacque per il mondo intero, il G8 ha scandito, in Europa, un prima e un dopo. Oggi la tenacia del sostituto procuratore Pietro Gaeta restituisce agli italiani una stilla di giustizia, ed è un’ottima notizia che qualcosa sia cambiato nel Paese e si possa ricominciare a farlo. Le pubbliche scuse e le pesanti meditate parole di Giorgio Manganelli, attuale capo della Polizia, fanno sperare negli uomini: perché le istituzioni sono gli uomini che le incarnano. Ciò non toglie che sia troppo tardi, e troppo poco.
Undici anni sono il tempo che separa un bambino delle elementari dalla sua laurea, un esordio agonistico dal ritiro, sono il tempo di mezzo di una vita: troppi per aspettare i punti di sutura ad una ferita, quella che si vede sanguinare dalla testa di uno dei giovani della Diaz nella foto sui giornali che, identica di anno in anno, ferma il tempo da allora. Troppi per la ferita collettiva a un sentimento ormai in cancrena. Quelli che di noi erano alla Diaz, quella notte, sanno come sono andate le cose da quell’istante esatto. Dalle 23.30 del 21 luglio 2001. Sono andate come la sentenza assai tardivamente conferma, come ricostruisce per una piccola parte degli eventi da cui restano tuttavia esclusi i mandanti. Lo sanno con la precisione di un ricordo indelebile che chi ha potuto e voluto ha certificato fin dalle cronache del giorno dopo, nelle testimonianze ostinate e reiterate in tribunale, in ogni occasione pubblica e privata. Non ci volevano undici anni per dire che stavano tutti dormendo, nella scuola, che le luci erano spente quando sono arrivati i mezzi della Polizia e a centinaia i caschi blu. Che i vetri sono stati rotti dall’esterno verso l’interno, i cocci delle finestre erano tutti dentro, non uno in cortile. Che l’irruzione è stata comandata a freddo, che chi dormiva si è svegliato e ha cercato di salvarsi correndo su per le scale ma molti sono rimasti dov’erano, invece, perché non capivano e non sapevano cosa dovessero temere, e sui loro sacchi a pelo sono stati massacrati. Che non c’erano passamontagna di black bloc in quella scuola, nulla è stato portato via quella notte che non fossero persone in barella. Lo sappiamo da quel-l’istante perché lo abbiamo visto accadere minuto per minuto, abbiamo visto le luci accendersi dopo l’irruzione e sentito le urla salire lungo i piani, perché siamo entrati nella scuola subito dopo e a terra c’erano libri, diari, documenti, mutande, una bibbia in corridoio, una scatola di tampax per le scale, una copia del Don Chisciotte strappata, sangue dappertutto. Sangue sui registri della scuola, sulle maniglie antipanico delle porte, sui banchi, tantissimo sangue nei bagni. E quella scritta, comparsa subito, pennarello su foglio bianco, in inglese: non lavate questo sangue.
Abbiamo visto in quel cortile, quella notte, il responsabile delle relazioni esterne della Polizia di Stato Roberto Sgalla, braccio destro di De Gennaro allora capo della Polizia, parlare al telefono cellulare fino ad operazioni concluse, per così dire. Fino a che il novantatreesimo corpo è stato portato via in barella. E abbiamo sentito il questore di Genova Colucci dire, poche ore dopo, che Sgalla era stato mandato alla Diaz da De Gennaro stesso, in quelle ore assente da Genova. Salvo ritrattare anni dopo, a processo, e modificare la versione: a convocare Sgalla, ha messo a verbale Colucci, sono stato io. Da questa nuova versione è scaturita la sentenza che certifica l’estraneità di De Gennaro ai fatti.
Non fu il capo della Polizia, dunque, a disporre “la macelleria messicana” della Diaz — dice quella sentenza — né furono gli esponenti politici del centrodestra al governo presenti in massa durante le operazioni, nessuno dei quali ha mai pronunciato una sola parola di autocritica, di giustificazione, di spiegazione. Se ne deduce che gli alti dirigenti di Polizia ora sospesi dalle pubbliche funzioni, molti dei quali nel frattempo promossi a più alti incarichi e infine, undici anni dopo, condannati, abbiano agito quella sera di loro iniziativa: che abbiano disposto a freddo la mattanza senza essere stati da alcuno autorizzati a farlo. Così, una loro idea.
Ricordiamo a chi avrebbero potuto chiedere un parere, proprio lì sul posto e sul momento, se ne avessero avvertita l’esigenza. A Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio e in quei giorni prima in visita alla sala operativa della questura poi, il sabato della morte di Carlo Giuliani, chiuso nella caserma di San Giuliano. A Claudio Scajola, allora ministro dell’Interno ma fin da allora evidentemente inconsapevole. A Filippo Ascierto, ex carabiniere e responsabile Difesa di An, in quei giorni a capo di una delegazione di parlamentari costantemente presente
negli uffici di pubblica sicurezza: tra la sala operativa e il comando provinciale dell’Arma alla vigilia dell’assalto alla Diaz transitarono con Ascierto Giorgio Bornacin, An, eletto a Genova, Federico Bricolo, Lega, Ciro Alfano, Biancofiore, e Giuseppe Cossiga, eletto con Forza Italia. Fu suo padre Francesco qualche settimana dopo a pronunciare al Senato il celebre discorso in favore di Scajola, alla vigilia del voto che rinnovava al ministro la fiducia del Parlamento. In assenza dell’accertamento di una responsabilità politica e/o gerarchica le condanne di Gratteri, Luperi, Calderozzi e dei loro colleghi nulla dicono su quale sia stata la catena di comando che ha disposto il massacro della Diaz e qualche giorno dopo quello di Bolzaneto, carcere dove i reclusi venivano picchiati in cella al suono di Faccetta nera nei telefoni cellulari, suoneria del resto in voga ancora oggi negli uffici pubblici delle principali municipalizzate romane, chissà se è al corrente Alemanno. Giova infine ricordare, per quanto ovvio, che a Genova era naturalmente presente Silvio Berlusconi, allora e per molto tempo ancora presidente del Consiglio. Della morte di Carlo Giuliani disse, quel pomeriggio: “Un inconveniente”.
Bene dunque che il clima sia cambiato, che si possa oggi salutare una pagina di verità con una consapevolezza collettiva che certo ci arriva anche dalle tragedie di Cucchi e Aldrovandi, chè il pericolo del sopruso vestito da istituzione è sempre in agguato. Bene le scuse, peccato per le omissioni. Resta ancora da scrivere, imminente, la sentenza per dieci manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio”, termini adatti ad una guerra benché di guerre tra eserciti non si sia vista traccia, a Genova. Le guerre si combattono tra schieramenti avversi e in armi, non le combattono i cittadini che manifestano contro coloro che sono chiamati a garantire la sicurezza di tutti, anche la loro. Per quei dieci manifestanti sono stati chiesti 100 anni di carcere. Anche dall’esito di quella sentenza dipenderà la possibilità che la ferita del G8 possa cominciare, con così grave ritardo e tante amputazioni, a chiudersi.

l’Unità 7.7.12
Armi, il business che fa un morto ogni minuto. Un affare da 60 miliardi
Ogni anno 26 milioni di persone perdono la vita in un conflitto armato
All’Onu i negoziati per il Trattato sul commercio delle armi. Ma c’è chi non lo vede di buon occhio: i maggiori Paesi produttori (tra cui l’Italia)
di Umberto De Giovannangeli


Usa, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Cina, Olanda, Italia, Israele e Svezia: ovvero, il «G10» dei maggiori esportatori di armi nel mondo. New York, Palazzo di Vetro. I leader politici hanno la storica opportunità di far vincere i diritti umani e le ragioni umanitarie sugli interessi di parte e sul profitto. Sono iniziati infatti il 3 luglio alle Nazioni Unite i negoziati finali per il Trattato sul commercio internazionale delle armi e la Coalizione Control Arms di cui fanno parte Amnesty International, Oxfam e altre organizzazioni in oltre 125 Paesi chiede ai governi di concordare un trattato con regole certe che assicurino il rispetto del diritto umanitario. Una richiesta che rischia di scontrarsi contro il muro del «G10» dei grandi esportatori di armi. Per decenni in ogni parte del mondo si sono subite le conseguenze del commercio delle armi che vale più di 60 miliardi di dollari e alimenta conflitti, violenza, corruzione. A causa delle armi da fuoco nel mondo muore in media una persona al minuto, mentre sono migliaia i mutilati e i feriti ogni giorno. Senza contare che ogni anno 26 milioni di persone perdono tutto durante un conflitto armato. Del resto, ogni dodici mesi vengono prodotte 12 miliardi di pallottole e otto milioni di armi di piccolo calibro.
«In Siria, Sudan e nella regione dei Grandi Laghi in Africa, il mondo assiste continuamente agli effetti terribili del commercio delle armi irresponsabile e non trasparente. Quanti milioni di persone devono ancora essere uccise prima che i leader mondiali si sveglino e prendano decisioni per mettere davvero sotto controllo gli scambi internazionali di armi?», afferma Brian Wood di Amnesty International. «I negoziati sul Trattato per il commercio delle armi sono per i leader politici un test per affrontare la realtà e concordare regole che pongano fine a traffici irresponsabili che alimentano gravi violazioni dei diritti umani».
«Abbiamo la storica opportunità di rendere il mondo un luogo più sicuro; questo Trattato può essere lo strumento per porre limiti a un commercio del tutto fuori controllo al momento», avverte Anna Macdonald di Oxfam. «Dal Congo alla Libia, dalla Siria al Mali, si assiste a un’infinita teoria di violenza e distruzione. Nelle prossime settimane i negoziatori alle Nazioni Unite possono cambiare il mondo o rinunciare, per l’ennesima volta». Attualmente non esistono trattati vincolanti a livello globale che regolino il commercio di armi convenzionali, mentre vuoti e lacune permangono nelle legislazioni nazionali e regionali. Per essere efficace, il Trattato sul commercio delle armi deve chiedere ai governi di regolamentare in modo severo la vendita e il trasferimento di tutte le armi, munizioni e delle attrezzature utilizzate per operazioni militari e sicurezza interna: dai veicoli corazzati ai missili, dai velivoli alle piccole armi, dalle granate alle munizioni. Ai governi dev’essere richiesto di valutare con molta attenzione il rischio prima di autorizzare una transazione o un trasferimento internazionale. I governi dovrebbero inoltre essere obbligati a rendere pubbliche tutte le autorizzazioni e i trasferimenti.
LE CIFRE
«È assurdo che esistano regole globali per il commercio della frutta e delle ossa di dinosauro, ma nessuna regola per il commercio di fucili e carri armati», dichiara Jeff Abramson, della campagna globale Control Arms. È cruciale che in queste settimane, persone e attivisti di tutto il mondo facciano sempre più pressione sui loro leader affinché raggiungano un trattato efficace entro la conclusione dei negoziati, prevista per la fine di luglio. Negli ultimi 10 anni, secondo il Sipri, sono state vendute armi per 251 miliardi di dollari, passando dai 20 miliardi di dollari del 1991 ai 30 del 2011, di cui molte dirette (in un modo o in un altro) verso aree di crisi o di conflitto. Per quel che riguarda solo l’Italia, infatti, le nostre esportazioni sono passate dai 239 milioni di dollari del 2001 ai 1.046 del 2011. «L’augurio – afferma Maurizio Simoncelli, già docente di Geopolitica dei conflitti presso l’Università Roma Tre e membro del direttivo dell’Archivio Disarmo è che i lavori della Conferenza si concludano positivamente, anche se si nutrono forti timori dato che alcune grandi potenze industriali (Usa, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Cina, Olanda, Italia, Israele e Svezia) sono anche i 10 maggiori esportatori di armi e, pertanto, i maggiori responsabili dell’in/sicurezza internazionale».
La maggior parte degli Stati membri dell’Onu sembrano a favore di un documento forte. Ma i disaccordi rimangono parecchi. E non c’è alcuna certezza che i negoziati portino all’approvazione di un testo. Gli Usa per esempio hanno chiesto e ottenuto che il trattato venga votato all’unanimità, dando di fatto a chiunque la possibilità di bloccare il testo con il veto. Washington ha inoltre espresso diversi dubbi sulla proposta di vietare la vendita di armi nei Paesi dove esiste un rischio sostanziale di violazione dei diritti umani (fatto che impedirebbe alla Russia di fornire armi alla Siria), proponendo invece di rendere questo aspetto non vincolante e lasciato alla discrezionalità dei singoli Stati. Gli attivisti ritengono che perché sia efficace, il Trattato deve chiedere ai Paesi di regolamentare in modo severo la vendita e il trasferimento di armi e munizioni. Per il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon l’obiettivo comune è chiaro: «Bisogna approvare un Trattato forte e giuridicamente vincolante con un impatto reale sulla vita di quei milioni di persone che soffrono le conseguenze di conflitti, repressioni e violenza armata». Un risultato che per Ban è «ambizioso, ma realizzabile». Ma il «G10» non sembra dello stesso avviso.

il Fatto 7.7.12
La strana epidemia dei neonazisti
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, bandiere naziste al Circo Massimo, mentre, qua e là, la presenza nazista sembra riaccendersi in Europa. Isolati, teste matte. Ma quanti? E come mai non c’è un’intelligence che sa, prevede, informa?
Alessandro

NON SAPREI rispondere sulla “intelligence”. Varie volte mi sono trovato su liste di “servizi” debitamente deviati (ricordate Pio Pompa che compilava liste di giornalisti e magistrati da tenere d'occhio, non si sa per chi, non si sa da parte di chi?). Ma mai ho avuto notizie, chiarimenti o indicazioni interpretative in anticipo, neppure quando dirigevo un giornale (L’Unità) che certamente era un punto inevitabile di attenzione fascista. E tuttavia qualcosa sappiamo. Sappiamo, per esempio, perché ce lo raccontano con notizie precise da varie città italiane lettori giovani che non vogliono essere citati (lo considerano un po’ pericoloso), che le nuove cellule neonaziste sono piccole ma non così piccole, e sono abbastanza diffuse, certo molto più di quanto ci dicano i media. Non risulta che le varie direzioni di polizia abbiano uffici speciali per monitorare questo strano, continuo riaffacciarsi di simboli e persone. Potrebbe essere una buona notizia. Lo fanno e non trapela nulla, come dovrebbe accadere nella buona intelligence. Però perché tanta meraviglia quando “l’individuo isolato” o un paio di bandiere nazi improvvisamente si ripresentano? Ci dicono quasi sempre: erano in pochi. Se è per questo, Breivik ha fatto quasi cento morti, muovendosi come se fosse solo, e da solo viene incarcerato, negando bravamente ogni complicità. Ammettiamolo: così come non sappiano se Breivik, l’assassino norvegese di ragazzini socialdemocratici, abbia agito davvero da solo, non sappiamo se la bandiera nazista del Circo Massimo era davvero la bandiera di uno o un segnale per altri. Stanno lavorando bene i servizi di sicurezza e non ci dicono niente perché questo è il loro mestiere, sentire, sapere, senza farsi vedere? Speriamo. Se fossi il Comitato Parlamentare sui Servizi chiederei risposte, di cui, naturalmente, non potrei parlare. Salvo rassicurazioni politiche che molti, in questo Paese che ha inventato la violenza del fascismo prima del nazismo, gradirebbero ascoltare.

il Fatto 7.7.12
Li “Tre incendi” Keqiang spaventa la nuova Cina
Sarà premier: nel curriculum troppe sciagure
di Simone Pieranni


Pechino Il Partito ha deciso: Li Keqiang sarà il prossimo premier, superstizione accantonata. Sì perché qualcuno trema al pensiero di ritrovarsi “Tre incendi Li” al timone del governo della grande Cina.
La sua storia è ricca di sciagure che gli sono passate accanto. Diventa governatore dell’Henan quando esplode un incendio in un supermercato: 309 morti. Diventa segretario del Partito nel Liaoning: altra esplosione, questa volta in miniera, 214 morti. E ancora peggio: quando arriva in Henan c’è un’esplosione di vergogna sociale. Viene fuori uno scandalo legato a trasfusioni di sangue infetto. Prima di uscire allo scoperto migliaia sono le persone colpite, ammalate, morte. Li Keqiang sapeva e non ha detto nulla. Oppure non sapeva e forse è ancora peggio. Per i vecchietti raccolti a Zhongnanhai è un segnale nefasto.
Hu Jintao – che lo considerava il suo erede – si rassegna in quel momento, vedendo spianare la strada al non del tutto apprezzato Xi Jinping, il futuro presidente. E “Tre incendi Li”, come viene appunto soprannominato Li Keqiang, rischia di perdere tutto, perché il suo rivale nella corsa al premierato, Wang Qishan si comporta talmente bene nel 2003 con lo scoppio della Sars, da guadagnarsi il soprannome contrario, “il pompiere”. Brutti segnali. Un viaggio in Europa, si dice, salva Li (che conferma poi le proprie potenzialità anche a Davos nel 2010, dove raccoglie la stima internazionale e convince definitivamente i più scettici a Pechino) e lo mantiene come il più probabile prossimo premier cinese. Li Keqiang ha una buona preparazione intellettuale, ha respirato un’aria liberale negli anni universitari e ha l’appoggio, da sempre, di Hu Jintao, il presidente uscente. Non dovrebbe aver problemi nella successione a Wen Jiabao alla guida del governo. Li Keqiang fa parte di quella che viene considerata la “classe 1982”, anno in cui un settore di quattrocento mila cinesi (su oltre 11 milioni di candidati) riuscì ad accedere alle Università più prestigiose dopo che venne restaurato il concorso d’ammissione (prima potevano solo i “proletari” patentati) nel 1977. Figlio di un ufficiale di basso livello (è nato nella povera regione dell’Anhui nel 1955) era stato mandato in campagna a “rieducarsi” durante la rivoluzione culturale. Giunto a Pechino, alla prestigiosa Università Beida, venne anche eletto come rappresentante, attraverso elezioni universitarie. E a ricordarlo, anni dopo, sono nomi che forse gli fanno sfumare la vetta politica, ovvero Wang Juntao, che si fece 5 anni di carcere per Tien an men, poi esiliato negli Usa. Era un suo amico e lo ricordò attraverso articoli di giornale, una volta in America. Ma Li Keqiang supera indenne quegli anni e comincia la sua scalata nel Partito. È Hu Jintao a notarlo nelle file dei Giovani comunisti: Li diventa, a detta di tutti, il favorito del presidente. Prosperità moderata, mercato interno e classe media le sue parole d’ordine. Li Keqiang è l’aurea mediocritas che si fa Cina.

La Stampa 7.7.12
Il taglio dei tassi in Cina aiuta la finanza più che l’economia
di John Foley


Il taglio a sorpresa della Cina dei tassi di interesse sembra una risposta ai problemi di natura finanziaria piuttosto che a quelli di natura economica. La riduzione intervenuta giovedì sera di 31 punti base nei tassi di prestito e di 25 punti base in quelli di deposito non riuscirà da sola a cambiare in modo sostanziale il contesto economico, anche se i dati previsti per la prossima settimana evidenziano un significativo rallentamento delle attività. L’effetto prodotto sarà di far guadagnare tempo alle banche e ai soggetti che erogano crediti e posporre il pericolo più prossimo di una crescita dei crediti inesigibili.
Tassi inferiori possono stimolare la domanda di prestiti, ma probabilmente non lo faranno in questo caso. Nonostante una riduzione dei tassi appena un mese fa, l’attività di erogazione in Cina sembra essersi ridotta drasticamente a giugno. Alcune banche non possono erogare credito perché dispongono di raccolta troppo limitata, altre non riescono a reperire clienti che fanno richiesta di credito. Molte aziende pubbliche in settori quali acciaio e alluminio dispongono già di un eccesso di credito bancario. Le concessioni di credito sono più facili da ottenere di quanto non lo sia stato negli ultimi due anni, secondo un’analisi di Nomura, mentre la richiesta di credito è al suo livello più basso dal 2008.
In un paese a crescita rapida come la Cina, il prezzo non dovrebbe rappresentare un elemento motivante per la maggior parte dei debitori. La redditività del capitale in ingresso dal 1993 al 2005 è stata del 20%. Anche presumendo che si sia ridotto in misura considerevole, fa poca differenza per molte aziende private che il tasso base dei prestiti sia il 6 o il 6,31 percento.
Sono i debitori in difficoltà che percepiscono la differenza. Con il settore immobiliare bloccato, molte aziende saranno in difficoltà a rispettare gli impegni debitori. Il taglio dei tassi non rende migliori i cattivi pagatori, ma ritarda il giorno del giudizio. Questo riduce la possibilità che una crisi finanziaria ne scateni una economica.

Corriere 7.7.12
L'esercito mancato degli ultraortodossi
Sessantamila uomini finora esentati dalla leva: un rebus per Netanyahu
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Il rabbino Aaron Leib Shteinman ha 98 anni e ha appena sostituito Yosef Shalom Elyashiv, che ne fa 102 ed è malato, alla guida di una piccola fazione dentro il partito Giudaismo Unito nella Torah. Alla volontà di questo leader centenario sono sospesi il futuro del governo di Benjamin Netanyahu e l'opportunità per Israele di superare il passato. Di modernizzare la promessa fatta da David Ben-Gurion ai leader religiosi ultraortodossi, che chiesero e ottennero di esentare quattrocento devoti studenti dal servizio militare.
In sessantaquattro anni dalla fondazione dello Stato ebraico, quel piccolo gruppo di allievi impegnati a vita nella lettura della Torah si è ingrossato a 60 mila uomini che evitano di dover affrontare la leva obbligatoria e i periodi in divisa come riservisti. Fino a febbraio glielo permetteva una legge che è stata dichiarata incostituzionale e la Corte Suprema ha stabilito il primo di agosto come data limite perché la Knesset trovi una soluzione.
Bibi non ha una vera opposizione da quando Kadima è entrato nel governo e ha pensato di aver risolto la questione con un comitato parlamentare incaricato di stabilire le nuove regole. Quello che non poteva prevedere è stata la tenacia del presidente, un quarantunenne nuovo della politica ma veterano dell'esercito: Yohanan Plesner è stato ufficiale nel «Sayeret Matkal», la più speciale delle forze speciali, ed è andato avanti con la missione anche quando il primo ministro ha smantellato lui e il comitato per paura di compromettere i rapporti con i partiti religiosi che appoggiano la coalizione guidata dal Likud. Plesner, deputato di Kadima, ha presentato i risultati dei lavori, un rapporto di cento pagine in cui chiede che l'80 per cento degli ultraortodossi venga arruolato entro il 2016 e propone sanzioni fino a 20 mila euro per i disertori.
Il dossier agita gli ultraortodossi (Netanyahu ha promesso che non diventerà legge) ed è diventato il manifesto di quegli israeliani che vorrebbero veder condiviso da tutti il dovere verso la nazione. Nel 2011 solo il 17 per cento dei religiosi diventati maggiorenni è partito per le caserme contro il 75 per cento nel resto della popolazione ebrea. Calcolando gli arabi israeliani (anche loro esentati, possono optare per il servizio civile come gli ultraortodossi) meno della metà dei ragazzi ha indossato la divisa.
«Questo non è un dibattito tecnico — scrive Nahum Barnea su Yedioth Ahronoth — per capire quanti soldati servano all'esercito. È uno scontro tra due visioni del mondo: quella degli ultraortodossi che vogliono continuare a vivere dentro al loro ghetto e quella di chi vuole trascinarli fuori dal guscio dentro la società israeliana». Le barbe lunghe e i soprabiti neri, gli haredim — come sono chiamati i religiosi — ricevono sovvenzioni statali per studiare nelle yeshiva e possono non lavorare. L'organizzazione Hiddush, che promuove la libertà religiosa e l'eguaglianza in Israele, calcola che il sistema costi allo Stato tre miliardi di euro l'anno.
Aluf Benn, direttore di Haaretz, ammette da sinistra che l'idea dell'«esercito del popolo» non sta più funzionando: «Il ruolo delle forze armate come amalgama del Paese è finito, anzi sono diventate il punto nodale delle dispute tra le varie tribù che compongono la società israeliana». Una di queste tribù ha invitato (quasi) tutte le altre a manifestare stasera a Tel Aviv perché il servizio militare diventi obbligatorio senza distinzioni. Gli indignados di Tel Aviv qui si sono chiamati freier, dall'yiddish con autoironia: i babbei che vengono fregati dallo Stato o dai connazionali più furbi. E non vogliono esserlo più.

Repubblica 7.7.12
Mosca, sì alla legge anti-ong “Agenti stranieri, vanno controllate”
 Accuse anche a Gorbaciov. Il Nobel: “Imperdonabili”
di Nicola Lombardozzi


MOSCA — Un antico marchio di infamia inventato da Stalin ripiomba dagli archivi del Terrore nella Russia moderna di Vladimir Putin. Una legge, approvata ieri in prima istanza dalla Duma, riporta in vita il famigerato registro degli “agenti stranieri”, termine dispregiativo usato per indicare i nemici del popolo e giustificare arresti, deportazioni, fucilazioni sommarie. Per il momento, non sono previste pene così severe, ma gli “agenti stranieri” del 2012 saranno sottoposti a controlli “senza limiti” della polizia e dei magistrati e dovranno documentare mensilmente ogni loro spesa e iniziativa rischiando, in caso di inadempienza, fino a quattro anni di prigione.
Per essere definiti “agenti stranieri” basterà ricevere finanziamenti, anche di modesta entità, dall’estero. L’elenco dei prossimi potenziali “nemici del popolo” è lungo e sa di vendetta e di prevenzione: la prima sarà certamente la ong “Golos” (la voce) che ha descritto e denunciato
i brogli nelle ultime elezioni. Poi potrebbe toccare alla Fondazione Mikhail Gorbaciov, alla società storica Memorial che denuncia le tentazioni totalitaristiche in molti stati dell’ex Unione
Sovietica, al gruppo di Helsinki per i diritti umani diretto dalla 84 enne Ljudmila Alekseeva che lo fondò insieme al dissidente premio Nobel Andrej Sakharov. E ci finiranno dentro anche sigle apparentemente più innocue: la filiale russa del Wwf e decine di organizzazioni ecologiste, ma anche tante società che si occupano di beneficenza come “Dona la vita“ della nota attrice cinematografica Cjulpan Khamatova che raccoglie fondi in tutto il mondo per i bambini malati di cancro.
Tutti bollati con una definizione sinistra che Vladimir Putin in persona ha preteso dai solerti
compilatori della legge, scritta, stampata e approvata in meno di cinque giorni. Il termine “agente straniero”, e quello che evoca da queste parti, brucia ancor di più della legge in sé. Si vede dalla valanga di commenti preoccupati che ieri hanno intasato i siti di informazione e i centralini delle poche radio ancora disposte a mandare in onda il parere degli ascoltatori come
Eco di Mosca.
Inevitabili i riferimenti al macabro anniversario del 30 luglio che rischia di coincidere con la firma del Presidente alla nuova legge. Proprio 75 anni fa Nikolaj Ezov ministro degli interni staliniano, firmava il famigerato ordine “00447” che dava il via alla repressione più spietata delle «classi ostili e degli agenti stranieri ». La parola aghent, in russo come in italiano, è anche sinonimo di spia. Ma nel paese dei tovarish (compagni) voleva dire soprattutto «subdolo nemico», il peggiore degli insulti da non pronunciare nemmeno per scherzo. A proposito di Gorbaciov un deputato del partito di Putin ha detto al quotidiano Izvestija che l’ex leader sovietico «è tra i primi pretendenti al ruolo di “agente straniero” al soldo di qualche servizio segreto». Parole definite «imperdonabili» dallo stesso Gorbaciov.
Rabbiose ma impotenti le dichiarazioni dei cosiddetti oppositori. La Alekseeva minaccia una denuncia alla Corte europea dei diritti umani, ben sapendo che avrà uno scarso effetto sulla linea dura scelta dal Cremlino. Boris Nemstov, leader del gruppo Solidarnost dice che è una legge «disumana e degna di una dittatura», ma ha l’aria sconsolata di chi vede il cerchio che si stringe su ogni forma di dissenso. Preferisce parlare d’altro Aleksej Navalnyj, il leader più amato dalle piazze. Il suo blog anticorruzione dovrebbe sfuggire al marchio di infamia ma per lui c’è in arrivo un’altra legge su misura. Lo hanno anticipato ieri alcuni fedelissimi di Putin: sarà reinserito nel codice penale il reato di calunnia con una pena di almeno cinque anni di carcere. Che calza a pennello per chi ha coniato lo slogan più gridato nelle piazze negli ultimi mesi: «Putin ladro e truffatore».

il Fatto 7.7.12
Impara l’arte e mettila da parte
Bufale di Caravaggio
Cento nuove opere in un colpo solo, peccato che gli studiosi non diano prove attendibili
di Tomaso Montanari


La madre dei Caravaggio è sempre incinta. E se i poveri parti non meriterebbero nessuna attenzione, è invece la madre stessa a indurre a qualche riflessione. Due illustri sconosciuti agli studi caravaggeschi (e, più in generale, storico-artistici) che si chiamano Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli annunciano di aver ‘scoperto’ cento (siamo ai saldi estivi, cento al prezzo di uno) autografi di Caravaggio nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano.
SI TRATTA di un fondo ignoto agli studi? Manco per sogno: come hanno ricordato subito i funzionari del museo, esso è noto da sempre, ed è almeno dagli anni Cinquanta che gli specialisti di Caravaggio lo frequentano e ne scrivono, interrogandosi su alcuni nessi con l’opera del grande naturalista. Nonostante i dispareri sulla paternità dei singoli fogli, si è concordi nel ritenere che i disegni vadano ricondotti alla bottega di Simone Peterzano (1540-1596), il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò a Milano. Ma ora i due novelli caravaggisti hanno una soluzione geniale, un vero uovo di colombo: quei nessi si spiegano perché i disegni son tutti autografi del giovane Caravaggio. Semplice no? E tanti saluti a quei babbioni degli studiosi che da decenni ci si stillano il cervello. Le prove? Esilaranti fotomontaggi al photoshop che incollano particolari di disegni, palesemente di mani e di epoche diverse, su quadri di Caravaggio, con effetti tragicomici. Non si fa desiderare l’imperdibile perizia calligrafica che stabilisce che sì, la scrittura di un biglietto annesso ai disegni è proprio quella di Caravaggio. Insomma, manca solo il Ris di Parma: ma quello ha già dato, avendo autenticato due anni fa le ossa del Merisi a Porto Ercole, nella madre di tutte le bufale caravaggesche. Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non fosse per l’inconcepibile eco mediatica che ogni volta esalta queste operazioni, con l’effetto di trasformare la storia dell’arte in un circo equestre. L’Ansa ha voluto la notizia in esclusiva, dedicandole non so più quanti lanci e parlando di “svolta storica per la storia dell’arte”. Ma nessuno si è posto il problema della credibilità della ricerca. In storia dell’arte, come in fisica, le ‘scoperte’ vengono proposte a riviste riconosciute dalla comunità scientifica, dotate di comitati e basate su un sistema di revisione preventiva che vaglia e seleziona i contributi: e la scientificità di una ricerca (concetto ben presente anche nelle scienze umanistiche) si basa in primo luogo sulla verificabilità delle affermazioni e sul controllo della comunità.
POSSIBILE che nessuno si sia chiesto perché una simile ‘scoperta’ non era uscita su nota e autorevole rivista, ma su due ebook di Amazon? O è mai possibile che nessuno sia andato a vedere il sito ufficiale della ‘scoperta’ ( ht  tp: //www. giovanecaravag  gio.it/)?   Sopra un accompagnamento al piano elettronico degno di un thriller di quart’ordine, una voce da spot di tv locale legge un testo che inizia con queste memorabili parole: “È una autentica rivoluzione del Sistema Merisi, una delle maggiori e articolate scoperte nel campo della storia dell’arte e della cultura”. La conclusione è un’apoteosi: “L’operazione Giovane Caravaggio ha pure un grande valore economico e ricadute istituzionali di enorme valenza: si calcola infatti che solo il valore dei disegni, di proprietà del comune di Milano, possa ammontare a circa 700 milioni di euro”. Davvero un geniale omaggio alla ‘valorizzazione del bene culturale’, con ammiccamento alla Giunta Pisa-pia: che grazie all’intelligenza di Stefano Boeri si è, tuttavia, prontamente smarcata da questo abbraccio mortale. Nessuna redazione poi potrebbe prendere sul serio una simile fonte, non dico per una notizia politica o economica, ma nemmeno per una di storia politica, per non dire di fisica. Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, forse c’è da dubitarne: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo.
QUANDO si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico non gode di buona salute ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica a escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa. E assai prima dell’indegnità della classe politica o dell’insufficienza di fondi, tra le tante cause del disastro del nostro patrimonio storico e artistico c’è anche questa desolante mutazione della storia dell’arte.

La Stampa 7.7.12
I critici si dividono su Caravaggio
Polemiche dopo la scoperta dei presunti cento disegni: “Ora servono analisi più approfondite”
di Francesco Rigatelli


Ci vuole un giallo estivo legato all’arte per aprire un dibattito culturale come pochi recenti. Oltre 400 anni dopo la sua misteriosa morte Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, continua a incuriosire con le sue opere in chiaroscuro e dall’altro ieri pure con la scoperta dei suoi cento disegni al Castello Sforzesco. Che di sicuro suoi però non sono. «Bisogna studiare il materiale - spiegano in molti, come Vittorio Sgarbi - però sono scettico, anche se un disegno di San Paolo è convincente».
Il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci loda «l’ottimismo induttivo, ma non si possono fare veri confronti perché altri disegni di Caravaggio non ce ne sono. E poi molti studiosi in passato hanno esaminato quei bozzetti. Il che non vuol dire, però... ».
Proprio dagli archivi vaticani, nel 2010, Vincenzo Pacelli teorizzò che la morte di Caravaggio avvenne nella laziale Palo, vicino Ladispoli. Secondo lui il pittore fu assassinato da emissari dei cavalieri di Malta con il tacito assenso della curia romana. Ma pure un teorico della cospirazione come lui ora è cauto: «Riferire tanti disegni a una mano sola significa scardinare il caravaggismo».

La Stampa 7.7.12
Lo scopritore Bernardelli
“E’ proprio lui: così zittisco gli scettici”
di Elena Del Drago


MILANO A confronto I particolari del volto di Cristo della «Cena in Emmaus» di Caravaggio e il presunto studio per la testa realizzato dal giovane Merisi nella bottega di Peterzano La testa Uno dei disegni di testa maschile trovati nel fondo Peterzano del Castello Sforzesco di Milano e attribuiti al giovane Caravaggio dagli storici dell’Arte Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli Il giorno dopo il grande annuncio Maurizio Bernardelli Curuz è furioso: lo storico dell’arte che, insieme ad Adriana Conconi Fedrigolli, ha lavorato per 2 anni attorno alla produzione giovanile di Caravaggio, finendo per trovare oltre 100 disegni attribuibili, forse, al Maestro, non è affatto felice di alcune reazioni del mondo accademico. «Ma insomma, abbiamo lavorato per anni, facendo riscontri su riscontri e veniamo liquidati con sufficienza e presunzione... ».
Come avete cominciato a cercare la produzione giovanile di Caravaggio?
«Caravaggio cresce in Lombardia e lavora in una bottega, quella di Simone Peterzano, tra il 1584 il 1588, quattro anni di formazione importante se, quando arriva a Roma, Caravaggio è già pittore di eccezionale bravura. Non può essere arrivato a quei livelli per magia. A quell’epoca esisteva un percorso codificato, anche in trattati come quello di Bernardino Campi, scritto proprio negli anni in cui Caravaggio entra a bottega: copiare i disegni dei maestri fino a mandarli a memoria per utilizzarli poi nelle composizioni. E’ stato elementare andare a cercare il Caravaggio giovanile non in giro per il mondo, ma nella produzione della bottega per la quale aveva lavorato».
Perché se le sembra una scelta così elementare nessuno storico dell’arte aveva mai pensato di cercare tra quei disegni?
«Perché su Caravaggio si lavora per cliché. Vista la sua vita tumultuosa si dà per scontato che fosse uno spiantato e che durante la sua gioventù non abbia lavorato. E invece non è così. La madre di Caravaggio era molto ricca e investì nella sua educazione una fortuna: perché fosse preso a bottega non come garzone, ma come pittore, pagò l’equivalente di un intero palazzo. E presumibile che a fronte di un tale investimento la madre volesse vedere il figlio lavorare alacremente. Un altro errore è stato non pensare a Caravaggio come ad un disegnatore: sotto la pellicola pittorica delle sue opere sono stati rintracciati solo tratti sommari, ma questo non può farci stabilire che non abbia disegnato in precedenza».
Come siete arrivati a stabilire che quei disegni fossero proprio di Caravaggio?
«Abbiamo creato un canone, una modalità di costruzione del volto che presenta in ciascun autore particolari differenti da tutti gli altri. Il punto di partenza è stato il grande quadro conservato nella Chiesa San Barnaba a Milano, dieci ritratti in particolare, che la protettrice di Caravaggio, Costanza Sforza Colonna, commissiona al diciannovenne Caravaggio, ad integrazione di un quadro realizzato nel 1573 da Peterzano, ritratti con una forza straordinaria e una prospettiva che permettono di attribuirli senza dubbio al giovane Caravaggio».

La Stampa 7.7.12
Lo storico Strinati
“E’ un errore: i bozzetti sono di autori diversi”
di E. D. D.


MILANO Lo storico dell’arte Claudio Strinati, tra i maggiori conoscitori dell’opera di Caravaggio, utilizza la consueta pacatezza per commentare una scoperta che, se confermata, potrebbe aggiungere un tassello cruciale, nella conoscenza del maestro lombardo.
Per anni è sembrato che Caravaggio non abbia prodotto nulla di significativo durante l’adolescenza. Questi disegni possono cambiare gli studi sul Maestro?
«Non credo proprio. Devo premettere che di questi disegni ho visto poco: nulla dal vivo e una decina circa su internet. Ma da ciò che vedo si tratta di esercitazioni accademiche, di un prodotto scolastico di base leonardesca, com’è logico dato che Simone Peterzano insegnava soprattutto il culto di Leonardo. E tra i pochi che ho potuto guardare mi sembra, tra l’altro, di poter rintracciare almeno due autori differenti».
Ma cosa le fa pensare che tra questi autori non ci sia Caravaggio?
«Può anche darsi che alcuni disegni siano di Michelangelo Merisi, ma non certo di Caravaggio. Mi spiego meglio: bisogno distinguere per qualsiasi autore tra gli studi e le opere. Tra queste esercitazioni è plausibile che ce ne sia qualcuna del giovane Caravaggio, ma questo non aggiunge niente al buco nero rappresentato dalla sua formazione. La sua prima opera certa è il murale del Casino Ludovisi, realizzato subito dopo il suo arrivo a Roma nel 1597, un lavoro magnifico».
Maurizio Bernardelli Curuz però, tra i presupporti della sua ricerca, menziona proprio l’impossibilità di un Caravaggio arrivato a quelle grandezze dal nulla.....
«Ma quei disegni non spiegano meglio: sono studi, non opere d’arte, non prodotti autonomi del suo ingegno, altrimenti Caravaggio non sarebbe stato il sommo maestro che era, ma un autore mediocre».
Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, i due storici dell’arte protagonisti della scoperta, ritengono di aver creato un canone per distinguere un’opera di Caravaggio...
«Bernardelli Curuz è uno studioso accurato e ha anche buone ragioni, ma non ci aiuta affatto a comprendere Caravaggio, il suo genio: bisogna sempre distinguere tra sapere le cose e capirle. Tutti i maestri del Cinquecento, tra l’altro, seguendo l’esempio di Michelangelo Buonarroti raccoglievano i disegni dei propri colleghi, perchè si riteneva che potessero lasciar trapelare la verità e la spontaneità di un’artista. All’inizio del secolo, per esempio, Raffello e Dürer si scambiarono dei disegni per dare all’altro la dimensione della propria grandezza. E molti dei disegni di Peterzano, grande maestro, hanno certamente questa origine».

Corriere 7.7.12
L'attribuzione contestata a Caravaggio «Storici scettici? Sono un monopolio»
di Roberta Scorranese


«E gli non tiene in onore che la passione», diceva lo storico Jacob Burckhardt riferendosi a Michelangelo Merisi da Caravaggio. Ed è un equilibrio tra passione e ragione quello che adesso sostiene i due storici Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, specie dopo le numerose critiche giunte alla loro «scoperta»: cento disegni inediti del pittore rinvenuti presso il Fondo Peterzano, al Castello Sforzesco di Milano. Critiche che, mentre la notizia faceva il giro del mondo, sono continuate anche ieri, e piuttosto veementi. Ma loro non si sottraggono, anzi, replicano.
Maurizio Bernardelli, la responsabile del Gabinetto dei Disegni, Francesca Rossi, dice di non avervi mai visto.
«Noi ci siamo stati eccome. Abbiamo visitato gli archivi diverse volte, anche se fuori dall'orario di ufficio, accompagnati da altre persone».
E quante volte?
«Non so dirlo con precisione, ma posso dire che stiamo lavorando su quel materiale, 1.378 disegni in tutto, da almeno un anno e mezzo».
Perché proprio quel Fondo, che cosa cercavate?
«Noi cercavamo Caravaggio. È questo il punto. Da anni io, la collega e i nostri collaboratori ci ripetiamo: non è possibile che lì non ci siano i disegni del Merisi, visto che si tratta del materiale del suo maestro di bottega, Peterzano, presso il quale ha trascorso quattro anni».
Quando avete richiesto per la prima volta l'autorizzazione a visionare l'archivio?
«Circa un anno e mezzo fa. Prima abbiamo studiato sulle foto. Analizzando con un lavoro immane, giorno e notte, tutti i dettagli. Sovrapponendo i disegni, cercando le rassomiglianze e le prove incrociate. Per esempio, cercando la stessa figura ma disegnata da una prospettiva diversa. Finché, cosa che ci ha emozionato, non ci siamo accorti che la vera conferma nasceva dai suoi errori».
Cioè, come diceva Anton Mengs, era «tutto cattivo nel disegno»?
«Diciamo che abbiamo riscontrato più volte gli stessi sbagli nel tratto. Un esempio: non sapeva disegnare in modo corretto il muso di un bue. Lo si vede nei dipinti di Messina e di Palermo. Ebbene, quando ci siamo trovati di fronte un disegno che mostrava le narici di un bue fatte male e dai contorni poco plausibili, ci siamo guardati e abbiamo capito che eravamo sulla strada giusta. C'è anche un errore ricorrente che riguarda la struttura del piede».
Quei disegni però sono stati visti da studiosi illustri, Maurizio Calvesi per citarne uno, il quale senza mezzi termini ha definito l'attribuzione a Caravaggio «una sciocchezza».
«Non mettiamo in discussione la competenza di alcuno, ma sottolineiamo il fatto che finora nessuno ha mai fatto uno studio approfondito su quei disegni cercando Caravaggio».
Nessun convegno, nessuna pubblicazione, ma un lancio d'agenzie e un ebook. Metodi poco usuali.
«Una cosa voluta. Perché crediamo che il mondo dell'arte oggi sia stretto dai legacci delle "expertise", le perizie, ovviamente a pagamento, e dei vari monopoli. Noi abbiamo affrontato un anno e mezzo intenso di studi, fatto una ricerca approfondita e mirata, pubblicato tutto, anche se sul web, quindi perché dire che la nostra ricerca è meno valida di altre?».
Per Claudio Strinati, l'attribuzione in base a elementi comuni può «far prendere cantonate».
«Guardi, il metodo è stato rigoroso. Dopo avere enucleato con sicurezza i disegni e lo stile di Peterzano, abbiamo diviso le altre opere disegnative in base al ductus grafico. Si è così formato un corpus di oltre cento disegni molto diversi da quelli di Peterzano. Poi l'accostamento di tali opere grafiche ai noti e certi dipinti di Caravaggio. Con risultanze sconvolgenti».
L'ex direttrice delle raccolte del Castello, Teresa Fiorio, sostiene che l'attribuzione non può essere certa perché non abbiamo nessun disegno sicuro di Caravaggio.
«Torniamo agli errori: non è possibile che un pittore dell'epoca, nell'ambito di uno studio, potesse riprendere un particolare così scorretto. Insomma, noi ci abbiamo messo prima di tutto passione. Ma, di certo, anche tanta ragione».

il Fatto 7.7.12
L’arte di tradire bene
di Maurizio Viroli


Anche Marco Travaglio deve riconoscerlo: Berlusconi aveva tutte le ragioni di bollare come traditori i parlamentari del Pdl che gli avevano votato contro nel novembre 2011. È vero che i parlamentari, afferma la Costituzione, rappresentano la Nazione, e dunque non sono tenuti a obbedire a nessuno, neppure al capo del loro partito, ma quando si parla di Pdl la Costituzione, si sa, conta poco. Nella nostra tradizione culturale e religiosa, le parole ‘traditore’ e ‘tradimento’ hanno una forte accezione negativa. Evocano la figura di Giuda Iscariota, figlio di Simone, e le parole del Vangelo: “In verità vi dico che uno di voi mi tradirà” (Giovanni 13, 21 – 22), e la terribile immagine di Giuda, Bruto e Cassio nella bocca di Lucifero, il primo e più grande dei traditori, nel fondo dell’Inferno dantesco. Ma, avverte Giulio Giorello nel suo libro Il tradimento in politica, in amore e non solo (Longanesi, 2012), a guardare più attentamente, i traditori sono, nella realtà e nelle rappresentazioni artistiche e letterarie, figure ambigue che suscitano giudizi contrastanti.
LO STESSO GIUDA, ha sostenuto ad esempio Christian Petr nell’Elogio del traditore, vendette Cristo perché si rese conto che non intendeva affatto essere liberatore del suo popolo su questa terra. Non fu né avido né ingrato, ma chiaroveggente (p. 8). E soprattutto non va dimenticato che doveva essere uomo di forte coscienza morale se, sopraffatto dal rimorso, prima cercò di restituire i 30 sicli e poi si suicidò. Anche i due eroi repubblicani Cassio e Bruto che Dante punisce come traditori, anche se ebbero il coraggio di uccidere Cesare nella vana speranza di fare rinascere la libertà repubblicana in Roma, non sono esenti da ombre. Plutarco ci dice, nelle sue celebri Vite parallele, che Cassio odiava Cesare più per motivi personali che politici. Leopardi, nel canto dedicato a Bruto minore, fa pronunciare all’eroe repubblicano parole sconsolate sulla vanità della virtù: “O misera virtù, eri solo una parola, e io ti adoravo come una cosa reale. Ma tu eri schiava del caso”.
È vero, sono ancora parole di Christian Petr, che “non proviamo mai pietà per il traditore” (p. 135), ma è del pari vero che nella politica rivoluzionaria più estrema, quella di Stalin, il tradimento è opera necessaria e lodevole. I testi che Giorello ha scelto sono eloquenti e sconvolgenti: “Non abbiamo esitato a tradire i nostri amici e a scendere a compromessi con i nostri nemici, per salvare il partito”, dichiara uno degli inquisitori di Stalin nel romanzo di Arthur Koestler Buio a mezzogiorno. La giustificazione del tradimento nella politica rivoluzionaria è inconfutabile, se si condividono le premesse, e se si accetta che esista un’istituzione umana, il partito e il suo segretario generale, che dispongono di una conoscenza assoluta della verità e quindi non possono errare: “Ma il parto del Mondo nuovo ha le sue doglie: per eliminare la politica ci vuole la politica, per eliminare la guerra ci vuole la guerra, per eliminare il tradimento ci vuole il tradimento” (p. 118). Dai suoi esempi e dalle sue narrazioni, Giorello ricava un interrogativo generale sul significato e sul valore da attribuire al tradimento. Non soltanto nei casi delle grandi e tragiche figure dei traditori, ma “persino nel caso delle dispute del nostro Paese non è miope ridurre il ‘tradimento’ di questi o quegli a mero effetto di qualche più o meno sordida passione? ”. Quali che siano le motivazioni di chi tradisce, il tradimento rivela una valenza storica che supera le speranze e i timori degli attori che sono coinvolti. Tradire, rileva Giorello, è facile, ma tradire bene è difficile.
COSA VUOL dire tradire bene? A mio giudizio Giorello dà al termine ‘bene’ e all’idea del tradimento ben eseguito una connotazione estetica, più che svolgere un’argomentazione politica o morale. Nei casi più elaborati, scrive infatti, il tradimento assume “le caratteristiche di una vera e propria opera d’arte”. (pp. 8-9) Vero, ma si può aggiungere che l’opera d’arte degli antifascisti come Carlo Rosselli che si proclamarono orgogliosamente traditori della patria fascista perché si sentivano fedeli a un’altra idea di patria è altra cosa dall’opera d’arte del militante antifascista che diventa spia dell’OVRA e che con un raffinato gioco di simulazioni e dissimulazioni riesce a fare catturare dal regime i migliori dirigenti di ‘Giustizia e Libertà’. Giorello rifugge dalle indicazioni morali e dagli ammonimenti politici e osserva che la condanna o l’apprezzamento per le varie figure di tradimento narrate nel libro sono scelte inevitabilmente personali. Posizione lodevole, che mette l’autore al riparo dall’accusa infamante, in Italia, di essere un moralista che aspira, addirittura, a educare. Ma per aiutare il lettore e la lettrice a formulare il proprio giudizio meditato poteva forse arricchire il saggio con qualche considerazione sulla differenza, ad esempio, fra tradire un uomo e tradire un principio e invitare, con delicatezza, si capisce, a riflettere sul fatto che uno dei valori più alti che il cittadino dovrebbe fare proprio, per la nostra Costituzione, è proprio la fedeltà, vale a dire l’esatto contrario del tradimento.

il Fatto 7.7.12
Vasco si sposa: “Ma è colpa del Vaticano”


Domani è il grande giorno per Vasco Rossi: le nozze con la compagna Laura Schimdt, annunciate mesi fa, sono già un evento mediatico, con migliaia di commenti e auguri sulla pagina Facebook del Blasco. Ma lui, il rocker di “Vita spericolata”, getta acqua sul fuoco, sempre via Facebook: se si sposa è solo “colpa” del Vaticano , ostile in Italia al riconoscimento delle coppie di fatto. “Volevo tranquillizzare, sdrammatizzare e placare un po’ tutto questo entusiasmo - scrive Vasco - data a un atto puramente tecnico e necessario per dare a Laura gli stessi diritti dei miei tre figli. Per questo è necessario che io firmi un contratto di matrimonio civile. Io che ho sempre considerato il matrimonio come una ben triste condizione di vita”. “Obbligati a vivere insieme per sempre e per forza - aggiunge il rocker - quando solo essere liberi di andarsene ogni giorno può dimostrarci la sincerità di un rapporto. Come se non fosse l’amore l’unica cosa che conta. In questo credevamo io e Laura. Venticinque anni vissuti insieme non per forza ma per amore e una famiglia costruita ogni giorno con fatica e sacrifici. Ma in questo paese - attacca Vasco - le leggi sono poco chiare, sempre confuse e interpretabili, non si sa mai cosa può accadere... e comunque non sono regolamentate chiaramente le coppie di fatto perché al Vaticano non sono simpatiche e anche ai nostri politici non piacciono”. Quindi, conclude, “non ci sarà una festa... non ci saranno pranzi... liste di regali o felicitazioni ma una nuova sconfitta per le nostre convinzioni”.

Repubblica Lettere 7.7.12
Il dialogo tra scienza e fede
Corrado Augias risponde a Vito Mancuso


Caro Augias, non mi stupisco che la mia replica all’articolo di Umberto Veronesi le abbia procurato un po’ di lavoro perché il nodo fede-scienza fa discutere da sempre. La mia posizione è la seguente: c’è un modo di avere fede e d’interpretare la scienza che rende inconciliabili le due posizioni, ma ce n’è un altro che le rende del tutto conciliabili, prova ne siano gli scienziati credenti, tra cui Galileo, Newton, Pasteur, Mendel. Occorre considerare che i modelli scientifici con cui si pensano 1) i componenti fondamentali della materia, 2) il cosmo, 3) l’evoluzione, 4) il genoma umano, hanno ricevuto un contributo decisivo di scienziati credenti come Planck, Heisenberg, Lemaître, Dobzhansky, Collins. Scienza e fede sono quindi conciliabili nella mente di chi le pratica con saggezza. Il vero problema è un altro. Le forze che dominano la società sono tre: conoscenza, economia, comunicazione. Queste forze tendono sempre più all’unificazione all’insegna di ciò che Heidegger chiamava “tecnica”. Oggi quindi non c’è scienza senza economia e comunicazione, non esiste una scienza pura, interessi economici e politici contribuiscono a stabilire che cosa rendere oggetto della ricerca scientifica e cosa no. Per questo ritengo sprovvedute le posizioni che riservano alla scienza totale autosufficienza pensando di poter fare a meno della dimensione etica e delle religioni che vi contribuiscono. Era anche il pensiero di Einstein, basta leggere il suo testamento spirituale.
Vito Mancuso— Bologna

Ringrazio il professor Mancuso per questo intervento che considero conclusivo della breve discussione su Scienza e Fede, ospitata nella rubrica. Purtroppo ho potuto pubblicare solo parte degli interventi, quasi tutti di notevole qualità e impegno. Le osservazioni di Mancuso, coerenti con il rinnovamento teologico che sta perseguendo libro dopo libro, sono certamente apprezzabili. Tra le umane libertà c’è anche quella di conciliare queste due grandi attività pratiche e di pensiero: la scienza, come avanzamento nella conoscenza; la fede, come riferimento etico, che può non essere necessariamente trascendente. Lo scienziato che non s’interroga sui fini morali di ciò che fa, porta all’estremo il mito negativo di Faust. Non mi pare che ci possa essere dissenso su questo. Resta tuttavia un dato di fondo, anch’esso innegabile, che sta nella diversità metodologica propria dei due campi. La fede, giustamente, non ammette la libera discussione dei suoi presupposti. Avrebbe senso discutere se una donna può restare vergine dopo il parto? La fede va accettata per ciò che è, punto di riferimento immobile nel tempo, proprio per questo fonte di grande consolazione. La scienza al contrario deve mettersi di continuo in discussione, verificare presupposti e risultati, muoversi, scoprire nuovi orizzonti,
cambiare.

Repubblica 7.7.12
Repubblica ha il primato in edicola ed è record di vendite con il Venerdì
L’ultima indagine Ads sui quotidiani conferma il successo


La Repubblica è il primo quotidiano ad essere scelto dai lettori in edicola. I nuovi dati Ads (Accertamenti Diffusione Stampa) che hanno fotografato il mondo della carta stampata in Italia nel maggio scorso mettono il nostro quotidiano davanti ai giornali concorrenti. Ogni giorno, nelle edicole, la Repubblica viene acquistato 340.545 volte, mentre l’accoppiata con il settimanale il Venerdì fa schizzare le vendite a quota 438.487 copie, quasi 100mila in più, dunque. Dietro Repubblica troviamo il Corriere della Sera, che nelle edicole vende 337.017 copie. A seguire, nell’ordine, La Gazzetta dello Sport edizione del lunedì (con 335.682 copie vendute e 219.858 calcolate negli altri giorni) e il Corriere dello Sport-Stadio, anche in questo caso nella edizione più votata al calcio, quella del lunedì (234.133 e 154.463 copie negli altri giorni della settimana). Proseguendo nella classifica, a quota 206.701 troviamo La Stampa, mentre l’altro quotidiano sportivo, Tuttosport, nel primo giorno della settimana raggiunge le 193.643 copie (e 91.740 negli altri giorni). E ancora, il Messaggero segue in classifica con 161.572 copie, mentre le vendite registrate dalle edicole per il Sole 24 Ore raggiungono le 126.971 copie con il Resto del Carlino che segue da vicino il quotidiano di Confindustria a quota 118.011. Se si considera, invece, la diffusione media, il Corriere della Sera risulta al primo posto con 474.395 con il nostro quotidiano che segue a 396.446. Terza piazza per la Gazzetta dello Sport che nella versione del lunedì arriva a quota 366.653 e a 261.250 negli altri giorni. A seguire la diffusione del Sole 24 Ore (262.360). Più giù, a 253.971, ecco la Stampa; a 236.807 il Corriere dello Sport del lunedì (156.904 nelle altre edizioni), con 195.265 Tuttosport nella edizione del lunedì (93.110 la diffusione negli altri giorni). Il Messaggero, invece, raggiunge una diffusione di 176.800. Gli altri: a 137.247 il Resto del Carlino; 129.689 il Giornale; 121.998 per Avvenire, 110.358 per la Nazione, 96.657 per Libero e 78.822 per Italia Oggi. Il Gazzettino arriva a 77.047, e a 67.929 la diffusione del Mattino di Napoli, mentre il Secolo XIX arriva a quota 65.992 con il Tirreno a un passo, con 65.905, il Giornale di Sicilia a 59.153, e il Fatto Quotidiano a 56.380.