giovedì 12 luglio 2012

l’Unità 12.7.12
«È italiano chi nasce in Italia»
L’Istat ha presentato la ricerca “I migranti visti dai cittadini”
Per il 72% degli intervistati «chi è nato in Italia deve avere la cittadinanza»
Il 90% condanna le discriminazioni a scuola e sul lavoro
di Jolanda Bufalini


ROMA Un quadro in chiaroscuro, lo definisce il ministro Fornero, sul cui intervento nella sala polifunzionale delle Pari Opportunità pesano i pesanti tagli appena inflitti al ministero. Un ritratto in movimento per il ministro Andrea Riccardi, per il quale il report Istat sui “migranti visti dai cittadini” mostra «l’evoluzione di una mentalità collettiva». Effettivamente uno degli aspetti più interessanti dell’indagine è la diversa modulazione della valutazione della presenza degli immigrati in Italia, a seconda dell’età e del tipo di rapporto. A cominciare dalla conoscenza diretta: il 38,4 per cento del campione fra i 18 e i 74 anni conosce immigrati perché sono colleghi di lavoro, il 32,1 ha un amico immigrato; per l’11,6 % c’è un membro della famiglia di origine straniera e per quasi il 10% c’è un compagno/a di scuola o di università. Un grado di compenetrazione nei luoghi di lavoro e di studio che probabilmente spiega la percentuale straordinariamente alta degli italiani che sono favorevoli al riconoscimento alla nascita della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati: 72,1%. Gli italiani sono, invece, in maggioranza contrari al diritto di voto amministrativo per gli immigrati che risiedono in Italia da alcuni anni ma non sono cittadini: la media dei favorevoli al voto è 42,6% ma, se si suddivide il campione per classi di età, si vede che il 46,5% dei giovani fra i 18 e i 34 anni è favorevole al voto amministrativo mentre solo il 38% degli anziani fra i 65 e i 74 anni non è contrario. Analoghe le percentuali sul diritto di cittadinanza, la stragrande maggioranza del campione è favorevole (91,4%), per ottenerla il 38% degli intervistati pensa che dovrebbero essere sufficienti 5 anni di soggiorno regolare, per il 42 gli immigrati dovrebbero aspettare 10 anni.
La vicinanza sul posto di lavoro e di studio influisce sulla percezione di atteggiamenti discriminatori verso gli immigrati. L’80% ritiene infatti che per gli stranieri la vita è più difficile a causa di questi comportamenti e quasi il 90% ritiene «ingiustificabile» prendere in giro uno studente, trattare meno bene un lavoratore perché straniero, per il 72 per cento non è giusto «assumere un dipendente senza riconoscere le qualifiche richieste» e per il 63% non è giustificabile non dare in affitto la casa «perché immigrato».
Appare contraddittorio con questi modi di pensare il fatto che la maggioranza degli italiani ritengono che in tempi economicamente difficili si debba dare lavoro prima agli italiani e che, a parità di requisiti, la casa popolare debba essere assegnata prima agli italiani. A commento di questi dati il presidente dell’Istat Enrico Giovannini invita a completare il quadro con le altre ricerche Istat sul tema dell’immigrazione: «quando vediamo che il reddito medio degli immigrati è la metà di quello degli italiani e che il 40% dei figli degli immigrati lascia in anticipo la scuola, ci rendiamo conto che stiamo disseminando mine sociali che prima o poi rischiano di scoppiare». E il ministro dell’integrazione Riccardi spiega che l’Italia è in mezzo al guado di una «radicale trasformazione del nostro mondo». l’immigrazione dice «è una questione nazionale di importanza pari a quella che fra nel XIX e XX secolo investiva i confini, allora si trattava di territori, ora si tratta di popolazioni».
La popolazione che suscita maggiore diffidenza negli italiani è quella rom/sinti. I matrimoni misti sono ben visti ma il discorso cambia quando si tratta della propria figlia, l’85 per cento degli intervistati «avrebbe molti o qualche problema» se la ragazza sposasse un rom, se il promesso sposo fosse un romeno il 69 per cento manifesta le stesse perplessità.
Se si allarga la prospettiva, però, il 60% considera positiva la presenza degli immigrati in Italia perché «permette il confronto fra le culture». Percentuale che fra i giovani crese al 66%. Elevate le percentuali di coloro che temono un incremento del terrorismo e dei reati, il degrado dei quartieri e il fatto che gli stranieri «tolgono lavoro agli italiani». La diversità religiosa non costituisce un problema ma il 41 per cento non vorrebbe una moschea vicino casa.

il Fatto 12.7.12
Dimenticati in mare
Per 15 giorni un gommone di disperati viaggia e poi affonda nel Canale di Sicilia e nessuno se ne accorge
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Il Mediterraneo è un mare affollato, è probabile che qualcuno abbia visto l’imbarcazione in balia delle onde e non sia intervenuto. Ma l’omissione di soccorso è un reato”, denuncia Laura Boldrini portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Nessun radar li ha segnalati, nessun aereo li ha visti, nessuna nave li ha notati, nessun peschereccio li ha accostati, nessuno dei mezzi di pattugliamento Frontex si è accorto della loro presenza: 54 uomini e donne in fuga dalla violenza e dalla miseria arrivano su un gommone a ridosso delle coste italiane, vengono respinti dal vento verso il Nordafrica, e muoiono di sete. Disidratati dopo 15 giorni di agonia, inghiottiti dal Canale di Sicilia: non hanno potuto portare a bordo neanche una bottiglia di acqua, per non appesantire l’imbarcazione, come ha rivelato l’unico eritreo sopravvissuto e ricoverato a Zarzis, in Tunisia.
L’OMISSIONE di soccorso è un reato, dice la Boldrini, eppure non sono state ancora aperte inchieste sulle due sponde del Mediterraneo, né dalla Procura di Agrigento, né dalla magistratura tunisina. E, prima ancora, l’omissione di soccorso è una gravissima violazione della legge del mare; com’è possibile che ciò accada in un tratto di mare costantemente pattugliato da diversi Paesi? Questa è la domanda che ci poniamo tutti – risponde la Boldrini – certamente occorre un maggiore coordinamento tra gli Stati, in tema di soccorso a mare i rapporti sono spesso affidati a canali confidenziali”. Archiviato il governo Berlusconi, morto Gheddafi, la politica dei respingimenti ha subito un forte rallentamento, ed è ovviamente positivo, ma ciò ha probabilmente provocato un progressivo disinteresse verso la sponda sud dell’Europa, anche e soprattutto sul versante del soccorso a mare. “L’accordo Italia-Libia prevedeva che chi veniva intercettato in alto mare, anche se non libico, fosse portato a Tripoli – dice la Boldrini – nel 2011 questa politica non è stata messa in atto e negli ultimi mesi i respingimenti – per quello che sappiamo – sono stati molti di meno e solo verso la Tunisia. Questo è senz’altro un dato positivo”. Accordi bilateriali tra Italia e Libia che comunque “non sono sufficienti a garantire il rispetto dei diritti umani” come sostiene Rita Borsellino in un’interrogazione alla commissione europea in cui chiede di “attivare in tempi rapidi azioni di cooperazione internazionale da parte dell'UE per assicurare il rispetto dei diritti umani”. Concetti che il vescovo di Mazara Domenico Mogavero ha ripetuto ieri al ministro per l'Integrazione e la Cooperazione Andrea Riccardi, chiedendo al governo di “fare più attenzione e prestare più riguardo alla dignità delle persone”.
Ma la tragedia dei 54 morti disidratati in mare testimonia che oggi non c’è né accoglienza, né respingimento, ma solo indifferenza: il Mediterraneo dell’estate 2012 è un tratto di mare “fai da te”, in cui i clandestini che si avventurano in cerca di un futuro migliore muoiono assetati davanti agli occhi di chi avrebbe potuto salvarli.
Chi può aver visto senza intervenire? “Non penso alle unità militari o civili dei governi rivieraschi – risponde la Boldrini – penso ai privati, alle navi cargo o ai pescherecci che solcano continuamente quel tratto di mare. In passato chi ha condotto azioni di salvataggio a mare ha subito parecchi problemi, a volte anche azioni giudiziarie, oppure ha atteso per giorni in rada l’autorizzazione allo sbarco. E per loro sono giorni di lavoro persi”.
NON SI È scoraggiato, per fortuna, l’equipaggio della motovedetta della Guardia di Finanza che la notte scorsa ha intercettato a 60 miglia a sud di Porto-palo di Capo Passero, nel Siracusano, un gommone con a bordo 50 immigrati, provenienti probabilmente dalla Libia, trasferiti a bordo del natante militare e sbarcati a Pozzallo, nel Ragusano. A essere salvati, questa volta, oltre a donne e uomini, c’era anche una bambina di tre anni.

il Fatto 12.7.12
Profughi abbandonati in mare
risponde Furio Colombo


Caro Furio Colombo, spero con tutto il cuore che la storia dei 54 profughi morti di sete in mare (Mediterraneo) sia in qualche punto imprecisa o sviante. Se è come ce la racconta il superstite, quei 54 sono morti di abbandono. Nessuno li ha soccorsi. È possibile che succeda per caso?

BREVE ricostruzione della vicenda, di cui abbiamo saputo solo il 10 luglio, ma sarebbe avvenuta in giugno. Cinquantacinque eritrei in fuga dalla guerra perenne nel loro Paese, dopo la traversata del deserto, sono giunti in Libia. Ma in Libia non possono restare perché la maggior parte delle bande armate che controllano il Paese pensa ancora che tutti i neri siano ex mercenari di Gheddafi. Li aspetta prigione o morte. Su un gommone si imbarcano per l’Italia e ci arrivano in poco più di un giorno. Ma il vento furioso spinge indietro il gommone, e lo tiene alla deriva in mare aperto, per almeno 15 giorni. A uno a uno muoiono tutti di sete (disidratazione) e solo uno viene salvato in acque tunisine e racconta la terribile storia. Sono d’accordo con il lettore che ci scrive. O vi sono gravi imprecisioni nel racconto, o l’abbandono dei 54 che sono morti in mare è deliberato, nel senso che molti sapevano e nessuno si è mosso. Infatti il Mediterraneo è una frontiera. È impossibile che non sia monitorato tutto lo spazio per tutto il tempo. È impossibile che un natante alla deriva tra coste italiane e coste libiche non sia notato per 15 giorni. È impossibile che nessuno dei profughi avesse un cellulare a bordo. Nonostante la vigilante xenofobia inculcata a suo tempo dall’ex ministro dell’Interno Maroni, c’è un problema di sicurezza: terroristi, esplosivi, pirati, possono arrivare per mare, su un’imbarcazione non identificata. Nessuno sa? Nessuno nota? Non un peschereccio, non un aereo militare o di linea? Poiché è stato l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati a raccogliere e diffondere la testimonianza del superstite, ora qualcuno in Italia dovrà indagare. Per ragioni gravi di umanità. Per ragioni urgenti di sicurezza.

La Stampa 12.7.12
Il Pd ora teme l’effetto-tenaglia
«Verso le elezioni stretti tra il Cavaliere e Grillo»
Il partito si troverebbe unico a difendere il rigore-Monti
di Federico Geremicca


Qualcuno, come Rosy Bindi, dice di non crederci. E comunque non pare preoccupata: «Il centrodestra sa che perderà: con Berlusconi in campo, magari, spera solo di prendere qualche voto in più». Qualcun altro, come Matteo Renzi, gira intorno alla questione e la prende un po’ alla larga: «In questo momento, il mio pensiero va ad Angelino Alfano: una figura tragica, alla quale offro tutta la mia sincera solidarietà». Molti, però, prevedono guai - e guai potenzialmente grossi - per il Paese. Dice Luciano Violante: «Riesco già quasi ad immaginarla la campagna elettorale con Berlusconi e Grillo in campo. Sarà tutto uno “stampiamo moneta per uscire dalla crisi” contro “usciamo dalla crisi uscendo dall’Europa”...
Il trionfo dell’irragionevolezza: e il Paese rischia di rimetterci la credibilità così faticosamente recuperata». Sia come sia, due cose possono esser considerate certe. La prima: nell’altra metà del campo - nel centrosinistra, cioè - pochi avevano creduto davvero che Silvio Berlusconi si fosse già trasformato in un cimelio da museo, anzi in un busto di gesso pronto ad esser sistemato in qualche bel salone presidenziale. La seconda: sempre nell’altra metà del campo, pochi credono che la novità annunciata da Alfano (se confermata da un ancora silente Cavaliere) sia di quelle destinate a lasciare le cose come stanno. O come stavano. Del resto, competere per la premiership contro Berlusconi è altra cosa - nonostante tutto - che sfidare Angelino Alfano. E infatti, ora che la prospettiva sembra farsi più concreta, se ne sentono davvero pochi ripetere il leitmotiv così in voga alcune settimane fa: speriamo che Berlusconi si ricandidi, così vinciamo senza nemmeno dover fare campagna elettorale. . La verità è che, di fronte alla possibilità di un ritorno in campo del Cavaliere, nel quartier generale del Partito democratico pochi si nascondono il vero rischio politico che questa ipotesi introduce. Si fanno due ragionamenti e la conclusione è quasi obbligata: se Berlusconi si candida, è chiaro che farà la sua campagna contro il governo di Mario Monti, prometterà la cancellazione dell’Imu, la voce grossa in Europa, un nuovo miracolo italiano... Grillo da una parte, il Cavaliere dall’altra e in mezzo il Pd: costretto giocoforza a difendere - o quasi - l’operato del governo Monti. Una prospettiva che, onestamente, non è che faccia fare chissà quali salti di gioia ai piani alti di Largo del Nazareno.
«Io non credo che Berlusconi, alla fine, si candiderà - dice Nicola Latorre, vicepresidente dei senatori Pd, formatosi alla severa scuola politica dalemiana -. Per ora butta lì l’ipotesi per vedere l’effetto che fa. Comunque, con lui di nuovo in campo, per noi non sarà né più facile né più difficile: e non vedo grandi pericoli di appiattimento sul governo. Il nuovo centrosinistra, infatti, starà al governo Monti come l’Ulivo stette al governo Dini: e nel ‘96, dopo quell’esperienza, vincemmo le elezioni». Piuttosto, la tentazione del Cavaliere spiega - secondo Latorre - la gran confusione che ha regnato e regna in materia di riforme. E soprattutto di riforma elettorale: «Hanno buttato per settimane la palla in tribuna proprio nell’attesa di capire con quale alleanza e soprattutto con quale leader andranno alle elezioni... ».
Qualcosa di simile pensa anche Matteo Renzi, ipotetico competitor di Silvio Berlusconi, se dovesse vincere le primarie del centrosinistra. Il sindaco di Firenze non vorrebbe entrare nel merito della questione, e infatti si limita ad un paio di annotazioni. «Credo poco ad una ricandidatura di Berlusconi: non mi pare logica, possibile. E comunque il centrosinistra vincerà, ma non dovremo sbagliare niente. Sarà un po’ come tirare un calcio di rigore, ci vorrà calma e freddezza: perché quando si fallisce dagli undici metri non è per la bravura del portiere, ma per l’errore di chi tira il rigore... ».
Anche Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale Pd, pensa che i giochi siano fatti e che un ritorno in campo di Berlusconi non possa comunque cambiare un esito elettorale forse già scritto: «Non credo che si ricandiderà davvero. E loro, comunque, sono già certi di perdere. Quel che cercheranno di fare, piuttosto, è provare a render monco il successo del centrosinistra con qualche pasticcio sulla legge elettorale: cercare di togliere il premio di maggioranza al “porcellum”, per esempio, così che noi si abbia meno seggi per una maggioranza solida in Parlamento».
Questi, insomma, i timori e i pensieri che agitano l’altra metà del campo. Con una quasi certezza in più: sulla ricandidatura di Berlusconi l’ultima parola non è ancora detta. E pochi credono che sarà detta con rapidità: la sorpresa e la suspence, in fondo, fanno da sempre parte del bagaglio politico-mediatico del Cavaliere...

Corriere 12.7.12
Il Pd teme la campagna elettorale «Ma ora l'Udc si avvicinerà a noi» La Nota
Bersani: si rischiano toni nocivi per il Paese. E c'è chi rievoca la sconfitta del '94
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il Partito democratico lascia cadere nel silenzio l'annuncio della ricandidatura di Berlusconi a premier del centrodestra. Quasi si temesse di far cambiare idea all'ex presidente del Consiglio. Spiega Rosy Bindi: «Bisogna vedere se poi tra qualche giorno non smentisce. Magari è solo una mossa tattica».
Dunque, le dichiarazioni ufficiali sulle agenzie di stampa sono poche, molte, in compenso, le battute. E non solo quelle. Dal momento dell'annuncio i dirigenti del Partito democratico cercano di immaginare quali possano essere i futuri sviluppi di questa notizia per il Pd e per la politica italiana. Bersani è convinto — e non è l'unico a Largo del Nazareno — che se davvero l'ex premier tornasse a giocare la partita politica in prima persona, per Casini diventerebbe inevitabile stringere — prima o poi — un accordo con il Pd. «Siccome nonostante i film che si fa qualcuno il prossimo appuntamento elettorale sarà centrosinistra contro centrodestra, questo semplifica la situazione». E la semplifica anche per il Partito democratico. Il segretario ne è certo perché ritiene che Berlusconi non abbia più l'appeal di un tempo. Tra l'altro, a Largo del Nazareno, dove c'è molta irritazione per il gioco di sponda che il leader dell'Udc sta facendo con il Pdl sulla riforma elettorale, ritengono che dopo l'uscita di Berlusconi il capo dei centristi sarà costetto a frenare su questa operazione.
Certo, anche al Pd giungono le voci dell'attivismo dell'ex premier. Si racconta che avrebbe in mente di chiamare la lista «Rosa tricolore», dal nome della madre. Si dice che abbia intenzione di creare in tutta Italia delle aggregazioni per categorie. «Forza commercianti», «Forza artigiani», e via di questo passo. Ma niente di tutto ciò sembra seriamente impensierire i vertici del Pd. «Per noi — è l'opinione di Paolo Gentiloni — le cose si semplificherebbero. Potremo blindare il rapporto con Casini e potrebbero uscire dal Pdl, se effettivamente ci sono, delle forze libere. Insomma, io credo che alla fine Berlusconi come valore aggiunto riesca a portare al centrodestra solo un po' di astensionisti e, forse, la Lega». Anche Beppe Fioroni è convinto che la discesa in campo di Berlusconi favorisca il Partito democratico: «Qui stiamo tutti pregando perché non cambi idea». «E se si presenta in tandem con Daniela Santanchè non solo stappiamo lo champagne, ma ci ubriachiamo», ironizza Paola Concia. Solo l'ex presidente della Rai Claudio Petruccioli, memore dell'esperienza vissuta con Achille Occhetto, di cui era braccio destro, non sembra sprizzare grande ottimismo. E a un Chicco Testa, che si dice convinto che a sinistra si stia «tirando un sospiro di sollievo» per questa decisione di Berlusconi, replica con queste parole: «Questo sospiro di sollievo non mi piace affatto. Mi ricorda quelli che nel '94 dicevano: contro Berlusconi è più facile vincere».
Ma c'è un'altra preoccupazione, condivisa un po' da tutti i dirigenti del Pd. Ossia il tipo di campagna elettorale che Berlusconi potrebbe fare. «La sua discesa in campo complica le cose al Paese», è il convincimento di Veltroni. E anche Bersani teme un Cavaliere antieuro e «border line con il grillismo». Il segretario ha paura che l'ex premier scateni gli spiriti animali del centrodestra: «E questo non farebbe bene al Paese». Rassicura tutti il segretario del gruppo Pd alla Camera, Roberto Giachetti. «A Berlusconi che si ricandida dobbiamo rispondere "chissenefrega", noi lavoriamo per l'Italia del futuro».

Corriere 12.7.12
D'Alema e Casini: «Insieme in Sicilia»


Camera, Transatlantico, mercoledì pomeriggio: c'è una seduta, ci sono deputati e cronisti. D'Alema si ferma a parlare con Casini e la conversazione viene raccolta da Tm News: in 5 minuti avrebbero sancito l'alleanza Pd-Udc alle Regionali in Sicilia. «C'è la questione Micciché», avrebbe detto D'Alema riferendosi alle voci di avvicinamento al centro dell'ex sottosegretario berlusconiano, mal digerite dai democratici e che impedirebbero l'intesa Pd-Udc. Casini replica che la cosa non avverrà e chiude così: «Allora è fatta, siamo d'accordo, non dobbiamo neanche parlarci di nuovo, c'è il patto». L'ufficio stampa centrista però smentisce: «Frasi estrapolate dal contesto».

l’Unità 12.7.12
Chi vuole solo tecnici e comici
di Michele Prospero


GRANDI MANOVRE SONO IN CORSO PER RESTRINGERE SINE DIE LO SPAZIO DELLA POLITICA. E non è un caso che a distinguersi nelle operazioni per bloccare sul nascere ogni tentazione di ritorno a un normale gioco politico sia il Corriere della Sera. L’immaginario del quotidiano di via Solferino prevede un bizzarro condominio. Da una parte abita Monti, celebrato con aggettivazioni persino mitiche quando gonfia i muscoli e mette a tacere i partiti e le organizzazioni sociali. Dall’altra imperversa Grillo, osannato perché i suoi seguaci sono degli abili tecnici in pectore, con l’aggiunta di un giovanile vitalismo, da benedire soprattutto quando si scaglia contro gli odiati «capponi di partito».
È chiaro che se questo è lo scenario agognato, un carnevale in cui il tecnico e il comico conducono la danza, non rimane che gettare polvere addosso al solo partito rimasto faticosamente in vita in questi anni turbolenti. Antonio Polito nell’articolo di fondo di ieri arriva a scomodare il massimo della ingiuria rivolta a un politico di sinistra, cioè quella di essere in preda alla demoniaca doppiezza togliattiana (è inutile rammentare all’editorialista che Togliatti fu il critico della doppiezza).
Il Pd sarebbe un inaffidabile manipolatore che finge di appoggiare il governo in nome della responsabilità nazionale, ma poi in sostanza lo avversa in maniera subdola distinguendosi in modo aperto dai provvedimenti sgraditi.
La stravaganza dell’argomentazione lascia senza parole. Su materie altamente simboliche (la riforma dell’articolo 18), e su scelte dell’esecutivo che incidono in maniera pesante sulla vita delle persone (i tagli lineari alla sanità e alla ricerca, gli annunciati licenziamenti nel pubblico impiego, la questione scottante degli esodati), un partito proprio perché responsabile non può certo tacere. Deve anzi esplicitare in modo forte la sua critica e cercare ogni strada parlamentare utile per correggere in maniera significativa delle decisioni che paiono non solo sbagliate, ma anche inefficaci. Che un partito, per un malinteso senso del dovere, debba crocefiggersi, spezzare legami con la sua parte di società (quella peraltro che paga i costi più elevati delle riforme strutturali avviate), lasciare che il Paese si abbandoni in una spirale recessiva è una classica pretesa inesigibile perché del tutto sciocca.
L’interdizione della sinistra politica e sindacale, pronta a esercitare terribili ricatti, non c’entra proprio nulla. A nessun partito può essere chiesto il gesto estremo del suicidio. Davvero poi è un interesse generale del Paese che il maggior partito, impegnato nell’arduo compito di evitare la catastrofe economica sostenendo una maggioranza anomala anche al prezzo di una emorragia di consenso, venga travolto dalle macerie di una società presa dallo sconforto dinanzi a una crisi senza prospettive? Appoggiare, correggendole, le scelte necessarie per il risanamento, evocando al tempo stesso che il tempo del governo del centrosinistra avrà un’altra attenzione al malessere sociale non solo non è una pratica disdicevole, ma aiuta il sistema politico a non restare vittima di spinte irrazionali in agguato.
Il silenzio dei partiti pronti a scattare sull’attenti per obbedire ai comandi, quali che siano, non aiuta affatto la capacità della democrazia di gestire la crisi. È un colossale errore tecnico quello di auspicare l’afonia dei partiti. Essi al contrario devono parlare, e anche contrastare le tendenze istituzionali deteriori (come il ricorso costante ai voti di fiducia).
È vergognosa la descrizione che Polito fa degli scenari politici che si aprirebbero con la prospettiva che il Pd guidi uno schieramento di progressisti e moderati dopo il voto del 2013. Sembrano di nuovo annunciarsi orde di cosacchi pronti a spezzare ogni vincolo europeo, a ballare ubriachi dinanzi alla tragedia del default, a spezzare ogni vincolo di bilancio per scialacquare la residua ricchezza della nazione. Stupidaggini colossali, che cozzano contro ogni verità storica. I bistrattati governi dell’Ulivo e dell’Unione hanno portato al minimo storico il rapporto tra debito e Pil (venti punti in meno di quelli raggiunti da Berlusconi, a cui andava il sostegno colpevole di buona parte delle classi dirigenti nostrane). Il governo Prodi invece ha portato l’Italia nell’euro. Il bilancio del governo D’Alema vanta tuttora il minimo di spesa pubblica dell’ultimo trentennio. E la lista potrebbe continuare a lungo. Nessuno impedisce al Corriere di sognare ad occhi aperti una grande coalizione permanente. Però potrebbe evitare di tacciare come traditore della patria chi opera per non chiudere la democrazia (che sa gestire l’emergenza con le sue risorse), per dare un programma coerente e quindi più incisivo al governo (purtroppo quello attuale non è un vero programma perché poggia sulla non ostilità esplicita di forze politiche che non si reputano neppure alleate).
Il teorema di Polito, per cui alla maggioranza attuale non ci sono alternative perché solo chi ha votato la fiducia al governo Monti (quindi anche Di Pietro?) e chi non si è opposto in aula ad esso (quindi anche Vendola che non ha seggi?) può stringere un patto per la prossima legislatura è solo una cattiva metafisica. Chieda pure alla Merkel se, dopo la Grande coalizione, ha rinunciato ad allearsi con i liberali perché erano all’opposizione. O lo chieda alla Spd se ha deciso di troncare per sempre ogni patto di governo con i Verdi perché erano rimasti fuori dalla grande Coalizione. Tutti gli argomenti del Corriere zoppicano, proprio come un sistema politico dove i sostenitori dei tecnici e quelli del comico si danno la mano per sospendere la politica.

l’Unità 12.7.12
Il partito ad personam
L’Italia senza una destra decente
di Michele Ciliberto


Se non ci saranno ulteriori novità sarà ancora Silvio Berlusconi a guidare il Pdl alle elezioni del prossimo anno. Certo, è una notizia abbastanza raccapricciante, se si pensa al Paese e alle macerie lasciate dal berlusconismo.
Sbagliavano, dunque, quelli che pensavano di essersi liberati di questa malattia e che la vita politica nazionale potesse indirizzarsi in altre direzioni aperte dall’azione salvifica del governo tecnico. Sbagliavano per una serie di motivi. Anzitutto perché hanno continuato a non capire la profondità della presa del berlusconismo sulla società italiana, gli effetti devastanti che esso ha avuto nella costituzione interiore del Paese nel conformare nuovi modelli antropologici e nuovi sensi comuni profondamente penetrati in un ampio spettro di ceti e di strati. Pensare che tutto questo potesse sparito da un giorno all’altro significa non conoscere la storia italiana, non aver capito da quali motivi strutturali, e di lungo periodo, fosse stato reso possibile il triplice successo elettorale di Berlusconi. Significa non comprendere quale vasto e ramificato blocco di interessi egli sia riuscito a raccogliere intorno a sé, in un momento di vasta crisi della vita politica e della democrazia nel nostro Paese. Significa non intendere, per un diffuso pregiudizio, la forza e l’energia della sua leadership. Certo, è curioso che non se ne siano resi conto anche i suoi seguaci, i quali hanno pensato di poter fare a meno di lui, salvo essere costretti, come ha fatto ieri Alfano, a tornare, un po’ penosamente, sui loro passi dai risultati elettorali, dall’affermarsi di Grillo nel loro elettorato, dalla conoscenza di sondaggi, dai quali il tracollo e la fine del Pdl appare, giorno dopo giorno, un fatto non solo probabile ma ormai possibile. Forse anche loro, per legittima difesa, hanno cercato di dimenticare una verità elementare: il Pdl è un partito personale, si basa sulla identificazione con un leader carismatico; casereccio, ma carismatico. Quelli che non l’hanno dimenticato, mai, sono stati i suoi elettori, cioè il blocco sociale vasto e articolatissimo che si è raccolto intorno a Berlusconi, i quali o hanno votato Grillo per protesta, oppure si sono chiusi in un sordo, e infrangibile, astensionismo da cui non si sono mai mossi, e dal quale solo Berlusconi ha qualche possibilità di farli uscire, se non è passato, anche per lui, troppo tempo. La crisi del Pdl è infatti evidente, ma Berlusconi non è stato un accidente nella recente storia del Paese: forse i vari opinionisti politici che si esercitano nelle lodi quotidiane di Monti, auspicando una sua permanenza al potere anche dopo il 2013, farebbero bene a leggersi qualche pagina non dico di Marx (troppo eversivo!), ma di Benedetto Croce il quale interpreta l’«utile» come uno dei quattro gradi della vita spirituale. Gli interessi non si sciolgono come neve al sole.
Naturalmente, se si pensa che Berlusconi possa essere il capo dello schieramento della destra alle prossime elezioni, viene da riflettere su quello che la destra italiana

l’Unità 12.7.12
Due sinistre? C’è già il Pd
C’è il Pd, che senso ha parlare di due sinistre?
Il disagio sociale è grande Il vero problema da affrontare è quello del come uscirne
di Emanuele Macaluso


Ho seguito il dibattito che l’Unità ha aperto sull’articolo di Mario Tronti sulle «due sinistre». Confesso che dopo aver letto tutto quello che avete pubblicato sono molto perplesso anche sul senso che ha oggi un dibattito su questo tema.
La questione cui accenno è quella apertamente e limpidamente sollevata nel suo intervento da Rosi Bindi. La quale, dopo aver fatto brevi considerazioni sui danni prodotti dal «paradigma neoliberista» e posta l’esigenza di mettere in campo una vera alternativa culturale e politica pone una domanda: «Siamo in grado di fare avanzare questa alternativa e farla diventare proposta credibile e vincente di governo»? E risponde: «L’alternativa è possibile a patto di riconoscere e far vivere, sul piano delle idee dell’azione politica, la discontinuità novità costituita dal partito democratico». E a coloro che hanno aperto e dibattuto sulle «due sinistre» dice: «Non vorrei che il Pd restasse inchiodato a un confronto tra ex sulla natura della sinistra o sull’eterna contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari».
Roba vecchia ribatte Bindi che, però, «rischia di smarrire la vera posta in gioco: quella di elaborare un nuovo paradigma culturale e politico». Ben detto. Infatti non a caso da anni dico che il Pd non ha una «base politico culturale» e certo non può darsela alla vigilia di elezioni. Ed è anche vero che non è questo il momento per discutere se, come e quando le «due sinistre» possono stare insieme, dato che non si sa quali sono e come radunarle.
Mario Tronti dice: «Per un centro-sinistra diverso è indispensabile una sinistra diversa». Il trattino rimesso da Tronti presuppone l’esistenza di un partito di sinistra e uno di centro. Ma dov’è il partito di sinistra? Oggi qui Bindi ha ragione c’è il Pd, partito di centrosinistra. Il quale con i limiti che, a mio avviso, costituzionalmente ha dal momento che è nato è il riferimento di tutte le forze che vogliono costruire un’alternativa alla destra populista berlusconiana e al grillismo. E su questo punto che il dibattito nel centrosinistra si è arenato e la prospettiva è sempre più nebulosa. È chiaro che il nodo è il rapporto con il governo Monti. In tutte le democrazie i partiti quando si presentano agli elettori dicono quel che hanno fatto (all’opposizione o al governo) e quel che vogliono fare. Il giudizio sul governo Monti, i comportamenti delle forze politiche rispetto al suo operare, cosa fare per fronteggiare la crisi con cui fare i conti anche nel 2013 e dopo, sarà il tema centrale della campagna elettorale.
Di Pietro ha detto che Monti è «l’aguzzino del popolo»: il suo personale partito può stare nello schieramento del Pd?
Vendola, dice e non dice, ma ritiene che il governo Monti svolge una politica antipopolare, il Pd, però, vota la fiducia a tutti i suoi provvedimenti. Cosa diranno agli elettori? Ma anche nel Pd le cose non sono chiare: io non penso che il partito di Bersani e Rosi Bindi deve identificarsi col governo che è sorretto anche dal Pdl.
Ma se l’Unità si identifica con chi ritiene che questo governo fa «macelleria sociale», un problema si pone. Io penso che questo governo con tutti i suoi limiti e contraddizioni inevitabili con quella maggioranza non maggioranza che lo regge ha evitato la «macelleria sociale» che, invece, vediamo in Grecia.
Sia chiaro, il disagio sociale è grande, le condizioni dei lavoratori e soprattutto dei giovani sono pesantissime. Come uscirne? Questo è il tema che va affrontato su due versanti:
1) Quali sono le proposte che il Pd e i suoi alleati fanno per fronteggiare la crisi e sollecitare la crescita? Occorre, quindi, sapere chi sono gli alleati del Pd e se c’è un progetto comune anche per il sistema politico da prefigurare con la legge elettorale.
2) Lo scontro politico si è trasferito nelle sedi dell’Ue e l’autorevolezza di chi rappresenterà il governo è oggi essenziale. Monti ha dichiarato che la sua azione politica si ferma con le elezioni del 2013. Questo significa che non guiderà nessun schieramento. Ma il problema resta e riguarda non un partito o una coalizione ma l’Italia tutta.

l’Unità 12.7.12
Il protagonismo inaccettabile dei radicali

Dopo l’ennesimo ceffone inferto dal radicale Beltrandi all’opposizione e soprattutto al PD, nelle cui liste sono stati eletti i 9 radicali, mi auguro che non si commetta l’errore di reimbarcarli alle prossime elezioni politiche. Ricordo con rabbia quando durante una seduta parlamentare tutta l’opposizione abbandonò l’aula, i radicali furono gli unici a rimanere a far corona a Berlusconi e quando ciò fu stigmatizzato dal Partito, il sapientone Pannella ci definì dei poveracci. Spero, pertanto, di poter votare prossimamente soltanto per dei poveracci e non anche per i “fini” radicali.
Gennaro Schisano

l’Unità 12.7.12
Sindacati e imprese all’attacco «Il premier non sa di che parla»
Susanna Camusso: «Imbarazzante prendere lezioni
di democrazia da chi non è stato eletto»
di Massimo Franchi


ROMA Ciampi la considerava parte della Costituzione materiale dello Stato. E tutti i commenti alle parole di Mario Monti sulla concertazione richiamano l’ex presidente della Repubblica e l’accordo del 1993. Quella politica dei redditi che Ciampi firmò con le parti sociali e che rappresenta il frutto più importante della concertazione.
Sindacati e imprese criticano all’unisono il discorso del presidente del Consiglio all’Abi. La più dura di tutti è Susanna Camusso. Il segretario della Cgil si trovava al convegno della Filt sui contratti nei trasporti. Le bastano pochi minuti per rispondere. Prima sul metodo: «Le lezioni di democrazia sono sempre utili, le rappresentanze sociali sono elette e misurate sulla base del consenso, ma prendere lezioni di democrazia da chi è cooptato e non si è misurato con il voto è un po’ imbarazzante per il futuro democratico del Paese attacca Camusso . Farlo nella platea delle banche e degli interessi bancari nella crisi meriterebbe una riflessione». Poi entra nel merito: «Credo che il premier non sappia di cosa sta parlando rincara la dose . Vorrei ricordargli che l’ultima concertazione nel nostro Paese è quella del 1993: quell’accordo salvò l’Italia dalla bancarotta e si fece una riforma delle pensioni equa, al contrario di quella fatta dal suo governo, che permise l’ingresso del Paese nell’Euro. Forse il presidente del Consiglio non si ricorda che al governo arrivò la destra che cancellò la concertazione. Sono 20 anni che non abbiamo concertazione» e da allora sono arrivate «le leggi della precarietà, di cui la riforma del mercato del lavoro di questo governo è l'ultima tappa. Quando parla dei giovani dovrebbe pensare a queste leggi», conclude Camusso.
Bocche cucite e nessun commento invece da parte di Confindustria, bersaglio evidente di molti dei passaggi del discorso del premier. Giorgio Squinzi, scottato dalle polemiche dei giorni scorsi sullo spread e sull’asse con la Cgil, ha deciso di rimanere silente. Ma certamente la sua storia di imprenditore che ha sempre concertato con i sindacati qualsiasi decisione e contratto non può trovarlo d’accordo con le parole di Mario Monti.
Cisl e Uil invece sono sulla stessa linea della Cgil. «Non c’è alternativa alla concertazione in nessun Paese a democrazia matura e ad economia avanzata commenta Raffaele Bonanni -. I governi, per quanto autorevoli e composti da personalità di altissimo profilo, non possono guidare da soli questa difficile stagione di cambiamenti e di riforme senza un ampio consenso sociale». «Proprio perché abbiamo intrapreso un percorso da guerra, come dice il presidente del Consiglio Monti prosegue il leader della Cisl bisogna moderare i toni sia da parte di chi ci governa, sia delle parti sociali, e collaborare tutti insieme, come è successo in altre stagioni complicate della vita del Paese. Il governo non può pensare di avere il dono dell’infallibilità, ma nello stesso tempo le forze sociali devono partecipare alla ricerca delle soluzioni più idonee, senza porre veti al confronto».
Sulla stessa lunghezza d’onda è Luigi Angeletti: «Oggi l’Europa consiglia il dialogo sociale come strumento per la crescita. Ma il nostro Presidente del Consiglio è più realista del re: pensa di poter salvare l’Italia senza preoccuparsi di salvare gli italiani. Forse prosegue Angeletti un ascolto più attento delle aspettative di lavoratori e pensionati ci farebbe uscire dalla crisi, tutti insieme, prima e meglio. Il presidente Monti, apparentemente, come molti, sembra confondere la concertazione con la consociazione: la prima serve a trovare la migliore soluzione senza che si accettino, ovviamente, diritti di veto; la seconda, invece, è il confronto per trovare il punto di mediazione: il merito è indifferente, ciò che importa è che siano tutti d’accordo». Non si discosta dai giudizi delle altre confederazioni, Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl: «È riduttivo oltre che irrispettoso nei confronti dei sindacati e dei lavoratori affermare che siano stati gli esercizi di concertazione a generare i mali contro cui oggi il Paese lotta. Quando è vero annota Centrella il confronto porta sempre a ottimi risultati, come dimostrano tante crisi industriali superate senza fare clamore».
RETEIMPRESE: È STRADA MIGLIORE
Da parte imprenditoriale interviene Rete Imprese Italia, l’associazione che riunisce medie e piccole imprese. «La concertazione, nel suo significato più autentico, è la strada migliore per trovare soluzioni condivise, utili ed efficaci per uscire dalla crisi commenta il presidente Giorgio Guerrini . Se si sono potute fare importanti riforme in questi anni in Italia è anche perché gli imprenditori, con senso di responsabilità, hanno fatto la loro parte per mantenere la coesione della società», ha aggiunto Guerrini, sottolineando che Rete Imprese ha «pieno titolo per contribuire, insieme alle altre parti sociali e fermo restando il ruolo proprio del governo e del Parlamento, alla formazione delle scelte che riguardano il futuro del Paese».

Repubblica 12.7.12
“È il suo errore sistematico snobba il dialogo sociale”
Fassina, responsabile economico del Pd: la sua agenda è solo in parte la nostra
di G. C.


Fassina, Monti sbaglia sulla concertazione?
«Monti sottovaluta la rilevanza del dialogo sociale per fare riforme strutturali. Persino al Fondo monetario internazionale parlavamo ownership, che significa il coinvolgimento attivo dei diretti interessati nella costruzione delle riforme».
In altre parole, la concertazione ci vuole, è indispensabile?
«Concertazione è un termine ambiguo, si deve parlare di dialogo sociale. Non mi pare che le parti sociali in Italia abbiamo mai rivendicato diritti di veto, semmai c’è stato un problema di debolezza della politica. Comunque la concertazione ha avuto una storia differenziata, il cui segno è largamente positivo, anche a partire da quanto i sindacati hanno fatto nel ’92 -’93 con la l’intelligente regia di Ciampi che sapeva appunto svolgere il dialogo sociale».
Quello di Monti è lo stesso metodo del governo Berlusconi, lei ha detto più volte.
«Il governo Berlusconi aveva l’obiettivo di dividere le forze sindacali, Monti no. Ma sottovaluta sistematicamente l’importanza del coinvolgimento delle parti sociali come ricordava De Rita qualche giorno fa».
Monti dopo Monti?
«Per l’Italia ci vuole un programma progressista che rimetta al centro l’economia reale, le imprese e i lavoratori ».
Ma molti nel suo partito, il Pd, pensano che l’agenda Monti debba valere anche dopo il 2013?
«Molti, vedremo: il Pd è sulla linea di Bersani. Ricordo che l’agenda di Monti è solo in parte la nostra agenda abbiamo punti specifici di una forza progressista quali noi siamo: la riduzione del debito pubblico attraverso lo sviluppo, il primato dell’economia reale, impresa, lavoro, l’attenzione alla distribuzione del reddito e all’equità, le politiche industriali e ambientali.. L’Italia ha bisogno di riforme incisive e condivise».
(g.c.)

Repubblica 12.7.12
L’intolleranza morbida
di Adriano Prosperi


“L’Italia ha iniziato un percorso di guerra durissimo – ha detto ieri il presidente Mario Monti – una guerra contro i pregiudizi diffusi”. Si riferiva a quelli sugli italiani e sull’affidabilità finanziaria del paese. Chissà se qualcuno degli ascoltatori, nella sala del convegno dell’Associazione bancaria italiana, ha pensato per un attimo ai pregiudizi e alle discriminazioni degli italiani verso gli “altri”. Il mondo del pregiudizio diffuso e della discriminazione legalizzata dovrebbe richiedere qualche attenzione da parte di un governo degno di questo nome. La minaccia latente dei conflitti identitari del mondo attuale può essere tollerabile in condizioni normali, ma diventa devastante quando la violenza dello sfruttamento e il vilipendio dei diritti umani sono lasciati liberi di scatenarsi.
Secondo i più aggiornati rapporti periodici dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) il fenomeno della discriminazione razziale è in forte crescita in Italia. Lo documenta una fitta serie di rilevazioni che riguardano l’accesso ostacolato o negato ai diritti primari di lavoro, casa, sanità, istruzione. Nei primi mesi del 2012 gli episodi accertati hanno superato il totale dell’anno precedente. Sono storie che nella statistica generale appaiono ripetitive, quasi incolori. Ma basta entrare in una vicenda, incontrare un volto, un nome nella cronaca dei quotidiani, per rivelare ai più distratti in quale contesto siamo immersi, quale sia l’aria che respiriamo. Si pensi al caso recentissimo della piccola Blessed, promossa a Castel Volturno in prima elementare con tutti dieci, che non vedrà la pagella perché i genitori, privi del permesso di soggiorno, hanno paura a presentarsi in scuola per ritirarla.
Sono tante le vicende come questa: storie di studenti figli di immigrati ma nati e cresciuti qui che si sentono dire dagli insegnanti: “Sei più bravo degli italiani”: e imparano così sulla loro pelle che da noi vige una legge razzista della cittadinanza come privilegio del sangue. Una legge che nemmeno gli appelli del presidente della Repubblica Napolitano hanno convinto le forze politiche e il governo a modificare. Di fatto i percorsi sociali deputati all’integrazione sociale e alla educazione ai diritti di cittadinanza, svolgono spesso il loro compito alla rovescia, lasciando ferite quotidiane nell’esperienza e nella mentalità di quei milioni di italiani di fatto che la legge e la mentalità corrente continua a definire non italiani.
Questa è sempre più la realtà quotidiana di un’Italia dove una intolleranza morbida, quasi inconsapevole, frutto di ignoranza e di pregiudizio, esplode solo eccezionalmente in forme di razzismo conclamato e violento: un’Italia dove però vige un sistema che garantisce una discriminazione deliberata, utilizzabile a piacere a scopo di sfruttamento, di lavoro o sessuale che sia. Da noi, ricordiamolo, c’è un’antica vetta emergente di razzismo duro, banalmente quotidiano ma all’occorrenza spietato: è quello che riguarda gli zingari. E qui ci sono i delitti della gente per bene, come quelle famiglie che a Napoli non volevano bimbi zingari nelle scuole dei propri figli e per questo nel dicembre 2010 ricorsero alla camorra e fecero dar fuoco al campo rom (sono di martedì gli arresti dei 18 responsabili).
Accanto a questo picco razzista, c’è tutt’intorno quella pratica diffusa della discriminazione di cui parla il rapporto Unar, alimentata e incoraggiata già dal governo Berlusconi, che ci ha valso la condanna nel febbraio 2012 della Corte europea dei diritti umani per la prassi dei respingimenti in mare. Il governo Monti si è pubblicamente impegnato a dare attuazione alla sentenza. Ma poi il 3 aprile 2012 se n’è dimenticato quando ha firmato il nuovo accordo Italia- Libia sul controllo dell’immigrazione. Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, ha chiesto inutilmente una “comunicazione trasparente” su quegli accordi e qualche garanzia sui diritti umani di chi attraversa la Libia fuggendo da guerre e persecuzioni. A quanto si sa, l’Italia si è limitata a rinnovare alla Libia la richiesta di fermare le partenze dei migranti prestandole per questo uomini e mezzi. E intanto quel mare che la retorica nazionalista definì “nostro” e che è per noi quello delle vacanze estive, è sempre di più per “loro” l’immenso cimitero dove annegano ogni giorno tanti disperati. Proprio dalla Libia proveniva ieri il barcone con 54 eritrei: 53 di loro “si sono spenti uno ad uno, uccisi dalla sete», ha riferito l’unico sopravvissuto. E intanto l’Alto commissariato Onu per i rifugiati informa che ce ne sono altri 50 in arrivo. Un fenomeno che secondo ogni previsione è destinato a crescere.
Tutte queste cose il governo guidato da Mario Monti le sa. Ma non sembra intenzionato a occuparsene. In questa situazione gli sforzi generosi di singoli e di associazioni volontarie, laiche come Amnesty e religiose come i gesuiti della Fondazione Astalli, non ce la possono fare a invertire la tendenza. Non basta gettare in mare una corona d’alloro, come ha fatto una persona sicuramente di buona volontà come il ministro Riccardi. Questo governo si è dato un’auto-limitazione che danneggia il Paese perché lascia in essere cattive norme e cattive abitudini. Un governo, un Paese non vivono solo di economia.

Repubblica 12.7.12
I sospetti di Bersani e Camusso “Vuole separare il Pd dalla Cgil”
Il leader irritato: “Senza confronto democrazia povera”
di Roberto Mania


ROMA — Non è una novità l’insofferenza di Mario Monti nei confronti della concertazione. L’ha espressa più volte, prima in veste di professore, poi in quella di premier. Ma il fatto che ieri davanti a una platea di banchieri abbia deciso di abbandonare il discorso che gli era stato preparato, glissando sulla stretta del credito che contribuisce a bloccare l’attività produttiva, per concentrarsi sui «mali» di un pervasivo consociativismo sociale che ha impedito negli anni un’efficace azione di governo e fatto lievitare il debito pubblico, non poteva non voler dire qualcosa di più. Già, ma cosa? Un messaggio a chi? Domande che ieri si ponevano tutti i leader sindacali, i vertici della Confindustria, gli esponenti del Pd.
Perché di certo mentre affondava il coltello sugli «esercizi di concertazione del passato», Mario Monti pensava a chi continua a proporre quel metodo. E non è un caso che il Pd abbia scelto di non commentare in qualche forma ufficiale la tesi di Monti. Quel che pensa Pier Luigi Bersani è però decisamente diverso: «Il dialogo, o la concertazione, non è affatto un cedimento alla non decisione. La democrazia non si impoverisce se ci si confronta. Anzi, è il contrario». D’altra parte il socialista Francois Hollande, solo qualche giorno fa, ha annunciato l’intenzione di inserire nella Costituzione della Quinta Repubblica proprio la concertazione, ispirandosi al modello della cogestione tedesca. Una novità per la Francia. Guardata con attenzione da Bersani. Anche perché in Italia proprio con il governo guidato dal “tecnico” Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 la concertazione permise di sconfiggere l’inflazione e creare le premesse per l’ingresso nell’euro, senza conflitti sociali, affidando a sindacati e Confindustria un ruolo di supplenza ai partiti. Ma oggi non c’è quel clima di azione corale. Oggi ci si prepara a un autunno denso di incognite. La crisi è destinata ancora a peggiorare. «Non c’è il credito e non ci sono gli ordini. Le aziende stanno chiudendo», diceva ieri un importante esponente della Confindustria. E la Cgil si prepara al suo sciopero generale contro i tagli nella pubblica amministrazione e per il lavoro. E lo farà quasi certamente da sola perché la Cisl - come spiega Raffaele Bonanni - non ha alcuna intenzione di «far perdere i soldi ai lavoratori o creare disagi a chi paga le tasse e sopporta già tante difficoltà». Ecco, dunque, la Cgil.
Dice ancora Bonanni: «Monti parla a suocera perché nuora intenda ». Dove quest’ultima, secondo il leader della Cisl «è la politica ». Insomma il messaggio di Monti sarebbe rivolto anche al Pd: attenzione a seguire le sirene conflittuali di Susanna Camusso, c’è bisogno di condivisione tra i partiti della “strana” maggioranza. Ciascuno faccia il suo mestiere, distinguendo ruoli e responsabilità. Una strategia che sospettano in molti anche a Corso d’Italia, sede della confederazione rossa. Che punta a prendersi il pallino a sinistra.
Di certo Susanna Camusso sta alzando il livello dello scontro con Monti. E sta sfidando anche il Pd. I commenti del leader della Cgil sono stati ieri i più duri, nonostante la Cgil sia stata storicamente la più fredda sulla concertazione tra le tre grandi confederazioni. Bonanni e Luigi Angeletti della Uil hanno provato a concertare pure con il governo di Silvio Berlusconi accettando la spaccatura sindacale, la concertazione “ad escludendum”. Ieri la Camusso è arrivata a sostenere che «non si possono accettare lezioni di democrazia da chi è stato cooptato». E ancora: «Monti non sa di cosa parla». Camusso ha scelto la linea oltranzista: il governo non ci ascolta, la Cgil è l’opposizione sociale. E il Pd, se non tutto una buona parte, farà fatica a non tener conto delle posizioni di Corso d’Italia.
Ma la Camusso sta giocando pure su un altro versante. Di sicuro non apprezzato dal premier Monti, come si è visto nel weekend dopo “la foto di Serravalle Pistoiese”. Il segretario della Cgil ha preso in contropiede Cisl e Uil e ha aperto un dialogo privilegiato con il neo presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi. Non è ancora chiaro quale sia l’obiettiv o ultimo, però è evidente lo sforzo di creare un asse anche contro il governo. Camusso ha difeso pubblicamente Squinzi dalle critiche espresse nei suoi confronti da una parte del sistema confindustriale dopo le esternazioni di Serravalle (dal «no alla macelleria sociale» al voto, «tra il cinque e il sei» dato all’azione di governo). È molto inusuale che un leader sindacale entri nelle vicende interne di Confindustria, la Camusso l’ha fatto ricordando che la maggior parte dei critici di Squinzi (a cominciare da Paolo Scaroni) sono manager pubblici e che Luca Montezemolo «ha altri obiettivi». La Camusso si prepara alla prossima stagione di rinnovi contrattuali, ma non si può escludere che stia pensando anche a riprendere dal cassetto quella bozza di intesa sulla produttività su cui con Emma Marcegaglia non è riuscita a fare l’accordo. Un “patto tra produttori” per poi andare a chiedere incentivi al governo. Proprio mentre Monti si prepara ad azzerare quelli per le imprese. Una sfida senza esclusione di colpi.

l’Unità 12.7.12
Ma Hollande fa il contrario
Hollande sceglie la strada opposta: il dialogo sociale
In Francia sono in corso le due giornate di Stati generali sulle politiche del lavoro
di Guglielmo Epifani


PROPRIO MENTRE IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, PARLANDO ALL'ASSEMBLEA DELL’ ABI, DEDICA UNA PARTE DEL SUO INTERVENTO AL RIDIMENSIONAMENTO DEL RUOLO DELLA CONCERTAZIONE CON LE PARTI SOCIALI, accusata di aver favorito solo interessi di parte e mai interessi di carattere generale, in Francia si svolgono due giornate degli Stati generali della concertazione. Nella prima giornata discutono di metodo e senso della concertazione il presidente Hollande con i segretari delle organizzazioni sindacali francesi e i presidenti delle associazioni di impresa, nella seconda il confronto prosegue sui temi dell’agenda economica e sociale, a partire dall’occupazione per finire con il lavoro pubblico,
alla presenza del nuovo primo ministro al quale sono anche affidate le conclusioni del confronto.
Chi dunque, tra Monti e Hollande, compie la scelta giusta e chi quella sbagliata? E perché la Francia con forza rilancia il dialogo sociale e addirittura la concertazione per aumentare la coesione sociale e politica nel corso di una crisi così insidiosa mentre il governo italiano fa e teorizza il suo contrario? Non c’è solo questa anomalia che colpisce e stupisce. C’è insieme un problema ancora più grande. È corretto quello che Monti ha detto? È proprio vero che in Italia la concertazione ha avuto un ruolo così negativo? È corretto, se si pensa ai primi anni ’90 con i governi di Amato e Ciampi, ritenere che la concertazione, invece di salvare il Paese, ne preparò in realtà negativamente il futuro? Se poi ci si volesse riferire al rischio vero, cioé al fatto che un consociativismo deteriore può a volte far prevalere una logica corporativa rispetto all'interesse generale, perché confondere i piani e chiamare a risponderne un metodo che, quando è gestito correttamente e senza confusioni di ruoli, non ha alternative migliori nella esperienza democratica europea?
Non è facile dare una risposta a queste domande e neanche capire cosa abbia motivato un’affermazione che di solito ha connotati molto di destra e non è mai stata fatta propria dal fior fiore dei governi a guida tecnica avuti in Italia. Lo stesso Monti solo due anni fa era stato invitato al
congresso della Confederazione europea dei sindacati dove aveva svolto un intervento molto attento al ruolo del sindacalismo e del mondo del lavoro, e anche in ragione di questo venne molto apprezzato. E quel congresso si svolse ad Atene, in una città già percorsa da proteste e manifestazioni sindacali.
Qualunque sia la risposta, bisogna solo sperare che questa non tragga origine dalle posizioni prese dai sindacati verso singole misure assunte dal governo, anche perché l’uso della critica, la richiesta di cambiamento o di correzione di errori o sottovalutazioni compiuti, è l’essenza di una democrazia. Resta il paradosso. Con la concertazione si è salvato il Paese dalla bancarotta nel ’92, si è praticata la politica dei redditi a partire dagli accordi del ’93 e si è riusciti ad entrare nell’euro. La destra al governo non l’ha più praticata negli ultimi dodici anni, gli anni del declino, e spesso ha lavorato a dividere i sindacati e le parti sociali. È la non concertazione che ci ha portato dove siamo, se si vuole guardare alla realtà dei fatti nel rispetto delle vicende storiche dell’ultimo ventennio.
Resta poi un'ultima e non capziosa domanda. Per affrontare una discussione di questo tipo non era preferibile una sede diretta di discussione e confronto? E con tutto il rispetto, era proprio il mondo delle banche e della finanza la sede migliore per parlare di responsabilità e limiti della concertazione,di equità sociale e difesa dei giovani?

l’Unità 12.7.12
Legge elettorale, il Colle insiste «Intesa o parola alle Camere»
«È arrivata l’ora di portare alla luce del sole il confronto tra i partiti»
Al lavoro il comitato ristretto. Sul dopo Monti: «Garantire gli impegni»
di Marcella Ciarnielli


ROMA Per la terza volta in tre giorni il presidente della Repubblica è tornato sulla necessità di arrivare alla riforma della legge elettorale nei tempi, ormai brevi, concessi da una fine della legislatura che incombe. Napolitano è tornato ad incalzare i partiti e li ha richiamati a una responsabilità che pure essi si erano assunti proprio con lui all’inizio dell’anno e che poi, per interessi contrapposti, non è finora arrivata a buon fine. Prima la lettera ai presidenti delle Camere in presenza del fatto incontrovertibile che «stanno purtroppo trascorrendo le settimane senza che si concretizzi la presentazione in Parlamento della legge elettorale anche rimettendo a quella che sarà la volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva e rimanessero quindi aperti ad un confronto conclusivo». Poi l’impegno richiesto ai partiti di rassicurare l’Europa oltre la scadenza naturale della legislatura impegnandosi nella continuità delle scelte del governo Monti. E infine, ieri, la sollecitazione a «una intesa o comunque ad un confronto conclusivo nella sede parlamentare», lì dove ognuno sarà chiamato, al di là del risultato dei confronti avvenuti «nell’ambito di consultazioni riservate tra partiti» alla propria responsabilità di dare al Paese una legge elettorale che cambi quella attuale, non a caso definita Porcellum e sconfessata da tutte le forze politiche, a cominciare da quelle che avevano dato un contributo determinante alla stesura.
«Ho ritenuto che fosse ormai il momento di portare alla luce del sole l’esito dei tentativi di intesa che ci sono stati» ha detto il presidente Napolitano, lasciando Lubiana al termine della visita di Stato in Slovenia, ma evitando di entrare in valutazione dell’attuale situazione di confronto tra i partiti che potrebbe, ma anche no, portare a un accordo. Una valutazione della situazione «spetta a loro: io non ho notizie di accordi tentati, conseguiti in parte o falliti. Perciò mi sono rivolto ai presidenti delle Camere chiedendo anche il loro sforzo di persuasione verso le forze politiche».
I DIECI GIORNI
Lo scossone provocato dalle parole di Napolitano ha sortito l’effetto di un rinnovato impegno delle forze politiche, ufficialmente mai negato, a trovare una soluzione anche se i tempi ristretti rischiano di diventare la foglia di fico per chi una soluzione non è intenzionato a trovarla.
Sono dieci i giorni a disposizione della commissione Affari Costituzionali del Senato, il ramo del Parlamento cui tocca avviare l’iter al di là di ipotizzato braccio di ferro con Montecitorio, per mettere a punto un testo da presentare in Aula capace almeno di arrivare ad una sintesi nonostante le posizioni dei partiti siano ancora distanti. La necessità di giungere a un’intesa o, comunque, a un confronto conclusivo non c’è nessuno che non la sostenga. Ma il pessimismo sembra essere il sentimento prevalente. «La situazione è difficile e non sono certo che si arrivi ad una soluzione», ha detto il presidente della commissione, Carlo Vizzini, per cui «è giusto riportare nella sua sede naturale una materia che è come un libro giallo... e non si sa nemmeno se leggerete l’ultima pagina». Anche i due correlatori, Lucio Malan (Pdl) ed Enzo Bianco (Pd), non nascondono la loro preoccupazione per un buon esito. Malan: «Un romanzo aperto». Bianco, un ottimista di natura si dice alle prese con «una mission impossibile». Quest’oggi il comitato ristretto comincerà a lavorare e i nodi, a cominciare dalle preferenze fino al semipresidenzialismo e il doppio turno, verranno inevitabilmente «alla luce del sole». Per ora i partiti hanno confermato la disponibilità a cambiare nonostante nel dibattito a distanza continui a emergere una distanza difficile da colmare.

Corriere 12.7.12
Quale legge per il voto?
Il labirinto elettorale
di Michele Ainis


Se pensi alla legge elettorale, t'assale un moto di disperazione. Ne è rimasto vittima perfino Napolitano, tanto da scrivere una lettera ai presidenti delle Camere per sollecitarne la riforma. Risultato? I leader di partito si sono dichiarati pronti a votarla l'indomani; ma i giorni passano, senza che il Parlamento cavi un ragno dal buco. D'altronde sono già scadute invano le tre settimane entro cui Bersani e Alfano (l'8 giugno) avevano promesso di raggiungere l'accordo.
Nel frattempo ogni forza politica cavalca almeno un paio di soluzioni contrapposte, sicché il primo problema è di capire da che parte sta il partito. Valga per tutti l'esempio del Pd: la linea ufficiale è per il doppio turno, la bozza Violante punta al proporzionale, i veltroniani spingono per il modello spagnolo, i prodiani vorrebbero riesumare il Mattarellum. Da qui lo stallo. La Camera sta ferma, perché in prima battuta deve occuparsene il Senato. I senatori giacciono a loro volta immobili, perché la riforma costituzionale (fissata il 17 luglio) ha la precedenza su quella elettorale. Nel complesso ricordano quei due signori troppo cerimoniosi: prego s'accomodi, no dopo di lei, e intanto nessuno varca l'uscio del portone.
Davanti a questa scena, hai voglia a dire che la peggiore decisione è non decidere. È vano osservare che una buona legge elettorale va scritta dietro un velo d'ignoranza, senza l'abbaglio del tornaconto di partito. Niente da fare, ciascuno pensa al proprio utile immediato; perfino Grillo ha scoperto le virtù del Porcellum, da quando i sondaggi lo danno in forte ascesa. Anche se spesso i calcoli si rivelano sbagliati. Vale per le riforme della Costituzione approvate alla vigilia d'un turno elettorale, all'unico scopo di guadagnare voti: come quella del governo Amato nel marzo 2001 (due mesi dopo vinse il centrodestra); o come la devolution di Bossi nel 2005 (ma nel 2006 vinse il centrosinistra). E vale per la legge elettorale. D'altronde, anche il Porcellum nacque dall'intenzione — fallita — di tirare uno sgambetto all'avversario.
C'è allora modo di venirne a capo? Forse sì, ma a una doppia condizione: di merito e di metodo. Innanzitutto rammentando che i congegni elettorali non sono fedi, ma strumenti. La loro qualità dipende dalle stagioni della storia, tuttavia non esiste uno strumento perfetto, non c'è una superiorità assoluta del maggioritario o del proporzionale. Esistono però strumenti imperfetti, e noi italiani ne sappiamo qualcosa. Cominciamo dunque a sbarazzarci dalle tentazioni più peccaminose: un premio di maggioranza troppo alto, tale da distorcere il risultato elettorale; l'idea di trasmigrare dalle liste bloccate a un sistema tutto imperniato sulle preferenze (cadremmo dalla padella alla brace); una soglia di sbarramento impervia, o al contrario ridicolmente bassa.
Quanto al metodo, non c'è che da seguire il suggerimento di Napolitano: si voti a maggioranza, al limite con maggioranze alterne sui singoli capitoli. Ma per non generare un Ippocervo, sarebbe bene votare in primo luogo sugli indirizzi generali, dalla scelta dei collegi (sì o no all'uninominale), fino al vincolo di coalizione e a tutto il resto. Poi toccherà agli sherpa tradurre i principi in regole. Sapendo tuttavia che il tempo stringe, ormai è come una corda al collo dei partiti.

il Fatto 12.7.12
1992-2012: due anni di stragi, venti di trattativa
Nel libro-dvd del “Fatto” ricostruita la storia dei patti tra Stato e mafia
di Sandra Amurri


Un giorno, gli uomini dello Stato e gli uomini della mafia strinsero un patto. Il racconto può cominciare”, scrive Antonio Padellaro nella prefazione al libro curato da Giampiero Calapà, Marco Lillo e Paola Maola: “19 Luglio 1992-19 luglio 2012 Due anni di stragi Vent’anni di trattativa”. Libro che potrà essere acquistato da domani in edicola con il dvd di brani tratti da “19 luglio 1992. Una strage di Stato” di Marco Canestrari e Salvatore Borsellino con l’Associazione “Le Agende Rosse” e “Sotto Scacco” di Udo Gümpel e Marco Lillo” e interventi di Marco Travaglio.
NON SI TRATTA di un esercizio commemorativo, bensì della rilettura di quella stagione che ha insanguinato l’Italia e continua a ricoprire il Paese di vergogna con la sua mancata verità, attraverso articoli di Gian Carlo Caselli, Nando Dalla Chiesa, Peter Gomez, Marco Travaglio, Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza e di chi scrive. Arricchito dall’inserto “Immagini di una vita”, foto tratte dai vari album della famiglia del giudice Borsellino donate al Fatto dal figlio Manfredi, dirigente del commissariato della Polizia di Stato di Cefalù, che, queste sono le sue parole, “raccontano un Paolo Borsellino fuori dalle aule giudiziarie e dai Palazzi dei “veleni”, immerso, direi quasi felicemente inghiottito, nei momenti familiari più intimi, circondato dalle “sue” donne, le mie sorelle e mia madre, dai suoi colleghi e collaboratori, che mano a mano, anno dopo anno, gli morivano intorno. Raccontano la semplicità e la normalità di un marito che aveva nella sua donna, mia madre, la sua principale “tifosa”, colei che anche nei momenti più drammatici lo spronava ad andare comunque avanti, consapevole che senza il suo sostegno mio padre sarebbe morto prima di morire” Padre “di tre figli, cresciuti tutti a “pane e ideali”, amati senza mai risparmiarsi”.
UN LIBRO denso di quell'umanità che arricchisce le figure e non le riduce; di inchieste, ricostruzioni oneste dei fatti che permette di rileggere quegli anni, alla luce dei nuovi clamorosi sviluppi emersi dall'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia con gli occhi della consapevolezza dell’oggi come la conversazione tra Nicola Mancino e Marco Travaglio avvenuta l’11 ottobre del 2009 quando l’ex vicepresidente del Csm al termine di una puntata di Annozero telefonò al collega per chiarire: “Io il primo luglio 1992 non ho parlato con Paolo Borsellino, non so più come dirlo. Forse gli strinsi la mano, fra le centinaia di persone che si congratulavano per la mia nomina a Ministro dell’Interno, ma non gli parlai”. Mentre Paolo Borsellino nella sua agenda grigia, dove appuntava le spese e gli incontri - acquisita dalla Procura di Caltanissetta, (pubblicata a pag 131 del libro) - il 1° luglio scrive: ore 15 Dia (dove stava interrogando il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo), ore 18.30 Parisi (allora Capo della Polizia), ore 19.30 Mancino, ore 20 di nuovo Dia (per concludere l'interrogatorio di Gaspare Mutolo) ed infine Fiumicino-Punta Raisi. Il libro comprende, inoltre, il testo teatrale “Noi e Loro. Dialogo immaginario tra Paolo Borsellino e Giovanni Falcone” scritto dalla Presidente di sezione del Tribunale di Trapani, Alessandra Camassa, allieva del giudice morto in via D’Amelio e amica di Falcone che si svolge “in un luogo chiamato “Casa degli uomini eletti” dove si può trovare chi si è distinto per coraggio onestà dedizione al lavoro acume ma, non necessariamente, uomini perfetti. Dunque non è il Paradiso”.
MENTRE IL DVD, in 115 minuti fa rivivere attraverso il racconto struggente di Salvatore Borsellino e la lettura, con voce rotta dalla commozione, di Claudio Gioè della lettera di Manfredi Borsellino, i momenti più drammatici che seguirono all'esplosione della bomba in via D'Amelio. Dvd in cui Marco Travaglio racconta la storia delle tre trattative in sequenza logica per comprendere come ciò che è accaduto prima della strage di via D'Amelio ed è proseguito fino al '93, anno di nascita di Forza Italia, con le bombe di Milano, Firenze e quella inesplosa allo Stadio Olimpico, sia legato da un unico filo.

l’Unità 12.7.12
Un colpo mortale alla scienza e al futuro dei giovani
di Pietro Greco


La spending review toccherà in modo pesante gli istituti di ricerca italiani all’avanguardia nel mondo In più gli studenti pagheranno più tasse
Fujtevenne!». Andate via, finché siete in tempo, diceva trent’anni fa Eduardo De Filippo ai giovani napoletani che gli chiedevano cosa fare in una città devastata dal (dopo) terremoto e da una rapidissima deindustrializzazione. Napoli sta rinunciando al suo futuro. E l’unica prospettiva per voi giovani napoletani è andare via.
«Fujtevenne!». Sembra dire Fernando Ferroni, coraggioso presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ai giovani ricercatori che hanno appena contribuito a intercettare il «bosone di Higgs» – una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni in fisica – e che, quasi in premio, hanno subito un drastico taglio al bilancio del loro Ente e, di conseguenza, alle loro ricerche. L’Italia sta rinunciando al suo futuro. E l’unica prospettiva per voi giovani italiani è andare via.
Che la spending review del governo abbia colpito duro il settore della ricerca (ma anche quello dell’università) sono i numeri a dirlo. L’Istituto Nazionale di Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), vigilato dal ministero dell’agricoltura, è stato soppresso. Non si conosce, allo stato, quale sarà la sorte dei singoli ricercatori (che intanto, per protesta, sono saliti sui tetti). Mentre i 12 enti vigilati dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca hanno subito tagli ai fondi ordinari che, per il 2012, ammonteranno a 19 milioni di euro su un bilancio complessivo che ammonta a oltre 1.400 milioni di euro. Non sembra molto: una sforbiciata inferiore all’1,4%. Ma occorre tenere in conto che interviene a metà anno. Mentre i programmi di ricerca sono già in corso. E molte spese già effettuate.
I tagli saranno maggiori nel 2013 e nel 2014, quando saliranno a 102 milioni per anno. Una diminuzione dei fondi ordinari pari al 7,3% nel 2013 e al 7,8% nel 2014. Se si considera che una parte notevole del bilancio di quasi tutti gli enti pubblici di ricerca è costituita dagli stipendi dei ricercatori (in genere, piuttosto anziani) ed è dunque incomprimibile, il risultato è chiaro: verranno sacrificati gli investimenti in ricerca e i giovani con contratto precario.
L’Infn, quello del “bosone di Higgs”, vedrà ridotti in particolare il suo budget ordinario di oltre 9 milioni di euro (3,8%) nel 2012 e di 24,3 milioni (10,1%) nel 2013 e nel 2014. E questo per il semplice motivo che è stato così bravo da raggiungere un’alta percentuale di spesa in ricerca e da minimizzare la spesa per gli stipendi. La (doppia) virtù – scientifica e amministrativa – è stata punita.
Il governo ha per ora sospeso ogni decisione su eventuali altre soppressioni, con accorpamento dei ricercatori presso altri istituti. Ma restano in pre-allarme l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), i cui ricercatori per numero e qualità delle pubblicazioni scientifiche risultano i migliori d’Italia e tra i più bravi al mondo, l’a Stazione Zoologica “Anton Dohrn” di Napoli (il più antico centro di biologia marina al mondo), l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. Ora la soppressione con accorpamento di questi Istituti difficilmente farebbe risparmiare anche un solo euro. Anzi, come spiega Giovanni Bignami, presidente dell’Inaf, in un editoriale pubblicato su La Stampa, quasi certamente produrrebbe costi aggiuntivi. In ogni caso il rischio che vadano distrutte competenze scientifiche e messi in crisi progetti di ricerca (per lo più internazionali) è elevatissimo. Una punizione non meritata per chi lavora in queste Enti e produce nuova conoscenza. Aggiungiamo a questi il taglio ulteriore di ben 200 milioni di euro per le università (che costituisce la rete primaria di ricerca nel nostro paese), che – come ricordava Walter Tocci ieri su l’Unità – si aggiunge ai 400 milioni già decisi dal governo Berlusconi e ai 150 milioni di tagli per borse di studio e attività ricerca.
Per recuperare questi soldi, le università hanno una sola possibilità: raddoppiare le tasse di iscrizione. Scaricare sugli studenti il peso dei tagli. Una simile situazione è grave in sé. E dovrebbe scatenare un dibattito serio e appassionato nel Paese. A ogni livello: politico, sociale e culturale.
Ma c’è di più. Il combinato disposto di queste scelte dimostra che neppure il governo dei tecnici ha compreso qual è la causa profonda del declino economico e non solo economico dell’Italia: un declino che dura senza soluzione di continuità da vent’anni. Non abbiamo compreso che nell’era della «nuova globalizzazione» non c’è più posto per la vecchia specializzazione produttiva dell’Italia. Che non possiamo più pensare anche solo di galleggiare continuando a produrre con le nostre industrie beni a media e bassa tecnologia. Perché da quasi vent’anni, appunto, abbiamo perso i due vecchi fattori competitivi: il basso costo relativo del lavoro e una moneta debole, svalutabile a piacere. Oggi abbiamo un costo relativo del lavoro alto rispetto alla gran parte dei paesi a economia emergente e in via di sviluppo. E abbiamo l’euro: una moneta che, nonostante tutto, è molto forte. E comunque non svalutabile a piacere.
In questa situazione il declino può essere solo momentaneamente rallentato, non certamente invertito, adottando il “dumping sociale” teorizzato da molti liberisti: ovvero comprimendo il costo del lavoro e il sistema di welfare. Se vogliamo dare ai giovani italiani – gli adulti di domani – una piccola chance occorre che l’Italia impari a competere nei settori dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto.
Ma per fare questo occorre investire. Soprattutto nei settori della ricerca e dell’alta formazione. È quello che ha fatto la Germania solo un anno fa: a fronte di tagli al bilancio pubblico per 80 miliardi di euro, ha aumentato gli investimenti in ricerca e università di 13 miliardi di euro. È quello che sta facendo la Corea del Sud, che in appena trent’anni è passata da un numero di laureati nella fascia di età giovanile (tra i 25 e i 34 anni) inferiore al 10% nel 1980 a una percentuale monstre del 63% nel 2010.

il Fatto 12.7.12
“Salvate i laboratori e le scoperte”
di Caterina Perniconi


Salendo le scale del Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma, lo sguardo è rapito dalle foto formato gigante dei laboratori più importanti d’Europa: Ginevra, Grenoble, Frascati. Già, perché l’Italia è tra i 12 paesi che hanno contribuito alla nascita del Cern e ai suoi successi scientifici, dall’acceleratore di particelle (il tristemente famoso tunnel dei neutrini) fino al più recente bosone di Higgs.
LA SINERGIA è stata mantenuta grazie ai quattro laboratori d’eccellenza dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, da Catania al Gran Sasso, passando da Legnaro e Frascati. Più tutti i ricercatori nei dipartimenti universitari del territorio. Ma a quanto pare le scoperte che possono cambiare la nostra vita non bastano per decidere di investire nella ricerca. E allora ecco che il governo, sulla scia del precedente, taglia l’unico comparto che può rimettere in moto il paese. Di certo la sforbiciata toccata all’Infn ha dell’incredibile: 60 milioni in 3 anni significa mettere in ginocchio l’ente e costringerlo a chiudere laboratori (il Gran Sasso costa 6 milioni l’anno, Frascati circa 8) e sinergie internazionali. La sola Commissione scientifica che si occupa degli acceleratori ha un bilancio annuo di 20 milioni: “L’errore è evidente – spiega Marcella Diemoz, appassionata direttrice della sezione di Roma dell’Infn – il nostro ente è l’unico che anziché spendere il 90% in stipendi per il personale e il resto in ricerca, spende il 55% in emolumenti e con il 45% si dedica agli esperimenti. É evidente che qui è più facile tagliare, ma il problema è la filosofia di fondo con cui si sceglie di farlo”. Dal governo degli accademici gli scienziati si aspettavano un’inversione di rotta: “Siamo più delusi dai tecnici che dai precedenti politici – aggiunge Diemoz – speriamo che il ministro Francesco Profumo non abbia visto questi numeri prima di votarli in Consiglio dei ministri, altrimenti non ci spieghiamo come possa averlo fatto”.
Il presidente dell’ente, Fernando Ferroni, ha scritto a Giorgio Napolitano per chiedere un intervento riparatore. La volontà dell’Infn è quella di fare spending review “ma l’importante è che non si trasformi in una ‘wasting review’ (revisione devastante) – spiega ancora Diemoz – i nostri amministrativi hanno impiegato dieci giorni per compilare le tabelle del ministero. Ci hanno chiesto anche che tipo di carta usassimo. Ma è evidente che non possiamo essere comparati agli altri enti. L’energia elettrica che serve per un acceleratore di particelle (10 milioni l’anno per tutto l’Infn, ndr) non sarà mai la stessa usata per caricare 1000 notebook in un ministero. Quindi se la divisione è pro capite la cifra che spendiamo noi sembrerà spropositata. In più, l’Infn ricorre a duemila ricercatori delle Università, pagati dall’ente, e anche questi non sono stati contati”.
UNO DI LORO, Daniele del Re, è tornato dalla California, dove guadagnava “esattamente il doppio dello stipendio di Roma” perché “sapevo di poter fare il lavoro che mi appassiona e per il quale sono disposto a sacrificarmi”. Ovvero, come ricorda il sito dell’Infn, “inventare e sviluppare tecnologie innovative, realizzando le misure tra le più precise che l’umanità possa fare”. E non si parla solo di scoperte astratte. Grazie a questa ricerca d’eccellenza è stato aperto un centro medico per la cura dei tumori (CNAO), a Pavia, dove i fasci di microparticelle intervengono sulle cellule con la precisione che una radioterapia non potrebbe avere. In più molte imprese si sono potute specializzare in meccanica di precisione, con un importante ritorno economico. “Non voglio fare facile populismo – spiega Diemoz – ma con i 55 milioni di un aereo F35 potremmo evitare questi tagli, pensate quanta ricerca potremmo fare con i 17 miliardi totali che spenderemo per acquistarli. E quanti cervelli potremmo attrarre”. Per ora sono gli italiani ad andarsene. “I nostri studenti migliori – spiega del Re – perché qui non c’è mercato, non ci sono concorsi e alla fine dobbiamo lavorare con chi resta perché non ha altre offerte. Al netto della didattica che siamo costretti a fare. Io in questi giorni sono rimasto qui a fare esami mentre sarei dovuto essere a Ginevra alla consacrazione del nostro esperimento”.

il Fatto 12.7.12
Coppie gay, la svolta di Fini alla Camera


Entro la fine della legislatura l’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati sarà chiamato a decidere sulla possibilità di concedere l’assistenza sanitaria a Ricarda Trautmann, compagna dalla deputata del Pd Anna Paola Concia. Lo ha comunicato il presidente della Camera Gianfranco Fini presentando La vera storia dei miei capelli bianchi, libro scritto dalla Concia, storica attivista per i diritti della comunità glbt. Sarebbe la prima decisione di un’alta istituzione in tema di diritti alle cosiddette coppie di fatto: “Paola Concia dichiara Fini ha posto la questione della modifica del regolamento della Camera che prevede la tutela di alcuni diritti anche per i compagni di vita che non siano sposati con matrimonio civile o religioso. Concia chiede la modifica perchè in questo caso si tratta di riconoscere diritti a una persona dello stesso sesso del coniuge. Non ci sono precedenti. Ho garantito conclude il presidente della Camera che entro il termine della legislatura chiamerò l’ufficio di presidenza a pronunciarsi. Non si può fare come gli struzzi e mettere la testa sotto la sabbia. Io spero che anche su questo si facciano dei passi avanti e, detto questo, si è già capito come la penso”.

La Stampa 12.7.12
Il maggiordomo del Papa verso il ritorno a casa
“Piena confessione”. Venne aiutato da due laici e un giornalista
Oggi scadono i termini di custodia. Ma rischiava altri cinquanta giorni
Perizia psichiatrica. I suoi comportamenti ossessivi fanno sospettare un lavaggio del cervello
di Giacomo Galeazzi


CITTÀ DEL VATICANO Il corvo Paolo Gabriele l’ex assistente di Camera di Benedetto XVI si trova da 50 giorni in custodia cautelare in una piccola cella della gendarmeria vaticana Potrebbe uscire presto, i cardinali parlano di una sua «piena confessione»
Al cinquantesimo giorno di detenzione dell’ex maggiordomo papale, il quadro di «Vatileaks» sembra ormai completo. La sua ultima confessione è ritenuta «soddisfacente» e Paolo Gabriele potrebbe ottenere presto gli arresti domiciliari. Per lui, dopo una sempre più probabile perizia psichiatrica, si profila il rinvio a giudizio e una condanna mite per aver trafugato le carte segrete dall’Appartamento papale. Nel furto di documenti riservati, però, Gabriele sarebbe stato aiutato da due dipendenti laici della Segreteria di Stato e da un giornalista amico.
Appare quindi imminente la decisione sul destino processuale del «corvo», arrestato il 23 maggio scorso. Proprio oggi scadono i termini della custodia cautelare. Ma oltre che sull’attività dei magistrati, l’attenzione si concentra sulle testimonianze acquisite attraverso le audizioni della Commissione cardinalizia presieduta dal cardinale Julian Herranz. I risultati di questo lavoro specifico saranno sintetizzati entro due settimane nel rapporto conclusivo che verrà presentato a Joseph Ratzinger. Parallelamente all’indagine dei tre porporati Herranz, Tomko e De Giorgi, i magistrati vaticani hanno scandagliato la documentazione sequestrata in casa all’ex maggiordomo. È in via di completamento l’opera di riscontro e verifica con l’ascolto di persone sentite anche nell’ambito del procedimento della commissione cardinalizia. Il fatto di essere ascoltati come persone informate non significa essere sospettati di qualcosa, però alcune certezze sono state ormai raggiunte. Dagli interrogatori è emerso il quadro delle persone con cui il maggiordomo del Papa aveva contatti. Ci si è mossi, comunque, nell’ambito vaticano, e finora non è stato utilizzato lo strumento della rogatoria internazionale con l’Italia. Nel corso dell’inchiesta sono state acquisite le testimonianze anche di altre persone, tra le quali potrebbero esserci i nuovi indagati.
Il giudice istruttore Piero Antonio Bonnet ha ultimato nei giorni scorsi gli interrogatori «formali» e, secondo quanto si apprende in Curia, ciò che ha in mano gli consentirà di sciogliere presto la sua riserva sulla richiesta di scarcerazione presentata dai legali di Gabriele. Considerato che la collaborazione dell’ex maggiordomo ha consentito alla magistratura della Santa Sede di definire complicità e circostanze della sottrazione delle carte riservate dall’appartamento di Benedetto XVI, non dovrebbe essere necessario prorogare la custodia cautelare, che secondo la procedura penale del Vaticano potrebbe durare fino a cento giorni.
L’iter giuridico appare insomma definito. Ci si aspetta la chiusura formale della fase istruttoria tra luglio e agosto, con conseguente comunicazione da parte del giudice Bonnet circa il rinvio a giudizio o il proscioglimento di Gabriele. «Se si arriverà a un formale dibattimento pubblico - puntualizza il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi - questo si svolgerà dopo l’estate, non prima di ottobre».
Intanto, anche in ragione della collaborazione offerta dall’ex maggiordomo («Collaborazione ora piena», si sottolinea), si rafforza l’ipotesi che, a al termine del processo, il Papa lo potrebbe beneficiare con un provvedimento di grazia.
La detenzione preventiva in un minuscola cella della Gendarmeria (dove è costantemente sotto l’occhio di una telecamera di sorveglianza) ha però prostrato psicologicamente l’ex aiutante di camera del Pontefice. Ultimamente l’uomo denota comportamenti ossessivi, quasi a far ritenere che sia stato fatto oggetto nel tempo di un «lavaggio del cervello». Qualcuno azzarda addirittura l’ipotesi che Paolo Gabriele sia rimasto vittima di una setta integralista: lo avrebbero convinto che la sua infedele condotta avrebbe giovato in una qualche fantomatica forma alla causa della fede.

Repubblica 12.7.12
“G8, i poliziotti condannati vadano in cella”
Arriva l’ordine di carcerazione. Loro: affidateci ai servizi sociali. Domani la Cassazione sui no global
di Carlo Bonini


ROMA — Undici anni per una tempesta giudiziaria “perfetta”. Ieri, la Procura generale di Genova ha notificato ai poliziotti condannati per i fatti della Diaz l’ordine di esecuzione di 16 delle 17 pene detentive pronunciate il 5 luglio in Cassazione (per Canterini un errore materiale nel dispositivo della sentenza richiederà un’udienza camerale per la correzione necessaria a rendere esecutivi 3 anni e 3 mesi). Domani, venerdì 13, in una Cabala che vuole due sentenze definitive in una settimana, la “devastazione e saccheggio” di Genova. Ancora una volta in Cassazione, di fronte a una diversa sezione (la sesta), ma ad uno stesso magistrato dell’accusa, Pietro Gaeta. Capovolti prospettiva e contesto. Ieri, l’infedeltà violenta di «uomini dello Stato». Ora, la violenza seriale, carica di odio, sulle cose e i luoghi della città che armò di mazze, spranghe, molotov, le mani di 8 uomini e 2 donne che, confusi nel “blocco nero”, parteciparono a quei giorni di guerriglia. Ballano 100 anni di reclusione. Comminati il 9 ottobre 2009 dalla corte di Appello di Genova che aumentò le condanne di primo grado (altri 13 imputati uscirono dal processo per prescrizione). E sarà un “dentro” o “fuori”.
In un destino capovolto e insieme riflesso, ieri, gli avvocati dei poliziotti condannati per la Diaz si sono messi al lavoro sulle istanze di “affidamento in prova ai servizi sociali” che, entro il prossimo mese durante il quale l’esecuzione sarà sospesa, saranno depositate al tribunale di sorveglianza di Genova per evitare il carcere. Un passaggio che dovrebbe avere un esito scontato, se si sta agli irrisori residui di pena (tutti i condannati beneficiano di 3 anni di indulto): dai 12 mesi di Gratteri, agli 8 di Caldarozzi e degli altri funzionari,
ai 3 di Canterini, ai 5 di Panzieri e Nucera. Ma che — se si raccolgono le parole dell’avvocato Marco Corini, difensore di Gratteri — così per scontato poi non viene dato. «Non vediamo le ragioni per cui l’affidamento in prova dovrebbe essere negato, visto che ne beneficiano condannati per reati gravissimi — osserva — ma visto come sono andate sin qui le cose, siamo psicologicamente attrezzati anche al carcere ». Anche perché, in qualche modo, la decisione del tribunale di Sorveglianza di Genova si dovrà misurare con l’esito della sentenza di Cassazione di domani. È certo infatti che se da quel giudizio usciranno confermate condanne a lunghe pene detentive, i giudici genovesi si troveranno di fronte a un’alternativa diabolica. Riconoscere senza condizionamenti e sfidando una parte della piazza quello che ai condannati della Diaz il diritto normalmente riconoscerebbe o, al contrario, avviarli al carcere per evitare che, agli occhi dell’opinione pubblica, si consumi la sproporzione tra chi resterebbe libero (i poliziotti) e chi passerebbe i prossimi anni dietro le sbarre (i condannati per devastazione).
Tutto questo, per dire cosa è in gioco. Immaginato sotto altre stelle, che scommettevano su un giudizio della Diaz “assolutorio” per la Polizia, il processo ai 10 del G8 ne è infatti diventato paradossalmente il reciproco, persino nell’argomento che ne è il cuore. Perché domani, in discussione, non è la certezza del fatto per il quale il giudizio si celebra, né la responsabilità degli imputati (già condannati in due gradi di giudizio). Ma la risposta a una domanda che è stata argomento della Polizia a protezione dei suoi uomini e oggi diventa architrave delle difese dei 10 e delle migliaia che hanno firmato un appello (“10x100”) in loro sostegno: è giusto fare di questi 8 uomini e 2 donne i “capri espiatori” della moltitudine di incappucciati che mise a ferro e fuoco Genova? Che paghino in questa misura (una media di dieci anni), e unici a farlo con il carcere, per un reato (la devastazione) punito dal codice con severità doppia rispetto a chi si accanì sugli inermi? La Cassazione dovrà dire se i 10 “devastarono” o “danneggiarono”. Nel farlo, deciderà non solo tra un futuro dietro le sbarre (la devastazione) e una prescrizione (il danneggiamento), ma anche quale debba essere il metro dell’ “uguaglianza davanti alla legge” per quel luglio di 11 ani fa.

l’Unità 12.7.12
Israele, un Paese «murato» per 1000 km
Dopo quello con l’Egitto e la Cisgiordania, il governo Netanyahu
sta progettando un nuovo muro lungo il confine con la Giordania. Costo: 130 milioni di euro
Lo Stato ebraico è sempre più isolato Questa volta il motivo è bloccare l’immigrazione
di Umberto De Giovannangeli


Un Paese in trincea. Un Paese «murato». È Israele. Oltre mille chilometri di filo spinato, di cemento armato... Israele «mura» i suoi confini con il Libano, bissa con l’Egitto. Poi, c’è il «Muro» per antonomasia: quello che corre per l’intera Cisgiordania. Oggi, il nuovo pericolo per Israele si chiama immigrazione irregolare. Un nemico contro cui far fronte, murandosi ancora di più. A quanto risulta a l’Unità, il premier Netanyahu sta «seriamente valutando» di dar via libera alla realizzazione di una nuova barriera da erigere al confine con la Giordania (costo stimato: 131 milioni di euro). Obiettivo: fermare l’immigrazione clandestina. «Di fronte a infiltrazioni quotidiane, questa strada appare ormai l’unica percorribile», conferma a l’Unità una fonte di Tel Aviv. Entro la fine dell’anno tutti i confini israeliani, oltre mille chilometri, saranno protetti da muri, barriere, protezioni fisiche. Filo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati. Altro che «ponti». In Terrasanta è tempo di Muri. Muri contro i kamikaze. Muri contro il contrabbando. Ora muri contro l'immigrazione clandestina. Muri o barriere che spezzano in mille frammenti territoriali la Cisgiordania. Muri che chiudono in una morsa d'acciaio e non è una immagine metaforica la Striscia di Gaza. Muri che costeggiano la frontiera tra Israele ed Egitto. Ed ora, muri che dovrebbero anche spezzare la Valle del Giordano. Quanto alla Barriera con l’Egitto – uno sbarramento di circa 253 km ha comportato l'innalzamento di reticolati sotto l'ombra di un sofisticato sistema di controllo radar lungo l'intera linea di confine che separa l'estrema propaggine meridionale del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. La Barriera un investimento da 372 milioni di dollari sarà completata entro la fine del 2012 e formata da uno spezzone di 60 km a sud dell’area di Rafah e un altro della stessa lunghezza a nord di Eilat. Il tratto intermedio, considerato poco soggetto alle infiltrazioni a causa del terreno accidentato, sarà protetto da apparecchi elettronici.
SCELTE STRATEGICHE
«Ho preso la decisione di chiudere la frontiera sud d'Israele a infiltrati e terroristi», ha ribadito più volte Netanyahu. «Si tratta di una scelta strategica diretta a tutelare il carattere ebraico e democratico di Israele», ha aggiunto, sottolineando come non sia a suo parere possibile sostenere l'ingresso di «decine di migliaia di lavoratori illegali che (provenienti dal continente africano) inondano il Paese attraverso i suoi confini meridionali». «Il governo non vuole profughi e dimentica che anche noi siamo stati profughi e abbiamo bussato alle porte degli altri», ribatte Zahava Galon, ex deputato del partito progressista Meretz. Un nuovo muro, stavolta a nord sul confine con il Libano, è stato realizzato in tre mesi. La barriera, che in alcuni punti è alta anche 11 metri, corre sulla linea del cessate il fuoco del 2000 inizialmente per un chilometro, tra le pianure di Khiam e la cittadina libanese di al-Addaiseh, passando per l’ex valico di frontiera di Fatima Gate.
I muri, ovvero la sanzione di un fallimento della politica. Per Israele è la barriera di sicurezza. Per i palestinesi il «muro dell'apartheid». La Barriera-muro, nella parte già completata, si dipana per 709 chilometri e il suo tracciato corre per l'85% all'interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15% a ridosso della linea di frontiera. Nei punti più alti, il muro in questione raggiunge l'altezza di 8 metri e si estenderà, al suo completamento, per oltre 752 km. Al suo confronto, il Muro di Berlino era un «nano», lungo «solo» 155 km e alto 3,6 metri. Una volta completato, il muro annette di fatto il 50% della Cisgiordania, isolando diverse comunità in cantoni, enclavi o «zone militari». Quasi il 16% dei palestinesi in Cisgiordania vivranno «fuori» dal muro, sottoposti a condizioni di vita insopportabili la perdita di terra, possibilità di commercio, mobilità e mezzi di sussistenza e minacciati di espulsione. Questi comprendono gli oltre 200 mila abitanti di Gerusalemme Est, che dopo la costruzione del muro si vedranno isolati dal resto della Cisgiordania. Il muro in cemento, presente a Qalqilia, parte di Tulkarem e Gerusalemme Est, è alto 8 metri, con torri di guardia armate ed una zona cuscinetto larga fino a 100 metri destinata a barriere elettriche, trincee, telecamere, sensori ed al pattugliamento dei militari. In altri luoghi, il muro consiste in diversi livelli di filo spinato, zone sabbiose per rintracciare le impronte, fossati, telecamere di sorveglianza e, in mezzo, una barriera elettrica alta tre metri.
Nella valle del Giordano è previsto un altro muro, 20-30 km all'interno della Cisgiordania occupata, con l'obiettivo di tagliare fuori i palestinesi da terre fertili, risorse idriche e da ogni sbocco verso la Giordania. In tal modo verranno annesse sia la valle del Giordano che il «deserto della Giudea». Qui, ragioni di sicurezza s'intrecciano a quelle, non meno rilevanti, del controllo delle risorse idriche. Il completamento del muro porterà di fatto all'annessione da parte d' Israele della fertilissima Jordan Valley, al confine con la Giordania. «Nessun Paese moderno può circondarsi di mura», annota uno dei padri dello Stato ebraico, Yigal Allon. Ma così è. I pionieri sionisti, quelli che aspiravano a fare di Israele un Paese normale, oggi non sarebbero felici.

La Stampa 12.7.12
Intervista
“Assad è giunto al capolinea Anche la Russia l’ha capito”
Michel Kilo, oppositore del regime di Damasco: urge una soluzione politica
di Francesca Paci


ROMA Dissidente Michel Kilo, intellettuale siriano-cristiano, 72 anni, esce dal ministero degli Esteri a Mosca dopo aver avuto, domenica, un colloquio con il capo della diplomazia russa Kilo è stato incarcerato per tre anni dal 2006 al 2009 ed oggi è il leader del Syrian Democratic Forum, una piattaforma di laici e riformisti
Il presidente siriano Bashar Assad è ormai globalmente Dead Man Walking. Parola del connazionale Michel Kilo, classe 1940, il pioniere degli oppositori al regime emerso nel 2009 da tre anni di carcere e oggi anima del Syrian Democratic Forum, la piattaforma di laici e riformisti invitata nei giorni scorsi a Mosca per discutere il futuro del Paese giunto a quota 17mila morti.
Com’è andata a Mosca?
«Ho confrontato il nostro punto di vista con quello dei russi. Ho detto loro che Mosca non ha un ruolo neutro nella crisi siriana, che sostiene un regime rifiutato dal popolo e che quella politica va cambiata».
Mosca convoca il Gruppo d’Azione per la Siria ma intanto rifornisce la difesa antiaerea di Assad. Il Consiglio nazionale siriano (Cns) non vede mutamenti nel sostegno al regime. Lei ne vede?
«Sì. I russi ci hanno ascoltato con pazienza. Forse hanno parzialmente accettato quanto abbiamo detto. Hanno ripetuto due volte di non essere attaccati né al regime né ad Assad ma di temere il radicalismo islamico in Siria. Gli abbiamo spiegato che all’inizio gli islamisti non c’erano e sono il risultato della violenza del regime: più dura il conflitto più l’islamismo cresce. Urge una soluzione politica».
Assad ha ancora il petrolio di Chavez, l’intelligence iraniana e le armi russe. Ce la farà?
«Assad perderà. La resistenza popolare è forte, tutto il Paese si sta ribellando, il regime non durerà. Anche Russia e Cina hanno accettato l’idea di transizione emersa a Ginevra: la Siria supererà questo regime fascista».
Come giudica il rinnovo dell’accordo tra Assad e l’inviato dell’Onu Kofi Annan?
«Non mi pare sia un progetto ma solo il tentativo di fermare le armi nelle zone più colpite: non risolve il problema».
All’inizio della rivolta sembrava che volesse dare una chance al presunto riformismo di Assad. Ci ha ripensato?
«No: ho sempre creduto che questo regime fosse irriformabile e che se spinto alle riforme sarebbe crollato come accaduto nei Paesi socialisti. Infatti non ho smesso di proporre riforme che Assad non ha mai accettato. Ormai è questione di tempo. La piazza sa che il regime non è Assad: il primo sopravviverà passando per una transizione magari lunga anni, l'altro può cadere da un giorno all’altro».
È vero che vede nel generale disertore Tlass, ex sodale di Assad, l’uomo della transizione?
«Non è così. A Mosca mi hanno chiesto se tra i siriani ci fosse un uomo con le mani non insanguinate e ho risposto il generale Tlass. Di sicuro non ha ordinato alla sua unità di sparare sulla gente. È stato chiuso in casa per oltre un anno senza potersi muovere né esprimere e ora non è in Siria. Tutta l’opposizione, anche il Cns, sa di dover guidare la transizione con qualcuno del vecchio regime. L’importante è che non abbia le mani insanguinate e Tlass non le ha. Tutta questa storia è stata montata perché molti, specie tra gli oppositori all’estero, non hanno gradito che il Syrian Democratic Forum sia stato invitato a Mosca: siamo indipendenti dai Paesi che muovono le loro pedine in Siria e non prendiamo soldi per aggravare la situazione».
Il ministro degli Esteri iraniano Salehi ha detto che «nessun governante è eterno». Teheran sta per abbandonare Assad?
«Tutti ormai, Russia e Iran compresi, vedono il regime di Assad come transitorio».
L’Iran è parte della soluzione?
«L’Iran avrà un ruolo importante. Mosca ha detto agli americani che abbiamo forse in mano la metà delle carte della soluzione siriana: l’altra metà è in mano all’Iran. Deve partecipare».
La rivoluzione siriana ricorda più quella egiziana, quella libica o quella tunisina?
«La nostra rivoluzione è nata come puramente democratica e liberale ma è stata pressata con forza dal regime perché diventasse confessionale: per questo si è radicalizzata e islamizzata».
I cristiani, tradizionali alleati di Assad, sono ancora con lui?
«Si stanno allontanando. Io sono cristiano e sono da sempre contrario al regime. Credo che tutti gli intellettuali cristiani e alawiti lo siano. I cristiani semplici invece sono terrorizzati dalla minaccia islamista propagandata dal regime. Ma ormai anche le minoranze hanno capito che Assad perderà».
Ci sarà un intervento militare esterno come in Libia?
«Per ora no, tra qualche mese è possibile. Dopo il voto l’America cambierà posizione sulla Siria. Secondo Romney quella siriana è la continuazione della missione in Iraq, invierà i marines. Intanto nel mio Paese è in corso una guerra indiretta tra i grandi, si armano le persone, ci sono i rifornimenti ufficiali russi... ».
Come sarà la Siria post Assad?
«Avrà tanti problemi ereditati dal regime ma con la vivacità del suo popolo se ne sbarazzerà e otterrà libertà e democrazia».

La Stampa 12.7.12
Sul futuro di Srebrenica la condanna del passato
Convivenza ancora difficile fra serbi e musulmani a 17 anni dalla strage
di Rodolfo Toè


Il memoriale Il cimitero di Potocari dove sono sepolte più di 5.600 vittime del massacro del 1995
La preghiera In 40 mila hanno partecipato ieri alla sepoltura dei resti di 520 vittime, identificate di recente grazie all’esame del Dna

Chi giunge a Srebrenica lo fa solitamente da una sola strada, la provinciale che collega la città con la vicina Bratunac, e attraversando Potocari, dove giacciono i resti di più di cinquemila persone. Quest’anno i cadaveri di altre cinquecento vittime sono stati identificati e sepolti nel grande memoriale. Di fronte vi si staglia ancora il vecchio compound che venne utilizzato dai soldati olandesi dell’Onu. La scritta «Dutchbat», in inchiostro nero, è tutt’oggi ben visibile. Il nome della città negli anni della Jugoslavia era sinonimo di una fiorente attività mineraria e turistica: 20 anni dopo restano pochi negozi e qualche albergo frequentato soprattutto da turisti di guerra e reporter. Da molte case non sono mai stati cancellati i segni di proiettili e mortai. Nonostante gli aiuti internazionali, l’economia stenta: la disoccupazione è addirittura maggiore della media nazionale, che è del 49%. Srebrenica è una città che non è mai riuscita a cancellare il peso del recente passato.
L’11 luglio 1995 decine di migliaia di bosniaci musulmani (bosgnacchi) furono costretti ad abbandonare le loro dimore per non essere uccisi. La città oggi è a maggioranza serba ed è divenuta col tempo il simbolo di un’impossibile convivenza, soprattutto a livello istituzionale. Dei circa 12.000 abitanti aventi diritto di voto, 8.000 sono serbi e soltanto 4.000 bosgnacchi. Per non rendere ufficiale la pulizia etnica del passato, tuttavia, finora le elezioni locali a Srebrenica sono state gestite secondo dei criteri differenti dal resto del paese. Elettori risultavano infatti non soltanto i residenti effettivi, ma anche coloro che prima della guerra abitavano a Srebrenica. Grazie a questo espediente i bosgnacchi sono sempre riusciti ad assicurarsi il governo della città: una consolazione magra, ma dall’indiscutibile valore simbolico.
Questo stato di cose, però, è finito una volta per tutte. Alle prossime elezioni amministrative, in ottobre, a Srebrenica voteranno solo i cittadini effettivamente residenti nel comune. La città potrebbe quindi doversi preparare a nominare il suo primo sindaco serbo. La fine dello status speciale di Srebrenica si è rapidamente tramutata in una nuova guerra, questa volta elettorale. I bosniaci musulmani sono terrorizzati dalla prospettiva che il loro prossimo sindaco possa essere qualcuno che non riconosce il genocidio del 1995 e la pulizia etnica. In un certo senso, sarebbe l’atto finale della tragedia della città. E così è nata l’iniziativa «Io voto per Srebrenica»: i cittadini originari del luogo sono stati invitati a trasferire la propria residenza a Srebrenica e a iscriversi nelle liste elettorali del comune.
«Il sindaco di Srebrenica non può che essere bosgnacco», dice Hatidza Mehmedovi, presidente dell’associazione “Madri di Srebrenica”: «Ricordiamoci cosa è accaduto qui 17 anni fa». Finora però l’iniziativa ha avuto un successo più mediatico che reale. Solo un centinaio di musulmani bosniaci hanno infatti ottenuto il cambio di residenza. Ne servirebbero almeno 5.000 e l’impresa si annuncia ardua. La polizia di Republika Srpska, inoltre, ha previsto delle multe per coloro che dichiarano di risiedere a Srebrenica senza viverci veramente: una contromisura semplice, ma che si è dimostrata sufficiente a dissuadere la maggior parte delle persone.
Perché, al di là della retorica, nessuno sembra avere davvero l’intenzione di tornare a Srebrenica. Le istituzioni sono indifferenti alla sua sorte. Per questo c’è anche chi accusa questa campagna di essere solamente un’ennesima strumentalizzazione. Del resto le passate amministrazioni, benché tutte musulmane, non hanno fatto nulla per migliorare la situazione. Srebrenica è, soprattutto, una città tradita da un’intera generazione di pessimi politici. Una volta terminato lo spoglio dei seggi di solito sono in pochi quelli che decidono di prendersi cura della comunità: addirittura uno dei precedenti sindaci della città, Abdurahman Malkic, a Srebrenica non ci venne proprio. Restò a vivere con la famiglia a Vogošca, sobborgo alla periferia di Sarajevo, trascorrendovi l’intera durata del mandato.

La Stampa 12.7.12
il visionario del genoma
“Datemi il vostro Dna e salverò l’umanità”
“Dna via mail e in 3D per vaccini su misura”
Il futuro secondo Craig Venter, lo scienziato-businessman
di Gabriele Beccaria


Decifreremo il Dna di ciascuno di noi e lo spediremo alla velocità della luce in giro per il mondo, dove serve. E in prospettiva sulla Luna e su Marte». L’altro ieri sera avreste potuto sentire queste profezie dalla voce di Craig Venter a Torino, in un evento che tra gli addetti ai lavori è noto come «Edge Dinner» e che più prosaicamente è una delle tante cene tra scienziati e ospiti assortiti organizzate in giro per il mondo da John Brockman, l’agente letterario americano delle star della scienza. Siete ancora in tempo a vedere Venter oggi a Dublino (sempre che siate abbastanza veloci, perché lui lo è tanto nei pensieri quanto nei movimenti). Là terrà un’attesissima lezione pubblica, in occasione di Esof, il festival che l’Europa dedica alla ricerca e alla sua divulgazione.
Craig Venter, lo scienziato-visionario, è con Stephen Hawking lo studioso più famoso al mondo, ma a differenza del suo collega cosmologo la metafisica lo annoia. Lui è un biologo-businessman e nel 2000 ha battuto tutti, decifrando per primo il Genoma umano. Poi due anni fa ha creato la vita artificiale, un «mycoplasma» che non esiste in natura, spalancando un’altra porta sull’origine della vita.
Ora è pronto a un passo ulteriore: progetta di penetrare nel codice genetico di ogni essere umano, trasformando non solo la conoscenza di noi stessi, ma anche l’ideazione e la produzione di nuovi farmaci. Il suo occhio – concordano critici e ammiratori – ricorda quello di una divinità curiosa e già vede l’era della medicina personalizzata per tutti.
Sessantanove anni dopo la mitica lezione «Che cos’è la vita» pronunciata del fisico Erwin Schrödinger (il teorico di un paradosso spesso citato e quasi mai capito, con al centro un gattino in una scatola che potrebbe essere allo stesso tempo vivo e morto), Craig Venter si materializza nella stessa città – Dublino – e spiegherà come ci appare la vita all’alba del XXI secolo. Se le idee sono variopinte, Venter proporrà la sua, con l’implacabilità di chi la vita l’ha osservata e ha già cominciato a manipolarla. L’appuntamento, quindi, sprizza l’energia dei simboli e di passaggio a Torino ha offerto una prova generale.
«Pensate – ha spiegato l’altra sera – che oggi vivono sulla Terra più esseri umani di quanti ne siano mai vissuti in tutta la storia. E il tasso di accrescimento della nostra specie sta aumentando. In questo boom abbiamo due opzioni: continuare a popolare il Pianeta o manipolare la vita, cioè il Dna».
La sua strategia è la seconda: intrecciare biologia e super-computer e «giocare» con numeri inimmaginabili. Le applicazioni suonano fantascientifiche, ma solo perché – spiega Venter - la nostra logica è diversi stadi indietro rispetto a ciò che è già possibile in laboratorio. «I 130 trilioni di cellule del nostro organismo fanno una cosa fondamentale: metabolizzano proteine, secondo gli input dei geni. Quando avremo il Dna di ciascuno di noi, decifrato in un pacchetto, e lo invieremo via email da un computer all’altro, fino a stampanti di nuova generazione, ispirate a quelle 3D che oggi generano oggetti a distanza, saremo in grado di produrre i vaccini che ci salveranno dalle prossime pandemie».
Nel 1943 Schrödinger teorizzava una rivoluzione concettuale, nel 2012 Venter si dichiara pronto a passare all’azione. Se la vita si può ridurre alla semplicità delle quattro basi del Dna, la sfida sta nella complessità delle combinazioni e nella loro progressione, che in natura si rivela continuamente, dai batteri, alle proteine, alle cellule, agli esseri umani.
Il mondo di Venter è cristallino nella sua essenza eppure sovraffollato nei suoi effetti e la conseguenza è la molteplicità delle opportunità. I suoi batteri manipolati ci aiuteranno a ricostruire le risorse che stiamo distruggendo (a cominciare da aria e acqua), genereranno «biofuel» e produrranno bistecche: «Saranno concentrati di proteine, ma senza mucche o polli, e per i vegetariani rappresenteranno un bel dilemma! ».
I talebani della bioetica – è chiaro – a lui non piacciono. «In Europa, quando parlate di Ogm, pensate a Frankenstein, dimenticando i pericoli veri, come le grandi epidemie sempre in agguato».
E sorride sornione anche di fronte a un commensale come Brian Eno che si chiede: «Ma non sarà terribile sapere perfino la nostra data di morte, già registrata nel pacchetto di Dna che vuoi spedirci, caro Craig? ». Sbagliamo di nuovo, ribatte lui: «Il Dna non è un orologio che ticchetta, ma, come ogni manifestazione vitale, una realtà statistica».
Venter ne vede la prova anche dallo yacht con cui gira gli oceani a caccia di nuovo Dna di microcreature non ancora registrate: «Non siamo immersi in una zuppa omogenea, ma in un pianeta multiforme, il pianeta dei microbi». La diversità – è stata la sua conclusione l’altra sera – è il motore della vita. «E infatti dentro di noi ci sono tanti Dna, anche quello dei Neanderthal. “Adesso ho capito il perché di certe mie debolezze”, mi ha detto una volta il mio amico Bill Clinton».

il Fatto 12.7.12
Depressi? La colpa non è dei social network


Spossatezza, ansia, depressione? Non date la colpa a Face-book. È la sentenza di una ricerca condotta dall’Università del Wisconsin sul legame tra il tempo speso sui social network e l’emergenza dei sintomi depressivi. Gli studiosi hanno cercato di verificare la validità scientifica di un rapporto pubblicato nel 2011 da un’organizzazione di pediatri americani, secondo cui Facebook e affini, usati in maniera intensa, possono indurre gli adolescenti alla depressione. L’analisi si è basata sullo studio del comportamento di 190 studenti di età compresa tra i 18 e i 23 anni, indotti a dedicare ai social network metà del tempo speso su internet. I risultati non hanno evidenziato nessun legame significativo tra l’“abuso” delle reti sociali e l’umore dei ragazzi. “Speriamo che questo studio possa essere utile ai medici” – ha affermato Lauren Jelenchick, uno dei responsabili della ricerca – “che troppo spesso allarmano i genitori sull’utilizzo dei social network da parte dei figli”.

Corriere 12.7.12
Il giudice racconta «Le mie barriere per non soffrire»


«Chiunque, umanamente, parteggia per la vittima. Soprattutto se si parla di bambini o donne che hanno subito abusi. Ti arrabbi. Non alzi l'occhio sull'imputato perché non puoi permetterti che il tuo sguardo tradisca l'emozione. Ma quella è un'emozione...». Che un magistrato deve saper gestire. Annamaria Gatto, presidente della V Sezione penale al Tribunale di Milano, da dodici anni si occupa dei «soggetti deboli» (definizione che la fa arrabbiare, «sono vulnerabili, non deboli»).
«Ho imparato a essere schizofrenica. Perché ci si strappa il cuore, lo stomaco, le viscere e si diventa altro. Perché non sono una terapeuta. Perché ci sono regole dettate dal codice...». L'empatia deve restare fuori dalla camera di consiglio. «Ho i miei metodi e i miei aiuti psicologici, è una materia che pesa. Devi poterne parlare, tirare fuori questa cosa che ti opprime, esorcizzarla. Non lasciare che devii i tuoi rapporti personali. È pericolosissimo imboccare la scorciatoia che porta a dire "sono tutti uguali". No, non è così». Non sono tutti uguali, gli uomini. E neppure i magistrati, questo è certo. Annamaria Gatto non sarà mai indifferente. «Appartengo alla generazione che ha vissuto Processo per stupro. E non voglio che i miei processi siano quella cosa lì». Era la metà degli anni 70, si era appena laureata in Giurisprudenza quando vide quel filmato che mostrava «la seconda vittimizzazione portata agli estremi», la vittima che diventa imputato. «Mi colpì profondamente. Poi ci ha pensato il legislatore e anche la società. La legge del ‘96 è il portato di una riflessione collettiva. Una buona legge, che è stata migliorata negli anni». È la società che non ha tenuto il passo, con il tempo. «Quando si offre il corpo femminile come oggetto di consumo è la testimonianza che un percorso di civiltà si è fermato».
Lo vede anche nei suoi processi. Non è morbida con gli imputati ma neppure con le vittime che si danno in pasto a quegli uomini. Troppo spesso vittime di se stesse, di un'ingenuità che rasenta l'incoscienza, oltre che di un compagno violento. «Ricordo una donna laureata presso una prestigiosa università milanese. Aveva un lavoro importante e una relazione con un uomo con un titolo di studio meno prestigioso e un'attività lavorativa meno remunerata. I maschi tollerano male questa situazione, normalmente, e questo è un altro problema. E così lui gliela faceva pagare, in casa. Uno, due, tre episodi. "Io non ne parlavo con nessuno, andavo sul posto di lavoro con i soliti occhiali neri, eccetera eccetera..." mi diceva lei. Le ho chiesto: "Perché non ha reagito? Aveva gli strumenti economici, culturali...". E lei: "Pensavo che queste cose succedessero soltanto in coppie di altra estrazione sociale, non poteva capitare a me, io sono di un altro livello, io sono la famiglia Mulino Bianco e devo apparire così fuori"».
Sale così la rabbia dentro un magistrato. «Poi però il magistrato veste la toga. In camera di consiglio — e per fortuna siamo in tre a dividerci il peso — alla fine arriviamo alla soluzione che l'istruttoria, le prove, ci forniscono. Nessuna presunzione che poi la realtà sia davvero quella. In quella casa non c'era nessuno di noi». Neppure alla lettura della sentenza, il magistrato si sente sollevato. Anzi. «La lettura del dispositivo è uno dei momenti peggiori. Nessuno di noi gode a mandare in galera la gente. Io sono sempre convinta della bontà della decisione ma non sono affatto felice, mai».
Ricorda un caso estremo: due famiglie, di cui una sinti, accusate di maltrattamenti e abusi su 21 minori: «La più grande aveva 16 anni, era sia parte lesa sia testimone oculare. Dovevo tenerle le mani durante le udienze a porte chiuse perché si ficcava le unghie nella carne fino a farla sanguinare. Umanamente, quando rientravo in aula, avrei saltato il banco del giudice e messo le mani addosso agli imputati». Non l'ha fatto. Ha fatto il giudice. La lettura del dispositivo di quella sentenza è durata un'ora e un quarto, si sono superati i 300 anni complessivi di pena. «Ne ho sofferto. Perché la pena non ha alcun senso se è solo un punto di fine».

Corriere 12.7.12
Il relativismo assennato del viaggiatore Erodoto
Rispettava tutti i popoli, amava la Grecia
di Dino Cofrancesco


«Ciò che distingue un uomo civilizzato da un barbaro — ha scritto Joseph Schumpeter — è il rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni e, malgrado ciò, sostenerle senza indietreggiare». Se questa è la migliore definizione di quella che Bertrand Russell chiamava «la saggezza dell'Occidente», forse una delle sue prime espressioni sono le Storie di Erodoto. Il grande viaggiatore, che Cicerone chiamava «il padre della storia», è stato spesso considerato non solo la fonte remota dello scetticismo moderno, ma, altresì, dell'antropologia contemporanea, di Lévi Strauss e Clifford Geertz.
«Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo». Il citatissimo aforisma di Montaigne sembra ripreso dal racconto in cui Dario, per dimostrare quanto incompatibili siano i costumi umani, mette di fronte ai Greci, che non riescono a concepire come ci si possa cibare del cadavere dei congiunti, i Callati inorriditi all'idea di doverli seppellire: «Se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo Paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie costumanze».
In anni, come i nostri, nei quali l'Occidente viene caricato di ogni colpa — dal genocidio culturale a quello ambientale — Erodoto rischia, però, di diventare il primo teorico del relativismo culturale e il giudice di un etnocentrismo avvertito come una malattia dell'anima. In realtà, ci sono almeno tre tipi di relativismo. Il primo è il relativismo ontologico, la consapevolezza che la realtà è un prisma: usi, costumi, credenze, valori, riti, filosofie, pratiche scientifiche sono molteplici e ineliminabili. Il secondo è il relativismo metodologico, per il quale si comprendono popoli e istituzioni collocandosi al loro interno: non si possono capire civiltà come quelle egiziana o persiana, guardandole con i paraocchi greci. Il terzo è il relativismo assiologico, ovvero l'idea che tutti i modelli sociali e culturali abbiano eguale valore, stiano tutti sullo stesso piano.
Ho l'impressione che, ove si eccettuino i grandi grecisti del passato, come Arnaldo Momigliano, in certi cultori di Erodoto, critici dei nostri pregiudizi tardo-illuministici, i tre relativismi tendano a giustapporsi. Erodoto è un relativista ontologico: crede in un cosmo ordinato, in una provvidenza che governa il mondo e che, ad esempio, rende prolifici gli animali mansueti, come i conigli, e concede pochi nati alle belve, ma sulle questioni religiose, sui fini ultimi, preferisce non pronunciarsi («quanto io sentii da loro riguardo alle cose divine non mi sento invogliato a riferirlo»); è un relativista metodologico, se si pensa alle innumerevoli pagine che dedica alla spiegazione di costumi che potevano sembrare irrazionali ai suoi compatrioti; ma non è affatto un relativista assiologico: lo splendore e la magnificenza dell'impero persiano e la grande civiltà fiorita sulle rive del Nilo lo riempiono di ammirazione, ma pensa che i buoni costumi o le buone leggi siano esportabili. «Gli egiziani chiamano barbari tutti quelli che non parlano la loro stessa lingua», «gelosi delle loro tradizioni non ne accettano altre» ma, grazie a loro, «gli etiopi sono diventati più civili». Sotto il regno di Amasi, si dice, l'Egitto godette il massimo della prosperità e venne promulgata «la legge che, ogni anno, ciascun cittadino dovesse dichiarare al governatore della provincia dove traeva i suoi proventi. (...) Solone di Atene prese dall'Egitto questa legge per divulgarla tra gli ateniesi; ed essi l'osservano tuttora, perché è veramente giustissima».
Il Mediterraneo di Erodoto è uno spazio aperto, in cui gli dèi, le leggi, i costumi passano da una riva all'altra fecondando le terre che li accolgono. L'autore delle Storie non rinuncia a denunciare la barbarie di certi popoli, come i Massageti e gli Sciti, e l'eccellenza morale e intellettuale di altri. Chi scrive dei Greci: «Se è vero che sono liberi, non sono poi liberi in tutto: domina su di loro un padrone, la legge, di cui hanno timoroso rispetto molto più ancora che i tuoi sudditi non l'abbiano per te», non può certo essere arruolato tra i progenitori dell'antioccidentalismo.

Corriere 12.7.12
Anche nel mito c'è la verità


Nel volume della collana «I classici del pensiero libero. Greci e latini» in edicola domani, al prezzo di un euro più il costo del quotidiano, si trova il primo libro delle Storie di Erodoto, un caposaldo per la conoscenza della cultura antica. I libri della collana sono disponibili anche su iPad, scaricando da App Store l'applicazione «Biblioteca del Corriere della Sera». Come illustra Sergio Romano nell'inedita prefazione, conviene ignorare l'annosa disputa tra chi ammira la grandezza dello storico di Alicarnasso e chi lo accusa di scarsa attendibilità e di «abbellimenti» con racconti fantastici. Meglio godere del racconto affascinante di questo grande viaggiatore dell'antichità, che nel narrare le guerre combattute tra greci e persiani nei decenni precedenti la sua nascita, ama divagare in direzioni impreviste, e per il quale «un tempio, un santuario, un monumento, le mura di una città, un ponte, un guado o un canale servono per confermare la verità degli eventi narrati e divengono prove decisive». Restituendo la ricchezza, storica ma anche mitica, di una civiltà. (i.b.)

Corriere 12.7.12
Lucano, ultimo cantore della Repubblica tradita
Nei suoi versi il fascino sinistro di Cesare
di Franco Manzoni


Un poema sull'inarrestabile decadenza della grandezza di Roma in epoca imperiale non può che esplicitarsi in una ferma condanna morale del regime e nell'esaltazione dell'ormai perduta libertà repubblicana. A questo pensava Marco Anneo Lucano, giovane nipote di Seneca, quando venne chiamato da Nerone ad esibirsi nelle pubbliche declamazioni poetiche. Scrive Giacomo Leopardi il 28 dicembre 1820 nel suo Zibaldone: «Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio, non discorro. Adulatori per lo più de' tiranni… Il più libero è Lucano». Un giudizio positivo per un autore spesso dimenticato.
D'altronde Lucano, caduto in disgrazia per la sua abilità di recitare versi tale da suscitare l'invidia e la gelosia di Nerone, decise di descrivere nel suo Bellum civile o Pharsalia la distruzione dei miti augustei dell'impero, il rovesciamento per così dire dell'Eneide in senso polemico. Perciò Lucano si schierò contro il potere della tirannide e costruì un lamento funebre per la morte di un mondo tragicamente sconvolto, un'indignata denuncia della guerra civile, di quel conflitto fratricida che alla fine portò Cesare a calpestare ogni valore etico, politico, giuridico della tradizione repubblicana. Avendo aderito alla congiura dei Pisoni, Lucano fu arrestato nel 65 d.C. e gli venne ordinato da Nerone di suicidarsi. Lo fece da stoico, a 26 anni, declamando alcuni versi del suo poema.
Ma fu vera poesia quella di Lucano? I grammatici antichi lo criticarono aspramente per l'assenza nel poema delle divinità, accusandolo di aver scritto un'opera storica in luogo di un poema epico. Dante, invece, lo apprezzò e lo utilizzò come una delle fonti più consone alla sua Commedia. Quello che si percepisce è il pessimismo disperato che scorre nelle vene della poesia di Lucano, quasi un preromantico sepolcrale, che viveva di orride e violente sensazioni, che ci conducono alle tragedie alfieriane o alla visione esistenziale del Foscolo.
La Farsaglia è divisa in dieci libri e si sviluppa sul piano storico dal passaggio del Rubicone alla brusca interruzione quando Cesare, dopo aver visitato la tomba di Alessandro Magno, si trovò a combattere contro gli abitanti di Alessandria d'Egitto. È probabile che, secondo lo schema virgiliano, Farsaglia fosse divisa in dodici libri. Senz'altro la sua incompiutezza fu causata dalla morte del poeta. Ma dove sarebbe giunta la narrazione? Tutto porta ad ipotizzare sino all'uccisione di Cesare.
I due libri più intensi, ricchi di pathos e terrore sono senza dubbio l'VIII e il IX, proposti assieme in edicola con il «Corriere». Nell'ottavo libro, dopo la sconfitta di Farsàlo, Pompeo suggerisce ai suoi di proseguire la lotta con l'aiuto dei Parti, ma la proposta viene respinta. Decide, perciò, di fare rotta verso l'Egitto, dove spera di trovare rifugio. Ma il re Tolomeo, dietro consiglio dei suoi cortigiani, lo fa uccidere al suo arrivo. Il corpo decapitato di Pompeo è abbandonato sul litorale: gli viene data umile sepoltura.
Nel nono libro Catone assume il comando dei resti dell'esercito repubblicano. Attraversa il deserto libico affrontando pericoli di ogni sorta, tra cui tempeste di sabbia e serpenti che mordono i soldati e li conducono a morte attraverso orribili metamorfosi. Catone rifiuta di consultare l'oracolo di Ammone: la conoscenza del futuro non può modificare le scelte del saggio. Intanto Cesare, dopo aver visitato le rovine di Troia, arriva in Egitto, ove gli viene offerta la testa di Pompeo. Il conquistatore piange, finge sdegno per l'uccisione del rivale e il dono del macabro trofeo.
I personaggi su cui ruota la vicenda sono, dunque, tre: Cesare, Pompeo e Catone. C'è un fascino sinistro nella crudeltà di Cesare, nel suo incessante attivismo, mosso da un'ansia e da una colpevole volontà di rendersi superiore a tutti, anche allo Stato. Genio malefico, demoniaco, insaziabile di potere, sangue e guerra. A lui si contrappone Pompeo, un uomo in declino, lo sfortunato difensore della libertà repubblicana, schiacciato dagli eventi e dalla sorte, presago dell'imminente fine. Il saggio Catone incarna invece lo stoicismo tradizionale: il criterio della giustizia non è più da ricercarsi nella volontà degli dèi, ma nella coscienza del sapiente. Il pensiero di Lucano sembra coincidere con l'agire di Catone: la lotta contro la tirannide è senza speranza, tuttavia non bisogna restare inerti, vale la pena di condurre la propria battaglia fino alla morte.

Corriere 12.7.12
E la battaglia diventò poema


Nel quarantesimo volume della collana, in edicola sabato a un euro più il costo del quotidiano, viene proposto il poema del latino Lucano Farsaglia (Libri VIII-IX) con la nuova prefazione di Luca Canali. Si tratta di un'opera in cui il giovane poeta di epoca neroniana — tra l'altro fu tra i congiurati contro Nerone, e con gli altri eversori scoperti in seguito venne «costretto» al suicidio — decise di rievocare la battaglia decisiva tra Cesare e Pompeo avvenuta a Farsàlo, la sconfitta di Pompeo e la sua fuga e morte in Egitto. Ma l'interesse del poema va oltre il racconto degli avvenimenti, o il ritratto vividissimo del carattere di Cesare e della sua irruenza di condottiero, come ben sottolinea Canali nella prefazione. E va ricercata nel valore letterario assai alto della scelta stilistica di Lucano, che per comporre il suo poema decide volontariamente di superare stili e modi dei poemi epico-mitologici allora più in voga, per ricollegarsi e rifarsi a esempi più antichi, «ai poemi storici arcaici quali il Bellum Poenicum di Nevio e gli Annales di Quinto Ennio». (i.b.)

Repubblica 12.7.12
La scoperta archeologica
Ritrovati i resti del tempio più antico di Selinunte


PALERMO — Sotto il pavimento del Tempio R di Selinunte dormiva la parte più antica della città greca. I reperti trovati durante la campagna di scavi dell’Institute of Fine art della New York University guidata da Clemente Marconi, insieme al Dipartimento dei Beni Culturali e Identità siciliana e il parco archeologico di Selinunte, sono databili tra il 650 e il 630 avanti Cristo, lo stesso periodo della fondazione della città. Si tratta dei resti di un tempio arcaico, la cui particolarità è la presenza di fori per pali di legno di grandi dimensioni, che dovevano costituire il colonnato centrale. Insieme all’area sacra sottostante al Tempio R, sono stati ritrovati una serie di oggetti votivi, come un vaso di stile protocorinzio, raffinati frammenti di ceramica bianca decorata, un rarissimo flauto adoperato per i cortei musicali che accompagnavano le cerimonie religiose, e ancora una punta di freccia, un braccialetto in bronzo e una statuetta votiva dalla foggia femminile che ricollegherebbe il sito al culto di Demetra. La scoperta, secondo Caterina Greco, archeologa responsabile del Parco di Selinunte, conferma che l’area può ancora riservare sorprese. «La datazione di resti di questo tempio coincide con quella della fondazione: vuol dire che qui è custodita la storia più antica e affascinante di questa città». Il tempio R, chiave di volta del ritrovamento, è un edificio sacro senza colonne, tra i più antichi e meno indagati: i saggi condotti sotto la pavimentazione hanno rilevato una stratigrafia complessa, che va dall’età classica a quella arcaica. Dice Clemente Marconi, responsabile dello scavo per la parte americana: «Questo predecessore del Tempio R è uno dei più antichi scavati in Sicilia. La scoperta dimostra come la costruzione dei templi da dedicare alle principali divinità della polis fosse uno degli atti eseguiti contestualmente alla fondazione delle colonie».

Repubblica 12.7.12
Pubblicate, pubblicate... Nessuno leggerà
di Peter Sloterdijk


Non è tradire un segreto, ma una semplice constatazione, l’affermare che l’università moderna, in maniera generalizzata e da molto tempo, si trova ad affrontare un problema serio – per usare un termine prudente. Lo scandalo di Bayreuth (l’ex ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg accusato di plagio nella sua tesi di dottorato, nel febbraio 2011) ha fatto emergere solo un minuscolo segmento di una confusione di cui nessuno, o quasi, può valutare la dimensione storica e di sistema. Bisognerebbe essere molto ingenui per presumere che gli studenti e i docenti d’oggi smettano, nel varcare la soglia di un’università, di essere figli della loro epoca. Lo spazio universitario non può semplicemente rendersene immune (...). Per cogliere la differenza specifica tra il plagio universitario e tutti gli altri casi di disprezzo della “proprietà intellettuale”, bisogna tener conto della specificità inimitabile delle procedure accademiche. Visto dall’esterno, il mondo universitario fa l’effetto di un biotopo specializzato nella produzione di “testi” il più delle volte bizzarri e totalmente estranei al popolare. Vanno dalle relazioni sui seminari e dai compiti semestrali alle tesi e alle dissertazioni di abilitazione, passando per le tesi di diploma o di specializzazione e per gli scritti degli esami, per non parlare delle valutazioni, dei progetti di ricerca, dei memorandum, dei progetti di struttura e di sviluppo, ecc. : tanti vegetali testuali che sbocciano esclusivamente nel microclima dell’Accademia – paragonabili a quelle piante striscianti delle Hautes-Alpes che sopravvivono ad altitudini alle quali gli alberi non crescono più – e che, generalmente, non sopportano di essere trapiantati nelle pianure libere e piatte della vita editoriale. Il plagio universitario si sviluppa di conseguenza, nella maggior parte dei casi, in condizioni nelle quali i motivi che intervengono di solito nel non-rispetto della proprietà intellettuale, il fatto spesso evocato di farsi belli con le penne degli altri, non possono giocare alcun ruolo. Mentre in un terreno libero si ritiene che le piume degli altri migliorino la capacità di attrazione di chi le porta e di aumentare la sua “fitness erotica”, per usare il gergo dei biologi, le piume degli altri, in ambito universitario servono piuttosto a camuffarsi e a immergersi nell’ordinario. Esse aiutano il portatore di piume a passare inosservato nel flusso regolare delle masse di testi. Il filosofo Michel Foucault ha riassunto questa situazione già all’inizio degli anni Settanta, introducendo la parola “discorso” nell’autodescrizione delle produzioni di testi universitari. Ciò che egli chiama “discorso” non è che il testo senza autore, il discorso specializzato come istituzione. Questa interpretazione delle routine discorsive universitarie e, più in generale, istituzionali, ci apre la strada non tibetana verso il principio della ruota di preghiera. Chi non vuol parlare di discorsi farebbe dunque meglio a non dire nulla a proposito dei plagi. Lo scioglimento del plagio nel discorso non è sufficiente per capire in maniera esaustiva la singolarità del plagio universitario. In questo caso preciso interviene a supplemento un fattore del tutto idiosincratico, per la comprensione del quale la cosa migliore sarebbe ricorrere alla ricerca letteraria. Con il suo libro L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica (il Mulino, 1987), scritto nel 1972, Wolfgang Iser, l’eminente rappresentante di una Scuola di Costanza divenuta storica, se non ha rivoluzionato la sua disciplina e le scienze umane in generale, le ha quanto meno fatte avanzare di molto, dimostrando che si può far apparire in ogni testo un’intima complicità tra l’autore e il lettore ipotetico – un legame attivato dalla lettura. Leggere significa, di conseguenza, riportare in vita delle strutture di richiamo inerenti al testo e immergersi nel gioco dell’interpellazione, dell’interpretazione anticipata, dell’inganno, del rifiuto e del recupero. Ogni testo elaborato costituisce un’entità composta da segni che ne guidano la ricezione, che il lettore mette in scena in un modo al tempo stesso volontario e involontario, nella misura in cui legge realmente. Nella prospettiva della situa- zione universitaria, le analisi sottili degli esteti della ricezione fanno l’effetto di reminiscenze di una lontanissima Età dell’oro della lettura nella quale ogni testo era ancora quasi un billet doux, una lettera d’amore. Nessun universitario lo negherà: è tempo di completare la teoria del lettore implicito con quella del non-lettore implicito. Dovremmo più o meno renderci conto della situazione partendo dall’idea che tra il 98% e il 99% dei testi che escono dall’università è redatto nell’aspettativa, giustificata o meno che sia, di una parziale o totale non lettura di quei testi stessi. Sarebbe illusorio credere che questo potrebbe non avere un effetto sull’etica dell’autore. Per i membri di una cultura che, in ogni cosa, insegna loro a seguire e a non seguire la regola, ne deriva una conseguenza obbligatoria, la necessità di dare al non-lettore ciò che gli spetta. Ci si rivolge paradossalmente al non-lettore implicito rivolgendogli dei gesti di rifiuto, e questo non-lettore è inerente al testo, in quanto è colui che, comunque, non andrà a guardarci dentro. Chi scrive senza speranza di ricezione ha inoltre e suo malgrado la tendenza a integrare nella sua produzione dei passi che non ne fanno parte e sono predestinati ad alimentare la variante accademica della non-lettura nella misura in cui sono stati verificati in anticipo da letture che sono forse già state fatte altrove. Il regno delle ombre dell’università genera così un mondo testuale di second’ordine nel quale dei secondogeniti veramente non letti mantengono nel circuito dei primogeniti virtualmente non letti. In questo sistema, la lettura reale inattesa porta alla catastrofe. Qui, l’interessante è il fatto che ciò che chiamiamo la lettura reale non può avere luogo, tenendo conto delle mostruose valanghe costituite dalle produzioni uni- versitarie scritte. Oggi, solo le macchine per la lettura digitale e i programmi di ricerca specializzata sono in grado di rivestire il ruolo di delegati del lettore autentico e di entrare in dialogo o in nondialogo con un testo. Il lettore umano – chiamiamolo il professore – è, invece, inadempiente. È anche e proprio in quanto uomo dell’università che lo specialista è condannato da tempo a essere più un non-lettore che un lettore. La conseguenza pratica di tutto ciò non può essere che la riduzione delle istigazioni sistemiche a produrre del testo nel modo dell’impostura. Il miglior modo per arrivarci è ricordare con insistenza, agli autori praticamente non letti dei testi oggi e domani immanenti all’università, l’esistenza di quei guardiani digitali di buoni costumi che, praticando la lettura automatica, svelano la differenza tra plagi e citazioni. Si commetterebbe un errore se si legalizzassero le citazioni non specificate, come reclamano certi sostenitori del romanticismo della pirateria universitaria. La cultura della citazione è l’ultimo fronte sul quale l’università difende la propria identità. Può essere sfidata da una nuova ondata di soggettività di impostori che si fanno forti del digitale, dell’ironia e dello spirito della pirateria; ai nuovi giocatori, che fanno i loro scherzi giocando sulla regola del minimo di lavoro serio, bisogna far capire dove sta il limite. La cultura avanza su quelle sue piccole gambe che sono le virgolette. Le virgolette sono la cortesia del pirata. Bisognerebbe mettere all’ingresso di tutte le facoltà il cartello Cave lectorem! – per i non latinisti: “Attenti al lettore! ”. Con questo avvertimento potrebbe forse cominciare ciò che i benintenzionati chiamano il lavoro a una nuova etica del comportamento scientifico. (Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 12.7.12
Il tramonto del sogno americano
di Vittorio Zucconi


Solo il 4% dell’ultima generazione nata dopo gli Anni 70 è salito di un gradino nella scala sociale. Così negli Usa è sfumata la speranza di una vita migliore SOGNO del Il tramonto americano

WASHINGTON IL GRANDE fiume del “sogno americano”, quella corrente forte e tumultuosa che ha trasportato generazioni di persone verso la speranza di una vita migliore, sta diventando una palude di acqua stagnante. La società americana ha perduto la propria formidabile mobilità e comincia a somigliare sempre di più alle stanche società del Vecchio Mondo, dove è ormai molto più facile scivolare verso il basso che arrampicarsi verso l’alto. Soltanto il 4 per cento degli americani dell’ultima generazione post anni ‘70 oggi divenuta adulta è riuscita a salire di qualche gradino sulla scala del reddito, a migliorare la propria situazione in termini assoluti, di guadagni e di sicurezza, e in termini relativi, rispetto alle altre classi di censo. L’Istituto di ricerche sociali Pew, che è il più serio ed equilibrato in materie di demografia e di sociologia, ha concluso con evidente amarezza che il «sogno americano è vivo e gode ottima salute, ma soltanto a Hollywood». Nella realtà quotidiana, è già un successo se famiglie e individui riescono a galleggiare sul reddito medio nazionale, che è oggi di 49 mila e 900 dollari annui lordi, quaranta mila euro. Una cifra che potrebbe apparire invidiabile a un salariato italiano, ma diventa assai più smunta se depurata, oltre che dalle tasse, dai costi della assicurazione sanitaria privata, delle imposte locali e immobiliari calcolate sul valore di mercato delle casa, dei trasporti privati, indispensabili nella transumanza quotidiana dei pendolari senza mezzi pubblici. Nonostante quella “ricerca della felicità” che la Costituzione garantisce a ogni cittadino, come “ricerca”, ma non come risultato, la rincorsa è sempre più simile al sofisma di Achille e della tartaruga, dove il cittadino Achille deve correre sempre più un fretta senza mai riuscire a raggiungere la tartaruga. Il reddito delle persone e delle famiglie è infatti generalmente aumentato, anche attraversando il ciclone delle due recessioni in questa prima decade del 2000, quella del 2001, dopo l’11 settembre, e quella del 2008, dopo un altro settembre nero, il collasso delle torri di carta finanziarie. Ma la distribuzione della ricchezza si è squilibrata molto più che in passato, trasformando il profilo della società americana da quello «a mela» con il grosso della classe media attorno alla circonferenza, a quello «a pera», dove la polpa si colloca ormai verso la base. Il tormento del cittadino Achille e della inafferrabile tartaruga della promozione sociale si manifesta in un dato chiarissimo: l’85 per cento delle persone, maschi come femmine (che comunque continuano a guadagnare meno dei propri colleghi, a parità di lavoro) hanno, nominalmente, più dei propri genitori, posseggono più beni, mobili o immobili, case, seconde case, oggetti di consumo, eppure sono scesi, o sono a rischio di retrocessione, sulla scala sociale. E’ un arretramento relativo, dunque, che produce quel sentimento di frustrazione e di rancore che ha mosso le proteste di “Occupy”. Non tanto, e non solo, per la rabbia verso quell’uno per cento che controlla troppa parte della torta, ma per il sentimento di avere perduto la possibilità di ritagliarsene in futuro fette più sostanziose. Il “sogno americano”, appunto. La certezza, pur molto mitologica, dell’ideologia neopuritana alla Horatio Alger, lo scrittore popolarissimo che all’alba del ‘900 convinse generazioni di bambini e ragazzi che con il proprio duro lavoro, la disciplina, la tenacia, l’orizzonte delle loro possibilità era infinito, come i grandi cieli del West. A tutti era aperta la strada del “ rags to riches”, del salto dagli stracci alla ricchezza. Hollywood, negli stessi anni e ancora oggi, aveva accompagnato e fortificato il mito, con avventure a lieto fine di orfanelle, straccioni, emarginati, morti di fame capaci di balzare ai vertici della società, come esemplificò il classico “Trading Places”, Una Poltrona per Due, con Eddie Murphy e Dan Aykroid. E invece sono proprio gli afroamericani, come il protagonista di quella fiaba a colori, il segmento della popolazione dove è più facile scivolare all’indietro che progredire e uscire dalla condizioni nelle quali si è nati, soprattutto perché scarseggia il carburante primo della mobilità positiva: i titoli di studio. Anche se non sono più una condizione sufficiente a garantire una vita di relativo benessere, le lauree rimangono necessarie per poter sperare di sottrarsi al ciclo dei lavori a salari minimo, friggendo hamburger e servendo clienti negli ipercentri commerciali. Nel corso della vita adulta, un laureato guadagnerà il doppio di un non laureato. Mentre la desindacalizzazione generalizzata, soprattutto nel mondo della grande, o ex grande, industria, ha tolto quella cinghia di trasmissione salariale che aveva fatto, ad esempio dei metalmeccanici di Detroit, la grande “classe media” americana senza bisogno di lauree o dottorati. Il sogno vive ancora, e si mantiene, nei casi sensazionali, ma individuali degli Steve Jobs che dal garage di famiglia passano a creare industrie colossali, dei Bill Gates, fuoricorso universitario senza pezzo di carta ma con montagne di dollari generati dalla sua azienda, o, in politica, dei Rick Santorum, nipote di minatori italiani, o dei Barack Obama, figli di nessuno, senza altra raccomandazione che la propria intelligenza, balzati da oscuri licei fino alla Presidenza degli Stati Uniti o a poltrone senatoriali. Ma è sui grandi numeri, quelli che contano, che il “sogno” si rivela essere sempre più leggenda: è oggi più facile che dai vertici della scala sociale si ricada all’indietro — lo fa il 6% dei figli di ricchi o privilegiati — che dal fondo si passi al piolo più alto, appunto il 4%. E il numero dei poveri, nella definizione tecnica, è salito alla cifra record di 42 milioni. Non sarebbero, queste setacciate dall’Istituto Pew che ha studiato gli andamenti e gli spostamenti della placca sociale americana, cifre specialmente tragiche, se lette in relazione ad altre società e ad altre nazioni. Ma per l’America, per l’immagine di sé, che regge questa “na- zione di nazioni” da oltre due secoli, la mobilità è un ingrediente fondamentale. Il “patto sociale”, la costituzione non scritta che regge la democrazia americana è la promessa delle occasioni, non quella dei risultati. Ammettere che si deve correre sempre più forte per restare fermi o per non slittare indietro è una ammissione di fallimento per la cultura dell’operoso calvinismo che promette, come faceva Horatio Alger nei suoi cento libri best seller, la ricompensa terrena al sacrificio e alla fatica. E se in futuro gli storici dovranno esaminare come, quando e perché anche questa «città luminosa sulla collina», come diceva Reagan citando i libri sacri, comincia ad affievolirsi, non saranno l’indebitamento, la globalizzazione, la finanza a spiegare il declino dell’impero americano, ma la fine del “sogno”. Una fine che si manifestò con lancinante chiarezza, nel collasso dei valori immobiliari dopo il 2002. La casa, o almeno quelle scatole di legno e cartongesso riprodotte all’infinito nel «grande ovunque americano» dei sobborghi che qui vengono generosamente chiamate case, sono, da sempre, la materializzazione tangibile, vivibile del sogno realizzato, oltre che il primo, e spesso unico investimento delle famiglie, che contano sulla rivalutazione e sulla vendita per finanziarsi la propria vecchia oltre le magre pensioni federali. Erano, quelle abitazioni, il fiume che alimentava il sogno, la sola e vera “scala mobile” dell’americano media. Quando la scala, spinta al parossissimo dall’ingordigia dei prestatori e dall’incoscienza dei debitori abbagliati dalle facili occasioni, si è bloccata, sui gradini è ruzzolata la speranza. C’è soltanto un gruppo di americani che vede costantemente aumentare il proprio reddito e la propria posizione relativa e sono gli ispano americani, i “latinos”, destinati a diventare il gruppo etnico più numeroso, anche dei bianchi, tra una generazione. Addio “American Dream”, benvenuto al “Sueño Americano”.

Repubblica 12.7.12
“Vedrete che ci rialzeremo dopo il buio viene la svolta”
Lo scrittore americano Lansdale: “Da noi più opportunità che altrove”
di Alix Van Buren


Non dite a un texano che il Sogno americano, quello con la maiuscola, è morto, se no lui vi scaglia addosso una sfilza di rimproveri. Soprattutto se il texano è Joe Lansdale, icona letteraria, prolifico autore di romanzi, racconti noir, epopee, accomunato dal New York Times a Mark Twain e ai fratelli Grimm per la sua nuova opera, Acqua buia, già in vetta alle classifiche anche in Italia (Einaudi, Stile Libero). «Il Sogno americano, per l’appunto, è un sogno», lui martella al telefono con la sua cantilena texana. «Non è affatto una promessa, né tanto meno una certezza. È, piuttosto, un’opportunità: c’è chi sa afferrarla, e chi no». Lansdale, gli economisti dipingono uno scenario inquietante, parlano di mobilità sociale bloccata: chi è nato in fondo alla scala, ci resta; chi invece è stato allevato col cucchiaio d’argento, continua a vivere nell’agio. Fra le due classi non c’è più ricambio. Le statistiche mentono? «Le statistiche sono fatte di numeri: non sono persone, esseri viventi, e per di più americani. La mia prima risposta è che in questo Paese, l’America, le famose “opportunità” sono molto più numerose che altrove. E questo malgrado la crisi economica, le difficoltà che stiamo attraversando, l’innegabile malessere di chi si trova senza lavoro. Però, non è la prima volta che ci troviamo in queste condizioni: nel passato s’è visto di peggio». A che tempi si riferisce? «A un passato nemmeno tanto lontano: al 1973, con le lunghe code alle pompe di benzina, la recessione, la disoccupazione. Penso, ancora più indietro, alla Grande Depressione, quando tanta gente perse davvero tutto, a cominciare dai miei genitori, e non esistevano assicurazioni, né altre forme di protezione come invece ci sono oggi. Però, sa che cosa arrivo a dirle? » Cosa? «Che proprio in tempi di crisi l’ingegno, la creatività umana esprimono il meglio di sé stessi. È un dato di fatto che l’inventiva spesso emerge dalla disperazione. Stavolta spetta a un’intera nazione - l’America - tirarsi fuori della fossa in cui siamo stati scaraventati. Se ci riusciremo tutti assieme, se ci impegneremo a cambiare il sistema per renderlo più equo, allora potremo persino parlare di un sogno collettivo americano». Lei è tanto ottimista? «Perché non esserlo? Gli americani smettano di farsi ingannare da chi finge di avere il loro interesse a cuore. Alle prossime elezioni presidenziali, escludano Mitt Romney, che sa nulla dei problemi della gente comune, vuole ridurre le tasse soltanto ai ricchi, come fece Bush, e così aprì la voragine in cui ci dibattiamo oggi. Infatti, viviamo in una società dove le ricchezze sono concentrate nelle mani dell’1 per cento della popolazione, e le guerre hanno dissanguato le casse». Sta facendo campagna per Obama? «Se vuole, è così. Ma non abbiamo scelta: dobbiamo concedere a Obama altri quattro anni per riparare almeno in parte i danni compiuti dai suoi predecessori, ad esempio per ridurre le tasse alla classe media, per eliminarle del tutto ai poveri. In questo modo si riequilibra il sistema. Si restituiscono, a chi è più in basso, i mezzi per risalire la famosa scala della mobilità sociale». Un po’ com’è successo a lei? «Già, io sono figlio della Grande depressione, mio padre era analfabeta, mia madre aveva appena un diploma delle scuole medie. Disponevamo di un tetto sotto cui dormire, di un pasto caldo in tavola, null’altro. I miei hanno lavorato sodo per darmi un’istruzione, io mi sono impegnato per farmi strada. E ho iniziato a salire, pian piano, su per quella scala. Se Dio vuole i miei figli arriveranno ancora più su. Questo è il sogno americano, ecco. È una possibilità, lo ripeto, non una certezza. E per realizzarla, bisogna battersi. Infatti, la verità è anche questa: oggi molti vogliono “arrivare” senza “sudare”. Senza “sognare” abbastanza».