domenica 15 luglio 2012

ALLA FESTA DELL'UNITÀ DI ROMA
MARTEDI 17 ALLE 21
PIER LUIGI BERSANI INTERVISTATO DA MARIO ORFEO

l’Unità 15.7.12
Bersani: il mio piano per l’Italia
«Berlusconi? Ritorno agghiacciante Ma ora tocca a noi»
Primarie «Si faranno entro l’anno, ma non possiamo decidere da soli per tutti»
Alleanza «Impegni chiari da sottoscrivere per chi vuole far parte della coalizione»
Renzi tiene la sfida sulle primarie: «Non sono come Alfano»
Tabacci: «Mi candido anch’io
di Simone Collini


«Roba da matti». Pier Luigi Bersani scuote la testa mentre torna al suo posto e cerca un mezzo Toscano tra il disordine di fogli e cartelline che c’è sul tavolo della presidenza. L’Assemblea nazionale del Pd si è svolta fino a quel momento come aveva auspicato lui, che aveva aperto i lavori dicendo «siamo davanti a un Paese molto turbato, oggi parleremo dunque di Italia, di politica e di Pd in quanto utile a una buona politica per l’Italia» e poi discusso per sei ore, lui e tutti gli altri intervenuti, su come sostenere Monti lavorando in Parlamento per correggere le misure non condivise, di quale legge elettorale sostituire al Porcellum, del progetto con cui presentarsi alle prossime elezioni e del tipo di governo a cui bisognerà dar vita nella prossima legislatura.
Ma poi, negli ultimi minuti, dopo l’approvazione praticamente all’unanimità della relazione del segretario (un contrario e cinque astenuti), mentre molti delegati sono già pronti coi trolley in mano a scappare verso treni e aerei, scoppia il caos sugli ordini del giorno riguardanti matrimoni gay e data e regole delle primarie. Bersani lascia che Rosy Bindi e Marina Sereni, per la presidenza, gestiscano la situazione, ma il disordine alimentato da una ventina di delegati aumenta invece di diminuire e allora il leader del Pd decide di andare al microfono: «Attenzione, noi siamo il primo partito del Paese, dobbiamo dire con precisione all’Italia che cosa vogliamo, e il Paese non è fatto delle beghe nostre». Applausi dalla gran parte dei delegati, mentre Bersani torna a sedersi e cerca un Toscano da accendersi per calmarsi, ma ormai è già chiaro che mediaticamente questa polemica oscurerà tutto il resto della discussione.
RITORNI AGGHIACCIANTI
Ed è un peccato, per Bersani, che ribadendo quel «tocca a noi» coniato nelle ultime settimane, in questo appuntamento ha delineato non solo quale sarà la sua agenda di governo in caso di conquista di Palazzo Chigi (equità, riequilibrio fiscale, redistribuzione, lavoro, beni pubblici, conflitto di interessi) ma ha anche elencato agli eventuali alleati una serie di «impegni da sottoscrivere». E allora, dopo aver liquidato con una sola battuta l’annuncio di ricandidatura di Berlusconi («si vedono agghiaccianti ritorni»), dopo aver ribadito che «entro la fine dell’anno» si faranno primarie aperte («non possiamo decidere da soli i tempi e i modi, non sarà il congresso del Pd, si parlerà dell’Italia e del governo del Paese») in cui non vi sarà la «candidatura esclusiva» del segretario Pd (come statuto vorrebbe), dopo aver assicurato che il suo partito «non si arrende all’idea di tenerci il Porcellum» (e parla di premio di maggioranza dato o alla singola lista o alle liste collegate, senza esplicitamente chiudere alle preferenze caldeggiate dal Pd e da non escludere per Enrico Letta, Beppe Fioroni e altri), e dopo aver ribadito «lealtà» a Monti e invitato tutti ad evitare discussioni e ricerche di distinzioni «metafisiche, stucchevoli e fastidiosissime per la nostra gente» come quella sul grado di continuità con questo esecutivo (il Pd, sottolinea, non avrebbe fatto le stesse scelte sulla riforma delle pensioni, sull’Imu, sulla spending review, sulla Rai), Bersani detta le condizioni per l’alleanza di governo.
IMPEGNI DA SOTTOSCRIVERE
«Ad esempio quello di affidare alla responsabilità del candidato premier una composizione del governo snella, rinnovata, competente e credibile internazionalmente», dice per mettere subito in chiaro che non ci dovranno essere estenuanti trattative come per il governo dell’Unione. Né si dovranno rivedere spaccature in Parlamento, perché tra gli impegni da sottoscrivere Bersani mette anche «quello di consentire una cessione di sovranità e cioè di sciogliere controversie su atti rilevanti attraverso votazioni a maggioranza dei gruppi parlamentari». C’è lo spettro di divisioni sulle missioni militari all’estero, in caso di alleanza con Sel? E allora tra gli impegni ci dovrà essere «quello di rispettare gli obblighi internazionali». Qualcuno storce il naso all’ipotesi di un patto con l’Udc? Altro impegno: «Quello di avanzare una proposta comune verso tutte le forze democratiche ed europeiste disposte a contrastare la deriva berlusconiana e leghista ed ogni forma di regressione populista». Qualcuno (leggi Di Pietro) attacca gli alleati? Bisogna fin d’ora «mostrare nel campo progressista una civiltà di rapporti che renda davvero credibile agli occhi degli italiani la promessa di governabilità».
Il prossimo governo, per dirla con Massimo D’Alema, dovrà andare «oltre Monti» (perché non sarà condizionato dal peso della destra) ma «con Monti»: «C’è bisogno di una svolta profonda, ma sarà possibile in quanto ci presenteremo come continuatori dell’azione di risanamento avviata in questi mesi». Per Fioroni sarà necessario «coinvolgere tutti i moderati, non solo Casini ma anche i delusi da Berlusconi». Dice Letta che però la priorità ora è superare il Porcellum: «Altrimenti, qualsiasi cosa faremo, non riusciremo a rilegittimare la politica».
Si va avanti con gli interventi, poi la replica del segretario, e infine il caos sugli ordini del giorno. Prossimo appuntamento, dopo l’estate, quando si decideranno regole e data delle primarie.

La Stampa 15.7.12
La paura dei democratici “Soli sulla linea del rigore”
“Col Cavaliere tornerà il populismo, guai a inseguirlo su questa strada”
di Federico Geremicca


ROMA Il segretario L’assemblea del Partito democratico si è chiusa lasciando aperti due fronti: le primarie e le coppi di fatto. Le tensioni hanno spinto il segretario Bersani a dichiarare: «Basta beghe interne».
La consegna era, più o meno, quella del silenzio. Matteo Orfini, cresciuto alla scuola dalemiana, la traduce così: «Non parlarne, non enfatizzare, restare sui problemi del Paese e dire: se siamo in questo baratro, è per colpa sua». La consegna era quella del silenzio, ed è stata rispettata. Dalla tribuna, infatti, solo una battuta di Bersani ed un’altra di Fioroni: ma sono bastate a rendere l’idea. Il segretario ha archiviato l’ipotesi sotto il titolo «agghiaccianti ritorni»; l’ex ministro all’Istruzione nell’ultimo governo Prodi, invece, s’è lasciato andare ad una cosa a metà tra l’invocazione e l’invettiva: «Gli zombie non governano». Titoli e trame, insomma, da film dell’orrore.
Ciò di cui non parlare, quel che non è da enfatizzare è l’annuncio del ritorno in campo di Silvio Berlusconi, naturalmente: un evento (un’ipotesi) che non terrorizza il Partito democratico, ma certo lo preoccupa. Infatti, proprio mentre lo stato maggiore dei democrats si preparava a definire dettagli e partner di una vittoria elettorale data per certa da qualunque sondaggio, ecco il cambio delle carte in tavola: ecco di nuovo lo «zombie», insomma, ecco l’«agghiacciante ritorno». Confessa Debora Serracchiani: «Alcuni tra di noi pensano: bene, con lui in campo Casini di là non ci può andare. A me pare un po’ poco... Io sono preoccupata, invece, perchè lui è un maestro della politica irresponsabile».
Il timore, onestamente, pare giustificato. E lo si capisce meglio quando Massimo D’Alema tratteggia la rotta del Pd da qui alle elezioni. Prende spunto dalla querelle aperta anche tra i democrats sul dopo Monti: con lui o senza di lui? «Noi ci proponiamo come continuatori: oltre Monti, dunque, ma con Monti. E soprattutto, nessun arretramento rispetto a una linea di responsabilità e rigore che abbia come massimo obiettivo il rafforzamento dell’integrazione europea». Rigore, responsabilità, Europa: una trincea scomoda sotto l’incalzare di una crisi che non finisce mai e che - secondo molti - avrebbe proprio in certe dinamiche europee una delle sue ragioni. E una trincea, soprattutto, che potrebbe rischiare cedimenti sotto lo spregiudicato incalzare dello «zombie» tornato in campo.
Piero Fassino è uno che Berlusconi lo conosce bene, avendolo combattuto in più e più campagne elettorali: «Farà due cose, naturalmente: attaccherà l’Europa e l’euro, e prometterà di ridurre le tasse, a partire dall’Imu. Per noi non sarà più facile, con lui in campo. Ma io temo soprattutto l’impatto che il suo ritorno avrà in Europa: sarà terribile, rischiamo di pagare un prezzo alto». E appena più ottimista si rivela Matteo Renzi, venuto a Roma per sentire Bersani e capire la sua road map verso le primarie: «Sottovalutare Berlusconi è un errore che abbiamo già fatto: ripeterlo sarebbe imperdonabile. Detto questo, lui avrà bisogno di molta fantasia per provare a far dimenticare i disastri che ha fatto e che ci hanno portato fin qui. Attenzione, però, a non cascare nella trappola, cioè a tornare ai toni di qualche tempo fa e a fare dell’antiberlusconismo il nostro unico collante».
Irresponsabilità è la parola chiave con la quale i democratici tratteggiano il profilo della possibile campagna elettorale di Silvio Berlusconi. «I populismi nascono ovunque, ma finiscono sempre a destra», avverte Bersani dalla tribuna lanciando l’allarme. Ma se dall’altra parte c’è irresponsabilità, nel campo centrosinistra cosa deve esserci? La scelta pare obbligata. E favorisce una suggestione: trovare il modo di caratterizzare proprio così la sfida della prossima primavera. Una “coalizione di responsabili”, un’ «alleanza dei responsabili» contro il blocco dei populisti e degli avventurieri: che vanno da chi vuole uscire dall’euro per battere la crisi (Grillo) a chi pensa che il problema sia l’Europa (la Lega) fino a chi ha sostenuto che le difficoltà si potrebbero superare facilmente, «stampando moneta» (Berlusconi).
«Certo che c’è un po’ di preoccupazione - ammette Anna Finocchiaro, capo dei senatori pd -. Sappiamo che Berlusconi, pur di prendere voti, è capace di dire e promettere qualunque cosa. Noi non possiamo far altro che continuare il nostro lavoro, renderci credibili come forze di governo e allargare lo spettro delle nostre alleanze». Andare avanti, insomma. E sperare. Sperare che la crisi si attenui, che lo spread risalga, che la disoccupazione cali, che i comsumi riprendano... Altrimenti, nel buco nero di una crisi infinita, anche «agghiaccianti ritorni» e «zombie» in cerca di rivincita potrebbero esercitare il loro macabro ma irresistibile fascino...

l’Unità 15.7.12
Sugli odg non si vota
È scontro su primarie e matrimoni gay
Il testo della commissione diritti passa a larga maggioranza
Poi le contestazioni per l’esclusione dei documenti di Concia e Civati
di Andrea Carugati


La scintilla si accende in un attimo, quando Rosy Bindi, presidente dell’assemblea Pd, mette ai voti il documento sui diritti, elaborato da una commissione da lei stessa presieduta in oltre un anno di lavoro, nel catino infuocato dell’Eur. «È un primo grande passo avanti», scandisce Bindi, ma dal lato destro della platea dove si sono accatastati, in piedi, i “ribelli laici”si alza in piedi un signore magrolino, Enrico Fusco, militante Arcigay e dirigente del Pd pugliese: «È falso, quel testo è una presa per il culo!». E ancora: «È un testo arcaico, irrispettoso, offensivo della dignità delle persone, si torna ai Dico, che non dicono nulla».
Dall’altro lato della platea partono dei «Buuu», i ribelli invece lo applaudono. Tra loro anche Aurelio Mancuso, Paola Concia, Pippo Civati, il professor Ignazio Marino. Tutti insoddisfatti per quella «sintesi» faticosamente trovata che esclude le nozze gay e «non dice parole chiare neppure sulle unioni civili». Fusco guadagna il palco, dove continua a tuonare: «Fini è più avanti di noi!». Il documento Bindi viene votato, 38 i contrari su alcune centinaia di presenti.
Ma la partita è appena cominciata. Si passa al voto sui due ordini del giorno pro nozze gay, uno di Concia e uno di Scalfarotto (la cui rivalità sui temi caldi resta intatta), entrambi con una quarantina di firme di sottoscrittori (c’è anche quella del braccio destro di Veltroni, Walter Verini). La presidenza dice che il voto è «precluso», visto che si è già votato sul testo Bindi. Riscoppia la bagarre, più forte di prima. Scalfarotto illustra il suo odg, parla degli altri Paesi europei e non, dove le coppie gay sono tutelate: «Perché da noi no? Il Paese è pronto».
Niente voto. In platea, maglia arancione, si agita il delegato di Domodossola Moreno Minacci. «Ma in questo partito non si vota maiii». Poi si avvicina a Bersani: «Se andate avanti così gli elettori ci spazzano via». Furioso anche Andrea Benedino, per anni responsabile dei diritti civili per i Ds, che restituisce la tessera al banco della presidenza. Lo stesso fanno Fusco e Aurelio Mancuso. «Ma di cosa avete paura?», si accalora la delegata Giulia Morini da Modena. «Il Pd è ormai un partito “precluso”», sorride amaro Civati. «In fondo è l’anniversario della Bastiglia», sussurra Marino.
«La democrazia pretende delle regole», si accalora dal palco la vicepresidente Marina Sereni. I volti dei big sono terrei. Bersani, Finocchiaro, Enrico Letta: tutti ammutoliti. David Sassoli si gratta la testa preoccupato. Tocca all’odg Concia, stessa sorte. D’Alema in platea è assorto in un origami: «Bisognava accogliere la mediazione di Cuperlo e Pollastrini», risponde. Già, perché la bagarre di ieri ha un antefatto. Nella notte una pattuglia di membri della commissione diritti, composta anche da Marino, Claudia Mancina e dal responsabile diritti della segreteria Ettore Martinelli aveva elaborato un testo «integrativo» a quello della Bindi, che a ora di pranzo è stato discusso in una tesissima riunione del comitato dietro le quinte. «Alcune sottolineature e integrazioni», spiegano i promotori. Ma basta una veloce lettura per capire che quel testo era molto più avanzato di quello originale. Parlava, ad esempio, di «stessi diritti per le coppie gay ed etero», di «riscrittura» della legge 40 sulla fecondazione assistita, di possibilità di rinuncia, tramite il testamento biologico, a nutrizione e idratazione. «C’erano tutti quei sì e quei no chiari che la nostra gente ci chiede», spiega Marino. La Bindi però non ha messo al voto i due testi congiunti, si è limitata a prendere quello nuovo «seriamente in considerazione», insieme ad altri, e a rinviare la discussione all’autunno, a un’apposita riunione della direzione dedicata a questi temi. Pare che a fare infuriare la presidente sia stata la firma di Martinelli, membro della segreteria, e dunque il sospetto che dietro ci fosse una mossa di Bersani. Alla fine Martinelli ha ritirato la firma.
In platea, intanto, è bagarre. Viene precluso anche un odg di Civati e Vassallo sulle primarie per il leader (con la scadenza di settembre per decidere data e regole) e altri due sulle primarie per i parlamentari e il tetto dei tre mandati. «Argomenti già votati con la relazione di Bersani», spiegano dalla presidenza. I ribelli si scatenano, urlano «voto, voto». Bersani sale sul palco: «Sentite un attimo... per la prima volta il Pd prende l’impegno per una regolamentazione giuridica delle unioni gay, e vedo gente che dice “vado via”?». E sulle primarie: «Ho detto che saranno aperte, ma non le convochiamo da soli. Noi siamo il primo partito e dobbiamo parlare chiaro, il Paese non è fatto delle nostre beghe!».
Alla fine viene approvato un documento della presidenza (con 20 tra contrari e astenuti) che impegna a fare primarie per i parlamentari e a rispettare il tetto di 15 anni di mandato. Ma il clima è quello che è. «Sono degli incapaci», si lascia scappare Franco Marini all’indirizzo della presidenza. «Che catastrofe», sussurra Nicola Latorre. Errani fa da paciere con Civati e Vassallo: «Ma davvero temete che Pierluigi non voglia le primarie?». La replica: «Non mi fido più».
Bindi non si scompone: «ma quale spaccatura, ci sono solo stati solo 38 contrari! Dai Dico abbiamo fatto passi avanti decisivi. Sul matrimonio gay non potevamo votare: il documento già approvato lo esclude, e anche la Costituzione». Le polemiche però non si esauriscono. «Un errore clamoroso non votare sui diritti», protesta Gozi. «Una gestione burocratica», dice Michele Meta. E Rosy risponde: «Abbiamo rispettato tutte le regole». Martinelli però precisa: «Bindi non faccia scherzi. L’accordo nel comitato diritti è stato chiaro: l’integrazione Cuperlo-Pollastrini è parte integrante del documento approvato, e Bersani è d’accordo. Daremo seguito all’impegno sul modello delle partnership inglesi».

La Stampa 15.7.12
Coppie di fatto e primarie Il Pd si ritrova spaccato
Bersani contro il ritorno in campo di Berlusconi: “Agghiacciante”
di Francesca Schianchi


ROMA Primarie spostate «entro la fine dell’anno», legge elettorale da rifare perché «noi al Porcellum non ci arrendiamo», governo Monti da sostenere lealmente e un futuro governo Pd sul cui grado di continuità con quello dei tecnici è inutile interrogarsi, un dibattito «stucchevole e fastidiosissimo per la nostra gente», quello tra gauchisti e montiani. Comincia serenamente con la relazione del segretario Pierluigi Bersani la Direzione nazionale del Pd, qualche centinaio di delegati da tutta Italia riuniti in un afoso Salone delle Fontante dell’Eur. Inizia senza tensioni ma finisce poche ore dopo tra urla e fischi: nodo della polemica, proprio le primarie, e i diritti civili, i matrimoni gay su cui non viene permesso di votare.
Inizia con un leader che in maniche di camicia mette qualche punto fermo. Leali verso il governo Monti, «con la nostra identità e anche con le critiche», impegnati a rifare una legge elettorale che si vorrebbe «a doppio turno di collegio» e che comunque dovrà avere un «credibile premio di governabilità» e il «collegio», perché l’elettore possa scegliere il parlamentare. E, in vista delle elezioni, la promessa delle primarie: certo, se un mese fa già si parlava della data (il 14 ottobre), ora l’indicazione si fa più vaga, diventa «entro la fine dell’anno», ma insomma «non le faremo da soli e dunque i tempi e i modi non li possiamo decidere da soli».
«Tocca a noi», cerca di galvanizzare la platea, attacca senza citarli Berlusconi e il Pdl («liste di fantasia, partiti per procura, leadership invisibili e senza controllo o agghiaccianti ritorni»), proietta il partito verso le elezioni dell’anno prossimo. Verso un futuribile Pd al governo, «oltre Monti ma con Monti», come lo descrive nel suo intervento l’ex premier Massimo D’Alema, «nel senso che un’agenda liberale di risanamento continuerà a essere un pezzo del programma della sinistra, visto che questo Paese non ha avuto la fortuna di avere una destra liberale».
Fino a un certo punto la polemica sembra appena accennata. Era attesa sulle primarie, tutti i cronisti a tallonare il sindaco rottamatore di Firenze, Matteo Renzi, seduto nelle ultime file: «Rinviando il discorso sulle primarie tutto a settembre, Bersani pensa di metterci in saccoccia. Si sbaglia di brutto», commenta, insomma sia chiaro che «noi non faremo passi indietro come Angelino Alfano con il suo capo. Noi ci saremo». Non attacca più di così, «i sondaggi vanno bene, dicono solo che devo essere un po’ meno critico e un po’ più istituzionale», spiega lui stesso, ridendo, il moderato livello di critica. Ma all’ora di pranzo se ne va. Ci pensano gli altri che restano, 38 che votano contro al Documento sui diritti (sì a regolamentare le unioni gay, no al matrimonio) a scatenare la polemica.
Sui matrimoni gay, certo, ma anche sulle primarie. Da mesi il consigliere regionale Pippo Civati parla di un ordine del giorno per imporre primarie per il premier (regolamentate e con data certa), per i parlamentari, limite dei mandati. La presidenza non lo lascia votare. Franceschini ricorda che, a rigore di statuto, il candidato premier dovrebbe essere il segretario. Fassino parla di «dovere morale» sostenere il segretario. D’Alema che «quando il candidato è il segretario si tratta di un scelta collettiva». E molti nella sala si chiedono se mai le primarie si faranno. "Rinviata la corsa per la leadership Sì alle unioni civili No ai matrimoni gay Renzi: rinviando tutto a settembre, Bersani pensa di metterci in saccoccia, ma si sbaglia"

La Stampa 15.7.12
La rivolta della minoranza “Nel partito non si vota mai”
Proteste contro la presidenza che non permette le mozioni
«Fanno decidere solo i parlamentari, ma noi nel Palazzo non ci siamo»
Tre delegati dopo lo scontro decidono di restituire le tessere al segretario
di Fra. Schia.


ROMA Questa è una presa in giro! », strilla un delegato pugliese. Un urlo lungo che si ripete; «vuole fare una dichiarazione di voto? », invita la presidente Rosy Bindi dal palco. Come no, Enrico Fusco attraversa la sala a falcate grandi così: «Questo documento è antico, arcaico, irrispettoso, offensivo della dignità delle persone», sibila nel microfono col fiatone riferito al testo sui diritti delle coppie gay, mezza sala ulula «buuu», la frangia di dissidenti batte le mani ancora più forte, e poi «voto, voto! », si alza come un boato l’esasperazione della curva sotto il palco: «Vivete su Marte, scendete sulla terraaa». «Persino Fini è più avanti di noi», altri due passi lunghi e Fusco sbatte la tessera del Pd sul tavolo della presidenza in un tripudio di telecamere, la restituisce al segretario Pierluigi Bersani terreo, accanto la Bindi paonazza, Letta e Franceschini in maniche di camicia che fissano la platea ruggente sotto di loro, Marina Sereni che riprende la parola e prova a rendere digeribile il punto di vista della presidenza, ma il peggio deve ancora venire.
Fino alle quattro era andato tutto bene, pure un tantino noioso, appena una larvata polemicuzza di Renzi sulle primarie («Bersani vuole metterci in saccoccia»). Poi la Direzione volge al termine prima del previsto: «Dobbiamo votare, abbiate pazienza ancora una mezz’ora», chiede la Bindi, che una certa idea della minaccia in agguato ce l’ha: raccontano che già si sia irritata parecchio nel vedere ben due ordini del giorno per chiedere i matrimoni gay. E ancora di più nel vedere spuntare, proprio quando bisogna votare un documento della Commissione diritti faticosamente messo insieme in un anno e mezzo, un testo a parte firmato da sette delegati tra cui un uomo della segreteria, Martinelli.
È proprio sui voti che comincia la bagarre: quelli che viene impedito di esprimere, più precisamente. Perché dopo l’alzata di mano, con 38 contrari, sul documento sui diritti (otto pagine fitte di equilibrismi, tipo, sulle unioni gay, la promessa di un «adeguamento della disciplina giuridica») «la presidenza ritiene preclusa la possibilità di votare gli ordini del giorno», perché «dicono il contrario di quanto abbiamo già votato». Apriti cielo: esplode il settore a destra davanti al palco, «voto, voto», urlano tutti, scuote la testa il senatore Marino; l’ex presidente del Senato Marini sbotta «e fateli votare, così vediamo che sono minoranza». Non si dà pace: «Non sanno gestire un partito! », furibondo con la presidenza s’avvicina a D’Alema, che in terza fila costruisce un origami e mentre davanti a lui altri due (Mancuso e Benedino) riconsegnano polemicamente la tessera del partito al segretario, minimizza: «I tre quarti della tensione la producete voi giornalisti... ».
A tifoserie scatenate, arriva l’altro no della presidenza: no anche al voto sull’Odg Vassallo-Civati, che chiede primarie per il premier, con una data certa, primarie per i parlamentari, limite di tre mandati. No perché la relazione del segretario propone già un altro percorso per le primarie: «I parlamentari sanno che la procedura è questa», provano a calmare gli animi dal palco appellandosi alle regole, «ma in Parlamento ci state voi», urlano i dissidenti, e sembra l’antipolitica in seno al partito. «Sentite un attimo, il Paese non è fatto delle beghe nostre», interviene Bersani spazientito, suscitando le ire di Civati. «Beghe? Quali beghe? ».
Morale: non si vota sulle primarie, non si vota sui matrimoni gay. «Vietato votare», bisbiglia un democratico sconsolato; «in questo partito non si vota mai! », aggiunge il delegato Moreno Minacci. «Ci sono procedure democratiche da seguire, non farlo creerebbe un precedente», è la giustificazione della Bindi. Che rilancia: «Marino è venuto solo due-voltedue alle riunioni della Commissione diritti. Perché non confrontarsi all’interno, anziché cercare un posizionamento fuori? ». La sala si svuota, fine della Direzione. Con tre delegati in meno di ieri mattina.

il Fatto 15.7.12
Diritti stracciati
Pd, lite continua, dopo Grillo le coppie gay
Deleghe strappate, urla, insulti: bagarre dopo la decisione di Rosy Bindi di non mettere ai voti i documenti su diritti civili e primarie
di Wanda Marra


All’assemblea nazionale è vietato pronunciare la parola “matrimonio omosessuale”. Proteste di Marino, Civati e Concia: “Fini è più avanti di noi”. Bersani: “Il Paese non ne può più delle nostre beghe”. In tre restituiscono la tessera

Prende la delega e, lentamente, un gesto dopo l’altro, la straccia. Intorno a lui i rappresentanti dell’area Marino in piedi urlano contro una presidenza impietrita. Tocca ad Andrea Benedino, ex portavoce nazionale dei gay dei Ds, compiere il gesto simbolico, che dà un’immagine alla rottura che si è consumata, per una volta platealmente, alla fine dell’Assemblea del Partito democratico. Votata la relazione del segretario Pier Luigi Bersani (5 astenuti, un contrario) la tensione repressa si scatena sugli ordini del giorno. Si vota il documento sui diritti, elaborato dal Comitato, presieduto da Rosy Bindi, in cui si dice, tra l’altro, che all’ “unione omosessuale” spetta “il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico”. Quando la Bindi, in veste di Presidente dell’Assemblea, lo mette al voto, dalla platea parte l’attacco: “Non erano questi i patti”, urla qualcuno. In piedi, tra gli altri, ci sono Paola Concia, Ignazio Marino, Pippo Civati. Ma anche Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini. Da venerdì pomeriggio chiedono che si voti anche un “integrativo”, con 40 firme, in cui si prefigura un percorso verso il matrimonio gay e il “pieno riconoscimento giuridico e sociale” delle unioni omosessuali. Un compromesso per non arrivare a una spaccatura. Niente da fare. In piena bagarre si alza un delegato della Puglia. “Sono emozionato balbetta Enrico Fusco, ma è durissimo è un documento arcaico, irrispettoso, offensivo per la dignità delle persone. Non è un passo in avanti ma un passo indietro enorme. Anche Fini è più avanti di noi”. 38 votano no, praticamente la mozione Marino. Poi, prendono la parola la Concia per chiedere il voto del documento dei 40 e Ivan Scalfarotto, che in un’atmosfera surreale, tra tifo da stadio e rabbia repressa illustra un odg per il matrimonio gay, presentato con Civati. Tocca a Marina Sereni spiegare che non sono ammissibili, perché l’assemblea si è già espressa: questioni procedurali. Fusco, Benedino e Aurelio Mancuso uno alla volta si avvicinano al segretario, gli restituiscono la tessera. Al banco della presidenza le facce sono impietrite: Bersani diventa sempre più scuro, la Bindi è incredula, la Finocchiaro simula una lacrima, Letta e Franceschini sono delle sfingi. “Ma dove vivete? Siete dei marziani”, urlano i dissidenti. “Dovevano votare”, si agita un furibondo Franco Marini che commenta, parlando con Massimo D’Alema, seduto in platea “qui nessuno sa tenere il partito”. Il Lìder Maximo alzando un sopracciglio commenta “avrebbero potuto assumere il documento dei 40”. Ma non è finita. Inammissibili anche gli odg di Civati, Vassallo e Gozi sulle primarie, perché “preclusi” dalla relazione del segretario. “Contrastano con i voti già effettuato, chi sta in Parlamento dovrebbe saperlo”, argomenta ancora la Sereni. “Ci state voi in Parlamento”, urlanodasotto. Èaquesto punto che Bersani prende la parola: “Abbiamo detto sì a una relazione della segreteria che ammette le primarie, ma che non stabilisce la data. Volete forse che ce le facciamo da soli? ”. E poi, con un fare quasi da padre arrabbiato: “Basta, il paese ne ha abbastanza delle nostre beghe interne”. Il segretario nell’intervento di apertura aveva rimandato la discussione sulle primarie a settembre (in direzione) in attesa della legge elettorale e dei “contendenti”. “Io il mio odg l’ho presentato pure alla direzione. Mi hanno detto che non poteva essere esaminato, e mi hanno rimandato all’assemblea. Ora rimandano il testo Bersani alla direzione. Mi serve un amico in presidenza? ”, commenta Civati che da un anno e mezzo prova a presentare un odg per le primarie dei parlamentari e per il limite dei 3 mandati. “Ho parlato di primarie non solo per il segretario”, puntualizza intanto Bersani sul palco. Civati chiosa: “Comunque chissà forse da oggi esce una candidatura alle primarie, la mia”. Spiega Vassallo: “Hanno votato un odg della direzione in cui il limite non è di 3 mandati, ma di 15 anni. Hanno visto che c’era negli odg e hanno votato dei documenti per poi dichiararli inammissibili”.
LA PIÙ agitata di tutti, però, alla fine è Rosy Bindi: “È un anno e mezzo che lavoriamo con il Comitato dei 30 e mi sembra oggi di aver raggiunto una posizione molto avanzata”. Accento toscano, ciuffo ribelle. “Ora lo scrivo io un libretto dove racconto com’è andata. Ignazio Marino? Si è presentato solo alla prima e all’ultima riunione. Evidentemente non gli interessa l’accordo, ma solo il posizionamento personale”. Gesticola, tira fuori documenti: “Lo sapete o no come funziona la democrazia? Non potevo mettere al voto quegli odg. Avrei creato un precedente. E poi, il matrimonio gay è incostituzionale”.
“Un’assemblea inutile”, l’aveva definita Arturo Parisi a inizio giornata. Mentre alla fine sul piazzale del Palazzo delle Tre Fontane rimane solo Stefano Ceccanti: “Dopo la relazione di D’Alema l’ho ufficialmente invitato alla riunione dei 15. Come noi, ha detto con Monti, oltre Monti. Ma tanto oggi fanno notizia solo i gay”. Effettivamente. Tutto il resto “è noia”, da Bersani che definisce “agghiacciante” il ritorno di B., ai giovani turchi sotto tono, dalla battaglia sotto traccia sulle preferenze nella legge elettorale, che vede Franceschini contro Fioroni e Letta. Ognuno si fa i conti, anche su come difendere i suoi. Alla “presenza-assenza” di Renzi, che non interviene, parla solo con i giornalisti e se ne va. Di Grillo e dell’uscita di Letta, che piuttosto voterebbe il Pdl nessuno dice nulla. “Nella vita si fa quel che si può”. Parola di Bersani.

Corriere 15.7.12
I big del Pd frenano sulle primarie
Bersani però assicura: tempi e modi da stabilire con chi ci sarà
E su Monti: continuità sui conti in ordine, non per Imu e tagli
di M. T. M.


ROMA — Come sempre, in politica, dipende dai punti di vista. All'assemblea nazionale del Partito democratico Bersani annuncia che «entro la fine dell'anno» si faranno le primarie (a novembre, con tutta probabilità). Assicura che saranno «aperte» e che non sarà lui l'unico candidato. Quindi precisa che però «tempi e modi» verranno decisi con le forze che intendono partecipare a questo appuntamento.
Scientemente Matteo Renzi, confuso in platea tra la folla, decide di prendere ufficialmente per buone le parole del segretario: «Guardo al bicchiere mezzo pieno». Ma in quella sala le affermazioni del leader vengono interpretate — e reinterpretate — a libero piacimento. Arturo Parisi, che dopo mesi di assenza dalle riunioni dell'assemblea si fa rivedere, sostiene invece che l'acqua nel bicchiere non ci sia proprio più: «È stata messa una bella pietra tombale sulle primarie vere». L'ex sottosegretario di Prodi è infatti convinto che, anche se si faranno, saranno teleguidate. E quando la presidenza dell'assemblea decide di non mettere in votazione l'ordine del giorno che dovrebbe vincolare il partito a tenere queste consultazioni e che è stato presentato dai rottamatori di Civati, da Ignazio Marino e Sandro Gozi, partono i fischi, le proteste e i sospetti. Le parole pronunciate da Parisi tornano in mente a tanti in quello stanzone.
Del resto, anche il dibattito sul palco ha contribuito non poco a rinfocolare dubbi e interrogativi. I maggiorenti del Pd sembrano essere tutti contrari alle primarie. Il primo a prendere le distanze è Dario Franceschini. Che prende tempo: «Dei criteri per scegliere il candidato premier ci si occuperà quando saranno noti la legge elettorale e il quadro delle alleanze. Sapendo una cosa: in tutti i Paesi del mondo quando si fa un governo di coalizione il candidato è il leader del partito più grande della coalizione. Può essere che in base alle parole di Bersani si apra la possibilità che anche altri iscritti al Pd si presentino alle primarie, ma è naturale che il candidato ufficiale del partito è il segretario». Come a dire: guai a chi si sfila dall'appoggio al leader. Enrico Letta non prevede nemmeno che il candidato possa essere un altro: «Nel 2013 ci dovrà essere un confronto elettorale tra il centrodestra e il centrosinistra. Fra Bersani e Berlusconi, se Berlusconi sarà il candidato del Pdl».
Per Massimo D'Alema, da sempre allergico ai gazebo e alle primarie, non c'è Renzi che tenga: «Quando noi candidiamo il segretario del nostro partito a guidare il Paese questo non è un atto individuale, ma una scelta politica. Una scelta certamente contendibile, ma è una proposta forte, che sta lì a indicare con chiarezza la via del futuro. Chi non la condivide si faccia avanti, però non sta certo a noi indebolirla e renderla fragile in partenza». Tradotto dal politichese: se il sindaco di Firenze scende in campo danneggia il Pd, quindi è meglio che non lo faccia. Anche Piero Fassino sembra non nutrire alcun dubbio: «Le primarie siano un elemento partecipativo e democratico vero, quindi siano aperte anche a diversi candidati. Ma io penso che sia giusto, sul piano morale, che ci arriviamo con il segretario del partito». Come sempre Beppe Fioroni è il più esplicito di tutti e appoggiato al muro della sala che ospita l'assemblea nazionale del Pd osserva: «Bisognerebbe regalare a Renzi un'iscrizione a una scuola di danza, perché come sempre sbaglia il passo. Non ha capito che le primarie non si faranno: in agosto la situazione economica si farà incandescente, gli speculatori ci proveranno in tutti i modi, e di fronte alle emergenze queste consultazioni verranno messe in soffitta».
Insomma, è sul tema delle primarie che ruota questa giornata accaldata e nervosa. Ma c'è un altro punto importante. Riguarda il «nodo Monti». Bersani ribadisce che se avesse potuto il Pd non avrebbe agito come il governo sulle pensioni, sull'Imu e su altri provvedimenti. Quindi il segretario non risparmia nuovi strali nei confronti dei firmatari della lettera-documento in cui si chiede al Pd di andare avanti con l'agenda di Monti anche nella prossima legislatura: «Inviterei a non cadere sempre nella ricerca di punti di distinzione a volte un po' metafisici, stucchevoli e fastidiosissimi per la nostra gente». A sorpresa, invece, è D'Alema a porsi come interlocutore dei «quindici»: «Dobbiamo andare oltre Monti ma con Monti», dice dal palco. E in platea Enrico Morando, uno dei firmatari di quel documento, osserva: «Che differenza di atteggiamento: Bersani è liquidatorio, Massimo invece vuole interloquire con noi».

Corriere 15.7.12
Ma Renzi si prepara al duello: «In autunno sarò in campo»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Massimo D'Alema non lo guarda nemmeno. Walter Veltroni lo incrocia faccia a faccia e lo saluta con un lampo degli occhi, senza nemmeno pronunciare un «ciao». Ma Matteo Renzi, non sembra turbarsi più di tanto. Come spiega lui stesso, «non voglio fare il rompiscatole, ho deciso di essere più soft nei modi, anche se duro nei contenuti». Però, dopo un po' che la riunione del Pd va avanti, non resiste più e sbotta con gli amici: «Du' palle, ma sono sempre così entusiasmanti le assemblee nazionali?».
In questa versione buonista il sindaco di Firenze si dice disposto a «baciare Bersani», e ammette di capire anche il nervosismo di Veltroni nei suoi confronti: «Ti credo, l'ho paragonato a D'Alema, poveraccio». Il Renzi rottamatore con giudizio decide pure di non intervenire: «Che dovrei dire? Una cosa del tipo: state tranquilli, se vincete voi noi vi sosterremo lealmente, ma se vinciamo noi vi cacciamo. Non è il momento di fare queste affermazioni: le farò quando lancerò la mia candidatura, dopo che finalmente saranno fatte le regole delle primarie. Io, intanto, non sto mica fermo: sto organizzando una cosa grossa per agosto».
Ma fare il «bravo» è uno sforzo per il sindaco di Firenze. Non è da lui tacere senza dire pane al pane e vino al vino. Incontra Franco Marini che gli dice: «Matteo, non intervenire oggi. Hai sentito Bersani? È stata una relazione di equilibrio, come fai a distinguerti?». Il sindaco di Firenze si morde la lingua, ma non riesce a non restituire la battuta: «È vero, oggi non ha molto senso parlare. Bersani ha volato basso. Ma tu sei proprio sicuro che non avrei cose da dire per distinguermi?». Ce le avrebbe, eccome, però preferisce soprassedere. Perciò davanti ai microfoni elogia il segretario che ha ribadito il suo sì alle primarie. Ma poi, in un momento di relax, osserva: «Rinviando il discorso delle primarie a settembre Bersani pensa di mettercela in saccoccia. Si sbaglia di brutto. Diciamo la verità: per noi è meglio, così abbiamo più tempo per organizzarci e solidificarci e poi in autunno siamo pronti. Io non sono certo come Alfano che appena Berlusconi ha detto che si sarebbe candidato si è messo in riga. Io sarò in campo, a patto che siano primarie vere e non con il trucco».
Le parole di Franceschini, D'Alema e Fassino sulle primarie non sembrano averlo preoccupato più di tanto. Primo, perché non le ha ascoltate, secondo perché il sindaco di Firenze sa bene che a volere veramente le primarie nel Partito democratico, oltre, ovviamente, a Parisi, sono lui e Bersani. Per il segretario, infatti, rappresentano un modo per legittimare definitivamente la sua leadership e per sottrarsi dal tentativo di D'Alema e degli altri maggiorenti del partito di condizionarne le mosse. È per questo che i big del Pd appaiono tutti così allergici a questo strumento. Con le primarie il segretario sarebbe finalmente totalmente autonomo, forte di un nuovo plebiscito popolare. E, nella parte del leader dell'opposizione interna, il secondo ruolo importante spetterebbe a Renzi. Gli altri rischierebbero di fare la fine dei comprimari. Già adesso, per la prima volta, D'Alema ha un potere di influenza assai ridotto nei confronti di questo segretario, cosa che non gli capitava con Occhetto e Fassino. Sulla riforma elettorale, tanto per fare un esempio, le idee di Bersani e quelle del presidente del Copasir non coincidono. Ma D'Alema, finora, non è riuscito a scalfire la determinazione del leader.
Con le primarie, Bersani potrebbe ancora più facilmente imporre la sua volontà a tutto il partito. E che il segretario, nonostante l'apparente bonarietà emiliana, sia un tipo tosto lo si capisce da quello che dice, quando, immaginandosi già in corsa per il governo, spiega che cosa proporrà ai suoi alleati. «Ci sono due impegni da sottoscrivere. Affidare alla responsabilità del candidato premier una composizione del governo snella, rinnovata, competente. E consentire una cessione di sovranità: cioè, sciogliere le controversie su atti rilevanti attraverso votazioni a maggioranza dei gruppi parlamentari in seduta congiunta».
Insomma, Renzi sa di avere nel segretario un alleato inaspettato, perciò accetta il rinvio di queste consultazioni e dice con un sorrisone: «Non mi impiccherò certo a una data».

Corriere 15.7.12
E scoppia il caso nozze gay. Fischi e tessere buttate
Non si vota il testo sui matrimoni. «Siete marziani»
di Monica Guerzoni


ROMA — Alle cinque del pomeriggio la tessera del Pd gettata via dal delegato gay Aurelio Mancuso giace ancora sul tavolo della presidenza, là dove sedeva Pier Luigi Bersani. Un giornalista si avvicina per uno scatto, un uomo della sicurezza se ne accorge e la prende bruscamente in consegna: «Non posso fargliela fotografare». Sono gli ultimi istanti di un pomeriggio di caos, che ha visto chiudersi tra le polemiche l'Assemblea nazionale del Pd, lacerata dal tema delle nozze omosessuali. Al centro della contestazione Rosy Bindi, accusata dall'area laica di aver guidato i lavori in modo «burocratico e antidemocratico».
Urla da stadio, fischi, boati. La bagarre scoppia al Salone delle Fontane dell'Eur dopo la replica di Bersani e quando già buona parte dei delegati è sulla via di casa. A far discutere sono due documenti sul tema delle unioni civili. Il primo è quello messo nero su bianco, dopo un anno e mezzo di lavori, dal Comitato diritti del Pd guidato dalla presidente Bindi. Al punto 5.5 si parla di «formule di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali» e per la Bindi si tratta di «una linea molto avanzata, un grandissimo risultato». Secondo Paola Concia, Ignazio Marino e gli altri dell'ala laica invece è troppo poco. Il documento passa a larga maggioranza, ma in 38 votano contro. E agli atti restano due ordini del giorno sulle nozze gay. Uno è di Ivan Scalfarotto, l'altro è della Concia e impegna il Pd, sulla scia di Hollande, a «inserire nel suo programma l'estensione dell'istituto del matrimonio civile alle coppie omosessuali».
La guerriglia scoppia quando la vicepresidente Marina Sereni comunica che il «contributo» dell'area laica sulle unioni civili, firmato da Angiolini, Concia, Corsini, Cuperlo, Mancina, Marino e Pollastrini, non sarà messo ai voti perché «in contrasto» con quello già approvato. È il caos. Chi grida «buuu!», chi fischia, chi si scaglia verso la presidenza scandendo «voto, voto»... «Questo partito non riconosce dignità ai gay!», grida uno. «Ci prendete per il c...», agita la sua delega un altro democratico dell'ala sinistra. E una voce dal fondo: «Siete dei marziani, vivete su un altro pianeta». Finché Enrico Fusco, delegato gay della segreteria regionale pugliese, grida nel microfono quel che pensa del documento Bindi: «È antico, arcaico, irrispettoso, offensivo... È un passo indietro, persino Fini è più avanti di noi». Poi scende dal palco, va al tavolo della presidenza e lancia la tessera pd verso un attonito, sgomento Bersani, sul quale piovono, nell'ordine, le tessere degli attivisti gay Andrea Benedino e Aurelio Mancuso.
Quando prende la parola per placare gli animi, il segretario è vistosamente spazientito. «Sentite un attimo — si appella —, per la prima volta il Pd assume un impegno per la regolamentazione giuridica delle unioni omosessuali e io sento dire "me ne vado dal partito"?». E poi, più brusco: «Attenzione, noi siamo il primo partito del Paese, dobbiamo dire con precisione all'Italia che cosa vogliamo. Il Paese non è fatto delle beghe nostre». L'assemblea si scioglie e la Bindi resta a lungo sul palco, nella sala vuota, per convincere i giornalisti delle sue ragioni: «Abbiamo fatto un lavoro eccellente e se non c'è il matrimonio gay è perché la Costituzione non lo consente, ma per la prima volta si indica una strada perché l'Italia sia come gli altri Paesi europei». La presidente del Pd è convinta che la maggioranza degli italiani sia pronta per il riconoscimento delle unioni di fatto ma non per il matrimonio gay: «È così in Francia, in Inghilterra, in Germania...». Le ricordiamo che Paola Concia, la deputata lesbica che guida i ribelli, si è sposata con la sua compagna a Francoforte e Bindi puntualizza: «Non era un matrimonio, ma un istituto che si chiama partnership». Non sarebbe stato più saggio, si chiedono in molti, ammettere al voto il documento della discordia e certificare la minoranza? «Non serve la prova del nove — replica Bindi — perché se solo in 38 votano contro è chiaro che sono minoranza».

Corriere 15.7.12
Concia: no all'apartheid. Bindi: quanto rompe
La presidente del partito: «Glielo direi anche se fosse etero». La deputata: «Non possono esistere dirittucci»
di M. Gu.


ROMA — «Hanno avuto paura della loro ombra...». Anna Paola Concia usa il plurale ma è chiaro che ce l'ha con Rosy Bindi, la sua avversaria storica nella battaglia per il riconoscimento dei diritti civili. Mesi fa, durante una riunione del Comitato che Bersani ha istituito per trovare una mediazione sui temi «sensibili» tra l'ala laica e quella cattolica, la presidente le diede della «rompicoglioni» per aver più volte interrotto la riunione con i suoi argomenti. E ieri lo ha ribadito: «Confermo, è una rompi... Ma glielo avrei detto anche se fosse stata eterosessuale». La Concia ci ride su, dice di non essere «così matta» da pensare che la vicepresidente della Camera l'abbia apostrofata così «in quanto lesbica» e spiega lo stato dei rapporti tra le due protagoniste del casus belli sulle nozze gay: «Tra me e Rosy c'è un conflitto politico e non personale». Dove il punto è come si concepisce l'uguaglianza.
«Nei confronti dell'omosessualità non ci può essere apartheid — è la tesi della Concia — non possono esistere dirittucci. Quello che vogliamo è la piena uguaglianza, mentre lei e altri la pensano diversamente». Anna Paola, che ha da poco mandato in libreria La vera storia dei miei capelli bianchi (Mondadori), scritto con Maria Teresa Meli, ritiene che Rosy abbia «imposto ancora una volta le sue storiche idee, in modo burocratico e antidemocratico». Tanti delegati, racconta, avrebbero voluto votare anche se contrari alle nozze e la presidente, «che aveva l'autorevolezza per decidere, lo ha impedito». Perché, onorevole? «Perché ha in mente i Dico, un istituto giuridico che non esiste in Europa da nessuna parte e che umilia le persone».
Se per la Bindi il documento della Commissione diritti è un «grande traguardo», per la Concia si tratta di un «testo ambiguo, che non prevede le coppie omosessuali». Eppure un altro gay dichiarato come Ivan Scalfarotto, che del Pd è vicepresidente, difende l'operato della Bindi: «La caciara non fa bene né al partito né ai diritti». Ma la caciara è scoppiata perché il testo dei laici non è stato messo ai voti... «Bene, io sono con loro sulla sostanza, ma penso che la reazione che hanno avuto in Assemblea non sia stata vantaggiosa, né per i diritti, né per il partito». Tanto che Scalfarotto ha bacchettato i suoi amici, con i quali ha condiviso tutte le battaglie, scrivendo su Twitter che Gandhi, Mandela e Luther King «non gridavano» e «non si strappavano i capelli» per affermare le loro idee.
Ma ieri al Salone delle Fontane i nervi sono saltati a tanti. Chi c'era racconta che nel chiuso di una riunione all'ora di pranzo del Comitato diritti, convocata dalla Bindi alla ricerca di un'intesa, le due anime laiche — Concia e Scalfarotto per l'area di Ignazio Marino e Cuperlo e Pollastrini per la sinistra bersaniana — abbiano presentato un documento firmato, tra gli altri, da Ettore Martinelli. Quando la Bindi legge il nome del responsabile Diritti pd salta sulla sedia: «Così non ci sto, la segreteria di Bersani non può contestare il documento della commissione». Segue depennamento della firma e chiarimento tra Bindi e Bersani. Alla fine sarà messo ai voti il solo testo della presidente, che a giochi fatti la chiude così: «Se votavamo il documento dei laici prendeva 500 voti contrari e 38 a favore, era meglio?».
Per Michele Meta, della direzione democratica, i delegati dell'area Marino hanno votato contro a causa della «gestione burocratica» dell'assemblea da parte della Bindi, che avrebbe «declassato» il documento dei laici. Il più furibondo è Enrico Fusco, il primo dei delegati gay a scagliarsi contro la presidenza e a stracciare in faccia a Bersani la tessera del partito. «Il documento che Bindi ha imposto è illiberale e irrispettoso delle intelligenze umane — si sfoga sotto il colonnato di epoca mussoliniana —. Tutto il mondo civile va verso il matrimonio ed è assurdo che a restare indietro sia un partito che si definisce democratico». Per l'esponente della segreteria regionale pugliese, che ha la delega ai Diritti della cittadinanza e dell'immigrazione, la presidente del Pd non avrebbe «dato dignità giuridica e sociale alle coppie omosessuali», limitandosi a riconoscere solo alcuni diritti individuali. La sintesi di Fusco può suonare un po' forte, ma rende il clima: «Siamo stati presi per i fondelli».

il Fatto 15.7.12
Il merito delle proposte
Dai Pacs ai Dico, la parola impronunciabile è “matrimonio”
di Caterina Perniconi


In principio furono i Pacs. Poi toccò ai Dico. La capacità del centrosinistra di litigare sui diritti civili è uguale a quella di trovare formule per non pronunciare mai la fatidica parola “matrimonio” tra omosessuali. Perché l’Italia non ha una legislazione che permette alle coppie di fatto di essere tutelate. I primi disegni di legge furono presentati nel 1986. La prima proposta di legge (mai calendarizzata) fu depositata da Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista, nel 1988. L’Europa invece è molto avanti sulla materia e il Parlamento Europeo ha invitato il nostro Paese a prevedere uno strumento per la parificazione dei diritti di coppie gay e coppie eterosessuali non sposate. I due tentativi (Pacs prima, Dico poi) non hanno avuto alcun esito. Ci hanno provato anche Gianfranco Rotondi e Renato Brunetta con un’altra formula, i Dido-Re. Ennesimo tentativo fallito.
ALLA VIGILIA di una nuova tornata elettorale con le coalizioni e i programmi ancora da costruire, i laici del Pd hanno spinto sull’acceleratore per approvare una proposta sui diritti civili – dal matrimonio omosessuale al testamento biologico – da portare ad un eventuale tavolo programmatico. “La nostra non è una battaglia politica come ce ne sono state in passato – spiega la deputata democratica Paola Concia – l’Europa ci chiede una legislazione in materia e dopo 4 anni dalla sua nascita il Partito democratico deve discuterne come qualsiasi altro partito progressista europeo”. Lei è tra i promotori di uno dei tre testi su cui il Pd si è diviso. Il primo, elaborato dal Comitato dei diritti e presentato da Rosy Bindi, esclude il matrimonio tra omosessuali e parte invece dall’assunto che “la Costituzione ha inteso riconoscere e stabilire i diritti e i doveri della famiglia (...) e il Pd considera obiettivo primario il dare piena attuazione a questo impegno”. La premessa continua con le parole sulle coppie di fatto: “Nella società contemporanea, le dinamiche economiche da un alto, e le libere scelte affettive e le assunzioni di solidarietà dall’altro, hanno dato vita a una pluralità di forme di convivenza che svolgono una funzione importante (...) per questo appaiono meritevoli di riconoscimento e tutela sulla base di alcuni principi fondamentali (...) tale riconoscimento dovrà avvenire secondo tecniche e modalità rispettose della posizione costituzionalmente rilevante della famiglia fondata sul matrimonio”. Da qui la chiara differenza tra coppie sposate e non. “Il Pd, auspicando un più approfondito bilanciamento tra gli articoli della Costituzione, quanto in specie alle libere scelte compiute da ciascuna persona in relazione alla vita di coppia e alla partecipazione alla stessa, opera per l’adeguamento della disciplina giuridica (...) anche introducendo speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono da legami differenti da quelli matrimoniali, comprese le unioni omosessuali” .
Dopo aver approvato questo documento, la presidente Bindi ha impedito di votare i due successivi, perché entrambi facevano riferimento al matrimonio omosessuale. Ma l’accordo pare fosse diverso. Fino alla sera prima, dopo una lunga insistenza dei vertici del Pd che non volevano spaccature pubbliche sul tema, il Comitato dei diritti aveva pronto un documento integrativo che non parlava di matrimonio tra gay ma procedeva in quella direzione: “Le coppie etero e omosessuali devono avere gli stessi diritti: proponiamo il pieno riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili per coppie omosessuali e non. Scelta compatibile con gli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione”.
POI UN PASSAGGIO chiaro sul testamento biologico: “C’è la necessità di proporre una legge fondata sul diritto del cittadino a scegliere liberamente le terapie alle quali essere sottoposto”. Ieri mattina Paola Concia aveva presentato questo testo alle 11.30 con le 40 firme necessarie. Ma alle 17 ha scoperto che, avendo l’assemblea già approvato il precedente, non si sarebbe più votato. Né tantomeno il partito si sarebbe espresso su quello di un membro della presidenza, Ivan Scalfarotto, che invece faceva esplicito riferimento al matrimonio tra coppie omosessuali. Per Pier Luigi Bersani il documento approvato è già “un passo avanti”. Per i militanti che hanno strappato le deleghe “anche Fini ha fatto di più”.

Repubblica 15.7.12
Matrimoni gay, bufera sulla Bindi Pier Luigi alza la voce: basta beghe
Non ammesso l’odg dei laici. “Allora restituiamo la tessera”
di G. C.


ROMA — «È il punto più avanzato sui diritti civili e le unioni omosessuali a cui sia mai arrivato un partito in Italia». Rosy Bindi si accalora. Si sbraccia. Il documento del “comitato diritti sulle unioni omosessuali” è stato appena approvato a maggioranza, con 38 voti contrari. Ce ne sono altri tre: non vengono messi ai voti. Enrico Fusco prende la parola e attacca: «Il documento ufficiale è antico, arcaico, lesivo della dignità delle persone». Bindi passa il microfono a Marina Sereni e poi al segretario Bersani che prova (e riesce) a placare la bagarre: «Il paese non è fatto delle nostre beghe...». Rosy si riprende la parola per dire che «su come ci si comporta nelle assemblee elettive e democratiche non mi dà lezione nessuno, il documento appena votato dell’assemblea esclude i matrimoni gay e quindi il voto degli altri è precluso ».
La presidente del partito è vice presidente della Camera, ha studi giuridici (con Vittorio Bachelet): essere messa sotto accusa sulle procedure della democrazia le dà più fastidio che essere accusata di clericalismo: «Perché sulla mia laicità, parlano i fatti», contrattacca. E ricorda la battaglia per i Dico - il disegno di legge sui diritti dei conviventi del governo Prodi - e la piazza del Family Day che Ruini le scatenò contro. Ma nell’Assemblea del Pd succede di tutto sulle unioni gay (e sulle primarie).
Un coro parte dalla platea: «Voto, vo-to». Franco Marini si alza dalla prima fila e va da D’Alema: «Non sanno gestire un partito. Mettetelo ai voti, mettete tutto ai voti». Si vedrebbe così che a volere
i matrimoni gay sono una minoranza: è il suo ragionamento. Non sono votati i due ordini del giorno sui matrimoni gay, né il documento dei “laici” che affronta i temi del testamento biologico, dell’utilizzo degli embrioni per la ricerca e dell’equiparazione delle unioni eterosessuali e omosex. D’Alema commenta: «Questo testo poteva
essere fatto proprio dall’Assemblea ». Benedino, Fusco e Mancuso riconsegnano la tessera al segretario. Marino dichiara che «è vergognoso, il Pd non può essere più arretrato di Fini in tema di diritti ». Fischi, urla che scandiscono «se-gre-ta-rio- se-gre-ta-rio».
È a qual punto che Bersani interviene: «Sulle unioni gay per la
prima volta il Pd ha assunto l’impegno a una regolamentazione giuridica. Il sistema dei diritti è un meccanismo in evoluzione che può essere interrotto se non si tiene conto dei fatti». Come dire, attenzione perché chi troppo vuole rischia di non ottenere nulla. L’antefatto del resto era durato una nottata. Marino con Meta,
Cuperlo, Pollastrini, Martinelli, Orfini, Fassina avevano lavorato alla “integrazione” dei laici scontenti e insoddisfatti del documento ufficiale del comitato dei diritti presieduto da Bindi. Lavoro di cesello, 200 le firme. Ma a metà mattina, mentre l’assemblea è in pieno svolgimento, la presidente convoca una riunione e mette in riga i 200. «A cosa ha lavorato il comitato dei diritti per un anno e mezzo, se ora viene presentato un altro testo?» chiede. Soprattutto non le piace quella firma di Ettore Martinelli, responsabile dei diritti
civili per il partito, che sembra una sorta di smentita da parte della segreteria stessa del compromesso trovato. Martinelli ritira la firma, ma precisa: «Non c’è spazio per i Dico, ci vuole un’equiparazione dei diritti tra coppie etero e coppie omosessuali». Alla fine, la decisione è che l’integrazione “laica” sia sottoscritta solo da sette componenti del comitato diritti e che proceda insieme con il documento ufficiale. Quando questo viene messo ai voti, i “laici” e i leader omosex pretendono che ai voti vada anche il resto: «È un testo che integra, non contraddice». «Surreale », si alzano le proteste in platea. Ora la patata bollente è affidata alla direzione.

l’Unità 15.7.12
Cinquant’anni dopo il Concilio è ancora la bussola per le difficoltà della Chiesa
di Enzo Bianchi, Priore di Bose...


Cinquant’anni fa Giovanni XXIII annunciava il Concilio Vaticano II. Cinquant’anni sono un arco di tempo significativo per una lettura di quella «nuova pentecoste» che ha attraversato la Chiesa cattolica e il suo rapporto con le altre confessioni cristiane, con le altre religioni e il mondo contemporaneo.
I «padri conciliari» ancora vivi sono pochissimi e più nessuno esercita ancora un ministero pastorale (il teologo Joseph Ratzinger vi prese parte come «perito»), abbondano ormai studi e ricostruzioni storiche basate su archivi, diari e documenti di ogni tipo... Eppure la lettura non può essere «distaccata» perché le energie spirituali suscitate e i cambiamenti innestati dal Concilio sul tronco vivo e vitale della tradizione bimillenaria della Chiesa sono attualissimi ancora oggi, nonostante vi sia chi, anche nella Chiesa purtroppo, lavora contro quella che Giovanni Paolo II definì «la grazia più grande fatta da Dio alla Chiesa del XX secolo ... l’evento ecclesiale più significativo e determinante».
Davvero il Concilio resta ancora da attuare pienamente: non si dimentichi che, ancora all’inizio del nuovo millennio il Papa aveva chiesto a tutte le Chiese locali di interrogarsi sulla ricezione del Concilio e di ritornare ai testi emanati dal Vaticano II, in modo da conoscerli e assimilarli. Del resto la storia ci insegna che eventi epocali come un’assise ecumenica necessitano di diversi decenni per divenire patrimonio condiviso da tutta la Chiesa e questa progressiva assimilazione non può essere accelerata semplicemente da mezzi di comunicazione più rapidi. Tuttavia chi ha vissuto con consapevolezza la Chiesa negli anni precedenti al Concilio può misurare il cambiamento, leggendo con relativa oggettività e soprattutto con uno spirito di ringraziamento il cammino già percorso. La vicenda cristiana è un
«ricominciare» sempre, nella vita del singolo cristiano come nella vita della Chiesa: mutamento quindi non significa che il Vangelo cambia, ma come osava dire il beato Giovanni XXIII che siamo noi, la Chiesa, a comprenderlo sempre meglio.
In questo senso appare sterile e artificiosa una polarizzazione tra «rottura» e «continuità»: la Chiesa non è tanto un’istituzione quanto il corpo di Cristo, un organismo vivente che conosce stagioni e che esige la «riforma», la quale sempre dovrebbe ricondurre gerarchia e popolo di Dio a una rinnovata fedeltà al Vangelo e al suo Signore.
Se anche oggi vi è chi piange sulla situazione della Chiesa e scorge segni di disfacimento e di crisi, in realtà il fuoco ardente del Vangelo è ancora ben presente sotto la cenere: basta un fascio di legna secca, un bastone per scostare la cenere, un soffio e la fiamma torna a riaccendersi, a illuminare e scaldare.
Basterebbe pensare alla qualità della fede di molti cristiani quotidiani, alla consapevolezza della chiamata universale alla santità cristiana, alla presenza della parola di Dio al cuore delle comunità ecclesiali, alla capacità di dialogo che la Chiesa ha acquisito nei confronti delle altre confessioni e delle altre religioni...
Non si tratta di fare una lettura apologetica degli anni post-conciliari: inadempienze al Vangelo e contraddizioni in diversi ambiti e su diversi temi sono ancora presenti, ma la strada imboccata con il Concilio per ora non è smentita, né dimenticata. Se volessimo evidenziare un aspetto che ancora attende piena realizzazione è che la Chiesa, scopertasi con il Vaticano II essenzialmente «comunione», lo diventi in profondità, fino a essere «casa comune» per tutti i cristiani e, di conseguenza, scuola di comunione anche per tutti gli uomini. La sinodalità deve trovare nuove vie per esprimersi; l’unità della chiesa deve inventare strade di maggior comunione e corresponsabilità tra vescovi, presbiteri e fedeli, pur nella differenza dei doni e dei ministeri; la ricerca della verità deve sempre più manifestarsi nella dolcezza della compagnia degli uomini. Forse proprio in questo campo il Concilio può essere una chiara bussola per orientare con rinnovato slancio il continuo cammino di ritorno della Chiesa al suo Signore.

La Stampa 15.7.12
Il sacerdote pedofilo incastrato da un bagnino
Denunciato dopo le effusioni in spiaggia con la tredicenne Ed è giallo sul ritorno a Fano dopo la scalata ai vertici Cei
di Giacomo Galeazzi


CITTA’ DEL VATICANO In carcere Don Giangiacomo Ruggeri, 43 anni, è il braccio destro del vescovo di Fano Armando Trasarti, che l’ha sospeso da ogni funzione. «Ho sbagliato, non so cosa mi sia successo», ha sospirato prima di finire in isolamento don Giangiacomo Ruggeri, portavoce 43enne del vescovo di Fano che domani dovrà risponderà ai magistrati che l’accusano di pedofilia.
Una versione in talare di dottor Jekyll e mister Hyde. Da un lato le cattedre prestigiose, gli incarichi in Cei, le amicizie influenti. Dall’altro gli abusi in spiaggia su una ragazzina. «Ho avvertito un poliziotto dopo aver assistito in pieno giorno ad atti inequivocabili», racconta Marco Mandolini, bagnino alle Torrette. Baci, palpeggiamenti, il seno scoperto davanti ai bagnanti allibiti. Alcuni di quei gesti sono stati filmati dalla polizia con una telecamera nascosta. Gli è stato sequestrato il pc e dovrà chiarire se ci siano stati rapporti sessuali completi. La piccola vittima al mare si comportava come una «fidanzata».
Tempo addietro il padre era stato visto discutere animatamente con il sacerdote. I genitori non si erano resi conto di quanto stretto fosse il rapporto fra adulto e minore e non gradivano che la ragazza trascorresse tanto tempo in parrocchia. «Sono sconcertata, don Giangiacomo lo vedo ancora come un giovane scout, stava sempre in mezzo ai giovani, organizzava escursioni, campi scuola, partecipazioni alle Gmg. Forse questo desiderio di immedesimarsi con i giovani lo ha mantenuto per certi versi ancora infantile, ma le accuse sono inconcepibili», commenta Rosa Rita Saudelli, insegnante di Orciano.
Il vicesindaco e assessore ai servizi sociali Simone Tanfani mette le mani avanti: «Don Ruggeri era ben inserito, lavorava con le nostre associazioni, portava i ragazzi al mare o nei parchi gioco». Certo, il «prete dei giovani» destava perplessità fra gli anziani, per «un modo di fare un po’ fuori dagli schemi». Giravano voci «da bar» sul suo comportamento. L’inchiesta per ora ruota attorno a un’unica ragazzina, ma la polizia, coordinata dal procuratore di Pesaro Manfredi Palumbo, indaga anche nel passato del prete, per accertare se vi siano altre giovanissime vittime. Il vescovo di Fano lo ha subito sospeso da ogni ministero pastorale.
E’ talmente plateale lo scandalo davanti a una folla che agli investigatori sembra quasi una richiesta di aiuto. Come dire, «ho questo problema, fate qualcosa». A chi lo ammanettava non è apparso preoccupato, anzi consapevole di dover finire in cella. Spetterà all’avvocato chiedere una perizia sul grado di maturità psicologica di un omone di mezza età che scambiava pubbliche effusioni con una 13enne. Sembra una follia in un quadro senza macchie.
Ma a ben guardare c’è un segnale del tutto atipico in un curriculum da prelato «in scalata»: la brusca interruzione del suo servizio nella capitale. «Se avessimo notato qualcosa di strano, non gli avremmo consentito di continuare a collaborare con noi», ribattono in Cei. Resta però un «giallo» il passo falso nella brillante carriera ecclesiastica di don Ruggeri. Nel 2001, appena trentenne venne promosso a Roma «numero due» della Pastorale giovanile nazionale. Riunioni di vertice con Ruini e i big dell’episcopato, visibilità sui media cattolici: sembravano scontati ulteriori balzi in avanti. E invece, misteriosamente, il rampante sacerdote-giornalista lasciò Roma dopo appena 11 mesi per tornare a Fano.
Ora che è in cella d’isolamento per pedofilia quello «stop» in Cei appare un campanello d’allarme. Un’ombra respinta però dalla dirigenza di allora che nega di aver rintracciato in quel teologo gioviale e molto ambizioso qualche elemento di rischio. «Pur senza la titolarità di un ufficio, don Ruggeri è rimasto in stretto collegamento con la segreteria generale: è evidente che la sua condotta non lasciava presagire nulla di anomalo», spiegano. Don Ruggeri «tornava spesso a Roma, pubblicava libri e proseguiva l’impegno nella pastorale giovanile. Era «apprezzato per la competenza e il carattere allegro: non è mai stato reciso il filo tra lui e la Cei». A supporto di questa tesi, un episodio. Nel 2008 a festeggiare il suo ingresso nella parrocchia di Santa Maria ad Orciano c’è anche il capo della pastorale giovanile, don Paolo Giulietti. «Se fosse stato allontanato dalla Cei, tra i celebranti non ci sarebbe certo stato il suo capo dell’epoca in cui prestava servizio a Roma, cioè colui che lo avrebbe cacciato», osservano in Cei, dove ci si chiede se davvero don Ruggeri non si fosse reso conto che un uomo di 43 anni, per di più prete, non può «innamorarsi» di una bambina e flirtarci come un fidanzatino.

il Fatto 15.7.12
Passera, l’Opus dei e le azioni di famiglia
La donazione di quote del Campus Biomedico di Roma a un dirigente fedelissimo dell’Opera: conflitti, interessi e filantropi vip
di Vittorio Malagutti


Il ministro Corrado Passera in società con l'Opus Dei? Macché. Nessun conflitto d'interessi. “Ho donato le mie azioni nel Campus Biomedico a una delle persone più impegnate nel progetto”. Con queste parole, in una lettera al Corriere della Sera del 31 dicembre scorso, l'ex banchiere aveva annunciato la scelta di tagliare i ponti con l'ospedale nato a Roma su iniziativa (e con i soldi) dei fedeli del beato Josemaria Escrivá, fondatore dell'Opera. “Azioni donate”. Già, ma a chi? Intervistato in tv da Report, nel maggio scorso il ministro dello Sviluppo ha svelato l'arcano senza in realtà svelare alcunché. Il nuovo fortunato proprietario delle azioni ex Passera si chiama Raffaele Nappi. Un signor nessuno, almeno a prima vista. Non è un imprenditore, né un professionista, tanto-meno un banchiere. Nativo di Napoli, una sessantina d'anni, Nappi non fa parte della cerchia di amici, neanche di quella allargata, dell'ex banchiere passato al governo nella squadra dei tecnici di Mario Monti. E ALLORA perché mai Passera ha scelto proprio lui, Nappi, quando si è trattato di individuare un acquirente, seppure a titolo gratuito, di quel pacchetto di titoli, pari allo 0,11 per cento del capitale, della società che gestisce il Campus Biomedico? Estrazione a sorte? Oppure qualcuno ha indicato al ministro il nome di un possibile nuovo socio? A maggio, davanti alle telecamere di Report il ministro se l'era cavata spiegando che Nappi è una delle persone “più impegnate nel progetto dell'ospedale”. A occhio non sembra esattamente così, perché secondo quanto Il Fatto Quotidiano ha potuto ricostruire, la persona beneficiata da Passera è, più semplicemente, un dirigente, neppure di primissima fila, di un'altra iniziativa romana dell'Opus Dei. Nappi lavora infatti come libero professionista al centro Elis, un'altra associazione che fa parte della galassia dell'Opera.
La scelta di Nappi pare proprio essere stata il frutto di un suggerimento da parte della prelatura, ovviamente interessata a parcheggiare in mani amiche le azioni di cui Passera voleva disfarsi. Nel suo profilo personale reperibile in rete, Nappi si definisce “vicedirettore presso Elis.org   che poi sarebbe un centro di formazione professionale targato Opus.
NEI MESI scorsi questa sigla è salita alla ribalta delle cronache per lo scandalo delle assunzioni facili all'Ama, l'azienda municipalizzata per la nettezza urbana di Roma. Nel 2011, il pm Alberto Caperna ha aperto un'inchiesta per indagare sulle modalità con cui la società reclutò ben 900 dipendenti. La formazione dei neoassunti era stata appunto affidata al Consorzio Elis, il cui presidente, Sergio Bruno, è finito nella lista degli indagati, assieme ai vertici dell'Ama, tra cui l'ex amministratore delegato Franco Panzironi.
Il Consorzio dell'Opus Dei, che si è ovviamente sempre chiamato fuori da ogni irregolarità legata alle assunzioni facili, resta comunque una delle più importanti realtà nella Capitale nel campo della formazione professionale, con importanti agganci negli enti locali. Partendo da Elis, con il biglietto regalato dal ministro, Nappi è così riuscito ad avere accesso al parterre degli azionisti del campus Biomedico. Un parterre molto selezionato, a cui negli anni scorsi si erano conquistati un posto imprenditori e manager, banche e fondazioni. Certo, tutto per pure "finalità filantropiche", come a suo tempo spiegò anche Passera. Il socio più famoso della lista si chiama Francesco Totti, di anni 36. Sì, proprio lui, il pupone, il capitano della Roma, con una quota di 527 azioni, quasi pari a quella di Passera. Ma nel capitale dell'ospedale romano, che riceve anche importanti finanziamenti pubblici, troviamo compartecipazioni ben più rilevanti, anche grandi istituti di credito come il Monte dei Paschi di Siena e il veronese Banco Popolare, l'ex europarlamentare di Forza Italia Luisa Todini e il deputato Pd Matteo Colaninno, l'ente previdenziale dei medici (Enpam) e quello degli architetti (Inarcassa), il banchiere Carlo Salvatori e Carlo Monorchio, già ragioniere generale dello Stato. Insomma, quando l'Opus Dei chiama difficile non rispondere all'appello. Tutto per pure finalità filantropiche. Ovviamente.

il Fatto 15.7.12
Tra banche e fondazioni
Santo potere, la mappa (quasi) segreta
di Vit. Mal.


Che cos’hanno in comune l'ex sciatore svizzero Pirmin Zurbriggen (campione olimpico e mondiale) e la scrittrice italiana Susanna Tamaro? Semplice, entrambi fanno parte del comitato di patronage della Fondazione Limmat di Zurigo. Assieme a loro troviamo una dozzina di personalità internazionali dall’Arciduca Rodolfo d’Austria, all’ex commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Jean Pierre Hocké. Nel nome del beato Josemaria Escrivá, tutti partecipano in veste di consulenti alla gestione di una delle fondazioni chiave per comprendere l’attività e il potere dell’Opus Dei.
Nata per sostenere attività benefiche in giro per il mondo, la Limmat, che prende il nome dal fiume che attraversa Zurigo, possiede in realtà anche partecipazioni in società di capitali come, in Italia, il campus Biomedico, l’ospedale dell’O-pus Dei a Roma. Ancora più importante in questa geografia del potere è un’altra fondazione zurighese, la Uninter Stiftung, a cui fa capo la società in accomandita Cbm, a sua volta titolare di una quota rilevante del Campus.
La vera e propria holding italiana dell’Opus si chiama invece Rui partecipazioni. Da qui si dirama una ragnatela di interessi in società che controllano importanti attività immobiliari, i centri culturali e le residenze universitarie su cui si fonda la presenza dell’Opera in Italia. Difficile fare un calcolo preciso di quanto possa valere questo patrimonio in case e palazzi, spesso nel centro di grandi città come Roma e Milano.
Il potere dell’Opus però non sta solo nei suoi bilanci, per quanto ricchissimi. I fedeli del beato Escrivá occupano posizioni di vertice nel mondo dell’economia e della finanza. Difficile fare nomi. Salvo poche eccezioni, tutti (o quasi) gli interessati negano legami con l’Opera. È il caso, per esempio, dell’ex presidente dello Ior, la banca del Vaticano, Ettore Gotti Tedeschi, considerato molto vicino all’Opus.
NEL MONDO delle grandi banche vengono accreditati di legami con la prelatura anche Paolo Biasi, imprenditore e numero uno della Fondazione Cariverona, a cui fa capo una quota importante di Unicredit. Sempre a Verona c'è un altro banchiere di peso come Carlo Fratta Pasini, presidente del Banca Popolare, la sesta banca italiana per valore di Borsa.
Dopo la morte di Gianmario Roveraro (rapito e assassinato nel luglio 2006) il manager di riferimento per il mondo Opus Dei è invece un capitano di lungo corso della finanza nazionale come Giuseppe (Pippo) Garofano, già braccio destro di Raul Gardini ai tempi della Montedison. Garofano guida il gruppo Alerion (energie alternative) e a sostegno delle sue iniziative ha raccolto capitali da famiglie amiche come i Gavio e i Ligresti.
Liste segrete, bilanci inesistenti: in assoluto non si può certo dire che le strutture di vertice della prelatura siano un monumento alla trasparenza. Eppure, a fine giugno, il Vaticano ha affidato l’incarico di advisor per la comunicazione a un giornalista targato Opus Dei come l’americano Greg Burke, 52 anni. Obiettivo: migliorare l’immagine della Chiesa cattolica dopo gli scandali dei mesi scorsi. Nel segno della trasparenza, hanno assicurato dalle parti di Piazza San Pietro.

il Fatto 15.7.12
Escrivà il preferito delle stanze vaticane


Setta, loggia massonica all’interno della Chiesa, crocevia di grandi interessi economico-finanziari, simpatie franchiste, baluardo anticonciliare, argine tradizionalista alla teologia della Liberazione sudamericana, eccetera. Nel corso dei decenni – a torto o a ragione – dell’Opus Dei si è detto di tutto un po’. È tuttavia difficile negare che la prelatura fondata dal sacerdote spagnolo Josemaria Escrivá non sia (anche) un centro di potere internazionale, con profonde entrature nelle più segrete stanze vaticane, soprattutto durante il lungo papato di Giovanni Paolo II (Joaquin Navarro Valls, il principale collaboratore di Karol Wojtyla, ne fa parte). L’ideale di “santità nella vita quotidiana” professato dall’O-pus Dei, esplicitato dal suo fondatore come strumento “per aiutare ogni persona che vive nel mondo a condurre una vita pienamente cristiana, senza dover cambiare il suo stile di vita quotidiano, né il suo lavoro abituale, né i suoi ideali o aspirazioni”, ha storicamente favorito la penetrazione dell’Opera soprattutto tra i ceti sociali più alti, nel mondo dell’industria e dell’alta finanza.
L’OPUS DEI viene fondato a Madrid il 2 ottobre 1928 e – secondo i suoi oppositori – si sviluppa anche grazie alla benevolenza verso il regime fascista di Francisco Franco. Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale l’Opera varca i confini iberici e si diffonde dapprima in Portogallo, Inghilterra, Italia, Francia, Irlanda, Stai Uniti e Messico, quindi in Giappone, Filippine, Australia e in molti paesi africani. Giuridicamente è una prelatura personale (l’unica esistente all’interno della Chiesa cattolica), ossia una struttura gerarchica posta sotto la giurisdizione di un prelato nominato dal papa. I fedeli (uomini e donne) si dividono in “numerari”, “aggregati” e “soprannumerari” (laici non vin-colati dal celibato apostolico, la maggior parte della comunità). Secondo dati pubblicati nel 2011 i fedeli laici dell’Opus Dei sarebbero circa 88 mila in tutto il mondo.
Escrivá, morto nel 1975, è stato beatificato il 17 maggio 1992 e canonizzato da Giovanni Paolo II il 6 ottobre 2002 (in piazza San Pietro si ricordano le presenze di Francesco Rutelli, Massimo D’Alema e Walter Veltroni) a soli 21 anni dall’inizio della causa di santificazione. Assieme a quella di Padre Pio, è la più rapida della storia. L’attuale prelato, succeduto nel 1994 ad Alvaro del Portillo, è il vescovo spagnolo Javier Echevarrìa Rodriguez.

il Fatto 15.7.12
Da Cl ai Legionari: gli affari delle lobby benedette
Don Verzé, i “furbetti” e a sttua della madonna regalata a Fiorani
di Gianni Barbacetto


Le sigle cambiano (Cl, Opus Dei, Figli dell’Immacolata, Legionari di Cristo, Sigilli del Monte Tabor...), ma l’antifona è la stessa: a chi chiede conto di affari milionari e rapporti politici, rispondono che sono gruppi religiosi, esperienze ecclesiali, comunità di fede. Vero. Cl è una “fraternità”, cioè una associazione di laici cristiani fondata da don Luigi Giussani. L’Opus è una “prelatura personale della Chiesa cattolica che aiuta tutti i fedeli a cercare la santità nel loro lavoro”. I Figli dell’Immacolata Concezione sono una congregazione religiosa fondata nel-l’Ottocento da Luigi Maria Monti, un infermiere che andava in giro vestito da prete senza esserlo mai stato. I Legionari sono una congregazione nata in Messico per impulso di Marcial Maciel Degollado. I Sigilli di don Luigi Verzé sono un’associazione di cristiani che s’impegnano al celibato e “a dedicare l’intera vita per il compimento della missione dell’Opera” del fondatore.
Vita religiosa, “sequela di Cristo”, fedeltà alla Chiesa. Peccato che poi quelle sigle si ritrovino spesso in cronache che raccontano di affari molto terreni, di budget milionari, di scandali clamorosi. Le organizzazioni più grandi e transnazionali, come l’Opus Dei e, su scala più ridotta, Cl, ripetono da anni di essere movimenti ecclesiali, senza responsabilità alcuna per le opere, le imprese, le avventure finanziarie, le attività politiche (e gli eventuali reati) dei loro aderenti.
Appalti celesti
Certo risulta però difficile distinguere a occhio nudo, per esempio, Cl-movimento religioso da Cl-sistema di potere costruito attorno a Roberto Formigoni. Negli ospedali lombardi e nel sistema sanitario, ma anche nelle società a partecipazione regionale, la presenza di uomini di Cl è fortissima e l’appartenenza alla sua sfera d’influenza, magari attraverso l’adesione alla Compagnia delle Opere, diventa essenziale per non essere esclusi dagli affari, dagli appalti pubblici, dalle carriere di rilievo. Difficile anche distinguere l’Opus dalle banche e dalle imprese dove operano i suoi aderenti (“soprannumerari”, cioè laici). Nel sito in italiano dell’Opera, resta dal luglio 2006 una pagina dedicata al finanziere Gianmario Roveraro, ucciso allora dopo un misterioso rapimento. Sono apertamente rivendicate come “iniziative apostoliche” dell’Opus alcune attività come l’Università Campus Bio-Medico e il Centro Elis (scuola di formazione professionale) di Roma, oltre a numerosi collegi universitari in tutta Italia (Fondazione Rui, associazione Arces, istituto Ipe, residenza Torrescalla eccetera). L’Opus e Cl avranno certo una ricca vita religiosa, ma funzionano anche come potenti lobby che costruiscono carriere, implementano affari, stringono rapporti politici. Hanno i loro cardinali di riferimento in Vaticano, i loro vescovi nelle conferenze episcopali, i loro politici nei Parlamenti e nelle amministrazioni. Se già è difficile distinguere attività religiosa e imprese economiche in organizzazioni grandi, ma pur sempre molto gerarchiche e soggette a stretti sistemi di controllo e voti d’obbedienza, quasi impossibile distinguerle in gruppi più piccoli, come i Figli dell’Immacolata e i Legionari di Cristo, o piccolissimi, come i Sigilli di don Verzé. Devoti ai Legionari erano Antonio Fazio, governatore di Bankitalia durante le scalate dei “furbetti del quartierino”, e sua moglie Ma-ria Cristina, che aveva regalato allo scalatore Gianpiero Fiorani una speciale statua della Madonna. Il banchiere della Popolare di Lodi, in una esilarante telefonata intercettata, racconta alla signora Fazio di essersi addormentato abbracciato alla statua e di essersi poi risvegliato con un bozzo provocato dall’abbraccio: un bozzo “della Madonna”. Ma la signora Fazio nelle sue telefonate tranquillizza Fiorani e lo rassicura che il marito sosterrà la sua scalata. Il banchiere la ringrazia dicendole: “Tu sei l’aquilone, devi volare alto”. Fazio dovrà dimettersi per l’appoggio dato agli scalatori. I Legionari finiranno invece coinvolti in un brutto scandalo sessuale, con il fondatore accusato di pedofilia.
S. Raffaele e il crac
I Sigilli di don Verzé sono stati travolti dal buco di un miliardo e mezzo di euro che ha rischiato di far fallire il San Raffaele. Dopo la morte del fondatore, hanno perso il controllo dell’ospedale, anche se ogni tanto riemergono voci secondo cui misteriose cordate straniere con ancor più misteriosi fondi esteri sarebbero pronte a scendere in campo per strappare la creatura di don Verzé all’“usurpatore” che lo ha ora acquistato, Giuseppe Rotelli. I Figli dell’Immacolata sono coinvolti nello scandalo che sta facendo traballare i due ospedali romani della congregazione, l’Idi e il San Carlo di Nancy. Il don Verzé alla romana, in questa storia, è padre Franco Decaminada, padre padrone delle due strutture sanitarie, ora indagato dalla Procura di Roma per associazione a delinquere finalizzata all’appropriazione indebita e all’evasione tributaria. I due ospedali hanno un buco di almeno 600 milioni di euro che i magistrati della Capitale sospettano siano precipitati in un buco nero a causa della gestione di padre Decaminada: appalti agli “amici” e forniture pagate più del dovuto. Agnelli o lupi? Tempi duri per le lobby religiose in affari. Dal ciellino Formigoni all’Immacolato Decaminada, le inchieste giudiziarie pretendono di mettere il naso negli affari fatti in nome di Dio. Non c’è più religione.

il Fatto 15.7.12
Padre Georg vescovo, il paracadute per proteggerlo dopo Vatileaks
Il Papa pensa alla nomina, ma il segretario vuole restargli accanto
di Carlo Tecce


La comunicazione vaticana è silenziosa. Può sembrare un controsenso, ma è un gioco di ruoli e di gesti. E la prossima nomina a vescovo di padre Georg Gaenswein, segretario personale di Benedetto XVI, prima cardinale verso la pensione e poi successore di Giovanni Paolo II, va in questa direzione: non spiega nulla, ma significa tanto. Vuol dire che il Papa teologo prima versione accreditata in Santa Sede ha deciso di insistere con il gruppo di collaboratori che indicò nei primi mesi di pontificato, ormai più di sette anni fa, e che soffrono le guerriglia interna. La divisione fra opposte fazioni è arrivata al punto di massima tensione con la pubblicazione di lettere e documenti riservati e la caccia ai colpevoli e ai mandanti, il capitolo Vatileaks. Seconda versione: il Papa fa Gaenswein vescovo per mostrargli una graduale via d’uscita.
Il 56enne ex vicario del Duomo di Friburgo, appassionato di calcetto e clarinetto, non vuole, però, abbandonare l'appartamento papale. Ne hanno discusso insieme di recente. Don Georg ha già rifiutato un'offerta per un incarico in Germania per restare accanto a Benedetto XVI, che quasi casualmente aveva affiancato nel 2003, quando l'ex assistente Josef Clemens venne promosso al Pontificio consiglio per i laici. Padre Georg ha vissuto in prima persona la cattura di Paolo Gabriele, il maggiordomo ancora rinchiuso in Gerdameria che sarà processato a settembre. Quando i libri e i giornali italiani riportavano la corrispondenza privata del pontefice, che passava il controllo proprio di Gaenswein, l'opposizione vaticana non è stata morbida con l'ex docente di Diritto canonico, molto familiare al sistema Opus Dei. Fra la tempesta che rovinava i rapporti fra il cardinale Tarcisio Bertone e la squadra dei diplomatici che lo contestavano e ne chiedevano la rimozione, c'era la figura seriosa di don Georg: il filtro tra il Papa e l'esterno, colui che gestisce l'agenda, le telefonate, i colloqui. Chissà se Benedetto XVI ha ancora intenzione di avvicendare Bertone, il primo ministro vaticano, come gli suggeriva qualche anziano cardinale tornato in auge, ma l'investitura di padre Georg a vescovo può anticipare la conseguente nomina di Prefetto aggiunto della Casa pontificia. Un rango inedito che spettò, per riconoscenza e amicizia, a don Stanislao Dziwisz, l'irrinunciabile consigliere di Karol Wojtyla. Ricevuta la coppia di onorificenze, vescovo e prefetto, don Georg diventerebbe necessario, ancora di più, per qualsiasi contatto con il Papa. Nonostante che dal '98 il Prefetto, il numero uno, sia James Michael Harvey, come ricorda Giacomo Galeazzi sul sito de La Stampa. L’arcivescovo statunitense è praticamente insostituibile perché, avendo allevato e raccomandato Paolo Gabriele, una sua eventuale cacciata sarebbe vista come una punizione. E il Papa non vuole punire. Anzi, preferisce creare buone condizioni per il futuro. Non c'è bisogno di un sondaggio per sapere che don Georg ha tanti nemici, invidiosi per la sua vicinanza spirituale con il pontefice. Persino Josef Clemens, che spesso ospita a cena l'amico Ratzinger, potrebbe spendere qualche ragione contro il suo successore. E finanche Bertone, quando non gradisce il comportamento di Ganswein, cioè molto di frequente. Ma il Papa non vuole premiare il segretario personale soltanto per affetto, ma soprattutto, a 85 anni compiuti, per evitare scontri di poltrone e potere. Don Georg è consapevole di aver un posto prenotato e ora in sospeso: la Congregazione per le cause dei santi. Quando vuole, può andarsene. Da vescovo.

Repubblica 15.7.12
La Germania: “Italia disumana con i profughi”
I tribunali fermano i rinvii. Già sei sentenze: “Strutture inadeguate, sussistenza a rischio”
di Giampaolo Cadalanu


BERLINO ENTRATI in Europa attraverso il nostro Paese e arrivati in Germania, due coniugi con tre bambini provenienti dalla Siria dovevano essere rispediti in Italia, secondo le leggi che regolano il diritto di asilo. Ma a causa delle «sistematiche manchevolezze» del nostro sistema di accoglienza e del modo in cui viene applicato il diritto d’asilo, i cinque erano a rischio di «trattamento inumano o mortificante». Perciò, niente rinvio: sarà la Repubblica federale a valutare la richiesta d’asilo della famiglia. Non è la prima volta che i tribunali amministrativi fanno questa valutazione, ha detto ai giornalisti la portavoce della corte di Stoccarda. Sentenze simili sono state emesse a Lüneburg, Friburgo, Karlsruhe, Düsseldorf, Augusta, Gelsenkirchen e Magdeburgo. A convincere i giudici del Baden-Württemberg è stato il racconto dei cinque profughi: l’Italia li aveva accolti in un centro di accoglienza, chiusi in una stanza assieme a un’altra famiglia, senza letti né coperte, con un pasto al giorno e nient’altro. Dopo una sommaria raccolta di informazioni, le autorità italiane gli avrebbero chiesto di lasciare il paese. Secondo i giudici, la grande maggioranza dei richiedenti asilo in Italia non trova protezione o riparo, né accesso sicuro ad acqua, cibo ed elettricità, per non parlare delle condizioni sanitarie. Insomma, in tema di richiedenti asilo l’Italia non è in grado di adempiere agli impegni presi: secondo la sentenza, «le strutture di accoglienza per i profughi sono totalmente sovraccariche di lavoro». Questa condizione non migliorerà in breve, sostiene il tribunale di Stoccarda, e dopo la “primavera araba” si può pensare piuttosto a un peggioramento. In Italia la famiglia palestinese sarebbe spinta a condurre «una vita sotto il livello minimo di sussistenza » e «a rischio di restare senza tetto». Sono valutazioni pesantissime: l’ufficio federale per le Migrazioni ha cercato di alleviarle sottolineando con Der Spiegel che «sia pure con qualche mancanza, l’Italia adempie gli standard europei sul diritto di asilo». Ma i lettori hanno riempito il sito web del settimanale con commenti sdegnati. C’è chi chiede che il conto finale delle spese per i profughi sia spedito al governo di Roma, chi lascerebbe «gli italiani sotto la pioggia», chi accusa il nostro Paese di «buttare fuori bordo il diritto internazionale » e chi riconosce che la Germania «usa il sud Europa come zona cuscinetto» per non affrontare il problema migrazioni. Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, taglia corto: «La sentenza di Stoccarda non è la prima in questo senso. Anche se, a differenza di quello che accade per la Grecia, l’Alto commissariato non chiede agli stati di evitare di rimandare in Italia chi chiede asilo, ma di valutare caso per caso, nell’interesse dei rifugiati».

l’Unità 15.7.12
Noi proprio non li abbiamo voluti vedere

Luigi Canrini risponde a Paolo Izzo
qui

Repubblica 15.7.12
“E se lo fa ancora? Ho paura di tornare a Brindisi”
Parla Veronica, la 15enne sopravvissuta alla strage e dimessa ieri dal Centro ustionati di Pisa
di Michele Bocci


PISA — Dopo un mese di rianimazione e altri 20 giorni di ricovero, dopo cinque interventi per stendere pelle sana sopra le ferite e una serie infinita di medicazioni e lavaggi, Veronica Capodieci è stata dichiarata fuori pericolo. La ragazza ferita più gravemente nell’attentato del 19 maggio a Brindisi è dunque guarita. Può essere dimessa e tornare a casa, a Mesagne. Ma ha paura. «E se succede di nuovo? E se quello esce dalla prigione e lo rifà? », si è sfogata in questi giorni con i genitori nella sua stanza del centro ustioni di Pisa. Perché Veronica è sotto shock, ha il terrore che Giovanni Vantaggiato possa colpire ancora. L’ha visto l’altra sera in tv: «Guarda come è brutto», ha detto al padre seduto accanto al suo letto. È stata una delle rare volte in cui ha parlato dell’attentato. Non si è mai informata su come stavano le altre ragazze rimaste ferite, non ha mai chiesto di Melissa, che conosceva solo di vista. «Mi dispiace, era molto carina, aveva un bel visino», si è limitata a dire. Il trauma le fa avere paura di tutto: delle cure, delle persone e soprattutto del futuro. «Non voglio vedere nessuno, voglio rimanere in reparto», ha ripetuto ai genitori. Solo negli ultimi giorni ha cambiato idea: «Mi piacerebbe andare in piscina», ha detto al primario del Centro ustioni, Antonio Di Lonardo, che ieri ha deciso di dimetterla. Prima di tornare in Puglia farà riabilitazione alle Terme di Casciana. Avrà anche assistenza psicologica per tornare a vivere i suoi 15 anni. Veronica per quasi 50 giorni è stata chiusa in una stanza con le pareti azzurre e piena di monitor, tubi e tubicini, sacche per le flebo, lettini speciali per i bagni disinfettanti. Solo pochi oggetti rimandavano alla camera di una adolescente: un televisore, un comodino con i dvd di Twilighte del Re Leone, un blocco e i pennarelli. Chi voleva starle accanto doveva mettersi camice, cuffia e mascherina. Il fuoco le ha mangiato la parte sinistra del corpo. È arrivata a Pisa il 24 maggio in condizioni critiche, dopo 15 giorni di ricovero a Brindisi. Si è temuto che non ce la facesse. Anche sua sorella Vanessa, 18 anni, è stata travolta dall’esplosione: «Quando le bombole sono scoppiate ero davanti a Melissa e dietro a Veronica — racconta, interrompendosi per la commozione — Mi sono alzata per cercare mia sorella. Anche lei era in piedi, cosciente. Il fianco era ferito e l’ho coperta con un giubbotto. Non aveva più le scarpe, che erano leggere e sono volate via, e i jeans stavano ancora bruciando. Glieli ho strappati e mi sono ustionata le mani. Veronica piangeva ma restava cosciente. Intorno c’erano tante persone, tutte immobili, come bloccate dallo shock per quelle che era appena successo». La famiglia Capodieci si è spostata a Pisa. I genitori Maurizio e Lorena vivono in una foresteria dell’ospedale. «All’inizio potevamo vedere nostra figlia solo attraverso il vetro — racconta il padre — era incosciente in rianimazione. Ci sedevamo sulle panchine fuori dall’ospedale e pregavamo. Il giorno in cui Veronica si è girata verso di noi e ha alzato il pollice per salutarci e tranquillizzarci è stato il più emozionante». Durante il ricovero si è fatto vivo anche il padre di Melissa. «Ha chiesto di venire a trovarci — dice Maurizio Capodieci — Ho detto no, temevo che con lui si sarebbero presentati giornalisti e telecamere ». Sono passati per un saluto anche i sopravvissuti della strage di Viareggio. «In tanti ci stanno vicini, il professor Di Lonardo, i medici, gli infermieri. Voglio ringraziare il sindaco di Mesagne, il presidente della Provincia di Pisa, la chirurgia toracica di Lecce». Il nome Giovanni Vantaggiato non strappa emozioni particolari ai Capodieci. «Quando è scoppiata la bomba non ci siamo chiesti chi fosse stato. Pensavamo solo alla salute delle nostre figlie. Quando ho visto che avevano preso il responsabile — dice il padre delle ragazze — non me ne è fregato niente, la tragedia personale supera l’odio. Spero solo che uno così non esca mai più dal carcere. Sarebbe uno scandalo. E se succedesse, per lui sarebbero guai seri. Ci deve essere più sicurezza vicino alle scuole, perché per le nostre bimbe sono una seconda casa».

Il Fatto 15.7.12
Il servizio pubblico che non c’è
di Furio Colombo


La Rai porta male? No, ma non porta voti”. Cito una sorprendente rivelazione di Pierluigi Battista ( Corriere della Sera, 9 luglio) che smentisce con coraggio sia Silvio Berlusconi che Mitt Romney. Berlusconi aveva appena ordinato al presidente del Senato di cambiare in fretta e furia un membro della Commissione di Vigilanza sulla Rai perché non prometteva esecuzione fedele e rigorosa delle istruzioni per l’uso della televisione secondo il Pdl. Romney ha appena annunciato di avere superato i fondi raccolti da Obama per trasmettere il numero più alto di spot televisivi contro l’avversario. Battista ha un suo argomento, valido solo per l’Italia. Dice: “Un minimo, solo un minimo di aderenza ai fatti dimostra che il controllo della Rai non ha mai favorito il partito dei controllori”. L’affermazione è inesatta, Vostro Onore, e basteranno due frasi per smontarla. Prima frase. Le due vittorie di Prodi sono sempre state minime e risicate (la seconda volta con la maggioranza di uno, come i gatti delle canzoncina del Mago Zurlì), le tre vittorie di Berlusconi, invece, ottime e abbondanti. Frase due. Berlusconi, da grande editore in perfetto conflitto di interessi, ha sempre mantenuto controllo ed egemonia su Tv private e di Stato anche quando non era al governo. Chi vuol farsi nemico il più grande editore del Paese?
L’EVIDENZA continua anche adesso. Qualcuno sa dove si trova o che cosa fa adesso Sarkozy, fino a poche settimane fa iperattivo presidente francese con bella e celebre moglie italiana? Ma nel Paese del conflitto di interessi, anche Battista vorrà convenire che abbiamo sempre saputo tutto, e sappiamo tutto di Berlusconi, compreso un dimagramento di quattro chili che lui annuncia come prova che si candiderà di nuovo. Ma il problema sollevato da Pierluigi Battista è espresso anche più nettamente, in una sfida coraggiosa alle diffuse credenze del mondo, che lui ritiene “pura superstizione”. Sentite: “Ovviamente quelli che fingono di saperla molto lunga e con aria assorta spiegano che è la Tv a decidere le sorti elettorali, potrebbero domandarsi con ficcante perspicacia perché i partiti sono così infervorati per conquistare la Rai? ”. La domanda è strana perché la seconda parte è il rovescio della prima e contiene la risposta. Infatti la risposta (dello stesso Battista) è: “Perché la Tv non porta voti ma potere. Ecco che si compie, di fronte a noi, un nuovo esercizio retorico, mai tentato prima: dire e negare nella stessa frase. Infatti il potere sono voti. E i voti sono potere. Infatti, alla fine dell’articolo, il vicedirettore del Corriere della Sera scrive: “Che qualche secondo in più di una nota politica di qualche telegiornale sia sufficiente per generare seguito elettorale è solo una superstizione. “Scrivere una frase simile su un grande giornale nel Paese di Minzolini, dove intere notizie di portata internazionale sparivano, o apparivano gravemente lesionate (la famosa soppressione dell’audio nello scontro tra Berlusconi e il deputato Martin Schulz al Parlamento europeo) è certamente un atto di sprezzo del pericolo. Però, perché continuare a negare – e dunque rilanciare – il caso italiano del conflitto di interessi, denunciato dalla grande stampa del mondo, e reso possibile da un clamoroso caso di cedimento dell’opposizione, che non ha mai voluto insistere sullo scandalo? E serve poco negare che il vasto controllo dell’editoria italiana provochi notevoli anomalie di voto, di opinione e di governo.
È UN’ALTERAZIONE che dura da quasi venti anni e che non esiste altrove. Fabiano Fabiani (già direttore di telegiornale, già direttore centrale Rai in tempi molto diversi, e ora presidente dei produttori televisivi) e Riccardo Tozzi (presidente dei produttori di cinema) descrivono così lo stato in cui è stata ridotta la Rai divenuta deposito di cascami politici e di un vasto conflitto di interessi fra padrone abusivo e azienda disastrata: “Attenzione maniacale ai contenitori e ai Tg come strumenti di comunicazione partitica, ipertrofia delle strutture burocratiche e dei costi generali, appiattimento dell’offerta sempre allo stesso pubblico (...) in un quadro di complessiva chiusura autoreferenziale e corporativa. (...) Occorre invertire la rotta, recuperare il senso del servizio pubblico, che è un mestiere difficile: aprirsi all’esterno e parlare a un pubblico vasto, con una lingua che sappia far crescere la conoscenza e il gusto. “(Il Messaggero, 11 luglio ). Ecco, questa sarebbe una televisione che non cerca i voti, ma la propria naturale missione di informazione, di cultura, di divertimento. L’altra, invece, quella che esiste adesso, quella partitica denunciata così spesso, in un mare di silenzio, da Pannella e dai Radicali, ma poco, troppo poco, dal Partito democratico non è stata inventata da Berlusconi. Ma Berlusconi ne ha fatto il suo mausoleo. La salma del berlusconismo dentro la Rai è rimasta in loco, come quella di De Pedis (banda della Magliana) sepolta per 20 anni in una illustre chiesa romana, fino a quando – a richiesta generale – ne è stata ordinata la rimozione. Ora vedremo se si provvederà, per prima cosa, allo spostamento in altri tumuli dei resti di un regime finito.

l’Unità 15.7.12
«Siria, se l’Onu non agisce è licenza di massacro»
L’ira di Ban Ki-Moon dopo il massacro al villaggio di Tremseh
Hollande, duro attacco a Cina e Russia Ancora bombe a Homs
di Umberto De Giovannangeli


La paralisi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu sulla crisi siriana equivale a «un permesso al massacro». Un j’accuse pesantissimo, tanto più significativo perché a pronunciarlo è il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, facendo riferimento alla strage di giovedì a Tramseh e ai suoi oltre 150 morti. Il numero uno del Palazzo di Vetro ha chiesto al Consiglio di Sicurezza, ancora diviso sulla crisi siriana, di «inviare un messaggio forte a tutto il mondo, dicendo che ci saranno conseguenze» se il regime di Damasco non rispetterà le risoluzioni Onu e il piano di pace di Kofi Annan, ritirando i militari e le armi pesanti dalle città siriane. «Chiedo a tutti gli Stati membri (del Consiglio di Sicurezza, ndr) di prendere una decisione collettiva e determinata per fermare immediatamente la tragedia in Siria», ha dichiarato Ban. «L'inazione equivale a un permesso al massacro», ha insistito, definendo la strage di Tramseh «un massacro orribile».
A parole, la condanna del regime di Bashr al-Assad è quasi unanime. E durissima. A parole. Il segretario della Lega Araba Nabil el Araby ha bollato come «crimine odioso» il massacro di Tramseh, sostenendo che, come nel caso della strage di Hula, si tratta di «pulizia etnica». In una dichiarazione sul sito della Lega, el Araby ha detto che la responsabilità di questo crimine ricade sul regime siriano che «utilizza armi pesanti per aggredire i civili». El Araby ha fatto appello – l’ennesimo di una interminabile serie al Consiglio di Sicurezza Onu perché adotti una risoluzione vincolante che obblighi Damasco a cessare le violenze.
«Non c'è più molto da dire riguardo alla Siria. Questo massacro disumano, questo tentativo di genocidio non sono altro che segnali premonitori della caduta del regime», incalza Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Da Ankara all’Eliseo. Nel corso di un recente incontro a Parigi, «ho detto al presidente Vladimir Putin che la cosa peggiore che possa succedere è una guerra civile in Siria e che bisogna lavorare insieme per trovare una soluzione politica ed evitare una guerra civile. Siamo ancora in tempo», dichiara il presidente francese, François Hollande Ma il tempo in Siria non lavora per la pacificazione.
Il tempo, in Siria, è scandito da massacri pressoché quotidiani. I morti, dall’inizio della rivolta, sono oltre 17mila, in gran parte civili, e ancor di più sono gli sfollati. Sono ormai praticamente a quota 40mila i profughi e disertori siriani rifugiati in Turchia secondo la Direzione per la gestione delle emergenze e dei disastri (Afad) di Ankara. Ai 38.914 siriani ospitati già l’altro ieri nelle province lungo il confine, si sono aggiunti ieri altre 549 persone in fuga dai combattimenti in corso nel Paese arabo. Nove degli ultimi arrivati, feriti, sono stati ricoverati negli ospedali della provincia turca di Hatay riferisce l'agenzia Anadolu. Fra i profughi che hanno trovato rifugio in Turchia ci sono 4511 minori.
L’ATTACCO DEI SOLDATI
Intanto centinaia di soldati siriani, supportati da elicotteri da combattimento, hanno attaccato ieri una città nel sud del Paese. «I soldati sono entrati senza incontrare resistenza, perché i ribelli dell'Esercito libero siriano hanno lasciato la città», ha raccontato Bayan Ahmad, attivista della città di Khirbet Ghazaleh, nella provincia di Daraa. L'attacco è stato riferito anche dall'Osservatorio siriano per i diritti umani. «I bombardamenti hanno causato il ferimento di decine di persone, ma noi non abbiamo i mezzi necessari per curarle», ha aggiunto l'attivista. Un convoglio di 11 mezzi Onu è arrivato ieri a Tramseh, stando a quanto riferito dal portavoce della missione delle Nazioni Unite, Sausan Ghosheh. Una pattuglia di ricognizione si era recata l’altro ieri nel villaggio nel centro della Siria, per garantire il via libera agli osservatori, ha ricordato Ghosheh. Venerdì la pattuglia «ha valutato la situazione per accertarsi che i combattimenti fossero cessati e che avessimo accesso alla città» e sabato, «abbiamo inviato un convoglio per verificare i fatti».
Ancora cronaca di guerra: almeno 30 persone, di cui 22 civili, sono rimaste uccise ieri nelle violenze in Siria, dopo le 120 contate l’altro ieri, secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus). L'organizzazione non governativa, con sede a Londra, precisa che sette civili, compresi una donna e quattro bambini, di cui tre della stessa famiglia, sono morte quando un proiettile di mortaio è caduto sulla casa in cui si trovavano nel quartiere di Al Jubeila a Dayr az Zor. Sei ribelli sono invece stati uccisi in scontri con le forze governative vicino alla frontiera con la Turchia, nella cittadina di Al Tel. E la mattanza continua, mentre all’Onu va in scena il solito copione.

La Stampa 15.7.12
Se il rabbino deve fare il soldato
Perché se studi da rabbino non devi fare il soldato?
È in gioco l’identità di Israele nella battaglia in corso per l’arruolamento degli studenti ultraortodossi, finora esonerati dal servizio militare
di Abraham B. Yehoshua


La sempre più infuocata battaglia sull’obbligo dell’arruolamento di migliaia di giovani appartenenti alle comunità religiose più radicali è fra le più importanti che si siano svolte negli ultimi anni per l’identità di Israele. Se le istituzioni politiche e la protesta popolare riusciranno a costringere i giovani ultra ortodossi ad arruolarsi nell’esercito, o almeno a prestare servizio civile, sarà forse possibile arrestare la pericolosa erosione della società israeliana dovuta non solo alla disuguaglianza dei doveri dei cittadini verso lo Stato ma anche alla crescente prevalenza dell’identità religiosa sul nazionalismo democratico.
Negli ultimi secoli centinaia di ebrei religiosi hanno avuto seri problemi nei confronti del servizio militare. L’arruolamento presso un esercito straniero veniva vissuto da un ebreo osservante come un incubo. Di colpo, da una comunità protettiva e da una chiara identità religiosa, si ritrovava catapultato in un ambiente militare rigido e completamente estraneo, dove era costretto a trasgredire alle regole religiose, a consumare cibo a lui proibito e a violare la santità del sabato e delle festività ebraiche. Per un giovane ortodosso il servizio militare equivaleva quasi a una conversione forzata e faceva quindi il possibile per evitarlo. Sussisteva inoltre il problema morale di combattere contro un esercito nemico nelle cui file avrebbero potuto trovarsi soldati ebrei provenienti da altri Paesi e, di conseguenza, il timore di poter uccidere un proprio confratello.
Nella letteratura ebraica di fine diciannovesimo e inizio ventesimo secolo si trovano racconti e poesie che descrivono la situazione di giovani ebrei che facevano di tutto per eludere il servizio militare infliggendosi ferite o fingendosi matti. Eppure molti di loro venivano comunque «rapiti» (è questa l’espressione usata) per essere arruolati nell’esercito, andando così «persi» al popolo ebraico. Per quanto concerne la questione del servizio militare nella diaspora l’identità ebraica veniva dunque sottoposta a una dura prova morale, sia dal punto di vista interno alla comunità che esterno a essa. Gli ebrei osservanti cercavano con tutte le loro forze di esimersi dall’obbligo della leva reputando che le società non ebraiche in cui vivevano non li considerassero in ogni caso cittadini con pari diritti e li avrebbero sempre visti come stranieri. Viceversa quegli ebrei che aspiravano a una totale uguaglianza erano fieri di essere stati reclutati nell’esercito e prestarvi servizio era per loro la prova di meritare tutti i diritti che le comunità nazionali riservavano ai cittadini non ebrei.
Molto toccante fu la situazione degli ebrei tedeschi arruolatisi durante la Prima Guerra mondiale che avevano rischiato la vita e ottenuto onorificenze ma che, all’epoca del terzo Reich, furono mandati nei campi di concentramento e brutalmente privati dei loro diritti. Anche gli ebrei sovietici, molto fedeli all’Armata Rossa durante la Seconda Guerra mondiale e spesso insigniti di medaglie al merito, non ottennero il riconoscimento che si meritavano dal regime sovietico-stalinista. Non c’è quindi da stupirsi che poche settimane fa, durante una visita di Putin in Israele, decine di anziani israeliani si siano presentati davanti a lui, fieri e impettiti, con decorazioni e medaglie sovietiche per ricordare al nuovo zar di Russia l’eccellente servizio prestato da molti ebrei alla loro vecchia patria.
Quando lo Stato di Israele fu fondato, agli ebrei venne data l’opportunità di dimostrare la loro piena identificazione con il Paese mediante l’arruolamento nell’esercito, divenuto un valore nazionale di primo piano. Ricordo in particolare quei sopravvissuti alla Shoah, profughi prostrati nel fisico e nello spirito, che, arrivati in Israele durante la guerra di Indipendenza del 1948, vennero immediatamente arruolati nell’esercito e alcuni di loro, salvatisi solo pochi anni prima dall’inferno di Hitler, caddero in battaglia per liberare Gerusalemme dall’assedio o per respingere l’esercito egiziano giunto in prossimità di Tel Aviv.
La domanda, quindi, è com’è possibile che i giovani ultra-ortodossi siano esonerati dal servizio militare in un Paese che continua a lottare per la propria esistenza? Quali sono i motivi religiosi di tale esenzione e perché il sistema politico nazionale laico ha accettato questa terribile situazione?
Quando fu introdotta la coscrizione obbligatoria per tutti i cittadini dopo la fondazione di Israele alcuni rabbini delle comunità ultra-ortodosse si rivolsero al primo ministro e fondatore dello Stato David Ben Gurion con la richiesta di esonerare dall’obbligo della leva circa quattrocento studenti delle accademie rabbiniche perché potessero continuare lo studio della Torah. La motivazione che portarono a quella richiesta era ragionevole e perfino commovente: durante la Shoah centinaia di migliaia di studenti dei centri talmudici erano stati trucidati e lo studio della Torah era stato completamente annientato. Quindi, affinché la catena non venisse spezzata, chiedevano che gli studenti meritevoli fossero esonerati dal servizio militare così da potersi dedicare giorno e notte allo studio della Torah. Quei rabbini si rivolgevano a BenGurion da una posizione di doppia sconfitta. Innanzi tutto una sconfitta teologica. Infatti, anche a chi crede ciecamente che nel mondo tutto si svolga sotto l’occhio vigile di Dio che regola la storia in base a leggi di ricompensa e castigo, era difficile spiegare quale peccato religioso o morale avessero mai commesso milioni di bambini ebrei trucidati nei campi di sterminio. Il silenzio del Cielo durante la Shoah era stato talmente assoluto che persino uno strano e distorto ragionamento talmudico non poteva trovarvi giustificazione e spiegazione. E poiché quei rabbini rappresentavano comunità religiose che si opponevano fortemente al movimento sionista ecco che le loro suppliche non potevano non ricevere risposta. E infatti Ben Gurion, primo ministro sionista e laico, si lasciò convincere e, trasgredendo la regola governativa della coscrizione obbligatoria, concesse un’esenzione speciale a quattrocento studenti meritevoli delle accademie rabbiniche perché potessero continuare a studiare la Torah.
All’epoca vivevano in Israele pressappoco un milione di ebrei. Oggi ve ne sono all’incirca sei milioni, ovvero sei volte di più, mentre il numero degli studenti delle accademie talmudiche esentati dal servizio militare è aumentato del 150 per cento ed è di circa 60 mila. Come è potuta succedere una cosa simile? Le ragioni sono complesse e sarebbe impossibile enumerarle tutte. Ma la principale è dovuta al potere politico dei partiti religiosi, divenuti ago della bilancia tra la destra e la sinistra soprattutto in periodi di grandi scontri ideologici quali la soluzione del conflitto con i palestinesi. Dato che in Parlamento si sono verificate situazioni di quasi parità tra il blocco della sinistra e quello della destra sono stati spesso i partiti religiosi a determinare chi avrebbe governato il Paese. E poiché molti membri della destra israeliana sono rispettosi della tradizione e talvolta anche osservanti, era naturale che godessero delle simpatie dei religiosi e, in cambio di queste, continuassero a garantire l’esonero dal servizio militare a un numero sempre maggiore di studenti talmudici che oggigiorno beneficiano anche di ragguardevoli borse di studio trasformando così lo studio della Torah in un proficuo stato di inattività.
Naturalmente, quanto più è aumentato il numero dei ragazzi esentati dal servizio militare, tanto più è cresciuto quello degli attivisti politici dei partiti religiosi e, di conseguenza, il loro potere. E quanto più è aumentato il loro potere tanto più si è rafforzata la loro arroganza, non solo politica ma anche teologica. E si sentono discorsi scandalosi del tipo: «il Sionismo è colpevole della Shoah», oppure «Le vittorie dell’esercito israeliano non sono dovute al coraggio dei soldati ma allo studio della Torah nelle scuole talmudiche, sempre più numerose in Israele». E, per arroganza, alcuni di loro non sono disposti a rispettare il minuto di silenzio nel giorno della memoria dei caduti e girano provocatoriamente per le strade a dimostrazione di non essere parte dello Stato e della solidarietà sionista.
In Israele si è formato un ascesso purulento che deve essere curato. Molti giovani ortodossi non vogliono infatti proseguire gli studi religiosi e non sarebbero nemmeno in grado di continuare ad affrontare la ripetizione estenuante e priva di scopo di testi scritti secoli fa. In cuor loro vorrebbero imparare professioni utili nel campo della scienza e degli studi sociali e integrarsi nella società israeliana. In cuor loro non vorrebbero essere soldati fedeli di una realtà religiosa e arcaica controllata da rabbini dagli orizzonti limitati ma cittadini produttivi della società israeliana nella quale, per essere accettati, occorre prestare, come condizione essenziale, il servizio militare.
Quante volte sono stati fondati partiti il cui principale obiettivo politico era l’arruolamento degli ultraortodossi nell’esercito? Ma nonostante tutti gli sforzi non si è mai venuti a capo di nulla. Nel corso dell’ultimo anno i fautori della protesta sociale che hanno avanzato richieste di una maggiore uguaglianza economica e giustizia sociale hanno capito che l’esenzione di un numero spropositato di ortodossi dal servizio militare e il loro mantenimento agli studi religiosi sono un onere finanziario che accresce la disuguaglianza in Israele. Pertanto, alla loro protesta si è aggiunta la richiesta di arruolare questi ultraortodossi e tale richiesta ha creato una situazione che costringe l’ampia coalizione del governo Netanyahu (ormai indipendente dall’appoggio dei partiti religiosi) ad intervenire per correggere un’evidente ingiustizia. Netanyahu sarà in grado di prendere una decisione contro i partiti ricattatori a lui tradizionalmente fedeli? I prossimi giorni saranno cruciali per il destino della democrazia israeliana. "Paradossalmente anche allievi delle università rabbiniche vorrebbero entrare nella società ma per essere accettati è condizione essenziale prestare il servizio militare L’esenzione di un numero spropositato di ortodossi e i loro mantenimento agli studi religiosi sono un onere finanziario che accresce la disuguaglianza nel paese Netanyahu sarà in grado di prendere una decisione contro i partiti ricattatori a lui tradizionalmente fedeli? I prossimi giorni saranno cruciali per il destino della democrazia israeliana"

La Stampa 15.7.12
Ghilad Shalit da ex ostaggio a star mediatica
di A. B.


Per la festa nazionale del 14 luglio, l’ambasciatore di Francia in Israele Christophe Bigot ha voluto con sé due ospiti d’onore: il capo dello Stato Shimon Peres e Ghilad Shalit, il soldato liberato lo scorso ottobre dopo una lunga prigionia a Gaza.
In suo onore l’ambasciatore ha sollevato un calice di vino: «La sua presenza testimonia la saldezza delle relazioni fra i nostri Paesi» ha detto a Shalit, che detiene anche la cittadinanza francese. Il giovane si è limitato a replicare con un sorriso impacciato. Per quanto trascurabile, l’episodio è stato ripreso dalla stampa, che è ormai travolta dalle apparizioni in pubblico del giovane per cui il Paese ha palpitato per sei anni.
Da un lato, l’ex prigioniero tace sulla sua traumatica esperienza e sul prezzo che Israele ha dovuto pagare a Hamas: la liberazione di mille palestinesi reclusi per aver realizzato o assecondato attentati terroristici. Dall’altro, Shalit pare ormai onnipresente: in posa nelle discoteche, nei concerti pop, nei set cinematografici e negli stadi di basket.
Ora qualcuno comincia a storcere il naso. In particolare dopo che il quotidiano più diffuso, Yediot Ahronot, gli ha dedicato la copertina di un suo supplemento e ha iniziato a pubblicare una sua rubrica settimanale nelle pagine dello sport. «È evidente – nota il polemista Mati Golan – che la proposta non è scaturita da una sua particolare perspicacia in questioni agonistiche», ma piuttosto, suggerisce, dal tentativo di soddisfare una certa morbosità dei lettori. Verso la famiglia Shalit, l’umore nazionale sta mutando: Ghilad, gli viene mandato a dire, viva pure la sua vita. Ma non urti la sensibilità dei familiari delle vittime degli attentati per i quali la sua liberazione ha significato la riapertura di dolorose ferite.

Corriere 15.7.12
Franco Debenedetti: vietando la circoncisione si finisce per impedire la pratica dell'ebraismo
«Se a Berlino lo Stato liberale nega se stesso»
di Maria Serena Natale


Franco Debenedetti: vietando la circoncisione si finisce per impedire la pratica dell'ebraismo
«Lo Stato liberale secolarizzato vive di principi che esso stesso non è in grado di garantire». Franco Debenedetti riflette sulla recente sentenza della Corte di Colonia contro la circoncisione alla luce del paradosso formulato dal filosofo e giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde e citato in un'analisi del quotidiano conservatore — e liberale — Frankfurter Allgemeine Zeitung. Per assicurare la libertà «interna» sulla quale si fonda, lo Stato deve in sostanza rinunciare parzialmente all'intento dichiarato di garantire la libertà stessa e assumersi la responsabilità dell'imposizione. Cosa comporta questo principio quando ci si addentra nell'insidiosa terra di confine tra libertà di culto e Stato di diritto?
«È un tema complesso che, calato nella realtà storica e sociale della Germania, si carica di molteplici risonanze. Significativa l'intensità e la profondità con la quale la stampa ha analizzato la vicenda» risponde al Corriere l'ex senatore ds, osservatore attento delle dinamiche interne alla società tedesca e delle relazioni tra Berlino e l'Europa, recentemente intervenuto sulla crisi dell'euro sulle pagine del giornale finanziario Handelsblatt. A fine giugno è stata resa nota una sentenza della Corte d'appello di Colonia che definisce la circoncisione di un minore per motivi religiosi una violazione della sua integrità fisica, penalmente perseguibile (il caso riguardava un bambino di quattro anni, musulmano, che aveva avuto complicazioni dopo il rito). La competenza dei giudici di Colonia è limitata territorialmente e la stessa cancelliera Angela Merkel ha preso le distanze dal verdetto, definito dal presidente della conferenza dei rabbini europei Pinchas Goldschmidt «il più grave attacco alla comunità ebraica dai tempi dall'Olocausto», essendo la pratica un rito costitutivo dell'ebraismo — il «patto della circoncisione» fu comandato da Dio ad Abramo. La sentenza ha innescato una spirale verbale ed emotiva difficilmente controllabile.
«In primo luogo — dice Debenedetti — il verdetto va inserito nel contesto della cultura giuridica tedesca, rigorosa e logicamente concatenata. Buona parte dei medici e l'Organizzazione mondiale della sanità indicano i vantaggi di una circoncisione. Quindi, i giudici non possono aver condannato la pratica in sé, ma le motivazioni religiose per le quali i genitori l'hanno voluta. Se applichiamo alla lettera il principio giuridico indicato dalla Corte, ne consegue che un ebreo in Germania non può praticare la propria religione. Un assurdo, che dimostra l'inaccettabilità della sentenza». Il ragionamento giuridico non arriva a bandire il rito, ma raccomanda di aspettare l'età del consenso affinché il soggetto possa disporre liberamente del proprio corpo. Ragionamento che secondo Debenedetti aggira però un nodo fondamentale. «La responsabilità della cura e dell'educazione del minore ricade in pari modo sullo Stato e sulla famiglia. E nella cura rientrano diverse declinazioni del concetto di tutela, oltre che fisica, spirituale: il modo in cui questo può essere praticato si apre a uno spazio amplissimo. Ne deriva il diritto-dovere per i genitori di inserire il bambino nel suo ambiente, fatto di relazioni comunitarie, riti e tradizioni. È giusto che lo Stato vigili e impedisca il ricorso a pratiche rituali non consentite e nocive come l'infibulazione, ma la difesa da rischi sanitari legati alla religione non deve diventare difesa dalla religione. Su questo punto concordo con Giuliano Ferrara, contrario al positivismo giuridico alla Kelsen che vuole ricondurre tutto alla legge». Ma fuori dalla legge ricade la vita, con le sue concrezioni di memoria e simboli sulle quali si fonda lo stesso Stato. Su un piano puramente teorico, Debenedetti accosta il caso Colonia a un'altra disputa giuridica che sta appassionando i tedeschi: la Corte costituzionale dovrà esprimersi sulla costituzionalità del fondo salva Stati europeo e di recente il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha invitato i giudici a una valutazione tempestiva, per non alimentare la turbolenza dei mercati. «La società tedesca è lacerata tra la cultura giuridica del rispetto rigoroso della legge e la coscienza della realtà, quel presente mutevole e volatile nel quale la legge s'invera. E il presente è carico di passato, in Germania più che altrove».

Corriere 15.7.12
Carità ai bianchi e assalti ai migranti L'offensiva di Alba dorata ad Atene
Il partito di ultradestra fa leva sulla miseria crescente dei greci
di Alessandra Coppola


ATENE — Qualcuno ha vergogna. Una signora anziana, nel caldo atroce che dura fino a sera, si nasconde sotto un foulard di finta seta e occhiali da sole. Una giovane donna, una smorfia di sofferenza, tiene insieme il biberon, le buste che i volontari hanno riempito di alimenti, la tessera del partito e il collo della maglietta del bambino, perché non si perda nella confusione. Eleni non ne fa una questione di politica: «Vivo con 400 euro di pensione di invalidità, due figlie e due nipoti. Almeno per oggi a cena i ragazzi mangeranno patate fritte».
In fila per la pasta e l'olio ci sono gli abitanti del centro storico di Atene, a decine, ridotti alla fame dalla crisi, assediati dai migranti, spinti tra le braccia del partito d'estrema destra Alba dorata. «A chiamarci nazisti sono i ricchi che hanno la colf straniera a pulirgli la villa, noi siamo vicini alla gente»: la bionda Eugenia Christou, moglie di un parlamentare e leader delle donne del partito, coordina gli «interventi sociali», ed è l'unica vestita di bianco. Al quartier generale il colore è nero, al massimo azzurro come la bandiera della Grecia, oppure rosso nello striscione con il meandro che imita la svastica e copre il balcone del primo piano. La sede è su due livelli: sopra, bar e sala riunioni; sotto, vendita di gadget e libri (Göbbels compreso), un ufficio e due volte alla settimana un volontario che raccoglie richieste e paure. «Ci stiamo organizzando per uno sportello quotidiano».
Gli uomini con i pantaloni della tuta o i bermuda che lasciano vedere il kalashnikov tatuato sul polpaccio. Le ragazze con le t-shirt del partito e le unghie dipinte. La serata è speciale: la prima grande distribuzione di cibo nel cuore della capitale. Arriva pure un prete ortodosso a dar sostegno. I soldi, spiegano, vengono dalle sottoscrizioni e da una parte dello stipendio dei 18 neodeputati. Anche l'auto blu è a disposizione del popolo. Greco, s'intende. «Gli immigrati a casa!».
Non solo slogan. Qui, soprattutto nel quartiere di Agios Panteleimonas, che prende il nome dalla grande chiesa ortodossa in piazza, ogni notte si formano ronde che sempre più spesso diventano spedizioni punitive, un cappuccio in testa e una mazza in mano, a caccia di stranieri. Quando il viso resta scoperto, le vittime riconoscono tra gli aggressori ragazzotti della zona, gli stessi che bazzicano la sede di Alba dorata. È successo cinque volte a casa di Razia Sharife, afghana, che vive da sola con tre bambini, al piano terra, alle spalle della chiesa. In un'occasione c'era anche Eva Cossé di Human Rights Watch: «Hanno lanciato oggetti pesanti contro porta e finestra di vetro, rompendole. È durato qualche minuto, ho visto sagome nere fuggire». La polizia è a 300 metri, ma non ha sentito, spesso non vuole sapere, a volte approva. I giornali greci hanno scritto che un agente su tre ha votato Alba dorata.
Sul gesso che tiene fermo il polso destro Saleh Ibrahim ha scritto dei numeri: 22.06.12. «È il giorno in cui mi hanno aggredito». Somalo, 26 anni, clandestino: «In sei mi hanno seguito, mi sono voltato: uno brandiva un bastone, mi sono protetto la testa con il braccio, sono caduto, m'hanno preso a calci…». Per i quartieri del centro Yunus Mohammadi, leader degli afghani, non passa più da tempo, «al massimo in auto», e ha distribuito ai connazionali una mappa delle zone che è meglio evitare: «Hanno attaccato la sede della mia associazione mentre tenevo un corso di greco, sono andato dalla polizia che ancora grondavo sangue, non hanno voluto prendere la denuncia…».
La sera Agios Panteleimonas è una piazza di apartheid: solo bianchi. «Islamici e sporchi negri fuori. Sono stato io a far chiudere il giardinetto: l'avevano riempito loro, ci pregavano, si drogavano, uno schifo». L'uomo ha cinquant'anni, sportivo e abbronzato, siede ogni sera ai tavolini chiari di una trattoria, è uno dei capi della «bonifica». È nato in Germania, figlio di emigrati, e ci è rimasto fino a 18 anni. Ora presidia le sue conquiste. Rapporti con l'estrema destra? «Partecipo a qualche riunione». I raid anti immigrati? «Alla violenza si risponde con la violenza».
La data spartiacque è il 10 maggio 2011, quando un greco di 44 anni che accompagnava la moglie a partorire è stato ucciso da tre stranieri per una videocamera. L'innesco è lì: in due giorni 25 attacchi e un bengalese accoltellato a morte. Il governo parla di «episodi isolati», ma il rapporto diffuso martedì da Human Rights Watch denuncia brutalità sistematiche e casi inquietanti, addirittura donne incinte all'ottavo mese prese a calci per strada.
Professore di Diritto in pensione, Christos Roubanis fa parte del Movimento di abitanti del Sesto dipartimento, la risposta progressista alle ronde: «Ma non posso negare che la situazione sia ingestibile. Questo era un quartiere di classe media, che man mano s'è trasferita nei sobborghi. Così sono arrivati i migranti». E sono rimasti in trappola. Pessimo trattamento per i richiedenti asilo (denuncia da tempo l'Unhcr), nessuna possibilità di ottenere i documenti. «E con la crisi zero speranze di lavorare, anche in nero». La criminalità è aumentata del 125% tra il 2010 e il 2011, dati della polizia. «E gli ateniesi non c'erano abituati — spiega Spyros Koulocheris, del Consiglio greco per i rifugiati —: adesso il centro è pericoloso, la gente è esasperata, e gli immigrati sono il perfetto capro espiatorio. Più che razzismo e rigurgiti di estrema destra, è disperazione». Eppure Spyros, come molti attivisti, ha cominciato a ricevere strane telefonate: minacce.
Ad Atene afa insopportabile, pessime previsioni.

l’Unità 15.7.12
Il laboratorio di Karl Marx
I Grundrisse tornano in libreria dopo 15 anni d’assenza
di Marcello Musto

qui

l’Unità 15.7.12
Da Togliatti a Bersani: la strana storia che ossessiona Cicchitto
di Bruno Gravagnuolo


TITOLO NON PROPRIO ORIGINALE, MA RIASSUNTIVO DI UNA TESI: La linea rossa. Più elaborato il sottotitolo: Da Gramsci a Bersani. L’anomalia della sinistra italiana (Mondadori, pp. 417, Euro 20). Eccola la chiave del libro-manifesto di Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera del Pdl, ex Psi confluito in Forza Italia, «testa pensante» del berlusconismo. E il senso è questo: il vero male italiano sta nella storia e nelle doppiezze della sinistra. A partire dalla «linea rossa» tracciata dal Pci fin dalle origini, malgrado l’originalità di Antonio Gramsci. Nel mirino di Cicchitto (come già in Galli Della Loggia) ci sono perciò Togliatti e il suo «partito nuovo», tappo malefico contro il «riformismo» e matrice di sviluppi negativi. Che hanno portato quel partito nelle sue «metamorfosi» alla dissoluzione e al «giustizialismo». E al «massimalismo» irrisolto dentro il Pd, reo a sua volta di aver inchiodato l’Italia a un bipolarismo selvaggio. Nonostante le promesse «post-ideologiche». Insomma, una vera requisitoria contro il ruolo e l’eredità di quella che fu la maggiore forza della sinistra italiana, senza sconti al cattolicesimo sociale, a Dossetti, Moro e alla sinistra Dc. Tutte realtà accomunate nel complesso «mediatico-giudiziario», governate obliquamente da «poteri forti» e grande stampa. Contro Berlusconi. Lasciamo da parte il complottismo». E fermiamoci su quel tanto di storiografico che pure c’è, nel lungo saggio. Ad esempio, il nesso Gramsci-Togliatti. Tesi curiosa quella di Cicchitto. Da un lato per l’autore, il Migliore avrebbe falsificato Gramsci. Dall’altro è costretto a riconoscere che Togliatti, nel contesto geopolitico di allora usò bene Gramsci e le sue idee. E le rese fruibili. Fino a costruire «genialmente» un partito di massa con un vasto insediamento di alleanze, roba impossibile senza la lezione gramsciana. Ma allora i conti non tornano, e delle due l’una. O Togliatti tradì Gramsci o lo applicò. Lo stesso autore parla di un Gramsci «revisionista», ma comunista. Ancora: Togliatti e la Svolta di Salerno. Anche qui Cicchitto è preda di luoghi comuni. E finisce sulla scia di Aga-Rossi e Zaslavski, col parlare di una «duttilità» togliattiana del tutto prona a Stalin, senza originalità alcuna. Una sciocchezza, contraddetta da fatti e documenti.
Perché è ben vero che il disco verde a Togliatti sul governo Badoglio venne da Stalin, tra il 3 e 4 marzo 1944. Ma è indiscutibile che quella soluzione di «unità nazionale», Togliatti l’aveva annunciata di suo, fin dal settembre 1943. Reiterandola fino al gennaio 1944, quando fu «bloccato» dalla pregiudiziale antimonarchica ciellenista (incluso il suo Pci). E dalla pausa impostagli dall’Urss, che attendeva di venir riconosciuta dal governo Badoglio. Poi lo «sblocco». Con Stalin consenziente, ma su una originaria intuizione togliattiana: «in fase» con gli equilibri geopolitici di Yalta. E non manca la litania su «Pci e Br», cavallo di battaglia di Rossanda, della destra e dell’ultimo Pansa. Tema connesso all’«illegalismo» del Pci, moderato da un Togliatti prudente, ma pur sempre pronto a fare la rivoluzione con Longo e Secchia. Stucchevole, vien voglia di dire. Se non fosse per un particolare curioso: l’ammirazione malcelata di Cicchito per il capolavoro luciferino e astuto costituito dal Pci nella storia d’Italia. Invidia rimossa di un vecchio socialista di sinistra, nei confronti del suo ex fratello maggiore?
Il resto è la «storia» del Pci, Pds, Ds, sopravvissuto ideologicamente per via «giudiziaria». Entità «anomala», confluita alfine nel Pd. E poi quella del manicheismo «amico-nemico» dei «cattocomunisti», contro l’àncora di salvezza democratica offerta all’Italia da Berlusconi. Fino al Pd di oggi, a Monti e ai dilemmi del dopo Monti. E ancora una volta riemerge il paradosso che segna tutto il libro: da un lato Cicchitto maledice la persistenza delle radici materiali e ideali delle culture di centrosinistra. Dall’altro le magnifica vituperandole. Senza spiegarsi la loro lunga durata. Quanto a Berlusconi, per Cicchitto è caduto per via dei mercati finanziari, dei giudici e del rigore di Tremonti. Non già per suoi errori. Cicchitto si ostina ancora a vederlo come fondatore incompreso di un «bipolarismo normale», che a destra dovrebbe andare «oltre Berlusconi». Uno schemino falsificato dalla dura realtà, visto che Berlusconi si ricandida, e la destra è nel marasma. Mentre il Pd si sta rilanciando come autentico partito. In conclusione ne risulta capovolto il teorema sull’«anomalia» della sinistra in Italia. Anomala e senza identità risulta ormai solo la destra. Quella su cui scommise il socialista di sinistra Cicchitto.

Repubblica 15.7.12
Da Gramsci ad Einaudi per rifondare il Paese
di Eugenio Scalfari


DAI mercati finanziari italiani sono arrivate venerdì tre buone notizie: i Bot a dodici mesi sono stati oggetto di ampia domanda e collocati a tassi molto più bassi rispetto a quelli registrati appena un mese fa; i Btp a tre anni hanno avuto anch’essi notevole successo e anch’essi hanno segnato un tasso inferiore di un punto rispetto a giugno. Infine la Borsa di Milano ha snobbato il declassamento dell’Italia con un aumento dell’1 per cento rispetto al giorno precedente. Dunque risparmiatori e operatori italiani e stranieri hanno ricominciato a comprare i titoli emessi dal Tesoro e non solo a breve ma anche a medio termine. Lo “spread” del Btp decennale è ancora molto elevato sul mercato secondario, ma il Tesoro ha saggiamente deciso di rallentare le emissioni a lunga scadenza in attesa che il meccanismo di intervento deciso dall’Europa entri concretamente in funzione. Ci vorranno alcuni mesi e fino ad allora le emissioni quinquennali e decennali saranno ridotte al minimo senza alcun nocumento per il finanziamento del fabbisogno. Queste le buone notizie. Ma il “downgrading” di Moody’s, anche se Piazza degli Affari ha risposto con un’alzata di spalla, non è campato in aria. Non è un declassamento economico ma politico, segnala un elemento negativo per il dopo-Monti e a ragione perché quegli elementi negativi esistono e il “rieccolo” di Berlusconi è uno di quelli e va quindi analizzato con estrema attenzione. Berlusconi sa che avrà un flop elettorale, questo è già nel conto. Se dovesse arrivare al 20 per cento dei consensi sarebbe oggettivamente un successo clamoroso. Ma il suo problema non è questo. Il suo problema è di mantenere in vita un simulacro di partito e impedirne l’implosione in mille frammenti. Questo risultato l’ha già ottenuto, è bastato l’annuncio della sua ri-presentazione per bloccare la fuga dei quadri, delle clientele e dei rimbambiti del “Silvio c’è”. Moderati? Ma quali! Conservatori? Non se ne vedono in giro. Liberali? Forse Ostellino, ma con lui non si va lontano. Niente di tutto ciò, ma i suoi colonnelli ex An restano in linea, Cicchitto anche, Quagliarello e Lupi pure, perfino Scajola, perfino Galan. Forse arriva Storace. Certamente Miccichè. E Daniela. Daniela è la vera vincitrice. I Santanché-boys non valgono più dell’1 per cento, ma è il “folk” che conta. Il partito non c’era, non c’è mai stato e continua a non esserci, ma le clientele sì, quelle ci sono sempre state e adesso serrano i ranghi. Certo, ci vuole una legge elettorale che assecondi. E poi quel pizzico di bravura nell’ingannare i gonzi, specie quelli di mezza età. Sono tanti in questo Paese e per lui sono l’ideale. Allora forza con l’aquilone tricolore, forza coi discorsi del predellino. E se ci fosse un pazzoide che gli tirasse un sasso in faccia come avvenne a Piazza del Duomo qualche anno fa, beh quello sarebbe l’ideale. Il partito non c’è mai stato, ma volete che non ci sia un 15 per cento di allocchi che poi, su un 60 per cento di votanti sarebbe più o meno il 7 per cento della platea elettorale? Questo è l’obiettivo. Ma ci vuole una legge elettorale come si deve e questo è lo strumento necessario.
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Niente più bipolarismo, niente più sistema maggioritario. Per raggiungere l’obiettivo ci vuole un sistema proporzionale, su questo non si discute. Chi altri vuole quel sistema? Certamente la Lega. Certamente Casini. Dunque la maggioranza c’è. Soglia di sbarramento alta ma ragionevole (serve a scoraggiare le possibili liste del para-centro, diciamo alla Montezemolo). Un premio al primo partito, ma molto ridotto, diciamo il 10 per cento. Preferenze o collegi, oppure un mix tra liste con preferenze e collegi. Un sistema proporzionale di questo tipo va a pennello per la Lega e per Berlusconi. Anche per Casini che in quel caso sarebbe molto più forte nella possibile alleanza postelettorale con il centrosinistra. Se prevalesse un sistema maggioritario l’alleanza Casini-Bersani dovrebbe essere pre-elettorale; col proporzionale si fa dopo e ci si fa tirare per la calzetta. La differenza è evidente. Diciamo: il partito dell’Aquilone al 15-18 per cento, l’Udc all’8-10, il Pd (con Vendola in pancia) al 25-30 e al 35 col premio. Non c’è maggioranza se non tutti e tre insieme. E tutti e tre al governo. E Monti che li presiede. Questo è il progetto, pacatamente ma fermamente sponsorizzato da Giuliano Ferrara. Non malvisto dai montiani del Pd. Per il Berlusca un terno al lotto. Per Casini anche. Per la spazzatura mediatica anche: campane a festa per il “Giornale”, campane a festa per “Libero” e campane con doppia festa per il “Fatto” che potrebbe di nuovo sparare col suo fucile a due canne non solo contro la casta di centrosinistra ma anche contro quella berlusconiana che sembrava scomparsa. Un governo lobbistico presieduto da un anti-lobbista. Grillo all’opposizione ma un po’ spompato (lo è già). Maroni pronto a rientrare in gioco ma a ranghi ridotti. Non è un cibo digeribile. Allora la domanda è questa: c’è un’alternativa?
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Prima di ragionare sulla possibile alternativa debbo però formulare due osservazioni, pertinenti e non marginali. Ernesto Galli della Loggia ha descritto sul “Corriere della Sera” che cos’è in realtà la classe dirigente italiana e che cosa sono nella loro maggioranza gli italiani: un Paese che da trent’anni si è auto-paralizzato dandosi una struttura corporativa, clientelare, mafiosa in tutti i sensi. Insomma una casta nazionale, mondo dei “media” compreso e senza eccezioni. Consento in gran parte con la diagnosi di della Loggia, ma non su quest’ultimo punto. L’informazione castale ha avuto le sue eccezioni, caro Ernesto, e tu lo sai bene. L’eccezione principale è stata “Repubblica” fin da quando esiste, cioè dal 1976. E prima di Repubblica l’eccezione era stata “L’Espresso”. Nei pochi anni della sua direzione l’eccezione fu anche il “Corriere” diretto da Piero Ottone. La seconda osservazione riguarda invece la “scivolata” di Mario Monti sul tema della concertazione, che sarebbe stata «dannosa per l’Italia perché ha determinato la formazione d’un sistema assistenziale che favorisce i privilegi di pochi a scapito della libera partecipazione di molti e specialmente dei giovani. E perché ha reso possibile la creazione d’un debito pubblico enorme che è la causa delle nostre attuali difficoltà ». Questa “scivolata” — come già è stato scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale — è storicamente sbagliata. La concertazione fu introdotta da Giuliano Amato e soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e rese possibile il superamento della crisi in quegli anni e l’ingresso in Europa durante il ministero Prodi-Ciampi. Ma prima di allora, dieci anni prima d’allora, senza bisogno di concertare, il sindacalismo operaio — come allora lo si chiamava — aveva imboccato da solo la via dell’austerità per realizzare la piena occupazione. Luciano Lama fu il vessillifero di quella politica e la proseguì fin tanto che rimase al suo posto, fiancheggiato da analoga posizione di Giorgio Amendola e poi anche di Enrico Berlinguer. La differenza di ora rispetto all’allora sta nel fatto che la classe operaia non somiglia più in nulla a quella di Lama e di Amendola. Non è più un blocco sociale portatore di valori e interessi generali, ma un coacervo di contratti, di precariato, di immobilismo parcellizzato. Uno sfrizzolio innumerevole. Dalla spigola al sale — direbbe uno chef — al fritto misto. In questa situazione Camusso e Bonanni cercano di tutelare il fritto misto. Che cos’altro potrebbero fare? Perciò, caro presidente Monti, lei condanna un fenomeno che non c’è più e che, quando ci fu, risultò positivo e non vincolante perché — come Ciampi può testimoniare meglio d’ogni altro — a monte e a valle della concertazione restava sempre e comunque la decisione del governo e del Parlamento. Quanto al debito pubblico, fu creato dalla partitocrazia dell’epoca come tante altre magagne che abbiamo ancora sulle spalle.
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L’alternativa è la sinistra e il centro che debbono crearla e debbono farla, pena l’irrilevanza in cui stanno precipitando. Anzi: in cui sono già precipitati. Ho letto nei giorni scorsi due articoli scritti da persone con biografie politiche diverse ma tutte e due marcatamente di sinistra: Alfredo Reichlin sull’“Unità” e Alberto Asor Rosa sul “Manifesto”. Tutti e due gli autori arrivano a conclusioni analoghe: la sinistra deve scoprire nuovi orizzonti e ad essi improntare la sua azione. Non esiste più la sinistra autarchica operante nei singoli Stati nazionali. Esiste già un’economia globale; esisterà — se vuole sopravvivere — un’Europa-Stato. In queste nuove condizioni la sinistra non può che esser riformista. Radicalmente riformista. Deve coniugare i valori della libertà con quelli dell’eguaglianza. Deve togliere le bende che l’hanno da tempo mummificata. Deve disciplinare la concorrenza con le regole. Deve smantellare i privilegi, le mafie, le clientele, a cominciare dalle proprie. E il centro deve fare altrettanto. Non è più tempo di radunare i moderati. Bisogna radunare i liberali, quelli veri e non quelli fasulli. Quelli che non vogliono i privilegi, le rendite, i monopoli, che detestano la demagogia e la legge del più forte. A quel punto si accorgeranno — il centro e la sinistra — che non solo il loro obiettivo, ma la loro stessa natura è identica. Questa è l’alternativa. A me ricorda lo slogan “giustizia e libertà”; ad altri potrà legittimamente ricordare Giuseppe Di Vittorio, Lama e Amendola, Antonio Labriola e Gramsci, ad altri ancora Giustino Fortunato e Danilo Dolci, ed anche Luigi Einaudi delle «Lezioni di politica sociale». Andate a rileggerli quei testi, voi Bersani, voi Casini, voi Vendola, voi Pisapia, voi Tabacci. Giorgio Napolitano li conosce bene, lui è sempre stato un uomo di sinistra anche se da Capo dello Stato ha appeso quella vocazione all’attaccapanni prima di varcare la soglia del Quirinale. Un uomo di sinistra, di quella sinistra. Non c’è un’altra strada. Quella è la sola vincente e l’obiettivo è di rifondare l’anima dei democratici e chiamare a raccolta gli spiriti liberi e forti del Paese. Forse è la maggioranza degli italiani, ma se non lo fosse pazienza, si lavorerà per il futuro. Nell’uno come nell’altro caso sarà comunque una vittoria. Berlusconi — ovviamente — con queste prospettive non ha niente a che fare. Lui rappresenta l’Italia di Santanché che certo non è la nostra.

Corriere La Lettura 15.7.12
Come ingannare il cervello
I meccanismi di suggestione e autosuggestione: così tendiamo a credere a magie e ideologie
di Sandro Modeo


«Mundus vult decipi, ergo decipiatur»: «il mondo vuole essere ingannato, quindi sia ingannato». L'antica sentenza — a volte con vulgus, popolo, al posto di mundus — sembra trapassare le ere, viaggiando come una formula immutata dal prontuario dei demagoghi di età classica o moderna alle architetture astratte del Web. Una via privilegiata per risalire a questa inseparabilità tra l'inganno e la predisposizione-propensione a subirlo, è penetrare le sequenze mentali che legano gli illusionisti e il loro pubblico: via seguita da due coniugi del Barrow Institute di Phoenix, Stephen Macknik e Susana Martinez-Conde, lui specializzato in neuroscienze del comportamento, lei in neurofisiologia della visione. Dopo aver frequentato per anni «maghi» e prestigiatori famosi in mezza America (da Mac King al «Grande Tomsoni», da Apollo Robbins a Penn & Teller) ed eleggendo a loro guida l'esemplare più astuto e avvertito della specie (Magic Tony), Macknik e Martinez-Conde hanno costruito, con l'aiuto della giornalista del «New York Times» Sandra Blakeslee, un libro bifronte, in cui le tecniche magiche — spesso in convergenza con quelle di marketing — rivelano in controluce i limiti e i «lati deboli» del nostro cervello; e in cui le neuroscienze — a rovescio e a complemento — descrivono e spiegano nei dettagli il come e il perché di quelle vulnerabilità, arrivando a definire ogni sfumatura del nostro assetto percettivo-cognitivo (I trucchi della mente, Codice, traduzione di Benedetta Antonielli d'Oulx, pagine 274, 25).
A monte (o alla base) di una catena di vertigini controintuitive — una o più per ogni trucco svelato nel libro — c'è quella del rapporto tra cervello e realtà esterna. Ogni vero mago sembra infatti sapere, per istinto e/o esperienza, che le nostre menti sono «macchine associative» tese a cercare ordine, simmetria e nessi causa-effetto (e a rifuggire, al contrario, caos, caso e incoerenza narrativa), secondo schemi ereditati dai nostri antenati preistorici, impegnati a sopravvivere in un mondo scandito da dinamiche di fuga/predazione. Il nostro cervello, quindi, è già di suo una fabbrica di «illusioni». Illusoria è la continuità del flusso visivo: senza i «serpeggiamenti» dei movimenti saccadici — che fanno di ogni occhio «un colibrì sotto effetto di cocaina» — saremmo temporaneamente ciechi. Illusoria è la fluidità della coscienza (del Sé), in realtà segmentata in tante micro-scene estese da ¼ di secondo a 20 secondi (durata media tre secondi). E illusorio, su tutto, è il «libero arbitrio», come mostrano gli esperimenti recenti di John-Dylan Hayes del Max Planck Institut (conferme di quelli pionieristici di Benjamin Libet) da cui emerge come l'inconscio decisionale anticipi a volte di 7 secondi la consapevolezza di una nostra scelta.
In questa tessitura — insieme fragile e tenacissima — i «maghi» sono abili a trovare ogni tipo di fenditura in cui insinuarsi, spezzando sequenze causali «abitudinarie» con altre inaspettate, fino a farci vedere qualcosa che non c'è (o viceversa) o a alterare la nostra percezione spazio-temporale. A livello visivo, sfruttano i nostri deficit «periferici» o la «scarica postuma» (il restare abbagliati da certe luci) per muovere carte o azionare fili invisibili; oppure, conoscendo la nostra dipendenza dai «contrasti» per discriminare oggetti e movimenti, inscenano numeri di Black Art come quello di Omar Pasha, che fa apparire/sparire cose e persone (anche parzialmente: vedi il ragazzo decapitato) sfilando/ri-infilando custodie, guanti o cappucci neri (persino su sedie e candele) su un compatto fondale di velluto nero, con mimetismo da camaleonte. E a livello visivo-cognitivo (o meglio sensoriale-cognitivo) il ventaglio di schemi su cui agire è ancora più vasto: si può usare la «sensazione postuma» per sottrarci un orologio che sentiamo ancora al polso quando è già stato sfilato; la «legge di continuità di direzione» (la nostra tendenza a completare comunque un'architettura percettiva, creando un «intero» da informazioni frammentarie) per farci credere che testa e piedi di una donna segata in due appartengano alla stessa persona (quando invece siamo noi ad armonizzare una testa «reale» e dei piedi «virtuali») ; o la nostra negazione al multitasking (a poterci concentrare su più oggetti o operazioni insieme) per sviarci con la misdirection, attirando la nostra attenzione sulla mano che non sta eseguendo il trucco (un po' come la finta del rigorista al portiere) o con la «forzatura», distraendoci con la voce o con i gesti per farci scegliere dal mazzo una carta prestabilita. In sintesi la destrezza e la velocità contano meno della capacità di diversione e dell'«inganno neurobiologico», come si è potuto notare anche in questi giorni nei campionati mondiali di magia a Blackpool. Questa abilità dei maghi a sfruttare da un lato i nostri limiti percettivo-cognitivi (la nostra alta selettività nella visione e nell'attenzione), dall'altro la nostra ossessiva «confabulazione» a trovare ovunque nessi causa-effetto, innesca una domanda più estesa: la possibile soggezione a «magie» più pervasive e strutturate, quali le credenze, i pregiudizi e le ideologie. Un conto, infatti, sono correlazioni illusorie (relativamente) innocue come la «fallacia del giocatore» (convinto, dopo 150 uscite del rosso alla roulette, che aumentino le probabilità di uscita del nero, quando rimangono 50 a 50) ; un altro i sacrifici umani aztechi, compiuti ogni mattina per rinnovare il sorgere del sole (anche se non vanno valutati con moralismo a posteriori).
E qui, può tornare utile un altro libro, Suggestione (Bollati Boringhieri, pagine 176, 15), in cui il filosofo Andrea Cavalletti — ricostruendo le soggezioni ipnotiche, il mesmerismo e l'isteria tra Sette e Novecento — inquadra la figura del mago come incarnazione letterale e metaforica di una manipolazione «politica». In particolare, scegliendo «l'orrendo Cipolla» del racconto di Thomas Mann (Mario e il mago) come trasposizione narrativa di Mussolini e Hitler (già dal dettaglio dello sguardo pietrificante che troviamo in altri ipnotisti coevi, come il dottor Mabuse di Fritz Lang), Cavalletti delinea in profondità il degenerare «atmosferico» — storico e psicologico — di una democrazia in demagogia-dittatura. E se forse cede troppo a spiegazioni sociologiche (in primis Foucault), la sua diagnosi sulla malìa — più che magia — messianica che cementa le folle in un illusorio conformismo identitario, ci richiama a uno snodo inquietante. Il punto è che un disincanto totale è impossibile. Le stesse acquisizioni controintuitive della scienza — che smascherano più di ogni altra tanti nostri inganni e autoinganni, pregiudizi e dogmatismi — sono spesso incompatibili con la nostra vita quotidiana, a partire proprio dalla frammentazione della coscienza o dalla limitatezza del libero arbitrio. Le «confabulazioni» sulla natura della realtà sono molto più adattative della loro smentita teorico-sperimentale, così come quelle ideologiche — lo vediamo bene nell'attuale perseverare di teorie economiche antitetiche ma ugualmente irrealistiche — sono spesso impermeabili all'autocritica e alla controprova oggettiva. Senza illusioni non possiamo vivere: anche se ora avremmo tutti i mezzi per non continuare a confonderle con le speranze.

Corriere La Lettura 14.7.12
Il mistero dei quanti che regge il mondo
di Edoardo Boncilelli


Perché il mondo sta su e non collassa? Perché molti atomi hanno l'età dell'universo e il carbonio di cui è fatto il mio cuore è «in pista» da molto prima che si formasse la Terra? Perché le molecole che si agitano nelle mie cellule non si sbriciolano e non si sfasciano per effetto del numero incalcolabile di urti che subiscono e hanno subito? È perché, nel piccolo, la materia ha una struttura granulare, cioè discontinua, irriducibile, che dà sostanza e permanenza alle cose del mondo. Gli oggetti del quotidiano si sfarinano e deperiscono ma hanno sotto di loro uno zoccolo duro irriducibile. Questo dice in soldoni la meccanica quantistica, la migliore teoria fisica che possediamo. Sono sempre stato molto curioso ed entusiasta del cammino della scienza, di tutta la scienza, verso la comprensione delle cose della natura, ma il mio primo, e fatale, amore è stata la fisica e in particolare la cosiddetta fisica fondamentale, quella che si occupa appunto dei fondamenti del reale. Da ragazzo seguivo le vicende della fisica come un bambino davanti a un negozio di giocattoli, che erano poi essenzialmente due: la relatività e i quanti. La prima era opera di un uomo solo, Einstein, mentre la seconda teoria era figlia di tanti padri, tra i quali lo stesso Einstein. Mi appassionava tutto, ma la teoria dei quanti rappresenta proprio la scoperta, in realtà la serie di scoperte, che avrei voluto fare. Che la mutevole realtà quotidiana avesse un solido nocciolo discontinuo e granulare l'avevano già detto gli atomisti greci e l'aveva cantato Lucrezio, ma quale differenza corre fra le due concezioni! Gli atomi di oggi non sono indivisibili, ma devono la loro granitica consistenza alle particelle che li compongono, e sono proprio queste gli oggetti strani, sono le loro rivoluzionarie e «scandalose» proprietà che tengono in piedi tutto. Prendiamo un elettrone. Questo sembra orbitare intorno al nucleo del suo atomo come un pianeta intorno alla sua stella. Ma c'è un «ma» grosso come una casa. L'elettrone porta una carica elettrica che genera un campo elettromagnetico e irradia energia. Se l'elettrone non fosse quella strana creatura che è perderebbe in un istante tutta la sua energia e cadrebbe sul nucleo, così che tutto sparirebbe; anzi, non ci sarebbe per niente. Tutto è partito da questo semplice ragionamento. Il mondo sta su perché l'elettrone è una particella con strane proprietà. Come lo sono i protoni, i neutroni e tutte le altre. L'elettrone non «frana» addosso al nucleo perché non può perdere energia con continuità: o ne perde una certa quantità prestabilita, un quanto, o non ne perde affatto. E se non ne perde, non ne perde, e resta in orbita in eterno. La conseguenza di questa sua strana proprietà, e di molte altre, è che gli atomi non si sfanno — ovviamente in condizioni normali — né si sfanno le molecole. Vi immaginate che cosa succederebbe se i componenti del nostro Dna alla lunga si sbriciolassero e perdessero la loro identità? Non ci voglio pensare. E posso non pensarci, grazie ai princìpi di questa grande scoperta.

Corriere La Lettura 15.7.12
L'enigma Costantino, tredicesimo apostolo
Santificato dagli ortodossi, censurato dagli illuministi
di Armando Torno


«Costantino 313 d.C.» è la mostra internazionale ideata dal Museo Diocesano in programma dal 25 ottobre 2012 al 17 marzo 2013 a Palazzo Reale, a Milano. Curata da Paolo Biscottini, direttore del Diocesano, e dall'archeologa Gemma Sena Chiesa, in collaborazione con Electa, la rassegna ha per sottotitolo «L'editto di Milano e il tempo della tolleranza». Saranno esposti oggetti d'archeologia e d'arte dai più importanti musei internazionali.
Dall'aprile 2013 la mostra si trasferirà a Roma

La storia dimenticò con calma la ventina di titoli legati al suo nome, quali Gothicus maximus o Pater Patriae, e lo ricorda semplicemente come Costantino il Grande, imperatore dal 306 al 337 della nostra era. Per gli ortodossi e per qualche Chiesa cattolica orientale è santo, «simile agli apostoli». Per la tradizione cristiana resta un uomo eccezionale che cambiò il corso degli eventi, anche perché a lui si deve la convocazione del concilio di Nicea nel 325, il primo ecumenico, che presiedette. Per altri diventò, o assomiglia, a un mito; ovvero a quelle figure che sanno influenzare idee e tendenze al di là delle interpretazioni, della stessa verità storica.
Costantino ritorna alla ribalta perché nel 313, quando reggeva l'Occidente, con Licinio imperatore d'Oriente, concesse la libertà di culto ai cristiani (il celebre Editto di Milano). Ma anche perché nel 324 riuscì di nuovo a riunificare il mondo romano, fatto che interessa particolarmente gli studiosi anglosassoni. Ci chiediamo anche quali siano state le conseguenze della fondazione di Costantinopoli, oggi Istanbul, allorché decise di spostare la capitale dell'impero. E insieme a riforme, anche fiscali, al suo nome è legata la celebre Donazione che giustificò per secoli il potere temporale della Chiesa, denunciata come falso da Lorenzo Valla nel 1440. Oggi l'argomento non è più di moda, ma l'imperatore è evocato da citazioni o polemiche ogni volta che qualcuno vorrebbe regolare diversamente le tasse sui beni ecclesiastici. Insomma, Costantino è un antico sempre con noi.
Milano si appresta a ricordare l'editto di tolleranza (o «rescritto», come taluni preferiscono chiamarlo) e il cristianesimo religione dell'impero con una mostra internazionale organizzata dal Museo Diocesano a Palazzo Reale: si aprirà il prossimo ottobre (sino al marzo 2013). L'occasione la offre il millesettecentesimo anniversario. Sarà un evento che permetterà di comprendere meglio cosa fu Mediolanum, capitale dell'Occidente; la rivoluzione recata da Costantino, a cominciare dall'adozione del simbolo della Croce. Saranno riprese alcune figure o situazioni del tempo, dall'esercito alla corte, dall'architettura alle varie arti, senza dimenticare Elena, la madre, poi santificata. A lei sarà dedicata un'intera sezione.
Ma forse quello che interessa maggiormente è lui, questo imperatore che il molto cattolico Jacques Bénigne Bossuet considerava modello per ogni principe cristiano e che Edward Gibbon preferiva studiare con la lente. Nella sua Storia della decadenza e caduta dell'impero romano (tradotta da Einaudi), il dotto inglese dedicò un capitolo al carattere di Costantino. Scrisse nel XVIII secolo parole ancora oggi da meditare: «Dallo zelo riconoscente dei cristiani il liberatore della chiesa è stato ornato di tutte le qualità d'un eroe, e perfino d'un santo, mentre il malcontento del partito soccombente ha paragonato Costantino al più aborrito di quei tiranni, che coi loro vizi e la loro debolezza disonorarono la corona imperiale». Due visioni contrastanti che Gibbon riteneva inconciliabili, in grado di impedire un «giusto ritratto». Vana impresa, dunque, «fondere colori così discordi e conciliare qualità così incompatibili», giacché si produrrebbe «una figura mostruosa più che umana». Occorre, insomma, seguire Costantino nei diversi periodi e osservarne luci e ombre. Anche questa ipotesi non è facile da seguire. Voltaire, che lo detestava e seppe influenzare il mondo colto del Settecento e anche il successivo con i suoi strali, non perse mai l'occasione. Nella sua Storia dell'affermazione del cristianesimo (tradotta da Bastogi), il patriarca illuminista con un tocco di retorica, dopo aver ricordato che l'imperatore si faceva baciare i piedi dai domestici tutti i giorni, denuncia che fu assassino della moglie, del figlio, del suocero, del cognato, del nipote. E aggiunge: «Il passait ses jours dans la mollesse la plus voluptueuse». Non fu tenero nemmeno Jacob Burckhardt nel celebre saggio L'età di Costantino il Grande (tradotto da Sansoni). Dopo aver notato che «perfino le elemosine della vecchia Elena hanno qualcosa di politico e di ambiguo», scrive: «E adesso voltiamo le spalle a questo egoista ammantato di porpora, che riconduce e subordina tutto ciò che fa o lascia fare all'incremento del proprio potere». Giudizi come questi vanno accostati a una serie di elogi che cominciano con La vita del beato imperatore Costantino — questo è il titolo originale — di Eusebio di Cesarea (tradotta nella Bur), la cui stesura fu avviata ancora vivente il protagonista, definito «amico dell'onnipotente Iddio» e «nuovo Mosè».
Oggi personaggio e opera sono continuamente al centro di molteplici interessi. Per esempio, Charles Matson Odhal in Costantine and the Christian Empire (Routledge, New York 2004) indaga con attenzione le sue capacità politiche che si concretizzarono utilizzando nuove scelte religiose: in un periodo di decadenza egli rovescia le prospettive e trova nella fede di Cristo l'alleato forte. L'influenza da lui esercitata è ancora presente in teologia. Se Jacques Paul Migne inserì, nel XIX secolo, i suoi scritti nella Patrologia (ottavo della Latina), ovvero nella raccolta con le opere fondanti del cristianesimo, nel saggio di Emanuela Prinzivalli e Manlio Simonetti dedicato a La teologia dei primi cristiani (Morcelliana 2012) si sottolinea: «La cosiddetta svolta costantiniana, trasferendo la religione cristiana dalla condizione di religio illicita o tutt'al più tollerata a quella di religione favorita dall'imperatore, provocò trasformazioni profonde in tutti gli aspetti della vita delle comunità cristiane, non escluso quello di primaria importanza riguardante la riflessione dottrinale».
Si potrebbe dire che Costantino sia figura particolarmente complessa da studiare, con diciassette secoli di quesiti. L'istituto dell'enciclopedia Treccani sta progettando un'opera in più volumi su di lui e sulle sue influenze: se uscirà nel 2013 avremo, accanto alla mostra di Milano, un inventario di interessi, giudizi, scoperte. Ancora oggi, del resto, continuano questioni che ne esaminano la conversione o se questo «amato da Dio» ostracizzasse gli ebrei. Il Medioevo circondò la figura di venerazioni, ma Dante, pur assegnandogli un posto preminente tra gli spiriti giusti del cielo di Giove, non sopportava la «sua» Donazione alla Chiesa. La considerava un fatale errore.

La bibliografia dell'imperatore
La «Vita di Costantino» di Eusebio di Cesarea si trova dal 2009, con greco a fronte, nella Bur. Il testo della «Donazione» è stato ristampato nel 2010 da La Vita Felice. In esso vi è, oltre alla parte latina di questo falso, anche la versione greca realizzata per la Chiesa d'Oriente. Lo scritto di Lorenzo Valla sulla «Falsa Donazione di Costantino» dal 1994 è nella Bur. Il catalogo della mostra «Costantino il Grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente», tenuta a Rimini dal 13 marzo al 4 settembre 2005 è da Silvana Editoriale. Il classico testo di Jacob Burckhardt «L'età di Costantino il Grande» è stato ristampato da Sansoni nel 1990. La biografia di Eberhard Horst «Costantino il Grande» è stata tradotta da Bompiani nel 2009. Diverse questioni del lascito politico e religioso dell'imperatore sono trattate nel volume a più mani «Costantino il Grande fra Medioevo ed Età moderna», edito da il Mulino nel 2008. In Francia è da poco uscito di Pierre Maraval «Constantin le Grand» (Editions Tallandier). In inglese è utile di Thomas George Elliott «The Christianity of Constantine the Great», University of Scranton Press 1996

Corriere La Lettura 15.7.12
Così Milano fu modello di tolleranza
di Gemma Sena Chiesa

Ci sono date che hanno un peso. Hanno un significato speciale perché la storia ha racchiuso in un singolo momento un cambiamento che ha mutato il corso della civiltà. Una di queste «date-simbolo» (popolare perché si studia anche a scuola e non solo in Italia) è legata direttamente al nome di Milano. È il 313 dopo Cristo, l'anno in cui venne emanato dall'imperatore Costantino, insieme a Licinio, suo collega nell'impero, riuniti nel palazzo imperiale di Milano, un solenne documento che venne poi chiamato Editto di Milano. Da quel momento in tutto l'impero romano diveniva possibile professare liberamente la religione cristiana e ogni altra fede. Era una dichiarazione di tolleranza e di libertà che ben poche altre volte fu così solennemente proclamata.
Proprio da Milano dunque il cristianesimo inizia il suo cammino per il mondo. Tutto questo non avveniva per caso. Milano, già in quell'epoca, era fra le città più avanzate, più vivaci e innovative di quella che stava divenendo l'Europa come oggi la conosciamo. Di lì a poco lo straordinario magistero di Ambrogio renderà il nome di Milano, civitas celeberrima, ancora di più simbolo dell'eccellenza dei tempi nuovi e faro della dottrina cristiana.
Nel 2013 saranno 1.700 anni da quando un avvenimento così pieno di suggestioni e che cambiò il volto della civiltà d'occidente porta nel mondo il nome della città. È giusto che Milano lo celebri. Una grande mostra archeologica internazionale promossa dal Museo Diocesano e dal Comune di Milano si aprirà alla fine di ottobre a Palazzo Reale.
Alla mostra, che vuole celebrare insieme Milano, il concetto di tolleranza e il cristianesimo nascente dopo la leggendaria conversione di Costantino, giungeranno da musei di tutto il mondo in prestito preziose testimonianze, monete, gioielli, armi, argenterie, statue, ritratti. Ci sarà occasione di riparlarne. Ma vorrei anticipare una riflessione. La concessione di tante opere di valore storico straordinario, opere che molto raramente si muovono, rappresenta un grande omaggio che, malgrado i tempi difficili, tutta l'Europa fa a Milano. Una città onorata non solo come il centro storico da dove partirono gli impulsi che portarono la classicità nella nuova civiltà medioevale, ma anche come una grande città di cultura inserita nel prestigioso circuito delle capitali mondiali dell'arte.
Ma la memoria non si celebra veramente se non è condivisa. È la partecipazione di tutti che la può rendere davvero significativa e attuale. Così vorremmo che al consenso di enti e istituzioni, di studiosi e di appassionati che lavorano al progetto e lo sostengono (e sono già molti) si unisse la città, la troppo spesso smemorata Milano, arrivando a un evento condiviso e a una celebrazione diffusa.
Tantissimi sono i luoghi cittadini che si riferiscono alla Milano imperiale, alla figura di Costantino e della madre Elena, questa inaspettata figura al femminile imperatrice e santa, alle memorie delle reliquie della Croce ritrovate da Costantino ed Elena e celebrate ad esempio in Duomo. Tanti sono i musei che contengono opere piene di fascino e di significati, che potrebbero integrare quelle in mostra illuminando i tempi della Milano capitale imperiale. Ciascuna di esse ha un grande significato culturale e gli itinerari incrociati fra arte, storia e fede possono rappresentare una fitta trama di scoperte e di riflessioni attualissime.
La Milano imperiale all'alba dell'Europa è stata un modello di apertura ai tempi nuovi e di convivenza e mutua conoscenza tra i popoli. Quale migliore portale per la prossima Expo pensata anch'essa come occasione per una integrazione delle diversità globali? È una coincidenza di prospettive che non si può lasciare perdere.

Gemma Sena Chiesa, archeologa e già ordinario di Archeologia all'Università degli Studi di Milano, è curatrice scientifica della mostra «Costantino 313 d.C.» insieme con Paolo Biscottini, direttore del Museo Diocesano

Corriere La Lettura 15.7.12
Quando i santi fanno la guerra
Due volumi affrontano il rapporto tra armi e fede
di Marco Ventura


La catastrofe delle due guerre mondiali rese i Pontefici molto prudenti sul valore cristiano delle virtù militari. Nel 1942 sbatté contro uno scettico Pio XII la causa di beatificazione del generale Gaston de Sonis. Nel 1955 papa Pacelli cassò la proposta di elevare all'onore degli altari il capitano Guido Negri, trovando sconveniente fare un esempio di chi era morto «incitando alla guerra e alla lotta». Cinque anni dopo, Giovanni XXIII adottò la stessa posizione e nel 1973 Paolo VI concluse, nonostante il «valore morale e spirituale» del capitano, per la «presente inopportunità d'una eventuale beatificazione».
Nei decenni trascorsi da allora, il tema della compatibilità tra vocazione cristiana e vita militare, tra cristianesimo e guerra, ha diviso i cattolici. Due volumi ripropongono il tema illuminando il percorso e i dilemmi della Chiesa di Roma. Nel suo La canonizzazione dei santi combattenti la canonista bolognese Geraldina Boni difende i santi soldati contro il dilagare, tra i cattolici, di un intransigente «pacifismo a ogni costo», ovvero di un buonismo «a volte intriso di ideologia e ipocrisia».
L'uomo, spiega l'autrice, è in costante lotta contro la «sua intrinseca nequizia e abominio»: per questo, come ha ricordato il Concilio Vaticano II, egli è «sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo» e la pace, chiarisce Boni, non è «valore assolutizzabile, come pur pretendono certe mitizzazioni astratte». Guerra giusta e pace giusta sono due facce della stessa medaglia. In secoli di storia della Chiesa, l'originario comandamento «non uccidere», precisa l'autrice, «si relativizza e si rifrange in una gamma di nuances e tonalità a seconda dei casi e delle evenienze».
Sicché anche la vita militare, sintetizza nella prefazione Giuseppe Dalla Torre, «con tutte le sue insidie e le sue peculiari tentazioni, può essere luogo di santificazione personale e di animazione cristiana della realtà temporale». Ogni militare canonizzato, conclude l'autrice, è dunque un «santo laico per definizione».
Al mutare nel tempo degli orientamenti dei cattolici sull'uso della violenza è corrisposta la parabola del concetto di guerra giusta. Il Catechismo del 1992 ammette la legittima difesa con la forza militare quando il danno causato dall'aggressore sia durevole, grave e certo, quando non vi siano alternative, quando l'azione armata abbia fondate probabilità di successo e quando non provochi mali peggiori, considerata soprattutto la capacità distruttiva della moderna tecnologia. Come auspica il canonista perugino Giovanni Barberini nel suo ultimo volume (Il contributo della dottrina cattolica per l'elaborazione dei principi di diritto internazionale) è oggi necessaria una «mentalità completamente nuova» e più rigida nell'accettare come «giusta» una causa di ricorso alle armi.
Gli fa eco il cardinale Jean-Louis Tauran, nella prefazione del libro: la guerra giusta va ripensata «alla luce degli epocali cambiamenti avvenuti di recente». Il contributo cattolico a un diritto internazionale al servizio dell'uomo non può che passare per la scomoda, e cruciale, distinzione del Vaticano II: «Altra cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, e altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni».

Corriere La Lettura 15.7.12
Ecco l'oro di Ghiberti dopo 27 anni di lavori


Dopo 27 anni di restauro, la Porta del Paradiso di Ghiberti torna a risplendere. Un'opera complessa, ricca di storia e dai dettagli tecnici minuziosi. Le due ante sono alte cinque metri e venti centimetri, per 154 centimetri di larghezza e 11 di spessore. Ciascuna pesa 40 quintali. L'intelaiatura dove Ghiberti ha inserito lastre e forme della cornice a forza, scaldando forse il bronzo, è fusa insieme al piano di posa in un solo getto; lastre e cornici sono realizzate con fusioni singole. Ghiberti, con i suoi aiutanti, pulisce i rilievi a freddo, li cesella, li fa infine dorare in amalgama di mercurio, come spiega Annamaria Giusti, direttrice dei lavori di restauro. Ma quell'oro viene «nascosto» nel 1772 con una vernice stesa a pennello; da allora dell'oro non si sa più nulla fino a quando, dopo che la porta è stata smontata e portata al sicuro durante la Seconda guerra mondiale, il soprintendente Giovanni Poggi fa rimuovere le vernici dal restauratore Bruno Bearzi che applica soda caustica concentrata e nel '48 si scopre la doratura.
Ma il 4 novembre 1966 l'alluvione spalanca i due battenti della porta che sbattono con tanta forza da far uscire dall'incavo sei grandi rilievi. Sempre nel 1966 Bearzi ripulisce le formelle e le monta nei loro alvei perforando però il fondo degli alvei stessi. Nel 1978 Umberto Baldini, direttore dell'Opificio delle Pietre dure, vede che l'oro si sta annerendo e sollevando, così decide per un'indagine diagnostica. «Baldini capisce le origini del degrado: sali instabili che si formano fra bronzo e doratura al mercurio, il tutto amplificato dall'inquinamento — dice Marco Ciatti che dirige adesso l'Opd — Non sono passati che 27 anni dalla scoperta della doratura, ma le porte appaiono annerite e in grave pericolo, corrose in pochi anni più che nei precedenti cinque secoli». Baldini inizia il restauro su una lastra, poi sulle altre cinque staccate dall'alluvione ma, ritenendo impensabile esporle all'aperto, le consegna al museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore chiudendole in una teca in atmosfera di azoto per evitare ogni inquinamento. Il problema della pulitura delle lastre viene risolto immergendole in una soluzione neutra di tartrato di potassio (Sali la Rochelle) che elimina gli ossidi formati fra bronzo e oro che fanno sollevare la doratura. Ma rimuovere le altre lastre dal telaio appare difficile, per cui si decide di utilizzare uno speciale laser messo a punto dall'Istituto di fisica applicata dell'Università di Firenze che volatilizza lo sporco senza scaldare il bronzo. Conclusa la pulitura e rimontati i pezzi, l'intera porta è stata chiusa in una grande teca in atmosfera di azoto e sarà aperta al pubblico dall'8 settembre; in futuro si pensa di evitare il vetro della teca sostituendolo con una barriera d'aria.
«Il vero problema — ricorda Ciatti — resta quello delle sculture all'aperto: l'atmosfera distrugge pietre e metalli: dunque non resta che portare all'interno le opere in attesa che la scienza scopra nuovi metodi di salvaguardia». Dunque una lunga storia e, alla fine, entro due anni, una grande sorpresa. Timothy Verdon, che dirige il museo dell'Opera, spiega che quest'ultimo sarà raddoppiato; qui, nella zona più grande, un tempo parte di un teatro settecentesco poi divenuto garage e ora in fase di restauro, si ricreerà la facciata distrutta del Duomo di Arnolfo di Cambio: di fronte, a una decina di metri di distanza, tornerà la porta del Paradiso del Ghiberti e, in futuro, le altre due, di Ghiberti stesso e di Andrea Pisano. «Così — aggiunge — la porta del Paradiso tornerà in rapporto con l'antica facciata del Duomo, ricreando un dialogo che nessuno ha visto da cinque secoli, un dialogo del quale gli storici dell'arte non parlano».

Repubblica 15.7.12
Le Confessioni di Rousseau e l’inconscio del filosofo
di Antonio Gnoli


Di tutta la costellazione illuminista Rousseau fu la stella più appartata. Lo era per censo essendo figlio di un orologiaio e orfano di madre; per carattere: sospettoso e introspettivo; infine per quel modo di ragionare che lo allontanò dai facili entusiasmi con i quali sovente convisse il secolo dei Lumi. A trecento anni dalla nascita si direbbe che egli non abbia smesso di infliggerci la giusta dose di scetticismo nei riguardi del modo in cui una nascente borghesia edificava il tempio delle osservanze democratiche. Eppure, non è nel Contratto sociale che troviamo la parte più fustigante del suo pensiero. Non è nell’idea di “popolo” né in quella di “democrazia” che avvertiamo il lascito prezioso di un uomo ossessionato dalle iniquità. Semmai è da quel suo essere a un tempo pubblico e occulto che deriviamo la sua natura complessa, sempre in bilico tra modernità e antimodernità. Eminente stratega dell’animo umano, il proprio, Rousseau si consegnò al destino di una rivoluzione che era alle porte. La sua natura idiosincratica lo spinse a indagare forme e luoghi che gli altri philosophes ignorarono. Agitò le superfici lattee della ragione installando il primo focolaio del dubbio: saremo mai in grado di parlare sinceramente di noi? Si mise alla prova con infantile slancio, scavando in una miniera di ricordi ed emozioni. Nacquero così le folgoranti Confessioni che per un secolo dedito al rispetto delle regole mondane dovettero apparire quanto mai goffe. Rousseau non poteva certo immaginare che la marea montante della psicoanalisi, due secoli dopo, ne avrebbe decretato il successo. Resta da capire se anche la “volontà generale” già allora avesse un inconscio da esplorare.

Repubblica 15.7.12
Tobino, per quarant’anni medico al “manicomio” di Lucca si dimostrò piuttosto contrario alla legge Basaglia
Quando ci capita di incontrare la follia
di Marco Lodoli


Mario Tobino, per quarant’anni medico al “manicomio” di Lucca – lui ci teneva alla verità scabrosa di certe parole – si dimostrò piuttosto contrario alla legge Basaglia, non credeva che restituire alle famiglie i pazienti – i matti, diceva lui – sarebbe stata una buona scelta. Possiamo leggere la sua professionale irritazione per la legge 180 a chiusura dell’antologia È tutta una follia: «legge progettata con malignità contro chi umilmente lavora, contro chi è povero o quasi». Albinati, Chiodi, De Silva, Del Lama, Morazzoni, Morozzi, Nelli, Nori e Vichi, curatore dell’antologia, raccontano storie crudeli o grottesche di persone che vagano sul limite del disastro psichico, persone che potremmo incontrare nella vita di ogni giorno, come se la follia, non più identificata e repressa nelle strutture mediche, potenziata dal malessere sociale, si diffondesse ormai come un contagio. Il disagio mentale striscia ovunque, colpisce a tradimento, in un attimo capovolge la salute in pazzia.
D’altronde già Ariosto ci aveva spiegato che il senno degli uomini è tutto sulla luna, tra le cose perdute per sempre.
È TUTTA UNA FOLLIA di AA. VV. Guanda, pagg. 252, euro 16,50

Repubblica 15.7.12
L’incontro. Ken Loach
“Che fatica fare cinema per uno abituato a prendere molto seriamente la realtà e assai meno se stesso”
di Maria Pia Fusco


I genitori operai, l’infanzia in fuga dalle bombe, la laurea in legge a Oxford “per capire i meccanismi dell’ingiustizia”. Premiato a Cannes, il regista della working class festeggia i suoi primi 50 anni dietro una cinepresa E si confessa.

Ha compiuto 76 anni giusto un mese fa. Ma soprattutto ha festeggiato cinquant’anni di lavoro in cui ha reso protagonista la classe operaia e i diseredati, «gente che per i media in genere sono solo numeri, statistiche». Ken Loach si fa pensoso, poi subito aggiunge: «Proprio come il numero dei giovani senza lavoro: in Inghilterra alla fine dell’anno scorso per la prima volta ha superato il milione». Li racconta nel suo ultimo film, The Angel’s Share, Gran Premio della giuria a Cannes, attraverso la storia di quattro piccoli delinquenti della periferia di Glasgow che, passati dal carcere ai lavori sociali, riescono, con metodi non troppo ortodossi, ad infiltrarsi nel business del whisky e si inventano un futuro. «Nel film si ride insieme ai protagonisti, per il loro linguaggio e le loro battute, e per il contrasto tra la loro rozza semplicità e il sofisticato ambiente dei fanatici appassionati di whisky. Ma con loro si piange anche: sono ragazzi cresciuti nella desolazione di una delle tante periferie urbane del mondo, deserti senza punti di aggregazione in cui è scomparso il senso della comunità, spesso figli di genitori disoccupati, talvolta alcolizzati per disperazione. Ho scelto i toni della leggerezza solo per spirito di contraddizione, ci sono già troppi finali drammatici, sullo schermo e nella vita». Genitori operai nel Warwickshire, a Nuneaton, dove è nato. Poi un’infanzia vissuta nella precarietà dei continui spostamenti tra famiglie di sfollati in fuga dalle bombe. «Non so se allora avvertivo la violenza e l’ingiustizia della guerra, non capivo perché gli adulti fossero sempre così seri e arrabbiati, speravo solo che non fosse colpa mia. Ma non ho memorie tristi, il mio ricordo più lontano è il dolore che provai a tre anni quando mi chiusi la mano in una sedia pieghevole», scherza. Ricorda invece la scelta, più tardi, di studiare legge a Oxford: «Volevo capire i meccanismi della giustizia per comprendere l’ingiustizia della disparità tra ricchi e poveri. Fu lì che, entrando a far parte della compagnia teatrale, scoprii anche quante cose si possano comunicare attraverso uno spettacolo». Quando, giovane adulto, arrivarono gli anni Sessanta, lui cominciò a comunicare attraverso la tv. «In quegli anni il cinema in Gran Bretagna era quasi scomparso, soffocato dalle produzioni di Hollywood più che in altri paesi europei. Il nostro cinema era la fiction televisiva. Andava in onda dopo il telegiornale e quello che si cercava di fare era un tipo di prodotto che potesse richiamare, per stile, la realtà delle news. Portavamo la 16mm per la strada, volevamo raccontare storie di finzione che fossero il più autentiche possibile. In una delle serie più popolari che ho fatto, Wednesday Plays, i protagonisti erano gente comune alle prese con i problemi grandi e piccoli del quotidiano. Sicuramente quel tipo di tv, e poi le teorie del Free Cinema, hanno influenzato il mio modo di lavorare. Allora come oggi, per esempio, mi piace la ricerca di verità anche nella scelta degli attori: che siano professionisti oppure no, non hanno mai una sceneggiatura definita, consegno le battute uno-due giorni prima delle riprese perché non perdano la spontaneità. Se non le sentono proprie le cambiamo in corsa». Ken Loach è uomo dai modi gentili, capelli argentati, scomposti, il sorriso segnato dall’ironia e da un’antica timidezza, un aspetto mite in netto contrasto con la durezza del suo cinema. Eppure non sono poche le prove che ha dovuto affrontare. La più dura è stata la morte di Nicholas, vittima di un incidente stradale a sei anni, era uno dei cinque figli avuti dalla moglie Lesley. «È l’amore della mia vita, ci siamo conosciuti all’università, siamo sposati da cinquant’anni e ancora ridiamo insieme. Tra le sue qualità più belle c’è la pazienza e la forza di non crollare nei momenti più difficili». Come gli anni Settanta. «Erano usciti i miei primi film, Poor Cow, Kes, Family Life, storie di disagi famigliari, storie scomode, disastri al botteghino, tanto che per quasi dieci anni non sono riuscito a fare un film. Le cose cominciarono a cambiare un minimo con l’arrivo di Channel Four, che destinò fondi a piccoli film da trasmettere in tv». Ma ad arrivare fu anche la Thatcher. «E con lei la sua politica a favore delle aziende, il suo liberismo senza regole, le privatizzazioni selvagge, la distruzione dei sindacati. L’immagine che ho di me stesso in quegli anni Ottanta è di un pover’uomo che si aggira in giacca e cravatta nei dintorni di Soho Square con una borsa in mano piena di soggetti alla disperata ricerca di finanziamenti. Nelle sale inglesi il mio cinema era tabù: Wich Side Are You On? e Fatherlandsono usciti soltanto all’estero». Poi, finalmente, negli anni Novanta, la rinascita, i successi internazionali di film come Riff-Raff, Ladybird Ladybird, My Name Is Joe, Terra e libertà. Ormai per tutti è “Ken il Rosso”, “il più anti- British degli autori inglesi”. «Un’accusa, quest’ultima, che mi viene mossa da chi confonde il governo con il popolo. Io sono critico nei confronti del governo britannico, non ho nulla contro i miei concittadini. Sono uno di loro. Ho anche servito la patria, due anni nella Royal Navy», scherza, ma poi si indigna se ripensa «all’assurdità del paragone con Leni Riefenstahl a proposito di Il vento che accarezza l’erba. Secondo la stampa conservatrice era un film di contro gli inglesi, proprio come li faceva lei. Ma che c’entro io con una nazista? ». Il film ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2006. «Hanno scritto persino che sono uno che si diverte a fare su e giù sul tappeto rosso a Cannes. Non è vero, detesto vestirmi in smoking e cravattino, però quella sera ero felice, molto felice, e quel premio è stato di grande aiuto per il film». Altro capitolo, quello con Hollywood. «Sono andato a Los Angeles a girare Bread and Roses, un film senza glamour, senza inseguimenti né sparatorie. È la storia della vita parallela delle donne e degli uomini che puliscono i palazzi e fanno i lavori più umili, immigrati, un mondo a parte. È stato il mio primo film americano, ma anche l’ultimo: nessuno mi vuole più da quelle parti». Bread and Roses è anche il terzo dei film scritti da Paul Laverty, amico di Loach e suo collaboratore fin dal 1996, anno di uscita de La canzone di Carla. «Ci unisce l’amore per il calcio, e poi siamo entrambi avvocati. Abbiamo le stesse idee politiche — anche se forse lui forse è più barricadiero di me — e la stessa voglia di prendere sul serio la realtà ma non noi stessi». C’è un luogo però in cui Ken Loach pare si prenda maledettamente sul serio. La cucina. A detta della moglie quando prepara i suoi piatti preferiti non vuole interferenze. Inoltre pretenderebbe applausi incondizionati, e guai alle critiche. Lui ammette: «È una mia debolezza. Ma ne ho anche altre. Divento nervosissimo se non posso vedere una partita che mi interessa e se va male il Bath City, la mia piccola squadra del cuore. Ogni pomeriggio, poi, cedo all’irresistibile desiderio di un pezzo di cioccolata». Dalla cucina si passa di nuovo a parlare di politica. «L’ottimismo è fuori luogo, rispetto agli anni Novanta è molto più difficile tenere accesa la speranza. Oggi è un atto rivoluzionario anche solo pretendere lavoro, sicurezza sociale, assistenza sanitaria, futuro. Non è più tempo di discorsi accademici, l’urgenza è immediata. Però è anche finito il tempo del silenzio e della rassegnazione. La classe operaia — e alla classe operaia appartengono anche i disoccupati — deve capire che è solo con la sua partecipazione che si combatte la crisi, perché non è certo dall’alto che arriverà la soluzione ». Guarda al suo passato, con nostalgia: «Sì, penso alla coesione sociale che c’era nell’immediato dopoguerra, al senso di appartenenza a una comunità che usciva dalla guerra e lottava forte della certezza che avrebbe avuto una vita migliore». Poi sospira e sorride: «Del resto, malgrado tutto, siamo ancora qui. E questo è un fatto».

La Stampa TuttoLibri 14.7.12
Oggi l’autore di «Io non ho paura» protagonista nelle Langhe, a Barolo, al festival«Collisioni»: un reading dall’ultimo libro, una raccolta di racconti
“Il momento è delicato: rileggo Cechov”
di Giovanna Zucconi


C’è questa idea della scrittura come artigianato, come vero e proprio lavoro manuale fatto di perizia e di pazienza, «costruisci un tavolo e poi vedi se sta in piedi oppure devi mettere un rinforzo, piallare, rifare tutto».
Ammaniti, il mio falegname mentre pialla ascolta musica. Ha tutto, davvero tutto Bob Dylan, bootlegs minimi inclusi, e anche Dylan partecipa al festival Collisioni dove lei oggi terrà un reading dal suo ultimo libro Il momento è delicato (il mio falegname, lui no, non ci sarà). Anche lei ascolta musica mentre scrive? E mentre legge? «Sì, sempre. Sia leggendo, sia scrivendo. Cose molto diverse fra di loro. Non rock, ecco: quello lo sento quando ascolto musica e basta. Jazz, musica indiana, musica contemporanea... ». Musica contemporanea? Quanto contemporanea? Si spinge fino all’esoterismo, fino all’astruso compositore lettone? «Lituano sì. Arvo Pärt, per esempio. Scopro un autore su itunes, poi se mi piace ordino il cd, e quando mi arriva per posta è una soddisfazione. Poi magari lo alterno con Laura Pausini o Tiziano Ferro, ecco. Ascolto molte colonne sonore, per esempio quelle di Hans Zimmer, il soundtrack di Tree of Life a ripetizione... Mi piace l’andamento epico, l’aspetto visivo, immaginare film dal libro che ho fra le mani». Libro che sta leggendo o che sta scrivendo? «Mentre scrivo cambio ascolto spesso, a seconda della situazione. Quando leggo invece metto su un disco e lo lascio andare». Domanda classicissima: quand’è che scrive? «Di mattina. Sono più produttivo appena sveglio».
Come Moravia. «Ma in maniera poco moraviana: molto meno precisa e metodica. Questo però accade quando una storia mi sta già prendendo parecchio. Se invece non ho ancora trovato la voce giusta per raccontarla non mi va di scrivere, è quasi un fastidio. Una forzatura. Pesante».
È sempre stato così? «Sempre. Quando ho una storia, mi sembra sufficiente dirla, raccontarla oralmente. Invece so che avrà necessità di parole, di una vera lingua, scritta, di una tonalità tutta sua, e questa è una fase rognosa. Una forzatura, appunto. Prima, però, la racconto a voce, magari nel corso degli anni, e più la racconto più la raffino nei particolari, sistemo quello che manca, costruisco dinamiche, acquisto consapevolezza». Ma come fa, mi scusi: va nei bar più malfamati di Caracas, o di Roma, e declama? Cerca un pubblico? E poi, tiene conto o no delle reazioni degli ascoltatori? «Reazioni troppo dettagliate mi creano problemi, preferisco quelle generiche. Adoro, invece, che mi facciano degli appunti quando ho già scritto e leggo una prima stesura. Antonio Manzini (due dei racconti di Il momento è delicato li ho scritti insieme a lui) è un ottimo ascoltatore, aggiunge idee. Mia moglie invece è più logica, scuote la struttura e così si capisce se tiene o crolla miseramente». Il famoso artigianato: un testo è come un tavolo, a volte sta in piedi, altre no. «Quando c’è un intoppo della trama è divertente, magari scopri che il protagonista non è quello che credevi ma un altro e tutto si sistema. È la parte più interessante della scrittura». Ma questa fase orale (scusi la battuta: detta al figlio di uno psicanalista, poi) quanto dura? «Ho in testa dieci o quindici storie contemporaneamente. Quella che vorrei scrivere non la sto raccontando più a voce perché sono anni che lo faccio, chi mi conosce già la sa». Non le chiedo che storia è, tanto non ce lo direbbe. Ma perché, fra le tante che le affollano la testa, proprio questa e non un’altra? «È come con il cibo. A volte hai voglia di una bistecca, altre volte di una pastasciutta. Chissà perché. In generale, se ho scritto una cosa complicata ne seguirà una semplice, e viceversa». Nei periodi in cui scrive, legge? «Sempre. Non ho stagioni preferite, non ho rituali particolari, nel tempo libero leggo e basta. Certo, con il tempo cambia la maniera, ora sono più attento alla scrittura e meno alla trama».
E che cosa legge? «Amo sempre la letteratura di genere. Fantascienza, thriller. Rileggo anche cose vecchie, perché dimentico tutto o quasi. Da poco, con meraviglia, ho riletto i racconti di Cechov». Cechov non è precisamente letteratura di genere, mi scusi. «È il mio genere». Bella battuta, grazie. Ma che cosa ricorda, dei libri letti? «I caratteri, le spinte e le necessità dei personaggi. Di Bel Ami, del Conte di Montecristo, di Anna Karenina ricordo questo: i caratteri». Come è entrato in contatto con i classici? «Erano in casa. Non sono stato precocissimo, ma a un certo punto ho scoperto la lettura. Per fortuna avevo lunghi periodi di noia, per esempio in campagna d’estate. Poi, nella tarda adolescenza e all’università, quando facevo una vita più stressata, leggere era uno spazio personale, comodo. Una casa. Vai lì e stai. Leggevo tantissimo». Ma in famiglia imponevano letture al piccolo Ammaniti? «Chi leggeva, dei piccoli e dei grandi Ammaniti, non veniva disturbato, tutti evitavano di parlarci. Quando leggevo mi lasciavano in pace. Il massimo». E poi si discuteva, in famiglia, dei libri letti? «Ma no. Qualcuno per esempio diceva che La linea d’ombra di Conrad era bellissimo, gli altri concordavano, e finiva lì. Nessun approfondimento critico, zero dibattiti. Tutt’al più qualche consiglio: leggi questo, è magnifico». Massima naturalezza nella lettura. Molto diversa dal fastidio, dalla forzatura di cui parlava a proposito della scrittura. «L’analisi critica di quello che leggi però è condizione necessaria alla scrittura. Per scrivere, devi chiederti perché un libro ti è piaciuto. Dalle domande, cominci a vedere i nodi del tappeto. Come è fatto, come funziona». E questo l’ha imparato grazie a qualcuno? «Tutta roba mia. Dalla scuola, zero. I Promessi Sposi mi facevano schifo, tranne la peste e don Rodrigo. Poi li ho riletti come un libro qualsiasi, senza spiegazioni, senza note a pie’ pagina, e mi sono piaciuti moltissimo. L’importante è trovare strade personali. Da Pat Metheny, per progressiva fiducia nella casa discografica che lo pubblicava, arrivai a Keith Jarrett. O da Arvo Pärt vai a esplorare la musica polifonica vocale, fino a Gesualdo da Venosa, o a Couperin». La fiducia nell’editore vale anche per le letture? «Difficilmente le case editrici hanno l’organicità per esempio di un’etichetta come la Ecm, quella di Pat Metheny eccetera. Adelphi? Quando pubblicava Kundera non mi interessava affatto, con Simenon o Canetti invece sì. Ma i miei editori di riferimento sono stati, verso al fine degli anni Ottanta, Sperling&Kupfer e Leonardo. Trovavi Stephen King, Dean Koontz, l’horror, il noir... Nella letteratura di genere, il rischio patacca è altissimo. Ma ci sono anche delle meraviglie». Un italiano contemporaneo che le piace? «Sebastiano Vassalli, all’epoca, mi folgorò». Le piace conoscere personalmente gli altri scrittori? «Viaggiare per l’Italia e per il mondo è una delle cose belle dello scrivere. Fare amicizia con alcuni altri scrittori, certo. E sentire la responsabilità verso i lettori. Se una mamma mi dice che suo figlio ha cominciato a leggere con me, lo stimolo è forte». Che cosa sta leggendo adesso? «Sto cercando di finire Murakami, che ho per le mani da mesi. Mi piace, ma a dosaggio limitato. Poi. Mettimi in un sacco e spedisci, racconti brevi ma sempre con gli stessi personaggi di Tim O’Brien: suo è Inseguendo Cacciato, il più grande romanzo sul Vietnam, storia di un soldato che diserta e si incammina a piedi verso Parigi. Sto rileggendo Amico della terra di Coraghessan Boyle, autore che amo molto. E i racconti di Clive Barker, Visi di sangue. Per esempio quello in cui le mani si ribellano e si amputano a vicenda, eserciti di mani amputate... Fa molto ridere».