martedì 10 luglio 2012

l’Unità 10.7.12
Il Pd, la crisi  e le due sinistre
di Rosy Bindi


VALE LA PENA ENTRARE NEL DIALOGO SULLA SINISTRA ITALIANA AVVIATO SU L’UNITÀ con gli interventi di Mario Tronti e Nichi Vendola, e proseguito ieri con Michele Prospero. È un’occasione per riflettere sulle ambizioni del Pd a un tornante davvero cruciale per il futuro della democrazia in Italia e nel Mondo.
Mi riconosco nella valutazione della crisi economica prodotta dal paradigma neoliberista che ha stravolto, in senso regressivo e autoritario, i connotati delle democrazie sociali europee. Così come condivido l’esigenza di mettere in campo una vera alternativa culturale e politica che abbia il sigillo della radicalità, nel senso etimologico della parola, e perciò sia capace di incidere profondamente su un sistema che in molti ormai considerano non più sostenibile.
Siamo in grado di avanzare questa alternativa e farla diventare proposta credibile e vincente di governo? Penso di sì, a patto di riconoscere e far vivere, sul piano delle idee dell’azione politica, la discontinuità-novità costituita dal Partito democratico.
Non vorrei che il Pd restasse inchiodato a un confronto tra ex sulla natura della sinistra o sull’eterna contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari. Un dialogo che ha il suo fascino e un suo interesse politologico anche se forse un pò retrò, ma che a mio avviso rischia di smarrire la vera posta in gioco: quella di elaborare un nuovo paradigma culturale e politico. Un compito difficile se si resta prigionieri di un’unica tradizione di pensiero, se si resta confinati nella storia della sinistra post comunista.
Non partiamo da zero e come democratici possiamo rivendicarlo, senza arroganza.
La nascita del Pd ha infatti rappresentato la presa d’atto, coraggiosa e lungimirante, dei limiti teorici e storici delle tradizioni politiche e dei partiti del riformismo italiano, di matrice socialista, cattolica e liberale. Quando abbiamo dato vita all’Ulivo non abbiamo semplicemente cercato una nuova alleanza elettorale. Ci siamo invece rispettivamente riconosciuti come non più autosufficienti e abbiamo cercato di superare le nostre arretratezze culturali. Lo abbiamo fatto nel lontano ’96 con la consapevolezza che una risposta, davvero alternativa al “pensiero unico” della destra trionfante nel mondo presupponeva una forte discontinuità nella concezione della democrazia, nel rapporto tra partiti e Stato, tra partiti e società, nel welfare e nelle politiche economiche, nella concezione dell’Europa e nelle relazioni internazionali sia con la socialdemocrazia che con i partiti cristiano popolari e conservatori. Resto convinta che la scommessa di quel nuovo inizio sia stata feconda e il Pd può esserne l’artefice. Il che non significa pensare il nostro partito come autosufficiente, chiuso in se stesso.
Siamo un soggetto plurale e vogliamo essere un partito aperto, che si lascia attraversare dalle domande dei cittadini, che raccoglie le spinte più esigenti e innovative che vengono dalla società.
Che restituisce alla politica la funzione primaria di governo dei processi di trasformazione del mondo e ai partiti quella d’interpretare la realtà ed elaborare un progetto di cambiamento. Un partito di centrosinistra (senza trattino) che non deve pararsi alla sua sinistra o alla sua destra con faticose alleanze, simili alla vecchia Unione.
Tornare a governare il paese non può essere una smentita dell’innovazione e del processo politico che abbiamo avviato con il Pd. Sarebbe come tornare alla “gioiosa macchina da guerra”, la rinuncia alle nostre ambizioni e al cammino che abbiamo fatto insieme.
Il Pd nasce per parlare a tutta l’Italia, non solo a una parte e può avanzare una proposta di coalizione, perché ha già realizzato al proprio interno la sintesi tra radicali e moderati, tra sinistra e centro.
Il sostegno esigente che oggi assicuriamo al governo Monti non mi fa velo nel ritenere questa esperienza una fase di emergenza, del tutto transitoria. Mentre incalziamo l’esecutivo sul terreno di una maggiore equità e di un impegno più stringente per la crescita e l’occupazione, noi affiniamo la nostra proposta programmatica e prepariamo la competizione con il centrodestra. Alle prossime elezioni non ci si va né con le larghe intese né con riedizioni di governi tecnici.
A differenza di Tronti, penso che la destra populista sia ancora corposamente tra noi. Ancora dobbiamo sconfiggerla definitivamente. E da Vendola mi distingue forse un di più di preoccupazione circa i guasti profondi ed estesi, una vera e propria devastazione, prodotta dal lungo ciclo berlusconiano sul piano dalla qualità morale, sociale e democratica della convivenza. Ecco perché, pur essendo perfettamente consapevole delle differenze che separano le forze progressiste e da quelle moderate di centro, penso sia necessario un patto per la ricostruzione economica, civile e morale del Paese. Noi però non annacqueremo il nostro progetto per l’Italia, le nostre proposte per il lavoro, i giovani, le donne, i diritti di cittadinanza e l’Europa, in funzione di un’alleanza con Casini e i moderati.
Amo la nostra Costituzione e la difendo dagli assalti ripetuti di Pdl e Lega. Ma sarebbe un errore intestarla solo a noi. È un patto di convivenza, largo e inclusivo. È bene e giusto che con le forze che si riconoscono in un comune ethos costituzionale, pure politicamente distinte da noi, si faccia un tratto di strada comune. Anch’io, come Tronti, penso che la prossima legislatura debba avere una funzione costituente. E non solo per battere i populismi di vario rito e l’antipolitica che li alimenta e ripristinare una democrazia costituzionale degna di questo nome. Se non riusciremo a condividere la radicalità dell’alternativa, se non sapremo allargare il consenso anche alla ricostruzione delle fondamenta economiche e sociali dell’ Italia e dell’ Europa, sarà davvero difficile uscire dalla crisi con un nuovo modello di sviluppo più giusto, più inclusivo, più umano. E il Pd starà in questa impresa con l’ambizione di pensare alla nuova casa comune dei democratici in Europa e nel mondo.

il Fatto 10.7.12
La Repubblica dei corazzieri
di Antonio Padellaro


E così anche il presidente di Confindustria sta assaggiando il nodoso bastone del regime tecnico e dell’informazione unica. Reo di aver espresso qualche perplessità di troppo sui tagli del governo Monti, ieri mattina il povero Giorgio Squinzi si è preso una bella ripassata da Repubblica e Corriere della Sera che, dopo averlo accusato di essere diventato “rosso” come la Camusso della Cgil, lo hanno ammonito a non provarci più. Come si permette di criticare un esecutivo “che opera in condizioni di emergenza con gli occhi del mondo puntati addosso” (Tito Boeri)? Anzi, sarebbe il caso che “facesse propria la riforma del lavoro targata Fornero” (Dario Di Vico). Comprensibile l’immediata ritrattazione di mister Mapei che, dopo aver detto quel che ha detto sulla “macelleria sociale” in diretta televisiva, ha farfugliato di essere stato “male interpretato”. Faccia il bravo perché poteva andargli peggio, visto che con le sue incaute dichiarazioni “ha fatto salire lo spread” (Monti) e forse anche il termometro della calura. Ormai è tutto un monitare, nella Repubblica dei corazzieri. Alti moniti contro chi osa soltanto pronunciare il nome di Napolitano, eppure così a lungo pronunciato nelle famose telefonate intercorse tra Mancino e il Colle. Monito del segretario Pd contro “alcuni giornali” che si occupano di ciò che dice o manda a dire il Presidente. Monito (via twitter) ai partiti di Cascella, portavoce del Quirinale, affinché concordino una nuova legge elettorale. Insomma, se Bersani fa Cascella e Cascella fa Bersani, la situazione dev’essere grave, ma non seria. Grave, gravissima invece, a leggere certi editoriali. Più grave che negli anni dei tentati golpe, delle stragi nelle banche, sui treni, nelle stazioni? Più grave che ai tempi del terrorismo o di tangentopoli? Non sarà invece che tutta questa “emergenza” rappresenta un alibi straordinario per chi vuole commissariare il Paese, intimorirlo, “rivoltarlo come un calzino” (Monti)? Potendo contare sul suicidio dei partiti e sull’arrendevolezza dei giornali? E se qualche giornale non si arrende, c’è sempre la tecnica del silenzio. Basta non rispondere, come fa il ministro Passera interpellato dal Fatto sulle inchieste giudiziarie che riguardano lui e Banca Intesa quando al vertice comandava lui. Il premier chiederà qualcosa al suo ministro? Forse, ma sottovoce. C’è lo spread, ragazzi, e il mondo ci guarda.

Repubblica 10.7.12
Il procuratore e le intercettazioni di Napolitano


PALERMO - Il procuratore di Palermo Francesco Messineo replica all´editoriale di Eugenio Scalfari che definisce «un illecito» le intercettazioni delle telefonate tra Nicola Mancino, indagato per la trattativa Stato-mafia, e il presidente Napolitano. Per Scalfari, l´intercettazione andava interrotta e la trascrizione distrutta. «Nell´ordinamento attuale - ribatte Messineo - nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l´immediata cessazione dell´ascolto e della registrazione. Alla distruzione si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con la autorizzazione del gip, sentite le parti».
«Dispiace - commenta il procuratore aggiunto Antonio Ingroia che un padre del giornalismo italiano sia incorso in questo grave infortunio, ma non essendo laureato in giurisprudenza glielo possiamo perdonare».

Neanche io, come il procuratore capo di Palermo, dottor Messineo, ho intenti polemici. Nella materia in questione suppongo che il dottor Messineo ne sappia molto più di me vista la professione e il ruolo che ricopre. E pertanto chiedo a lui.
1. L´articolo 90 della Costituzione parla con molta chiarezza delle prerogative del capo dello Stato. O c´è invece un margine di incertezza e di discrezionalità in proposito da parte delle procure della Repubblica?
2. Il capo 2° della legge 5 giugno 1989 n° 219 è intitolato "Norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall´articolo 90 della Costituzione".
3. Il secondo e terzo comma dell´articolo 7 della suddetta legge concernono i reati ministeriali e i provvedimenti di intercettazioni telefoniche e perquisizioni personali o domiciliari. Per i reati ministeriali il comma 2 del suddetto articolo prescrive che quei provvedimenti debbono essere deliberati dal comitato previsto dalla legge ma il comma 3 recita testualmente: «Nei confronti del presidente della Repubblica non possono essere adottati i provvedimenti adottati nel comma 2 se non dopo che la Corte Costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica». Forse questa legge è stata nel frattempo abolita? O è tuttora in vigore? Messineo ne sa più di me e dunque ce lo dica.
4. La Corte Costituzionale, con sentenza del 24 aprile 2002 n° 135 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell´articolo 266 del Codice di procedura penale che si riferisce agli articoli 3 e 14 della Costituzione.
5. Infine il dottor Messineo afferma che quando una conversazione intercettata è irrilevante agli effetti processuali, di essa si dispone la distruzione con decisione del gip e sentite le parti. Poiché in una recente intervista il sostituto procuratore Ingroia ha dichiarato l´irrilevanza della conversazione Napolitano-Mancino ai fini processuali, chiedo al capo della procura di Palermo se la procedura di distruzione di quell´intercettazione sia stata avviata oppure no e in questo secondo caso perché.
(e. s.)

Corriere 10.7.12
«Legge elettorale non rinviabile si proceda anche a maggioranza»
Ultimatum di Napolitano. Il Pd: pronti. Il Pdl: sì, ma le posizioni non coincidono
di Dino Martirano


ROMA — C'è voluta la lettera del capo dello Stato — inviata ieri ai presidenti di Camera e Senato — per destare dal torpore tattico le segreterie dei partiti ancorate in alto mare e sempre distanti da un accordo sulla legge elettorale. Giorgio Napolitano ha scritto a Renato Schifani e a Gianfranco Fini per dare la scossa al Parlamento che ha incardinato ben 35 ddl in prima commissione a Palazzo Madama quasi due anni fa (ottobre 2010): si proceda, è l'esortazione del Colle, «anche rimettendo a quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero quindi aperti a un confronto conclusivo». Confronto, conclude Napolitano riferendosi al dibattito carbonaro fin qui svolto, «che è bene non resti ulteriormente chiuso nell'ambito di consultazioni riservate tra partiti».
Il tempo è scaduto, avverte il presidente: «Stanno purtroppo trascorrendo le settimane senza che si concretizzi la presentazione alle Camere, da parte dei partiti che hanno da tempo annunciato di voler raggiungere in proposito un'intesa tra loro, di un progetto di legge sostitutivo di quella vigente per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato». A Napolitano offre una sponda istituzionale il presidente del Senato, Schifani, che convocherà a ore una conferenza dei capigruppo: «Il Senato — scrive Schifani — sia in sede referente presso la Commissione affari costituzionali, sia in Assemblea, non appena definito il testo, non si sottrarrà all'impegno da Lei autorevolmente invocato pur in presenza di un intenso calendario dei lavori, in questa fase condizionato dall'esigenza di assicurare in via prioritaria l'esame dei numerosi decreti legge presentati dal governo». In ogni caso oggi alle 14 il presidente della I commissione, Carlo Vizzini, riunirà l'ufficio di presidenza per sondare i gruppi. Gianfranco Fini, invece, si è limitato a osservare che la Camera si è fermata «per rispetto del Senato». E che è pronto a convocare anche lui i capigruppo.
La lettera di Napolitano ha dunque dato la scossa ai partiti che forse aspettavano la spallata del Quirinale per uscire da una impasse ingiustificabile davanti agli elettori. E il primo a farsi avanti è Pier Luigi Bersani: «Siamo gli unici ad avere presentato una proposta nostra (di partito, ndr), siamo pronti a discuterne domattina». E questo significa che il Pd ufficialmente riparte dal doppio turno: 433 deputati eletti nei collegi uninominali maggioritari, 173 con il proporzionale su base regionale con lo sbarramento al 5%, 12 con il proporzionale su base nazionale per assicurare il diritto di tribuna alle forze minori. Di preferenze neanche l'ombra nel testo Pd depositato alla Camera e al Senato.
Le preferenze sono un punto che sta molto a cuore all'Udc ma ora Pier Ferdinando Casini non entra nel merito: «Il Parlamento esamini subito la legge elettorale accogliendo il giusto monito del presidente della Repubblica». Nel Pdl, invece, la reazione è più articolata. Il segretario Angelino Alfano si dice pronto a discutere valutando una serie di ipotesi: «La nostra risposta alla condivisibile lettera del presidente della Repubblica è breve e chiara: noi siamo pronti ma su alcune questioni concrete la nostra posizione non coincide con quella del Pd perché siamo orientati ad assegnare un premio di maggioranza al primo partito mentre riteniamo che con i collegi la gran parte della scelta la fa il partito».
E anche Fabrizio Cicchitto insiste su questa strada: «Se finora non c'è stata un'intesa ciò è dipeso non da un capriccio delle forze politiche ma dall'esistenza di linee diverse. Non giochiamo comunque a rubamazzo tra Camera e Senato». Sempre dal Pdl una risposta diversa la dà Maurizio Gasparri: «Va raccolto l'appello di Napolitano ma prima dobbiamo votare gli ultimi articoli che riguardano la riforma costituzionale sul tema dell'elezione popolare del presidente della Repubblica». Prima «c'è questa priorità», insiste il capogruppo al Senato. Nella Lega Maroni applaude: «Bene Napolitano, non vogliamo accordi sottobanco». Ma il capogruppo alla Camera, Gianpaolo Dozzo, avverte: «Non vorrei che l'ibrida maggioranza ora avesse un alibi per procedere a una riforma a suo uso e consumo».

Corriere 10.7.12
Il Quirinale, il sistema «debole» e la responsabilità dei leader


LUBIANA — Un duro ultimatum o un semplice richiamo? Un'aspra bacchettata o un platonico memorandum? Un severo monito o un auspicio rituale? C'è stata quasi una gara, ieri, nei palazzi della politica, per classificare — tarandola ognuno sulle proprie convenienze — la lettera di Giorgio Napolitano ai presidenti di Camera e Senato sulla riforma della legge elettorale. Un affanno interpretativo inutile, visto che quel documento non ha nulla di criptico, non nasconde messaggi di secondo grado e non obbliga a doppie letture.
È invece chiarissimo. Da un lato tradisce la delusione per una mancata intesa che solo nello scorso gennaio pareva a tutti abbastanza facile («stanno purtroppo trascorrendo le settimane senza che si concretizzi…»), con una conseguente e generale messa in mora della classe politica. Dall'altro lato inchioda i leader ad assumersi adesso pubblicamente (in aula, stavolta, e non «nell'ambito delle consultazioni riservate» cui lavorano gli sherpa) le loro responsabilità su tale questione. Per rimetterla subito al centro dell'agenda politica e del confronto. A costo che si debba poi decidere a maggioranza.
Dall'osservatorio del Quirinale, insomma, affiora la sensazione che questo litigioso negoziato infinito possa pericolosamente impantanarsi in una fatale impasse. Cose già viste, nell'eterna tattica del «prendere tempo per perdere tempo», cioè dell'arroccarsi con la scelta deliberata di non scegliere. Con il risultato che, da un rilancio all'altro, la sfida si concluda con una resa proprio quando un accordo sembrava molto vicino. E obbligando così gli italiani a votare — nel 2013 — con il vecchio, e ormai davvero impopolarissimo, sistema del Porcellum.
Ecco il senso della missiva del presidente. Che appare quindi concepita su un doppio registro. Infatti, mentre riassume una denuncia della debolezza del sistema (qualora si dimostrasse, appunto, incapace di una riforma per lui «opportuna e non rinviabile» come questa), nel contempo esercita anche una pressione politica forte, che Gianfranco Fini e Renato Schifani hanno raccolto, impegnandosi in prima persona a coinvolgere attivamente i partiti. Una «sollecitazione» che è logico pensare sia indirizzata in particolare ai partiti maggiori, quelli che compongono l'attuale, e «strana», maggioranza. Non a caso, se Pdl, Pd e Udc non si sentiranno obbligati a trovare una salda e preventiva convergenza prima che il tema approdi in aula, qualsiasi ipotesi di riforma sarebbe esposta al rischio di sabotaggi, interdizioni e ricatti (le parole sono forse un po' troppo enfatiche, ma rendono l'idea) dei partiti più piccoli. E potrebbe uscirne chissà quale pasticciata soluzione. Magari una legge elettorale che non rimetterebbe affatto «nelle mani dei cittadini la scelta dei candidati», come lo stesso presidente della Repubblica aveva chiesto con forza in gennaio, attraverso un suo intervento da Bologna nel quale parlava di «esigenze largamente avvertite dall'opinione pubblica».
Di più. Nell'ultimo messaggio del capo dello Stato è impossibile non sentir risuonare come un basso continuo la preoccupazione che, se non ci si concentrerà davvero su qualche riforma minima, chiudendola in positivo, qualche tensione supplementare si scarichi sul governo. E, si sa, su questo esecutivo alle prese con una crisi che non smette di mordere, Giorgio Napolitano esercita un tutorato molto attento. In nome dell'interesse nazionale, se è vero che la stessa incertezza politica del prossimo futuro — come è stato osservato da più parti, pure in Europa, dove si favoleggia l'ipotesi di una conferma per Monti a Palazzo Chigi oltre il 2013 — favorisce le impennate dello spread e le febbri del mercato.
La scommessa per portare a compimento qualcosa di buono al di là delle «riforme radicali» per le quali il capo dello Stato non avverte «il clima giusto», si apre ora. Almeno questo spera Napolitano che, dopo aver spedito la sua lettera, è volato a Lubiana in visita di Stato. Seguirà da qui gli sviluppi del suo nuovo ammonimento.

Corriere 10.7.12
Spinta ai partiti per tentare di uscire dall'immobilismo
di Massimo Franco


D ovrebbe suonare come un richiamo naturale, dettato dal buonsenso; e teso a superare l'immobilismo di fatto che i partiti stanno mostrando in materia di riforma elettorale. Dalla lettera che ieri Giorgio Napolitano ha mandato ai presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini, filtra la volontà di scuotere le forze politiche; e di trasferire al Parlamento il compito di raggiungere un compromesso che finora si è rivelato impossibile. In apparenza, il messaggio del capo dello Stato è stato accolto bene, e sta producendo effetti immediati e positivi. Eppure, dietro la disponibilità totale mostrata da Pd e Udc, e dietro il «sì» più articolato offerto dal Pdl, si coglie qualcosa di inespresso: quasi un filo di imbarazzo, se non di mal celata irritazione, per un'iniziativa che costringe gli interlocutori a scoprire un dialogo faticoso e segnato dalle diffidenze e dai veti.
Le incomprensioni non sono solo fra leader. I contrasti rimangono irrisolti e la riforma non spunta per le differenze che dividono Pdl, Pd e Udc; ma anche per le divergenze all'interno dei due partiti maggiori dell'alleanza che sostiene Mario Monti e il suo governo tecnico. L'ipotesi che si vada a un «premio di coalizione» per chi ottiene più voti, oppure a una quota di seggi in più al partito che vince, non è neutrale: in qualche misura prefigura gli scenari futuri. L'ipotesi è che nel primo caso, la spinta prevalente sarebbe quella a creare «cartelli elettorali» in grado di vincere ma forse non di governare a lungo: è già successo in passato. Nel secondo, l'approdo probabile sarebbe un esecutivo di unità nazionale. Ma il problema è l'entità del premio.
Il Pdl non accetta l'idea di aggiungere un 15 per cento ipotetico a un Pd proiettato, secondo i sondaggi, verso una maggioranza relativa del 25: il segretario, Angelino Alfano, lo spiega esplicitamente rispondendo a Napolitano. Allo stesso tempo, un Bersani già in affanno per far digerire ai suoi il ritorno a un sistema proporzionale, non si entusiasma davanti all'ipotesi di una vittoria del centrosinistra frustrata da meccanismi elettorali «da pareggio». Sono posizioni distanti ma non del tutto inconciliabili. Per paradosso, potrebbe essere più spinoso il tema del ritorno alle preferenze rispetto ai collegi uninominali: un argomento sul quale Pdl e Udc sono vicini rispetto al Pd.
Ma il sospetto di Napolitano è che le distanze siano dilatate strumentalmente per lasciare le cose come stanno. È un dubbio che riaffiora quando il partito di Silvio Berlusconi alza il tiro proponendo di approvare alcune riforme costituzionali: sebbene in realtà oggi abbia interesse a cambiare almeno quanto gli altri. Di fronte a posizioni così sfaccettate e intricate, non è scontato che il Parlamento riesca lì dove le mediazioni partitiche non sono bastate: tanto più che su una materia già delicata minaccia di innestarsi una larvata competizione fra Senato e Camera sul luogo più adatto per iniziare il dibattito. Il Pdl addita l'aula di palazzo Madama, temendo «un gioco a rubamazzo» da parte dell'ex alleato Fini.
Non solo. L'accenno di Napolitano alla «volontà maggioritaria delle Camere», qualora su alcuni punti non si trovasse «una più larga intesa preventiva», evoca il rischio teorico di una riforma non condivisa da tutti: un epilogo che si vuole evitare per non avere un sistema elettorale di parte, come avvenne con il vituperato «Porcellum» che i partiti ora disconoscono. La lettera del capo dello Stato, con «l'autorevole preoccupazione» che esprime e che Schifani fa propria, rappresenta d'altronde un ammonimento a non perdere tempo; a rassicurare l'opinione pubblica che una decisione verrà presa, e presto. È come se Napolitano ribadisse che non può essere lasciata cadere anche questa sfida, dopo quella delle riforme istituzionali. Ma c'è chi guarda già oltre l'estate, convinto che la riforma possa attendere.

Repubblica 10.7.12
Lo scandalo del Porcellum
di Carlo Galli


I primi sei mesi dell´anno sembrano passati invano dal punto di vista delle riforme. I partiti non le fanno, insensibili all´emergenza civile e democratica in cui versa il Paese, esito temibile ma sempre più vicino di una crisi economica di cui prova a farsi carico Monti, e di una crisi politica il cui solo interprete credibile è il capo dello Stato. Napolitano sta cercando nei modi a sua disposizione – cioè esercitando una moral suasion di grande impegno e di largo respiro – di fare del nostro sistema politico una democrazia decidente.
Sta cercando di trasformare le chiacchiere in azione, il gretto e miope interesse di parte in contributo all´interesse nazionale. Miope è infatti quell´interesse che spinge i partiti – ma soprattutto il Pdl e la Lega – a cercare di confezionarsi una legge elettorale su misura (come fu peraltro il Porcellum di Calderoli, ideato per attenuare – con successo, come si vide – gli effetti della vittoria elettorale di Prodi nel 2006); col risultato di estenuarsi in trattative riservate (ultima debole figura degli arcana imperii) dalle quali escono proposte mostruose, subito abortite perché non vitali, che vogliono mettere insieme le frattaglie di questo e di quel sistema elettorale, combinando ciò che non può essere combinato – tutto va bene, purché alla fine sia salvo il supremo valore di ciascun partito: la propria sopravvivenza, senza la quale pereat mundus, vada in rovina tutto quanto –. La pretesa di garantire tutto e tutti – di neutralizzare la volontà dei cittadini, di minimizzare l´esito delle elezioni, poiché non le si può proprio evitare – porta con sé naturalmente la ridda dei veti incrociati e in ultima istanza la paralisi: ossia, la conferma del Porcellum (forse con qualche marginale aggiustamento sulle preferenze), che assurge così a emblema dell´impotenza del sistema dei partiti, e anche a simbolo dei loro desideri più profondi: nominare il Parlamento, divorare la rappresentanza del popolo.
È, questa, una nuova edizione della logica della tela di Penelope, fondata sul meccanismo del "rilancio": poiché non si può dire semplicemente No al cambiamento, è meglio spostare il confronto ad altezze del tutto impraticabili, come fa il Pdl: per il quale la riforma elettorale deve essere preceduta da una modifica costituzionale della forma di governo, cioè dall´introduzione del presidenzialismo su base elettiva; che è come rinviare il fattibile a quando sarò realizzato l´infattibile. Ovvero, è fingere di darsi molto da fare perché nulla cambi. Una pratica miope, appunto, perché non vede che un´autentica riforma elettorale è l´unica via ancora percorribile per rilegittimare la politica – come sul versante economico la ripresa può legittimare i tagli della spesa pubblica –; che, insomma, la sopravvivenza dei partiti è garantita, eventualmente, dall´introdurre soluzioni che diano ai cittadini qualche motivo e qualche stimolo per votarli, e non certo dal permanere, offensivo e deprimente, di uno status quo che dimostrerebbe al di là di ogni ragionevole dubbio che l´Italia non ha un ceto politico ma, davvero, una corporazione, una Casta, destinata in quanto tale a perire sotto la marea montante dell´astensionismo e del grillismo. E a trascinare con sé il Paese.
Che il capo dello Stato indichi non solo l´obiettivo (una riforma reale, presto) ma anche la via (larghe intese fin che si può, e poi decisione a maggioranza in Parlamento – procedura del resto correttissima –), significa che Napolitano ha percepito che la melina dei partiti non è una tattica da cui ci si debba aspettare un fulmineo contropiede capace di portare a casa il risultato, ma è segno di una stanchezza radicale della nostra politica, di una vera impotenza del potere; e significa anche che l´ultima scintilla di energia del sistema politico sta in lui, nella sua persona e nella sua carica. E infatti la sta usando per spronare ceti dirigenti riottosi, pezzi di élite riluttanti, a fare quello che dovrebbe essere il loro dovere: assumersi finalmente qualche responsabilità a fronte del potere che è stato loro demandato, di cui pare non sappiano fare uso politico, ma solo privato (cioè, in questo caso, partitico).
Il ceto politico è una parte importante delle élite di un Paese. Il fatto che – nella sua maggioranza – non sappia affrontare alcun rischio, né assumersi alcuna responsabilità, né riconoscersi in un orizzonte generale a cui chiamare il Paese, ma pensi solo (e malamente) a se stesso, non è che una parte del nostro più grave problema: l´assenza (o la presenza minoritaria) di élite degne di questo nome, lo sfrangiarsi dell´establishment in innumerevoli cordate che parlano ormai solo il dialetto locale delle categorie e ignorano la lingua nazionale della politica. Quella che parla Napolitano, e che per gli uomini di buona volontà è davvero l´ultima chiamata.

Corriere 10.7.12
Un'accelerazione che mette in difficoltà soprattutto il Pd
di Francesco Verderami


ROMA — Toccare il sistema elettorale è come metter mano alla legge sulla relatività, perché un nuovo meccanismo di voto si porterebbe appresso un nuovo sistema politico: non muterebbero infatti solo le regole del gioco per la futura sfida di Palazzo Chigi, ma cambierebbero anche i protagonisti della prossima corsa al Quirinale. Sarebbe insomma un'autentica rivoluzione. Così si spiegano le difficoltà che stanno incontrando le forze della «strana maggioranza» a trovare un'intesa sulla riforma. Ed è vero che Napolitano aveva anticipato ai leader un suo intervento, qualora non fossero riusciti a superare lo stallo. Ma nonostante questo, la mossa del capo dello Stato ha destato sorpresa in tutti i palazzi della politica, malgrado tutti si siano affrettati a condividere il suo messaggio.
A ferire non sono state tanto le parole con le quali il presidente della Repubblica ha chiesto che le trattative non restino «al chiuso» delle «consultazioni riservate», sebbene i precedenti storici — dal Mattarellum allo stesso Porcellum — raccontino che le intese su un tema così delicato sono sempre state raggiunte prima di approdare alle Camere. A stupire è stato soprattutto il passaggio in cui Napolitano, esortando a rompere gli indugi, ha prospettato la possibilità che la legge si formi attraverso il voto delle maggioranze in Parlamento.
Nessuno mette in dubbio che il Quirinale abbia cercato di offrire una soluzione per superare l'impasse. L'inquilino del Colle, peraltro, ha voluto spiegarlo ai suoi interlocutori: piuttosto che «restar impantanati in un negoziato» senza sbocchi, il confronto nelle Camere darebbe «l'opportunità di arrivare a un accordo» che altrimenti rischierebbe di non concretizzarsi mai. Ma la preoccupazione, bipartisan, è che in Parlamento si inneschi la logica del muro contro muro, che voti segreti e maggioranze variabili partoriscano una riforma frutto di un patchwork legislativo e non di un progetto ordinato.
Il punto è che ormai diventa difficile tornare indietro. Non c'è più molto spazio per ulteriori mediazioni «riservate». Ed è come se ieri Napolitano abbia di fatto dettato il fixing, siccome il punto di partenza da cui avviare il confronto in Parlamento è quella bozza scritta dagli sherpa di Pdl, Pd e Udc, con le notazioni a margine sui nodi controversi della trattativa. Dal quadro sinottico emerge il posizionamento dei tre partiti, e s'intuisce che la sortita del Colle mette in difficoltà soprattutto il Pd. Come notava ieri Casini — analizzando le diverse posizioni — «in effetti c'è una convergenza oggettiva tra noi e il Pdl», entrambi sostenitori delle preferenze e di un premio di maggioranza basso (il 10%) da affidare al primo partito.
La «convergenza» coinvolgerebbe anche la Lega. Sebbene Maroni dica «no ad accordi sottobanco», il Carroccio è della partita. La scorsa settimana infatti Calderoli ha incontrato Verdini, garantendosi un emendamento che va a vantaggio del movimento padano, laddove nella bozza è scritto che se un partito non raggiungesse il 5% su base nazionale, parteciperebbe comunque all'assegnazione dei seggi qualora superasse il 10% «in almeno due circoscrizioni». È chiaro che un'eventuale maggioranza sulla legge elettorale non sarebbe una maggioranza politica. Ma è altrettanto chiaro il motivo per cui Bersani sia risentito. Contrario com'è alle preferenze e a un premio di maggioranza «troppo basso», il leader del Pd ritiene che «con una simile riforma elettorale staremmo a mezza via tra Tangentopoli e la Grecia».
Evocando Atene, il capo dei Democrat fa capire che questo modello di voto sarebbe il preludio alla grande coalizione, perché nessuna forza politica — sondaggi alla mano — può vantare numeri tali da bipolarizzare il sistema. Ecco come il montismo potrebbe sopravvivere a Monti, con una differenza sostanziale rispetto all'attuale assetto: la prossima guida del governo toccherebbe a un politico. Non a caso Bersani ieri sul Corriere ha sottolineato che «toccherà a noi creare la maggioranza»: è stato un modo per replicare a Monti che appare orientato a restare in campo, per avvisarlo che spetterebbe comunque al partito uscito vincente dalle urne incaricarsi di costruire l'alleanza di governo. È il modello tedesco, che ha consentito alla Merkel di trovare un'intesa — dopo il voto — con l'Spd, e di diventare cancelliere.
Altre deleghe ai tecnici non sono contemplate, pena l'abdicazione definitiva dei partiti. Resta il fatto che il futuro di Monti in politica è separato dalle decisioni sulla legge elettorale. Un conto è la riforma del sistema di voto che potrebbe portare alla grande coalizione, altra cosa è il destino del professore, che — come dice spesso il capogruppo del Pd Franceschini — potrebbe avere «lo stesso cursus di Ciampi», diventato ministro dell'Economia dopo esser stato presidente del Consiglio e prima di venir eletto al Quirinale: sarebbe un segnale di garanzia per l'Europa e i mercati. Certo è difficile disegnare oggi i futuri scenari, ma una cosa è certa: se cambiasse la legge elettorale cambierebbero anche gli sfidanti per la corsa al Colle.

Repubblica 10.7.12
Franceschini: qualunque modello passi il nostro progetto è l’alleanza progressisti-moderati
"In aula si vedrà finalmente chi fa sul serio e chi ostacola. Le preferenze? Pericolose"
Proponemmo di far marciare le riforme al Senato e la legge elettorale alla Camera ma Schifani disse no
I capisaldi: vincolo di coalizione con premio di maggioranza, sbarramento alto, via le liste bloccate
di Giovanna Casadio


ROMA - Il punto d´incontro per cambiare la legge elettorale potrebbe essere il ritorno alle preferenze. Anche se alcuni nel suo partito hanno aperto, il Pd si oppone onorevole Franceschini? «Le preferenze sono belle da dire e drammatiche da applicare. Non viviamo nel mondo delle favole, l´ultima volta che si votò alle politiche con le preferenze fu nel 1992: i miliardi spesi in quelle campagne elettorali sono finiti in buona parte nell´inchiesta di Tangentopoli. Le preferenze comportano costi elevatissimi, con tutti i rischi che ne seguono. Non a caso in nessun grande paese d´Europa si vota con le preferenze, né in Spagna, né in Francia, né in Germania, né in Inghilterra. La via maestra sono i collegi uninominali che consentono agli elettori di scegliere la persona da cui far rappresentare il proprio territorio». Ma fate sul serio? Finora è sembrata solo melina tra i partiti. Tant´è che è arrivato il nuovo appello di Napolitano: ci vuole il capo dello Stato per scuotervi? «Le parole del presidente della Repubblica sono utili per portare tutta la questione nelle sedi istituzionali in modo trasparente, alla luce del sole così che si capisca con chiarezza chi vuole fare la legge elettorale e chi non vuole farla». E voi del Pd volete davvero cambiare il Porcellum? «Assolutamente sì. Noi abbiamo contrastato la "legge porcata", quando fu approvata con un colpo di mano della maggioranza alla fine della legislatura, nel 2005. Non abbiamo mai avuto i numeri, né li abbiamo ora, per cambiarla. Ma è dall´inizio di questa legislatura che mettiamo in cima alle nostre priorità l´esigenza di restituire ai cittadini-elettori il diritto di scegliersi gli eletti, che gli è stato tolto con le liste bloccate del Porcellum». Però siete finiti nel pantano. Insieme a Pdl e Udc avete fatto e disfatto. Prima il modello ispano-tedesco, poi il ritorno all´idea del Pd sul doppio turno; infine la trovata del "Provincellum". Risultato? «Quando è nato il governo Monti, in base a una "divisione dei compiti", fu detto che al governo era affidata la missione economia-crisi e il Parlamento si sarebbe impegnato a fare alcune riforme istituzionali, a cominciare dalla riduzione dei parlamentari e dalla legge elettorale. Proponemmo che i due percorsi andassero avanti parallelamente, facendo marciare le riforme costituzionali al Senato e trasferendo l´iter della legge elettorale alla Camera. Ma Schifani ha sempre risposto "no". È ancora tutto là. E Gasparri ripete che prima si devono completare le riforme costituzionali, e poi... Il tempo passa. Di chi è la colpa del nulla di fatto? «In fondo, nel crepuscolo, a Berlusconi e alla Lega va bene conservare le liste bloccate, penso faccia molto comodo per tutelare chi va tutelato». Quali sono i presupposti irrinunciabili per voi? «Ci sono tre punti, su cui mi pareva si fossero fatti passi avanti nella trattativa: soglia di sbarramento più alto, per ridurre la frammentazione dei troppi partiti; vincolo di coalizione con premio di maggioranza; superare le liste bloccate, perché siano gli elettori a scegliere. Questi sono i capisaldi di una possibile mediazione. Noi siamo però per il doppio turno. Se c´è ancora melina, noi ci presenteremo in aula con la nostra proposta». Il modello elettorale condiziona la politica del post-voto, nel senso che ci sono leggi che favoriscono l´ipotesi di una grnde coalizione e altre no? «Le leggi elettorali oggettivamente condizionano molto il sistema politico. Ma il progetto del Pd, indipendentemente da quale modello passa, resta la stesso: un´alleanza tra progressisti e moderati per battere le destre, il qualunquismo e per riuscire poi a governare il paese del dopo Monti». Da uno a dieci, lei quanto scommette su una nuova legge elettorale? «Cento, per la nostra volontà. Non posso fare previsioni, perché servono i numeri e perché tra le parole e i fatti del Pdl c´è al momento una distanza enorme».

Repubblica 10.7.12
La svolta di democratici e berlusconiani una riforma per la grande alleanza
Bersani: mai più l’Unione. Il Cavaliere: Monti nel 2013
L’ex premier sa che di fronte ad una sconfitta le larghe intese diventano un salvagente
Il leader Pd: è pazzo chi pensa che si passerà dal governo dei tecnici al Cencelli
di Goffredo De Marchis


ROMA - Lontano dagli incontri a Palazzo Grazioli, dal pressing dei suoi per mettere in mora Mario Monti e il suo governo, Silvio Berlusconi ragiona sulla Grande coalizione per il 2013. Con il Professore in sella e il centrodestra dentro. «Certo», è la risposta del Cavaliere a chi gli chiede se l´ipotesi della "strana" maggioranza possa andare avanti anche dopo il voto. Quando a chiederglielo, ovviamente, non è Daniela Santanchè. Per questo il Pdl lavora a una legge elettorale incentrata sulla forza dei partiti e non delle coalizioni che li costringerebbe a presentarsi agli elettori sostituendo la Lega con la Destra di Storace. Il salasso di consensi sarebbe inevitabile.
Al netto del via libera a liste e listini improbabili, non sorprende che Berlusconi lavori sul tavolo della probabile sconfitta. Per i partiti che i sondaggi indicano come perdenti, le larghe intese sono sempre un miraggio piacevole. Una ciambella di salvataggio, un´assicurazione sul futuro. Monti però dovrebbe rinunciare all´annuncio della disponibilità a un bis come ha fatto trapelare domenica in Provenza. «Significherebbe che in autunno il governo è finito - avverte il pdl Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera -. Quando ancora si devono votare la legge di stabilità e i decreti di fine anno. Impossibile». Ma il motivo è anche un altro: nel caso di un annuncio, Pdl e Pd rischierebbero scissioni profonde, con ali piuttosto grandi pronte a trasferirsi dentro uno schieramento montiano non più tecnico ma politico. Ecco perché anche i democratici filo-Monti frenano sulla scesa in campo del premier. Preferiscono invece andare incontro al centrodestra per trovare un´intesa sulla legge elettorale.
A sorpresa Enrico Letta apre sulle preferenze, una delle battaglie di Alfano e Berlusconi. «La politica non può permettersi di tornare alle elezioni con il Porcellum. Perderebbe la faccia e qualsiasi credibilità. Meglio cercare una soluzione anziché alzare bandiera bianca», dice il vicesegretario del Pd. Via le liste bloccate, via i collegi. Tutto pur di arrivare al risultato. «Perché c´è una sola certezza: con il Porcellum Monti verrebbe tagliato fuori», dice terrorizzato Paolo Gentiloni. E il Partito democratico finirebbe in una coalizione quasi obbligata con Vendola e Di Pietro. Un incubo per chi difende le riforme del governo tecnico. «Il Pd non vuole Monti a Palazzo Chigi nel 2013. Ma vuole sicuramente l´agenda Monti anche per il futuro», spiega Letta. «Continuità è la parola d´ordine. Nessuna retromarcia sulle riforme del lavoro e delle pensioni. E sulla spending review», precisa Gentiloni.
È una linea condivisa da Veltroni e D´Alema. Ma le prossime mosse dipendono molto dalla legge elettorale. «Preferenze e nessun premio di maggioranza sono la strada giusta», dice Rocco Buttiglione. Questa è la posizione dell´Udc. Non a caso è anche la via più semplice per un Monti bis. I partiti possono decidere alleanze e presidente del Consiglio dopo il voto. Un premio di maggioranza, anche piccolo, è invece la scelta che accomuna Pd e Pdl. Al primo serve per far ruotare una nuova maggioranza attorno al suo centro, e quindi conservare intatte le chance di Pier Luigi Bersani di andare a Palazzo Chigi. Al secondo è indispensabile per non lasciare le praterie moderate a Casini. Se però il segretario del Pd non vuole perdere il treno di un´intesa con i centristi, deve stare attento a stringere troppo con il Pdl sul premio. Così si spiega lo stop del braccio destro di Bersani Maurizio Migliavacca, pur in presenza del monito del capo dello Stato.
Bersani difende il suo ruolo e la sua aspirazione. Non ha mai detto che vuole stravolgere l´agenda Monti e non seguirà lungo questa deriva l´ala sinistra del partito, da Stefano Fassina a Matteo Orfini. E sul no al Porcellum ci ha messo la faccia. Il segretario non intende avallare un ritorno dell´Unione ed è stato il primo ad aprire la porta ai tecnici per il 2013: «Oggi abbiamo il governo dei competenti. È un pazzo chi pensa che dopo arriverà il governo degli incompetenti, magari fatto col Cencelli». Le correzioni all´azione di Monti le ha già indicate con chiarezza. Ed è convinto che sulla strada di un programma serio e rispettoso dei vincoli europei si possa portare anche Sel. Certo, sa che in caso di pareggio o di un´emergenza continua sarà difficile rinunciare all´autorevolezza del premier. «Non succederà come in Grecia dove si è tornati subito al voto dopo un tentativo fallito», sottolinea Francesco Boccia. Il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello condivide: «La democrazia deve fare il suo corso. Ma nessuno può escludere la Grande coalizione».

il Fatto 10.7.12
Li chiamano “sprechi” ma tagliano sanità e ricerca
7 mila posti letto in meno negli ospedali dal 2013 L’elenco degli enti che dovranno rinunciare a 209 milioni
di Caterina Perniconi


Letteralmente “spending review” significa revisione della spesa. In questo caso, quella pubblica. Ma leggendo con attenzione il decreto emanato dall’esecutivo di Mario Monti, più che una verifica degli sprechi si trovano una serie di tagli lineari a comparti come quelli della sanità e della ricerca, che tutto sembrano tranne razionalizzazioni.
Il messaggio è chiaro: noi riduciamo i trasferimenti per fare cassa, voi pensate dove potete sforbiciare. E così, dal 2013, gli ospedali offriranno 7 mila posti letto in meno sul territorio nazionale (la media scenderà da 4,2 ogni 1000 abitanti a 3,7). Una stima fatta dal ministro Renato Balduzzi che prevede la riduzione di 7,9 miliardi di finanziamenti al servizio sanitario in tre anni, sommando all’ultimo decreto gli effetti della manovra Tremonti del 2011. Una “scure devastante” secondo il presidente dell’Associazione chirurghi ospedalieri, Luigi Presenti: “Non sarà una razionalizzazione ma un peggioramento in prestazioni e sicurezza”.
Tagli altrettanto significativi colpiranno la ricerca. Nel prossimo triennio gli enti riceveranno 209 milioni in meno, 33 nel 2012 e 88 rispettivamente nel 2013 e nel 2014. “Nel caso in cui per effetto delle operazioni di gestione la predetta riduzione non fosse possibile – si legge nel decreto emanato dall’esecutivo – per gli enti interessati si applica quanto previsto dal precedente comma 3”. Ovvero una riduzione pari al 5% della spesa per i consumi intermedi nel 2012 e al 10% dal 2013. La cifra più eclatante è quella dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – reduce dal coinvolgimento nella scoperta del bosone di Higgs – che dovrà rinunciare a 9 milioni quest’anno e 42 tra nel prossimo biennio. Il Cnr perderà complessivamente 38 milioni mentre l’Agenzia spaziale italiana dovrà tagliarne 6,5. L’Istituto nazionale di astrofisica rinuncerà a un milione e mezzo, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia perderà 4 milioni mentre quello di Oceanografia e geofisica sperimentale circa 3. Tagli anche per il Consorzio scientifico di Trieste (4,5 milioni), l’Istituto italiano di studi germanici (130 mila euro), quello di Alta matematica (300 mila euro) l’I- stituto di ricerca metrologica (2 milioni) il Museo storico della Fisica (350 mila euro) la Stazione geologica Dohrn (1,6 milioni) e l’Istituto per la valutazione (70 mila euro). Ieri il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, ha assicurato che si batterà per recuperare una parte dei fondi del suo dicastero, ma appare ormai evidente come gli investimenti in formazione e ricerca non siano una priorità nemmeno di questo governo. Fisici e ricercatori si sono appellati a Giorgio Napolitano definendo “devastanti” le misure annunciate. “I nostri scienziati sono pochi e meritevoli – ha dichiarato la presidente della commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni – si stanno accanendo su una delle componenti migliori del Paese che all’estero invece viene valorizzata”. Per questo molti dei nostri ricercatori decidono di emigrare e pochi tornano in patria. Per non parlare della cifra sempre minore di stranieri che sceglie l’Italia per lavorare. In una ricerca presentata ieri dal nuovo think tank, guidato dal senatore democratico Ignazio Marino “I think”, si fa il conto di qual è il prezzo che il Paese paga per il merito che esporta all’estero: in 20 anni la fuga di cervelli ha creato un danno pari a 4 miliardi, come una manovra finanziaria, per il mancato ritorno economico della formazione, che sale alla cifra record di 861 miliardi se si contano i brevetti depositati dai “top scientist” italiani all’estero. Del resto nel nostro Paese c’è spazio solo per 70 mila ricercatori contro i 147 mila del Regno Unito, i 155 mila della Francia e i 240 mila della Germania. E se il milione e 150 mi-la scienziati americani è una cifra irraggiungibile, una lezione ce la danno i giapponesi con 640 mila ricercatori: mai sotto-posti a una spending review.

il Fatto 10.7.12
Caso Passera, l’imbarazzo di Monti
Il premier tace, ma programma un incontro col ministro indagato
di Carlo Tecce


L’ha presa malissimo Ma-rio Monti quando ha letto che il ministro Corrado Passera, la pedina che lega il governo con il sistema bancario e il gruppo cattolico, è indagato per presunti irregolarità fiscale di Banca Intesa. Il professore ha aspettato invano un chiarimento pubblico o privato, e non ha smaltito il fastidio con il comunicato della Procura di Biella che parlava di atto dovuto. Monti non riesce a nascondere - raccontano fonti di Palazzo Chigi - l’imbarazzo che lo insegue sin dal primo giorno in cui ha appreso la notizia. E ancora non ha deciso cosa fare: convocare Passera per un colloquio sul tema oppure chiedere e ottenere una spiegazione sui giornali o in televisione? Non si può tacere all’infinito, anche se l’inchiesta di Biella è scivolata senza lasciare traccia fra i giornali e i programmi tv. Per il momento, il premier cova un silenzioso imbarazzo perché il peso politico di Passera è superiore ai sottosegretari Carlo Malinconico (vacanze pagate a sua insaputa) o Andrea Zoppini (frode fiscale e dichiarazione fraudolenta), subito via con dimissioni spontanee senza far mantecare la polemica. Da Palazzo Chigi fanno notare che Monti non è abituato a interventi netti, e citano il ministro Filippo Patroni Griffi, finito nel putiferio per un appartamento al Colosseo comprato a prezzi di saldo e saldamente al suo posto.
IL PROFESSORE lascia al collaboratore coinvolto in vicende giudiziarie (o inchieste giornalistiche) decidere l’uscita più degna e più giusta. Però, e su questo non transige, vuole dare l’immagine di un governo onesto e inappuntabile. Anzi, lui vuole averne la sensazione: e dunque, di ritorno da Bruxelles, Monti avrà un incontro con Passera per dissipare qualsiasi dubbio oppure, se l’esito fosse negativo, prendere le decisioni più drastiche.
Il rapporto fra il professore e l’ex banchiere con il tempo va peggiorando per le reciproche ambiziosi: Passera sta pensando (e costruendo) il futuro in politica, che gli è costato la milionaria buonuscita come amministratore delegato di Banca Intesa; Monti deve completare la missione per cui il Quirinale l’ha precettato, puntando - semmai - proprio al Colle più alto di Roma o al secondo mandato a palazzo Chigi. La convivenza è inevitabile.
Passera rappresenta un pezzo sensibile di mondo cattolico e gestisce il ministero teoricamente più imponente che unisce le comunicazioni, i trasporti e lo sviluppo. Però, gli episodi che li hanno divisi sono numerosi. La riforma del lavoro è stata una campagna quasi personale di Elsa Fornero, ben tollerata e assecondata da Monti, mentre l’ex banchiere partecipa agli incontri nel ruolo di osservatore. Viceversa, il professore ha subito la tessitura insistente di Passera - che mira a una candidatura in primavera - verso le cooperative, le associazioni, i movimenti. L’ultima esibizione all’assemblea di Coldiretti, dove il ministro competente Mario Catania (Agricoltura) sembrava una comparsa accanto al Passera, sicuro, che si batteva la mano sul petto durante l’Inno di Mameli e s’alzava di scatto per salutare con la mano monsignor Mariano Crociata. Quando si vedranno, non saranno baci e abbracci.

l’Unità 10.7.12
I partiti innovatori scelgano la via degli Stati Uniti d’Europa
di Pier Virgilio Dastoli
Presidente del Movimento Europeo


IL CONSIGLIO EUROPEO DEL 28 E 29 GIUGNO HA TIMIDAMENTE APERTO UNA FINESTRA A MODIFICHE AL TRATTATO DI LISBONA NEL QUADRO DEL RAFFORZAMENTO DELL’UNIONE MONETARIA. Anni fa Tommaso Padoa Schioppa diceva che occorre risolvere la dicotomia fra governance economica europea e governi politici nazionali procedendo sulla strada di un governo politico europeo con poteri limitati ma reali. Vediamo se le decisioni del Vertice danno ragione a Padoa Schioppa e vediamo quel che si dovrebbe fare per creare un governo europeo. Aprendo la finestra i capi di Stato e di governo si sono affrettati a precisare che sono solo essi i titolari (nel testo inglese si parla di ownership: proprietà) dei trattati.
Qualcuno si sarebbe aspettato una reazione forte dell’assemblea di Strasburgo per rivendicare non solo i poteri formali che le sono stati attribuiti dal Trattato ma il suo ruolo di rappresentante dei cittadini che l’hanno eletta. La risoluzione approvata dal Parlamento Europeo il 4 luglio «plaude» invece e «si compiace» per le decisioni prese dal Consiglio europeo considerandole «importanti e sostanziali tappe fondamentali» associando al plauso anche la foglia di fico di un piano di crescita privo di reale impatto su un economia europea in fase di recessione, chiede di essere coinvolto su un piano di parità con il Consiglio e sollecita infine la Commissione «a presentare in settembre un pacchetto di misure legislative» per attuare nello stesso tempo i quadri finanziari, di bilancio, di politica economica integrati e la legittimità e responsabilità democratica nel processo decisionale dell’unione monetaria.
Nulla dice l’assemblea di Strasburgo sul sigillo di proprietà messo dai governi sulla riforma dell’Unione né ricorda che il Trattato le attribuisce un ruolo di proposta per la revisione dei trattati. Sarebbe interessante capire in che misura il pacchetto di misure legislative proposto dalla Commissione possa garantire, se e quando adottato, la legittimità e responsabilità democratica del processo decisionale europeo.
La strada verso l’Europa federale, richiamata da Jacques Attali su queste colonne ricordando il manifesto del 9 maggio da lui promosso insieme al Movimento europeo, è impervia e per questo richiede una determinazione politica che ci possiamo attendere dai partiti innovatori europei. Il Movimento europeo è convinto che un’iniziativa europea che associ partiti e organizzazioni della società civile debba essere presa rapidamente per chiarire gli elementi essenziali del progetto, l’agenda ed il metodo per raggiungere l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa. Per quanto riguarda il progetto, noi riteniamo che l’esercizio avviato dal Consiglio europeo non possa limitarsi ad una “genuina unione economica” né tanto meno a garantire la sola legittimità democratica dei governi nazionali ma debba mettere in discussione l’intera integrazione politica ponendo la questione della cessione di sovranità in aree che sono ancora di proprietà degli Stati membri come la dimensione sociale, i flussi migratori, la lotta alla criminalità organizzata, la sicurezza energetica e lo sviluppo delle energie rinnovabili, la politica industriale e, naturalmente, la politica estera e della sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa. Ma la cessione di sovranità sarà possibile solo all’interno di un quadro democratico europeo nel quale siano garantiti i diritti del Parlamento europeo e la partecipazione dei cittadini. Per quanto riguarda l’agenda, Romano Prodi ci ha ricordato che il termine ad quem sono le elezioni europee della primavera 2014 sapendo che bisogna prepararle con un grande dibattito pubblico sull’avvenire dell’Europa e che con le elezioni europee deve ripartire un processo costituente.
Per quanto riguarda il metodo, il Movimento europeo ritiene che la via migliore sarebbe l’attribuzione al Parlamento Europeo che sarà eletto nel 2014 di un mandato costituente come avvenne il 10 settembre 1952 su proposta del governo italiano o, in mancanza di un accordo unanime, dell’elezione di un’assemblea costituente ai cui lavori possano contribuire leader nazionali ed europei ed il cui risultato venga sottoposto ad un referendum paneuropeo. Vaste programme, si potrebbe dire aggiungendo che in nessun governo nazionale c’è la volontà di cedere la ownership sui trattati. Lo dissero a Spinelli quando fondò il Club del Coccodrillo il 9 luglio 1980 contrapponendo all’iniziativa del Parlamento Europeo quella dei governi sfociata nell’inutile dichiarazione di Stoccarda che rinviava alle calende greche la trasformazione delle Comunità in Unione.
Per contrastare l’immobilismo dei governi va creato un Fronte Democratico Europeo proponendolo al Congresso del Partito Socialista Europeo di Bucarest a fine settembre.

l’Unità 10.7.12
Ridurre gli F-35: aiuterebbe Difesa e spending review
di Umberto De Giovannangeli


Non cambierebbe il ruolo dell’Italia nel contesto internazionale. Sono mezzi costosi e non proprio avanzati. Scelta già fatta da altri Paesi

Ridefinire il «programma F-35 Joint Strike Fighter» non significa disarmare l’Italia, né relegarla ad un ruolo marginale nello scenario internazionale. Contenere ulteriormente il numero di caccia F-35 da acquistare nei prossimi anni, non vuol dire chiamarsi fuori, tout court, da un programma condiviso con altri Paesi alleati, Usa in primis, che resta comunque strategico per l’Italia. Ridimensionare questa spesa miliardaria non solo è in sintonia con tempi di contenimento di bilancio, ma può servire per delineare con più nettezza e meno velleitarismi, un modello di difesa più consono a un Paese come il nostro.
Tagliare per rilanciare un’idea di difesa sempre più compenetrata a livello europeo e proiettata su scenari regionali a partire dal Mediterraneo nei quali l’Italia può e deve svolgere una funzione di spinta, ma prendendo come modello le missioni all’estero in cui è impegnata a cominciare dall’Unifil 2 in Sud Libano di cui abbiamo il comando e mettendo da parte progetti ipertrofici. Su questa direttrice l’Unità ha
da tempo aperto un confronto di idee, di proposte, che ha coinvolto le parti più avvertite dell’arcipelago pacifista e quanti operano con abnegazione e lungimiranza nel campo delle strategie di difesa.
Una «Spending review», non demagogica ma sostanziale, può permettere una ulteriore riduzione del numero di F-35 attualmente 90 , a fronte dei 131 iniziali che l’Italia intende acquisire. Studi di settore dimostrano come sia possibile rinunciare ad almeno la metà dei 90 F-35, senza per questo venir meno al necessario ammodernamento del nostro sistema di difesa aerea. «Sugli F35 non contesto la scelta tecnica. Si tratta certo di un aereo migliore di quelli che abbiamo, e ci mancherebbe altro visto quanto ci costano... È però, l’F35, un aereo che è già meno sofisticato di quelli che stanno uscendo adesso e per i fanatici della tecnologia, sarà vecchio quando entrerà in servizio da noi. Quello che è ormai insostenibile, è la base concettuale sulla quale è stato fatto il programma: era velleitaria la pretesa italiana di volersi dotare di aerei che nemmeno gli Usa avevano in quel momento; era velleitario il programma numerico che nessuno in Europa si poteva permettere. Ed era velleitario, alla fine, perché non si capiva, e non si continua a capire, contro chi quel programma doveva essere impiegato», dice a l’Unità il generale Fabio Mini, ex Capo di Stato maggiore delle forze Nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor in Kosovo nel periodo 2002-2003. «Sono armi inutili e costose che non portano alcun beneficio al nostro Paese», rilancia Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace.
L’Italia dovrebbe iniziare ad acquistare i primi quattro aerei quest’anno.
Gli altri, entro il 2023. Un solo F-35 sottolineano i promotori della campagna «Tagliamo le ali agli F-35» costa 120 milioni di euro, secondo la stima attuale di prezzo destinata però a crescere come annunciato da Pentagono e Lockeed Martin a seguito delle varie disdette e slittamenti di ordini arrivati. Per 90 velivoli, in tutto l’Italia finirà per spendere più di 10 miliardi di euro, ai quali se ne dovranno aggiungere altri 20-30 per la gestione e manutenzione dei velivoli. Una spesa che potrebbe essere dimezzata, con un risparmio (da reinvestire magari in settori della vita sociale) di 6 miliardi di euro. Per essere ancora più precisi: sospendere e dimezzare la spesa di acquisto dei caccia d’attacco Jsf (gli F35), può determinare un risparmio di 2,9 miliardi nel triennio 2012-2014 e 4,38 miliardi nel periodo 2015-2023.
Non è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un’altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel programma ha davvero un futuro e se sì, quale. Il Pentagono rileva un recente studio dell’Archivio Disarmo sta suggerendo al governo americano una seria riconsiderazione della fornitura e della produzione... La produzione dell’F-35 a decollo verticale è stata interrotta, mentre la versione dell’F-35 a decollo breve e atterraggio verticale per portaerei con ponti ridotti, testata a fine ottobre, ha evidenziato numerosissimi problemi tecnici..”. Nessun obbligo, dunque, tanto più che, oltre agli Usa, anche Gran Bretagna, Canada, Norvegia, Australia e Turchia stanno procedendo al rallentamento del programma F35, con riduzione di ordini e ripensamenti graduali. Perché non seguire il loro esempio?

l’Unità 10.7.12
Enrico Zucca: «Le scuse per i fatti del G8? Troppo poco e troppo tardi»
«Chi spiega i boicottaggi all’inchiesta? Il lato oscuro emerso è la tendenza dei poliziotti ad aggiustare le prove per arrivare al risultato»
di Claudia Fusani


«Troppo poco e troppo tardi». Soprattutto «si perde l’occasione per capire il vero lato oscuro del G8, la tendenza nelle forze dell’ordine di aggiustare le prove per arrivare allo scopo. Gli inglesi la chiamano nobile cause corruption, la corruzione per nobili motivi».
Enrico Zucca, è stato il magistrato che ha rappresentato l’accusa nelle indagini sull’irruzione alla scuola Diaz durante i giorni del G8 del 2001 a Genova, ci mette qualche giorno prima di commentare la sentenza della Cassazione che giovedí ha condannato in via definitiva i funzionari di polizia. «E lo faccio solo aggiunge perché è giusto chiarire informazioni diffuse in maniera distorta».
Alla fine ha retto il suo impianto accusatorio che pure era stato respinto in primo grado. Si aspettava di vincere in Cassazione?
«Serve prima una premessa tecnica. Ma rispondo subito alla domanda. La prevedibilità di quella sentenza era incerta non per ragioni processuali ma per le pressioni cui sono stati sottoposti i giudici in questi mesi. Importanti organi di stampa hanno ricordato, alla vigilia del verdetto, la necessità di valutare la ragion di stato. Questo è grave». Qual era la premessa tecnica?
«Le due sentenze, l’assoluzione in primo grado e la condanna in Appello, non sono cosí agli antipodi. Entrambe affermano quello che tutti negano: gli imputati erano al comando delle operazioni quella sera, guidavano le truppe con caschi e manganello. Il primo grado ha assolto per insufficienza di prove, i condannati potevano non essersi resi conto di quanto era successo. Una tesi debole. Che contrasta con la tanto proclamata eccellenza investigativa di questi funzionari; e con le deposizioni in Parlamento nel 2001 quando fu spiegato che "le perquisizioni in certi contesti non si fanno con i guanti". La Corte d’appello ha corretto sulla base dei filmati. La Cassazione ha confermato che l’indagine é stata impostata su prove solide e concrete contro persone determinate e fatti specifici».
L’attuale capo della polizia Antonio Manganelli ha chiesto scusa. L’allora capo Gianni De Gennaro parla di “dolore per chi ha subito torti” ma rivedica “la sua correttezza”. Entrambe le cose dovevano, potevano essere fatte prima?
«Non c’era bisogno della sentenza definitiva per chiedere scusa. Quello che è successo quella sera era un’evidenza ieri e lo è oggi. Basta guardare i filmati come ha fatto il ministro Cancellieri. La presunzione d’innocenza è un principio sacrosanto. Ma la Corte Europea dei diritti dell’uomo impone la sospensione dei funzionari ogni volta che sono rinviati a giudizio e la rimozione se sono condannati».
La sentenza rende giustizia alla grave lesione dei principi democratici accaduta in Italia quella notte di undici anni fa? «È come le scuse: tutto troppo tardi e troppo poco. Chi chiede scusa per le tante difficoltà che l’ufficio della pubblica accusa ha incontrato negli anni dell’indagine? Cosa dicono quelle istituzioni che hanno considerato l’indagine stessa un abuso? La polizia ha iniziato da subito una sotterranea battaglia di boicottaggio».
Si riferisce alle bottiglie molotov, prove decisive per l’accusa di falso, sparite dall’ufficio reperti della questura? «Anche. Vorrei ricordare che negli interrogatori gli indagati, i comandanti effettivi, hanno sostenuto di essere arrivati tre minuti dopo, quando era già successo tutto. I filmati dicono il contrario. Delle due l’una: o era un ordine dall’alto, oppure un errore che però andava subito smascherato e denunciato. Ma da quel punto in poi non abbiamo più avuto risposte».
I duecento agenti dell’irruzione sono rimasti ignoti. Come è possibile? «L’istituzione polizia non è stata in grado di identificare i suoi uomini. Ma è accaduto di più: nel verbale di arresto c’è una firma a cui non siamo mai riusciti a dare un nome. Chi chiede scusa per il boicottaggio alle indagini? Non ci può essere riconciliazione finché non emergeranno i responsabili del tentato omicidio di Mark Covell».
Alcuni tra i migliori investigatori del paese sono sospesi dal servizio. Poteva essere evitato, undici anni dopo?
«Al netto della compassione umana, credo sia più giusto dire che le vere eccellenze investigative sono gli agenti e gli uffici. Qui non sono mai state in gioco le sorti dell’istituzione polizia ma le carriere di singole persone». Importanti commentatori hanno parlato di convitati di pietra mai chiamati in causa nell’inchiesta. È stato fatto il nome di Ansoino Andreassi...
«È vile e irresponsabile chiamarlo in causa. Andreassi non era d’accordo con l’operazione e si chiamò fuori. E De Gennaro inviò il prefetto La Barbera...».
De Gennaro coordinava da Roma. Non era il capo della catena di comando? «Giudiziariamente abbiamo chiamato a rispondere i capi di un’operazione militare, la catena di comando che era lì sul posto e non una immaginaria o ipotetica. Le responsabilità e le scelte politiche non sono nella nostra competenza. De Gennaro aveva fissato un obiettivo politico e tecnico: riscattare l’immagine della polizia di stato dopo giorni di guerriglia. Per quel fine è stato giustificato ogni mezzo. Questo non è consentito nelle democrazie occidentali».
Le ha fatto effetto sapere che la squadra di La Barbera, indagando sulle stragi di mafia, aveva manomesso le prove?
«Le indagini sul G8 hanno fatto emergere un lato oscuro, il fenomeno della corruzione per nobile causa, la nobile cause corruption, termine coniato da un poliziotto inglese negli anni ottanta. Si tratta di prassi devianti che ogni polizia sa che allignano al suo interno. Significa aggiustare le prove pur di arrivare all’obiettivo. Durante il G8 alcuni uomini delle istituzioni hanno pensato, in buona fede, che dovevano assicurare un risultato ma l’hanno fatto commettendo il peccato mortale di ogni pubblico funzionario. Purtroppo è un fenomeno vasto. Che non va sottovalutato perché da qui passa la differenza tra democrazia e stato totalitario».

l’Unità 10.7.12
Ma le colpe politiche di Genova chi se le prende?
La cultura della “muffa”: sopra De Gennaro c’erano Scajola e Fini. Quella storia va ancora scritta
di Oreste Pivetta


LE SENTENZE, TALVOLTA IN GRAVE RITARDO, SEMPRE FATICOSE, ARRIVANO. Peccato che qualcuno poi riapra la porta, uno spiraglio appena, quanto basta perché s’infilino perdonismo, solidarietà di corpo (o di casta), giustificazionismo, buonismo a vario titolo. Storie di questo paese, storie che hanno a che fare con una cultura antica, con una tradizione antica, tanto antiche da sentirle rancide. Per questo continuiamo ad ammirare la signora Patrizia Moretti che il suo perdono non lo concede a quanti in uniforme le hanno ammazzato in strada il figlio, Federico Aldrovandi. Per questo ammiriamo le sue parole: «Io non sono forte. Io non sono lungimirante. Io non guardo avanti. Io non passo oltre». Forse intendeva dire: sono solo una madre, non chiedetemi altro, mi avete già strappato la vita.
Un ex capo della polizia, ora sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni De Gennaro, invece non riesce ad abbandonare i canoni di quella cultura con la muffa, di quella tradizione omertosa. Chiede scusa però solidarizza: chiede scusa a quanti furono selvaggiamente malmenati mentre dormivano nella palestra di una scuola a Genova, allo stesso tempo solidarizza con quanti organizzarono e comandarono la «macelleria messicana», senza un cenno alle proprie responsabilità e a quanto avvenne prima (in strada) e dopo la Diaz (nella caserma di Bolzaneto). Come se non comprendesse la gravità del «delitto». Come se vivesse di fronte a un banale errore di gioventù, mitigato nel tempo dalla bravura poi mostrata. Lui che era alla testa della polizia, che aveva il compito, con altri ovviamente e con un ministro avanti tutti, di disegnare i piani, dettare le strategie, verificare gli obiettivi. Azzeriamo le denunce che piovvero sul suo capo: De Gennaro è assolto dall’accusa di istigazione alla falsa testimonianza proprio intorno alla vicenda della Diaz. Ma è comunque responsabile di una condotta dell’ordine pubblico che si rivelò fallimentare e sanguinaria (non dimentichiamo Carletto Giuliani e l’elenco lunghissimo dei feriti, le teste rotte, gli arti in frantumi, e poi gli insulti, i cori fascisti, le oscenità). De Gennaro rivendica nel suo operare il rispetto costante della Costituzione, ma a Genova diritti elementari vennero infranti: una sospensione della democrazia, protestò Amnesty International. Quanto vale la solidarietà di De Gennaro ai condannati? Una condivisione di responsabilità? Sarebbe una dichiarazione coraggiosa e onesta. Ma non è così: è complicità in una impossibile dichiarazione di innocenza, è coprire, mitigare.
Avrebbe potuto dire: ho obbedito agli ordini, come un soldato semplice che rivendica così la propria estraneità, anche morale, di fronte a qualsiasi orrendo delitto in prima linea. Ma avrebbe dovuto rivelare il nome del mandante: chi aveva ordinato lo stato d’assedio, chi aveva sbagliato istruzioni? In genere si insegna come limitare i danni, non come provocarli e ingigantirli. Il capo della polizia stava agli ordini di un incompetente ministro dell’interno, Claudio Scajola, l’ex democristiano di Imperia, che un anno dopo lascerà il suo posto, dopo aver definito un «rompicoglioni» in cerca del rinnovo di una consulenza il giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Br (per trovare subito appresso un’altra poltrona ministeriale). Scajola non si è sentito in obbligo di chiedere scusa, però ha solidarizzato: secondo lui era giusto che si facesse così. In silenzio è rimasto invece Gianfranco Fini, allora vice presidente del consiglio, più volte segnalato in quei giorni a Genova: sicuramente sarà stato d’accordo, stringendo la mascella da uomo forte,
come gli piaceva mostrare e si illudeva di essere. Le colpe politiche delle tragiche giornate di Genova sono da tempo precipitate nella palude della dimenticanza. Non una commissione d’inchiesta che scriva la storia, non una dichiarazione seria, un autentico voltare pagina, come questo paese avrebbe maledettamente bisogno. Si tace, si insabbia, si mistifica. Per la Diaz pagano venticinque funzionari, ma – si precisa «bravissimi funzionari». Così si può accettare la sentenza, monca ancora perché le responsabilità politiche non sono indicate, e allo stesso tempo dolersene, non solo per fratellanza, ma persino aggiungendo una ragione pratica, suggestiva, come s’è letto in alcuni commenti: perché la Cassazione avrebbe in questo modo decapitato la più agguerrita squadra mai messa in campo dallo Stato contro la mafia. Può essere, ma non può essere che la polizia italiana si regga sulle spalle di una ventina di poliziotti. Soprattutto non c’è principio giuridico che assolva dalla colpa per meriti professionali, per quanto alti, altissimi.

Repubblica 10.7.12
Il nuovo ordinamento
Pedofilia, il Sant´Uffizio boccia le norme Cei
Niente obbligo di denuncia per i vescovi. "Regole poco incisive, la Santa Sede non può approvarle"
Scontro in Vaticano sulle linee guida anti abusi varate dal cardinale Bagnasco
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Norme troppo «leggere», poco «incisive», ma, soprattutto, prive della «obbligatorietà» di denuncia da parte del vescovo dei preti accusati di pedofilia o violenze sessuali. Pur non trattandosi di una bocciatura definitiva, sono molto critiche le prime valutazioni che filtrano dalla Congregazione per la dottrina della Fede (l´ex Sant´Uffizio) sulle norme varate dalla Conferenza episcopale italiana contro i preti pedofili. Ad indispettire l´ex Sant´Uffizio è la parte dell´ordinamento sui rapporti tra vescovi e autorità civili, ritenuta poco chiara e scarsamente vincolante in materia di denunce alla magistratura.
Le nuove norme, dal titolo "Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici", furono approvate dall´Assemblea generale della Cei lo scorso 21 maggio. Lo stesso testo era stato precedentemente varato dal Consiglio episcopale permanente, il governo vescovile, lo scorso gennaio. Dopo il placet dell´Assemblea, le norme sono state presentate pubblicamente dal vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei. Crociata stesso si premurò di spiegare che il mancato inserimento dell´obbligatorietà di denuncia dei vescovi alle autorità civili «si deve al semplice fatto che la legge italiana non prevede tale obbligatorietà». In seguito le linee guida furono inviate al Sant´Uffizio prima della scadenza predisposta dalla Santa Sede - il 31 maggio 2012 - per la presentazione delle norme antipedofilia da parte delle Conferenze episcopali.
Al di là della bontà dei provvedimenti previsti dalle nuove norme - immediato avvio di indagini interne su preti sospettati di pedofilia o violenze sessuali su minori, processi canonici rapidi e riduzione allo stato laicale dei condannati - le prime riserve sull´ordinamento antiabusi emersero già al momento della presentazione ufficiale. Molti osservatori non mancarono di rilevare che le norme apparivano meno severe rispetto al modello in vigore in Inghilterra e in Francia, dove i vescovi sono tenuti ad informare preventivamente le autorità civili su inchieste avviate nelle loro diocesi, a partire da quelle violenze sessuali. Una tolleranza zero fortemente perseguita da monsignor Charles Scigluna, il promotore di giustizia dell´ex Sant´Uffizio. E forse non è un caso che proprio Scigluna, una volta presa visione delle norme della Cei, abbia scritto al segretario generale della Cei Crociata, per ricordargli che «per la Santa Sede queste linee guida non sono state ancora vagliate ed approvate», facendo intendere che il Vaticano su un tema tanto delicato, al posto degli annunci ufficiali, preferisce prudenza e riserbo in attesa del pronunciamento della Congregazione per la dottrina delle fede.
Il punto di frizione tra Cei ed ex Sant´Uffizio nasce a pagina 14 delle linee guida dove si specifica che «i vescovi sono esonerati dall´obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto per ragioni del loro ministero». E ancora: «Non avendo il vescovo nell´ordinamento italiano la qualifica di pubblico ufficiale» si argomenta, egli «non ha l´obbligo giuridico di denunciare all´autorità giudiziaria statuale notizie in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti linee guida». Una posizione apparsa troppo distante, nelle stanze vaticane, dallo spirito della Lettera circolare inviata dell´ex Sant´Uffizio agli episcopati di tutto il mondo il 3 maggio 2011. La Lettera, premettendo che «l´abuso sessuale di minori non è solo un delitto canonico, ma anche un crimine perseguito dall´autorità civile», avvisava i vescovi che «è importante cooperare con le autorità civili per quanto riguarda il deferimento di crimini sessuali».
Silenzio, per ora, da parte della Cei, intenzionata a non replicare alle indiscrezioni sulla bocciatura delle norme, in attesa del giudizio finale dell´ex Sant´Uffizio previsto ad ottobre.

l’Unità 10.7.12
«Fermare il colpo mortale alla tutela dei Beni culturali»
L’APPELLO


Un nutrito gruppo di intellettuali ha inviato una lettera-appello al Presidente della Repubblica e a Monti preoccupati per i tagli che potranno colpire anche la cultura. «No a nuovi tagli alla già boccheggiante tutela dei beni culturali e paesaggistici. No al suo assurdo annegamento nell’apparato burocratico si legge nella lettera Sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio non devono abbattersi altri tagli di fondi né amputazioni di strutture e di personale dopo quelle già pesantemente inferte nei mesi e negli anni scorsi fino ad intaccare l’ossatura stessa dei
Beni Culturali e quindi la copertura territoriale della tutela. Rivolgiamo un appello forte e accorato al governo Monti affinché con la “revisione della spesa” in corso non pratichi né nuovi tagli di risorse né l’assurdo accorpamento burocratico delle Soprintendenze con altri uffici dello Stato, del tutto estranei alla tutela, né il pre-pensionamento di tecnici di grande esperienza e qualificazione di cui si parla in queste ore e che sguarnirebbe la salvaguardia territoriale».
«Nuovi colpi di accetta sui pochi fondi disponibili e nuovi vuoti nella rete della tutela aggraverebbero in modo irreversibile una situazione, già vicina al coma, la quale esibisce al mondo intero i nostri paesaggi aggrediti da cemento e asfalto senza piani regionali e spesso senza neppure controlli pubblici di sorta, con pesanti infiltrazioni malavitose si legge ancora nel testoNoi non ci stiamo ad assistere inerti al massacro del Belpaese. Noi crediamo alla ricerca, alla cultura e ai suoi beni come straordinario generatore di una nuova, epocale rinascita, anche economica, del Paese». Tra i firmatari una settantina di uomini e donne di cultura Vittorio Emiliani, Alberto Asor Rosa, Maria Pia Guermandi (Eddyburg), Donata Levi (PatrimonioSos), Carlo Alberto Pinelli (Mountains Wilderness), Giuseppe Basile (Associazione Cesare Brandi), Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Salvatore Settis, Arturo Osio, Cesare De Seta, Corrado Stajano, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Jacqueline Risset, Chiara Valentini, Carmine Donzelli, Gianfranco Pasquino, Furio Colombo,

Repubblica 10.7.12
La breccia laica
Libia, il fronte laico della primavera così le tribù hanno fermato gli islamisti
Il successo elettorale di Jibril fondato sui legami familiari
di Bernardo Valli


Era l´ultima della classe. La più ricca, certo, per via del petrolio. Ma sul piano politico la più imprevedibile, la meno credibile tra le nazioni della "primavera araba". Una Libia capace di imboccare la strada della democrazia era impensabile. Si pensi ai profeti di sventura che condannarono l´azione della Nato contro Gheddafi, sostenendo che dopo il rais sarebbe venuto il peggio. Erano sicuri di quel che dicevano. Emettevano sentenze, non opinioni. Ed erano sciocchezze.
Il suo compito sarà tenere insieme il paese. Ha già invitato all´unità, prima ancora che l´Alleanza venga proclamata vincitrice
Il jihadista Belhaj non ha avuto fortuna. Americani e francesi si sono fidati di lui, l´hanno armato. I cittadini di Tripoli e Bengasi no. Da alcune ore la rissosa, indisciplinata, corrotta società beduina, dispersa in un deserto posato su un mare di petrolio, frantumata in tribù, in clan, in famiglie armate fino ai denti e assetate di vendette spesso ereditate da sconosciuti antenati, quella società abbrutita per quasi mezzo secolo dal delirio di Gheddafi, e per questo giudicata impreparata e quindi inaffidabile, ha impartito una lezione di democrazia al vicino grande Egitto e all´altrettanto vicina ed educata Tunisia. E, fatto straordinario, la Libia musulmana ha fermato l´ondata islamista che ha inondato i Paesi arabi liberatisi dall´oppressione dei rais. A Tripoli, a Bengasi, sembra essersi aperta una breccia laica.
Ma si può parlare sul serio di una Libia laica? Sarebbe esagerato. Per ora è un´impressione. Forse un´illusione. Domani potrebbe essere una delusione. I risultati sorprendenti usciti dalle urne fanno lavorare le fantasie. Una Libia liberale? La definizione è azzardata. Diciamo: moderata. Anche perché espressioni come "laico" o " liberale" possono suonare come insulti nei momenti di tensione, a Tripoli o a Bengasi. Parlare, in generale, di moderazione è già rischioso, perché nonostante la saggezza dimostrata dagli elettori (saggezza elogiata dal presidente degli Stati Uniti e dal segretario generale dell´Onu), resta che le città e villaggi allineati lungo la costa mediterranea sono imbottiti d´armi, perché le tribù insorte contro Gheddafi, e poi decise a far valere i loro diritti di liberatori e le aspirazioni secessionistiche, hanno deposto mitra e bazooka, lasciandoli a portata di mano. Non si sa mai.
Affidandosi ai risultati parziali, non contestati dagli sconfitti, l´Alleanza delle Forze nazionali in cui l´ex primo ministro provvisorio Mahmud Jibril ha raccolto, con una pazienza da marabutto, una quarantina di partiti, avrebbe conquistato la maggioranza degli 80 seggi della futura Assemblea riservati ai partiti, sui 200 disponibili. I 120 restanti saranno suddivisi tra i candidati individuali, ma non dovrebbero rivoluzionare il risultato finale, poiché il controllo dei partiti si estenderebbe anche ai cosiddetti indipendenti. Comunque, nell´attesa di conoscere le cifre definitive e ufficiali, si deve rilevare la calma con cui il Paese sta accogliendo la notizia (non confermata ma strombazzata) del successo dei moderati. E quindi della sconfitta degli islamisti. Nessuna seria contestazione. Roba da anglosassoni.
Mahmud Jibril è nato a Bani Walid, sessant´ anni fa. È stato un collaboratore di Gheddafi. Ma chi non lo è stato nei quarant´anni di regime? Ha studiato Scienze politiche ed economiche al Cairo, poi ha ottenuto un master all´Università di Pittsburgh in Pennsylvania, dove è rimasto anche come professore. Cominciata la rivolta di Bengasi, nel 2011, è stato primo ministro del governo provvisorio. Quando dicono di lui che è un laico, Jibril si arrabbia. Replica pronto di essere più musulmano dei baciapile che gridano ai quattro venti la loro fede islamica. Lui recita le cinque preghiere quotidiane e rispetta il digiuno durante il Ramadan. I parenti, gli amici, i conoscenti, i vicini di casa possono testimoniarlo. E quando sarà venuto il momento di legiferare lui si ispirerà alle leggi coraniche, ma anche alle altre, estranee alla religione, e indispensabili in una società moderna.
Il principale compito di Jibril è di tenere unito il Paese, con sei milioni di abitanti dispersi su una superficie che è cinque volte quella italiana. Ha già invitato all´unità, prima ancora che la sua Alleanza venga proclamata vincitrice delle elezioni; ed è probabile che sia stato lui a suggerire di togliere al Parlamento il compito di designare l´Assemblea costituente; un´idea sorprendente ma geniale poiché ha disinnescato la protesta secessionista della Cirenaica e del Fezzan. Queste due regioni, storicamente gelose della supremazia della Tripolitania, minacciavano rivolte (e non è mancata qualche protesta violenta a Bengasi) perché dei 200 seggi del Parlamento 100 erano stati destinati a Ovest, alla Tripolitania, 60 a Est, alla Cirenaica, e 40 a Sud, al Fezzan. La supremazia tripolina avrebbe dunque pesato anche sui lavori dell´Assemblea costituente. La decisione che quest´ultima sarà eletta a parte, e che sarà composta da 20 deputati per ciascuna regione ha calmato gli animi.
Il professor Mahmud Jibril ha il vantaggio di appartenere alla più grande tribù libica. È un Warfalla; e i Warfalla sono circa un milione; un libico su sei è un Warfalla. La tribù è dispersa. Non occupa un territorio. È presente in gran numero a Tripoli, ma anche a Bengasi e nelle città della costa. I Warfalla sono sempre stati numerosi a Bani Walid, dove Jibril è nato. Molti Warfalla hanno fatto carriera, in tutti campi. Economia, banche, commercio, professioni liberali. Hanno frequentato università straniere. Hanno occupato posti decisivi nel vecchio regime. Hanno servito Gheddafi, garantendogli una solida base popolare; e l´hanno osteggiato, con complotti puntualmente falliti. Si sono spesso divisi sulla questione. A riunirli ha contribuito la tenace ostilità di alcune tribù. Ad esempio quella di Misurata.
Il forte inurbamento della popolazione ha cambiato i valori della tribù, e la sua stessa natura. La società del petrolio si è ridisegnata. Ma è certo che le prime vere elezioni democratiche hanno risvegliato vecchie alleanze e solidarietà. Sulle quali ha potuto contare Mahmud Jibril. Lasciando il Paese senza una società civile, senza partiti, senza associazioni, se non quelle legate al potere, Gheddafi ha favorito una certa sopravvivenza dei legami tribali. Dei quali gli islamisti non hanno potuto usufruire. Da qui forse la loro sconfitta.
Sul Partito della giustizia e della ricostruzione, emanazione politica dei Fratelli musulmani, pesava e pesa il lungo ambiguo rapporto tra la Confraternita e Gheddafi. Quando il matematico Ghannouchi, il leader islamista di Tunisi, è andato a Tripoli a sostenere i Fratelli musulmani, non ha trovato uomini che, come i tunisini, avevano fatto decenni di prigione, oppure, come gli egiziani, che avevano tessuto una fitta rete di scuole e di ospedali. I libici avevano meno radici.
Pare non abbia avuto maggior fortuna Abdel Hakim Belhadj, fondatore e capo di Al Watan. Partito islamista che non ha raccolto molti voti. Belhadj è stato un grande jihadista: è stato con Bin Laden in Afghanistan, nelle prigioni della Cia e in quelle di Gheddafi. Poi è stato uno dei primi capi ribelli a entrare a Tripoli, quando il regime è crollato. Gli avevano procurato le armi americani e francesi, che ormai si fidavano di lui e lo rispettavano come guerrigliero. A non fidarsi troppo di lui sono stati i tripolini andando alle urne.

il Fatto 10.7.12
Obama, nemico della Chiesa
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, ora che il presidente Obama ha avuto l’approvazione della Corte Suprema, la sua riforma sanitaria (che garantisce cure mediche a tutti i cittadini americani, poveri inclusi), dovrebbe avere la strada libera. Perché tu scrivi che il grande nemico, adesso, saranno le miriadi di chiese e organizzazioni religiose che formano il fronte del cristianesimo fondamentalista? Sono più forti del Partito democratico e del carisma di Obama?
Francesco

POTREBBERO esserlo. Perché al vasto fronte del cristianesimo fondamentalista americano, che ha esclusivo interesse per la fede e le sue leggi e nessun interesse per le opere, si unisce il peso, il potere, la forte organizzazione e la presa su 50 milioni di cittadini americani, della Chiesa cattolica. Le rigide posizioni assunte negli ultimi due decenni dalla Chiesa cattolica americana contro la libertà di decisione delle donne (aborto), per l’equiparazione degli embrioni alle persone, per il divieto di testamento di fine vita, per il diritto dei medici a diventare obiettori contro leggi ritenute “non cristiane”, pongono la più potente e influente organizzazione religiosa degli Stati Uniti in diretta contrapposizione con il Presidente e la sua legge a tutela dei poveri. Infatti, la “Riforma del sistema sanitario” per la quale il presidente americano si batte, prevede e tutela la libera scelta delle donne (aborto), la libertà di ricerca scientifica (embrioni), il diritto al testamento di fine vita dei cittadini (con impegno giuridico al rispetto della volontà espressa), il dovere dei medici di rispettare il loro giuramento. E finanzia tutto questo attraverso un’assicurazione a condizioni anche minime per i meno abbienti, sottraendo i cittadini americani al dominio esclusivo delle compagnie di assicurazioni, come avviene oggi. Comporta l’esclusione completa dei poveri e dei malati cronici. Pazienza, dicono i vescovi cattolici (assieme a decine di migliaia di pastori delle Chiese fondamentaliste attive in tutta l’America). Prima viene la teologia. Per capire quanto questa storia ci riguardi, sentite come la racconta l’editorialista Marco Ventura (“Corriere della Sera”, 1 luglio): “L’opposizione cattolica alla riforma sanitaria di Obama ha ragioni profonde e grandi spazi di fronte a sé. Se il governo rende obbligatoria una polizza sanitaria che copra anche spese contraccettive, esso, protesta la Chiesa, attenta alla libertà degli americani. Dunque la lotta alla politica sanitaria laica di Obama è una questione di libertà religiosa”. Spiegazione: in nome di Dio, la Chiesa americana vuole spingere i poveri a votare in massa contro se stessi e contro le cure che, dalle compagnie di assicurazione, non avranno mai. È una nuova definizione di carità e di amore.

il Fatto 10.7.12
“Io, libera dopo 23 anni di abusi nella setta dei figli di dio”
Juliana: “Portarono via mia madre e mi violentarono da bimba”
di Cole Moreton


Napoli Ora so di poter resistere a qualunque cosa”, dice Juliana Buhring con aria quasi annoiata in un caffé di Napoli dove ci incontriamo. Juliana ha vissuto in molti Paesi costretta a fuggire e a nascondersi. Ha appena 31 anni, ma ha già subito esperienze tremende che avrebbero distrutto molte persone.
Quando la vedi non sono ovvie né le sofferenze da lei patite né la sua forza di carattere. È una bella donna con un vistoso tatuaggio sulle spalle e ha un’espressione rilassata. “Sono più forte e più dura della maggior parte delle persone”, riconosce. Juliana ha visto la luce all’interno di una setta religiosa, una delle più famigerate dei nostri tempi: la “family of love”, detta anche “i figli di Dio”. Juliana ha trascorso l’infanzia e la giovinezza dietro alti muri, in comuni i cui membri dividevano tutto, compreso il corpo. I bambini venivano avviati al sesso in tenera età ed educati al libero amore non solo tra loro, ma anche con gli adulti. Juliana fu separata dai genitori, terrorizzata e percossa. Ma alla fine è riuscita a liberarsi dei suoi aguzzini e, con le sue sorelle, ha scritto un libro, “Not without my sister”, che ha contribuito a smascherare la vera natura della setta. Oggi gestisce una scuola di inglese in Italia, ma non si accontenta. “Voglio vedere di cosa sono capace, fisicamente e intellettualmente. Voglio scoprire i miei limiti. Ho sopportato esperienze atroci e ho saputo resistere. Chiamatemi pure masochista, ma mi incuriosisce sapere fin dove posso spingermi”.
TANTO per cominciare si sta allenando per fare il giro del mondo in bicicletta. La partenza è prevista il 14 luglio. “Debbo pedalare per 29 mila chilometri con la stessa bicicletta e intendo compiere 200 chilometri al giorno. Penso di essere di ritorno per Natale”. La sponsorizza, tra gli altri, l’attrice italiana Ma-ria Grazia Cucinotta, anche se trovare finanziamenti in tempi di crisi non è facile. “Ma io non mi abbatto né mi arrendo”, dice. Perché lo fa? “Perche no? ”, risponde. Ma la risposta alla domanda affonda le radici nella storia della sua vita. Suo nonno era un ufficiale dell’esercito britannico. “Mio padre era uno sbandato, un aspirante attore fallito, quando conobbe ‘i figli di Dio’ a Londra tramite una sua ragazza”. La setta gli consentì di mostrare il suo talento di attore e inoltre suo padre aveva una autentica adorazione per il capo, David Berg. Suo padre nel 1974 sposò una inglese, anche lei appartenente alla setta. Ebbero tre figli, ma il capo della setta ordinò loro di separarsi. I vertici della setta erano tutti americani, ma i seguaci venivano da ogni parte del mondo. Suo padre sposò poi una donna tedesca dalla quale ebbe quattro figli, tra cui Juliana nata nel 1981 in una comune in Grecia. Ma anche questa volta il padre fu costretto a lasciare la moglie.
“Secondo la dottrina della setta eravamo tutti sposati in Cristo come una sola, grande famiglia”, dice Juliana che a tre anni fu allontanata dalla madre. “Ricordo benissimo quel giorno. Corsi fuori e vidi un’auto che si allontanava con mia madre a bordo insieme a mio fratello e a mia sorella. Pensavo si fossero dimenticati di me. Mia madre piangeva. La mia sorellastra, Celeste, mi disse che sarebbero stati via per qualche tempo, ma in realtà non tornarono più”.
Secondo le teorie di David Berg i figli dei suoi seguaci erano destinati a diventare una “generazione pura”. “Seguivamo una specie di addestramento militare che aveva lo scopo di piegare la nostra volontà. Per un mese ci veniva tappata la bocca con nastro adesivo, rimanevamo in isolamento e mangiavamo solo ministre con una cannuccia. Le percosse erano all’ordine del giorno”. Chi si ribellava andava incontro a punizioni di inaudita ferocia. “Di solito ci picchiavano in un bagno isolato acusticamente. A volte ti facevano spogliare e ti picchiavano davanti a tutti per umiliarti. Alcuni sono crollati. Io sono diventata più forte, sempre più forte”.
“I figli di Dio” erano diventati tristemente famosi negli anni ’70 quando si scoprì che le loro donne venivano utilizzate per adescare sessualmente uomini da far entrare nella setta. Secondo la “Legge dell’amore” nel sesso tutto era lecito agli occhi di Dio. E leciti erano anche: adulterio, incesto e pedofilia. “Incoraggiavano anche i più piccoli a fare sesso”, ricorda Juliana. “Ci facevano accoppiare a due o tre anni di età. Naturalmente a quell’età non pensavamo ci fosse nulla di male o di strano”.
“LA LIBERTÀ sessuale, crescendo, ci appariva piacevole, ma poi cominciarono gli abusi. Già a otto anni eravamo costrette a fare l’amore con gli adulti e se qualcuna si rifiutava intervenivano le donne adulte per convincerti”.
Quando nei primi anni ’90, per paura dell’intervento delle autorità, i capi dissero che bisognava smettere di fare sesso con gli adulti, paradossalmente molti non la presero bene. Ma era possibile andarsene? “E come? ”, mi risponde Juliana. “Non sapevamo nulla del mondo, avevamo paura, non avevamo denaro né istruzione e non avremmo saputo dove andare”. Juliana è riuscita a conquistare la libertà a 23 anni quando andò a vivere in Uganda dove faceva da madre ai figli più piccoli del padre (che ha avuto 15 figli da sette donne diverse). “Rimasi così a lungo per non lasciare soli i miei fratellini e le mie sorelline”, spiega. Poi scoppiò lo scandalo che la fece decidere: doveva lasciare la setta. Davidito, il figlio adottivo del fondatore sparò alla governante e si uccise. In un video spiegava che questa era la sua vendetta per gli abusi subiti da lui e da tutti gli altri. “La madre disse che era stato preso dai demoni. Andai su tutte le furie. Feci i bagagli e me ne andai. Mi sentivo in colpa per aver lasciato i fratellini, ma sapevo che da libera avrei potuto aiutarli di più”.
JULIANA andò in Inghilterra dove raggiunse due sorellastre che avevano già cominciato una vita diversa. Una ora fa la chef a Nottingham, l’altra la ludoterapista a Bristol. Insieme cominciarono a scrivere il libro. “All’inizio fu una specie di terapia. Dovevo scoprire chi ero e cosa mi era successo. Venne fuori tutta la rabbia che covavo dentro”, racconta Juliana. Per capire meglio ha studiato psicologia e filosofia. “Ora so chi sono. Sono una combattente. Certo ho difficoltà a stabilire rapporti profondi anche perché, dopo quello che ho visto e provato, tutto mi appare banale. Ma negli ultimi anni ho imparato a creare dei legami affettivi con la gente”. Il libro è uscito nel 2007 ed è diventato subito un best seller. Anche altri bambini cresciuti nella setta hanno realizzato documentari e parlato delle loro drammatiche esperienze. “I capi non potevano negare l’evidenza”, dice soddisfatta Juliana. quando se ne andò dissero che era posseduta dal demonio e per questa ragione non poté vedere per anni i fratelli e le sorelle. “Li ho visti solo dopo qualche anno” e questo e il solo momento in cui la sua voce tradisce una profonda emozione. “Un amico mi ha detto che i caratteri più forti sono forgiati nel fuoco”, dice per finire. E sembra sia proprio così, almeno nel suo caso.
© The Daily Telegraph  Traduzione  di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 10.7.12
Quell’ostacolo sul futuro di Israele
di Abraham Yehoshua


Tutti i miei figli e nipoti vivono a Tel Aviv e perciò, con grande rammarico, mia moglie ed io abbiamo deciso di trasferirci da Haifa – la bellissima città portuale arroccata su un monte dove abbiamo trascorso 45 splendidi anni – in quello che viene ironicamente chiamato «lo stato di Tel Aviv».
Quando abbiamo cominciato a svuotare cassetti e ad aprire vecchie scatole ci siamo imbattuti in un fascio di vecchie lettere che avevamo scritto ai genitori verso la fine della nostra lunga permanenza in Francia negli Anni Sessanta. Lettere personali, vergate ogni giorno a partire dal maggio ’67 al luglio dello stesso anno. Scritte dapprima con l’ansia e la paura dell’attesa di una guerra che di giorno in giorno appariva più certa, poi nel corso della guerra stessa (protrattasi come si sa solo sei giorni) e infine durante il burrascoso periodo seguito alla vittoria di Israele.
Quel periodo è stato oggetto di ricerche e analisi giornalistiche e accademiche scritte da ogni prospettiva ma sono rimasto colpito dalla nostra esperienza personale, dalla testimonianza diretta di quelle lettere, dal divario tra l’ansia, il sostegno e l’ammirazione degli europei – che sentivamo forte intorno a noi – per Israele quarantacinque anni fa e le loro crescenti riserve negli ultimi anni. Riserve che giungono talvolta a mettere in discussione la legittimità stessa dello Stato ebraico e a ventilare l’ipotesi della sua scomparsa entro la fine di questo secolo.
Come e perché si è verificata una tale, profonda trasformazione? Quale ne è la radice e da cosa deriva?
Dopo tutto la preoccupazione per l’Israele di 45 anni fa era genuina e profonda, non erano solo parole e manifestazioni di piazza ma anche file di europei, giovani e vecchi (tra cui molti non ebrei) che si arruolavano come volontari per combattere fianco a fianco degli israeliani durante una guerra considerata pericolosa e forse perduta in partenza. In quelle settimane c’era la sensazione che la difesa di Israele fosse non solo una questione politica ma un obbligo morale e di coscienza, come durante la guerra civile spagnola.
Anche la folgorante vittoria di Israele non affievolì quel sostegno. La gente non diceva: forse Israele ci ha ingannati, ha esagerato il suo stato di pericolo, il bisogno di aiuto, ha finto di essere debole mentre in realtà era forte. No, al contrario. La netta vittoria di Israele fu considerata giusta e morale così come il pericolo e la minaccia erano stati considerati autentici prima della guerra. Il sostegno popolare per Israele era travolgente e valicava la cortina di ferro anche dopo che il blocco comunista, nella sua frustrazione, aveva interrotto le relazioni con lo Stato ebraico.
Di più. La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al termine della guerra sostenne la vittoria israeliana all’unanimità e fu chiaramente stabilito che i territori occupati nel corso del conflitto non sarebbero stati restituiti ai paesi arabi sconfitti se non in cambio della pace e della loro smilitarizzazione.
Da quel momento in poi la storia è nota. Dapprima vi fu il fermo rifiuto arabo di avviare qualsiasi negoziato con Israele. Cominciò allora una guerra di attrito lungo i nuovi confini accompagnata dal perentorio rifiuto dei palestinesi di arrivare a un qualsivoglia compromesso con lo Stato ebraico e in seguito iniziò una brutale ondata di terrore in Cisgiordania a Gaza e all’interno di Israele stesso. Nonostante ciò già all’epoca cominciò una crescente erosione dello status morale di Israele. E malgrado gli accordi di pace con l’Egitto e la Giordania e la restituzione della penisola del Sinai all’Egitto il sostegno, la simpatia e l’ammirazione del passato si trasformarono in rabbia e delusione.
Gli atti di occupazione di Israele sono nulla in confronto ai fallimenti disastrosi e alle folli atrocità perpetrate da altre nazioni nel ventesimo secolo, per esempio nei Balcani, in Vietnam, in Cambogia e in molti Paesi africani, per non parlare degli orrori della Germania nazista e della Russia sovietica. Eppure persino nell’inferno della Seconda Guerra Mondiale nessuno, nemmeno un ebreo, ha mai sostenuto che lo Stato tedesco andasse delegittimato e cancellato dalla faccia della terra.
Quando esamino tutti gli argomenti, giustificati o meno, nei confronti della politica di Israele di questi anni ne trovo uno che ha maggiore peso rispetto agli altri e che secondo me è alla radice dell’estrema e talvolta sfrenata avversione nei confronti di Israele. Mi riferisco agli insediamenti che continuano a essere costruiti in territorio palestinese. Molti accettano il diritto di Israele a difendersi. Molti altri accettano il diritto di Israele a richiedere, a causa delle sue ridotte dimensioni e della sua vulnerabilità, che i territori occupati che saranno evacuati debbano essere smilitarizzati. Ma nessuna persona di coscienza e con un senso della storia può accettare che Israele eriga insediamenti espropriando arbitrariamente e ingiustamente territori che dovrebbero essere, a detta di tutti, dello Stato palestinese. Questo è un atto scorretto e intollerabile che mette in discussione la giusta vittoria della Guerra dei sei giorni. Ed è lo sconvolgimento emotivo dovuto al passaggio dal sostegno e dall’ammirazione del passato alla delusione amara del presente a portare a mettere in dubbio la legittimità di Israele.
La maggior parte degli israeliani considera gli insediamenti una questione secondaria, forse ingiusta e di cui si potrebbe fare a meno, comunque marginale nel quadro della battaglia di Israele per la sopravvivenza e la pace, e non capisce fino a che punto gli insediamenti minino la posizione morale di Israele agli occhi di molti. Io, da parte mia, ritengo che, per la sua legittimità, la giustificazione morale dello Stato ebraico sia molto più importante della democrazia, della memoria della Shoah e di tutti i beni economici, politici, militari e culturali che Israele ha diligentemente accumulato.

Corriere 10.7.12
Quando la guerra d'Algeria era una «missione di pace»
Dopo l'eredità di Vichy, un'altra ombra sulla Francia
di Paolo Mieli


Da anni siamo avvezzi a definire le guerre in cui ci troviamo impegnati (Balcani, Iraq, Afghanistan, Libia) come missioni «umanitarie» o «di pace». In tempi recenti la tendenza al ricorso a questo genere di eufemismo si è fatta più corposa. In un interessante libro sulla «saga del politicamente corretto» dal titolo La cultura del piagnisteo (Adelphi), Robert Hughes ha scritto: «Come il gergo degli affari ci ha regalato "ripiegamento del capitale azionario" per il crollo in borsa del 1987 e "ottimizzazione delle dimensioni aziendali" per i licenziamenti in massa, così la Guerra del Golfo (1991) ci ha insegnato che spianare un posto con le bombe è "occuparsi di un bersaglio" e bombardarlo una seconda volta per assicurarsi che non sia sopravvissuto neanche un serpente o un rovo è "perlustrare nuovamente una località"». Vale per ogni tipo di guerra soprattutto quando sono i «nostri» a combatterla. Benjamin Stora, autore del bel libro La guerra d'Algeria (il Mulino), ha elencato le «denominazioni rassicuranti» usate nel discorso pubblico in Francia per il conflitto di cui al titolo del volume. Dopo l'avvio delle azioni armate del Fronte di liberazione nazionale nel novembre 1954, per una lunga stagione gli atti di guerra furono soltanto «avvenimenti». Furono poi «operazioni di polizia», fino alla sollevazione contadina del 20 agosto 1955 nella regione di Costantina. «Azioni di mantenimento dell'ordine», dopo il voto dei poteri speciali (marzo 1956) e l'invio dell'intero contingente in Algeria. «Operazioni per il ristabilimento della pace civile», durante la terribile battaglia d'Algeri, nel corso del 1957. «Opere di pacificazione», negli anni che condussero nel 1962 all'indipendenza algerina. Anche nei cinegiornali mai si parlava di guerra, tutt'al più di «dramma algerino». Chi obiettava a quel conflitto, chiamò fin dall'inizio le cose con il loro nome. Su «Le Monde» di guerra si scrisse già nell'agosto del 1955. E, nel novembre dello stesso anno, un numero speciale della rivista «Esprit» fu titolato, senza infingimenti, «Fermiamo la guerra d'Algeria». L'editoriale si apriva con queste parole: «Qualche mese di intervallo ed eccoci di nuovo in un paesaggio familiare, la guerra d'Algeria succede alla guerra d'Indocina». Dopodiché i grandi giornalisti, da Jules Roy a Jean-Jacques Servan-Schreiber, avevano sempre usato quel termine. E persino il generale Charles De Gaulle, tornato al potere nel 1958, in una conferenza stampa dell'11 aprile del 1961 si era arreso all'evidenza: «È un fatto che l'Algeria, per il momento, è un Paese dove imperversa la guerra». Badando però a marcare bene le parole «per il momento».
Secondo Alistair Horne, autore di La guerra d'Algeria (Rizzoli), questo accadeva perché in quello scontro era ideologicamente impegnata tutta la Francia. Non solo la destra che prese su di sé la responsabilità di voler conservare l'Algeria alla Francia, ma anche la sinistra allora al governo dapprima, tra il 1954 e il 1955, con Pierre Mendès-France e poi, tra il 1956 e il 1957, con Guy Mollet. In un contesto di forte coinvolgimento dei comunisti. Nel novembre del '54, sottolinea Horne, il Pcf aveva sostenuto Mendès-France e offerto una tiepida «solidarietà» al popolo algerino, ma aveva soprattutto condannato gli «atti individuali», cioè le prime azioni di terrorismo e di resistenza, suscettibili, a suo dire, di «fare il gioco dei peggiori colonialisti». E quando Mollet nel 1956 aveva chiesto i poteri straordinari per poter spedire in Algeria anche i soldati di leva, il Pcf sostenne il governo dichiarando ancora, «con parole che», dice Horne, «avrebbe potuto pronunciare qualsiasi politico francese dell'epoca»: «Noi siamo per l'esistenza e per la permanenza di legami politici, economici e culturali tra Francia e Algeria… In Algeria va ristabilita la pace». A questo punto in Algeria, alcuni membri del Partito comunista algerino, ribellandosi alle prese di posizione dei compagni francesi, avevano avanzato all'Fln «caute profferte di collaborazione» ma se le erano viste respingere con la motivazione che il Fronte di liberazione nazionale era sì disposto ad accogliere nei propri ranghi membri del Pca «ma solo a titolo individuale», di modo che ognuno di loro prendesse esplicito impegno a obbedire alle gerarchie del Fln stesso. Nel luglio del 1955 il Pca decise di partecipare alla «rivoluzione algerina» con «la propria organizzazione» e «si arrivò a un punto morto». Finché in settembre il governatorato di Algeri ne decretò lo scioglimento. Nell'aprile del '56 un ventottenne pied-noir (un francese d'Algeria) comunista, Henri Maillot, sequestrò un carico d'armi, si diede alla macchia e fondò un gruppo di «maquis rouge» (partigiani rossi) autonominatosi «Combattants de la Libération» che però furono rapidamente individuati e debellati. In seguito a ciò i comunisti d'Algeria passarono agli ordini del Fln (che assegnò loro prevalentemente missioni suicide), il segretario generale del Pca, Bachir Hadj Ali, si ritirò in esilio a Mosca e il Partito comunista francese, liberato dall'ingombrante presenza del partito fratello d'Algeria, tornò ad assecondare i propri iscritti assai ostili agli insorti d'oltremare. Non va dimenticato poi che, ai tempi dell'inizio del conflitto algerino, ministro dell'Interno e successivamente Guardasigilli in Francia era François Mitterrand, il quale successivamente, nella Quinta Repubblica, sarebbe stato leader dell'intera sinistra francese e avrebbe concluso, negli anni Ottanta, la carriera politica all'Eliseo.
Fu così che ci vollero oltre quarant'anni perché il 1° giugno del 1999 (qualche tempo dopo la scomparsa di Mitterrand) quel conflitto fosse ufficialmente riconosciuto dall'Assemblea nazionale per quel che era stato: una guerra, appunto. Di questo lungo percorso si occupa un interessantissimo libro di Andrea Brazzoduro, Soldati senza causa — Memorie della guerra d'Algeria, appena pubblicato dall'editore Laterza. Tra l'altro, Brazzoduro mette in rilievo che anche nel 1999 non si riuscì a trovare una data adatta per la commemorazione dal momento che il giorno proposto, il 19 marzo, quello del cessate il fuoco, era ancora per alcuni il momento della «liberazione», per altri quello del «tradimento» e dell'«abbandono». E, nel dibattito, se ci fu un deputato, Christiane Taubira, che mise l'accento sulle dimensioni coloniali del conflitto provate dalla circostanza che le vittime algerine furono dieci volte superiori a quelle francesi, ce ne fu un altro, Didier Quentin, che ripropose il tema dei benefici ricevuti dal Paese arabo («anche se i tempi spingono a volte alla contrizione e al pentimento, la Francia globalmente non deve rimproverarsi quanto ha fatto in Algeria, durante centotrentadue anni nel corso dei quali non sono mancati numerosi aspetti positivi»). A dire il vero, dopo la morte di Mitterrand (1996) il suo successore, Jacques Chirac, il 18 settembre del 1996 in un incontro con quello che Brazzoduro definisce l'«agguerrito Fronte unito delle associazioni degli ex combattenti» aveva auspicato un'iniziativa volta a «conformare il linguaggio ufficiale al linguaggio corrente». Due mesi dopo, però, spaventato dalle (per lui) sgradevoli ripercussioni di quel gesto, aveva ritenuto di rivolgersi ai suoi elettori in termini ancora una volta assai tradizionali: «Non possiamo dimenticare che questi soldati furono anche dei pionieri, dei costruttori, degli amministratori di talento che misero il loro coraggio, le loro capacità e il loro cuore per costruire strade e villaggi, per aprire scuole, dispensari, ospedali, per far produrre alla terra quel che aveva di meglio; in una parola, per lottare contro la malattia, la fame, la miseria, la violenza, per introdurre il progresso, per favorire l'accesso di questi popoli a più alti destini. Pacificazione, valorizzazione della terra, diffusione dell'insegnamento, fondazione di una medicina moderna, creazione di istituzioni amministrative e giuridiche, tutte tracce di un'opera incontestabile alla quale la presenza francese ha contribuito non solo in Africa del Nord, ma anche in tutti i continenti... Più di trent'anni dopo il ritorno nella metropoli di questi francesi, conviene anche ricordare l'importanza e la ricchezza dell'opera che la Francia ha compiuto laggiù e della quale è fiera».
Brazzoduro scrive che c'è una storia segreta di questo ricordo «incastonata in una più vasta memoria nazionale» e che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, ha stabilito un nesso tra l'Algeria e il passato dello Stato francese di Vichy. Cioè della Francia che, negli anni Quaranta, aveva collaborato con Adolf Hitler. Cinquant'anni dopo in Francia si assiste a un «passaggio di focalizzazione», da Vichy all'Algeria, sul quale il procedimento giudiziario ai danni dell'ex prefetto Maurice Papon «agisce come un catalizzatore». Procediamo con ordine. Già nell'ottobre del 1961, a seguito della repressione di una manifestazione di algerini a Parigi (per giorni e giorni la Senna restituì i cadaveri di persone uccise dalla polizia), in un editoriale dei «Les Temps Modernes», si poteva leggere: «Pogrom: la parola fino ad ora non si traduceva in francese. Grazie al prefetto Papon, sotto la V Repubblica, questa lacuna è colmata… Gli ebrei rinchiusi al Vélodrome d'Hiver sotto l'occupazione furono trattati dalla polizia tedesca meno selvaggiamente di quanto non siano stati trattati i lavoratori algerini dalla polizia gollista al Palais des Sports». Nello stesso numero di «Les Temps Modernes» veniva pubblicato un appello redatto da Claude Lanzmann in cui era scritto: «Tra gli algerini ammassati al Palais des Sports in attesa di essere espulsi e gli ebrei rinchiusi a Drancy, prima della deportazione, noi ci rifiutiamo di fare differenza». Quando poi, tra il 1997 e il 1998, quello stesso prefetto Papon che abbiamo appena incontrato come responsabile della caccia agli algerini a Parigi, verrà portato a processo (e condannato, secondo e ultimo in Francia per quel che riguarda le connessioni con la Shoah, dopo Paul Touvier) per aver dato, in qualità di segretario generale della prefettura di Bordeaux, un contributo assai rilevante alla deportazione degli ebrei all'epoca di Vichy, il cerchio si chiuderà. Ma perché si era dovuto attendere così a lungo, fino a dopo la morte nel 1996 del presidente della Repubblica francese François Mitterrand? Mitterrand era stato — pur senza macchiarsi di delitti — un uomo di Vichy (un libro di Pierre Péan del 1994, Une jeunesse française, pubblicato da Fayard, raccontava, sulla base di una ricca documentazione, di come avesse fatto parte negli anni Trenta del gruppo delle «croci di fuoco», avesse poi lavorato per l'amministrazione di Pétain e fosse stato addirittura insignito della «Francisque», la decorazione che premiava coloro che avevano ben meritato per servizi resi al regime filonazista). Lo stesso Mitterrand era stato — dieci, quindici anni dopo — un rappresentante di primo piano di quella Francia che aveva combattuto, spesso con metodi inumani, gli insorti algerini. Ma Papon era risultato direttamente coinvolto sia nella deportazione degli ebrei di Bordeaux tra il 1942 e il 1944, sia nella repressione degli algerini di Parigi il 17 ottobre del 1961 (fortunatamente per lui furono tralasciate le responsabilità che aveva avuto negli anni Cinquanta come prefetto di Costantina). E il processo per quel che di terribile era stato fatto con il suo contributo agli israeliti, presto si estese a ciò di cui si era reso responsabile a danno degli algerini. Nonostante il dibattimento dovesse essere dedicato per intero a ciò che era accaduto ai tempi di Vichy, in un'udienza dell'autunno 1997, lo storico e giornalista Jean-Luc Einaudi, autore di una documentata ricerca sui misfatti di quel giorno d'ottobre del 1961 in cui fu repressa la manifestazione degli algerini, fu ascoltato, su richiesta delle parti civili, come «esperto dei fatti». Quali fatti? «Trentacinque anni dopo la firma degli accordi di Évian», si sorprese il settimanale «Le Point», «la guerra d'Algeria si è invitata senza avvertire alla sbarra del processo Papon». «Ci aspettavamo Vichy e abbiamo avuto la guerra d'Algeria», ribadì «Libération». Einaudi, querelato per diffamazione da Papon, si lamentò di non aver potuto consultare le carte di polizia che riguardavano l'operato del prefetto. Il Primo ministro Lionel Jospin decise di aprire immediatamente gli archivi.
La saldatura tra Vichy e l'Algeria generò un corto circuito. «A più riprese — ha scritto lo storico Henry Rousso —, ci siamo imbattuti in questa prossimità tra i due processi, il ricordo di Vichy, la cui evoluzione recente si inscrive nel quadro internazionale della memoria della Shoah, e quello della guerra d'Algeria; il paragone tra Vichy e Algeria non rientra semplicemente nel campo dell'esercizio euristico: è indispensabile per comprendere i due fenomeni». Così, prosegue Brazzoduro, sul finire degli anni Novanta, «mentre le memorie relative a Vichy si stemperano e scivolano progressivamente ai margini della scena, con movimento inverso la guerra d'Algeria si colloca al centro del dibattito pubblico e dell'attenzione dei media». Assumendo «i tratti salienti dell'ossessione». Talché oggi con l'occhio dello storico è lecito che ci si ponga una domanda: è forse la Francia guarita dalla sindrome di Vichy per cadere in quella algerina? Nella seconda metà degli anni Novanta, ha scritto Guy Pervillé, «la contraddizione tra il dovere di memoria sempre più esigente invocato in favore degli eroi e delle vittime della Seconda guerra mondiale e il dovere di oblio riservato a quelle della guerra franco-algerina diventa sempre meno sopportabile».
A innescare un nuovo caso fu, il 14 giugno del 2000, la visita a Parigi del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika che rifiutò di incontrare gli harkis, i rappresentanti delle forze ausiliarie dell'esercito francese reclutate in Algeria tra la popolazione indigena. Rifiutò con la seguente motivazione: «È come se si chiedesse a un francese della Resistenza di stringere la mano di un collaborazionista». Vivace fu la reazione degli ex combattenti. Il loro giornale, «La Voix», definì quel rifiuto «inammissibile» dal momento che prima degli accordi di Évian (1962) gli harkis erano stati a tutti gli effetti cittadini di Francia «che hanno portato l'uniforme francese e si sono battuti per la sua bandiera». L'atmosfera si surriscaldò poi ulteriormente quando «Le Monde», il 20 giugno, pubblicò in prima pagina un articolo di Florence Beaugé dal titolo: «Torturata dall'esercito francese in Algeria, Lila cerca l'uomo che l'ha salvata». Si parlava della militante algerina Louisette Ighilahriz (nome di battaglia Lila) catturata il 28 settembre del 1957 e sottoposta a tortura fino al 26 dicembre dello stesso anno. A interrogarla con metodi oltremodo brutali era stato il capitano Jean Graziani e alle percosse erano stati presenti, secondo l'accusatrice, i generali Jacques Massu e Marcel Bigeard. L'ufficiale che l'aveva salvata e che adesso lei voleva ringraziare era il medico militare Francis Richaud. Le prime reazioni furono di sdegno: il generale Bigeard negò l'accaduto e disse che si trattava di «una macchinazione per demolire tutto quanto c'è di pulito in Francia». A sorpresa, però, Massu, l'uomo che nel 1957 si era visto affidare poteri pressoché illimitati per «pacificare» la città di Algeri, si sottrasse al rito ipocrita del diniego. Pur dicendo di non ricordare l'episodio specifico, ammise: «Tutto questo faceva parte di un certo clima, a quell'epoca, ad Algeri». Poi fece di più. Dichiarò il proprio rammarico per l'episodio dove «le cose sembrano essere andate davvero troppo lontano», e anche per la pratica della tortura che «non è indispensabile in tempo di guerra». Giungendo a riconoscere: «Avremmo potuto fare tutto in un altro modo», ma «questa azione, certamente riprovevole, era coperta, cioè ordinata dalle autorità civili». La sua intervista costituì un fatto davvero eccezionale e rappresentò, secondo Brazzoduro, «la spia di una discontinuità, l'indizio di un nuovo assetto negli equilibri del lavoro della memoria, individuale e collettiva». A Lila fu comunicato che Richaud era morto nel 1997 e lei, dopo essersi detta addolorata per non averlo potuto ringraziare direttamente, aggiunse: «Il fatto che la verità venga finalmente alla luce mi libera di un grande peso; ottengo giustizia attraverso la verità, non domandavo nient'altro… È un rimedio che mi libererà dalle mie angosce».
Il 16 settembre la Ighilahriz fu invitata alla festa del quotidiano comunista «l'Humanité». Dal pubblico si alzò una voce: «Proibisco, a voi comunisti, di parlare così! Siete voi che dovete essere accusati perché avete mandato il contingente in Algeria, perché avete votato i poteri speciali, perché non avete mai voluto riconoscere l'indipendenza dell'Algeria prima di esservi costretti» (il resoconto su «l'Humanité» è di Charles Silvestre che aveva organizzato l'incontro). I giornali di centro e di destra furono ancora più imbarazzati nel riferirne. Ma non finisce qui. Il 2000 continua a essere un anno di tormenti. Il 31 ottobre (anniversario dell'insurrezione algerina del '54) «l'Humanité» pubblica un appello a Chirac e Jospin perché prendano l'iniziativa di «condannare la tortura che è stata praticata in nome della Francia». «Le Monde» si dichiara d'accordo. Fioccano anche, però, le lettere di dissenso. L'associazione degli ex combattenti si dice scandalizzata dall'«interminabile feuilleton» sulla tortura e il suo presidente Wladyslas Marek denuncia le «campagne per infangare e colpevolizzare i due milioni di uomini che hanno servito nei ranghi dell'esercito francese durante la guerra d'Algeria». Come era stato per Massu, fa scalpore l'intervento su «Le Monde» dell'ottantaduenne generale Paul Aussaresses che ammette di aver ucciso con le sue mani ventiquattro prigionieri algerini (e aggiunge: «Se fosse da rifare, mi seccherebbe, ma rifarei la stessa cosa, perché non credo si possa agire altrimenti») ma chiama in causa i responsabili dei governi dell'epoca «perfettamente al corrente delle modalità con cui l'esercito provvedeva a "pacificare l'Algeria"». A questo punto i firmatari dell'appello, spalleggiati dai parlamentari comunisti, chiedono la creazione di una commissione d'inchiesta. Jospin riconosce che la tortura in Algeria è stata praticata con l'avallo di «alcune» autorità francesi e sostiene che è sufficiente aprire gli archivi agli storici: «Nella sostanza — osserva Brazzoduro —, il Primo ministro rifiuta di riconoscere la responsabilità dell'autorità dell'epoca (e cioè, almeno fino al 1958, dei socialisti) adoperando il noto argomento secondo il quale lo Stato non deve essere chiamato in causa essendo gli atti di tortura "minoritari". Per parte sua Chirac equipara le violenze dell'esercito francese a quelle del Fln con l'argomento delle "mele marce": "è certo" che ci sono state, "e da entrambi i lati", atrocità "che non si possono che condannare, senza riserva evidentemente" ma erano "opera, naturalmente, di minoranze". Quand'ecco che viene data alle stampe una ricerca di Raphaelle Branche basata sullo spoglio dei diari di marcia dei reggimenti francesi, inchiesta che "conferma definitivamente come la tortura sia stata tutt'altro che l'opera di qualche militare isolato"».
Il 5 dicembre del 2002, nel quarantennale della fine della guerra, Jacques Chirac cerca di mettere fine alle polemiche inaugurando a Parigi un Memoriale nazionale dedicato alla decolonizzazione in Algeria, Marocco e Tunisia. «Oltre al riconoscimento della guerra — scrive Brazzoduro —, l'evento sancisce il passaggio, nel linguaggio ufficiale della Repubblica, dalla centralità del monumento ai caduti, oramai decisamente fuori moda, a quella del Memoriale che poteva sembrare relativamente un'eccezione negli anni Novanta: in questo slittamento di senso non è difficile riconoscere ancora una volta i tratti del quadro referenziale della Shoah, il cui Memoriale sarà inaugurato nel centro di Parigi il 25 gennaio 2005». Ma l'eco sulla stampa è modesta. Per giunta «Libération» scopre che tra i «morti per la Francia» cui il Memoriale rende omaggio c'è il già citato capitano Graziani, l'aguzzino di Louisette Ighilahriz. Seguirà una nuova «guerra delle date» per la celebrazione della ricorrenza, guerra che «ben oltre la sclerotica contrapposizione identitaria del mondo dei reduci, investì anche il Parlamento». Al cospetto di questa spaccatura, Jospin decise di soprassedere «per non imporre una data commemorativa che in quanto tale avrebbe dovuto avere un carattere consensuale». Poi furono le elezioni presidenziali e, ironia della sorte (ma forse anche a causa di quelle discussioni) Lionel Jospin fu clamorosamente escluso dal ballottaggio a favore di due reduci d'Algeria: Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen. E quel dibattito sui nessi tra la stagione di Vichy e quella della guerra d'Algeria finì, provvisoriamente, in soffitta. Ma, c'è da esserne certi, adesso che i socialisti sono tornati all'Eliseo, presto tornerà a riproporsi.

Corriere 10.7.12
Hoxha, padrone dell’Albania comunista e razionalista
risponde Sergio Romano


Non ho mai letto un giudizio chiaro e esaustivo su Enver Hoxha, il dittatore comunista (stalinista?) albanese che per 45 anni ha isolato, in un grande carcere, il suo popolo lontano dal mondo occidentale e orientale.
Lavdrim Lita

Caro Lita,
Il migliore ritratto italiano di Enver Hoxha è probabilmente quello scritto da un diplomatico, Gian Paolo Tozzoli, che fu ambasciatore a Tirana dal 1978 al 1981 e pubblicò nel 1989, presso l'editore Franco Angeli, un libro intitolato Il caso Albania, l'ultima frontiera dello stalinismo. Non lo conobbe personalmente perché il dittatore non si offriva allo sguardo degli estranei, ma si immerse nella interminabile lettura dei suoi scritti autobiografici e poté parlare con persone che lo avevano frequentato, fra cui un uomo d'affari italiano, partigiano in Albania durante la guerra, che ne era diventato amico.
Hoxha nacque cittadino ottomano ad Argirocastro nel 1908, in una facoltosa famiglia di commercianti musulmani, e poté completare i suoi studi all'Università di Montpellier. In Francia, nel tempestoso clima politico dei primi anni Trenta, fece il suo apprendistato comunista nella redazione de L'Humanité. Al ritorno in patria insegnò il francese ai ragazzi borghesi di Corizza, nell'Albania sud-orientale, sotto lo sguardo vigile di poliziotti che conoscevano i suoi legami politici, ma lo trattarono, tutto sommato, con una certa benevolenza. Il suo momento venne dopo l'occupazione italiana e lo scoppio della guerra. Tozzoli non può fornire molti particolari sulla partecipazione di Hoxha alla guerriglia contro le truppe italiane e tedesche, ma il conflitto fu certamente la scuola dove apprese a destreggiarsi fra le diverse fazioni della resistenza e a sbarazzarsi degli amici-nemici che lo separavano dal potere.
Alla fine della guerra, quando fu solidamente istallato alla testa del partito, capì subito che il principale Paese comunista della penisola balcanica — la Jugoslavia — era più pericoloso, per l'indipendenza albanese, delle detestate potenze capitaliste dell'Occidente. Per sottrarsi a Tito scelse di essere il più devoto e inflessibile seguace dello stalinismo nella regione. La protezione di Stalin, soprattutto dopo l'espulsione della Jugoslavia dal Kominform, gli garantì il potere e gli dette le occasioni necessarie per eliminare ogni possibile concorrente. Ma la svolta di Kruscev, la destalinizzazione e il riavvicinamento fra Mosca e Belgrado lo esposero a molti rischi e lo misero di fronte a una scelta difficile: ricercare una intesa con Tito e accettarne le condizioni o trasformare l'Albania in una sorta roccaforte assediata, orgogliosamente isolata dal resto del mondo? Scelse la seconda strada e si spinse sino a cacciare il presidio sovietico da Valona, dove l'Urss aveva installato una base per i sommergibili della sua flotta.
L'operazione riuscì anche perché Hoxha poté sostituire Stalin con Mao, la protezione di Mosca con quella di Pechino. Cina e Albania erano straordinariamente diverse — un gigante la prima, un nano la seconda — ma avevano nemici comuni e ciascuno dei due poteva trarre dall'amicizia qualche vantaggio. Fra alti e bassi questo matrimonio ineguale durò 17 anni e permise a Hoxha di stroncare sul nascere qualsiasi opposizione. Alla fine del suo ritratto Tozzoli scrive che il dittatore albanese fu contemporaneamente un inflessibile comunista e un testardo nazionalista, tenace e irriducibile, ma dotato di una «notevole capacità dialettica e di un'intelligenza lucida e acuta». In gioventù invece, secondo il suo amico italiano, era stato «un simpatico ragazzo di bell'aspetto, amante del buon vivere, allegro, di ottima compagnia, dalla battuta scherzosa, spigliato narratore di barzellette salaci». Ma anche di Stalin si dice che fosse, dopo qualche bicchiere di vino georgiano, un simpatico compagno di bagordi.

Corriere 10.7.12
Il pensiero forte della piccola filosofa
di Severino Colombo


«Non leggo i giornali… Non mi informo… Non voglio essere al corrente… Oppongo un ottuso diniego». C'è un solo personaggio capace di presentarsi in maniera tanto sfrontata. Per di più in tempi grami di informazione continua e «obbligatoria»: è la bambina filosofica. La striscia citata apre il volume a fumetti La bambina filosofica. Houston, abbiamo un problema appena uscito per Rizzoli Lizard (pp. 144, € 15). La strip che lo chiude non è da meno: «Sono un vero fiore del male», a orgoglioso commento dell'ennesima cattiveria.
All'anagrafe letteraria la bambina filosofica ha più o meno nove anni, creata e «allevata» a marshmallow e cinismo dalla disegnatrice Vanna Vinci (Cagliari, 1964). L'autrice, premio Gran Guinigi al Lucca Comics & Games nel 2005, insegna all'Accademia di belle arti di Bologna e collabora con «Linus», «l'Unità» e «Io Donna». La piccola peste ha fatto le sue prime apparizioni sulla rivista «Mondo Naif», poi si è costruita un mondo suo attraverso una serie di albi. Nell'ultimo la baby pensatrice («Sono una fanatica del dubbio… Mi esercito tutti i giorni… Appena alzata dubito sempre almeno una buona mezz'ora») si fa paladina del buonsenso, mandando a farsi friggere il politically correct, e dà voce alla cattiva coscienza contemporanea. Diretta: «Certe avanguardie… fanno la muffa subito!». Fulminante: «Gioco coi massimi sistemi… prima li smonto… e poi cerco di rimontarli senza istruzioni». Impertinente: «Nessuno mi invita più alle feste... Devono aver scoperto che sono intelligente». Corrosiva: «I tempi bui del Medioevo… Ora come ora… Abbagliano…». Specialista nel nuotare controcorrente, la ragazzina fa tabula rasa della scivolosa melassa buonista che ricopre le macerie del pensiero debole e omologato e tira fuori le unghie per difendere le cause perse: come la necessità di un dizionario di parolacce per bambini («Preferisci che una volta adulti… Passino direttamente alle armi da fuoco?!»); gli «Atti di terrorismo virale alle elementari» (varicella? peste?) per estinguere dal basso la razza umana. O il progetto di trasferirsi sulla luna «e finire lì i miei anni in solitudine»: costruisce una lavatrice-astronave e, colbacco in testa, moon boot ai piedi, alluna davvero, nell'occhio del satellite già preso di mira da Georges Méliès nel suo Le voyage dans la lune (1902); qui sostituisce la bandiera americana, «vecchia e ciancicata», con la sua che riporta i due pilastri della filosofia (bambina) «Nichilismo o barbarie», e fa arrabbiare i «lunigli», conigli lunari cinefili che la abitano.
Impossibile raccontare le situazioni, le gallerie di mostri sacri (rigorosamente desacralizzati), le stranite espressioni e le posture del personaggio — la faccia da spleen è da vedere — che aggiungono senso alle storie. Ma il messaggio arriva forte e chiaro e quanto a numero di caratteri è su misura per Twitter dove la bambina si presenta nel suo stile: «Ci sarà pure in questo social uno straccio di essere vivente, anche monocellulare, da angariare?!».
Il libro si beve a sorsi, piccoli o grandi: ci sono pensieri risolti in una striscia, altri che prendono più pagine; alcuni indigesti come un bicchiere d'assenzio inacidito, alcuni sonoramente digeribili come una Coca- Cola. Tutti lasciano in bocca il sapore amarognolo della vita, con il retrogusto dolce di chi ne ha capito il senso.

Corriere 10.7.12
Davide disse sì a Merab (ma sposò la sorella)
Fu Saul a non mantenere la parola data Poi l'eroe si vendicò con i nipoti del re
di Armando Torno


La Bibbia racconta numerose storie d'amore e, tra esse, ve n'è una sovente dimenticata, che non riuscì a concludersi nel migliore dei modi. È quella di Davide con Merab. Questa donna era figlia di Saul, Re d'Israele, appartenente alla tribù di Beniamino.
Si legge nel Primo Libro di Samuele che Davide era amato e riusciva in tutte le sue imprese. Un giorno fu chiamato da Saul che gli disse: «Ecco Merab, mia figlia maggiore. La do in moglie a te. Tu dovrai essere il mio guerriero e combatterai le battaglie del Signore» (18, 17). Il prescelto rispose: «Chi sono io e che importanza ha la famiglia di mio padre in Israele, perché io possa diventare genero del re?» (18, 18). Lì per lì tutto sembrava risolto ma poi — c'è anche in tal caso un «ma» come in tutte le storie d'amore — «quando venne il tempo di dare Merab, figlia di Saul, a Davide, fu data invece in moglie ad Adriel di Mecola» (18, 19). Per il promesso sposo comunque si presentò un'altra occasione, sempre nella potente famiglia. Si legge nel libro biblico: «Intanto Mikal, l'altra figlia di Saul, s'invaghì di Davide; ne riferirono a Saul e la cosa gli piacque» (1 Samuele 18, 20).
Ora, a prescindere da quel che covava dentro il suo cuore il Re — mentre confidava al prescelto: «Oggi hai una seconda occasione per diventare mio genero», pensava: «Gliela darò, ma sarà per lui una trappola e la mano dei Filistei cadrà su di lui» (1 Samuele, 18, 21) — va detto che le nozze si celebrarono comunque, anche se con un cambio di sposa. Non abbiamo i tempi dell'attesa e di un eventuale incontro, e non è il caso di aggiungere considerazioni, ma è certo che Merab (in ebraico significa «in abbondanza»), figlia maggiore di Saul faceva parte di un obbligo: il Re l'avrebbe dovuta dare in sposa a Davide per un impegno che il popolo prese con chi avesse sconfitto il gigante Golia (1 Samuele 17,25). Lei lo amava? Pare di no, se dovessimo credere sempre a un passo dove si ricorda che il sentimento lo provava Mikal, escludendo in tal modo la sorella.
Comunque i due si saranno visti, forse preparati; nulla di più. Certo è che Davide non riuscì nemmeno in seguito ad essere tenero o gentile con lei. Sappiamo che Merab ebbe cinque figli da Adriel di Mecola e Davide li consegnò, con altri della famiglia di Saul, ai gabaoniti (ovvero di Gabaon, città regale degli Evei, identificata con l'odierna el-Gib), e costoro li uccisero tutti. Da tale vicenda si può trarre una semplice morale: Saul e Davide si preoccupano soltanto dei loro interessi e per Merab non ebbero alcuna considerazione. La sua storia d'amore fallì prima di iniziare. Ma possiamo credere ai fatti?
Abbiamo rivolto questa domanda a un biblista ferratissimo, Gianantonio Borgonovo, che prima di rispondere ha subito aperto l'originale ebraico (il Testo Masoretico) e ha letto: «Hamšèt bnê Mikàl», ovvero: «I cinque figli di Mikal». E si è chiesto: «Erano veramente i figli di Merab?». Senonché il Secondo Libro di Samuele precisa: «Mikal, figlia di Saul, non ebbe figli fino al giorno della sua morte» (6,23). E allora? Di chi erano quei bambini? Borgonovo ci assicura che altri due manoscritti ebraici leggono «Merab» (sebbene la versione greca dei Settanta riporti Michol, ovvero Mikal). I Targumin (opere contenenti la versione aramaica commentata della Bibbia ebraica) riportano la seguente lezione per un passo del Secondo Libro di Samuele 21,8: «I cinque figli di Merab che Mikal, figlia di Saul, allevò, i quali ella partorì». Si può, grosso modo, sciogliere il giallo credendo che Merab ebbe cinque figli ma forse morì giovane e la sorella li allevò, giacché non ebbe prole e poi fu ripudiata da Davide.
Forse ci fu un errore del copista e la storia d'amore mancò di lieto fine oltre che di coordinate sicure. Noi che non desideriamo veder morire giovane Merab e proviamo orrore nel pensare all'uccisione dei suoi cinque figli, crediamo che il suo sia un sentimento che è corso anche altrove, forse nella pagine del Cantico dei Cantici. Non potrebbe essere lei la donna senza nome che insegue l'amato in tutto il poemetto?

Corriere 10.7.12
Ippolito fu ucciso dal biglietto di Fedra
di Eva Cantarella


S i può commettere un delitto anche senza uccidere materialmente. Come accadde, in un celebre mito, alla corte di Trezene, dove il re Teseo si era trasferito con la moglie Fedra. A palazzo, con loro, viveva anche Ippolito, che il re aveva avuto da una relazione con la regina delle Amazzoni. Devoto alla dea Artemide, in onore della quale aveva fatto voto di castità, Ippolito passava il tempo nei boschi, intento alla caccia. Era bellissimo, e Fedra, che se ne era innamorata, si struggeva dal desiderio in silenzio, consapevole dell'impossibilità del suo amore. Senonché un giorno la sua nutrice, pensando di aiutarla, rivelò il segreto a Ippolito che si scagliò in una violenta invettiva contro Fedra e le donne tutte: quell'«ambiguo malanno», disse, che Zeus ha mandato tra noi uomini per rovinarci. Per Fedra fu la fine: non sopportando la vergogna che, disse, sarebbe ricaduta anche sui suoi figli, si impiccò: ma prima di farlo scrisse un biglietto, accusando Ippolito di averla sedotta. Teseo, tornato in città, leggendo il biglietto le credette, e non potendo immaginare quel che era realmente accaduto maledisse il figlio, cacciandolo dalla casa e la città. Disperato, Ippolito si avvio verso l'esilio, ma venne travolto dalle cavalle che trainavano il suo carro e miseramente morì.

Corriere 10.7.12
Un comitato di esperti valuterà i disegni attribuiti a Caravaggio


Si è riunito ieri al Castello Sforzesco di Milano il comitato di esperti per lo studio del Fondo Peterzano, composto da Maria Teresa Fiorio, Giulio Bora, Claudio Salsi, Francesca Rossi e l'assessore cittadino alla Cultura, Stefano Boeri. Il comitato ha dichiarato che «si riserva di considerare, con i tempi e il rigore dovuti, le proposte attributive avanzate dagli autori dell'ebook che riconosce in cento disegni del Fondo Peterzano la mano del Caravaggio». Dopo l'estate, il comitato organizzerà una giornata di studio dedicata al Fondo, che è di proprietà del Comune: esperti, appassionati e curiosi avranno l'opportunità di vedere con i loro occhi alcuni dei disegni del Fondo, che per l'occasione saranno esposti al pubblico.