mercoledì 11 luglio 2012

l’Unità 11.7.12
«Partiti dalla Libia, un’odissea di 15 giorni»
Profughi, 54 corpi in mare «Sono morti uno ad uno»
L’unico sopravvissuto: «Si sono spenti uno ad uno, uccisi dalla sete»
Erano tutti eritrei, diretti in Sicilia a bordo di un gommone che si stava sgonfiando
La denuncia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati: altri 50 sono ancora alla deriva
di Emidio Russo


Erano rimasti senz’acqua, a bordo di un gommone in pessime condizioni. Stavano tentando disperatamente di raggiungere le coste della Sicilia. Sono morti in 54, «si sono spenti uno dopo l’altro», come racconta l’unico superstite all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati.
«Sono morti uno ad uno. Di sete. I venti ci hanno spinto lontani, proprio mentre ci stavamo avvicinando alle coste italiane». È sempre più cimitero Mediterraneo. Una nuova strage in mare nel nostro mare: ci sarebbero almeno 54 cadaveri tra le coste libiche e quelle italiane. Profughi morti nel tentativo di giungere in Italia fuggendo dalla Libia. La denuncia arriva dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), che ha raccolto la testimonianza di un unico superstite: si tratta di un cittadino eritreo, che ha raccontato che erano in 55 ad essersi imbarcati in Libia. Un racconto terribile, una discesa agli inferi in nome delltazione dopo un calvario durato almeno quindici giorni. Come si legge in un comunicato diffuso dallo stesso Unhcr, alcuni pescatori hanno avvistato l’uomo due notti fa a largo delle coste tunisine e hanno allertato la Guardia Costiera tunisina che ha soccorso il superstite.
L’uomo è stato immediatamente portato all’ospedale di Zarzis dove è ricoverato per assideramento e disidratazione. Operatori dell’Unhcr hanno incontrato in ospedale il sopravvissuto che ha dichiarato di esser partito da Tripoli a fine giugno. Dopo un giorno di navigazione l’imbarcazione sarebbe giunta in prossimità della costa italiana ma i forti venti l’avrebbero spinta indietro. Nel giro di pochi giorni il gommone ha iniziato a sgonfiarsi. In base alla testimonianza del sopravvissuto non c’era acqua a bordo ed i passeggeri avrebbero iniziato a morire di disidratazione.
Molti, compreso il superstite, hanno bevuto acqua marina. L’uomo è stato soccorso mentre era aggrappato a resti dell’imbarcazione ed una tanica. Secondo quanto riportato dall’uomo circa la metà dei deceduti erano di nazionalità eritrea, compresi tre suoi parenti.
L’ONDA UMANA
Dall’inizio dell’anno ad oggi circa 1.300 persone sono giunte via mare in Italia dalla Libia. Un’imbarcazione con 50 fra eritrei e somali è tuttora in mare aperto dopo che ieri l’altro i passeggeri hanno rifiutato il soccorso delle forze armate maltesi. Nel 2012 fino ad ora sono giunte a Malta circa mille persone, in 14 sbarchi. Altre due imbarcazioni sono state intercettate dai maltesi ma hanno continuato il loro viaggio verso l’Italia. L’Unhcr stima che quest’anno siano circa 170 le persone morte o disperse in mare nel tentativo di giungere in Europa dalla Libia.
Sotto accusa, però, non è soltanto la povertà in Eritrea e la guerra civile di fatto che imperversa in Libia, che spinge migliaia di persone a cercare disperatamente fortuna a queste sponde del Mare nostrum. Nel mirino c’è l’incaopacità di affrontare il tema dei grandi flussi migratori con politiche di lungo respire. Proprio di questo ha parlato ieri anche il ministro Andrea Riccardi. «Vogliamo lavorare sul Mediterraneo non solo con interventi emergenziali, ma con una politica complessiva di sicurezza. Le recenti elezioni in Libia ci fanno ben sperare in un governo stabile con cui parlare. Lavoriamo con la Tunisia, con il Marocco e io mi sono recato in Niger».Così ha detto il titolare della Cooperazione Internazionale Riccardi, che ha incontrato al suo arrivo a Mazara del Vallo (Trapani) il vescovo Domenico Mogavero, il prefetto di Trapani Marilisa Magno, il vicesindaco mazarese Pietro Ingargiola e le autorità militari locali. Dopo una visita alla Casa della Comunità speranza delle suore francescane missionarie di Maria, che fanno corsi per bambini stranieri, e alla casbah della città, il ministro è andato al porto nuovo per incontrare una rappresentanza degli equipaggi dei tre pescherecci mazaresi sequestrati dalle milizie libiche a Bengasi con l’accusa di aver operato in acque territoriali libiche e rilasciati la scorsa settimana. Riccardi è salito a bordo di uno dei motopesca e da lì ha lanciato in acqua una corona di alloro in ricordo delle vittime del mare, mentre le barche suonavano le loro sirene. E ancora non sapevano della nuova strage a pochi chilometri di distanza.

il Fatto 11.7.12
Pedofilia: Cei troppo morbida, il documento non piace al Vaticano
Monsignor Scicluna: “Daremo suggerimenti concreti”
di Marco Politi


Non piace al Vaticano il documento striminzito che la Cei ha preparato sul contrasto agli abusi sessuali. Un testo che mette in luce la ferrea volontà dei vescovi di spogliarsi di ogni “responsabilità nazionale” nel gestire il fenomeno della pedofilia nel clero, scaricando l’onere sui singoli presuli e la Congregazione vaticana per la Dottrina della fede. Proprio dalla Congregazione – il vecchio Sant’Uffizio – è venuto all’improvviso un rabbuffo indirizzato alla Cei.
Intervistato dalla rivista Jesus, il Promotore di giustizia mons. Charles Scicluna – che agisce praticamente da procuratore generale – avverte abbastanza seccamente che la Congregazione “non è in grado di dare un giudizio sulle Linee-guida della Cei, perché questa valutazione non è ancora stata fatta”. Avverrà dopo l’estate “con l’aiuto di esperti”. E aggiunge, Scicluna, a tutti gli episcopati verranno dati, ove necessari, “suggerimenti molto concreti per l’integrazione di alcuni punti o la revisione di alcune enfasi”.
RISPETTO alle regole, che si sono date molte conferenze episcopali europee ed extraeuropee, il documento della Cei fa acqua da tutte le parti. Non si tratta solo del rifiuto di denunciare i criminali con la motivazione che il vescovo “non è pubblico ufficiale” (anche papa Ratzinger non è a favore di un automatismo delle denunce). Piuttosto è il rifiuto totale a organizzare con strutture specifiche il contrasto alla pedofilia ciò che rende sospette le Linee-guida della Chiesa italiana.
Mons. Scicluna già nel 2010, in un’intervista all’Avvenire, aveva affermato esplicitamente: “Mi preoccupa (in Italia) una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa”. Adesso anticipa alcune nuove direttive. La Chiesa, sottolinea, deve impegnarsi “a non agire mai per dissuadere le vittime dal loro diritto di denuncia allo Stato. È un impegno che è bene esplicitare”. Punto secondo: negli Stati Uniti, spiega, esiste l’“obbligo di denuncia e questo rende la vita facile, non bisogna nemmeno discutere”. Però anche negli Stati, come l’Italia, dove l’obbligo non sussiste “bisogna senz’altro aiutare le persone, che vorrebbero denunciare”. E soprattutto “in ogni caso impegnarsi a non creare ostruzionismo alla ricerca legittima della giustizia”.
È UN PUNGOLO alla Cei (e ad altri episcopati inadempienti) di farsi parte molto attiva nel portare i preti-predatori davanti alla giustizia civile. Il lato allarmante della situazione italiana è la cappa del silenzio che la gerarchia ecclesiastica tenta di imporre sul tema dell’organizzazione concreta del contrasto agli abusi. Con le più speciose motivazioni. Ad esempio viene ripetuto spesso a mezza bocca: “In Italia il problema non è così grave come altrove”. Oppure: “Il vescovo è il supremo responsabile in ogni diocesi”.
Quando a maggio furono diffuse le Linee-guida della Cei, il giornale dei vescovi Avvenire evitò di pubblicare uno specchietto sulla situazione europea, mettendo a confronto le regole italiane con quelle di altri Paesi. Il nuovissimo Inserto-Donna dell’Osservatore Romano, che si avvale della collaborazione di personalità anche non cattoliche, si è ben guardato dall’affrontare l’argomento. Il Fatto ha già documentato la maniera precisa con cui a livello nazionale e diocesano procede la Chiesa tedesca. Con referenti e “persone di contatto” a cui ovunque le vittime possono rivolgersi. In Olanda l’episcopato ha affidato due anni fa ad un protestante, ex ministro ed ex sindaco dell’Aja, Wim Deetman, la guida di una commissione indipendente sui casi di pedofilia nel clero dal 1945 ad oggi. Il rapporto conclusivo, che rivela gravi responsabilità delle gerarchie, è stato già presentato nel dicembre scorso! Il documento dei vescovi francesi, intitolato Lutter contre la pedophilie, è lapidario: “Quando si è a conoscenza di un delitto (ricordiamo che lo stupro è un delitto) o di fatti precisi relativi a privazioni, maltrattamenti o violenze sessuali su minori al di sotto dei 15 anni, si deve informare la giustizia. In questi casi, non si può e non si deve tener conto della natura del presunto aggressore. Sia un sacerdote, un educatore laico o un familiare la denuncia è obbligatoria”.
In Svizzera i vescovi hanno deciso che le vittime vanno aiutate, a seconda dei casi, non solo in forma “pastorale e psicoterapeutica (ma) anche finanziaria”. Nelle diocesi svizzere “vengono nominate una o più persone di contatto che ricevono le informazioni e le denunce di abusi sessuali”.
In Austria la commissione indipendente, istituita nel 2010 dal cardinale Schoenborn e guidata da una donna, Waltraud Klasnic ex governatrice della Stiria, nel primo anno aveva già risarcito 58 vittime. I risarcimenti sono suddivisi in quattro categorie; 5.000, 15.000, 25.000 euro o anche importi superiori.
Se la Cei volesse, potrebbe integrare anche subito le sue Linee-guida. Ma ha paura di scoprire gli scheletri negli armadi. Eppure tutti sanno che i ritardi alla fine verrano pagati moralmente a caro prezzo.

l’Unità 11.7.12
Bersani: «L’Italia ha diritto a una democrazia normale»
Appello di 15 parlamentari Pd a favore dell’«Agenda Monti»
Gentiloni: «L’Italia avrà bisogno del professore anche dopo il 2013»
Il segretario: «Problemi metafisici»
di S.C.


ROMA Già qualche ora prima che Mario Monti da Bruxelles escludesse una sua candidatura nel 2013, Pier Luigi Bersani aveva smorzato gli ardori del variegato fronte favorevole a una grande coalizione e un Monti bis nella prossima legislatura. Con questo argomento: «Io penso che l’Italia abbia diritto di essere una democrazia come le altre, con un centrodestra che si confronta con il centrosinistra e il centro decide con chi stare. Questo è lo schema democratico e io non rinuncerò mai all’idea che l’Italia respiri con gli stessi polmoni con cui respirano le altre democrazie».
Il leader del Pd guarda con attenzione ai tentativi disperati del Pdl, diviso al suo interno e con una politica delle alleanze ferma al palo, di farsi promotore di un Monti-bis. Ma guarda con molta attenzione anche ai movimenti di un possibile alleato come l’Udc (dopo l’apertura a un patto di governo tra progressisti e moderati Pier Ferdinando Casini ha evitato di entrare nella fase dei dettagli, su questo) e a quelli tutti interni al suo stesso partito.
LA PROSSIMA LEGISLATURA
Una quindicina di deputati e senatori del Pd ha fatto pubblicare sul “Corriere della Sera” di ieri una lettera appello in cui si chiede di portare l’agenda Monti anche nella prossima legislatura. Tra i firmatari ci sono Tonini, Maran, Morando, Follini, Ichino, Vassallo, Ceccanti, Ranieri, tutti convinti che dal Pd debba uscire ogni «residua ambiguità sul giudizio circa l’azione svolta fino a oggi dal governo Monti» e che vadano bloccate «inaccettabili inversioni di marcia sulle iniziative di riforma dell’esecutivo». I firmatari (ma anche Walter Verini giudica «stimolante e in gran parte condivisibile» l’appello) si sono dati appuntamento per il 20 con un obiettivo chiaro: «promuovere nel Pd una trasparente discussione sulle strade che vanno intraprese perché obiettivi e principi ispiratori dell’agenda del governo Monti possano permeare di sé anche la prossima legislatura».
Bersani, a chi gli chiede un commento su quest iniziativa, si limita a dire che non si occupa di «problemi metafisici»: «Mi interessano invece i problemi sul tappeto». E su questo dà appuntamento all’Assemblea nazionale del Pd che si terrà sabato: «Parlo e concludo io». Come a dire che tocca a lui e non ad altri indicare il programma di governo con cui il Pd si candiderà alle prossime elezioni. E che non è «ambiguità» chiedere di «ragionare in Parlamento» per apportare alcune correzioni alla spending review, o di risolvere la drammatica situazione degli esodati (ieri Bersani ha avuto un confronto serrato con alcuni di loro, nella sede del Pd, e ha assicurato che su questo il suo partito non mollerà, anche se il sostegno leale all’esecutivo non mancherà: «Non vi risolverebbe il problema se il governo cadesse»).
CONFRONTO IN ASSEMBLEA
L’Assemblea di sabato si annuncia comunque piuttosto vivace. Bersani illustrerà quelli che a suo giudizio dovranno essere i capisaldi della «carta d’intenti» che sarà alla base della coalizione dei progressisti (che poi sceglieranno il loro candidato premier con le primarie). Ma dovrà fare i conti con i cosiddetti “montiani”, che non sono solo quelli che hanno messo la firma sotto la lettera spedita al “Corriere”. Il loro obiettivo è non chiudere con l’esperienza Monti nella prossima primavera. Dice Gentiloni: «Penso che l’Italia avrà bisogno dopo il 2013 del professor Monti, vedremo in quali funzioni e prendiamo atto delle sue dichiarazioni. Deve però essere certa una cosa: al di là delle decisioni personali, il percorso avviato negli ultimi mesi non può essere fermato».
Ma Bersani dovrà fare i conti anche con i cosiddetti “rottamatori”, che dopo aver letto sulla convocazione dell’Assemblea nazionale che l’argomento primarie non è all’ordine del giorno si sono organizzati. All’appuntamento di sabato, a cui parteciperà anche Matteo Renzi, presenteranno tre ordini del giorno su premiership e candidature. Il primo prevede le primarie obbligatorie per la selezione dei parlamentari (tutti, fuorché il segretario del partito). Il secondo che chi ha già svolto tre mandati non possa essere ricandidato. Il terzo che vengano fissate entro settembre regole e data delle primarie «di partito o di coalizione per la scelta del nostro candidato alla guida del governo, da tenersi entro la fine del 2012». E se altre volte analoghi ordini del giorno non sono stati messi in votazione, questa volta Pippo Civati mette in chiaro: «A scanso di equivoci, questa volta chiederemo di votare. In ogni caso». La raccolta di firme per poterli presentare è già partita.

l’Unità 11.7.12
Giorgio Tonini: «Monti va sostenuto, le critiche disorientano»
intervista di Maria Zegarelli


ROMA Una lettera con la richiesta al Pd di portare avanti l’agenda Monti anche durante la prossima legislatura ed un’assemblea convocata ad hoc per il 20 a luglio a Roma per ribadire il concetto. L’iniziativa è di quindici parlamentari Pd e tra questi Giorgio Tonini che in questa intervista ne ha per tutti. Tonini, il Pd non sostiene abbastanza il governo Monti? Nasce da qui la lettera? «Diciamo che lo sostiene nei fatti e un po’ meno nelle parole. Usando il Vangelo si dovrebbe recitare: “Fate quello che dicono e non quello che fanno”, qui invece accade il contrario, c’è una scissione tra quello che facciamo in modo leale in Parlamento e quello che alcuni dicono. È come se avessimo un certo imbarazzo a dire quello che stiamo facendo fino in fondo, a dire che l’agenda del governo è la nostra agenda». Esagerate le critiche anche sugli esodati o sui tagli a sanità e servizi?
«Da parte di alcuni, non direi Bersani, sì e mi riferisco a persone della segreteria». Si riferisce a Fassina e Orfini?
«Certo, e non solo a loro. Non sono dei passanti, hanno ruoli di responsabilità importanti».
A chi altri si riferisce?
«Anche a l’Unità, a quella copertina che associava un intervento di Monti ad un manifesto di epoca fascista. L’ho trovata di pessimo gusto».
L’Unità non ha mai associato Monti al fascismo. Ha ironizzato sulla diffida a Squinzi, messo all’indice come anti-italiano solo per aver espresso una critica. Sicuro che non è lei ad esagerare? «Affatto. Solo qualche giorno fa titolavate “Fornero ministro incostituzionale”». Aveva appena detto il contrario dell’art. 4 della Costituzione: che il lavoro non è un diritto. Le pare una gaffe da poco? «Se avesse detto così non sarei stato d’accordo, ma il suo testo era molto più complesso: non si può aspettare che qualcuno garantisca il tuo diritto. Insomma, la propaganda che fanno alcuni dirigenti di partito e alcuni organi di stampa a noi vicini, seppur legittima, dà il senso di un disagio».
Quindi il governo andrebbe sostenuto “senza se e senza ma” da tutti, giornali compresi?
«Non dico che bisogna tacere le nostre critiche ma se siamo convinti che il governo sta facendo il bene del Paese, e lo sta facendo, lo dobbiamo sostenere. I giornali hanno tutto il diritto di dire la loro ma è evidente che a volte creano disorientamento».
Nella lettera sostenete che l’agenda Monti debba essere mantenuta anche durante la prossima legislatura.
«Direi di sì, dobbiamo essere i primi a candidarci a proseguire l’opera iniziata da Monti anche durante la prossima legislatura».
Bersani oggi è stato freddino nel replicare alla vostra iniziativa.
«Mi sembra abbia risposto che non si occupa di metafisica. Neanche noi: questa è politica, il Pd sta lavorando alle proprie proposte per la prossima legislatura e noi quindici, che non contiamo niente, pensiamo che nel costruire questo programma si dovrebbero privilegiare gli elementi e i tratti di continuità anziché il contrario».
Una “contro-assemblea” subito dopo quella del partito?
«Molti organizzano iniziative per dire che votano i provvedimenti del governo turandosi il naso, noi vorremmo organizzarne una per dare voce a chi, e sono tanti, appoggia convintamente l’esecutivo e anzi vorrebbe incalzarlo affinché sia ancora più riformista affondando il bisturi nel Paese perché così com’è non va bene. L’Italia spende troppo per il passato e sacrifica il futuro».

Corriere 11.7.12
I «montiani» Pd: «Siamo pronti a partecipare alle primarie»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Nelle intenzioni di Pier Luigi Bersani quella del 14 luglio avrebbe dovuto essere un'assemblea nazionale tranquilla. E invece rischia di trasformarsi in un appuntamento difficile per il segretario. Non solo perché all'incontro parteciperà — e, soprattutto, parlerà — il sindaco di Firenze Matteo Renzi (ed è sicuro che il suo intervento scuoterà i vertici del partito). Ma anche perché in quella sede i quindici parlamentari che hanno firmato la lettera-documento in cui si chiede al Pd di «portare oltre il 2013 l'agenda Monti» faranno sentire le loro ragioni. Che Pietro Ichino illustra con queste parole: «A sentire le dichiarazioni di Cesare Damiano e Stefano Fassina si ha la sensazione di un partito che sostiene il governo perché vi è obbligato, ma lo fa desiderando di riavere al più presto mani libere, per poter disfare gran parte di ciò che oggi si approva e, sostanzialmente, cambiare linea. Questa sensazione non corrisponde affatto a quello che pensa la maggioranza degli elettori del Partito democratico, attuali e potenziali. Ma gli osservatori e gli operatori stranieri sentono quel che dicono i portavoce ufficiali: si capisce, dunque, che neppure la prospettiva di un esecutivo a guida Pd li tranquillizzi».
Perciò, secondo Ichino, certe prese di posizione di alcuni esponenti del suo partito «sono dannose» e vi è quindi «l'esigenza di un chiarimento interno». Chiarimento che i «quindici» intendono avviare già all'assemblea nazionale. «È necessario affrontare il problema del 2013 — osserva Paolo Gentiloni — perché non si può pensare che il Pd faccia come Penelope e disfi la tela di Monti». E a giudizio di Gentiloni bisogna prevedere una larga coalizione anche per la prossima legislatura. Ma non è finita qui. I firmatari di quell'appello non escludono nemmeno di presentare un loro candidato alle primarie, come spiega Ichino: «Se Bersani dirà che intende portare avanti l'agenda Monti nella prossima legislatura noi appoggeremo la sua candidatura, se non lo farà ma ci convincerà che il suo programma è migliore lo sosterremo, se non ci convincerà presenteremo un nostro candidato alle primarie». Chi sarà mai? Ichino non lo dice e rinvia all'autunno la decisione, Gentiloni fa lo stesso. Ma nelle due riunioni che hanno preceduto l'uscita pubblica dei «quindici» è circolato sia il nome dello stesso Ichino che quello di Matteo Renzi. Anche il sindaco di Firenze infatti potrebbe essere l'uomo adatto per portare avanti l'agenda Monti.
Il segretario Pier Luigi Bersani non sembra per niente entusiasta di questa iniziativa: «Non mi occupo di problemi metafisici. Io penso ai problemi sul tappeto e all'assemblea apro io e concludo io». Come a dire: il candidato premier c'è già e sono io. Replica Ichino: «Di primo acchito ho trovato persino preoccupanti le parole del segretario, che sembra non cogliere il carattere cruciale della questione da noi posta. Però, a ben vedere, mi ha tranquillizzato il fatto che Bersani sia comunque consapevole di non poter pubblicamente sostenere una linea contraria al documento come quella di Fassina».
I «quindici» si sono dati appuntamento per un'iniziativa pubblica il 20 luglio ed è probabile che per quella data vi saranno nuove adesioni. Allo stato la maggior parte dei firmatari è d'area veltroniana, ma l'ex leader del Pd non ha appoggiato questa scelta ritenendola «poco opportuna» in questa fase.

il Fatto 11.7.12
Il Parlamento inutile
di Furio Colombo


Sei stato convocato con urgenza e tassativo ordine di partecipazione e puntualita”. Ma l’aula è vuota. Non c’è alcuna presenza e alcun dibattito.
Sono i commessi a dirti sottovoce: annunceranno il voto di fiducia a mezzogiorno o all’una, e si vota qualche ora dopo. Vuol dire che passi di fronte al banco della Presidenza della Camera e puoi solo di dire un “sì” o un “no”. Segue una breve discussione finale sugli ordini del giorno, più che altro un po’ di conversazione e una gentilezza verso i pochi parlamentari che prenderanno la parola, ciascuno per pochi minuti, su questioni che sono per forza marginali. Subito dopo siamo pronti per un altro voto di fiducia.
Perché è necessario? Perché il tempo è stretto, perché “il governo non può rischiare cambiamenti”. Ogni dettaglio è già stato concordato con amici e meno amici in Europa. Tecnicamente è una democrazia strana.
Costituzionalmente è un Parlamento inutile. Politicamente non c’è via di scampo, perché non si possono sciogliere le Camere. Non solo non è stata cambiata la legge elettorale, ma la situazione economica, che sta condizionando così gravemente la vita interna, non tollera sospensioni. Vedete? Ci muoviamo lungo un percorso necessario e impossibile. Come se ne esce, a parte indignazione e protesta (che, come abbiamo imparato, è mal tollerata)? Bisogna accettare una verità amara e banale. Il male che sta rendendo assurda non solo la funzione del Parlamento ma anche, e soprattutto, la vita dei cittadini, non è, come tutti diciamo, la cattiveria aggressiva dell’economia e delle sue feroci speculazioni. È qui, è tra noi, è politica. Partiti corrotti ci hanno portati al terminal e consegnato ai guardiani. Partiti esangui si accodano senza volere o sapere cos’altro fare. Guardali dentro. Non c’è vita. Osservali nelle piccole cose, tipo la Rai. Ricominciano da capo, al livello della continua ricerca di un minimo garantito. Niente coraggio, nessuna idea, neppure l’ombra di una visione del che fare. Se la scorciatoia è illegale (come la sostituzione arbitraria e improvvisa di un membro della Commissione di Vigilanza) la prendiamo per buona in cambio di una cosina.
A piccoli passi strascicati che non lasciano traccia, usciamo dalla politica, dando la colpa all’economia, ed entriamo nel sottomondo del baratto: ti do, mi dai. È una fine che non assomiglia all’inizio. La Resistenza, ricordate?

l’Unità 11.7.12
La sinistra deve ripartire dalla “persona”
di Emilio Barucci


Bene ha fatto l’Unità a dare il via con Mario Tronti al dibattito sul superamento del dilemma delle due sinistre: quella di governo e quella contestatrice. Se irrisolto, questo dualismo rischia infatti di diventare il catalizzatore di un dibattito del tutto privo di concretezza.
Un dibattito, quello sulle alleanze, che finirebbe gioco forza per evidenziare l’incapacità di governo della sinistra. Se vogliamo uscire da questo dilemma, occorre dare conto di quella che è stata la sinistra negli ultimi venti anni, degli stravolgimenti che ha dovuto fronteggiare e fornire qualche indicazione per il futuro.
Cosa è stata la sinistra italiana negli ultimi venti anni? Nelle parole di Tronti e di Vendola sembra che quella di governo sia stata poco autonoma, vittima delle suggestioni della terza via blairiana, addirittura succube del liberismo. Liquidare così l’esperienza di governo della sinistra appare ingeneroso, e non fa i conti con la realtà. Questa interpretazione tralascia di ricordare i limiti dell’azione di governo della sinistra più radicale e non tiene conto di alcuni mutamenti che hanno cambiato il suo mondo di riferimento e di conseguenza messo in crisi la sua proposta. Pensare che la fine del berlusconismo e la crisi finanziaria creino le condizioni per regolare i conti con la cultura liberista infiltrata a sinistra sarebbe illusorio. La cultura liberista è stata infatti una risposta a cambiamenti della nostra società che non scompaiono dall’oggi al domani.
Occorre riflettere su almeno tre mutamenti. Il primo è che il blocco del lavoro per lo più dipendente si è frantumato (precari, autonomi, piccoli imprenditori). Il conflitto capitale-lavoro ha perso di centralità. Questo ha portato alla perdita del blocco sociale di riferimento per la sinistra. Di pari passo la società si è articolata attorno a una miriade di temi (ambiente, diritti civili, giustizialismo, localismo) che l’hanno resa complessa. Una moltitudine di individui che si attiva su questioni che assumono natura totalizzante. Sebbene la diseguaglianza sia aumentata, oggi si fanno battaglie che non sempre sono quelle classiche della sinistra. Il secondo elemento è quello della sostenibilità delle conquiste sociali. Una società sempre più complessa ha dovuto fare i conti con bisogni crescenti e con insidie difficili da governare (invecchiamento della popolazione, concorrenza dei Paesi emergenti). Questo ha portato all’accumulo di un ingente debito pubblico e, negli anni recenti, ad un arretramento rispetto agli standard di tutele e di welfare raggiunti negli anni ’80. L’insostenibilità delle conquiste sociali è stata un brusco risveglio: non siamo più di fronte ad un processo cumulativo senza arretramenti. Il terzo passaggio è rappresentato dalla globalizzazione. Un fenomeno che non riguarda solo i mercati, anche le istituzioni di governo si sono globalizzate spesso senza regole mentre le forme di rappresentanza (partiti, sindacati) hanno segnato il passo. Accanto a queste trasformazioni abbiamo la rivoluzione tecnologica che ha contribuito al frantumarsi del blocco lavoro: le potenzialità del singolo sono enormemente cresciute, oggi ognuno può ben dirsi imprenditore di se stesso.
Questo mix di fattori ha creato i presupposti per una nuova centralità dell’individuo padrone delle proprie scelte, conscio dei suoi diritti, quasi arrogante. Se si vede il bicchiere mezzo pieno si parla di liberalismo, se lo si vede mezzo vuoto di individualismo. Di fatto la figura dello Stato è divenuta più distante, la rappresentanza dei partiti si è rarefatta, l’intreccio dei corpi intermedi si è indebolito. Il vero corto circuito degli ultimi venti anni è che questo assetto non si è rigenerato ed ha finito per lasciare l’individuo senza difese di fronte al mercato. Questo ha prodotto la degenerazione del liberalismo in liberismo: il mercato diviene nei fatti il luogo ultimo della mediazione sociale. In questo quadro, la sinistra di governo negli anni 90 è stata sicuramente poco autonoma, ha proceduto a tentoni, ha fatto errori ma in larga misura non è stata succube dell’equivoco.
Da dove ripartire? Mi limito a individuare re pensieri di fondo. L’esperienza comunista e quella del cattolicesimo democratico portavano con sé un disegno salvifico per l’uomo. Questo disegno si è perso: il gioco politico si concentra solo sugli strumenti e non sul fine ultimo che è la persona. La sinistra deve riappropriarsi di questa dimensione ridefinendo l’insieme dei diritti che fanno la dignità di una persona e battersi per loro uscendo dalla logica delle battaglie di retroguardia e della vuota uguaglianza dei punti di partenza. Secondo, dal pieno riconoscimento della centralità dell’individuo non si torna indietro, su questo occorre essere coerenti non si può aprire sui diritti sociali e della persona e tirare il freno su quelli economici. Bisogna però recuperare la categoria tanto cara a Marx del «potere» che pregna ancora di sé i rapporti economici. Il mercato e le eteree autorità di regolazione non bastano, serve un nuovo ruolo del pubblico, nuove forme di partecipazione e di rappresentanza che diano voce a chi è svantaggiato.
Infine occorre fuggire l’idea che una società con più tutele sia garanzia di un futuro migliore: potremmo essere più uguali ma anche più poveri. La sfida si gioca ancora sul fronte della competitività, solo con la crescita avremo meno diseguaglianza. I mutamenti che abbiamo descritto non ci permettono di pensare all’Italia come un’isola felice da organizzare secondo il nostro ideale di giustizia sociale. Questa illusione di ritorno ai bei tempi andati sarebbe davvero un errore fatale che la sinistra non può permettersi.

l’Unità 11.7.12
È il momento di avere di nuovo coraggio
di Vincenzo Vita


HA INVOCATO IL SUPERAMENTO DELLE “DUE SINISTRE” MARIO TRONTI SU L’UNITÀ DELLO SCORSO 5 LUGLIO. E ha ragione. Vendola ha ripreso il discorso positivamente. Tuttavia, è utile dire più apertamente: perché Partito democratico e Sinistra, ecologia e libertà non si danno un percorso unitario il cui sbocco sia la fusione in un medesimo contenitore? I temi e i motivi della rottura del 2007 (all’ultimo congresso dei Democratici di sinistra) e le stesse ragioni che diedero vita a Sel sono ancora staticamente attuali o, piuttosto, richiedono un mutamento profondo di entrambi i poli dialettici? Ovviamente, è di una rivoluzione della morfologia del sistema politico del centrosinistra che c’è bisogno, mettendo in linea gli orologi con il tempo inedito che viviamo.
È il tempo della crisi della politica, della incapacità di quest’ultima di rappresentanza e nel contempo di rappresentazione. Si tratta di ricostruire, annodandoli in una trama rinnovata, i fili di una soggettività alternativa. Che si candidi a governare l’Italia dopo il periodo (così deve essere) di transizione eccezionale interpretato da Monti.
In quel vecchio dibattito sbagliammo tutti. Il Pd si è rivelato un’operazione fatta a freddo, senza un’anima. È diventato, purtroppo, una sorta di confederazione di correnti, pur guidata con buon senso da Bersani. Però rispondeva ad una giusta logica difensiva, in un periodo di smottamento del concetto (e della pratica) del “partito”. A sinistra il rilancio è avvenuto solo lasciandosi alle spalle il periodo rissoso dell’Arcobaleno, grazie alla collocazione esterna ma unitaria scelta da Vendola e dal suo gruppo dirigente. Ora si tratta di avere il coraggio di una rottura di continuità. Per ricostruire una sinistra moderna, in grado di riaprire il dialogo con una società mutata nelle sue fondamenta. Liquida, decostruita, popolata da nicchie spesso sconnesse e disperate, mondializzata e “mediatizzata”, ma plasmata da una folla di solitudini, richiede una lettura realistica. Appunto, un nuovo realismo, come ha detto un rilevante e obliquo dibattito culturale. E il partito, piuttosto che un’aggregazione stabile, deve diventare una rigorosa “parzialità”, dialogando con lavoro manuale e lavoro intellettuale, quarto e quinto stato. Anzi. Il partito ha da essere un software aperto, capace di liberare energie e di riprodurre forme innovative di politica. Senza copyright. Un contenitore più adatto al tempo reale che stiamo vivendo in rete, utilizzata quest’ultima non come bacheca, bensì come luogo di organizzazione partecipata. Obama docet. Partito 2.0, si dice, ma senza chiacchiere alla moda.
Nichi Vendola indica tre coordinate: lavoro, Stati uniti d’Europa, valori e moralità, come i riferimenti obbligati del percorso da avviare. Giusto. Da aggiungere, declinandoli a mo’ di criteri generali, l’universo delle culture e dei linguaggi digitali, e l’approccio dei beni comuni. Cosa osta, allora, a superare sul serio le “due sinistre”? L’ubriacatura liberista, che ha “occupato” la componente maggioritaria del mondo progressista negli ultimi venticinque anni, è in rotta. Travolta dai suoi stessi spiriti animali, trascinati dal e nel finanzcapitalismo, oscura origine della geometrica potenza della crisi attuale. Che gli economisti classici hanno tardato a capire, proprio perché vittime delle loro stesse macchinazioni.
Si apre di necessità un’era ben differente, in cui la posta in gioco è la medesima sussistenza dello spirito pubblico. Della politica intesa nella sua versione più autentica di pòlis. In due parole: la sinistra o è la nuova politica o non è. In fondo, la vittoria di Hollande nasce così. Guai ad arrampicarsi sui bla-bla dei programmi, divenuti l’alibi per tutte le avventure. Il programma non è un elenco infinito di capitoli, contraddittori e spesso sbiaditi per le defaticanti mediazioni della scrittura. Vi ricordate Lenin di “soviet+elettrificazione”? Appunto, qualcosa, mutatis mutandis, del genere. Un’utopia possibile: lavoro e democrazia digitale. Servono a tal fine le “primarie”? Sì, ma solo a condizione che abbiano un percorso politico aperto che accompagni il voto, diventando la premessa per lo sbocco politico unitario. Non per contarsi, per contare tutti insieme.
Rimangono irrisolte due questioni contigue, ma “altre”: il processo di confronto, indispensabile, con l’Italia dei valori e quello con la Federazione della sinistra. Con l’Idv va riaperto il dialogo in Parlamento. Ci si può candidare al governo dell’Italia, se non si sa agire l’unità delle diversità? Il popolo del centrosinistra è uno solo. E di questo si deve tener conto.

l’Unità 11.7.12
Siamo sicuri che le sinistre siano solamente due?
di Andrea Ranieri


MA SIAMO SICURI CHE LE SINISTRE SONO SOLO DUE? LA DOMANDA NON È RETORICA, PERCHÉ LA RIDUZIONE A DUE È TIPICA DI QUELLO SCHEMA DIALETTICO, in cui o si trova la mediazione o ci si scontra, che spesso ha impedito il dialogo e l’accoglimento delle diversità al proprio interno e soprattutto nel vasto mondo che ci circonda e che per fortuna ha qualche problema a farsi ridurre dentro quello schema dialettico.
Questo problema fu già presente al momento della costruzione del Pd, quando si confrontarono due esigenze, quella di mettere insieme due culture riformiste in estrema sintesi quella socialdemocratica e quella cattolica -, e quella di confrontarsi con il nuovo che era nato fuori e qualche volta contro di noi. Le culture del femminismo, dell’ambientalismo, dei beni comuni, dell’associazionismo di base, del pacifismo radicale. Prevalse la prima esigenza, senza oltrettutto arrivare ad una sintesi politica, ma ossificando le differenze in filiere di appartenenza, in cui il due si moltiplicava in tanti sottogruppi che riflettevano le differenze esistenti dentro le stesse culture originarie, fino ad arrivare alla iper personalizzazione dei punti di riferimento. I gruppi parlamentari del Partito democratico sono in gran parte il frutto di questa cultura organizzativa a “canne d’organo” che usò spregiudicatamente il “porcellum” per consolidarsi.
Nel frattempo la sinistra antagonista andò incontro ad un disastro elettorale, sperimentando come lo stesso antagonismo non fosse in grado di dare rappresentanza politica a quel modo cresciuto fuori dagli schemi tradizionali della sinistra.
Fortunatamente la gente ha continuato a fare politica anche fuori da quegli schemi. Coi referendum sui beni comuni, con il grande movimento delle donne “se non ora quando”, nelle tante reti che uniscono le persone che cercano di ripensare la politica a partire dai luoghi dove lavorano e dove abitano. Assumendo su di sé il compito fondamentale e il prerequisito di ogni processo di trasformazione.
Rifare società. Quella società frantumata dal distaccarsi da essa dell’economia, e dall’imporsi del personalismo mediatico come modo prevalente di fare politica.
Sperimentando come dal proprio “locale” si posempre più distante e impersonale, il mitico mercato, che rende sempre più difficile la progettazione di una azione sociale più libera, più consapevole, più responsabile.
Credo che la sinistra che verrà dovrà avere come problema fondamentale quello di aiutare a crescere queste reti di azione diretta, senza pretendere di guidarle, sapendo che non saranno mai sue, ma sapendo al contempo che senza di esse sarà impossibile vincere e governare.
Una sinistra che si proponga questo non può più essere né centralista né leaderista. Il problema non è scegliere il leader che ha la “narrazione” migliore, quello che la racconta meglio, ma quello di far emergere, di mettere in rete le tante narrazioni di chi non ha piegato la testa di fronte alla crisi, di chi si è impegnato a fare cultura, società, impresa nel proprio territorio e nel proprio posto di lavoro, facendo i conti da lì con la globalizzazione, e spesso trovando risposte che la politica non cerca e non trova.
La sinistra che verrà non potrà non avere nel suo Dna il federalismo, perché è nei territori che è possibile pensare e d agire una strategia di sviluppo sostenibile, che vada oltre l’attesa, tra l’altro irrealistica, di veder ripartire quella crescita che è stata alla base della crisi economica, sociale, ambientale entro cui siamo immersi. Ed è solo in una sinistra federalista, capace di valorizzare la ricchezza e il senso globale del suo agire locale, che potrà nascere una nuova idea dell’Europa, della sua centralità per opporsi alla globalizzazione deregolata e per aprire spazi a quello sviluppo territoriale capace di tenere insieme la competitività e la coesione sociale, la qualità del lavoro e quella dell’acqua e dell’aria che respiriamo.

l’Unità 11.7.12
Il Pd non deve farsi logorare. Lanci subito la sfida di governo
Raccogliamo l’esperienza di Hollande. Poi le primarie di programma
di Pietro Folena Sergio Gentili Carlo Ghezzi
Pd Laboratorio Politico per la Sinistra


LE ULTIME SETTIMANE SI SONO INCARICATE DI SPIEGARE A CHI NON L’AVESSE ANCORA CAPITO E, DALLE PARTI DEL GOVERNO SONO IN MOLTI, quanto sia profonda la crisi che si è aperta in Occidente e nel mondo. È una crisi del capitalismo finanziario, a cui fa a malapena il solletico quell’insieme di misure e di terapie tutte fondate su un rigorismo ottuso e antisociale che le destre europee hanno imposto a molti Stati, passando sopra alla sovranità popolare e ad una storia pluridecennale di conquiste, che va sotto il nome di «modello sociale europeo». Lo spread tra i Bpt italiani e i Bund tedeschi è poco sotto i 500, come nel periodo peggiore dell’ultimo Berlusconi. Sono stati bruciati i sacrifici fatti e pagati solo dai redditi medio-bassi, dal lavoro dipendente, dai ceti medi, dai pensionati, dal lavoro, dal Mezzogiorno e dalle famiglie con l’Imu. Come nel gioco dell’oca siamo tornati alla casella di partenza. E in più: con l’intollerabile disoccupazione di giovani e di donne, con un Paese in recessione e un governo che non ha un’idea per la crescita. A ciò si aggiungono i tagli al settore pubblico che mescola strumentalmente interventi giusti contro sprechi e scarsa efficienza di molti settori, con mazzate formidabili a settori come la sanità, la
scuola e la ricerca, la giustizia.
Il colpo violento inferto all’Istituto nazionale di Fisica nucleare, nei giorni del successo italiano nella ricerca sulla «particella di Dio» non è un semplice incidente di percorso. La Germania è più competitiva perché ha mantenuto e sviluppato un forte settore pubblico, ha investito nella ricerca e nella cultura, crede nell’intervento dello Stato.
Ora, viene alla luce con più nettezza il duplice problema che caratterizza la transizione italiana: l’ideologia liberale e liberista di cui è intriso questo governo, con importanti eccezioni, secondo cui il pubblico è per antonomasia un fardello da ridurre al minimo; e il carattere tecnico, volto a incanalare la profondissima sfiducia popolare nei confronti dei partiti e della politica in direzione di una tecnocrazia legata a doppio filo a banche, sistema finanziario, editoria e che vorrebbe ancora Mario Monti alla guida del governo anche nella prossima legislatura: è il segreto di Pulcinella. Alla domanda relativa a che cosa fare nei dieci lunghi mesi che ci dividono dalle elezioni del 2013, di cui sei bloccati dal «semestre bianco», è difficile trovare una risposta convincente: se non quella di assistere al tentativo di logoramento dell’unica prospettiva di passare a un governo politico, fondato su una maggioranza scelta dagli elettori, rappresentata dal Partito democratico. Ciò però non dovrà accadere. È per questo che è indispensabile che l’Assemblea nazionale del Pd prenda una forte iniziativa politica, adeguata a questo passaggio difficilissimo.
Il Pd oggi, per non farsi logorare, deve guardare al Paese, e smetterla di discutere delle persone; cedere alla personalizzazione della politica, è come pensare di costruire una casa dal tetto. Deve fare semplicemente tre cose: 1) indicare i punti di programma per il lavoro e lo sviluppo sostenibile, proponendo la patrimoniale, che Monti ha rifiutato di fare, la lotta alla speculazione finanziaria e all’evasione fiscale; l’esempio francese pensiamo al programma con cui François Hollande ha vinto le elezioniva decisamente raccolto; 2) proporre al confronto di tutte le forze che si sono opposte a Berlusconi e al centro-destra «il programma» e farlo diventare, attraverso una grande mobilitazione popolare, il cuore del confronto sociale e culturale con la società italiana (primarie di programma, una grande assemblea comune per un progetto democratico per l’Italia) e stabilire un vero e proprio patto di legislatura; 3) escludere fin d’ora ogni forma di grande coalizione o governi di solidarietà nazionale anche sotto forma tecnica.
Il tempo è poco, e la fiducia dei cittadini è scarsa. Da settembre comincia di fatto una lunga campagna elettorale nella quale il Pd deve mettere in gioco tutta la sua forza e intelligenza. E, quando sarà il momento, con la stessa determinazione del sostegno a Bersani, bisognerà operare per selezionare in modo democratico e partecipato le candidature al Parlamento, con un grande e coraggioso rinnovamento.
Matteo Renzi vuole rovesciare l’ordine dei processi, e cominciare dalla scelta del candidato premier? L’unica strada, che ha è quella di chiedere un congresso straordinario in cui si decida se cambiare politica, segretario e candidato, per fare Renzi segretario e candidato sulla base della sua politica tardo liberista. Sarebbe una cosa da marziani. Ma c’è qualcuno che sembra davvero fuori dal mondo.

Corriere 11.7.12
Stallo tra i partiti La legge elettorale va in Parlamento
E al Senato avanza il semipresidenzialismo
di Monica Guerzoni


ROMA — L'ultimatum di Napolitano è stato raccolto dai presidenti di Camera e Senato, ma non dai partiti. Non c'è alcun accordo tra Pd e Pdl per modificare la legge elettorale, la caravella delle trattative si è incagliata sul duplice scoglio delle preferenze e del premio di maggioranza e adesso, alle forze politiche, non resta che andare in Aula per un confronto al buio.
La battaglia è delicatissima e si incrocia con la sfida sulle riforme. Pd, Udc e Idv hanno chiesto di non discuterne la prossima settimana, ma sono stati sconfitti dall'asse Pdl-Lega. Con 149 no e 122 sì Palazzo Madama ha deciso che il duello sull'elezione diretta del capo dello Stato ripartirà il 17 luglio. E Maurizio Gasparri esulta: «Un fatto storico».
La tenzone tra Palazzo Madama e Montecitorio per calendarizzare la modifica del Porcellum si è risolta a favore di Renato Schifani. «Non c'è alcun braccio di ferro in atto...», assicurano ai piani alti della Camera, ma intanto la notizia è che sarà il Senato a discutere la legge elettorale. Il relatore Luciano Malan (Pdl) avrà dieci di giorni per presentare alla commissione Affari costituzionali una bozza di testo unificato, nata in seno a un Comitato ristretto che dovrà rappresentare tutti i gruppi. Ma per quanto Schifani auspichi un «confronto condiviso», il lavoro si annuncia arduo. A dividere è il sistema per la scelta dei parlamentari, questione cruciale su cui è in atto un confronto dal sapore ideologico.
L'Udc vuole le preferenze e Pier Ferdinando Casini ironizza sulle «preoccupanti amnesie» di chi evoca «clientelismi e corruttele» e dimentica come i cittadini eleggano così i loro consiglieri nei Comuni e nelle Regioni. In asse con i centristi il Pdl si schiera per le preferenze, ma Pier Luigi Bersani è determinato a battersi: «Se uno mi dice che vuole le preferenze e non il premio di maggioranza, io rispondo che non ci possiamo mettere tra Tangentopoli e la Grecia». I democratici rischiano di rimanere isolati. Gli elettori premono anche dal web, dando segno di non capire perché il Pd non voglia restituire loro la libertà di scegliersi i parlamentari. Il motivo è che le preferenze fanno lievitare i costi e favoriscono le infiltrazioni criminali, ma a sera Anna Finocchiaro apre: «Una nuova legge elettorale con le preferenze è meglio di un Porcellum allo stato attuale».
Il Pd non ha i numeri dalla sua parte. Al Senato infatti Pdl e Lega hanno la maggioranza ed è per questo, stando a una lettura maliziosa che circola tra i democratici, che Schifani si sarebbe «impuntato» per non farsi scippare dalla Camera la legge elettorale. Ufficialmente nessuno lo dice, ma è chiaro che i nemici del patto di Vasto tra Bersani, Vendola e Di Pietro hanno tutto l'interesse a ripartire dalla bozza Violante, perché un modello più proporzionale che maggioritario ostacola una solida alleanza di centrosinistra e facilita la grande coalizione.
La novità è che ora Beppe Grillo difende il sistema in vigore e accusa i partiti di volerlo cambiare solo per boicottare il Movimento 5 stelle. «Con il Porcellum — scrive il comico sul suo blog — il M5s potrebbe ottenere il premio di maggioranza. Per i partiti sarebbe notte. Pece nera». Il clima non sembra favorevole a un'intesa in tempi rapidi, non a caso Gasparri osserva che se i giorni «non sono dieci ma 24» al Pdl va bene lo stesso. Chi volesse forzare le parole del capo dello Stato potrebbe dedurne che il Porcellum si può cambiare con una maggioranza qualunque, ma il presidente della commissione Affari costituzionali, Carlo Vizzini, fa scongiuri: «Attenzione, Pdl e Lega hanno la maggioranza al Senato ma non in commissione, né nell'Aula della Camera». Il caos, insomma, regna sovrano. E Marco Follini commenta su Twitter: «Tutti quelli che hanno voluto il Porcellum ora lo vogliono cambiare. La prossima legge elettorale si chiamerà "lacrime di Coccodrillum"».

l’Unità 11.7.12
Il Vaticano scomunica il vescovo «ordinato» da Pechino
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO L’Alleanza della Chiesa patriottica legata al governo di Pechino lo scorso 6 luglio ha nominato un vescovo senza il consenso del pontefice. Ieri è arrivata la preannunciata condanna vaticana per l’ordinazione episcopale considerata «illegittima» perché avvenuta «senza il mandato pontificio» del reverendo Giuseppe Yue Fusheng, avvenuta ad Harbin, nel nord della Cina. Nella nota si sottolinea come al religioso fosse stato più volte comunicato che questo assenso non ci sarebbe stato e che quindi la sua ordinazione sarebbe stata considerata un atto di rottura verso il Papa e la Chiesa di Roma. E come per lui e per tutti coloro che avessero presenziato alla sua ordinazione, sarebbe scattata la scomunica automatica. È questo che prevede, infatti, il Codice di Diritto Canonico.
La presa di posizione vaticana contiene anche altro. A Pechino si chiede coerenza, perché se si vuole un effettivo dialogo non vanno compiuti gesti contrari, di rottura. Il braccio di ferro tra il Vaticano e il governo cinese è fatto di proteste, riconoscimenti, gesti di chiusura ma anche tiepide aperture. La stessa nota della Santa Sede esprime, infatti, «apprezzamento per tutti i cinesi che hanno pregato per il ravvedimento del reverendo» e confida nell’effettivo desiderio di dialogo delle autorità governative cinesi. Vi è quindi l’invito a prendere atto del fatto che è sempre più significativa la realtà di cattolici che guardano al Papa e che per loro occorre rispetto. Al tempo stesso il Vaticano tenta di fare il vuoto attorno a quei religiosi «ribelli» che accettano le ordinazioni illegittime rompono il vincolo di fedeltà al pontefice. Come per il reverendo Yue Fusheng che «è privo dell’autorità di governare i sacerdoti e la comunità cattolica nella provincia di Heilongjiang». Se per lui è scattata la scomunica, meno automatica è per quei vescovi «che hanno preso parte all’ordinazione episcopale illegittima». Dovranno riferire «alla Santa Sede circa la loro partecipazione alla cerimonia religiosa». Potrebbero, infatti, essere stati obbligati a presenziare all’ordinazione.
Il Vaticano esprime, invece, «apprezzamento e incoraggiamento» per l’altra ordinazione, questa «legittima», del reverendo Taddeo Ma Daqin a vescovo ausiliare della diocesi di Shanghai, avvenuta il 7 luglio. Ma del neo vescovo da sabato si sarebbero perse le tracce. Secondo alcune fonti sarebbe stato trattenuto dalla polizia cinese all’interno del seminario di Sheshan dopo il suo annuncio di voler lasciare l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi.

il Fatto 11.7.12
I neonazisti camuffati da viticultori
Per ottenere stanze e sale conferenze per congressi: manuale per riconoscerli
di Jochen Martin Gutsch


Grunheide Molti albergatori dell’ex Germania Est non vorrebbero avere dei neo-nazisti tra i loro ospiti. Ma i gruppi di estremisti di destra spesso prenotano sotto mentite spoglie per non essere individuati. Il Land di Brandeburgo è intervenuto con una iniziativa che si propone di aiutare il settore alberghiero ad individuare gli ospiti indesiderati.
Olaf Lucke, presidente dell’Associazione albergatori e ristoratori del brandeburghese, racconta brevemente la “Storia di Grunheide” per far meglio capire i problemi che debbono affrontare gli albergatori e i ristoratori.
A Grunheide, non lontano da Berlino, c’è l’Hotel Seegarten. Un giorno il proprietario ricevette una richiesta di informazioni da una “associazioni di aziende vinicole” che voleva prenotare alcune stanze e la sala conferenze per il mese di gennaio del 2012. L’albergatore ne fu molto contento anche perché solitamente i mesi invernali sono quelli in cui si lavora di meno. Quando verso la metà di gennaio si presentarono un centinaio di sedicenti “viticoltori”, l’albergatore non poté nascondere la sua meraviglia. Erano accompagnati da furgoni della polizia e - cosa ancora più insolita - nessuno parlava di vino, ma tutti parlavano di politica.
I CORDIALI “viticoltori” erano in realtà esponenti del partito di estrema destra Npd. La faccenda si rivelò quanto mai sgradevole per l’albergatore che si trovò con oltre 100 neo-nazisti ospiti del suo hotel. Cosa fare? Cacciarli? Se lo avesse fatto avrebbe corso il rischio di essere citato in tribunale.
Così non fece nulla e la sezione della Sassonia del Npd tenne la sua riunione di capodanno all’Hotel Seegarten. La faccenda scatenò furibonde polemiche a Grunheide e, passata la tempesta, tutti cominciarono a chiedersi in che modo impedire che la cosa potesse ripetersi in futuro.
Olaf Lucke indica una cartellina sulla sua scrivania: “Tutti i ristoratori e gli albergatori della zona riceveranno questo opuscolo che contiene una serie di indicazioni pratiche”, dice Lucke. Accanto a lui è seduta Martina Munch, assessore alla pubblica istruzione del Land di Brandeburgo. “Non siamo obbligati ad ospitare estremisti di destra”, dice. Ma per non ospitarli bisogna imparare a riconoscerli. Ed è qui che entra in gioco l’opuscolo che Lucke e Munch presentano a Potsdam. A pagina 6 e 7 c’è un elenco di simboli – alcuni meno chiari di altri – che aiutano ad individuare le organizzazioni di estrema destra.
TRA I SIMBOLI forse meno noti “il sole nero”, la “triscele”, la “svastica rovesciata”. Gli albergatori debbono imparare quasi a memoria le informazioni contenute nel manuale per poter tenere alla larga i neonazisti. Le “ricorrenze degli estremisti di destra” sono elencate a pagina 11 del manuale. Secondo il manuale le prenotazioni per il 18 gennaio vanno considerate con sospetto in quanto in quel giorno i neonazisti festeggiano “la fondazione del Reich che risale al 18 gennaio 1871”. Un altro giorno pericoloso è il 15 febbraio, giorno in cui ebbe inizio “il bombardamento di Cottbus (una città del Land di Brandeburgo) ad opera degli Alleati”. Poi c’è il 24 settembre, “anniversario della morte di Ian Stuart Donaldson, fondatore della rete neonazista Blood and Honour”.
Certo non è facile. I neonazisti hanno tutto l’interesse a nascondersi e certo non si presentano alla reception dicendo: “Heil Hitler, io e i miei amici vorremmo un paio di stanze per non fumatori per il popolo tedesco, il Reich e il fuhrer”. Se si comportassero così sarebbe tutto più facile.
Le prenotazioni in genere le fanno dei prestanome. Inoltre ci sono organizzazioni di estrema destra che si celano dietro nomi come “Società per la storia e la cultura”. Ma, ciò che più conta, non è chiara la situazione sotto il profilo legislativo. Un albergatore ha il diritto di allontanare dal suo albergo degli estremisti di destra? O di rifiutare una prenotazione se ritiene che gli ospiti facciano capo ad un gruppo neonazista?
A marzo la Corte federale ha reso noto il dispositivo di una sentenza che costituisce un precedente. L’ex capo del Npd, Udo Voigt, aveva prenotato un stanza in un albergo con piscina termale dove voleva trascorrere alcuni giorni di riposo. Ma ancor prima di arrivare sul posto gli era stato notificato che la sua prenotazione era stata cancellata. Era legale una iniziativa del genere? Nel dispositivo della sentenza la Corte federale sostiene che gli albergatori possono rifiutare le prenotazioni di estremisti di destra a causa delle loro posizioni politiche. Ma un albergatore deve rispettare la prenotazione una volta che l’ha accettata a meno che non intervengano fatti straordinari: ad esempio le proteste degli altri ospiti disturbati dal comportamento degli estremisti.
NON ERA questo il caso dell’ex capo del Npd Voigt. “È necessario un po’ di coraggio civile”, dice Martina Munch. “Bisogna prendere posizione con fermezza”, aggiunge Lucke. La guida fornisce molti suggerimenti anche per preparare la modulistica e le clausole di rescissione dei contratti. Alla fin fine, tuttavia, si resta con la sensazione che gli albergatori siano abbandonati a se stessi e che possono contare solo sul loro coraggio e sulle loro convinzioni.
Il Npd è un partito ufficialmente riconosciuto che si presenta alle elezioni. La polizia protegge le dimostrazioni degli estremisti di destra. Disgraziatamente il Npd non può essere messo al bando per tutta una serie di ragioni, sostengono i politici tedeschi. Di conseguenza molti esponenti del Npd siedono nelle assemblee legislative locali. Non di meno ci si aspetta che gli albergatori del Brandeburgo impediscano a persone come Udo Voigt di rilassarsi nelle loro saune.
© Der Spiegel, 2012
Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione  di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 11.7.12
Timbuctù
Quei tesori distrutti da barbari in nome di un falso Islam
di Tahar Ben Jelloun


Quando i Taliban distrussero le due grandi statue del Buddha nella valle di Swat, a nord-est dell’Afghanistan, tutta l’emozione del mondo civile non bastò a fermare quell’impresa criminale, perpetrata in nome dell’Islam. È facile immaginare il piacere provato da quei pericolosi ignoranti per aver fatto esplodere una statua alta più di 40 metri, che risaliva a 1300 anni fa. Le nevrosi e le frustrazioni covano a volte nelle profondità nell’inconscio, per esplodere un giorno devastando il frutto di secoli di civiltà. Oggi altri barbari attaccano i mausolei di Timbuctù, e minacciano di bruciare un tesoro di rari e magnifici manoscritti. La peggiore nemica dell’uomo è l’ignoranza, soprattutto quando è arrogante e soddisfatta. Siamo in presenza di criminali che nulla potrà fermare, se non l’uso di una forza brutale quanto la loro stupidità. I principi democratici privilegiano la legge e il diritto. Ma come contrapporre la giustizia a tanto fanatismo? Come può un discorso razionale aver ragione di sedicenti convinzioni religiose? Per trovare l’origine di quest’ideologia che si accanisce contro i santi e le statue dobbiamo risalire al XVIII secolo, quando un teologo di nome Mohamed Abdel Wahab scrisse una serie di testi per la pratica di un islam puro e duro: testi che dovevano essere interpretati alla lettera, o in altri termini, in maniera fanatica, chiusa e violenta. Quest’ideologia ha dato vita a un rito denominato “wahabismo”, adottato dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri Paesi del Golfo: un rito che impone la sharia e l’applicazione rigorosa di regole e leggi efferate: lapidazione delle adultere, taglio delle mani ai ladri, esecuzione degli apostati sulla pubblica piazza ecc. I Paesi del Maghreb si sono sottratti a questo rito. Ma in Algeria, quando in seguito alle elezioni del 1991 le autorità hanno deciso l’esclusione del Fis (partito del Fronte Islamico della salvezza), è esplosa una guerra civile: gli islamisti, privati della loro vittoria elettorale, hanno scatenato una jihad contro lo Stato e chiunque lo sostenesse, costata più di centomila morti. Alcuni di questi islamisti si erano formati nelle scuole wahabite dell’Arabia Saudita. Uno dei loro primi misfatti è stata la distruzione dei marabout che ospitavano i santi venerati dal popolo: difatti il wahabismo li vieta, al pari dei mausolei e delle statue, argomentando che non devono esistere intermediari tra il credente e Allah. Unica eccezione: il profeta Maometto; tutti gli altri sono usurpatori. «Haram, haram! » (è proibito!) gridavano i distruttori a Timbuctù. E avevano torto, poiché ciò che l’Islam condanna è adorare idoli di pietra e confondere il Dio unico con altre divinità. L’Islam ortodosso, al pari dell’ebraismo, proibisce queste forme di culto, a volte misteriose. Ma per queste due religioni monoteiste i marabout sono solo un retaggio dell’epoca pagana; si tratta in realtà di usanze che non hanno alcuna conseguenza sulla fede. Ogni città, ogni villaggio ha il suo santo. Perciò distruggere il suo mausoleo è un atto di stupidità. Le loro statue sono opere d’arte: un patrimonio che i turisti vengono a visitare da ogni parte del mondo. In Marocco si contano 652 santi, di cui 221 ebrei e 26 donne, ciascuna delle quali ha pure il suo mausoleo. Centoventisei di questi santi sono venerati da ebrei e musulmani. Ogni anno si organizzano pellegrinaggi in loro onore, e sono celebrati dagli ebrei del mondo intero. In Marocco come nel Mali, in Algeria o in Tunisia, la gente ama “confidarsi” col proprio santo. Sarà superstizione, lontana da ogni razionalità scientifica; ma da sempre il Marocco ha consentito alla sua popolazione di partecipare a questo tipo di devozione, che fa parte della sua cultura popolare. I distruttori oggi all’opera in Mali non sono gente di cultura. Si tratta di militanti, che avranno anche imparato il Corano a memoria, ma non l’hanno assolutamente compreso. È però il caso di ricordare che dietro questa barbarie c’ è il wahabismo, sostenuto dagli Stati e dai movimenti salafisti, che oggi minacciano rivoluzioni come quelle della Tunisia e dell’Egitto.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Stampa TuttoLibri 11.7.12
Maiani: risparmiate il Bosone. Senza ricerca addio crescita
di Barbara Gallavotti


Il fisico Luciano Maiani è uno dei più famosi fisici italiani: ha diretto il Cern nelle fasi cruciali della costruzione del superacceleratore di particelle Lhc Nella foto grande una simulazione degli scontri all’interno dell’anello sotterraneo tra Svizzera e Francia
Nessuno può pensare di sfuggire agli effetti della crisi globale. E non si illudono gli scienziati italiani, abituati a riduzioni di bilancio già da anni. Eppure i tagli previsti dalla «spending review» sembrano a molti un colpo fatale. Luciano Maiani, il fisico che ha diretto il Cern nelle fasi cruciali della costruzione dell'acceleratore Lhc, fa i conti dei costi e dei benefici di un provvedimento che colpisce in modo particolarmente doloroso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’ente che ha dato un contributo decisivo alla scoperta del bosone di Higgs. E propone una serie di alternative.
Professore, qual è la sua ricetta? «In tutti i momenti di crisi bisogna pensare che la ricerca è un modo per ripartire e non una spesa inutile. Ricordo che nel 2009, in Gran Bretagna, si decisero molti tagli e risparmi, ma i fondi per la ricerca vennero protetti, perché era giudicata strategica per la crescita. E lo stesso hanno fatto diverse nazioni europee». E allora c’è un modo diverso per risparmiare? «Una diversa organizzazione del mondo della ricerca, a mio avviso, porterebbe a riduzioni di spesa considerevoli senza incidere sensibilmente sulla qualità del lavoro degli scienziati. Avrei visto con favore l’accorpamento di alcuni enti: ne esistono diversi che sono più piccoli di un dipartimento universitario e che spesso hanno programmi che si sovrappongono con quelli di altre istituzioni. Non ha senso che si continuino a sostenere le spese che derivano dall’avere tanti enti inutilmente autonomi e non abbastanza coordinati».
Un esempio? «Abbiamo visto gli effetti positivi di un accorpamento quando l’Istituto Nazionale di Fisica della Materia confluì nel Cnr: la scelta sollevò preoccupazione, ma sulla lunga distanza si è rivelata una ottima». Non solo la ricerca, ma anche le imprese italiane sono in difficoltà: c’è un modo per aiutarle entrambe? «E’ proprio l’interazione tra ricerca e impresa a offrire enormi potenzialità per affrontare la crisi: è importante offrire sgravi d’imposta alle aziende che commissionano agli enti studi e iniziative per migliorare la propria competitività. Questa strada era stata imboccata da Tremonti, ma è stata abbandonata». A chi teme che così si metta a rischio l’indipendenza della ricerca cosa risponde? «Siamo in guerra e ognuno deve fare la sua parte. Nelle emergenze è necessario che tutti collaborino». E la ricerca fondamentale, che per definizione non può essere finanziata dalle imprese? «Anche questa non dev’essere considerata un costo, ma una risorsa. Non possiamo permetterci di perdere le ricadute tecnologiche che produce e i benefici che sulla lunga distanza porta alla società. E neppure rinunciare allo stimolo che rappresenta per le imprese. La costruzione dei magneti di Lhc, per esempio, ha permesso di acquisire competenze che saranno essenziali per la fusione nucleare sperimentata con l’esperimento “Iter”. Ed è significativo che le imprese italiane che attraverso l’Infn hanno sviluppato quei magneti hanno già ottenuto contratti per la costruzione di “Iter” pari a 500 milioni di euro: ci sono diverse aree dell’high tech in cui tante aziende sono diventate competitive in Europa proprio grazie alla collaborazione con l’Infn». Dal punto di vista strettamente economico, il bosone di Higgs è stato un buon investimento? «Assolutamente sì: per 15 anni la costruzione di Lhc e dei suoi esperimenti ha rappresentato uno straordinario programma di incentivi per le imprese europee di alta tecnologia».
Cosa bisogna evitare? «Che i giovani pensino che nella ricerca non c’è futuro. Perderemmo la nostra scuola con le sue capacità di formare menti brillanti e versatili».

La Stampa 11.7.12
L’India compra il carteggio tra Gandhi e l’«amico del cuore» tedesco


Dopo una lunga trattativa e a poche ore dalla messa all’asta a Londra, l’India si è aggiudicata un prezioso carteggio tra il Mahatma Gandhi e un architetto tedesco dove emergerebbe una tendenza omosessuale dell’apostolo della non violenza. L’archivio, composto da fotografie, lettere e qualche oggetto personale, è stato comprato per 60 milioni di rupie (oltre 800 mila euro) dal governo di New Delhi che lo ha così sottratto al martelletto di Sotheby’s. La casa d’aste londinese ha infatti annunciato la sospensione della vendita in seguito all’accordo raggiunto con gli eredi di Hermann Kallenbach, culturista di origine ebraica con cui Gandhi ha avuto un appassionato scambio epistolare per diversi anni. Le lettere inedite si riferiscono alla vita privata e attività pubblica del Mahatma dal 1905, quando conobbe Kallenback in Sudafrica, fino al 1945 poco prima dell’indipendenza dal dominio coloniale britannico. Il carteggio era stato scoperto dallo storico indiano Ramchandra Guha nella soffitta di una delle pronipoti dell’architetto tedesco in Israele.

La Stampa 11.7.12
Nietzsche: “Sono io il padre della Mole”
Vengono ripubblicate le lettere a Burckhardt e si scopre che nella sua follia il filosofo si identificava con Antonelli
di Alberto Cavaglion


Dopotutto avrei preferito di gran lunga essere professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato da tralasciare per causa sua la creazione del mondo». L’ultima lettera di Nietzsche a Jakob Burckhardt, spedita da Torino il 6 gennaio 1889, è nota. Fu in conseguenza di questo scritto che gli amici presero atto della follia. L’importanza della lettera ci è chiara soprattutto dopo l’ampio commento che ne ha fatto Mazzino Montinari; ora che il documento è stato da poco ristampato ( Nietzsche e gli ebrei, a cura di Vivetta Vivarelli, Giuntina, 2011, pp. 267-270) un punto fondamentale rimane da chiarire, importantissimo per Torino.
La lettera stabilisce un nesso fra le memorie torinesi e il controverso rapporto di Nietzsche con l’ebraismo. Lungi dall’essere un precursore del nazionalsocialismo, come dimostrano i recenti, ottimi lavori dello storico israeliano Jacob Golomb, il rapporto del filosofo con l’ebraismo è assai più complesso di quanto si possa immaginare.
Va ora aggiunto un dettaglio: la città che ospitò il filosofo prima del suo definitivo tracollo vanta un diritto di primogenitura, sfuggito agli studiosi e contenuto proprio in questa stessa lettera: «Vede, prosegue Nietzsche, comunque e dovunque si viva, sono necessari dei sacrifici. - E tuttavia mi sono riservato una piccola stanza da studente posta di fronte a Palazzo Carignano (in cui sono nato come Vittorio Emanuele) e che oltretutto mi consente di ascoltare sotto di me, dal tavolo da lavoro, la splendida musica della Galleria Subalpina».
Storici e biografi hanno esplorato ogni recetto del soggiorno torinese, ma nemmeno gli ultimi editori della lettera hanno notato ciò che si nasconde dietro quella seconda nascita in Palazzo Carignano: si tratta del «senso dell’umorismo di un uomo che lotta con tutta la sua forza mentale, che va lentamente deteriorandosi, per restare a galla in un mare in tempesta». Che, sempre nella stessa lettera, Nietzsche manifesti la sua intenzione di «far fucilare tutti gli antisemiti» potrà suonare incredibile solo a chi abbia una frettolosa conoscenza della sua opera. L’invettiva non è da intendersi come un folle grido che proviene da una situazione di caos interiore. Nel sismografo della sua anima Nietzsche ha previsto la devastazione e la catastrofe. È la tesi di Golomb, che ci appare fondata (ed anche stimolante per il suo anticonformismo), ma con una postilla.
Poco prima di auspicare la soppressione di tutti gli antisemiti viventi sotto Bismarck, a proposito di Torino, Nietzsche aggiunge una seconda spiritosaggine: «Quest’autunno sono stato presente due volte al mio funerale, vestito il meno possibile, la prima volta come conte Robilant (no, è mio figlio in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero io stesso. Caro Signor Professore, dovrebbe vedere questo edificio: dato che sono del tutto inesperto delle cose che creo, è a Lei che spetta ogni critica, io Le sarò grato, senza poterLe promettere di trarne dei vantaggi. Noi artisti siamo restii a qualsiasi insegnamento - Oggi mi sono guardato la mia operetta - genialmente moresca - e in questa occasione mi sono divertito…».
Difficile interpretare un testo dove il grado di visionarietà è tanto elevato. Nietzsche prima dice di essere sicut Deus, poi si accontenta di identificarsi nel conte di Robilant, il figlio naturale di Carlo Alberto, morto il 13 novembre 1888; ma quel che per noi è importante sopra ogni altra cosa è quando scrive di esser stato presente al suo funerale partecipando alle esequie di Alessandro Antonelli, l’architetto della Mole morto l’8 ottobre 1888, vale a dire circa un mese prima del conte di Robilant.
Ora non si riesce a capire perché «la [mia] operetta», cui Nietzsche allude quando dice di essere il fantasma di Antonelli, dovrebbe essere la Gran via di Federico Chueca, come continuano a ripetere i curatori tedeschi e italiani della lettera, e non invece, più banalmente, la Mole, «l’edificio», che Antonelli aveva progettato inizialmente come Sinagoga per gli ebrei di Torino. Ardita costruzione (l’originale tedesco di cui Nietzsche si serve è Bauwerk, che significa grande opera architettonica o di ingegneria e non si presta a usi metaforici, perché per questi è disponibile Gebäude ). La Mole fu iniziata nel 1862; i lavori erano terminati due anni prima che Nietzsche resuscitasse due o tre volte in piazza Carignano nelle camere della signora Fino (una tetra lapide inaugurata nel 1944, in piena Repubblica di Salò ce lo ricorda ogni volta che passiamo da quelle parti).
Una mera ipotesi, ma se le cose stessero così, come potrà constatare qualsiasi comune lettore dell’epistolario nella sua ultima parte, l’accesa passione per lo stile moresco di Nietzsche sarebbe un ulteriore elemento che lo avvicinerebbe ai gusti estetici degli ebrei italiani del suo tempo.

Corriere 11.7.12
I classici hanno vinto il tempo e continuano a spiegarci il futuro
«Cina e America li riscoprono, l'Europa non può dimenticarli»
di Armando Torno


Incontriamo allo stesso tavolo Jacques Jouanna e Jean-Louis Ferrary, due studiosi di primo piano del mondo antico. Due autorità in ambito mondiale. Il primo dirige i testi greci e il secondo quelli latini delle collezioni di classici pubblicati dalle Belles Lettres di Parigi. È ormai la più vasta raccolta al mondo e sta raggiungendo i mille volumi (si pensi, per esempio, che la Loeb Classical Library di Harvard è giunta in questi giorni, con un titolo di Ateneo, al 519°).
Dal 1920 questa collezione è continuamente ristampata e aggiornata e quando il 29 maggio 2002 un incendio distrusse il magazzino delle Belles Lettres di Gasny nel dipartimento dell'Eure, ove erano custoditi più di 3 milioni di copie, la «Collection Budé» — così è chiamata confidenzialmente la raccolta di classici — venne ristampata integralmente in pochi mesi. Jouanna e Ferrary ricordano entrambi che i volumi pubblicati ogni anno nella «Budé» variano tra i tredici e i sedici. E che le due collezioni sono un laboratorio aperto a tutti gli studiosi del mondo, alle nuove scoperte, ai cambi di prospettiva. Tutti i testi sono critici, tutti offrono traduzione e ampio commento. Insieme sottolineano che oggi, forse più che nel recente passato, le opere greche e latine sono riprese e costituiscono un riferimento essenziale non soltanto per l'Occidente.
Le biblioteche cinesi, moltiplicatesi in numero e agguerrite nel trattamento dati, le hanno inserite da qualche anno nei loro cataloghi; i filosofi greci e latini sono stati riscoperti per la spiritualità che rappresentano anche oltre i confini europei; al Pentagono, per fare un esempio concreto, si riflette nuovamente sulle strategie dell'Impero romano e del mondo bizantino (Edward Nicolae Luttwak, economista e politologo vicino al Dipartimento americano, ha scritto due saggi in proposito).
È Jouanna che apre il discorso: «Abbiamo da poco pubblicato degli inediti di Galeno, il grande medico greco che operò anche a Roma, con il titolo Ne pas se chagriner (ovvero L'imperturbabilità, n.d.r.). Ci sono state reazioni nel mondo intero, con gratificanti approvazioni, anche se non è mancata qualche critica. Contiene le confidenze a un amico, dopo il devastante incendio avvenuto a Roma nel 192, a causa del quale egli perse i libri, gli strumenti chirurgici, i farmaci rari che raccolse durante i viaggi, molte ricette. È uno scritto che aiuta l'anima dopo le avversità della sorte. Interessava ai medici, così come le opere di Ippocrate che stiamo pubblicando, ma non soltanto. Si è di fronte a continue sorprese quando esce un volume come questo e, grazie ad esso, ci si accorge che il nostro tempo ha bisogno sempre più di capire i suoi fondamenti, le radici da cui proviene». Ferrary prosegue: «Dobbiamo ricordarci che anche nella letteratura latina ci sono sorprese che attendono di essere portate alla luce. L'edizione di Vitruvio, il celebre architetto romano, con il commentario che stiamo realizzando permette di confrontare i risultati dell'archeologia recente e ormai informatizzata con i testi della tradizione. Di capire meglio un monumento, una storia. Abbiamo deciso di dar vita a un confronto sistematico e le scoperte emerse non sono poche. Poi ci sono dei veri e propri cambi di prospettiva. Tra gli ultimi titoli c'è Priapées (i Carmi di Priapo), un'opera considerata licenziosa, oscena, da appendice. La nuova edizione consente di considerare questi versi erotici come un vero e proprio testo letterario, con una sua funzione: specchio di un'epoca e di una moda».
Entrambi considerano fortunato il nostro Paese per il liceo classico. Gli studenti arrivano più preparati degli altri all'università, anche se poi non mancano problemi. Ferrary, che è anche presidente del consiglio di amministrazione dell'École française de Rome, suggerisce questa formula: «La situazione finanziaria per quanto riguarda la cultura è difficile per la Francia, tragica per l'Italia». Jouanna riprende il discorso: «Compito di una collezione di testi greci e latini è anche suggerire letture che rovescino schemi ormai ossidati. Per esempio, sono usciti i Memorabili di Senofonte in una nuova edizione (l'ha realizzata nel testo critico un italiano, Michele Bandini) e, con essa, sono state offerte nuove prospettive di lettura su Socrate. Sta avendo successo negli Usa, dove Leo Strauss aveva preferito al Socrate di Platone quello di Senofonte. È un cambio di interpretazione, dal quale uscirà anche altro. Inoltre abbiamo appena pubblicato un Plotino nuovo (ristamperemo, comunque, anche quello tradizionale). Porfirio ordinò il lascito del maestro adottando uno schema mistico, ascensionale: iniziò dalle realtà inferiori legate al mondo, passò poi per i gradi metafisici quali provvidenza, anima e facoltà psichiche, giunse nel trattato ultimo alla realtà divina suprema, ovvero all'Uno. Ora si cambia: gli scritti di Plotino sono presentati nell'ordine cronologico. Viene smontata la costruzione mistica (il testo critico è stabilito da Lorenzo Ferroni, altro italiano) e siamo davanti a una vera e propria rivoluzione testuale». Certo, non c'è altro termine per definire un'operazione come questa, che cambia le ragioni di lettura di un lascito che ha costituito una fonte inesauribile per il pensiero mistico, anche cristiano.
Jean-Louis Ferrary ci rivela un lavoro in corso. «Sto attendendo — spiega — un'edizione degli Academica di Cicerone che consentirà di ripensare non poche prospettive della filosofia nella Roma antica. Ma anche un De natura deorum, sempre di Cicerone, che offrirà un testo con una modifica notevole: Poliziano aveva spostato una parte importante dello scritto (del libro II) e tale prassi è stata sempre seguita dagli editori successivi. Bene: ora si potrà leggere l'opera con l'ordine che aveva nei manoscritti medievali». Non sono cose da poco, perché questo lavoro influirà sulle letture di domani e anche su quanto Internet diffonderà sempre più capillarmente (alle Belles Lettres stanno studiando i problemi della diffusione online dei testi certificati e annunciano sorprese in tempi brevi). Dobbiamo sempre più spesso chiederci cosa stiamo leggendo quando siamo davanti a un'opera.
Jouanna sottolinea un altro aspetto: «Questa collezione è aperta al futuro. Non offre soltanto testi letterari o storici. Ho ricordato le opere di medicina (i problemi dell'embrione erano già trattati allora e oggi si parte da qui per meglio comprendere), ma abbiamo anche in catalogo scritti di strategia militare, architettura, geografia o botanica. Per esempio, di Teofrasto, l'allievo di Aristotele, ci sono i cinque tomi di Ricerche sulle piante. Quest'opera ha permesso un confronto tra quanto avevano gli antichi e quello che noi utilizziamo. È stata apprezzata anche da erboristi e omeopati». Ferrary aggiunge: «Gli storici romani continuano a essere presenti nella riflessione politica, Livio lo è grazie anche ai Discorsi sulla prima Deca di Machiavelli. Ma non dimentichiamoci che in molti ambienti americani il tema dell'impero è al centro dell'attenzione. Non è esagerato dire che leggono Roma per capire come muoversi».
Più semplicemente aggiungiamo che i classici greci e latini non sono soltanto argomento di studio. La loro lezione continua ad aiutarci in molte scelte, a volte senza che ce ne accorgiamo. Sono i «pilastri» (Ferrary) su cui è stato costruito il nostro mondo, rappresentano quei «punti di riferimento» che sempre cerchiamo. Per vivere.

Corriere 11.7.12
Le visite fantasma e i disegni sul pc. Giallo su Caravaggio
Il Comune di Milano apre 2 inchieste
di Armando Stella


MILANO — Una lettera spedita da Brescia nel maggio 2011, un'ordinaria richiesta al Castello Sforzesco di «materiale fotografico per motivi di studio» e, sotto, la firma di una ricercatrice che vorrà forse preparare una tesi su Peterzano, magari esaminare gli schizzi degli allievi di bottega. Fatti suoi comunque, si guardi pure i bozzetti, sono pubblici, cosa vuoi che scopra, le opere giovanili del Merisi? Così pare, o forse è un bluff.
Il critico d'arte Carlo Bertelli, garante e custode della cultura milanese, è pronto a scommettere che «alla fine dell'estate nessuno si ricorderà più di questa bufala del giovane Caravaggio», ma non affrettiamo i tempi. Atteniamoci ai fatti. All'origine abbiamo un contatto email, un nome e una data: Mariacristina Ferrari, maggio 2011. Conosciamo anche la risposta dei funzionari di Milano: l'invio a Brescia di 1.738 file in formato jpeg, un catalogo d'immagini a bassa risoluzione salvate su un dischetto per computer, l'intera collezione di disegni del Fondo Peterzano. D'ora in poi, però, ragioneremo solo per indizi, testimonianze, ipotesi e deduzioni. Partendo dall'appendice della storia: la pubblicazione di un ebook su Amazon, le polemiche degli esperti sulla «maldestra attribuzione» delle opere e la difesa a oltranza degli autori dello scoop sul Caravaggio segreto, presunto o mai esistito, Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, supportati (tra gli altri) dalla efficiente Mariacristina Ferrari.
Possibile che un gruppo di studiosi semisconosciuti, curiosi e ambiziosi abbia corretto lo strabismo dei maestri? Scoperta sensazionale, tarocco o prodotto di marketing? L'Ansa sconvolge le sicurezze del mondo accademico alle 17.50 del 5 luglio: «Caravaggio, trovati cento disegni mai visti». Già la notizia crea un equivoco: i fogli sono catalogati e consultabili dal 1924, non erano buttati in un sottoscala. Il lancio successivo, da infarto: «Stima opere, 700 milioni di euro». Le carte sono custodite al Castello, nel civico Gabinetto dei disegni. Ci siamo. Oltre la Torre del Filarete, sulla destra, al primo piano. La conservatrice è la dottoressa Francesca Rossi, è lei che registra gli ingressi degli ospiti, li accompagna, fa così con tutti e fan tutti così: si presentano, consegnano le loro generalità al registro, saranno schedati nel database informatico. Bernardelli Curuz e Conconi Fedrigolli figurano nell'elenco? «No. Io, qui, non li ho mai visti».
Come avranno fatto a eludere i controlli, passare le carte, osservare la filigrana dei bozzetti? Passano i giorni e in Comune si rafforza questa tesi: «Non hanno mai avuto accesso al Fondo, hanno studiato esclusivamente le immagini sul dischetto». Cioè, hanno indagato sul Caravaggio come si compilerebbe una tesina per le medie? «Abbiamo visitato gli archivi diverse volte — replica Bernardelli — anche se fuori dall'orario di ufficio, accompagnati da altre persone». Da chi? In che giorni? Dove si nascondono le talpe del Castello? «Un'accusa inverosimile per coprire la fragilità del metodo di ricerca», commentano dall'assessorato alla Cultura. E però, su questo giallo, non ci saranno altre ombre: il Comune ha aperto un'indagine interna per stanare eventuali complici, frodi, collusioni, e messo su Internet le 96 foto contese.
La lettera del maggio 2011 è l'ultimo segnale evidente dell'interesse del gruppo bresciano per il Fondo Peterzano. Una email, quattordici mesi di silenzio e la sorprendente rivelazione del 5 luglio. L'assessore Boeri, in battuta, ha invitato tutti «a una grande cautela». Che qualcosa non funzionasse, per altro, si era intuito fin da subito. Dove sono i confronti? Quali le prove? Un ebook, poi: vi pare? «Le scoperte si dibattono nei convegni scientifici». Philippe Daverio ricorda che «nel carattere di Caravaggio il disegno non esiste e nella sua pittura il disegno non serve. Questi bozzetti non possono essere paragonati a nulla di originale. In un momento di crisi del Paese è sbagliato mortificare sogni e aspettative, ma le cose devono essere quanto meno plausibili».
Referenze, prego. Adriana Conconi Fedrigolli, prima del botto su Amazon, aveva pubblicato un catalogo su Le gallerie Avogadro, Fenaroli-Avogadro, Maffei-Erizzo (2010) e un articolo sullo scultore ferrarese Alfonso Lombardi. Più corposa la biografia di Bernardelli Curuz, iconologo, già cronista per il Giornale di Brescia, fondatore della fu rivista Stile arte e attuale direttore artistico della Fondazione Brescia musei: «Siamo tranquilli — scrive su Facebook —. Il mondo giudicherà il nostro lavoro». Oltre al mondo, forse, s'interesserà anche la Procura. L'Avvocatura del Comune sta valutando una denuncia per sfruttamento improprio dei diritti d'immagine del Fondo Peterzano. Bernardelli Curuz e Conconi Fedrigolli hanno annunciato «un'autentica rivoluzione del "sistema Merisi"» senza chiedere l'autorizzazione per pubblicare i disegni.

Repubblica 11.7.12
I ragazzi delle pillole, boom di anti-depressivi
I giovani pane e farmaci
di Angelo Aquaro


Antidepressivi, psicofarmaci, stimolanti. Settanta milioni di americani ogni giorno assumono un farmaco. E anche l’Italia scopre di essere “malata”
Negli Stati Uniti l’hanno già chiamata “medical generation”.
PRENDONO PASTICCHE FIN DALL’ETÀ DELL’ASILO: Ma questo fai-da-te della cura continua anche in età adulta
PER COMBATTERE LA PAURA, PER AFFRONTARE LA VITA. Milioni di ragazze e ragazzi che Generando dipendenza e una diffusa anaffettività Igiovani

NEW YORK Emily ha 28 anni e non sa più bene chi è. Emily arriva dal Midwest, ha una lavoro da impiegata che la rende felice, una relazione più che serena e tanti, tantissimi amici. Eppure, ogni sera, prima di andare a dormire, mentre si strucca davanti allo specchio, Emily sente quel piccolo brivido correrle ancora lungo la schiena. La colpa, lei lo sa bene, è proprio di uno dei suo amici: il più fidato, quello di più lunga data, l’unico che non l’ha mai tradita, quello che inseparabile la segue da quando aveva 14 anni. Un amico dal nome un po’ buffo ma dalla potenza micidiale. Prozac. Acid-ò, acid-à / acid-ò, acid-à... Ricordate? Era l’estate di 15 anni fa e il tormentone di quella band dal nome che era tutto un programma, proprio Prozac+, prese in ostaggio l’Italia. Beh, 15 anni sono quasi una generazione e mica è un caso che dall’altra parte del mondo, all’alba dell’anno 2012, il paese più impasticcato del pianeta, cioè gli Stati Uniti d’America, stia cominciando a fare i conti con la pillolina che ci ha cambiato la vita. Non è solo questione di Prozac, Tavor, Xanax e — per i più grandicelli — perfino Viagra. No, non è solo questione di pilloline più o meno potenti e più o meno colorate. Il fatto è che il boom delle pasticche che fanno sparire la paura, la malattia e la depressione rischia di fare sparire anche quella che i filosofi, prima ancora che gli psicologi e gli psichiatri, chiamano da millenni “coscienza di sé”. Soprattutto nella generazione di chi, come Emily, è nata e cresciuta a pane & pillole. Qui in America l’hanno già battezzata la Medication Generation. E i numeri non lasciano nessun dubbio. Il National Center for Health Statistics dice che il 5 per cento degli americani dai 12 ai 19 anni usano antidepressivi. Aggiungeteci il 6 per cento della stessa fascia d’età che usa invece farmaci contro il cosiddetto Adhd, il disordine da deficit d’attenzione e iperattività. Mettete che un altro 6 per cento di adulti tra i 18 e i 39 anni prende antidepressivi. E così ci ritroviamo, per la prima volta, davanti a una generazione che non solo si impasticca dall’età dell’asilo: non sa neppure che cosa vuol dire vivere senza pillola.
«Gli adulti che prendono i farmaci sostengono che la pillola aiuta a tornare a essere quello che erano prima che la depressione oscurasse la loro personalità», scrive sul Wall Street Journal Katherine Sharp. «Ma per gli adolescenti dalla personalità ancora in formazione il quadro è molto più complesso ». Per chi da sempre convive con la pillola, insomma, «l’assenza di una concezione di sé, precedente al trattamento medico, impedisce di misurare gli effetti della pillola sullo sviluppo della personalità». Messa così sembra un incubo da fantascienza. E non è un caso che da Aldous Huxley a Philip Dick la pillola regna incontrastata in tanti racconti. Nel “Mondo Nuovo” proprio le pasticche della fantomatica “Soma” aiutano a ingoiare le vite tutte uguali imposte dal tecnocratico regime. «Tutti i vantaggi della Cristianità e dell’alcol: e nessuno dei difetti». Così Hux- ley introduce la pillolina magica che oggi in tanti intravedono come la profetica progenitrice del Prozac, del Paxil o dello Zoloft che ogni giorno settanta milioni di americani mandano giù. Ma Katherine Sharp non è una scrittrice di fantascienza. Il suo “ Coming of Age on Zoloft”, l’adolescenza allo Zoloft appunto, è una denuncia in prima persona dei rischi di crescere con gli psicofarmaci. E l’allarme che ha lanciato dal giornale di Wall Street è un campanello per tutti noi. Che fare quindi? Benedetto Vitiello, uno dei più grandi esperti in materia, responsabile della ricerca sull’infanzia al National Institue of Mental Health, riconosce che il problema è prima di tutto culturale. «Ricordo quando per la prima volta sono sbarcato qui trent’anni fa», dice a Repubblica. «Ero ospite in casa di un collega, a Philadelphia. Scendo per fare colazione e la moglie, gentilissima, aveva già apparecchiato per tutti. E accanto a ogni bicchiere, insieme al latte e al succo di frutta, ecco lì la bella pillolina. “E questa? ”, ho chiesto preoccupato. “Ma è la vitamina quotidiana”, mi ha risposto lei tranquilla». Naturalmente — o meglio sarebbe dire artificialmente — su quella strada trent’anni dopo si è avventurato mezzo mondo. Italia e isole comprese. Certo: gli americani ci danno sempre una pista. Il New York Times ha lanciato l’ennesimo allarme per i ragazzini. Sempre loro, quelli della medication generation, si fanno prescrivere gli stimolanti — fingendo si soffrire di Adhd, il deficit d’attenzione — per affrontare meglio i periodi di stress scolastico e presentarsi con più grinta agli esami. Dalla pillola per risolvere un problema alla pillola che già tra i giovanissimi si trasforma dunque nell’aiutino proibito. Doping. Droga. Ce ne sarebbe abbastanza per gridare allo scandalo. Ma una giornalista d’inchiesta, Kaitlin Bell Barnett, ha scritto un altro libro per invitare a non generalizzare. “ Dosed”, cioè appunto “dosati”, ha un sottotitolo ancora più esplicito, “Così cresce la Medication Generation”, e racconta le storie di cinque ex adolescenti che, come lei, sono cresciuti a pane, pillole e depressione. «Ci sono passata anch’io», racconta ora. «Ma ho voluto indagare meglio proprio perché, leggendo su giornali e blog certe storie, ho scoperto che gli approcci non sempre sono stati positivi come il mio». La parola chiave è “differenza”: «Non tutti rispondiamo allo stesso modo ai farmaci. E le storie personali e i contesti familiari possono fare davvero la differenza». Ok, ma non sarà che dietro il proliferare delle pillole si nasconda la longa manus dell’industria farmaceutica? In fondo la medication generation è cresciuta di pari passo con il via libera dei cosiddetti “spot al consumatore”. È solo dal 1996 che negli Usa è permessa la pubblicità dei farmaci per il fai-da-te dei disturbi mentali, sognanti caroselli dove basta una pillola per sentirti subito meglio: e chi vuoi che poi — malgrado la voce fuori campo — legga attentamente le avvertenze? Del resto, che la generazione-pillola sia una pacchia per Big Pharma non è mica un segreto: gli esperti lamentano, per esempio, la mancanza di studi specializzati sui rischi, che come si sa richiedono fior di finanziamenti. «Una certa teoria biologica dice che il cervello in via di sviluppo dei bambini potrebbe “sintentizzarsi” proprio per colpa dell’abuso dei farmaci», aggiunge Vitiello. «Ma dati certi non ne abbiamo. Certo è solo che il farmaco non dovrebbe mai essere il primo rimedio. E andrebbe assunto dietro intervento medico. E con l’attenta partecipazione dei genito- ri». Ma tutto lascia pensare che la medication generation si lascerà accompagnare dalle medicine per tutta la vita. «Già oggi», ricorda l’esperto «una persona di 65-70 anni prende in media 5-10 farmaci al giorno. E mica solo per curarsi. Per prevenzione: per non ammalarsi. La pasticca per il controllo del colesterolo, la pasticca per la pressione, la pasticca per il controllo del diabete, la pasticca per il controllo della tiroide, per incrementare la memoria... ». Figuriamoci che cosa succederà adesso che l’impasticcamento comincia da bambini. O no? Kaitlin, la giornalista di “ Dosed”, vede un po’ meno nero: «Non solo non ci sono prove che chi assume i farmaci da piccolo sia più esposto all’abuso dei farmaci da grande. Al contrario, ci sono studi che dimostrano come i giovani che si impasticcano già da piccoli da grandi tendono poi a rapportarsi in una maniera più corretta con i farmaci: più informata ». Non tutta la medication generation, insomma, vive i tormenti di Emily, che 14 anni dopo resta ostaggio delle sue pasticche: la pillola che ci rende tutti uguali devono ancora inventarla.

Repubblica 11.7.12
“L’adolescenza non può essere una malattia servono diagnosi accurate e maggior dialogo”
Massimo Ammaniti, “padre” della psicopatologia dell’età evolutiva
intervista di Caterina Pasolini

«L’adolescenza non è una malattia». Davanti al rischio che l’Italia segua l’onda americana della
medical generation, cosi risponde Massimo Ammaniti, padre italiano della psicopatologia
dell’Età Evolutiva..
L’adolescenza non si cura?
«Non è una malattia. In America c’è la tendenza a medicalizzare tutto, dalla distrazione a scuola alla tristezza, e noi abbiamo la cattiva abitudine di seguire le loro mode vent’anni dopo. Per cui, meglio prevenire».
Qual è il problema di fondo?
«Troppo spesso si confondono i normali sintomi e stati d’animo e le difficoltà dell’adolescente con stati patologici, cosa ben diversa. Cosi si finisce per definire depresso un giovane malinconico o ripiegato su sé stesso».
Sempre più giovani usano droghe e psicofarmaci...
«Usano sostanze per mettere a tacere lo stato d’animo che provoca disagio, così bevono alcol per vincere la timidezza, cocaina per sentirsi sicuri. Mentre sull’altro fronte ci sono medici che davanti alla normale altalena emotiva dei teenager danno anti-depressivi o prescrivono farmaci per la concentrazione diagnosticando troppo spesso sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Bloccano il sintomo, ma non la causa. E cosi si rischia che i giovani diventino degli analfabeti emotivi».
Analfabeti emotivi?
«Sì, se per ogni malessere o problema si danno sostanze che placano lo stato d’animo i giovani diventano poi incapaci di conoscere il loro lessico emotivo, diventano analfabeti del loro animo. Ignoranti perché non conoscono se stessi, le loro capacità, il perché del disagio e soprattutto le loro potenzialità, la loro capacità di superare i problemi, di crescere. Non imparano ad autoregolamentarsi, a sperimentare le emozioni, insomma, ad affrontare la vita».
Che fare quindi?
«Diagnosi accurate. Meno farmaci — considerando soprattutto il fatto che si usano per anni proprio nel momento in cui il cervello si modifica maggiormente — e più terapia della parola. Ma non per sempre. Altrimenti diventa una protesi, mentre in sé ragazzi hanno le potenzialità, le capacità di farcela».
Repubblica 11.7.12
Dal 2001 a oggi è raddoppiato il consumo di “pillole”
Il boom italiano degli antidepressivi uno su due li usa
di Michele Bocci


Una crescita che non conosce soste. Ogni anno gli italiani consumano più antidepressivi di quello precedente. Paroxetina, escitalopram e sertralina sono i principi attivi più diffusi. Con le altre molecole della stessa famiglia finiscono negli armadietti del bagno di un numero enorme di persone. Più di un italiano su due in dodici mesi compra una confezione di questi medicinali: nel 2011 le farmacie ne hanno vendute 34 milioni e mezzo e le dosi assunte in media ogni giorno sono più che raddoppiate rispetto al 2001. Parliamo di prodotti prescritti da un medico, e pagati dal sistema sanitario. Ma se si prendono in considerazione anche i medicinali di questo tipo venduti su ricetta “bianca” i numeri crescono ancora, diventano una valanga contando anche un’altra categoria di farmaci per problemi psichiatrici, gli ansiolitici come le benzodiazepine. Questi non vengono passati dal servizio sanitario e sono in assoluto i prodotti più venduti in farmacia tra quelli comprati a proprie spese dai cittadini. Dalle tasche degli italiani nel 2011 sono usciti 550 milioni di euro per acquistarli. Nel 2001, in media, 15 persone ogni mille prendevano un antidepressivo al giorno. Il dato l’anno scorso è salito a oltre 36. Undici anni fa le confezioni acquistate erano 21 milioni e 400 mila, l’anno scorso appunto 34 milioni e mezzo. La spesa per il sistema sanitario, che rimborsa questi medicinali, non è invece aumentata ma addirittura scesa. L’effetto è dovuto al fatto che per alcune molecole in questi anni è scaduto il brevetto e sono entrati in commercio i generici, che hanno abbassato sensibilmente i prezzi. In Italia ancora non si assiste ancora al fenomeno degli Usa, dove molti adolescenti vengono trattati con gli antidepressivi. Il profilo del paziente standard nel nostro Paese è quello di una donna con più di 65 anni. «Abbiamo la fortuna-sfortuna di seguire gli Usa con 10 o a volte 20 anni di ritardo in molte cose. Quello che succede da loro però, prima o poi arriva anche qua». A fare questa previsione è Giovanni Battista Cassano, uno dei padri della psichiatria italiana che oggi dirige una clinica a San Rossore. «In America hanno di certo più depressione giovanile che da noi, per vari aspetti dello stile di vita di quel Paese. L’aumento di diagnosi si porta dietro anche un abuso e quindi i loro numeri salgono ancora di più». Cassano non è impressionato dal dato italiano sulla crescita dell’utilizzo degli antidepressivi. «L’Italia è al di sotto degli altri paesi occidentali, per il consumo. Le Regioni che usano di più questi medicinali hanno tassi di ricovero più bassi, un’assistenza che funziona meglio, meno ore di lavoro perduto da parte dei malati. Non ci dimentichiamo che abbiamo tanti morti per depressione. Qualcuno pensa che chi inizia a prendere gli antidepressivi poi non smette più. Non è vero. Abbiamo tanti pazienti che fanno un ciclo di cura e poi non hanno più problemi. Oppure che hanno ricadute a distanza nel tempo. Mi ricordo di Montanelli: ogni 10 anni aveva una depressione, che lo spingeva a fare i farmaci per un periodo limitato».
La vede in modo diverso Gustavo Pietropolli Charmet, psicologo dell’adolescenza. «Mi fa piacere che in Italia si usino molti meno antidepressivi sui giovani rispetto agli Usa. Il farmaco non può essere la prima istanza di cura. Quasi tutti gli adolescenti hanno un fondo malinconico, un po’ triste, annoiato, con sentimenti di solitudine, inadeguatezza. Considerare queste situazioni come problemi che si risolvono con gli antidepressivi è un errore diagnostico. La depressione va curata con i farmaci se è una questione organica. Se uno è depresso perché va male a scuola, perché la fidanzata l’ha mollato o ha brufoli può fare scelte gravi come il suicidio, o l’abuso dell’alcol. Ma non per questo va curato con i farmaci ».

Repubblica 11.7.12
Le domande della scienza, i dogmi della Chiesa
risponde Corrado Augias


Gentile dottor Augias, so di arrivare a tempo scaduto, ma vorrei dare un minuscolo contributo all’interessante discussione da lei ospitata nella rubrica sull’eterno dibattito fra scienza e fede. Tutti hanno parlato di fede come se fosse una sola: ma non esiste una sola fede al mondo, bensì innumerevoli, che si battono fra di loro ancor oggi con la forza delle armi. La scienza invece, pur con i suoi innegabili limiti che la rendono imperfetta, è una sola– una volta che si accettino le sue premesse, prima fra tutte la sua falsificabilità. Non è un caso che gli adepti di tutte le fedi religiose, anche le più arcignamente antiscientifiche, utilizzino di buon grado i ritrovati della scienza e della tecnica che – fosse per loro– non sarebbero mai nati. La scienza può unire gli uomini, le fedi religiose per lo più li dividono.
Andrea Malan

Avevo dichiarato chiusa la breve e bella discussione tra i lettori sul rapporto tra scienza e fede. Devo però cedere, un’ultima volta, alle numerose lettere arrivate. Le osservazioni del signor Malan sono indubbiamente pertinenti. La scienza è discutibile e falsificabile per definizione; la fede ha di necessità natura dogmatica ed è ferma nel tempo. Anche se i miti religiosi hanno spesso radici simili (Freud, Jung), ogni fede considera i propri come i migliori e si batte per farli prevalere. Per nostra fortuna questo avviene oggi con minor frequenza che in passato e, soprattutto, i conflitti religiosi suscitano generale riprovazione e condanna, così ad esempio le stragi di cristiani o gli eccessi degli integralisti musulmani. Vittorio Melandri (vimeland@alice.it) mi scrive: «Anch’io, come il professor Mancuso, penso che nessuna attività umana, scienza, economia, politica o altro, debba essere slegata da una dimensione etica. Non vorrei però avvicinarmi troppo a quello “Stato etico” che ha sempre dato prove crudeli quale che sia stata la sua bandiera ideologica. Né amo le molte religioni-chiese, che tutto concentrano su di sé e mettono l’etica al servizio del loro clero, che delle religioni- chiese sono la vera ragion d’essere. Le fedi sono ferme nei loro dogmi, la scienza apre nuove porte che si spalancano dinanzi ad un’umanità capace di domandare ». Anche il signor Giuseppe Pautasso (giuseppe. pautasso@libero. it) si dichiara parzialmente d’accordo con il professor Mancuso ma aggiunge di non condividere la sua idea che oggi la scienza pura non esista più perché ormai “totalmente asservita ai mercati”: «La dimensione etica e religiosa non è sempre insita in ogni azione umana anche se discutibile e riformabile? Il mio vecchio parroco tanti anni fa mi chiedeva: “Beppe perché sei passato dalla nostra fede alla fede nell’ecologia e nell’ambiente?”. Rispondevo: “Don, l’ambiente non chiede dogmi”».

Repubblica 11.7.12
La filosofia di Kojève è dentro i suoi scatti
In mostra le fotografie dell’intellettuale fatte in giro per il mondo
di Marco Filoni


Alexandre Kojève non smette di stupire. Il filosofo francese di origine russa, nipote di Kandinsky, maestro, fra gli altri, di Queneau, Bataille, Lacan, dopo la sua morte avvenuta nel ’68 ha lasciato un’eredità con la quale, ancora oggi, ci confrontiamo. E che ancora ci stupisce. Come quando, quasi una decina d’anni fa, sono stati ritrovati diversi scatoloni impolverati provenienti dal suo piccolo appartamento di Vanves, un sobborgo a sud di Parigi dove abitò sin dagli anni Trenta. Questi scatoloni contenevano qualche migliaia di cartoline, da ogni parte del mondo, e soprattutto fotografie. Ben cinquemila diapositive, immagini riprese durante i suoi tanti e lunghi viaggi fatti come diplomatico – subito nel dopoguerra divenne un alto funzionario dell’amministrazione francese. Oggi, per la prima volta, una selezione di quelle fotografie e cartoline viene esposta nella mostra After History: Alexandre Kojève as a Pho- tographer, curata dal filosofo e storico dell’arte Boris Groys e ospitata dal BAK di Utrecht, in Olanda. La mostra aperta sino al 15 luglio, si sposterà, fra il 2012 e il 2013, alla nona Biennale di Gwangju (Cina) ; al Palais de Tokyo di Parigi; alla City University di New York; all’Ocat di Shangai e, infine, alla Casa della Fotografia di Mosca. Alle 1700 cartoline esposte, si affiancano le 400 foto scattate da Kojève negli anni Cinquanta e Sessanta durante i viaggi in Sri Lanka, Cina, India, Iran, Giappone, Nepal, Russia e tutta l’Europa. Scatti perfetti, immagini rarefatte, pulite e diradate da qualsiasi figura umana: né un volto, né un corpo, se non per sbaglio. Istantanee che colpiscono per la loro neutralità. Quasi melanconiche. In effetti a osservare questi scatti la prima cosa che viene in mente è la fine della storia – l’idea più “famosa” e fraintesa di Kojève. Sembra infatti che il filosofo sia più interessato al passato, alla sua immagine pietrificata nei monumenti piuttosto che al presente dei luoghi che visita. Come se negasse l’essenza stessa della fotografia: con uno scatto si ha la possibilità di catturare un momento, un attimo unico, di fissarlo in un “qui e ora”, un presente eterno arrestato dal click della macchina fotografica. Kojève invece sembra ignorare totalmente questa possibilità. Dei paesi che visita ritrae solo le opere del passato. Non fa eccezione per la sua terra natale, la Russia. Potrà visitarla per la prima volta soltanto negli anni Cinquanta, dopo averla lasciata nel 1920. Va da sé che deve averla trovata molto differente: le architetture, le costruzioni, gli esiti della tecnologia della modernità. Eppure non si lascia affascinare dal realismo sovietico: si limita ostinatamente a fotografare solo vecchie chiese ortodosse. E in effetti a vedere queste foto ci si potrebbe confondere sul secolo. «La fotografia di Kojève celebra la scomparsa del soggetto nella neutralità, nell’anonimato e nell’oggettività dello sguardo dell’obbiettivo », scrive Groys nel catalogo. Come a suggerire che queste foto in realtà cercano di cogliere l’essenza della condizione post-storica. Kojève, il fotografo della storia. Ha ragione ancora Groys: «Il lavoro fotografico di Kojève è la continuazione della sua filosofia con altri mezzi». Del resto era un destino, visto che quello con la fotografia era per lui un rapporto antico. Alla fine degli anni Venti, giunto a Parigi dopo gli studi in Germania, doveva far fronte alle esigenze materiali. Così Kojève aveva messo in piedi anche un mercato particolare: andava spesso in Germania ad acquistare macchine fotografiche “Leica” che comprava a un buon prezzo, per poi rivenderle a Parigi al prezzo di mercato che era molto più alto di quanto le avesse pagate.

Repubblica 11.7.12
Saggi e ricerche raccontano il deficit di storicità degli italiani
Una mancanza di progettualità a lungo termine individuata già da Leopardi
L’eterno presente
Nel Bel Paese della contingenza dove tutto dura solo un attimo
di Roberto Esposito


Nel giro di pochi giorni – dalla sera di giovedì 27 alla mattina di lunedì 2 luglio – l’umore degli italiani è schizzato in alto, come da tempo non accadeva, per poi, di colpo, precipitare in basso. A una fragorosa ondata di entusiasmo – provocata dalla fausta coincidenza tra la vittoria della nazionale italiana sulla Germania e l’indubbio successo di Monti a Bruxelles – è subentrato un rapido disincanto presto scivolato in delusione. Il momento magico innescato da quei due palloni scagliati alle spalle del portiere tedesco da Balotelli, e consolidato dal terzo “goal” segnato dal nostro premier, si è dissolto con la stessa rapidità con cui si era materializzato. Mentre la secca sconfitta con i maestri spagnoli rialzava lo spread psicologico appena raffreddato, il giudizio del Washington Post sulla effettiva situazione economica italiana contribuiva a spegnere gli entusiasmi ingenerati, prima che nei mercati internazionali, nella nostra autopercezione. Il quotidiano americano – come ha spiegato Federico Rampini su queste pagine – si riferiva a dati reali come quello dello squilibrio tra ore di lavoro e produttività che pone l’Italia al di sotto di molti Paesi europei, per non parlare della disoccupazione crescente, dell’evasione e della corruzione. Ma a questo gap oggettivo se ne assomma un altro, non meno grave, di ordine psicologico, costituito appunto da quella oscillazione repentina, quasi ciclotimica, tra un’illusione che a volte sfiora la supponenza e una disillusione che sconfina facilmente nello sconforto. Il Washington Post parla, in proposito, di un “problema culturale”, alludendo alle difficoltà strutturali del nostro sistema. Ma, per spingere l’analisi ancora più avanti, conviene fare riferimento a qualcosa di più profondo che sfugge alla tabelle statistiche perché si radica in una falda sotterranea del carattere italiano. Alludo a quel singolare rapporto con il tempo – o, ancor meglio, con la storicità – che già Giacomo Leopardi riconduceva ad una sorta di restringimento nei confini del presente: «Ora la vita degli italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente » ( Discorso sopra lo stato dei costumi degl’italiani). Senza dovere necessariamente condividere il pessimismo di Leopardi – e anzi recuperando anche il lato positivo di questa attitudine italiana alla contemporaneità – proviamo a fissare meglio i contorni di ciò che è stato chiamato “presentismo” (per esempio nel libro, non esente da semplificazioni, di Federico Eichberg ed Angelo Mellone Il domani appartiene al noi. 150 passi per uscire dal presentismo, Rubbettino 2011). Tutt’altro che di un tratto congiunturale, indotto dal “tempo reale” dalla rivoluzione tecnologica, siamo in presenza di un fenomeno di lungo periodo, radicato nella tendenza, da parte degli italiani, a contrarre la storia nella puntualità del presente, anziché ad immettere il presente nel flusso della storia, come magari accade altrove (si veda, per esempio, il fascicolo The Present as History edito dalla Columbia University Press, con contributi di Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Sanjay Reddy). Diversamente da altre tradizioni culturali, dedite a costruire istituzioni solide e durature – a partire da quella, sovrana, dello Stato – gli italiani hanno sempre avuto una maggiore sensibilità per quanto è contingente, concentrato nella singolarità dell’evento, sottratto ad un progetto di lunga durata. Secondo Carlo Galli (in Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Laterza 2009), è proprio questo l’elemento che, all’origine dalla filosofia italiana, differenzia il pensiero di Machiavelli da quello, istituzionale, di Hobbes e in genere dei filosofi europei del periodo. È lo stesso motivo per il quale in Italia si è sviluppata un’ampia riflessione sul “politico”, vale a dire sul momento del potere costituente, piuttosto che una teoria del potere costituito. In questa Passione del presente– come s’intitola un saggio recente di Giacomo Marramao (Bollati Boringhieri 2008) – si può misurare uno scarto innovativo, una sporgenza originale, rispetto alla dimensione progettuale del Moderno. Si tratta di una attenzione al kairos, all’occasione, all’attimo favorevole che si strappa dall’andamento lineare del tempo, rendendo improvvisamente possibile quanto appena prima appariva altamente improbabile. Quante volte è capitato, non soltanto su un campo di calcio, che, dopo una sequenza di prove insoddisfacenti, nella partita decisiva, l’Italia abbia ritrovato la forza d’imporsi, per poi, magari, dilapidare, altrettanto rapidamente, quanto aveva guadagnato? Nel concetto di “ontologia del presente”, che Michel Foucault ha contrapposto all’“analitica della verità”, c’è anche questo richiamo all’efficacia di una scelta immediata, capace di ribaltare una situazione critica, individuando con rapidità la breccia attraverso cui penetrare nel campo altrui e prendere il tempo all’avversario. Ma naturalmente, in questo “presentismo” italiano, si manifesta anche l’altro lato della medaglia, che ha a che fare proprio con quel deficit di storicità e di istituzione cui si accennava. L’andamento altalenante dell’umore italiano fa, del resto, tutt’uno con quello della nostra storia. Ad esso vanno riportate la fragilità e la precarietà delle fondamenta su cui poggiano le nostre migliori “invenzioni”. Se si guarda alle svolte che hanno segnato le vicende recenti d’Italia, si è colpiti dalla scarsa tenuta di processi inizialmente dirompenti. Tutti e tre i passaggi decisivi degli ultimi centocinquant’anni ne sono segnati. A partire dalla rivoluzione risorgimentale, presto appiattita nella gestione faticosa dell’esistente, all’evento straordinario della Resistenza, anch’esso in qualche modo anestetizzato nel lungo regime democristiano, per arrivare alla fondazione, dopo Mani pulite, della seconda Repubblica, essa stessa ampia- mente incompiuta e presto crollata. Nel recente rapporto Censis, dedicato alla “Fenomenologia di una crisi antropologica”, si legge che «gli italiani sono sempre più impegnati nel presente, con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro». Se confrontiamo tale inclinazione alle caratteristiche di altri popoli – dei tedeschi in particolare – riconosciamo con chiarezza quale è il nostro “problema culturale”. Quanto quelli sono propensi a lavorare pazientemente sui tempi mediolunghi di un progetto ben definito fin dall’inizio, noi non scavalchiamo la linea del presente che per una breve contingenza, magari ottenendo ottimi risultati immediati, ma senza proiettare quanto abbiamo conquistato nello spazio del futuro. Ciò tende a rendere la nostra esperienza stabilmente precaria, organizzata secondo i tempi ansimanti di una crisi sempre in procinto di esplode- re, prima di una nuova scossa salutare, ma di durata effimera. Quello che stentiamo a produrre non è, come spesso si dice, l’innovazione, ma la sua stabilità. In questo senso non ha torto chi sostiene che in Italia non si sia mai creata una cultura modernamente conservatrice – la capacità, necessaria, nell’orizzonte contemporaneo, di conservare l’innovazione. Quella che – alludendo a una difficoltà dell’intera politica moderna – Hannah Arendt chiamava la “tradizione del nuovo”. Chi colse per tempo, ed anzi in anticipo, questa necessità di tenere insieme innovazione e conservazione, occasione e progetto, potere costituente e potere costituito, fu Pier Paolo Pasolini. La sua fine precoce e drammatica è un ulteriore segno che l’Italia non ha ancora vinto la sua partita più importante.