lunedì 16 luglio 2012

l’Unità 16.7.12
Salgono Pd e Pdl Scendono gli altri tranne Grillo
di Carlo Buttaroni


Recuperano consensi il Pd e il Pdl mentre scendono di poco tutti gli altri partiti. Fa eccezione il movimento di Grillo che continua a crescere. Sono i risultati del sondaggio elettorale svolto proprio mentre Berlusconi annunciava il suo rientro in scena.

Tre notizie meritano una riflessione. La prima è che sarà Silvio Berlusconi il candidato del Pdl alle prossime elezioni politiche. Una voce che circolava già da alcune settimane, inaspettata e sorprendente se si considera che la prima “scesa in campo” è del ’94, e questa è la quinta volta. Se sarà un Berlusconi diverso dal passato, a oggi, è impossibile prevederlo perché gli scenari sono in rapida evoluzione. Certo è che diciotto anni di leadership nel centrodestra e di motivazione aggregante nel centrosinistra hanno evidentemente lasciato il segno.
L’indagine sulle intenzioni di voto sembra registrare, almeno in parte le reazioni dell’opinione pubblica, anche se l’annuncio è stato fatto verso la coda della rilevazione. L’effetto, anche se in embrione, è però evidente: recuperano consensi il Pdl e il Pd mentre scendono di poco tutti gli altri partiti, fatta eccezione per il movimento di Grillo che continua a crescere. Se si tratta di un rimbalzo momentaneo determinato dalle voci insistenti, di una casualità del tutto indipendente o di un fenomeno che annuncia una dinamica tendente a consolidarsi, sarà chiaro solo tra qualche settimana o con un’indagine più mirata. È inutile, quindi, addentrarsi adesso in analisi puntuali di come cambieranno, nei prossimi mesi, le dinamiche del consenso con il rientro di Berlusconi sulla scena politica, perché ancora è prematuro. L’annuncio della candidatura pone, invece, questioni ben più pregnanti che riguardano le scelte che i partiti sono chiamati a fare oggi. La prima riguarda la riforma elettorale. Il Presidente Napolitano ha sollecitato i partiti a fare presto. Ogni proposta, negli ultimi mesi, è naufragata tra veti incrociati e architetture istituzionali impossibili da realizzare nel poco tempo che manca alla fine della legislatura. Di recente, le ipotesi sembravano orientate verso un sistema basato su circoscrizioni più piccole, senza “premio di maggioranza” o comunque in forma ridotta rispetto a oggi. Un’ipotesi, questa, che si tradurrebbe in un rafforzamento della rappresentanza dei principali partiti e nell’indebolimento della tensione bipolare esercitata dal premio che, con la legge attuale, è assegnato alla coalizione vincente. Non sarebbero più solo le urne, quindi, a determinare la maggioranza di governo, com’è stato finora, ma anche il Parlamento (e i partiti) che concorrerebbero alla definizione, post-voto, di alleanze e di equilibri politici in grado di sostenere l’esecutivo. Ciò renderebbe politicamente più forti i partiti di centro e più deboli gli altri partiti, a cominciare da quelli che si collocano a sinistra e a destra dell’asse politico. Uno scenario inconciliabile, però, con la candidatura di Berlusconi che ha, invece, necessità di ritrovare legittimità proprio attraverso il voto, rafforzando il suo ruolo di leader popolare. Una scelta, quella di Berlusconi, che per molti aspetti diventa ingombrante anche per il governo e potrebbe accelerare il ritorno alle urne. Magari lasciando immutata la legge elettorale, fatta salva l’introduzione del voto di preferenza. Uno scenario nel complesso desolante, ove continuano a prevalere tatticismi e alchimie e dove la politica che sceglie le cose da fare sembra non trovare spazio.
CONFLITTO INTERNO
Oltre all’ulteriore conferma della mancanza della politica vera, quella delle idee appunto, altre due notizie hanno fatto eco. Innanzitutto, la dichiarazione del Presidente del Consiglio il quale ha usato la metafora della “guerra” per descrivere la situazione che sta vivendo il Paese per poi affermare, pochi giorni dopo, che il suo governo chiude nel cassetto la concertazione con le parti sociali.
Per quanto riguarda la metafora della guerra, è innegabile che essa sia efficace e rispondente alla realtà che i cittadini vivono quotidianamente. Ma su chi sia il nemico che stiamo combattendo e, soprattutto, su cosa dobbiamo difendere, il messaggio non trapela chiarezza alcuna. Se il “nemico” possiamo agevolmente individuarlo nella speculazione finanziaria internazionale che si nutre dei nostri eccessi, è invece più difficile capire cosa si stia difendendo, visto che continuiamo ad arretrare cedendo il terreno delle conquiste sociali e civili. Tanto che viene da chiedersi, dopo le riforme che sono state avviate, se al termine della crisi l’Italia avrà ancora uno stato sociale o se i principali architravi del welfare, a cominciare dal sociale e dalla sanità, passeranno dalla prevalenza pubblica a quella privata, con una progressiva finanziarizzazione dei servizi, come ad esempio avviene negli Stati Uniti attraverso le assicurazioni private. E questo, paradossalmente, mentre gli Usa sembrano seguire il percorso inverso.
Sulla stessa frequenza si colloca la posizione di Monti sulla concertazione sociale. Un no perentorio. Ma forse pochi sanno (o ricordano) che l’Italia è il Paese europeo in cui gli assetti concertativi, oltre ad essere longevi e resistenti nel tempo, hanno prodotto risultati importanti. Basta ricordare le politiche sui redditi che hanno permesso di attenuare gli effetti della pesante recessione del 1992-93. O quelle successive all’entrata dell’Italia nel sistema di cambi fissi (1996), che hanno ammortizzato gli effetti recessivi di politiche macroeconomiche restrittive. E ancora nel 1995: la concertazione bilaterale tra governo e sindacati permise di varare una riforma del sistema pensionistico che ha rivoluzionato il metodo di calcolo, passando dal sistema a beneficio definito a quello a contribuzione.
È sempre grazie alla concertazione che il sistema italiano di relazioni industriali, tradizionalmente privo di regole, è cresciuto e ha assunto lineamenti ben definiti, con una chiara suddivisione del lavoro nei diversi livelli contrattuali. D’altronde, la concertazione è un metodo che riguarda la politica e che consente, oltretutto, ai governi di fare scelte difficili, ad alto rischio di conflittualità sociale. Come quelle che, negli anni ’70 e ’80, riguardavano la moderazione salariale e negli anni ’90 il ridimensionamento dei sistemi di welfare e la liberalizzazione del mercato del lavoro. I patti concertativi degli anni ’90, oltretutto, furono particolarmente difficili per i sindacati, perché non prevedevano risarcimenti ai sacrifici dei lavoratori in termini di provvedimenti di welfare più generosi o di trattamenti fiscali favorevoli ai redditi più bassi.
IL VALORE DEL SINDACATO
A causa dell’estrema ristrettezza delle politiche fiscali, dovuta alla necessità di rispettare i parametri di convergenza europea, i patti contenevano solo diritti di presidio sulle politiche pubbliche, per garantire che i sacrifici fossero distribuiti secondo criteri di equità. Ciononostante, da queste fasi, i sindacati ne uscirono rafforzati e non indeboliti, così come ne uscirono più forti gli stessi governi. E, naturalmente, ne uscì più competitiva l’Italia nel suo complesso. I fallimenti degli assetti concertativi in alcuni paesi, come l’abbandono della contrattazione centralizzata in Svezia nel 1983 e la fine dell’esperimento di Azione Concertata in Germania nel 1977, sono da attribuirsi alla scelta degli imprenditori di abbandonare unilateralmente il tavolo delle trattative, nel momento in cui non ritenevano più conveniente trovare un accordo.
Il sindacato italiano ha mostrato, negli ultimi anni, capacità di prevenire il conflitto e mobilitare il consenso anche rispetto a scelte fortemente impopolari. Ed è proprio questa sua capacità che lo ha reso un alleato prezioso della politica. Ma per poter esercitare al meglio questo ruolo, il sindacato deve trovarsi nelle condizioni di poter mobilitare i lavoratori, perché nella misura in cui c’è conflitto potenziale, il sindacato sa come riassorbirlo e ha in mano un capitale da spendere ai tavoli della concertazione. Se non c’è conflitto o se, al contrario, il conflitto c’è, ma il sindacato non è in grado di governarlo, allora si può fare a meno della concertazione. Ma non è questo il caso dell’Italia di oggi. Gli eventi recenti hanno, inoltre, dimostrato che il sindacato italiano ha la capacità di gestire queste situazioni nei canali della contrattazione e della concertazione. Indebolirlo e svuotarlo di legittimità è un male per l’Italia.
Anche perché, mentre il livello politico soffre di una crisi decennale e la soluzione non sembra immediata, la destrutturazione progressiva del modello sociale rischia di compromettere ogni tentativo di risalita. Il nostro paese vive quotidianamente esposto all’ingordigia della speculazione finanziaria e per uscire dall’impasse generale ha bisogno di una classe politica capace e di un sistema socioeconomico solido. In assenza della prima, chiudere le porta e arroccarsi in una rigida revisione dei conti, produce solo fratture e conflitti. Occorre, invece, sollecitare gli attori sociali a un protagonismo pieno, facendo crescere lo spazio di chi rappresenta interessi di massa. D’altronde, lo sviluppo non si fa per decreto e per vincere la guerra di cui parla il Presidente Monti, dovendo al momento fare a meno dei partiti, c’è bisogno della società e dei suoi rappresentanti. Lo scenario è duplice e opposto: o vince tutta l’Italia o tutta l’Italia perde.

Repubblica 16.7.12
“Peggio di Berlusconi nessuno mai” un italiano su due boccia il ritorno
E ora il Cavaliere è costretto a inseguire le novità della politica
di Ilvo Diamanti


CITAZIONE ironica, perché Berlusconi non se n’è mai andato. Abbandonare così: non gli è possibile. Non solo perché è “costretto” a difendersi. Dai magistrati, i nemici di sempre. E di fronte alle minacce contro i suoi interessi media-televisivi. Non se ne poteva andare così, soprattutto perché non gli è possibile immaginare la politica italiana — oltre che il centrodestra — altrimenti. Senza di lui. D’altronde, è difficile per tutti concepire l’ultimo scorcio della nostra storia. Senza di lui. Basta scorrere i dati del sondaggio di Demos- Coop per “la Repubblica delle Idee”. Tra gli avvenimenti che hanno segnato positivamente l’Italia, negli ultimi trent’anni, il 55% degli intervistati indica “la fine del governo Berlusconi”. Il 25% “la discesa in campo del Cavaliere”. Secondo il 33% degli italiani, si tratta degli avvenimenti che — nel bene e nel male — hanno cambiato maggiormente la storia del Paese. In particolare, la (prima) discesa in campo. Berlusconi ha contribuito a scrivere la biografia della Nazione degli ultimi trent’anni, più di Tangentopoli, dell’immigrazione, della Padania. In misura minore, solamente, della crisi economica e dell’Euro. Certo, si tratta di opinioni espresse “oggi”. E, com’è noto, il presente orienta il nostro sguardo sul passato. Tuttavia nell’autobiografia collettiva del Paese Berlusconi occupa uno spazio importante. Basti considerare le classifiche dei personaggi che hanno cambiato l’Italia negli ultimi trent’anni. Realizzate in base alle opinioni espresse dagli italiani liberamente, senza liste di nomi preconfezionate. Nel bene come nel male, al primo posto c’è lui. Con misure ben diverse, certo. Il 13% degli intervistati indica Berlusconi come uno dei due personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. (Un punto in più rispetto al Presidente Napolitano). Mentre sono molto più numerosi quanti lo considerano l’uomo che ha cambiato “in peggio” il Paese. Oltre una persona su due. Per la precisione: il 54%. Mentre Monti, Prodi, Di Pietro, Bossi, perfino Craxi — unico sopravvissuto della Prima Repubblica, nella memoria — sono al di sotto del 10%. Berlusconi. Al tempo stesso, il più amato e il più odiato. Della Seconda Repubblica. Al punto da dilatarla nel tempo. Oltre la caduta del muro di Berlino. D’altronde, Berlusconi l’ha rimpiazzato con un nuovo muro. Il muro di Arcore. Tenendo vivo l’Anticomunismo senza il Comunismo. Oggi Berlusconi conta di risorgere di nuovo. Come dopo la sconfitta del 1996. Come nel 2006, quando tutti lo davano per finito, per primi i suoi alleati. E lui trasformò una sconfitta sicura in un quasi-pareggio. Cioè, viste le previsioni, in un grande successo. Conquistato, di larga misura, due anni dopo. Come nelle precedenti resurrezioni, Berlusconi sottolinea la svolta cambiando il nome. Da Forza Italia alla Casa delle Libertà. E ancora, al Popolo delle Libertà. Domani si vedrà. Non Forza Italia. Significherebbe un “ritorno alle origini”. Mentre Berlusconi intende annunciare un “ritorno al futuro”. E poi, FI decreterebbe la fine senza appello di AN. Potrebbe sollevare ulteriori risentimenti, nel centrodestra. Berlusconi sceglierà un nome nuovo, che evochi il “suo” passato ma anche il cambiamento. Utilizzerà, come sempre, le tecniche del marketing — sondaggi, ricerche di mercato — per testare il marchio più efficiente. Lo slogan più efficace. Ma alla fine deciderà lui. Come sempre. Anche per quel che riguarda la squadra. Sceglierà persone fedeli e “significative”. Che “significhino” la nuova svolta. La fine del Cavaliere Gaudente. Per questo la Minetti se ne deve andare. Subito. Per spezzare l’anello di congiunzione con le Olgettine, i Bunga Bunga, Ruby, Noemi, le Feste di Arcore e Villa Certosa. Una stagione finita. Berlusconi cercherà di scrivere una nuova “Storia Italiana”. Coerente con il sentimento del tempo. Sospeso fra paure economiche e insofferenza politica. Nonostante sia un’impresa impensabile, anche per lui, assumere un profilo misurato. Da “peccatore pentito”. Berlusconi: cercherà la sintesi del Grillo-Montismo. Tendenze di successo di questa fase. La domanda di competenza e di democrazia diretta. Il Tecnico e il Blogger Predicatore. Berlusconi proverà a mixarli, a intercettarne il segno. (Una novità che altri soggetti, e non lui, annuncino le novità. E che lui sia costretto a inseguire.) Una missione complicata. Conquistare la credibilità dei mercati, il rispetto dei leader internazionali. Per primi, quelli europei. Che ne temono il ritorno più di molti italiani. E ancora, andare oltre la sua professionalità. Oggi retrò. Perché lui è il leader della democrazia mediale. Non digitale. Lui: sa controllare la televisione. La Rete è estranea alla sua cultura. Perché perfino a Grillo risulta difficile governarla verticalmente. Personalizzarla. E poi è troppo diretta. Ve lo immaginate il Cavaliere comunicare in Rete e dunque “senza rete” con chiunque? Senza “mediazioni”? Ci proverà, Berlusconi, a risorgere di nuovo. Intanto, ha esibito un sondaggio. Come nel 2006, quando si affidò all’agenzia americana PSB. Serve a dire che è ancora competitivo. E tanto più gli altri lo inseguiranno, con altri sondaggi di segno opposto, tanto più la profezia demoscopica rischia di avverarsi. Perché la stessa “smentita” del dato con altri dati appare una conferma (lo osservato Nando Pagnoncelli). E poi Berlusconi conta sui tradizionali alleati. La memoria corta degli italiani. La loro indulgenza. (Chi è senza peccato…) La vocazione del centrosinistra a farsi del male. (Ci sta provando il PD, proprio in questi giorni.) Dopo il 1996 e il 2006, d’altronde, non sono stati i leader e gli uomini del centrosinistra a metter fuori gioco Prodi? Berlusconi ritorna perché non ha e non può avere eredi. Senza di lui questo centrodestra rischia la dissoluzione. Spolpato da altri soggetti. Più o meno nuovi. Comunque ostili al Cavaliere. Liste ispirate da Monti e da Montezemolo. Perfino da Grillo. Berlusconi ritorna per auto- difesa. Ma soprattutto perché non riesce a uscire di scena. Perché la scena, senza di lui, gli pare impossibile. Perché immagina il futuro come il passato. Berlusconi, insomma, è prigioniero del proprio passato. Che però è passato. Il berlusconismo è una storia chiusa, su cui la crisi degli ultimi anni ha posto la parola fine. Le dimissioni della Minetti, le strategie di marketing creativo, la nostalgia diffusa in molti ambienti, perfino nel centrosinistra: non basteranno a riaprirla.



La Stampa 16.7.12
Centrosinistra. Lo scontro
Grillo e Di Pietro: il Pd non è credibile
Polemica sui matrimoni omosessuali, Cinque stelle e Idv a favore
I democratici: siete degli sciacalli

ROMA Beppe Grillo attacca con i consueti toni arrembanti. Interviene Antonio Di Pietro per dire: sostenete la mia proposta di legge. Dice la sua anche Nichi Vendola: «La politica è costretta a fare i conti con la richiesta sacrosanta del matrimonio gay, finalmente». Travalica i confini del Pd la polemica sui diritti civili iniziata sabato pomeriggio tutta in seno al partito, quando durante un’Assemblea nazionale «sfuggita di mano», per dirla con il deputato Boccia, non è stato permesso votare né un testo firmato da sette delegati, né due ordini del giorno che chiedevano espressamente di mettere in programma i matrimoni gay.
«Io sono favorevole al matrimonio tra persone dello stesso sesso, ognuno deve poter amare chi crede e vivere la propria vita con lui o con lei tutelato dalla legge», scrive sul suo blog Grillo. Una dichiarazione a favore delle nozze omosessuali condita di aspri rimproveri al Pd, «che vorrebbe governare l’Italia (non ridete per favore) ». Alla presidente del partito, Rosy Bindi, dedica una sgradevole battuta che la attacca personalmente («problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti»), poi individua i responsabili dell’assenza in Italia di una legge per regolamentare le unioni di fatto: «E’ una vergogna che va attribuita in ugual misura al pdmenoelle (così Grillo chiama il Pd, ndr), al pdl e a Santa Madre Chiesa, la convitata di pietra». E invece «fa invece schifo negare diritti sacrosanti per un pugno di voti».
Interviene sull’argomento anche il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, senza i toni feroci del comico genovese: «Quella sui diritti della persona è una battaglia che dovrebbe essere trasversale e condivisa da tutti: laici e cattolici» e da «tutto il centrosinistra, senza tentennamenti». Da Twitter dice la sua opinione anche il leader di Sel, Nichi Vendola: «Sono per il diritto al matrimonio gay perché il Medioevo italiano è durato troppo. Basta frammenti di diritti, vogliamo diritti interi, uguali per tutti».
Commenti che, dalla segreteria del Pd, rispedisce al mittente Nico Stumpo: «Di Pietro e Grillo strumentalizzano il dibattito», mentre «né l’uno né l’altro guidano partiti in cui si discute così liberamente». Soprattutto, non ci sta la presidente Bindi a fare il capro espiatorio: «Non è giusto che dopo un lavoro proficuo di tutti questi anni e un partito che si candida a governare il Paese con un programma importante, si permetta che una minoranza di 38 persone (quante hanno votato contro il documento “ufficiale” della Commissione diritti, ndr) faccia apparire il partito spaccato». Parole a cui però rispondono subito Aurelio Mancuso, Andrea Benedino ed Enrico Fusco, i tre delegati che sabato hanno restituito polemicamente la tessera del partito al segretario. «Bindi, con un plateale colpo di mano, ha pubblicamente derubricato il nostro lavoro», dicono in coro e, rivolti al leader Bersani, chiedono «cosa intenda fare il Pd per superare la brutta giornata di ieri».
A cercare di circoscrivere la polemica al partito, respingendo le critiche esterne, ci pensa la deputata paladina dei diritti omosessuali Anna Paola Concia: «Caro Di Pietro, pregherei te come Grillo di non strumentalizzare il seppur faticoso ma sacrosanto dibattito all’interno del Pd, che rimane comunque l’unico partito che ne parla al suo interno e non fa annunci roboanti sulla scia delle polemiche».

La Stampa 16.7.12
Liti e sfottò a sinistra E nel partito torna a crescere la sindrome dell’Unione
Divisi su quasi tutto, come ai tempi del governo guidato da Romano Prodi
di Federico Geremicca

Nell’Unione, al governo nel 2006, c’erano Ds, Margherita, Rifondazione, Comunisti Italiani, Idv, Verdi, Udeur, Repubblicani europei, Radicali, Sdi, Socialisti uniti, Pensionati, Democrazia cristiana, Psdi, Democratici Cristiani uniti, Consumatori, Svp, Lal, Pdm e Liga fronte Veneto

ROMA Quando il 10 febbraio 2005 una piccola ed eterogenea folla di leader sorridenti presentò alla stampa e agli italiani la nuova alleanza politica detta Unione, nessuno poteva immaginare che appena pochi mesi dopo quel patto elettorale avrebbe stravinto le amministrative (conquistando 12 regioni su 14) per poi imporsi d’un soffio anche nelle elezioni politiche dell’aprile 2006. Fu una sorpresa. Ma una sorpresa ancor più grande fu il naufragio cui andò incontro il governo di Romano Prodi, costretto alle dimissioni dopo appena due anni a causa dell’altissimo tasso di litigiosità di quella alleanza. Quel patto elettorale e di governo risultò così fallimentare che il «non rifaremo l’Unione» è diventato, da allora, quasi un imperativo per i leader ed i partiti dell’attuale centrosinistra.
Le estenuanti polemiche del biennio 2006-08 e l’impegno a non «rifare l’Unione» sono inevitabilmente tornati in mente l’altro pomeriggio di fronte alla confusione, ai toni aspri ed alle spaccature che hanno segnato la fine dell’Assemblea nazionale del Pd, naufragata tra ordini del giorno presentati e non votati e pesanti scambi di accuse reciproche. Ragione della inattesa bagarre, per altro, è stato proprio un tema - il riconoscimento e la tutela delle coppie gay - che fece da detonatore (assieme a una moltitudine di altre questioni: dalle missioni militari all’estero fino alla politica economica) alla devastante crisi del governo-Prodi.
Segnalare questo déjà vu, forse non è inutile, visto che i partiti si preparano alla lunga volata che porterà alle elezioni, discutono delle alleanze possibili e cercano nuova credibilità di fronte a cittadini delusi come mai dalla politica. E non è inutile, in particolare, segnarlo allo schieramento che - a torto o a ragione - proprio dal giorno dell’ingloriosa fine del governo-Prodi si porta dietro la contestazione (quando non l’accusa) di essere poco credibile come alleanza di governo. Infatti, che molte questioni (a partire dal giudizio su Monti) dividano nettamente i possibili, futuri alleati di governo - diciamo da Vendola a Casini - è sotto gli occhi di tutti: mentre meno scontato era ipotizzare che perfino all’interno del Pd, maggior partito e perno della coalizione, su alcuni problemi si è quasi fermi a quattro anni fa...
Quello della disomogeneità delle posizioni rischia di diventare la vera palla al piede di quel patto tra progressisti e moderati al quale Pier Luigi Bersani lavora ormai da tempo. Per altro, non è difficile immaginare che - secondo uno schema noto e consolidato - sarà anche su questo che Berlusconi insisterà per cercare di coronare il suo tentativo di rivincita: sono divisi su tutto - ripeterà all’infinito - da Monti ai gay, dalle tasse alle missioni all’estero, come volete che possano governare? E’ un argomento insidioso: non foss’altro che perchè rivelatosi reale già in passato. A maggior ragione, dunque, ha destato una gran sorpresa il finale-bagarre dell’ultima assemblea pd.
Possibile che si sia ancora più o meno fermi a quattro anni fa? E come è pensabile colmare quel gap (vero o presunto) di credibilità mettendo in scena divisioni tanto aspre e così poco rassicuranti per i cittadini? C’è ancora un po’ di tempo, naturalmente, per porre rimedio ad una situazione che rischia di esser oltremodo penalizzante in una campagna elettorale che si può fin da ora immaginare come la più aspra e difficile degli ultimi decenni.
Un po’ di tempo: non tantissimo. Pena il ritorno del fantasma dell’Unione: un pericolo che gli stessi leader del centrosinistra considerano mortale...

Corriere 16.7.12
Il dibattito


Le unioni civili
All'assemblea nazionale del Pd sono stati presentati due documenti che, tra i temi, toccavano anche i diritti delle coppie omosessuali. Il primo, messo a punto dal comitato dei diritti presieduto da Rosy Bindi, prevede «formule di garanzia per i diritti e doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, comprese le unioni omosessuali». «Il documento — ha detto la Bindi — è stato elaborato da un organo paritario composto per lo più da laici ed è frutto di un anno di lavoro e di una commissione in cui la stessa Paola Concia era membro»
Il matrimonio
L'altro documento, presentato in assemblea con due odg di Anna Paola Concia e Ivan Scalfarotto, chiedeva al Pd di inserire nel suo programma elettorale, sulla scia di quanto fatto in Francia da Hollande, l'estensione dell'istituto del matrimonio civile alle coppie omosessuali, al fine di garantire il pari riconoscimento dei diritti e dei doveri e la piena equiparazione giuridica tra le coppie omosessuali e quelle eterosessuali
Il voto
La presidenza dell'assemblea ha deciso di non sottoporre al voto l'ordine del giorno in quanto in precedenza era già stato votato il documento del comitato dei diritti

Corriere 16.7.12
Pd lacerato sulle nozze gay, Grillo e Idv lo attaccano
Fusco, che ha gettato la tessera: «Il leader dica cosa pensa»


ROMA — Come ai vecchi tempi, il Pd si spacca sul riconoscimento (o meno) delle unioni civili. Lo fa platealmente, in un'assemblea nella quale volano stracci e tessere e non mancano tensioni anche sull'altro tema chiave, le primarie. Uno scontro sul quale si inseriscono gli avversari politici, da Antonio Di Pietro a Grillo, che cavalcano le difficoltà del Pd nel mettere la parola fine a una questione che si trascina da tempo e che divide laici e cattolici.
Francesco Boccia la racconta come «una sceneggiata, un'assemblea sfuggita di mano quando era già finita» e contesta «la forzatura di pochi». Rosy Bindi minimizza: «Ma quale partito spaccato, è una minoranza di 38 persone». Fatto sta che l'assemblea democratica si è chiusa con un finale destinato a lasciar strascichi. E che enfatizza le «beghe» del Pd, come le chiama Bersani, in un modo del tutto sgradito al segretario, ma anche ad alcuni sostenitori di una proposta più avanzata sulle unioni gay, come Gianni Cuperlo.
Uno dei protagonisti della querelle, l'avvocato e delegato gay barese Enrico Fusco, che ha restituito la tessera a Bersani, dà la sua versione: «È successo che la Bindi ha gestito con protervia l'assemblea, stracciando un accordo che prevedeva il voto con pari dignità dei due documenti e impedendo il voto del nostro». Il primo, quello messo a punto dal comitato dei diritti presieduto dalla stessa Bindi, prevede genericamente «formule di garanzia per i diritti e doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, comprese le unioni omosessuali». Il secondo, firmato da sette esponenti del Pd (tra i quali lo stesso Cuperlo, Paola Concia e Ignazio Marino), proponeva di attribuire alle coppie non sposate (gay o meno) gli stessi diritti di quelle sposate, attraverso un istituto para-matrimoniale. Per Fusco la differenza è enorme: «La Bindi ha scritto cose generiche, una presa per i fondelli. Così al momento giusto potrà rispolverare i vecchi Dico, del tutto inefficaci». Dalla decisione della Bindi di non far votare il testo dei sette, perché contrario al primo già votato, la reazione virulenta degli oppositori. «La Bindi era cerea come Ceausescu mentre osservava noi sudditi che ci ribellavamo. Ora Bersani dia un seguito alle lettere che manda all'Arcigay e faccia capire la sua posizione».
Grillo non perde l'occasione della polemica e attacca frontalmente: «Fa schifo negare diritti sacrosanti per un pugno di voti. Le nozze tra gay dovrebbero essere un diritto scontato, pacifico». Il comico e politico si sofferma ironicamente sulla Bindi: «Lei problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti». Poi spiega che nel Pd non si fa abbastanza sesso e invita tutti a fare outing.
Attacca anche Antonio Di Pietro, ma con toni più misurati: «Quella sui diritti della persona è una battaglia che dovrebbe essere trasversale e condivisa da tutti: laici e cattolici. Ci auguriamo che i deputati che hanno denunciato la chiusura del Pd sottoscrivano la nostra proposta di legge sul pieno riconoscimento dei matrimoni gay, già depositata in Parlamento».
«Propaganda», replica Nico Stumpo. E la stessa Concia, tra i promotori della «citizen partnership», non gradisce l'intervento di Di Pietro: «Pregherei te e Grillo di non strumentalizzare il faticoso ma sacrosanto dibattito nel Pd, l'unico partito che ne parla al suo interno e non fa annunci roboanti sulla scia delle polemiche. Non fate propaganda sulla pelle degli omosessuali».
Il giorno dopo l'assemblea, c'è spazio anche per la polemiche sulle primarie. Matteo Renzi assicura che farà di tutto «per farle perdere a Bersani. Poi, se le vincerà, sarò il primo ad aiutarlo a vincere le elezioni». Del resto, aggiunge il sindaco di Firenze, «Bersani è una persona per bene, anche se non deve fare il furbo». Francesco Boccia lo rassicura: «Stia tranquillo Renzi, le primarie si faranno. Ma hanno senso solo quando si cancellerà il Porcellum».


Repubblica.it 16.7.12
Grillo ora apre alle nozze gay: "Pd farisei"
E Di Pietro rilancia proposta di legge Idv

qui

Repubblica 16.7.12
Matrimoni gay, è bufera nel Pd Di Pietro attacca, Grillo insulta la Bindi
Lei: solo una minoranza dissente. Vendola: basta ipocrisie
di Silvio Buzzanca


ROMA — Beppe Grillo, Antonio Di Pietro, Nichi Vendola: tutti all’attacco del Pd sui matrimoni gay. Tutti vogliono la parità dei diritti per le coppie omosessuali e danzano sulle difficoltà dei vertici democratici. Spargono sale su uno scontro finale che ha oscurato Bersani, la sua relazione all’Assemblea nazionale, strapazzando l’immagine del partito che ambisce a governare il paese. E serve a poco che Rosy Bindi, sul banco degli imputati per la gestione del voto sugli ordini del giorno, lamenti che «non è giusto che si permetta che una minoranza di 38 persone faccia apparire il Pd spaccato su questioni che andranno comunque approfondite ». La bagarre è però andata in onda e Grillo ha buon gioco ad attaccare la Bindi e il Pd che chiama «pdmenoel-le, il partito che vorrebbe governare l'Italia; non ridete per favore». «Sono favorevole al matrimonio dello stesso sesso - fa sapere il comico - Ognuno deve potere vivere la propria vita con lui o lei tutelato dalla legge». E fin qui nulla di clamoroso. Ma subito arriva l’attacco durissimo ai democratici: «Questi farisei, sepolcri imbiancati spruzzati di un rosso antico ormai stinto, pretendono di dettare le regole della morale. Fa schifo negare diritti sacrosanti per un pugno di voti ». Alla vice presidente della Camera, Grillo riserva invece questo passaggio: «Non ha problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti, ha negato persino la presentazione di un documento sull'unione civile tra gay. Vade retro Satana. Niente sesso, siamo pidimenoellini». Il varco è ormai diventato una voragine e Di Pietro ne approfitta per seminare zizzania fra i democratici nel nome di «una battaglia che dovrebbe essere trasversale e condivisa da tutti: laici e cattolici». Allora, si augura il leader dell’Idv, che «quei deputati che hanno denunciato la chiusura del Pd in tema di diritti civili sostengano e sottoscrivano la nostra proposta di legge sul pieno riconoscimento dei matrimoni gay anche in Italia, già depositata in Parlamento ». Terzo, ma non ultimo, arriva Vendola. «Crolla il muro dell'ipocrisia. E la politica è costretta a fare i conti con la richiesta sacrosanta del matrimonio gay. Finalmente... », dice il leader di Sel. «Sono per il diritto al matrimonio gay perché il Medioevo italiano è durato fin troppo. Basta con frammenti di diritti, vogliamo diritti interi, eguali per tutti», spiega il “governatore” pugliese. Prova a replicare Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd: «Il Pd ha scelto un strada seria e percorribile decidendo di regolamentare giuridicamente le coppie di fatto, a partire da quelle omosessuali», dice. Accusa Grillo e Di Pietro di «strumentalizzare il dibattito e le decisioni del Pd», e fa notare che «guidano partiti in cui si discute così liberamente ». E Anna Paola Concia dice a Di Pietro che «il Pd ha una proposta di legge sull'estensione del matrimonio agli omosessuali uguale alla tua». Oltre che dei gay nel Pd si continua a discutere di primarie. E il protagonista è ancora una volta Matteo Renzi. «Io farò di tutto per far perdere le primarie a Bersani, poi se vincerà sarò il primo ad aiutarlo a vincere le elezioni», dice il sindaco di Firenze. Secondo Renzi, «sarebbe assurdo non fare le primarie. Bersani ha detto che le faremo e io credo a Bersani. La data non conta, conta il significato ». Infine, il sindaco fiorentino spezza una lancia a favore del sistema elettorale comunale e si dice «assolutamente per le preferenze».

Repubblica 16.7.12
I laici chiedono una direzione ad hoc “Serve coraggio, l’Europa è più avanti”
Bersani irritato per la rissa chiama a rapporto la Concia
di Giovanna Casadio


ROMA — Dalla partnership tedesca al modello inglese: tutte le proposte sono buone. Purché non ci si arrampichi sugli specchi; non si ipotizzino soluzioni barocche; si stia al passo con l’Europa. Il giorno dopo il grande scontro nel Pd sui diritti civili e i gay, i “laici” vanno all’attacco. Preparano la controffensiva nella prossima direzione del partito, che chiederanno sia monotematica, si occupi cioè solo di diritti civili. La partita si gioca sui matrimoni gay (che però sono chiesti da una minoranza, guidata dai leader omosex democratici), e più in generale su quale tipo di unione civile, e se deve prevedere le adozioni. È l’irritazione di Bersani a segnalare la portata dell’autogol che i Democratici si sono fatti sabato, nell’Assemblea nazionale. Un autogol dell’ultimo minuto, quando anche sui diritti civili si era fatto un buon passo avanti: l’impegno cioè a inserire le unioni omosessuali come punto indispensabile del programma di governo. Ma ecco la rissa. Il segretario ce l’ha con Paola Concia e il gruppetto dei contestatori che hanno gettato sul tavolo gli ordini del giorno sui matrimoni gay: «Una forzatura». Però anche con Rosy Bindi e la sua rigidità. Chiamerà a rapporto Concia. Avrà un chiarimento con Bindi. Nel Pd si sta per aprire una sorta di processo. Gianni Cuperlo non lo nasconde. Con Ignazio Marino, Barbara Pollastrini, Claudia Mancina e molti altri “laici” ha lavorato fino a notte tarda venerdì al documento-bis, quello che doveva correggere e chiarire il testo ufficiale elaborato in un anno e mezzo di riunioni dal comitato sui diritti presieduto da Bindi. «Nel partito non si è fatto altro che accantonare, posticipare una decisione seria su tutti i temi dei diritti civili - si sfoga Cuperlo - ma ci vuole più coraggio. Non è un deficit di laicità quello che io vedo, ma proprio un deficit di coraggio e di fiducia nelle capacità delle persone. Noi affermiamo il principio che “le coppie etero e omosessuali devono avere gli stessi diritti”, devono essere uguali, poi come questo si declinerà, se nel partenariato tedesco o altro, si vedrà». No insomma alla linea dei Dico, dei diritti dei conviventi, che fu la proposta di mediazione (poi naufragata) del governo Prodi e che resta l’obiettivo di Bindi. Cuperlo è deluso. Perché il documento-bis doveva essere d’integrazione: «Noi abbiamo cercato di dare una mano con spirito costruttivo. Sapevamo che il tema delle unioni civili era delicato e volevamo che il nostro testo fosse assunto con pari dignità». Non è andata così. Gli odg sui matrimoni gay poi, hanno portato la tensione a mille. Con questa piattaforma laica potrebbe spuntare un altro sfidante di Bersani alle primarie. Massimo D’Alema nel pieno della bagarre, l’aveva detto: «Sì, effettivamente il documento integrativo andrebbe assunto». «Errori ci sono stati da entrambe le parti», rincara Sandra Zampa, prodiana. Enrico Letta è convinto che «tutto si ricomporrà». Ieri si scatenano tweet e post in rete. Ivan Scalfarotto - leader omosex, vice presidente del partito, che ha presentato uno dei due odg sui matrimoni gay - è amareggiato e prende le distanze da Concia in un post: «Abbiamo perso un po’ tutti, così non progrediscono i diritti civili». I Dico sono giudicati passato. «Dobbiamo sganciarci dall’orizzonte dei Dico», chiosa Sandro Gozi. In un tweet accusa: «Arretratezza del Pd, è alla destra delle destre europee». Garantisce che in direzione «ci sarà battaglia », che «la partita è aperta», e che insistere sui matrimoni gay può «certo apparire una provocazione, ma forse l’unico modo per spingersi oltre i Dico». Idem Pippo Civati, per il quale è «il buonsenso che è venuto meno sabato». Matteo Renzi afferma di puntare al modello di “civil partnership” inglese. I “rottamatori” legano il tema dei diritti civili a quello del rinnovamento dei leader. Qui si apre l’altra partita sulla primarie per i parlamentari e sul limite dei tre mandati. I “rottamatori” accusano: «Noi chiediamo: nessuna deroga dopo tre mandati parlamentari, che è diverso dall’alt alla ricandidatura dopo 15 anni: tre mandati possono essere anche meno anni. Si tratta di volere il ricambio sì, o no».

Corriere 16.7.12
Il segretario amaro
L'accordo saltato con l'ala dei laici «Ma io ho aperto a unioni giuridiche»
di Maria Teresa Meli


ROMA — La lettura domenicale dei giornali non è stata pratica piacevole per Pier Luigi Bersani. Il Pd non ha restituito all'esterno una bella immagine di sé. Eppure il segretario aveva incaricato Maurizio Migliavacca di trattare a nome suo per raggiungere una mediazione tra l'ala laico-riformista e Rosy Bindi. E l'accordo era stato raggiunto alle dieci e mezzo di venerdì sera. Poi il sabato «nero»: la presidente del partito decide di rompere il fragile compromesso raggiunto e i gay, che sospettavano che quello fosse il suo scopo sin dall'inizio, capitanati dal pugliese Enrico Fusco, ridanno la tessera. «Proprio lo stesso giorno in cui io dico chiaramente di sì nella mia relazione all'unione giuridica degli omosessuali. Ed è chiaro che non intendo i Dico che riconoscono solo i diritti individuali delle coppie conviventi», si sfoga il leader con gli amici in questa domenica in cui il Pd è su tutte le prime pagine dei giornali solo per le liti e le risse.
Come se non bastasse c'è anche la storia delle primarie. Anche su questo tema il Partito democratico è apparso confuso e spaccato. Eppure Bersani continua a rassicurare i compagni di partito: «Non ci sono problemi su quel fronte. Le primarie le facciamo di sicuro, e le facciamo aperte. Ho anche deciso di modificare lo statuto che prevede che il candidato sia solo il segretario per permettere agli altri di scendere in campo». E gli «altri» hanno gradito. Renzi in primis che assicura: «Farò di tutto per far perdere Bersani». Poi l'assessore di Milano Stefano Boeri, che vuole presentarsi anche lui. Infine Bruno Tabacci, che l'altro ieri ha annunciato la sua discesa in campo.
Insomma, per Bersani non ci sono dubbi né ambiguità: le primarie si faranno. La data non viene detta ancora per rispetto ai futuribili alleati, ma anche per un'altra ragione: «Più sono vicine all'avvio della campagna elettorale e meglio è, perché possono fare da volano, coinvolgere il nostro elettorato e gli astensionisti». Per quanto lo riguarda il segretario considera quindi chiusa questa polemica. E siccome il leader del Pd è un politico pragmatico, dopo l'iniziale sconfortante lettura dei giornali, si è messo al lavoro e ha deciso di concentrare tutto il suo impegno sulla carta d'intenti. Verrà scritta assieme agli alleati, ma Bersani vuole già fissare dei paletti. Vi sono infatti delle condizioni per lui irrinunciabili. E intanto si prepara al confronto, proprio su questa materia, non solo con i partiti: «Incontrerò movimenti, associazioni, amministratori locali, personalità che vedono nell'area progressista un punto di riferimento». In questi incontri Bersani proporrà e ascolterà. E poi appunterà sulla sua agenda temi e proposte trattati. I primi appuntamenti sono fissati per i prossimi giorni. Quelli con le forze politiche, a partire da Sel, e quelli con le liste civiche locali sparse in tutta Italia. Quindi il leader del Pd chiederà un incontro anche alle parti sociali: sindacati, associazioni delle imprese, artigiani, commercianti, ecc.
Come è ovvio l'attenzione del segretario si incentra soprattutto sulle questioni economiche e sociali. La questione è sempre la stessa: come coniugare equità e rigore, evitando che questi termini appaiano parole vuote da snocciolare come un rosario. Bersani vuole dimostrare — e sarà questo a suo avviso il segno della differenza tra il governo del centrosinistra e l'attuale — che «la prova del cambiamento non è sempre la resistenza: a volte la prova del cambiamento è lo sforzo comune». E ogni riferimento a Monti che nega la concertazione non è puramente casuale. Ma anche le riforme istituzionali interessano il leader democratico. Bersani vuole riformare la legge elettorale, però sa che non basta, è necessario avere «un Parlamento meno pletorico, un governo che abbia un ruolo più incisivo e un federalismo serio». Poi c'è l'Europa: dev'essere un punto di riferimento fisso per chi sottoscriverà la Carta. In cui vi sarà anche la proposta di una normativa ad hoc contro l'omofobia e una legge per le unioni civili.

Corriere 16.7.12
Bindi: «Aiuterò Bersani Senza di noi non vince»
di Monica Guerzoni


ROMA — Presidente Rosy Bindi, il Pd non arriverà mai a sostenere i matrimoni gay?
«Con una maggioranza del 95% il partito ha trovato la sua unità intorno al riconoscimento delle unioni civili anche omosessuali, in linea con la Costituzione e con i grandi Paesi europei. Mi sembra già un grande risultato».
Paola Concia ha detto che lei è stata offensiva.
«Io non ho mai offeso nessuno. Nel documento non parliamo solo dei diritti degli omosessuali, ma di bioetica, ricerca, uguaglianza, del confine della vita e della morte. Su questi temi il Pd ha raggiunto una mediazione ricca e insperata e può costruire in Parlamento un dialogo con le altre forze politiche».
Non sarebbe stato più democratico votare tutti i documenti?
«Quando un'assemblea ha appena approvato un documento non mette in votazione il suo contrario, funzionano così tutti i Parlamenti e tutte le assemblee deliberative».
L'Europa intanto va verso i matrimoni gay...
«In Francia, in Inghilterra, in Germania sono regolate le unioni civili e noi ci siamo mossi in quella direzione. Altro che Pd spaccato! Se vogliamo che il processo dei diritti non si interrompa, dobbiamo evitare atteggiamenti massimalistici».
Massimalista Ignazio Marino?
«Quando si è leader e si fa parte di organismi si partecipa, non ci si presenta alla prima e all'ultima riunione. Io avevo un compito e penso di averlo realizzato».
Dicono i gay che c'era un accordo per votare tutti i documenti e che lei, con un «colpo di mano», ha fatto saltare i patti.
«Con chi lo avevano fatto questo accordo? Non certo con me. La verità è che qualcuno ci ha provato».
Renzi le chiede di farsi da parte. Non si presenterà alle primarie, se mai si faranno?
«Renzi dorma pure tranquillo, io non mi presenterò. Ma sappia che non toglierò il disturbo, fino alle prossime elezioni e anche oltre. Dove ha letto che io sarei per le preferenze? E se anche fosse, provi a chiedere agli italiani se starebbero con me o con lui».
Bersani si è rimesso «in saccoccia» le primarie?
«Certo non si faranno perché le chiede Renzi e quando le vuole Renzi. Prima la legge elettorale, poi il programma, poi la coalizione, infine le primarie. Nessuno di noi le voleva, ma il segretario ha scelto diversamente e noi rispettiamo la sua scelta».
Sosterrà Bersani, anche dopo le divergenze sui diritti?
«Tra me e il segretario sul tema dei diritti non c'è nessuna divergenza. Se me lo chiederà, alle primarie lo appoggerò. Anzi, spero che me lo chieda».
Teme che Renzi riuscirà a relegare lei, Veltroni, D'Alema, Franceschini, Letta, Fioroni e gli altri leader in un cono d'ombra?
«Ma quale cono d'ombra, noi siamo assolutamente indispensabili. Bersani sa che senza di noi le primarie non le vince, quindi è chiaro che saremo al suo fianco. Per vincere c'è bisogno di tutto il partito».
C'è chi dice che dopo Monti può tornare solo Monti.
«Grande apprezzamento nei confronti del premier, ma dopo di lui torna la politica. Nel 2013 si confronteranno due schieramenti con progetti alternativi».
Se anche vince, Bersani rischia di non governare...
«Anche per questo vogliamo una legge maggioritaria e non le larghe intese. Il ritorno di Berlusconi è molto grave, con lui non avremo mai una destra normale e i sostenitori delle larghe intese sappiano che la sua presenza complica anche questa possibilità».
Bersani promette lealtà, ma dice che molte riforme il Pd le avrebbe fatte diversamente.
«Noi siamo lealissimi. Sosteniamo Monti, ma con le nostre idee. Però quando saremo al governo faremo cose diverse e forse dovremo anche correggere qualcosa, a cominciare dalla riforma del lavoro».
La convince la ricetta di Grilli per ridurre il debito?
«Il governo ci ha fatto ritrovare credibilità, ma dobbiamo stare attenti. Se non riparte la crescita il Paese non regge più. Il rischio che le politiche di Monti e Grilli abbiano effetti recessivi è evidente. Perché la lotta alla disuguaglianza diventi fattore di crescita, ci vuole anche la patrimoniale».

l’Unità 16.7.12
Procedure garantite
38 no su 700 non sono una spaccatura
di Rosy Bindi


DALL'ASSEMBLEA DI SABATO SONO VENUTE INDICAZIONI IMPORTANTI SU COME IL PD INTENDE ACCOMPAGNARE LA TRANSIZIONE del governo Monti e preparare un nuovo orizzonte di governo in Italia e in Europa. Indicazioni che non sono affatto offuscate dalle tensioni che hanno accompagnato le fasi deliberative dell'assemblea. Al contrario penso che lo scontro, che anche l'Unita ha
raccontato, sulle votazioni del Documento sui diritti e degli ordini del giorno debba essere non solo ridimensionato ma interpretato correttamente. È vero, ci sono state alcune intemperanze e qualche strumentalizzazione di troppo, ma credo sia giusto rivendicare la correttezza dell'operato della presidenza. Da parte mia non ci sono state né forzature né rigidità, ma solo il rispetto delle nostre regole. Anche sabato abbiamo seguito lo stesso metodo che ha caratterizzato tutte le assemblee chiamate ad approvare i documenti (una ventina) elaborati dai gruppi di lavoro nelle sessioni dell’Assemblea Nazionale che dal maggio 2010 al febbraio 2011 abbiamo dedicato alla messa a punto del nostro orizzonte programmatico. Documenti che non sono mai stati emendati dall'assemblea che ha sempre e solo votato i testi, discussi nei gruppi di lavoro, insieme ad un verbale che dava conto anche dei dissensi e delle richieste di integrazione.
Abbiamo fatto così anche per il documento del Comitato diritti (composto da 37 componenti dall’Assemblea che ha lavorato un anno e mezzo) illustrato da Michele Nicoletti, e messo in votazione con il verbale dell'ultima riunione e con un contributo, consegnato sabato mattina, di alcuni membri del comitato che vi avevano raccolto le ragioni dei loro distinguo. Entrambi i testi sono stati distribuiti ai delegati e la votazione ha registrato 38 voti contrari su 700 delegati presenti. Non mi pare che questo risultato possa essere letto come l'ennesima spaccatura nel Pd. Semmai
l'opposto. Si è trattato di un pronunciamento che ha registrato la consapevolezza e la condivisione della nostra elaborazione.
Identica correttezza è stata usata per la votazione degli ordini del giorno che chiedevano i matrimoni gay, perché il documento appena approvato a larghissima maggioranza li escludeva, secondo una regola affermata e seguita in tutte le assemblee deliberative. È una prassi consolidata, che garantisce razionalità e coerenza ai processi deliberativi. Non una semplice questione formale, ma di serietà e credibilità delle procedure democratiche.
Sui diritti civili il nostro partito ha fatto un importante lavoro di sintesi culturale che ha valorizzato la ricchezza del nostro pluralismo, anche per superare lo schema soffocante di quel bipolarismo etico imposto dalla destra che ha lacerato le coscienze e lasciato senza tutela giuridica troppe persone. Nel documento, che affronta molti temi delicati: dalle straordinarie
potenzialità della ricerca scientifica all'affermazione delle nuove soggettività (di genere, di fede religiosa, di appartenenza culturale, di orientamento sessuale) si sottolinea con forza il nesso tra uguaglianza e differenza, tra diritti sociali e diritti civili.
Come sanno i lettori dell'unità, che ha ospitato un bel dibattito sui contenuti del documento, non siamo rimasti in una sorta di «limbo dell'indeterminatezza», neppure sulla questione delle unioni civili. Il Pd ha espresso, nel suo organismo più vasto e più rappresentativo, una posizione largamente maggioritaria che, in sintonia con i pronunciamenti della Corte costituzionale, prevede il riconoscimento giuridico delle unioni civili, comprese quelle omosessuali. Mi piacerebbe che su questo approdo che considero importante e impegnativo per tutti, ci fosse anche da parte di alcuni dirigenti, la stessa maturità e la stessa consapevolezza dimostrata dagli 700 delegati presenti sabato a Roma.


Repubblica 16.7.12
Il cattolico Fioroni: il testo approvato dall’assemblea riconosce i diritti delle coppie di fatto
“Il partito ha votato a larga maggioranza su quella base si può aprire il dialogo con l’Udc”
Solo in 38 hanno votato contro quel testo, che riconosce le unioni civili ma dà l’alt ai matrimoni omosessuali
Abbiamo un risultato significativo, poi la democrazia è rispetto, non può diventare tutto una tela di Penelope
intervista di G. C.


Onorevole Fioroni, ma il Pd vuole o no le unioni civili per i gay? «Il Pd ha votato un documento favorevole al riconoscimento dei diritti delle persone che convivono in una coppia di fatto e alla loro regolamentazione tramite un presidio giuridico. È una scelta chiara, per la prima volta messa in un programma di governo, che garantirà le coppie conviventi. Un risultato significativo». «È un complesso normativo per garantire i diritti all’eredità, alla casa, all’assistenza sanitaria eccetera, che sono così riconosciuti ». Lei è cattolico, e qualche mese fa è salito sulle barricate contro i matrimoni gay. twitter con insulti e contumelie per avere detto che sono contrario ai matrimoni gay. Ma sabato, nell’Assemblea nazionale, il partito ha assunto una decisione a stragrande maggioranza, con solo 38 contrari, che va verso il riconoscimento dei diritti, e dà l’alt al matrimonio gay equiparato al matrimonio come lo intende la Costituzione, a fondamento della famiglia. Questo fa fare un passo avanti ai diritti e blocca le speculazioni e le strumentalizzazioni». «Il dibattito sui diritti ha vissuto finora di contrapposizioni ideologiche, tra chi non vuole neppure il riconoscimento dei diritti e chi vuole il matrimonio gay. Una contrapposizione politica rumorosa che ha guardato più agli interessi particolari che a quelli dei cittadini. Con il voto dell’Assemblea è stato fatto un passo avanti». Veramente l’Assemblea democratica non ha votato tutti documenti, perciò è scoppiata la «La democrazia è rispetto, prima di tutto delle nostre intelligenze. Il documento votato ha precluso la strada del matrimonio gay. Abbiamo ottenuto un risultato significativo, non può diventare tutto una tela di Penelope per la visibilità di taluni». Una soluzione che è stata fortemente contestata però. «Non accetto si dica che una cosa votata sia accompagnata dal malessere di molti: solo il 3% si è espresso contro. Giusto che quel 3% continui le proprie battaglie, Il documento sui diritti è prudente per non pregiudicare la futura alleanza con l’Udc? «Rispetto Ignazio Marino e mi auguro lui farà lo sforzo di rispettare me. Lui fa le battaglie perché ci crede, e io le faccio perché ci credo non perché dobbiamo fare l’accordo con Casini né per obbedire alle gerarchie ecclesiastiche. Marino però dovrebbe sapere, come me, che nella ricerca del meglio non si arriva mai a sapere cogliere il bene possibile che ci fa passare dalle parole ai fatti. Il documento votato può essere certo una base comune per rilanciare l’alleanza tra moderati e riformisti ».


La Stampa 16.7.12
Giuseppe Fioroni
“Io vincitore morale. I matrimoni non passano, ora la partita è chiusa”
Fioroni Deputato è uno dei più ascoltati nella componente cattolica del partito


Uno che dice senza iattanza «il vincitore morale dell’altro giorno sono stato io» merita, specie se si è abituati alle falsità ovattate di certi ambienti, comunque un applauso. Potete non condividere le idee di Giuseppe Fioroni sulle coppie di fatto e sui matrimoni gay, ma non potete non rispettare il modo franco con cui le sostiene. Anche a differenza di tanti altri nel suo partito, che in un giorno come questo preferiscono mettere la faccia sotto sabbia.
C’è un partito arretrato sul tema dei diritti civili in genere, e su quelli degli omosessuali in particolare? Fioroni è convinto di no, ma in ogni caso il problema non sarebbe suo - cattolico democratico ma di quelli che nel partito dovrebbero essere «la sinistra». In ogni caso, a differenza di Concia e Scalfarotto, per capirci, lui è convinto che la partita adesso sia aggiudicata, con l’arbitro che ha fischiato la fine: «Diciamoci la verità, il dibattito è chiuso. Una delle fonti principali della democrazia - lo dice uno che è sempre stato in minoranza - è che quando si è deciso si è deciso. Abbiamo trovato una soluzione, garantire i diritti, ma senza equiparare il matrimonio gay al vero matrimonio, e i contrari a questa soluzione sono stati solo il tre per cento. Fine».
Se non si è votato, è particolare relativo, a suo dire. Sono più importanti i numero che si sono registrati sul documento del partito. Come sia stato possibile, lo si capisce risalendo indietro, spiega. «Io due anni e mezzo fa dissi “sia chiaro, se volete equiparare il matrimonio, io sarò costretto a candidarmi alle primarie. Per una settimana fui linciato. Ricevetti insulti dalla Cina, dall’India, dall’America, per aver espresso una posizione abbastanza chiara. Ieri il partito ha assunto a stragrande maggioranza la mia posizione, regolamentare i diritti con un presidio giuridico, e ha detto no ai matrimoni gay. Mi sembra sia stato fatto un passo avanti per il bene comune, contro tutti quelli che - per ragioni ideologiche o di visibilità - vogliono ancora cavalcare un dibattito vecchissimo»
Sentite cos’ha da dire Fioroni ai suoi avversari nel partito: «Io voglio combattere con ogni forza un asse straordinario tra le polemiche costruite dalla destra, e certe critiche ideologiche a sinistra. È gente che per qualche pagina di giornale in più è disposta a strumentalizzare una questione che l’altro giorno l’assemblea del partito ha chiuso, definitivamente». Per lui è il momento dell’orgoglio, e della rivendicazione del ruolo di anticipatore: «Quando, in totale solitudine, dissi di no ai matrimoni gay, mi dissero “verrai massacrato in assemblea”. Ora mi seguono tutti».

l’Unità 16.7.12
Ignazio Marino
«Il nostro documento affrontava aspetti etici importanti, bisognava affrontarli. La visibilità l’ha cercata chi ha precluso la votazione»
«Non solo nozze gay. Si discuta di legge 40, staminali, fine vita»
intervista di T. F.


ROMA «Credo che da parte di Rosy Bindi ci sia stata un’ossessiva attenzione su una parola di quel documento, che noi abbiamo elaborato come contributo integrativo e non alternativo».
Per Ignazio Marino, senatore del Partito democratico «l’importante decisione sulle unioni omosessuali era uno dei punti, ma solo su quello si è concentrata l’attenzione della presidente, una scelta anche dal punto di vista mediatico».
Voi invece non cercavate visibilità mediatica proponendo un documento sui matrimoni gay che avrebbe fatto comunque discutere?
«La visibilità è stata cercata da chi ha precluso la votazione; se il documento fosse stato ammesso al voto non ci sarebbe stata alcuna visibilità. L’ha determinata chi alzando i toni con voce alta e severa ha detto che un documento proposto da un gruppo di dirigenti democraticamente eletti, non poteva essere votato. Inoltre, ripeto che quello sulle unioni omosessuali era solo uno dei punti: si parla di ricerca, cellule staminali, fine vita, legge 40, ospedali pubblici e legge 194. Sui giornali non ho trovato questa discussione».
Comunque difficile discutere di tutto questo in un giorno, non crede? «Certo, una discussione approfondita in un’assemblea nazionale che comincia alle 10 e finisce a metà pomeriggio non è praticamente possibile. Leggere i documenti e confrontarsi è un obiettivo irrealistico in tali condizioni. Forse va ripensato il format dell’assemblea; non può essere un luogo di ratifica ma una vera fucina di elaborazione dei progetti del Paese».
Lo dirà a Bersani?
«Penso che Bersani abbia compreso che l’assemblea nazionale è un’organizzazione dove la maggior parte dei membri va con il desiderio di partecipare concretamente alle decisioni». E sollevare conflitti?
«Se ci fosse stato un confronto aperto sul merito del nostro documento, che ribadisco era un’integrazione e non un’alternativa, non ci sarebbe stato conflitto. I conflitti non nascono dalle nostre proposte; noi abbiamo espresso solo disappunto per non aver potuto democraticamente votare. Non siamo noi a cercare fratture».
Come giudica il documento Bindi sulle unioni omosessuali?
«Un documento dotto nelle citazioni e vago nelle conclusioni».
Nessun passo avanti in materia di diritti civili delle coppie gay? «Sinceramente no. La posizione di Romney che è un repubblicano, è molto più netta, lui è favorevole alle adozioni da parte di coppie omosessuali».
Vorrebbe fosse uno degli argomenti della campagna elettorale del centrosinistra?
«La politica deve avere l’obiettivo di modernizzare la società, e disegnare un Paese dai diritti e dal volto diversi. Io milito in un partito riformista. Se devo governare per non cambiare l’Italia, non attuando alcuna riforma, non mi interessa. Chi fa politica non può accettare di non innovare pur di governare».
Il documento verrà riproposto?
«Moltissimi appoggiano il nostro contributo e molti di questi sono della cosiddetta maggioranza bersaniana. Coinvolgeremo i firmatari e chiederemo una discussione in direzione nazionale. Ma, ribadisco, su tutto il documento e non solo sulla parola matrimonio».


Repubblica 16.7.12
C’è un deficit di laicità nel Pd?
Ignazio Marino spiega il documento dei laici: su temi così non si può essere vaghi, bisogna scegliere una linea
 “Tutti devono essere uguali, questo è il punto Rosy indossa ancora le lenti del Novecento”
Negli anni la mia posizione è cambiata: ho visto figli di coppie omosex, e non sono diversi dagli altri
Embrioni, testamento biologico, diritto a rifiutare l’alimentazione artificiale: su queste cose si deve rispondere
intervista di G. C.


Nel programma del Pd dovrebbero esserci i matrimoni gay, senatore Ignazio Marino?
«Nel nostro documento, il cosiddetto documento dei sette, non si parlava di matrimoni gay, che erano invece previsti negli ordini del giorno di Concia e di Scalfarotto. Però in questi anni in cui ho vissuto negli Usa ho fatto un mio percorso. Mia figlia è andata a scuola a Philadelphia e ha avuto compagni di classe che vivevano in famiglie omosessuali. Lo dico con umiltà: un tempo avrei risposto in un altro modo, ma mi sono reso conto nella mia esperienza che quegli adolescenti avevano una vita felice con le stesse problematiche e gioie di chi cresce in famiglie eterosessuali. È una maturazione
avvenuta per me in anni e anni. Comunque penso che l’eventuale adozione sia agli etero che agli omosessuali debba essere fatta nel primario interesse del bambino».
Si aspettava tanta bagarre nell’Assemblea del partito?
«Sinceramente no, perché avevamo lavorato con prudenza e rigore a un testo che integrava
il documento del comitato presieduto dalla Bindi. Il nostro documento non era in conflitto».
«Abbiamo tradotto in parole che riteniamo più chiare un documento- Bindi molto dotto e elegantemente scritto, ma altrettanto vago. Nel nostro testo non si affronta solo la questione delle unioni gay, ma anche - e mi
stanno molto a cuore - i temi dell’utilizzo delle cellule staminali prelevabili dagli embrioni destinati a morire nel freddo perché abbandonati nelle cliniche dell’infertilità; del testamento biologico, del diritto cioè di una persona di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione artificiale; della riscrittura della legge sulla feconda
«Noi scriviamo che le coppie etero e quelle omosessuali devono avere gli stessi diritti: non mi pare così rivoluzionario sostenere che tutti devono essere uguali, soprattutto nell’anniversario della presa della Bastiglia».
«Non credo sia in Bersani, né nei nostri elettori. C’è un deficit
in alcuni dirigenti che guardano il mondo con le lenti del Novecento
«In Rosy Bindi. Nel momento in cui non accetta parole nette e chiare. Durante il dibattito sulla vicenda Englaro, il Pd arrivò a dire che c’era nel partito una posizione prevalente... invece ci vogliono dei “sì” e dei “no”. Su come è andata l’Assemblea per una volta mi sono trovato d’accordo con Franco Marini che si chiedeva “che male c’è a votare?”».
«Chiederemo una direzione del partito monotematica sui diritti. Il progetto dei Democratici da presentare al paese va definito in tutte le sue linee».

l’Unità 16.7.12
Giuseppe Civati
«Il segretario non può dire: garantisco io. Serve una votazione, non sono beghe. Candidarmi?
Non è questo il punto ma potrei farlo»
«Primarie, da Bersani atteggiamento populista»
di Tullia Fabiani


ROMA «Noi facciamo la figura degli impazienti, ma non basta che il segretario dica garantisco io. Sulle primarie serve una discussione, serve una votazione. Servono risposte. Soprattutto serve una data certa. Sono mesi che la chiediamo, io, Sandro Gozi, Salvatore Vassallo e tanti altri. E adesso si è superato il limite».
Pippo Civati (Pd) non arretra di un tono: non gli bastano le garanzie di Pier Luigi Bersani, non gli basta che il segretario abbia affermato che le primarie «si faranno, saranno aperte, che non sarà lui l’unico candidato, che «vanno fatte con gli altri, si affronteranno gli aspetti regolamentari e statutari e saranno affidati all’assemblea».
Civati non accetta comunque un «rinvio a settembre». Chiede tempi certi e brevi, «ne va della fiducia che i cittadini hanno nei confronti di meccanismi democratici dice E poi così si perde anche un po’ di poesia, no?».
Bersani ha detto e garantito che le primarie si faranno entro la fine dell’anno, non basta?
«No, non basta. Non basta dire garantisco io, detto così sembra Berlusconi. Questo è populismo, so che non gli piace affatto essere definito un populista. Ma stavolta glielo dico. Io come iscritto al Pd, come dirigente proprio non capisco. Non posso essere soddisfatto. L’odg sulle primarie è stato presentato in tre assemblee nazionali e mai votato. Bersani non mi può rispondere che sono “beghe”. Ribadisco: serve una votazione».
A questo punto quando?
«Così la discussione è rinviata a settembre. Ma penso che in realtà tutto sarà chiaro quando voteranno il benedetto sistema elettorale, quindi probabilmente a ottobre».
Dunque, come si diceva, primarie entro l’anno...
«Si è parlato di fine novembre, che dire? Speriamo. Si parla di primarie di coalizione, ma come saranno gestite? Se si fa l’alleanza con l’Udc e Casini non vuole fare le primarie che facciamo? Io non sono preoccupato per me, vorrei solo sapere se vogliamo far partire la macchina del centrosinistra per governare il Paese o aspettare ancora».
Lei si candida?
«Finché non ci sono regole precise non dico niente. Potrei essere io a candidarmi, o potrei appoggiare Renzi, o Tabacci, o lo stesso Bersani. Non lo dico per pretattica, ma perché davvero voglio prima le regole».
Fa il gioco di Renzi?
«Non faccio il gioco di Renzi. Lui fa una sua battaglia, si vuole candidare, sono fatti suoi. Io voglio solo aprire una partita in modo trasparente».
Ha detto che restituirete a Bersani una candidatura alle primarie.
«Certo, perché se questo è il clima nel partito, se questo è il trattamento che ci viene riservato, ci attrezzeremo. Ma
non abbiamo pensato ancora ad alcun percorso e quindi non abbiamo alcun candidato. Il mio contributo non deve essere per forza in termini di candidatura, anche se come ho detto potrei comunque farlo».
Non pensa di mettere in difficoltà il partito, rischiare rotture in una fase delicata, mentre il centrosinistra dovrebbe prepararsi a governare il Paese?
«No, nessuna ansia, né preoccupazione, né angoscia. La difficoltà la crea chi nega il confronto. Non sono certo io che faccio casino. I candidati del Pd sono già tanti, Boeri, Renzi... piuttosto ho l’impressione che il problema nel partito sia un altro; che ci sia la tentazione di allearsi con l’Udc e non avere Bersani come candidato premier; ho l’impressione che siano in molti a voler confondere le cose, a dire facciamo le primarie e poi mettere paletti su tutto creando ostacoli, divergenze, confusione. Penso che Pier Luigi debba stare attento a questo e non preoccuparsi di chi, come noi, chiede in modo trasparente chiarezza».

l’Unità 16.7.12
Marina Sereni
«C’è stato un confronto sui contenuti: alleanze, Italia, Europa. Mettere ai voti odg di senso contrario a quelli approvati è una negazione delle regole di democrazia»
«Il consenso al progetto oscurato dalle polemiche»
di M.Ze.


ROMA «Così come è giusto che la minoranza cerchi di affermare le proprie posizioni e quindi faccia la minoranza è anche giusto riconoscere le posizioni della maggioranza». Marina Sereni, vicepresidente dell’Assemblea nazionale Pd il giorno dopo, davanti alla lettura dei quotidiani, non nasconde l’amarezza per come sono andate le cose sabato scorso. «Tutti dobbiamo farci carico di costruire una visione collettiva, questo si aspettano da noi gli elettori e questo è il nostro compito».
Sereni, eppure la visione collettiva è stata soppiantata dalla bagarre sui diritti civili.
«Mi dispiace quello che è successo perché l’Assemblea fino a quel momento è stata caratterizzata da un confronto sui contenuti: alleanze, Europa, Italia. La nostra ambizione era quella di partire dai problemi del Paese e di rendere evidente il passaggio tra questa esperienza di Monti e quello che dovrà accadere dopo le elezioni del 2013. È evidente che tutto questo rimane perché l’amplissimo consenso alla relazione del segretario e i tantissimi contributi sono il vero risultato politico anche se si è parlato soprattutto delle polemiche». Perché siete arrivati a questo punto, non era possibile un’altra soluzione, per esempio il voto sugli o.d.g? «Attenzione, anche sul tema dei diritti c’è stata una posizione unitaria. Il documento sui diritti presentato dal Comitato, che ha lavorato per oltre un anno, è stato approvato con centinaia di voti favorevoli e soli 38 voti contrari. Vorrei che a tutti, a partire dagli elettori e i lettori de l’Unità, fosse chiaro da dove eravamo partiti. Fu proprio l’Assemblea, lo scorso anno, a dare mandato alla Comitato di approfondire questi temi, con una indicazione chiara: il documento finale non sarebbe dovuto essere un testo legislativo ma di cultura politica. I membri del Comitato, giuristi, filosofi, medici, politici, si sono confrontati a lungo su temi delicati, come il fine vita, la fecondazione, i diritti delle coppie di fatto e soprattutto su quest’ultimo tema abbiamo fatto una discussione molto approfondita. Il documento finale al quale siamo arrivati è molto ricco, ci si sono si sono riconosciute persone di culture profondamente diverse. Dico questo perché non accetto le accuse di una discussione sbrigativa».
Ma già nel Comitato c’era chi non condivida il documento finale. Non era chiaro fin da allora che il problema sarebbe esploso?
«È vero, alcuni non si sono pienamente riconosciuti in quel testo e infatti il giorno prima dell’Assemblea hanno presentato un loro contributo parlo di Cuperlo, Concia, Pollastrini che non era affatto alternativo. Mi rammarico perché con un maggiore lavoro sul documento del Comitato avremmo potuto accogliere prima l’arricchimento ulteriore arrivato soltanto alla vigilia dell’Assemblea. Sabato di fronte al loro documento abbiamo proposto
all’Assemblea di sottoporre al voto il testo del Comitato assumendo anche il contributo Cuperlo-Pollastrini e rinviare tutto ad una ulteriore sede, la direzione nazionale del partito a settembre, con una sezione dedicata solo ai diritti civili. Questa è stata la nostra proposta e questa è stata votata». Marino, e non solo lui, non la pensano così. Vogliono posizioni chiare.
«Noi abbiamo ben presente che su questi temi non bisogna mai smettere di confrontarci con il massimo rispetto per le posizioni tutti. Io ritengo quello del Comitato un buon documento, sono disposta ad ulteriori arricchimenti, ma non posso accettare l’accusa di una gestione autoritaria dell’Assemblea. Mettere ai voti un ordine del giorno del senso contrario a quello appena approvato è una contraddizione. Questa è una negazione delle regole della democrazia. Nel documento il Pd si è impegnato a trovare una soluzione legislativa che riconosca le unioni civili, anche omosessuali e in questo non mi sembra ci siano ambiguità».

La Stampa 16.7.12
Anna Paola Concia
“Bindi, basta con l’arroganza di vedere noi gay come esagitati”
intervista di Jacopo Iacoboni


Ma dico, in tutti i partiti progressisti del mondo si discute, si litiga, ci si divide. E poi si arriva a una decisione. Perché solo noi dobbiamo vedere questa discussione come un che di masochistico? ». Paola Concia, omosessuale, autrice di un libro bello sulla sua battaglia contro i pregiudizi, parla il giorno dopo la grande arrabbiatura che s’è presa all’assemblea del Pd su gay e diritti civili delle coppie di fatto, riflette. Prova anche a difenderlo, il Pd, lo chiama «il mio partito».
Ma «il suo partito» pare un po’ scollato da una società aperta e moderna. E’ vero che è l’unico che discute, ma discute di cose che sono pacifiche ovunque da decenni, non trova «E’ vero, l’Italia è indietro, il Pd ha tutti i suoi limiti, è un partito che fa fatica, ma siamo anche gli unici a non fare annunci roboanti. Ora tutti stanno coi gay, vedo Grillo, Di Pietro, alèeee... Gliel’ho appena detto a tutti e due, ragazzi, non strumentalizzate sulla pelle delle persone... ».
Però sia sincera, per quanto lo si può in politica: s’aspettava più coraggio? È delusa da com’è andata a finire?
«Ma non è affatto finita! Adesso noi a settembre abbiamo una direzione, continueremo la battaglia e vedremo lì cosa succede».
Sì, con D’Alema, Bindi, Fioroni. Le sembrano aperti alle vostre ragioni?
«Con la Bindi ci siamo sentite, non è un problema personale. Io però lo voglio dire anche a lei: basta continuare con questa arroganza di considerare gli altri degli esagitati. Mancuso, Benedino e Fusco non sono affatto esagitati, erano esasperati dal comportamento della Bindi. E poi, basta con questa ossessione dell’unanimismo. Possiamo anche avere idee diverse, ci si scontra, e poi si decide».
Infatti: ormai non è stata già decisa la linea degli altri?
«Quando mai? L’assemblea non è stata messa in condizioni di esprimersi, io non lo so come la pensa l’assemblea del Pd sui matrimoni gay. Sembra normale che in un paese come l’Italia del 2012 di queste cose il primo partito progressista non può neanche parlare? ».
La risposta vien da sé.
«E’ una posizione oscurantista. Io invece voglio poter parlare di quello di cui parlano tutti, Obama, Hollande, persino, dispiace dirlo, Cameron».
Appunto: voi discutete, ma di cose che in Europa sono accettate anche a destra.
«Però quelli sono paesi che riconobbero nei codici civili le unioni di fatto tanti anni fa, per questo oggi sono in condizioni di parlare di matrimoni omosessuali. Noi abbiamo perso tanto tempo, e siamo costretti a fare oggi il primo passo».


l’Unità 16.7.12
Le vere sfide dei progressisti
Austerità e moneta unica, una sfida per i progressisti
Occorre insistere nel proporre una lettura diversa della crisi, non limitata all’emergenza
di Massimo D’Antoni


Un vertice europeo presentato come decisivo e celebrato come un grande successo politico per l'Italia viene metabolizzato nel giro di pochi giorni, tradendo rapidamente le speranze suscitate. Un'importante agenzia di rating declassa il nostro debito. E lo fa pur in presenza di evidenti sforzi di risanamento. Il voto del 2013 viene presentato come fonte di incertezza per gli investitori, e suscita negli schieramenti un dibattito sul necessario grado di continuità o discontinuità con l'attuale governo. Già, il governo Monti: sta facendo bene? Non sta facendo abbastanza? O magari sta facendo bene ciò che poteva, ma ci vuole altro? Di fronte ad un comprensibile senso di spaesamento, è utile ripartire dalla lettura prevalente, ancorché in buona parte fuorviante, dell'attuale crisi europea. Vi sono Paesi che hanno speso troppo, al di sopra dei propri mezzi, accumulando debiti privati e pubblici (spesso debiti privati che sono diventati pubblici per evitare guai peggiori), nonché alimentando deficit commerciali. Occorre dunque riportarli a comportamenti più virtuosi: ridurre la spesa pubblica (nonché quella privata, attraverso politiche di deflazione salariale), liberalizzare i mercati e avviare ampi processi di privatizzazione per ristabilire fiducia degli investitori.
Gli evidenti fallimenti di tale strategia hanno portato negli ultimi mesi ad accettare che occorrano azioni più decisive per rassicurare i mercati ed evitare un tracollo del sistema creditizio. Si è insomma progressivamente abbandonata l'idea che l'austerità da sola bastasse, e il nuovo consenso sembra voler combinare austerità e misure di emergenza. Ha fatto infine breccia l'idea che nel lungo periodo all'unione monetaria debba affiancarsi un'unione fiscale e quindi politica, anche se il contenuto di queste formule non è sempre ovvio. Un tale ammorbidimento, più professato che praticato, non basta a concludere che vi sia ormai consenso sul da farsi. Credo che resti urgente affermare la specificità di una visione progressista per lo meno su due questioni.
La prima è l'urgenza di allentare la stretta delle politiche di austerità. Innanzitutto per ragioni legate all'emergenza, visto che le misure ipotizzate nel recente vertice non sarebbero sufficienti a compensare il pessimismo indotto dagli effetti pesanti dell'austerità su produzione e occupazione. Ma anche in un'ottica di lungo periodo: la sofferenza del sistema produttivo rischia di provocare fenomeni di desertificazione industriale e la perdita irreversibile di quote di mercato, anche da parte di imprese efficienti che hanno però difficoltà di accesso al credito; la carenza di risorse destinate al sistema formativo, responsabile della produzione e riproduzione delle competenze, avrà effetti di lunga durata; non si capisce infine come la riduzione dei bilanci pubblici possa consentire il superamento di limiti “strutturali” del nostro Paese, ad esempio riguardo all'illegalità.
La seconda questione su cui occorrerebbe marcare una propria specificità “progressista” è quella europea. Occorre insistere nel proporre una lettura diversa della crisi, che evidenzi i limiti dell'architettura della moneta unica e ne proponga quindi una revisione coraggiosa, non limitata al minimo necessario a superare l'emergenza. Il problema è più impegnativo di come possa apparire a prima vista, visto che la crisi può essere letta come manifestazione delle difficoltà di far convivere sovranità nazionale, democrazia e integrazione economica, quest'ultima declinata in particolare come integrazione dei mercati dei capitali. Si tratta di individuare l'uscita dal ciclo dello scorso trentennio, che ha subordinato l'economia reale alle esigenze dell'integrazione finanziaria e ha relegato la politica in posizione subalterna. Si capisce come un'azione di questo tipo dovrebbe mostrare grande indipendenza anche dai giudizi, spesso estemporanei, dei mercati finanziari. Un compito formidabile, ma rispetto al quale l'Italia, vantando una consapevolezza che le deriva dal soffrire nella propria carne gli effetti della crisi, potrebbe giocare un ruolo decisivo. Un compito che richiede una visione precisa del problema e delle possibili soluzioni. Continuità o no, siamo ben oltre ciò che il miglior governo tecnico o “di tregua” sarebbe in grado di garantire.

l’Unità 16.7.12
Diritti e poteri: gli usi e gli abusi sul ruolo dei pm
di Antonio Ingroia


DA QUALCHE MESE, PUR NELLE DIFFICOLTÀ IN CUI SI MUOVE IL PAESE REALLE DENTRO una crisi finanziaria senza precedenti, e nel caos del dibattito politico che sembra ancora troppo distante dai bisogni dei cittadini, si respira un clima diverso. È il clima promettente che, da un lato, è favorito dallo spirito di civile confronto introdotto dal governo Monti e, dall'altro lato, è sostenuto da una nuova spinta propulsiva dal basso che viene dai tanti cittadini che chiedono di poter partecipare più attivamente alla costruzione di un'Italia diversa. È una nuova stagione, forse una nuova primavera.
Che può produrre frutti positivi, specie alla vigilia di quella che alcuni analisti chiamano già Terza Repubblica. Non so quanto sia realistica una siffatta prospettiva. Quel che so per certo è che ciascuno dovrebbe fare la sua parte in questa direzione. E credo che componente ineliminabile per l'avvento della nuova stagione debba essere il ripristino di buone regole del confronto anche sui terreni più delicati.
Ad esempio, si è tornato a parlare di riforma delle intercettazioni, evidenziando la necessità di un ripensamento collettivo in tema di poteri della magistratura, specialmente inquirente, al fine di scongiurare ogni forma di abuso. Non servono posizioni di pregiudiziale arroccamento da parte della magistratura, visto che negli anni si sono obiettivamente rivelati limiti e disfunzioni della normativa vigente.
Ma bisogna difendersi dai possibili abusi del potere, non dall'uso però. Voglio dire che si può e si deve discutere, ad esempio, di nuova disciplina del sistema per blindare ancora meglio la segretezza delle intercettazioni irrilevanti, ma occorre farlo affrontando il dibattito con serenità, senza estremismi ed esasperazioni pregiudiziali. Alzare la febbre del dibattito alimentando toni estremistici non serve. E non serve, anzi è controproducente e fuorviante per l'opinione pubblica agitare fantasmi come quando si avanzano accuse del tutto infondate di presunte violazioni di legge attribuite ai pm. Come hanno fatto, ad esempio, due autorevoli giornalisti come Eugenio Scalfari e Emanuele Macaluso che hanno accusato la Procura di Palermo di aver commesso gravi illeciti senza esserne ben informati.
Gravi e ingiustificate le accuse di Eugenio Scalfari. Lo ha ben chiarito il procuratore capo di Palermo chiarendo ciò che andava chiarito. Ma Macaluso e perfino un giurista, seppur non penalista, come Ainis le hanno ribadite, perciò incorrendo negli stessi errori di diritto, senza tener conto delle ovvie distinzioni, previste dalla legge e ribadite da un illustre processualpenalista come Franco Cordero, fra intercettazione diretta ed ascolto casuale di persona non sottoposta ad intercettazione ("intercettazione indiretta").
Altrettanto infondate ed ingenerose le accuse di Macaluso sulle fughe di notizie delle intercettazioni della Procura di Palermo, visto che invece nessuna notizia segreta ne è' effettivamente uscita. Infatti, quelle divenute pubbliche sono state solo quelle regolarmente depositate, e sono state depositate solo quelle riconducibili al tema di indagine, e che quindi possono essere ritenute rilevanti da una delle parti, pm o difese che vogliano provare la non colpevolezza dei propri assistiti. Delle altre, non depositate, non è mai uscita né' una riga sul contenuto e neppure esatte notizie sul numero delle stesse. Se e quando se ne saprà di più, si dimostrerà che Macaluso sbaglia e di grosso. E mi auguro che avrà la sensibilità di ammettere l'errore di essere stato, quanto meno, precipitoso nei suoi (pre-)giudizi.
La verità è che se si vuole voltare pagina bisogna anche smettere lo sport del tiro al piccione, dove il piccione sono certi pm, in questo momento la Procura di Palermo, e i tiratori sono sempre gli stessi, con qualche recente "new entry"... Non è buon sistema per creare le condizioni di un dialogo, un confronto costruttivo al fine di preparare il terreno per un futuro di riforme condivise. Se tutto è presentato come abuso, diventa facile perfino abbracciare certi progetti di legge come la "controriforma Alfano" che, presentata come il rimedio contro l'abuso delle intercettazioni, è invece una legge contro l'uso delle intercettazioni.
Bisogna, insomma, saper distinguere. Un conto è il sacrosanto esercizio del diritto di critica, altra cosa è la denigrazione gratuita, la diffamazione, la calunnia. Ogni indagine giudiziaria, ogni atto di indagine può e deve essere sottoposto a vaglio critico da chiunque, dai cittadini innanzitutto, dai giornalisti, dalla politica, e così via. Purché l'uso non si trasformi in abuso, appunto. Per ricostruire un clima positivo, primaverile, prodromico al cambiamento, bisogna lasciarsi alle spalle certe prassi che hanno caratterizzato il ventennio berlusconiano, con le campagne politico-mediatiche di aggressione contra personam. Ci riusciremo? Per riuscirci, bisogna provarci.
Post scriptum
Essendo stato da sempre lettore (ero ancora liceale quando leggevo le prime annate di Repubblica) ed estimatore di Eugenio Scalfari, non posso nascondere che mi ha fatto male quello che lui ha scritto di me. Ho commesso un errore pensando che i suoi errori giuridici sulla legislazione costituzionale in materia di intercettazioni ed immunità fossero dovuti al fatto che non sapesse di legge. Ho appreso invece di una sua laurea con lode proprio in giurisprudenza. Mi dolgo dell'errore, peraltro dettato dal tentativo fallito di svelenire la polemica, anche se cambia poco in merito all'infondatezza delle sue convinzioni in materia di legislazione vigente sulle intercettazioni. Scalfari, invece, ha colto l'occasione per avanzare dubbi sulle mie capacità professionali. Questo mi offende perché la mia attività e la mia persona credo meritino un pò più di rispetto da un giornalista così autorevole. Quel che mi consola è che, con ben altra umiltà, un vero padre della Patria come Paolo Borsellino non mancò mai di riconoscermi quelle qualità professionali che Eugenio Scalfari non mi riconosce. E questo mi aiuta a farmene una ragione...

La Stampa 16.7.12
La proposta choc dei Radicali
«È ora di legalizzare la prostituzione»


«Di fronte al fallimento delle manie proibizioniste di sindaci sceriffi come Alemanno, è ora di legalizzare e regolamentare l’esercizio della prostituzione». È la proposta choc avanzata ieri dal segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, e dal numero uno del partito a Roma, Riccardo Magi. «Non c’è da stupirsi - continuano i due esponenti politici - se chi ha ridotto un fenomeno sociale a questione di decoro urbano si riveli nei fatti indifferente alle condizioni di vita di migliaia di “sex workers”. Azioni coraggiose come quella dei cittadini dell’Eur e della consigliera Matilde Spadaro hanno il merito di imporre un dibattito che gli sceriffi e certi intellettuali rifiutano da sempre. Come a Milano e Caserta, dove i Radicali hanno presentato delibere popolari per la regolamentazione della prostituzione: meglio disciplinare orari e luoghi piuttosto che farceli imporre dal mercato nero e criminale», concludono Staderini e Magi. In Italia ci aveva pensato la legge Merlin, la n. 75 del 20 febbraio 1958, chiamata così perché la prima firmataria fu la senatrice socialista Lina Merlin, a stabilire la chiusura delle case di tolleranza, ad abolire la regolamentazione della prostituzione e ad introdurre una serie di reati per contrastare lo sfruttamento delle donne. Ed ora i Radicali ripensano alle «case chiuse».

Repubblica 16.7.12
Donne, la sfida di Najat “Fermiamo la prostituzione con le leggi europee”
Parigi, parla la più giovane dei ministri francesi
di Giampiero Martinotti


PARIGI — A trentaquattro anni è il più giovane membro del governo Ayrault, di cui è portavoce. Ma Najat Vallaud- Belkacem è anche il simbolo di una generazione, di una Francia multietnica capace di integrare e di offrire una prospettiva ai figli dell’immigrazione. Nata in Marocco, dove è vissuta fino all’età di cinque anni, è entrata in politica dieci anni fa. E’ uno dei “pulcini” scoperti da Ségolène Royal e valorizzati da François Hollande, che le ha affidato il ministero delle Pari opportunità, ristabilito a pieno titolo per la prima volta dal 1986. Oggi è a Roma per la sua prima uscita internazionale. Si torna a un ministero dei Diritti delle Donne: vuol dire che siamo ancora lontani dalla parità? «Secondo me è importante soprattutto perché questo governo vuol fare della parità un vero obiettivo. Spero che alla fine del mio mandato non venga in mente a nessuno di sopprimerlo ». L’uguaglianza uomo-donna è ancora così lontana? «La società francese ha vissuto troppo a lungo sull’illusione di una parità, che è lungi dall’essere acquisita, basti a pensare alle differenze di remunerazione, pari al 25 per cento, ma anche ad altri fattori negativi che pesano sulle donne, come il part time, gli orari particolarmente difficili, la difficoltà ad accedere alle stesse remunera- zioni degli uomini a causa delle interruzioni di carriera legate alla maternità». Ma quali mezzi ha concretamente per controllare? «Le leggi ci sono, le sanzioni anche, ma la loro applicazione è spesso troppo complicata. Rivedremo i decreti e per tutte le nuove leggi esamineremo l’impatto sull’eguaglianza, pronti eventualmente a correggerle». Ci sono anche donne che rivendicano il diritto di vendere il proprio corpo: è stata sorpresa dalle reazioni all’intervista in cui si è detta favorevole all’abolizione della prostituzione? «So che è un tema scottante: appena si pronuncia la parola prostituzione, tutti vogliono dare il loro parere. E’ un tema su cui bisogna lavorare e la responsabile delle Pari opportunità non può ignorarlo: l’80 per cento delle persone che si prostituiscono sono donne. Non ci si può limitare a dire che è il più vecchio mestiere del mondo, io mi occupo delle vittime: la Francia ha firmato testi internazionali in cui è scritto che la prostituzione va contro la dignità delle donne. Il problema sarà affrontato, metteremo gli specialisti attorno a un tavolo, valuteremo le diverse esperienze. E non dimentichiamo una cosa: le donne che si prostituiscono lo fanno spesso in seguito a una violenza. Dobbiamo trovare il modo di comunicare sul fatto che vendere il proprio corpo non è la normalità. In, passato, il tema è stato rinviato a fine mandato, io voglio occuparmene prima, voglio che si lotti contro la tratta delle donne, che si rispetti la nostra posizione abolizionista ». Per tornare alla parità, non è più difficile essere donna e originaria dei paesi extra-comunitari? Lei ha avuto successo, ma quanti, uomini e donne, continuano a essere discriminati? «Ho avuto la fortuna di vivere senza discriminazioni, ma il fenomeno esiste. François Hollande ha voluto un governo che rende quasi naturale la rappresentazione della società francese e della sua diversità al livello della responsabilità politica. Lo sguardo dei francesi cambierà anche grazie a questo ». Le leggi sul velo e sul burqa non saranno toccate? «Il velo non dev’essere nelle scuole, oggi tutti lo ammettono. La lotta contro il burqa non ha niente a che vedere con la laicità, riguarda invece i diritti delle donne e l’uguaglianza fra i sessi. Il governo non ha nessuna intenzione di rimettere in discussione le due leggi».

l’Unità 16.7.12
Ritrovato a Budapest il criminale nazista Laszlo Csatary
di Virginia Lori


Il criminale nazista più ricercato al mondo, Laszlo Csatary, 97 anni, e accusato di complicità nella morte di 15.700 ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, è stato ritrovato a Budapest. Lo ha reso noto ieri il direttore del Centro Wiesenthal in Israele. «Confermo che Laszlo Csatary è stato identificato e ritrovato a Budapest», ha affermato Efraim Zuroff. «Il quotidiano britannico The Sun ha potuto fotografarlo e filmarlo grazie alle nostre informazioni fornite a settembre del 2011», ha concluso.
Nel 1944, Laszlo Csatary è stato il comandante della Polizia reale ungherese, nella città di Kassa. Responsabile per il ghetto ebraico, secondo le testimonianze il suo ruolo fu determinante nell’organizzare la deportazione degli ebrei. Le cifre sono agghiaccianti: circa 15.700 furono le persone deportate verso Auschwitz.
Non solo. Csatary è anche accusato di aver esercitato la propria autorità in maniera «disumana» in un campo destinato ai lavori forzati. Fu giudicato in contumacia per crimini di guerra nel 1948: la sentenza fu una condanna a morte. L’ex capo della polizia ungherese fuggì in Canada nel 1949, acquisendo una nuova identità. Secondo le ricerche effettuate dal Centro Wiesenthal, l’uomo si rifece una vita sostenendo di essere un cittadino jugoslavo. Si stabilì a Montreal, dove divenne un commerciante d’arte, e ottenne la cittadinanza canadese nel 1955. Nel 1997, la cittadinanza venne revocata dal governo federale: l’accusa fu di aver mentito sulla sua cittadinanza originaria. Due anni dopo, Laszlo Csatary lasciò il Paese per sua stessa volontà, ma le autorità canadesi lo bandirono sine die.
Ora la scoperta dei reporte del quotidiano britannico The Sun. Tra i criminali nazisti più importanti scoperti dal Centro Wiesenthal, Adolf Eichmann (considerato l’organizzatore logistico della «soluzione finale), Karl Silberbauer, l’ufficiale della Gestapo responsabile dell'arresto di Anna Frank, Franz Stangl, il comandante dei campi di concentramento di Treblinka e Sobibor, ed Hermine Braunsteiner-Ryan, una casalinga che viveva a Long Island, New York, che durante la guerra aveva supervisionato l’uccisione di centinaia di donne e bambini.

l’Unità 16.7.12
Tawakkul Karman
Il premio Nobel per la pace: «È vergognoso che la comunità internazionale non si muova: quante altre stragi ci saranno prima che qualcuno intervenga?»
«Cina e Russia con il loro sostegno al raìs si fanno complici di questi crimini contro l’umanità»
«Assad tiene in ostaggio tutto il mondo»
di Umberto De Giovannangeli


«Cos’altro deve accadere in Siria, quante altre stragi di innocenti, quanti altri bambini, quante altre donne devono morire, o essere torturate, stuprati, perché il mondo insorga contro un regime disumano che ogni giorni si macchia di crimini ignobili, efferati? In Siria non è in atto una guerra civile. In Siria si sta consumando il massacro di un popolo che ha avuto il coraggio di ribellarsi contro un regime che fa della forza più brutale il suo unico codice. Il codice del disonore». A sostenerlo, nell’intervista concessa a l’Unità, Tawakkul Karman, yemenita, premio Nobel per la pace 2011. A quanti si sono ribellati al regime di Bashar al-Assad, Karman, donna-simbolo della «Primavera yemenita», dice: «Il mondo intero sa che voi siete nel giusto. Il sangue che avete versato non sarà inutile. Anche voi tornerete liberi. Così com’è avvenuto con Saleh (il presidente-despota yemenita sconfitto dalle proteste di piazza dopo 33 anni di potere, ndr), anche il tempo di Assad finirà».
Tawakkul ha 33 anni, è sposata e ha tre figli. Figlia di un ex-ministro di Saleh, laureata in Scienze politiche a Sanaa, giornalista, da anni si batte per la libertà di espressione nel suo Paese. Quando è scoppiata la Primavera araba, è diventata una delle icone del movimento in Yemen, finendo anche in galera. Aderisce al partito islamico Al Islah, legato ai Fratelli musulmani, e ne incarna l'anima più moderata.
La Comunità internazionale appare nei fatti impotente di fronte ai massacri che segnano ormai da mesi la quotidianità in Siria.
«Lei parla di “impotenza”. Io aggiungerei: colpevole. Perché la comunità internazionale, a cominciare da chi siede nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno gli strumenti per fermare la mano del dittatore-carnefice siriano. Ciò che manca, colpevolmente è la volontà politica di intervenire».
A chi si riferisce in particolare?
«Alla Russia e alla Cina che proseguendo nel loro sostegno ad Assad, si fanno complici dei crimini perpetrati dal regime siriano. Quella che Assad sta conducendo sta conducendo è una guerra contro l'umanità. Ciò che sta accadendo è una vergogna. È una vergogna perché al-Assad è peggio di Gheddafi. Occorre fare il vuoto attorno al regime di
Damasco. Il mondo non può essere complice di chi ha dichiarato guerra al suo popolo».
Nel prospettare una via d’uscita negoziata dalla crisi siriana, c’è chi ha ipotizzato una soluzione «yemenita» per Assad. Che ne pensa?
«Semplice: per Assad vale quanto ho sostenuto a New York incontrando il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon in occasione di un dibattito all’Onu sullo Yemen: l’immunità è contro i principi su cui sono state fondate le Nazioni Unite. Dittatori quali Saleh e Assad devono rispondere dei loro crimini dinanzi a un Tribunale internazionale. Si tratta di giustizia, non di vendetta. Giustizia per quanti sono stati vittime di squadroni della morte che affiancano l’esercito fedele ad Assad. A quanti continuano a difendere il dittatore siriano, chiedo: ma avete letto le testimonianze raccolte da Amnesty International e Human Rights Watch? Testimonianze di rastrellamenti casa per casa, di persone finite con un colpo di pistola alla nuca o sgozzate... Una galleria dell’orrore che riporta alla memoria ciò che è avvenuto a Srebrenica, la follia della pulizia etnica. Di fronte a questo scempio di vite umane, come è possibile sostenere ancora il regime che questo scempio continua a compiere quotidianamente?».
C’è chi sostiene che la comunità internazionale non interviene in Siria perché teme un estensione del conflitto all’intero Medio Oriente.
«Ciò significa che Assad ricatta il mondo intero, oltre che tenere in ostaggio il popolo siriano. Per evitare “problemi” i popoli arabi avrebbero dovuto tenersi i loro dittatori, accettare di essere condannati a vita a dover sottostare a gerontocrazie considerate inamovibili. Se avessimo accettato questa logica mortifera, Mubarak, Saleh, Ben Ali, sarebbero ancora al potere. Ma così non è stato. E non lo sarà neanche per Assad. Anche il tempo del dittatore siriano finirà».
Quando evoca una decisa azione della comunità internazionale, lei prende in considerazione anche l’opzione militare? In altri termini, fare in Siria ciò che si è fatto in Libia?
«No. Io parlo di fare il vuoto attorno ad Assad e al suo clan. Un vuoto assoluto. Il che significa ulteriore inasprimento delle sanzioni, rottura delle relazioni diplomatiche con Damasco, pieno sostegno politico ai gruppi dell’opposizione. Non chiedo l’intervento militare: di certo però non saranno le parole a fermare la mano del carnefice siriano».
Allargando l’orizzonte dalla tragedia siriana alla transizione in Egitto. C’è chi, non solo in Occidente, ha interpretato l’elezione di Mohamed Morsi a presidente come il trionfo dell’«Inverno islamista» sulla Primavera araba
«Non sono di questo avviso, per niente. L’alternativa a Morsi, un uomo che ha conosciuto le prigioni del regime di Mubarak, era un politico che Mubarak aveva scelto come primo ministro nel vivo della rivoluzione. L’Egitto ha scelto di non tornare indietro. Ed è stata una scelta matura, consapevole. D’altro canto, solo chi non conosce la storia dell’Egitto, come della Tunisia o dello Yemen, può meravigliarsi di ciò che sta avvenendo. L'Islam politico ha un radicamento sociale che non può essere cancellato dall'oggi al domani. Per anni ha rappresentato agli occhi della gente, soprattutto degli strati più deboli, un punto di riferimento alternativo. Ma Morsi, tanto per restare all’Egitto, non ha ricevuto una delega in bianco. Ed è un discorso che investe tutti i partiti islamisti che si candidano a governare i loro Paesi: se vogliono guardare al futuro, dovranno tener conto di quella domanda di libertà e di giustizia che ha permeato le Primavere arabe. A nessuno sarà consentito tradire queste aspettative. Nessuno s’illuda o provi a forzare la mano: indietro non si torna».

La Stampa 16.7.12
Così l’Iran sfrutta la Germania per spedire armi a Damasco
I servizi segreti sauditi: lanciarazzi e missili su aerei di linea per aggirare l’embargo
di Maurizio Molinari


80 elicotteri d’assalto. Le forze armate siriane dispongono dei micidiali Mi-25 Hind di fabbricazione russa soprannominati «cannoniere volanti» o «carri armati volanti» che possono portare fino a 1.200 chilogrammi di missili anticarro, bombe e razzi
78% delle forniture dalla Russia. Dagli anni Sessanta il maggior fornitore di armamenti alla Siria è Mosca. Dal 2008 la Russia ha venduto alla Siria armi per 4,7 miliardi, il 78 per cento del totale In un decennio la spesa annua per armamenti di Damasco si è moltiplicata quasi per sette
I pasdaran usano Beirut come base e ricorrono all’aiuto degli Hezbollah
Riad chiede di rafforzare le sanzioni, permettendo l’ispezione dei velivoli iraniani

L’esercito siriano ha un crescente bisogno di munizioni e pezzi di ricambio per continuare la repressione degli insorti, adesso meglio equipaggiati ed efficaci.
Teheran fa arrivare i rifornimenti di armi al regime di Bashar Assad sfruttando gli aerei di linea iraniani sulle rotte con Damasco e Beirut ma anche grazie a triangolazioni con tre dei maggiori aeroporti tedeschi: a rivelarlo è il dossier confezionato da una task force dei servizi di sicurezza dell’Arabia Saudita, che ne ha messo al corrente Berlino e altre capitali europee nel tentativo di impedire che gli scali dell’Unione Europea possano essere sfruttati per facilitare le consegne di armamenti destinati a essere usati contro la popolazione civile.
Il dossier è il risultato della scelta di Riad di creare una particolare unità di intelligence per ostacolare gli aiuti di Teheran a Damasco e, più in generale, per impedire alla Repubblica islamica e ai suoi alleati libanesi di Hezbollah di creare in Medio Oriente un network di cellule ostile alle nazioni arabe sunnite. Dal documento emerge che Teheran per far arrivare armi leggere, strumentazioni di intelligence, lanciamissili e, a volte, anche missili, sfrutti soprattutto gli aerei della compagnia di bandiera, l’Iran Air, ripetendo saltuariamente le operazioni con le più piccole Mahan Air e Yas Air. A gestire le spedizioni sono i comandi delle Guardie rivoluzionarie iraniane, che dipendono dalla Guida Suprema della Rivoluzione Alì Khamenei, attraverso la Forza Al Quds, ovvero le proprie unità all’estero.
La direzione dell’intelligence di Riad nel mese di giugno ha deciso di raggruppare circa 50 agenti, in gran parte sauditi ma anche stranieri sotto contratto, con esperienza nell’industria dell’aviazione civile e competenza sulla gestione degli aeroporti internazionali al fine di disegnare una mappa il più possibile dettagliata delle rotte seguite dagli aerei iraniani verso Damasco oppure verso Beirut, da dove le armi vengono poi portate oltre confine via terra dagli Hezbollah.
Ciò che emerge è che il quantitativo maggiore di spedizioni avviene grazie all’Iran Air. In particola re due degli Airbus A300 in servizio fra Damasco e Teheran - codici di volo IRA516 Epibc e IRA517 Epiba - e un Airbus A310 - codice di volo IRA513 Epibk - che vola sulla rotta Teheran-Beirut. Tale traffico viola le sanzioni dell’Onu contro Damasco, votate a seguito della repressione dei civili da parte del regime, ma le autorità internazionali hanno difficoltà a intercettarlo a causa dei voli diretti e dei forti legami politici fra Iran, Siria e Libano. Ma il bisogno di rifornimenti da parte di Damasco è considerevolmente cresciuto negli ultimi due mesi e dunque le rotte Teheran-Damasco e Teheran-Beirut non bastano più ad alimentare le forze di Assad. Da qui la scelta della Forza Al Quds di sfruttare anche gli aerei dell’Iran Air che volano in Europa e soprattutto in Germania. In particolare sono gli scali di Francoforte, Colonia e Amburgo a essere usati per le triangolazioni: gli aerei passeggeri dell’Iran Air arrivano carichi di armi nella stiva e decollano poi per Damasco portando il carico a destinazione. L’entità del fenomeno è tale che, dopo i contatti fra servizi di sicurezza, il governo saudita sta pensando di sfruttare i normali canali diplomatici per chiedere a Berlino, come ad altre capitali europee, di accrescere i controlli e la pressioni sull’Iran Air per bloccare tale traffico.
Se finora la Germania non è intervenuta è per l’assenza di specifiche sanzioni, Onu o Ue, che consentono di limitare le operazioni di volo delle compagnie aeree iraniane o autorizzano ispezioni delle stive degli aerei atterrati. Un’ipotesi potrebbe essere inserire le parti di ricambio per aerei civili nelle sanzioni internazionali: è stata recentemente discussa in seno al gruppo 5+1 che include Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania ma l’intesa ancora non è stata raggiunta.
Il materiale accumulato dai sauditi, secondo fonti di intelligence occidentali, porta a dedurre che le cellule di Al Quds di base all’aeroporto Hariti di Beirut e allo scalo internazionale di Damasco hanno la responsabilità della gestione dell’intera rete di voli, che include i vettori di Mahan Air e Yas Air. Il vicecomandante della Forza Al Quds, Esmail Ghaani, in maggio ha confermato pubblicamente di inviare a Damasco «materiale per sostenere il governo» ed è stato inserito dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti nella lista nera degli individui implicati nel traffico di armi con Damasco. Sono il ministero della Difesa e il ministero dell’Intelligence di Teheran a selezionare di volta in volta le richieste di Damasco decidendo cosa spedire: nella maggioranza dei casi di tratta di strumentazioni elettroniche per la sorveglianza di intelligence ma nelleultime settimane sono aumentati anche giubbotti anti-proiettili, fucili automatici, mortai, kalashnikov e munizioni, a seguito del fatto che i ribelli sono riusciti a impossessarsi di alcuni depositi dell’esercito. In singole occasioni Teheran ha imbarcato sull’Iran Air anche missili antinave. La previsione dei sauditi è che questi traffici aumenteranno perché Damasco ha adesso crescente bisogno di pezzi di ricambio per blindati, tank, elicotteri e jeep che non può più acquistare sul mercato a causa delle sanzioni internazionali. La preoccupazione di Riad è che tali spedizioni aeree portino a un’escalation della crisi siriana sui cieli del Medio Oriente e anche dell’Europa, con il risultato di vedere la Forza Al Quds ad estendere ulteriormente le proprie attività. Se Riad considera tali cellule delle Guardie della rivoluzione come il maggiore avversario è per la loro implicazione nel corso del 2011 nel complotto per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, nell’uccisione di un agente di sicurezza saudita a Karachi e nel tentativo di far esplodere l’ambasciata saudita e il ponte re Fahd in Bahrein.

l’Unità 16.7.12
Israele
Tel Aviv, attivista si dà fuoco: «Accuso Netanyahu»


Un manifestante israeliano ha tentato di immolarsi con il fuoco durante una marcia di protesta a Tel Aviv nel primo anniversario dell nascita del movimento di contestazione per denunciare il carovita e le ineguaglianze sociali. L'uomo è stato ricoverato e le sue condizioni di salute sono definite gravi. L'uomo «ha lasciato per strada alcune fotocopie di una lettera, per noi è un tentativo di suicidio», ha dichiarato la stessa fonte, aggiungendo che la vittima ha intorno ai 40 anni. Alcuni testimoni, citati dal sito di informazione web Ynet, hanno raccontato che l'uomo ha letto una lettera e poi si è dato fuoco. Dure accuse al governo israeliano sono contenute in un volantino trovato a breve distanza dal corpo di Moshe
Silman. Nel volantino Silman il 58enne sostiene di essere stato ridotto in condizioni di massima indigenza a causa dell'atteggiamento a suo parere arbitrario ed insensibile della previdenza sociale. «Accuso lo Stato di Israele, accuso Netanyahu e (Yuval) Steinitz (il ministro delle finanze,ndr), quelle carogne, per le umiliazioni inflitte ogni giorno agli strati sociali indeboliti... prendono dai poveri per dare ai ricchi». Il gesto estremo di Silman desta reazioni di orrore nella stampa israeliana. Secondo la polizia circa 8 mila persone hanno sfilato ieri sera a Tel Aviv. Hanno scandito i principali slogan del movimento della scorsa estate: «Il popolo chiede giustizia sociale» e hanno chiesto le dimissioni del premier Netanyahu.

Corriere 16.7.12
L'epidemia attribuita alle donne dai romani
di Eva Cantarella


Nel 331 a.C. Roma era stata sconvolta da un processo terminato con la condanna a morte di 170 donne, accusate di veneficium (avvelenamento omicida) ma quel che accadde nel 180 a.C. superò ogni immaginazione. Un'epidemia aveva mietuto molte vittime, e una commissione nominata per scoprirne le cause concluse che le colpevoli erano, di nuovo, delle donne. Più di duemila, questa volta: tutte condannate a morte. Quale fu la forma dell'esecuzione, le fonti non dicono. Qualche informazione in più, invece, forniscono su un successivo processo, sempre contro delle donne, sempre con la stessa accusa. Nel 153 a.C. Publilia e Licinia furono accusate di aver avvelenato i mariti, ambedue consoli, e furono condannate all'esecuzione capitale. Che questa volta, però non fu pubblica, come era la regola: secondo il costume dei bei tempi antichi furono strangolate dai congiunti. Un riguardo alla loro condizione sociale, forse? Al di là di ogni dubbio, comunque, una cosa è certa: i romani erano terrorizzati dalla presunta tendenza delle loro donne di usare i veleni, e non di rado la legavano alla loro presunta rilassatezza di costumi. E il buon Catone ne era assolutamente certo. Come non perdeva occasione di dire, ormai tutte le donne erano adultere, e «a Roma non c'è adultera che non sia un'avvelenatrice».

Corriere 16.7.12
Così Antonio sconfisse Ottaviano
Nello scontro tra gli eredi di Giulio Cesare, il vero vincitore fu il vinto
di Pietro Citati


La Vita di Antonio è la più bella tra le Vite di Plutarco. C'è un sovrano equilibrio tra racconto biografico e storico: una attenzione delicatissima ai «segni dell'anima», ai particolari minimi della vita, agli aneddoti raccontati con grazia, e sopratutto agli aspetti mitici della natura di Antonio. Secondo la tradizione, Antonio discendeva da un dio e da un semidio: Dioniso ed Eracle, come Alessandro Magno. Persino la scarsa simpatia che, talvolta, Plutarco nutre per il suo personaggio, accresce bellezza al racconto, perché genera un contrasto psicologico profondo e affascinante.
Plutarco ama l'ingenuità e la naturalezza di Antonio, e la sua capacità di sopportare le sventure: quei doni che lo fanno esaltare da parte dei soldati, che lo preferiscono a Cesare e a Ottaviano, più contenuti di lui. Ma ama anche la dote opposta: quella di impersonare drammatiche e grandiose parti teatrali. Dopo l'assassinio di Cesare, Antonio recita con straordinaria efficacia il suo encomio funebre, e Plutarco lo rappresenta con arte non minore di quella di Shakespeare. Antonio trascina e affascina il popolo: mescola alle lodi per Cesare espressioni di pietà e di orrore per l'assassinio; e nel concludere il discorso agita nell'aria le vesti insanguinate e trafitte dai pugnali, suscitando rabbia e disperazione. Molti anni prima, Cesare aveva educato Antonio, insegnandogli la discrezione e la misura: ora, il suo allievo lo ricambia con il proprio furore, che coincide con la sua sete insaziabile di potere.
Tutta l'esistenza di Antonio vive sotto il segno di Dioniso. L'ubriachezza a tutte le ore, le spese eccessive, il suo avvoltolarsi tra le donne, passare il giorno dormendo o vagando frastornato e con la testa greve, le notti di bagordi e di spettacoli; l'amicizia coi mimi, i buffoni, i giocolieri, i flautisti, i citaredi, gli attori; i banchetti presso i boschi e i fiumi; la compagnia con le donne travestite da baccanti e gli uomini e i fanciulli travestiti da satiri; il suono delle cetre e delle zampogne; tutta l'esistenza di Antonio ricorda questo scatenato timbro voluttuoso e lussurioso. Ma Plutarco non dimentica mai che si tratta di una vita mitica, che obbedisce agli ordini invisibili di Dioniso Placido e Datore di Gioia e di Dioniso Mangiatore di Carni.
***
Nella vita di Antonio, Cleopatra fu la rivelazione. La regina risalì il fiume Cidno su un battello colla prora d'oro, e i marinai vogavano con remi d'argento al ritmo di flauti accompagnati da zampogne e cetra. Cleopatra era sdraiata sotto un baldacchino trapunto d'oro, acconciata come Afrodite, mentre altri servitori ritti ai suoi fianchi, simili ad amori dipinti, le facevano vento, e le servette più belle, in veste di Nereidi e di Grazie, stavano alle barre dei timoni e alle gomene. Profumi invadevano le rive; e a terra e sul fiume, erano numerosissime luci ordinate e disposte con tali rapporti e inclinazioni da formare uno spettacolo armoniosissimo. Sulle bocche di tutti correva una voce: «Afrodite viene in tripudio a unirsi a Dioniso per il bene dell'Asia».
Con una specie di meraviglia, Plutarco ricorda che, malgrado la leggenda, Cleopatra non era bellissima: valutava ed esaltava la propria bellezza al di sopra del giusto. Ma la sua conversazione, come raccontavano le testimonianze giunte dopo più di un secolo fino a Plutarco, aveva un fascino indescrivibile, con il quale attrasse sia Cesare sia Antonio. Possedeva la seduzione della parola. La sua lingua era come uno strumento dalle molte corde, perché parlava perfettamente molte lingue. Si adattava al carattere di Antonio e alla sua teatralità e alla sua volgarità soldatesca e alla sua passione dionisiaca, che condivideva come una devota. I figli di Antonio e di Cleopatra ebbero il soprannome di Sole e di Selene: ciò alludeva a una nuova età dell'oro che stava per illuminare la terra. Tutto questo avveniva sotto la protezione di Cleopatra-Iside e di Antonio, che recitava contemporaneamente le parti di Dioniso e di Osiride, fusi in un solo dio.
Secondo Plutarco, Antonio amava profondamente Cleopatra, e ne era dominato e soggiogato. Bastava che lei tardasse qualche minuto e lui si rodeva il cuore, in preda all'ansia, all'inquietudine e all'ebbrezza. «Spesso balzava in piedi per guardare in lontananza, finché lei approdava, portando il dono incomparabile della sua grazia». Plutarco pensava che quest'amore fosse una «terribile calamità, a tratti addormentata come per incanto dal sopravvento della ragione»; e poi divampava con impeto rinnovato. Era molto più di una calamità: era una vocazione, una follia, una dedizione, che aprì ad Antonio le porte di un mondo che fino allora gli era sconosciuto. Credo a torto, Plutarco pensava che Cleopatra non amasse Antonio: secondo lui, fingeva e recitava, facendo dimagrire il corpo, o mostrando uno sguardo smarrito, languido e triste, se Antonio si allontanava. In una grande scena spettacolare e colorata, i due riempirono di folla il ginnasio, collocando su una tribuna due troni d'oro, uno per Antonio e uno per Cleopatra, e altri per i figli su una tribuna più bassa.
Per qualche anno, i destini di Antonio e di Cleopatra si divisero. Antonio sposò Ottavia, la sorella di Ottaviano: una donna saggissima e accorta, che cercò di avvicinare il marito e il fratello, cancellando la divisione e la separazione tra l'Occidente e l'Oriente. Questo matrimonio suscitò una grande eco a Roma: il puer atteso da Virgilio nella quarta ecloga, come restauratore di una nuova età dell'oro era, probabilmente, il figlio che Antonio aspettava da Ottavia. Anche i rapporti con Ottaviano si strinsero: giocavano insieme a sorte, a dadi, o facevano combattere i galli e le quaglie. Antonio perdeva sempre, come se soffrisse di una specie di inferiorità astrologica rispetto ad Ottaviano. «Il tuo Genio — disse ad Antonio un indovino egizio — teme il suo Genio e, orgoglioso e fiero quando è solo, diventa più umile e ignobile quando Ottaviano gli è vicino». Plutarco immaginava che la Provvidenza volesse la vittoria del futuro Augusto. «Era necessario — scrisse — che tutto il mondo si riunisse nelle mani di Augusto».
Malgrado l'affettuosa mediazione di Ottavia, tra Antonio e Ottaviano scoppiò la guerra. Fu, fin dal principio, una guerra dionisiaca. Antonio impose a tutti gli artisti dionisiaci di raggiungere Samo, e mentre, intorno, quasi tutti i paesi vibravano di lamentazioni, per più giorni solo Samo risuonò di flauti e di arpe, mentre i teatri erano pieni di folla. Anche ad Atene, Antonio s'immerse nuovamente in divertimenti e spettacoli teatrali. Ad Azio, dove le veloci e leggere navi di Augusto sopraffecero le lente e vaste navi di Antonio, Cleopatra fuggì improvvisamente con la sua flotta. Mi sembra un episodio inesplicabile. Meno inesplicabile fu la fuga di Antonio, soggiogato da Cleopatra. Raccolto dalla nave della regina, da principio Antonio non volle vederla: si recò a prua, si sedette, e rimase solo, in silenzio, con la testa tra le mani, per tre giorni. Intanto i soldati del suo esercito di terra lo desideravano ardentemente: avrebbero voluto combattere con lui; e per molti giorni aspettarono invano di vederlo comparire, mostrando di rimanergli fedeli anche dopo essere stati abbandonati.
Quando Antonio comprese che quella guerra, che aveva voluto perdere, era finita, non si turbò, ma quasi lieto di aver deposto ogni speranza, venne accolto nella reggia di Alessandria. Ci furono di nuovo, sotto il segno di Dioniso, conviti e baldorie. Cleopatra e Antonio sciolsero la loro associazione di Viventi inimitabili per costituirne un'altra, di Compagni nella morte, alla quale si iscrivevano gli amici che intendevano morire insieme. Cleopatra giocava a dadi con Antonio, beveva con lui, cacciava con lui: di notte, quando percorreva Alessandria, soffermandosi alle porte o sotto le finestre delle case del popolo, e beffeggiando gli abitanti, indossava le vesti di una servetta, per tenergli compagnia. Gli alessandrini godevano di queste pagliacciate, e si univano ai loro divertimenti. Dicevano soddisfatti che Antonio usava la maschera tragica con i romani, e con loro la maschera comica.
Venne l'ultima sera. Verso metà della notte, mentre la città era silenziosa e prostrata nel timore e nell'attesa, furono uditi improvvisamente suoni armoniosi di strumenti di ogni sorta e grida d'una turba che inneggiava a Dioniso e saltava come i satiri, quasi una schiera di baccanti tumultuose. Nella corsa, i devoti del dio attraversarono il centro della città, e poi raggiunsero le porte esterne, dove si persero. Agli alessandrini, che ascoltavano in silenzio, parve un segnale simbolico: Dioniso, il dio più imitato ed eguagliato da Antonio per tutta la vita, lo stava abbandonando.
Secondo Plutarco, Antonio si uccise penosamente: sebbene, prima di morire, dicesse a Cleopatra parole grandiose: «La invitò a non spargere lamenti su di lui per i suoi ultimi rovesci, bensì a felicitarsi con lui per i beni che gli erano toccati, poiché era stato il più illustre degli uomini, il più potente, ed ora era stato vinto in modo non ignobile, lui Romano da un Romano». Ottaviano cercò inutilmente di impadronirsi di Cleopatra, per condurla a Roma, prigioniera, nei suoi trionfi. La incontrò un'ultima volta; e sebbene avesse la voce tremante e gli occhi incavati, il suo fascino non era spento del tutto: balenava nell'intimo, da chissà quale recesso, e si manifestava nelle mobili e inquiete espressioni del volto. L'ultimo giorno, Cleopatra si fece preparare un bagno. Consumò un magnifico pasto. Dalla campagna arrivò un contadino con un canestro pieno di grandissimi e bellissimi fichi. Tra i fichi, c'era un aspide, nascosto sotto le foglie, e Cleopatra denudò il braccio e lo offerse al morso mortale. Così abbandonò la vita e le grazie e i divertimenti della squisita conversazione.
La fedele Ottavia accolse ed educò i figli di Antonio e di Cleopatra e li allevò insieme ai suoi e curò amorosamente i loro matrimoni. Malgrado le apparenze, nella contesa tra Augusto e Antonio, il vincitore fu il vinto. La monarchia apollinea, che Augusto aveva preparato con tanta cura e attenzione, decadde e si spense rapidamente. Caligola soppresse le celebrazioni per la battaglia di Azio: Nerone, il dionisiaco, discendeva da Antonio, per parte sia di padre che di madre. La superba monarchia orientale, che Antonio-Dioniso-Osiride aveva sognato insieme a Cleopatra-Iside, ebbe dalla sua parte il futuro. Roma diventò Alessandria.

Corriere 16.7.12
La rivoluzione del «Deuteronomio»
di Armando Torno


Tra gli studi sulla Bibbia che recano nuove riflessioni va segnalato l'ampio saggio Torah e storiografie dell'Antico Testamento. L'autore, Gianantonio Borgonovo (e collaboratori, come si legge al frontespizio), oltre che dottore della Biblioteca Ambrosiana è tra i più acuti esegeti del nostro tempo.
Cosa propone? Ricordiamo innanzitutto che sino agli anni 60 la cosiddetta «ipotesi documentaria» riteneva che il Pentateuco (o Torah, ossia i primi cinque libri della Bibbia) fosse frutto di una redazione, per di più svalutata, di opere precedenti. Tale concezione era quasi un dogma in ambito esegetico. Si credeva che per capire questa parte si dovesse vivisezionarla, ritrovare le fonti originarie; e la finalità prima di una lettura critica doveva dare ragione del fatto storico. Era il mito genetico dell'ermeneutica romantica che continuava. Ora ci troviamo in una situazione che si può definire contraria alla precedente, almeno per quanto riguarda le fonti (o tradizioni) più antiche come la jahvista o l'elohista. La prima era ritenuta dall'«ipotesi documentaria» un'opera del tempo di Davide e Salomone; la seconda una fonte profetica del Regno del Nord (VIII secolo a. C.). C'era anche lo schema classico di Julius Wellhausen, asservito a Hegel, che prevedeva una sintesi del periodo di Ezechia (fine VIII secolo): era detta jehovista.
Colui che era chiamato redattore, o agiografo, Borgonovo lo considera un vero e proprio autore che ha sfruttato materiale antico non organizzato, disperso in racconti legati a memorie collettive («memorie fondatrici»). Il saggio collega il libro del Deuteronomio, l'ultimo della Torah, a quanto Karl Jaspers chiamava l'Achsenzeit, ossia il momento in cui tutta la storia mondiale passa dal tempo mitico alla riflessione sul tempo mitico. Sarebbe appunto il Deuteronomio il responsabile di questa rivoluzione in ambito ebraico: tra il 520 e il 515 si realizza la sintesi della tradizione profetica precedente. Non soltanto si ha un Tempio in Gerusalemme esclusivamente dedicato al Dio dell'Esodo, a Jhwh, ma anche una costituente che dà forma alle tradizioni passate e fa nascere ciò che oggi si chiama giudaismo. Il tutto si attua con la centralizzazione del culto nella stessa Gerusalemme, con l'istituzione della Pasqua e delle altre grandi feste storicizzate, con la fissazione di un calendario in cui il sabato è il perno. E anche con una forma di governo di re e sacerdoti; quest'ultima, però, non ha avuto un'attuazione per — a quanto sembra — l'intervento persiano. Dall'impostazione di Borgonovo deriva un nuovo modo di fare esegesi della Torah: guardare l'insieme della narrazione prima di giungere al particolare. La prospettiva teologica dovrebbe emergere dall'attenzione delle memorie del passato. Insomma, è giunto il momento di distinguere tra teologia e ideologia.
Il libro: Gianantonio Borgonovo e collaboratori, «Torah e storiografie dell'Antico Testamento», Elledici, pp. 736, 45

Repubblica 16.7.12
Il sorpasso delle donne “Così sono diventate più intelligenti dell’uomo”
Studio sul QI: perché prevalgono le femmine
di Enrico Franceschini


1905 lo psicologo francese Alfred Binet pubblica il primo test di intelligenza moderno
1912 lo psicologo tedesco William Stern conia il termine I. Q. (Intelligenzquotient) e lo definisce nella formula età mentale/ età biologica)
1939 lo psicologo americano David Wechsler pubblica il primo test d'intelligenza per gli adulti con domande di cultura generale

LONDRA — LE donne sono più intelligenti degli uomini. Forse lo sono sempre state, da Adamo ed Eva in poi, ma in passato non riuscivano ad esprimere in pieno tutto il loro potenziale. Oppure lo sono diventate in era più recente, grazie allo stress di dover combinare famiglia e lavoro, casa e carriera, insomma allo sforzo di dover fare più cose contemporaneamente. Come che sia, per la prima volta le femmine ottengono mediamente risultati migliori dei maschi nei test sul quoziente d’intelligenza. Non era mai successo. Non succede in ogni Paese, ma la tendenza è chiara ed evidente: «L’effetto della vita moderna sul cervello delle donne sta appena cominciando ad emergere», afferma James Flynn, lo psicologo considerato la maggiore autorità mondiale in materia, ora in procinto di pubblicare un nuovo libro in cui analizza il “sorpasso” femminile in questo campo. La storia dei test sul quoziente d’intelligenza (QI) è controversa. È sempre stato oggetto di dibattito se ottenere un alto punteggio sia un metodo accurato per misurare l’intelligenza assoluta. Spesso i risultati dei test sul QI sono stati usati impropriamente per sostenere la superiorità di una razza su un’altra, o di un sesso (quello maschile) sull’altro. E tuttavia i test vengono abitualmente utilizzati come sistema di analisi in ambito accademico, lavorativo, sociologico. Una cosa è certa: negli ultimi decenni, i punteggi medi hanno continuato progressivamente a salire, sia per gli uomini che per le donne. Proprio una scoperta del professor Flynn, negli anni ’80, ha stabilito che, perlomeno nei Paesi occidentali, i risultati dei test crescono mediamente di tre punti ogni decennio, per cui un europeo odierno dovrebbe ottenere un punteggio di trenta punti più alto dei suoi nonni o bisnonni. «È una conseguenza della modernità», dice Flynn al Sunday Times, «la complessità del mondo moderno ha spinto i nostri cervelli ad adattarsi e ha fatto crescere il nostro QI». Ma la modernità, aggiunge lo studioso, sembra avere agito da stimolo più sulle donne che sugli uomini. I dati da lui raccolti indicano infatti che il QI femminile è cresciuto ancora di più di quello maschile. Il risultato è che in certe nazioni, come l’Australia, maschi e femmine ottengono ora in media un punteggio identico. In altri Paesi, come la Nuova Zelanda, l’Estonia e l’Argentina, dove il professor Flynn ha iniziato le sue ricerche, le donne hanno adesso superato gli uomini. Un evento significativo, poiché è la prima volta che accade su larga scala. Due le teorie per spiegare il fenomeno. Una è che le donne d’oggi, costrette a una vita multitasking in cui devono giostrare allo stesso tempo famiglia e lavoro, abbiano sviluppato una maggiore intelligenza. L’altra è che abbiano sempre avuto potenzialmente un’intelligenza superiore agli uomini, ma solo adesso possano esprimerla, perché più libere di avere un ruolo autonomo. «Le donne sono state per secoli il sesso svantaggiato, represso», commenta Flynn. «Ora che sono diventate indipendenti si vede meglio quanto valgono». Emma Gordon, una studentessa laureatasi alla Bristol University con il massimo dei voti, concorda: «Oggi è diventato socialmente accettabile che una donna sia più intelligente di un uomo e i dati scientifici lo dimostrano». Helena Jamieson, uscita da Cambridge con un dottorato, crede che sia stato sempre così: «Sotto sotto noi donne abbiamo sempre saputo di essere più intelligenti degli uomini, ma in passato dovevamo attenerci allo stereotipo del “gentil sesso”, perciò abbiamo lasciato credere che fossero più intelligenti loro ».

Repubblica 16.7.12
QI, il sorpasso delle donne più intelligenti degli uomini
Ma la vera conquista è poterlo dire
di Michela Marzano


LE DONNE più intelligenti degli uomini? Se dovessimo ragionare in termini di “guerra tra i sessi”, lo studio sul QI realizzato da James Flynn darebbe ragione a chi, da tempo, si batte per il riconoscimento della superiorità femminile. Le donne sono da sempre le migliori. Solo che per secoli non hanno avuto la possibilità di mostrarlo. Scienza docet. PECCATO che la scienza abbia spesso preteso l’esatto contrario. E che ancora nel 2005, una ricerca della Manchester University mostrasse che il QI maschile fosse in media più alto di 5 punti di quello femminile. Peccato soprattutto che, ancora oggi, si strumentalizzi la scienza per mostrare la presunta superiorità di un sesso sull’altro, invece di cercare di capire in che modo si possa eventualmente sviluppare l’intelligenza di un essere umano, poco importa se uomo o donna. Perché ormai sono tanti i ricercatori che lo riconoscono: l’intelligenza non è qualcosa di statico. Il QI umano evolve, cresce o diminuisce a seconda degli stimoli dall’esterno o, per dirla in termini filosofici, a seconda del “riconoscimento” che ci viene dato fin dalla più tenera età. Certo, anche per l’intelligenza, come per le caratteristiche fisiche, esiste una base genetica. Ma è sempre e solo all’interno di un contesto socio-culturale che il QI aumenta o si atrofizza. Come poteva una donna nel passato mostrare le proprie capacità, consolidarle e svilupparle quando non poteva far altro che accettare di essere un “angelo del focolare”? Oggi, la condizione femminile è notevolmente cambiata. E anche se resta ancora molto da fare, sono sempre più numerose le donne che occupano posizioni di rilievo e di responsabilità. Esattamente come gli uomini. Perché allora affidarsi alla scienza per rivendicare una superiorità di cui, in fondo, non si ha alcun bisogno? Quando usciremo dalla “guerra dei sessi” per cooperare tutti insieme, donne e uomini, alla costruzione di una “società decente”, come scrive il filosofo israeliano Margalit, in cui nessuno si senta umiliato?

Repubblica 16.7.12
Giulio Paolini
Il maestro concettuale racconta le derive del contemporaneo e attacca il proliferare delle performance
Il fantasma della bellezza
I musei nascono solo per intrattenere. Ma l’arte non interessa più a nessuno
di Franco Marcoaldi


TORINO - Era nelle cose: questa serie sulla bellezza non poteva che concludersi con l’incontro con un artista. E la scelta è caduta su Giulio Paolini: per svariate ragioni. È famoso ma da tempo vive appartato, dunque il suo giudizio sul panorama circostante risulta tanto libero, quanto tagliente. La dimensione riflessiva ha sempre avuto in lui un rilievo analogo a quello della pura espressività artistica, non foss’altro in quanto esponente di punta dell’“arte concettuale”. Anche se poi, a ben vedere, il suo lavoro esorbita da questa etichetta. Sì che a ragione lo si potrebbe definire anche artista metafisico, platonico, labirintico, teatrale. O “tautologico”, come scrisse Italo Calvino in un bellissimo saggio del 1975: «Tutto il lavoro del nostro pittore parte dal presupposto che la pittura sia un tutto compiuto e definitivo, un edificio a cui egli non pretende di aggiungere nulla. In un’epoca in cui è facile fare gli iconoclasti, egli si contraddistingue per il rispetto che porta alla pittura, per la fedeltà al mestiere di pittore nei suoi più umili elementi, per la modestia e insieme per la sicurezza con cui allinea nuove opere nel margine strettissimo che resta a un’attività creativa ridotta all’analisi di se stessa». Da quel saggio sono trascorsi trentasette anni, eppure le parole di Calvino si attagliano perfettamente anche all’oggi. Perché l’opera di Paolini è una sorta di ininterrotta variazione musicale attorno allo stesso tema: come si può catturare un’immagine che, nella sua costitutiva virtualità, sia rivolta per l’appunto alla ricerca della bellezza? «Proprio ieri mi è capitato di leggere un’affermazione dello storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann, che nell’arte italiana scorgeva una “bellezza impassibile”. Oggi questa considerazione riferita all’arte classica non ci basta più, salvo volersi abbandonare al rimpianto nostalgico. Io penso alla bellezza come a una figura di cui non riusciamo a riconoscere i lineamenti e che sta collocata su una soglia, un confine, una frontiera: percepiamo che quella soglia è abitata, ma non riusciamo a sapere da chi, da quale immagine. Al di qua di quella linea di confine la nostra idea di bellezza si fonda inevitabilmente su quella tradizione di cui parlava Winckelmann, quindi sul passato. Mentre al di là della soglia esistono soltanto ipotesi, visioni, prospettive». Quanto lei dice sembra avere tratti “romantici”. Si riconosce nella celebre affermazione di Keats: «Bellezza è verità, verità è bellezza»? «Preferirei sottoscrivere quella, non meno nota, di Albrecht Dürer: “Cosa sia la bellezza non so”… La bellezza appare in controluce: le attribuiamo i lineamenti che i nostri occhi sono stati educati a vedere “dal vero”, ma che, di fatto, non le appartengono. E quindi non bastano a configurarla, a darle un volto. Da qui la nostra perenne ricerca, che secondo alcuni sarebbe il privilegio degli esseri umani, mentre secondo altri, ai quali mi unisco, rappresenta piuttosto la nostra maledizione. Perché a differenza di altre creature, noi non ci accontentiamo di quanto ci tocca “naturalmente”… e ci ritroviamo perennemente sospinti verso un’incognita, in una tensione condannata a restare insoddisfatta». Eppure guardando il Lotto, pittore da lei tanto amato, avrà visto, toccato con mano la bellezza. «Certamente, ma per quanto disponibile a farmi invadere dalla bellezza, non credo nell’esistenza di un codice che la definisca una volta per tutte. In altri termini, per quanto mi piacerebbe appropriarmi delle parole di Winckelmann, non riesco più a farle mie. Di sicuro l’obiettivo dell’arte non può essere la natura – già Oscar Wilde sosteneva che non è l’arte a imitare la natura, ma viceversa – né tantomeno la verità…». …Robert Musil sosteneva addirittura che non siamo noi a inseguire la verità, ma è la verità a inseguire noi. «Appunto… La verità è ancor meno consistente della bellezza. Non esiste, è soltanto un’aspirazione, che spero non convinca chi la cerca ad illudersi di trovarla». L’arte frattanto sembra essersi sottratta dalla scommessa sulla bellezza. Dunque, oggi cosa persegue? «Qualcosa che non le è proprio: una dimensione di partecipazione, comunicazione e informazione, con risultati nefasti. Per perseguire quegli obiettivi esistono modalità più congrue: dalla politica all’impegno civile. E invece, prenda Documenta, il sismografo principale dell’arte contemporanea, attualmente in corso a Kassel. Per l’edizione di quest’anno, oltre agli artisti, sono stati invitati anche esponenti del mondo della comunicazione e delle scienze sociali per “dialogare” e partecipare all’abituale parata di valori correnti e effimeri imposti dalla stringente attualità. È ridicolo, anzi grottesco. Lo si voglia o meno, l’arte non ha questa vocazione a rimboccarsi le maniche e a sedersi intorno a un tavolo. L’arte non si siede intorno a nessun tavolo: sta su un trono o in un angolo, a seconda dei casi». In verità ora pare inginocchiata, come tutti, a pregare l’unica, indiscussa divinità del nostro tempo: il denaro. «I criteri riconosciuti e condivisi, che un tempo regolavano il mondo dell’arte, sono defenestrati, a favore di un sistema che tende a identificare il valore economico con il valore estetico dell’opera. Questa vera e propria degenerazione è figlia della logica intimidatoria del grande numero. Non vorrei assumere le parti del laudator temporis acti, ma è un dato di fatto che in passato le vicende dell’arte riguardavano un numero di persone relativamente limitato. Oggi, al contrario, l’arte deve essere per tutti, è diventata una questione di “democrazia” e i musei nascono, come dicono i loro direttori, “allo scopo di accogliere e intrattenere gruppi e famiglie di visitatori per l’intera giornata”. Naturalmente nessuno sputa nel piatto in cui mangia e ciascun artista ha il legittimo desiderio di essere riconosciuto. Ma la vertigine del grande numero ha alterato le cose alla ra- dice: alla sfera dell’arte vengono attribuiti effetti e poteri che non le appartengono, il riconoscimento del singolo artista si disperde nella confusione dei generi e dei valori, mentre della bellezza non importa più niente a nessuno». E si perde forse anche un’altra dimensione a cui lei tiene moltissimo, quella del gioco. «La dimensione del gioco è assolutamente centrale nell’arte: un gioco, beninteso, capace di mettere a rischio la vita stessa. Un gioco che occorre affrontare con spregiudicatezza e sensibilità, sperando in un po’ di fortuna, osservando le regole, e possibilmente evitando di truccare le carte ». Quelle di Marina Abramovic, contro cui in un suo libro lei ha avuto parole sestati vere, sono invece carte truccate? «Non ho niente contro di lei in particolare, la citavo a titolo di esempio. A me sembra che la performance sia gravata da un non so che di abusivo, da una sorta di perorazione del proprio corpo. Tutt’altra cosa invece è il teatro, che ho solo occasionalmente praticato come scenografo, ma a cui faccio continuo riferimento nel mio lavoro. Pur trattandosi di un “qui e ora” che accade ogni volta daccapo, la messinscena teatrale obbedisce a un codice progettuale preciso. È un castello, un sistema di segni, una falsariga guidata da punti fermi di ordine prospettico, che concorrono a generare un certo risultato. La performance, invece, dimostra soltanto se stessa; occupa l’intero spazio visivo in modo piuttosto invadente e categorico. Non possiamo dimenticarci che l’opera d’arte non si identifica mai con l’autore, il quale è semplicemente un intermediario, un “latore” di quella certa cosa chiamata arte e che nessuno, a cominciare dall’artista medesimo, sa bene cosa sia. Osservare le buone regole dell’educazione e del rispetto mi sembra a tutt’oggi un dovere imprescindibile….. Personalmente non ho mai voluto “erogare” niente a nessuno e ho sempre preferito attendere, cercando cioè di cogliere l’istante favorevole… Ho già detto in altre occasioni che anni fa ho avuto la fortuna di assistere a un incontro pubblico con Borges, il quale, a chi gli chiedeva come si compone un poema, rispose: “Mi pongo in una situazione passiva e aspetto. Aspetto e la mia unica preoccupazione è che tutto finisca in bellezza”. Ecco, anch’io, da sempre e vanamente, cerco di fare altrettanto».
6. Fine

Repubblica 16.7.12
L’università di Losanna non annulla la laurea honoris causa di Mussolini


BERLINO — L’università di Losanna ha un’idea insolita della memoria e vuole che Benito Mussolini resti dottore honoris causa. Il duce si era iscritto nel 1904 a Scienze politiche e sociali, per abbandonare gli studi dopo sei mesi. Era rimasto legato all’ateneo, tanto da finanziarne più tardi con 1000 franchi la festa per i 400 anni. Nel 1937, Mussolini fu insignito della laurea ad honorem. Più volte gli studiosi hanno chiesto la cancellazione del titolo. Hans Woller, esperto di fascismo del-l’Istituto storico di Monaco, commenta: «È inaccettabile che uno dei più grandi assassini di massa del XX secolo, a Losanna sia dottore onorario». Ma nei giorni scorsi l’amministrazione dell’ateneo elvetico ha ribadito allo Spiegel che non ci sono motivi per cancellare il suo «obbligo al ricordo».

Repubblica 16.7.12
Il concerto-spettacolo. In tour “Occidente Estremo” di Federico Rampini
Il declino dell’impero Usa e il sorpasso della Cina


ROMA — Entro la metà degli anni Duemila potrebbe esserci il sorpasso: la Cina prenderà il posto degli Usa al vertice del pianeta. In questo declino dell’impero americano ci siamo anche noi, europei e italiani, che abbiamo giocato la nostra parte in modo finora passivo, tanto che forse è arrivato il momento di prendere in mano il nostro futuro. Ci porta in una dimensione globale, verso nuove visioni del futuro, Occidente Estremo, il concerto-spettacolo di Federico Rampini, giornalista di Repubblica che ha scelto di trasferire dalla carta al palcoscenico la sua esperienza di analista, scrittore dei fatti del mondo. Con la regia di Antonio Petris e, dopo il debutto di ieri a Monte Sant’Angelo per il Festival Legambiente Sud, in tour fino a dicembre tra Parma, Bologna, Firenze, prodotto da Promo Music, lo spettacolo di Rampini ripercorre gli ultimi trent’anni della storia politica del pianeta, intrecciando analisi economiche, andamenti finanziari, politiche globali con la sua conoscenza diretta. A partire dall’America, fin da ragazzo, quando fu testimone dei movimenti della rivolta beat in California, poi da corrispondente di Repubblica nella Silicon Valley ai tempi della net economy. E proprio da lì, dalla California parte lo spettacolo che in tre parti, ognuna corredata di immagini e musiche da Gershwin a Ravel, eseguite dal vivo da Gianna Fratta al pianoforte, Dino De Palma violino e violino cinese, Veronica Granatiero canto, racconta l’evoluzione del mito americano fino alla contrazione economica di questi ultimi anni che ha aperto le porte alla Cina. Rampini è stato testimone diretto dell’irruzione cinese nell’economia globale, raccontando lo slancio, ma anche i pericoli di un paese autoritario dove ancora si calpestano i diritti umani.