mercoledì 18 luglio 2012

l’Unità 18.7.12
Nel mirino 1° maggio e 25 aprile Anpi e sindacati: «Non si toccano»
L’ira dell’Anpi: «Di nuovo qualcuno vuole infilare le date fondanti della Repubblica tra le festività da accorpare». Molto critica anche la Cgil
di Massimo Franchi

Ci avevano già provato Tremonti e Berlusconi. Ora torna all’attacco l’ineffabile sottosegretario all’Economia Polillo, spalleggiato da una parte del governo. L’idea è quella di accorpamento le festività, comprese 25 aprile e 1° maggio, con l’obiettivo di far crescere il Prodotto interno lordo, in profondo rosso da anni. Dopo il parere richiesto a quattro ministeri dal sottosegretario alla presidenza Catricalà, se ne discuterà nel Consiglio dei ministri di venerdì. Se ci sarà il “via libera” il provvedimento poi potrebbe arrivare addirittura come emendamento alla Spending review e diventare legge prima della pausa estiva.
Come detto il tema era già stato affrontato dal governo Berlsuconi, che aveva dovuto fare marcia indietro dopo le proteste bipartisan, limitandosi alla facoltà di spostamento per le feste patronali «rilevanti e non accorpabili alla domenica», salvo quelle frutto di intese con il Vaticano, come i patroni di Roma San Pietro e Paolo, il 29 giugno.
Ci riprova ora il governo Monti riprendendo il sasso lanciato nello stagno alcune settimane fa dal sottosegretario Polillo che aveva sottolineato come ridurre il numero di giorni non lavorati di una settimana avrebbe portato all’aumento del Pil di un punto percentuale. Polillo in serata ha illustrato meglio il suo pensiero: «Lavorare nove mesi all’anno a un Paese come il nostro non basta più. La concorrenza internazionale ci sottopone a uno stress che va fronteggiato diversamente: anch'io avrei preferito che si potesse continuare come prima, ma non si può. L’unico modo sottolinea il sottosegretario per rimettere in moto il sistema è questo. Anche la Germania lo fece nel 2001, poi ha restituito con gli interessi i sacrifici chiesti ai cittadini». Peccato che in Germania i giorni festivi siano stabiliti dai 16 Lander e che l’unica festività presente nella Costituzione e valida per tutti a livello federale è il 3 ottobre, Giorno dell'Unità tedesca. Ci sono poi altre 8 festività (compresi Natale, Capodanno e Pasqua) riconosciute da tutti i Lander, ma alcune regioni hanno più “feste”: il primato è della ricca Baviera, con ben 13 giorni festivi, dimostrazione che il numero di “giorni liberi” dal lavoro non penalizza la produttività. Polillo poi annuncia che «la possibilità di un'intesa, aggiunge Polillo, «dipenderà da noi, in parte, e in parte dagli accordi sindacali. Sul tavolo, c’è un massimo di 12 giorni di festività che potrebbero essere ridotti o tagliati (dunque comprese anche Primo maggio e Liberazione, ndr). Alcune aziende, penso all’Alenia, si sono portate avanti con accordi molto innovativi che conclude permettono il pieno utilizzo degli impianti, sette giorni su sette. Ma ripeto: l'importante è che si arrivi a discuterne».
UN CORO DI NO
Forti le reazioni, soprattutto a sinistra. Per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani «voglio credere che il governo rifletta, è molto opinabile che il problema della produttività si risolva così. Ma poi continua Bersani alcune festività sono il senso stesso del nostro Paese, che è già demoralizzato: sarà meglio non togliere altri simboli». Molto critica anche la Cgil. «Se questo è il modello che Polillo e il governo vuole affermare, saremmo di fronte ad un modello autoritario ed imposto alle parti, che segnerebbe un’ulteriore regressione democratica commenta il segretario confederale della Cgil Elena Lattuada . I calendari di ferie ed utilizzo delle festività mette ancora in rilievo Lattuada sono prerogative delle parti sociali nei contratti nazionali e ancor di più nella contrattazione aziendale, anche perché così si risponde alle reali esigenze delle imprese e dei mercati».
Dura anche l’Associazione dei partigiani: «Il 25 aprile, il primo maggio e il 2 giugno non si toccano. Sono i valori su cui si fonda la Repubblica. Non ci si dica che non ci sono altri strumenti per incrementare la produttività e far crescere il Pil. Non abbiamo ovviamente obiezioni di fronte ai sacrifici che possono essere chiesti ai cittadini in una fase difficile per il Paese, ma che si debba rinunciare alla storia, a quelli che sono i fondamenti comuni del nostro vivere civile, ci sembra davvero troppo. Ci sono festività che nascono da consuetudini o semplici abitudini, che forse possono consentire qualche operazione. Altre, come quelle citate, rappresentano il nostro passato migliore, i valori su cui si fonda la nostra Repubblica: sono, in una parola, la nostra storia. E non vanno toccate». Anche dal versante imprese arriva un “No” secco: «tagliare le festività significa mettere in ginocchio il settore turistico», attacca Confesercenti.

l’Unità 18.7.12
Piero Grasso: «Pm in buona fede, ma l’intercettazione va esclusa»
Il Procuratore nazionale antimafia: «La questione è in buone mani, deciderà la Consulta. Tra verità e istituzioni, viene sempre prima la verità»
di Claudia Fusani

È’ una trama spietata quella che intreccia il ventennale dell’uccisione di Paolo Borsellino e il conflitto di attribuzione tra Quirinale e procura di Palermo per una storia di intercettazioni che hanno a che fare con l’inchiesta sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Che di quella stagione di stragi di vent’anni fa è stata protagonista.
È un intreccio infernale i cui fili vanno tenuti separati e distinti. Per evitare strumentalizzazioni. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso li prende uno ad uno. E li spiega. Ha appena concluso un’audizione in Commissione giustizia alla Camera. E accetta di rispondere alle domande. Il conflitto sollevato dal Quirinale, prima di tutto.
«Il Capo dello Stato precisa il procuratore nazionale non può essere e non potrà mai essere intercettato. La procura di Palermo lo ha ascoltato in modo occasionale», un bersaglio indiretto a colloquio con uno diretto, l’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino che invece è indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa. Ma se Costituzione e procedure sono chiare nel dire che il Capo dello Stato non può essere intercettato (esclusi i casi previsti all’articolo 90 della Carta), è vero che non lo sono altrettanto nel dire cosa fare se il Presidente è un bersaglio indiretto. «E’ previsto il caso dei parlamentari per cui va incardinata l’udienza stralcio in cui decidere cosa fare con le intercettazioni. Ma non il Capo dello Stato. In questo senso spiega Grasso si può dire che c’è un vuoto nella legge. In questo senso è giusto che un giudice terzo, la Consulta, decida come bisogna comportarsi».
Il procuratore è uomo che sa camminare in equilibrio su fili molto sottili. Condivide la scelta del Quirinale che farà chiarezza una volta per tutte. Ma non per questo bacchetta i colleghi palermitani: «Hanno agito in buona fede, secondo come ritenevano fosse giusto applicare la legge. Ora la questione è in buone mani. Deciderà la Consulta».
Sarà coperta, una volta per tutte, quel «vuoto nella legge». Anche se, ad ascoltarlo bene, una soluzione il procuratore nazionale l’aveva già trovata quando guidava la procura di Palermo. «Avevo fatto una circolare per cui le intercettazioni indirette di parlamentari venivano valutate prima di essere allegate agli atti» ricorda. Come dire che quello che veniva pescato occasionalmente e valutato «irrilevante» veniva subito distrutto, neppure trascritto. E non se ne parlava più. Certo, ancora una volta si parlava di parlamentari. Non era mai successo di pescare occasionalmente il Capo dello Stato.
In questa faccenda, che va avanti da quasi un mese, ci sono alcune intercettazioni tra Mancino e Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, in cui l’ex numero 2 del Csm chiede di far intervenire Grasso e di far valere i suoi poteri di coordinamento. Pressioni, quindi, sullo stesso Grasso. Il quale per la prima volta risponde sul punto. «Dal Quirinale spiega sono stato chiamato a dare contezza della mia funzione istituzionale di coordinamento, non ho subito alcuna pressione. E neanche i magistrati di Palermo hanno subito pressione». Poi, un invito: «In un'indagine chi cerca la verità non può farlo sotto pressione, ma è importante anche la collaborazione degli altri: per vicende così datate nel tempo serve qualcuno che ricostruisca quello che è successo tanti anni fa, servono le dichiarazioni spontanee di chi sa». Un monito a chi in questa inchiesta sulla trattativa ha ricordato troppo tardi. E troppo poco. E continua ancora a ricordare a tappe.
Ci si interroga, poi, da più parti sulla reale competenza della procura di Palermo ad indagare sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Grasso chiarisce il punto una volta per tutte. «Siamo davanti a una duplice competenza» dice, dipende quale filo viene tirato, di quale trattativa si sta parlando (Grasso precisa sempre: «Ma cos’è la trattativa?»). «Se ha a che fare con l’associazione mafiosa in genere, allora è competente Palermo. Se invece la trattativa sviluppa dalle stragi in cui sono stati uccisi Falcone e Borsellino, allora la competenza è di Caltanissetta (titolare delle indagini sui magistrati del distretto di Palermo, ndr).
Al procuratore non sfugge che la verità sulla strage di via D’Amelio passa anche dall’inchiesta sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. «Ma a noi ripete servono prove, non bastano le illazioni». Viene da chiedersi, poi, in questa chiacchierata, se vengano prima le istituzioni e la loro tutela o la verità. «La verità, sempre e prima di tutto, sono un magistrato» è la risposta secca di Grasso. Ma le democrazie e i sistemi giuridici danno anche altre valutazioni, «tanto che esiste il segreto di Stato che riconosce in certi casi il primato delle istituzioni». Ma in questa vicenda specifica, sottolinea il procuratore, «non si pone un problema di verità perchè la stessa procura ha giudicato irrilevanti le intercettazioni con il Presidente della Repubblica».

l’Unità 18.7.12
Francesco Paolo Casavola: «L’iniziativa di Napolitano è a difesa della Costituzione»
Il presidente emerito della Consulta:
«Un atto straordinario per evitare che ai successori si trasmettano prerogative indebolite»
«I magistrati di Palermo hanno agito senza considerare la questione nel suo complesso»
di Marcella Ciarnelli

«Quella del presidente della Repubblica è stata una iniziativa opportuna. Con essa ha compiuto la difesa del bene supremo che è la Costituzione». Sul ricorso del Capo dello Stato alla Consulta sul conflitto di attribuzione per le decisioni prese dalla Procura di Palermo sulle intercettazioni pur indirette di telefonate dello stesso Napolitano, non ha dubbi Francesco Paolo Casavola, presidente emerito della Corte Costituzionale ma innanzitutto, ed è lui stesso a volerlo puntualizzare, «storico del diritto romano che, ne sono convinto, è l’asse più lungo della civilizzazione occidentale, ancor più del cristianesimo».
Professore come valuta l’iniziativa presa dal presidente Napolitano?
«Straordinaria certamente poiché gli altri due precedenti di ricorso alla Consulta, su questioni di bilancio e inerenti alla concessione della grazia, non sono riconducibili alla materia in questione. Ma è straordinaria essenzialmente per la motivazione che nel decreto si legge. Il presidente ha parlato in modo esplicito di un suo “dovere” nel sollevare il conflitto di attribuzione per evitare che ai suoi successori si trasmetta una prerogativa indebolita affermata dalla Costituzione e che verrebbe inficiata da una iniziativa giudiziaria ancora embrionale».
Lei parla della citazione delle parole di Einaudi?
«Quelle parole sono la spiegazione di come da parte del presidente non ci sia stata un’iniziativa personale, non si è trattato di un’azione riferita a ragioni contingenti, ma come invece all’origine di essa ci sia una questione di trasmissione integrale ai successori delle prerogative, di opportuna difesa della Costituzione da mettere al riparo da derive che pure sono state, anche in questi ultimi tempi, ipotizzate». Come li ha vissuti questi tentativi estemporanei, lei che ha sostenuto che dietro e dentro ogni Costituzione c’è sempre, e più di ogni altra cosa, la storia e la cultura di un popolo?
«Un organo nuovo, nuove regole non si scrivono in questo modo. Non si teorizza una Costituente se non davanti a situazioni straordinarie, a una rottura del sistema, a una crisi grave. Finora sono stati tre i tentativi per studiare e proporre modifiche ma nessuno ha avuto esito. Il ricorso all’ipotesi di una salvifica Costituente mi sembra segni più la debolezza, l’incapacità di decidere di chi dovrebbe proporre e sostenere le riforme».
Se il presidente ha dovuto difendere le sue prerogative allora i magistrati hanno sbagliato?
«Non hanno sbagliato ma hanno agito secondo la logica secondo cui ognuno nel prendere una decisione è guidato dalla propria prospettiva più a ragionare per quel che è il proprio compito che nel complesso. I magistrati di Palermo hanno pensato che in una intercettazione telefonica, anche casuale, ci siano due parti. Una per così dire “guasta”, che non può essere usata per le note limitazioni. Ma poi c’è l’altra che può essere conservata per essere presentata ad altri soggetti e utilizzata nel processo. Questa non è una visione condivisibile. Neanche una mela può essere divisa in questo modo. O è mangiabile o non lo è. E non va dimenticato mai il significato anche simbolico che ha una di quelle metà».
Secondo lei quelle intercettazioni vanno distrutte?
«La distruzione è indispensabile se si vuole conservare integra la non responsabilità del Capo dello Stato». Eppure c’è chi sostiene che nessuna legge prevede la distruzione...
«Ognuno è portato a ragionare per quello che è il proprio compito. Fare il proprio dovere non è facoltà illimitata, fare di più del proprio dovere può essere pericoloso».
Ma una parte della politica sta cavalcando questa situazione riproponendo la questione delle intercettazioni...
«La politica volentieri sceglie di dare uno spettacolo gladiatorio, si aizzano i poteri degli uni contro gli altri, si imboccano percorsi che vanno in rotta di collisione. È allora stato giusto portare il conflitto davanti al giudice più alto, la Corte Costituzionale».
La questione intercettazioni resta aperta, torna ciclicamente di attualità, ed è stata evocata anche in queste ore facendo una gran confusione tra limiti e possibilità, tra chi può essere intercettato e chi no. Come la vede?
«A quelli che chiedono una legge vorrei dire che l’errore è stato mettere tanta carne al fuoco. Per questo i risultati sono stati quelli che finora si sono visti. A proposito dell’uso del telefono vorrei consigliare di non abusarne. Mi ricordo un film di Totò in cui lui faceva il maggiordomo. In una scena squilla il telefono, uno di quelli che una volta era attaccato al muro nel corridoio delle abitazioni. Totò va a rispondere e subito si rende conto che non è una telefonata amichevole per il suo datore di lavoro. Prima dice all’interlocutore “ha sbagliato numero”, poi taglia corto “noi il telefono non lo abbiamo proprio”».
Quindi?
«Certe volte è meglio non telefonare. Questione di buon gusto».

l’Unità 18.7.12
Va chiarito come si applicano quelle norme «eccezionali»
di Giovanni Pellegrino

L’iniziativa del Quirinale pone alla Corte Costituzionale un problema più complesso di quanto sia apparso a molti commentatori, pronti secondo costume nazionale a schierarsi aprioristicamente a difesa gli uni dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, gli altri della insindacabilità del Capo dello Stato, ovviamente tutti «senza se e senza ma». La Consulta è infatti chiamata a definire gli ambiti di applicabilità di due norme (non di rango, ma di rilievo costituzionale) emanate dal legislatore ordinario a distanza di anni l’una dall’altra, recanti la più antica (legge n. 219/89) «nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione», la più recente (legge n. 140/03) «disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato».
È infatti avvenuto che a Eugenio Scalfari che per primo ha addebitato loro una violazione dell’articolo 7 della legge più antica, i pm palermitani hanno opposto che il testo della norma conteneva soltanto il divieto di intercettazioni dirette del Capo dello Stato, non escludendo quindi la legittimità di intercettazioni indirette o occasionali. Della norma i pm hanno quindi prospettato la necessità di una stretta interpretazione, legittimata dal suo testo letterale e dal suo carattere eccezionale di limite al potere di indagine in via generale proprio della magistratura inquirente. Senonché gli stessi pm palermitani sono apparsi preoccupati della conseguenza, cui conduceva la limitazione del divieto alle sole intercettazioni dirette del Capo dello Stato; e cioè quello di considerarlo quanto alle intercettazioni indirette o occasionali alla stregua di «un cittadino come tutti gli altri», come l’on. Di Pietro vorrebbe che fosse, mentre la Costituzione repubblicana esclude che sia. Mossi da questa comprensibile preoccupazione i pm hanno prospettato che alle registrazioni dei colloqui Mancino-Napolitano, di cui hanno più volte dichiarato la irrilevanza nelle indagini appena concluse, fosse applicabile l’articolo 6 della legge n. 140/03; e ciò almeno quanto alla loro conservazione e alla loro eventuale distruzione su decisione del gip assunta sentite le parti e in camera di consiglio.
Si tratta però di una disposizione emanata in attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, che attiene al regime di immunità relativa attribuita ai singoli parlamentari; non quale forma di tutela personale, ma a presidio della funzionalità delle assemblee, come ha precisato la Corte Costituzionale nella sentenza n. 390/06, che i consueti laudatores dei pm si sono affrettati a richiamare, avallati dallo stesso pm Ingroia, quando ha prospettato che la registrazione dei colloqui Mancino-Napolitano avrebbe potuto essere liberamente utilizzata nei confronti del primo, se avesse contenuto, come invece non è avvenuto, elementi corroboranti la falsità della testimonianza, per cui la Procura palermitana procede nei suoi confronti.
A ciò si aggiunga che la legge n. 140/03, dopo che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/04 ha dichiarato illegittimo il suo primo articolo (il cosiddetto lodo Schifani), non contiene più nel testo attualmente vigente alcuna norma, che riguardi il Presidente della Repubblica, ma soltanto disposizioni nella quasi totalità riferibili ai membri del Parlamento e in piccola parte e solo indirettamente ai componenti del governo. Non vi è dubbio quindi che, prospettandone una riferibilitàal Capo dello Stato, i pm dell’art. 6 della legge n. 140/03 propongono un’applicabilità in via di analogia secondo il criterio contenuto nel secondo comma dell’art. 12 delle disposizioni della legge in generale, per cui «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha a riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe».
È quindi questo il compito, cui il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale chiama la Corte Costituzionale: decidere cioè innanzitutto se rientri o meno nei compiti della magistratura ordinaria (pm e gip) valutare la rilevanza ai fini del procedimento in corso delle registrazioni di conversazioni del Capo dello Stato indirettamente o occasionalmente intercettate nel corso di indagini penali riguardanti terzi e nella negativa disporne la distruzione, sentite le parti in camera di consiglio. Con la conseguenza che se la Consulta ritenesse che ciò non rientra nelle attribuzioni della magistratura, la lacuna dell’ordinamento non potrebbe che essere colmata attraverso una interpretazione dell’articolo 7 della legge n.219 del 1989, che al di là della lettera della legge estenda il divieto anche alle intercettazioni indirette o occasionali del
Capo dello Stato per dare consistenza ed effettività alla garanzia prevista per lo stesso dall’art. 90 della Costituzione. Con la conseguenza ulteriore che una volta che una intercettazione indiretta o occasionale di conversazioni del Capo dello Stato con terzi è comunque avvenuta, della stessa il pm è tenuto senza indugio a procedere alla distruzione.
Il problema ha quindi una sua delicatezza, ma non è arbitrario pronosticare che nel risolverlo la Consulta tenga conto che di norme eccezionali, quali indubbiamente sono quelle contenute sia nell’articolo 7 della L. 219/89 sia nell’articolo 6 della legge n. 140/03, è vietata una applicazione analogica, mentre è consentita una interpretazione estensiva, soprattutto quando questa è corroborata dai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, in cui l’art. 90 della Costituzione indubbiamente rientra. La decisione del Capo dello Stato è stata quindi opportuna (anche se è agevole presumere sofferta), perché quando un potere non si attiene a un criterio di autolimite, è pur necessario che un regolamento intervenga da parte del giudice neutrale dei poteri; che è appunto il ruolo attribuito dall’ordinamento alla Corte Costituzionale.


il Fatto 18.7.12
Chi indebolisce le istituzioni
di Paolo Flores d’Arcais

Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.
Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?
Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.
Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?


Corriere 18.7.12
Il leader democratico: «Imu pesante serve la patrimoniale»
Bersani rilancia: «Il Pd propone le unioni gay. Punto»
di Tommaso Labate

ROMA — L’uno-due gli serve per provare a lasciarsi alle spalle le polemiche degli ultimi giorni. E infatti, in calce alla frase, aggiunge la parola «punto». «Abbiamo deciso che il Pd propone le unioni gay. Punto», scandisce a uso e consumo dei volontari della Festa democratica di Roma. E i matrimoni tra omosessuali? «Chi chiede di più si ricordi che questo è un Paese che non è stato neanche in grado di approvare una legge contro l’omofobia». Quanto alle primarie, «mi sono anche stufato di ripetere le stesse cose». Sottotesto, si faranno. Entro l’anno. Ma il Pier Luigi Bersani che parla alla Festa democratica di Roma è un uomo preoccupato. Come aveva confessato nel pomeriggio a Pier Ferdinando Casini, incrociandolo in un corridoio di Montecitorio. «L’Italia sta rischiando grosso e in giro si parla della Minetti e dell’aquilone di Berlusconi». E poi, a proposito della spending review: «Il Governo deve capire che ridurre gli sprechi è sacrosanto. Ma tagliare con l’accetta no. Ho sentito alcuni nostri sindaci. Non riescono a reggere più». I messaggi che arrivano dal palco vanno tutti in questa direzione. «L’Imu è pesante», sottolinea, «serve un’imposta personale sui grandi patrimoni». E, messaggio a Palazzo Chigi, «quello che non s’è fatto bisognerà fare». Risolvere la questione degli esodati, per esempio, «perché non si può lasciare la gente per strada». Ed evitare i tagli «all’università, alla ricerca e agli enti virtuosi». La fedeltà al governo dei Professori non è in discussione. Bersani lo spiega con nettezza mettendo sull’altro piatto della bilancia il ritorno in campo del Cavaliere. «Il pompiere», e cioè Monti, «può sbagliare una mossa». Ma «l’incendio l’ha appiccato un altro», e quindi Berlusconi. Gli spread li chiama «quelli lì». E quando ascolta la domanda sull’effettiva consistenza del successo europeo del tridente Monti-Hollande-Rajoy, risponde con nettezza: «Io l’avevo detto che non finiva lì. L’avevo detto subito dopo il Consiglio europeo. Ci sarà questo scudo anti-spread? Ma quando arriva?». E la campagna elettorale? Bersani continua nella strategia mediatica di sfidare Berlusconi e Grillo come se fossero due facce della stessa medaglia. Il primo «sta studiando il nuovo nome del formaggino, quello migliore per venderlo: sarà forse "Viva la mamma" o qualcosa del genere...». Il secondo è uno che governerebbe «da tabernacolo», lontano dalla gente. Segue citazione del pantheon del Pd. Da Ciampi a Prodi, da Amato a Padoa-Schioppa. «Noi siamo quelli lì», primo. «Nel 2006 abbiamo promesso l’Unione e siamo finiti in disunione», secondo. Ora invece «si sceglierà il candidato premier e quello, se vince le elezioni, fa il governo». È un messaggio in codice per chi pensa che il segretario del Pd cederà sulla legge elettorale. La risposta, sottotesto, è no. Un «no» esteso anche alle preferenze. E il candidato premier è colui che «vincerà le primarie di coalizione. Se fossero di partito sarebbe un congresso, no?»

La Stampa 18.1.12
Riccardi: meglio ridurre le ferie le ricorrenze religiose sono nei Patti
Il ministro: “So che se ne parla ma l’idea mi lascia perplesso”
di Raffaello Masci

Andrea Riccardi, storico e ministro per la cooperazione, quella di tagliare le feste è un’idea, una proposta formalizzata, una boutade. Che cos’è?
«So che se ne parla e so che già la questione era stata sollevata dal precedente governo. E le devo dire che la cosa mi lascia un po’ perplesso. È vero che si deve lavorare di più, ed è vero che si deve aumentare la produttività, ma qui il problema è che manca la domanda di lavoro. Dobbiamo pensare soprattutto a come fare per rimetterla in moto».
Non dover pagare la festa patronale è, però, un risparmio.
«Può darsi che lo sia, ma me lo devono dimostrare conti alla mano. Alle feste patronali sono associate di frequente fiere, manifestazioni, iniziative di vario genere che mettono in moto l’industria turistica e mille altre iniziative economiche. Pensiamoci bene: per mettere una pezza rischiamo di produrre uno strappo ulteriore e forse peggiore».
Ecco il ministro cattolico che fa quadrato intorno ai santi, potrebbe obiettare qualcuno.
«Ho per caso fatto riferimenti di natura religiosa? Per favore! Stiamo facendo un ragionamento sull’opportunità complessiva, economica e sociale, di un ipotetico provvedimento che io peraltro non ho ancora visto. Mi preoccupa molto anche l’impatto sociale che una simile misura potrebbe produrre...».
Cioè?
«Penso alla tenuta sociale del paese, rispetto alla quale queste feste, con il loro potere evocativo, con il senso di comunità e di appartenenza che alimentano, possono contribuire».
Ieri si sono scatenate molte polemiche specie sull’ipotesi di abolire o accorpare alcune festività civili, come il 1° maggio, o il 25 aprile «Abbiamo appena concluso i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, durante i quali è stata forte la pedagogia civile sull’essere italiani, sulla nostra identità. In questo quadro toccare date simboliche come il 25 aprile mi sembra stridente e lesivo dell’identità che si voleva preservare. Per non parlare del primo maggio, la cui abolizione (o accorpamento che sia), avrebbe in questa congiuntura anche una valenza depressiva, secondo me: non c’è il lavoro in questo paese, al punto che noi ne aboliamo perfino la festa. Segnale pessimo! » Lei, signor ministro, ne sta facendo una questione meramente sentimentale?
«Per nulla. Ne faccio una questione di tenuta del tessuto sociale. E ne faccio anche una questione antropologica: le feste hanno un fortissimo potere di coesione e di questo l’Italia di oggi, proprio per i marosi in cui navighiamo, ne ha un grandissimo bisogno».
Parliamo delle festività religiose, professore: è possibile intervenire?
«Ce ne sono alcune, le più importanti, che sono sancite dai patti lateranensi. Tutto si può rivedere, ovviamente, ma iniziare una trattativa con la santa sede su una materia di questo genere, mi pare francamente un gioco che non vale la candela».
Ma spostare alla domenica successiva la festa del santo patrono sarebbe diverso, o no?
«Le feste patronali dipendono dall’autorità civile, in effetti. Ma, a parte le considerazioni economiche che dicevamo prima, ci sono questioni di opportunità. Chi glielo va a dire a San Gennaro che deve fare il miracolo la domenica successiva? E ci vogliamo mettere Sant’Agata che è la festa di più grande richiamo per Catania, o sant’Ambrogio a Milano e via discorrendo?».
Di questo passo però, signor ministro, non si fa niente.
«Mi chiedo, allora, perché non incidere sulle ferie? Per la crescita ci vuole altro, ne converrà. L’Italia ha bisogno di lavoro, di rimettere in moto l’economia, di fermare la speculazione internazionale, di recuperare credito all’estero. Non credo che tutto questo possa trovare soluzione solo abolendo un santo dal calendario».


l’Unità 18.7.12
La sinistra pensi al governo. Con serietà
di Carlo Sini

LA CULTURA DELLA SINISTRA PUÒ FRUTTUOSAMENTE CONTENERE DUE ANIME E ANCHE PIÙ. UN PROGETTO POLITICO finalizzato all’azione di governo no. Non c’è dubbio che la situazione mondiale è in grande trasformazione e che necessitano studi e riflessioni approfondite, capaci di superare i limiti teorici e pratici del neoliberismo: per gli intellettuali della sinistra si apre un grande campo di lavoro, senza limiti preconcetti; un lavoro che i partiti dell’area di sinistra dovrebbero patrocinare e sostenere. Alla lunga esso dovrebbe dotare la politica di nuove visioni e proposte.
Altro è però il discorso che ha come traguardo le elezioni del 2013: un traguardo eccezionalmente problematico, per non dire drammatico, per il nostro Paese; una occasione che, come sinistra, non possiamo assolutamente rischiare di perdere, perché il ritorno della destra, e di questa destra, sarebbe una sciagura per tutti, anche per coloro che non possono o non vogliono rendersene conto. Con un intervento a mio avviso mirabile per lucidità e concretezza Vincenzo Visco ha già detto in proposito tutto l’essenziale su questo giornale il 14 luglio scorso («La vera sfida è governare la crisi»). Vorrei ricordare anche l’intervento di alcuni giorni prima di Eugenio Mazzarella, che sottolineava, con esempi efficaci e originali, l’importanza del compromesso nella politica attiva.
Come elettore desidererei che si arrivasse all’appuntamento del 2013 con un programma preciso, essenziale e circostanziato, sul quale fossero chiamate a pronunciarsi le forze politiche che intendono realizzarlo. Vorrei che questo impegno venisse messo preventivamente al riparo da colpi di mano, fughe in avanti astrattamente radicali, bastoni tra le ruote da destra e da sinistra, improvvisi scrupoli «morali» e relativi, molto ipocriti e furbeschi, non possumus. Le cose da fare, almeno all’inizio, saranno poche (perché urgenti), difficili, sicuramente dolorose e, sempre come elettore, mi aspetto che i politici che desidero votare abbiano il coraggio e l’onestà di parlare chiaro a tutti noi, distinguendosi in modo evidente dai Pinocchi, Pulcinella e Masanielli di turno, checerto non mancheranno.
Il programma non potrà ignorare che le nostre scelte operative necessitano dell’accordo con la comunità europea e più in generale con l’economia reale della parte del mondo cui apparteniamo. Ulteriori condizionamenti verranno sicuramente dal fronte interno, cioè dal dialogo con la Confindustria e con altri gruppi di potere non precisamente di sinistra e non necessariamente illuminati o mossi davvero dal bene comune. Entro un quadro generale di lealtà laicista, di preoccupazione per le fasce sociali più deboli, di sforzo inventivo in grado di appoggiare una ripresa tanto auspicata quanto ardua da delineare davvero, sarà necessario mettere in campo collaborazioni il più possibile ampie e duttili, che è condizione perché siano efficaci e rapide. Sarà necessario insistere costantemente sulla differenza tra credo privato, che ognuno ha il diritto di coltivare e perseguire liberamente, e azione pubblica, che deve invece garantire uguale libertà per tutti e difesa da prepotenze ideologiche e materiali intollerabili. Sarà necessario denunciare in modo efficace alla pubblica opinione ogni eventuale comportamento volto a disattendere gli impegni presi. Bisognerà coltivare la capacità di parlare ai cittadini in modo chiaro, sincero e unitario relativamente alle decisioni prese, evitando, non il confronto anche aspro delle opinioni (che è sempre preventivamente prezioso), ma il ricorso ad astuzie mediatiche, uscite tattiche, colpi di coda, sgambetti alle spalle: la gente è stanca di questi coloriti teatrini e oggi ha cose ben più serie delle quali preoccuparsi.
Una coalizione di governo assume un impegno con i cittadini. L’impegno è davvero tale se stabilisce in modo chiaro le cose che intende fare e perché; quindi se cerca, con la necessaria duttilità e ingegnosità, i mezzi per realizzarle: sembra così semplice! Sappiamo che non lo è affatto, ma sappiamo anche che dobbiamo provarci, perché questa volta non abbiamo alternative. Poi, certo, anche la grande discussione sui massimi principi e sui grandi problemi del mondo è aperta, ma le due cose hanno tempi e logiche molto differenti, sebbene sia lecito sperare che in un qualche punto del futuro almeno in parte possano incontrarsi

La Stampa 18.7.12
In visita a una clinica per malati terminali il capo dell’Eliseo promette novità nelle «cure palliative»
Hollande apre il dossier eutanasia
Il Presidente crea una commissione per la riforma. Critiche dalla destra
Attualmente in Francia è possibile la sospensione di cure inutili, ma non l’assistenza a morire
di Alberto Mattioli

Sull’eutanasia François Hollande si aspetta il no della destra
Bisogna forse introdurla, ma certamente non bisogna nominarla. A riaprire la discussione sull’eutanasia è stato il Presidente della Repubblica, François Hollande, ma guardandosi bene dal chiamarla con il suo nome. A soggetto delicato, trattamento delicatissimo.
Ieri Hollande è andato a visitare una clinica specializzata in cure palliative per malati terminali a Rueil-Malmaison, vicino a Parigi. Nella prima parte del suo discorso (molto toccante, per inciso: i ghostwriter dei politici francesi sono mediamente molto bravi), il Président ha insistito sulla necessità di sviluppare e «diversificare» le cure palliative, difendendole anche dal punto di vista del rapporto costi-benefici: «Può sembrare paradossale, investire sugli ultimi momenti della vita. E tuttavia se si permette a delle persone di vivere meglio, se si evitano un certo numero di ricoveri più costosi o di inutili interventi, noi avremo fatto in realtà della prevenzione».
Poi è arrivata la novità, politica ed etica insieme. Oggetto: la legge Leonetti del 2005, scritta dal medico, deputato di destra e sindaco di Antibes che ha introdotto l’eutanasia passiva. In sintesi, oggi in Francia si possono interrompere cure senza speranza, ma un gesto che provoca direttamente la morte resta un reato. «Bisogna, si può andare più lontano si è chiesto Hollande nei casi eccezionali in cui l’astensione terapeutica non basta a dare sollievo ai pazienti alle prese con un dolore irreversibile? E che chiede un atto medico consapevole al termine di una decisione condivisa e meditata?».
Il dibattito è aperto e il Presidente raccomanda che sia «nobile e degno». L’arcivescovo di Parigi e presidente dei vescovi francesi, André VingtTrois, ha subito risposto con sottile ironia che quella di Hollande è «una buona domanda. Ma non è perché si fa una domanda che si risponde positivamente». La destra si è già schierata contro la riforma della legge Leonetti. Ma è chiaro che il governo vuol procedere con molta cautela. Le parole d’ordine della nouvelle vague socialista sono «concertazione» e «commissione» in tutti i campi, figuriamoci in quelli più delicati. E infatti Hollande ha già nominato la commissione che dovrà concertare e che sarà presieduta da Didier Sicard, medico ed ex presidente del Comitato consultivo nazionale d’etica.
Del resto, anche in campagna elettorale Hollande aveva rifiutato di usare la parola «eutanasia», benché, secondo un sondaggio, il 91% dei francesi sia favorevole anche a quella attiva. Al punto 21 del suo programma, c’era la proposta che «ogni persona maggiorenne in fase avanzata o terminale di una malattia incurabile che provochi una sofferenza fisica o psichica insopportabile possa domandare, in condizioni precise e strette, di beneficiare di un’assistenza medica per concludere la sua vita nella dignità». Come si vede, anche prima di diventarlo, il Presidente sull’eutanasia proponeva di fare senza dire (ma forse, dati i tempi della politica francese e i suoi interminabili dibattiti, finirà tutto con un dire senza fare). E a un giornalista che gli chiedeva se dire «eutanasia» fosse tabù, ha risposto: «Non è la parola che ho usato». Appunto.


l’Unità 18.7.12
Il razzismo di sistema
Una strategia sociale dietro l’attacco costante ai migranti
Due saggi, uno firmato da Clelia Bartoli e l’altro da Burgio e Gabrielli, analizzano la xenofobia in Italia. Ne viene fuori il ritratto di un Paese miope che discrimina per costrutto
di Flore Murard-Yovanovitch

CREDIAMO DI SAPERE «IN FONDO» CHE COSA SIA IL RAZZISMO, RITENUTO TROPPO SPESSO UN RESIDUO DEL PASSATO. Ma siamo sicuri di conoscere come funzioni oggi? Negli ultimi decenni si è profondamente mimetizzato, producendo forme nuove, massicciamente introiettate. Un neorazzismo culturalista, che senza fare direttamente uso della «razza» come concetto biologico, ormai risaputa per essere scientificamente infondata e globalmente condannata, «razzizza» alcuni gruppi sociali, in Italia: migranti e rom.
A rilanciare la necessaria riflessione, due libri usciti di recente, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina (Edizioni Laterza) di Clelia Bartoli, e Il razzismo di Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli (nuova collana Fondamenti di Ediesse). L’Italia attuale è affetta da razzismo? Entrambi rispondono affermativamente. Il primo, basandosi su un’accurata analisi della produzione di norme, leggi e politiche discriminatorie, che negano diversi diritti agli stranieri; per dimostrare che nel Bel Paese si è avviato un razzismo «istituzionale» di sistema che coinvolge istituzioni, media e pubblica opinione e genera una discriminazione cronica con effetti duraturi.
Il secondo libro, fondandosi su un’analisi storica, dall’antisemitismo, passando per il colonialismo, e la propoganda nazista (con due casi studi su Stati Uniti e Sud Africa), indaga il nesso strutturale tra razzismo e modernità; non «effetto collaterale», ma «istituzione-chiave della modernità europea, uno dei capitoli fondamentali della sua biografia intellettuale e morale». Un dispositivo logico che, pur nella diversità dei contesti storici, ha una sua configurazione unitaria.
Il razzismo non è, infatti, una questione di «melanina», ma di legge (Bartoli), di costruzione simbolica. Definendo ufficialmente «categorie» di persone, il diritto costruisce la «razza», determina chi sia «bianco» o «nero». Come insegnavano le analisi del Black Power, il pregiudizio struttura la propria conferma nella realtà della marginalizzazione: diventa «vero». Per Burgio-Gabrielli, invece, il razzismo è l’invenzione di pseudo nessi psico-fisici, con connotazioni di giudizi negativi, che fabbrica la differenza.
Non è quindi necessario a questo nuovo razzismo di usare il discreditato concetto di «razza» biologica, supplita da altre categorie e terminologie: l’uso semantico del «noi» e «loro», per distinguere autoctoni e migranti; la nazionalità, percepita quasi come «dato» biologico dal quale è impossibile sbarazzarsi. Come allertava già il sociologo francese Pierre-André Taguieff, il neorazzismo odierno ha operato una pericolosa «svolta culturalista», che essenzializza le differenze culturali (tradizioni, religioni, lingue...) e genera un velenoso lessico razzista sotto mentite spoglie.
Caso esemplare in Italia, l’«extracomunitario», il cosiddetto «clandestino», prodotto da una politica migratoria unicamente «emergenziale» e securitaria, imbastita a colpi di decreti e circolari. Come analizza lucidamente la Bartoli, la clandestinità diventata «reato», status di eccezione sinonimo di pericolosità e di criminalità, radicalizza la «differenza» quasi fosse «per natura». I clandestini, una sorta di «neo-razza».
In generale, è in corso nella società italiana un processo di criminalizzazione dei migranti, ma anche di «rom», «zingari» e «devianti»; malgrado biografie e origini diverse, vengono imprigionati in gabbie identitarie rigide e perimetrate, inferiorizzanti. Da marxisti «doc», Burgio e Gabrielli rileggono il razzismo in chiave di etnicizzazione del conflitto sociale e di esclusione delle classi subalterne. Bartoli, in chiave di norme discriminatorie e xenofobia crescentemente istituzionalizzata, a opera, cioè dello Stato.
Pure molto diversi nei loro intenti, i due saggi rifiutano entrambi l'assunto assai divulgato e piuttosto ambiguo stando al quale il razzismo sarebbe un residuo del passato; smantellano anche l’altra vulgata dominante che esso scaturirebbe dalla «paura del diverso», dall’angoscia dell’altro. Il razzismo è invece costruzione pianificata e normativa dell’alterità, una delle strategie sociali più razionali nella competizione per le risorse materiali e per l’affermazione di una certa classe a scapito di un’altra. Questi due libri di utilità pubblica, che hanno il pregio di tesi esposte con estrema chiarezza, dovrebbero diventare manuali per le scuole. Nel panorama editoriale italiano, ci si aspetta ancora però un’analisi approfondita della psicopatologia di massa alla radice di quest’ideologia. Nell’ora in cui riappaiono svastiche e vecchi «deliri» in un’Europa fortezza, non è mai stato così urgente pensare alla cura.

l’Unità 18.7.12
Un bambino alla forca
Sud Sudan: in cella spera di ottenere la grazia
Il racconto delle torture subite. Ora due funzionari che si occupano di minori lottano per salvargli la vita
Alphonse Kenyi è stato condannato a morte l’anno scorso quando aveva 14 anni
«El País» lo ha intervistato in un carcere fatiscente
di José Miguel Calatayud


«NON HO MAI DETTO DAVANTI AL GIUDICE DI AVER UCCISO QUALCUNO». ALPHONSE KENYI HA 15 ANNI ED È RINCHIUSO NELL’ULTIMA ALA DELLA PRIGIONE DI JUBA, RISERVATA AI CONDANNATI A MORTE. È stato arrestato nell’ottobre del 2009 e condannato per omicidio quando aveva soltanto 14 anni. Lo accusarono di essere membro di un gruppo chiamato niggers che vagava per la città uccidendo le persone.
La sua storia è il rovescio della medaglia di un processo d’indipendenza che dovrebbe dare speranze per il futuro. Dopo una guerra durata 22 anni contro il nord, Juba è oggi la capitale più giovane al mondo ed è una città ottimista proiettata verso il futuro. Questo sentimento di speranza raggiunge la prigione centrale fino al corridoio della morte dove i condannati sperano che il nuovo stato conceda loro la grazia. Alphonse è il più giovane fra i prigionieri, è il sesto di sette fratelli ed è l’unico ad essere andato a scuola anche se soltanto per due anni. I genitori, entrambi disoccupati, non potevano pagare l’istruzione ai loro figli. Si trasferirono nella capitale per poter curare il padre malato e Alphonse come tanti altri bambini raccoglieva bottiglie di plastica per la strada per poi rivenderle.
CONFESSIONE ESTORTA
Ma questa libertà è durata soltanto un anno e nell’ottobre del 2009 Alphonse è stato arrestato con l’accusa di omicidio plurimo. «C’erano stati degli spari e dei morti in un sobborgo di Juba così la polizia ha iniziato a cercare e arrestare qualsiasi persona che avesse un’uniforme o una pistola. Vennero a casa mia e videro l’uniforme di mia madre, mi presero e mi portarono al commissariato» racconta Alphonse. Juba, la capitale del Sud Sudan è una città in fermento. Quasi totalmente distrutta dalla guerra che terminò nel 2005, oggi è un cantiere a cielo aperto. Torri di cristallo che ospitano hotel e banche si innalzano accanto a edifici semi distrutti. La prigione è proprio in centro e le condizioni igieniche all’interno sono pessime. L’ufficiale responsabile dei minori Fabian Serit ci racconta di Alphonse: «Un gruppo chiamato niggers si aggirava per la città uccidendo le persone, la polizia ne arrestò alcuni obbligandoli sotto tortura a svelare i nomi dei loro seguaci e così venne fuori quello di Alphonse. Ma lui è innocente e poi è un bambino. Così lo portammo dal medico che confermò l’età la sua età: 14 anni».
Nel gennaio del 2010 il Sudan modificò le leggi aumentando l’età minima dei condannati a morte da 15 a 18 anni. Il metodo di esecuzione adottato dal carcere è la forca. «Ti misurano e ti pesano per regolare la forca. Se non viene regolata nel modo giusto ti può staccare la testa e se questo accade gli addetti alla regolazione vengono a loro volta incarcerati...» continua Fabian.
PICCOLI PRIGIONIERI
Ci sono 50 condannati a morte tra cui Alphonse, e oltre a lui nel carcere ci sono altri 46 bambini che condividono le celle con altri mille prigionieri adulti. E ci sono anche 5 bambine nell’edificio adiacente assieme alle donne. La maggioranza dei detenuti sono ex guerriglieri che hanno combattuto nella guerra civile e tra i crimini più comuni sono il furto, l’adulterio, la violenza sessuale e l’omicidio.
In caso di condanna per omicidio, la pena dipende dalla decisione dei familiari della vittima. I familiari possono chiedere all’assassino una certa somma di denaro come risarcimento, il cosiddetto blood money. La legge stabilisce che si possono chiedere al massimo 30.000 libre (circa 8250 euro) ed è questa la cifra richiesta in quasi tutti i casi. Ma se i familiari della vittima vogliono che l’assassino venga giustiziato allora così sarà fatto, sono loro che decidono e non c’è nulla da fare anche se il condannato è un minore.
«Mi hanno umiliato, picchiato volevano che confessassi cose che non avevo fatto. Mi hanno rinchiuso in una cella con altri detenuti adulti. Mi hanno portato in tribunale dicendo che ero un assassino e il commissario disse che tutti noi avevamo confessato e per questo ci condannarono a morte. Ma io non avevo mai detto di aver ucciso qualcuno. Al commissariato, la polizia usava coltelli e aghi per estorcere una confessione ma io non ammisi mai nulla. Mi infilavano l’ago sotto l’unghia facendomi un male terribile e poi mi staccavano l’unghia con un coltello». Alphonse alza gli occhi e mi mostra le dita martoriate che portano ancora le cicatrici di quelle torture.
James Warnyang, un altro funzionario responsabile dei minori ci racconta «lui ormai non crede più che lo libereranno, è sicuro che verrà giustiziato». James e Fabian stanno lavorando duramente per dimostrare che si tratta di un bambino e che non deve essere ucciso. Hanno preparato un fascicolo dettagliato su questo caso che è già stato approvato dal direttore del carcere e successivamente da un tribunale di prima istanza, ora si attende la risoluzione della Corte Suprema.
Ho visto Alphonse per l’ultima volta parecchi mesi fa. Poi ho cercato di parlato al telefono alcune volte con Fabian, ma sempre con grandi difficoltà. Alphonse è ancora in quella prigione, ma nessuno conosce probabilmente lui per primo – i dettagli della sua sorte e i tempi della sua condanna a morte. Non smetterò di cercarlo, naturalmente. Voglio raccontare la sua storia, fino in fondo.

Corriere 18.7.12
Nerone e i tentativi di uccidere la madre
di Eva Cantarella


Sarebbe quasi comica, se non fosse tragica, la storia dei tentativi di Nerone di uccidere sua madre Agrippina. Donna ambiziosa e senza scrupoli, Agrippina aveva sposato l’imperatore Claudio (che tra l’altro era suo zio), vedovo certamente non inconsolabile di Messalina. E riuscì a esercitare su questi una tale influenza da indurlo a designare come erede il figlio da lei avuto dal primo marito: Nerone, appunto. Quando, nel 54 d.C., questi prese il potere, l’ingombrantissima madre tentò, in pratica, di sostituirsi a lui nel governo. Ma con il tempo (nonostante gli sforzi di Agrippina che, si dice, arrivò a fare apertamente avances incestuose al figlio), il rapporto tra i due si incrinò al punto che Nerone decise di ucciderla. Impresa che si rivelò assai più ardua del previsto. Il primo tentativo, miseramente fallito, consistette nell’ordine di affondare la nave su cui Agrippina viaggiava. Ma questa, racconta Tacito, riuscì incredibilmente a raggiungere la riva a nuoto, e i marinai, complici di Nerone, uccisero a colpi di remi e sassate una schiava che nella speranza di essere tratta in salvo gridava di essere Agrippina. Ma il destino di questa era ormai segnato, e qualche tempo più tardi si compì per mano dei sicari del figlio, che la raggiunsero nella sua villa. Senza ormai speranze, Agrippina offrì coraggiosamente il petto ai pugnali.

Corriere 18.7.12
Pedagogia Esce per l’editrice La Scuola di Brescia un’intervista al filosofo a cura di Sara Bignotti Severino, educare alla verità
Ripensiamo il destino dell’uomo per opporci al nichilismo
di Armando Torno


Esce oggi presso La Scuola Editrice di Brescia un libro-intervista a Emanuele Severino dal titolo Educare al pensiero (pagine 162, e 9). Curato da Sara Bignotti, responsabile editoriale della Morcelliana, il volume è diviso in tre parti e affronta i temi della pedagogia e dell’educazione tradizionali, ma trasformati radicalmente alla luce delle categorie filosofiche care a Severino.
Il pensatore, dopo una perplessità lunga un anno, ha accettato l’invito. Ci ha confidato in proposito: «Dal punto di vista glottologico la parola "educare" (da cui "educazione") è molto lontana dalla parola "pedagogia". Tuttavia "educare" proviene dal latino e-ducere, "trar fuori, condurre fuori"; e anche in tedesco la parola Er-ziehung ("educazione") alla lettera significa "trar fuori". Da che cosa? Da uno stato di carenza, di povertà, di pochezza, insomma di mancanza. Ora, la parola "pedagogia" è costruita sulla parola greca páis ("fanciullo"). Ma páis è, dal punto di vista linguistico, strettamente imparentato alla voce paus, sulla quale si costruiscono parole come pauros ("povero"), pausis ("pausa"), a cui il latino risponde con parole come paucus (poco), pauper (povero). Ma questa povertà e pochezza è, appunto, quella condizione iniziale da cui l’e-ducere, a cui facevo riferimento prima, trae fuori».
Tutta questa riflessione linguistica a cosa mira? Severino risponde: «La forma fondamentale dell’e-ducere, nella civiltà occidentale, è il "trar fuori da sé" il mondo, da parte di Dio. Dio fa uscire il mondo dalla sua originaria nullità (nella formula teologica: ex nihilo sui, cioè "dal nulla del mondo"). Tutta l’azione educativa e pedagogica dell’Occidente ripropone nel rapporto tra docente e discente questa fondamentale impostazione metafisico-teologica e concepisce l’educare come un trar fuori l’umano dalla povertà e pochezza dell’iniziale condizione quasi animale in cui si trova l’educando (il pais)». A questo punto — il lettore se ne sarà accorto — siamo al centro della filosofia di Severino, laddove si avverte che lo sforzo educativo riflette l’azione creatrice di Dio.
Ma questo implica la nota conclusione di Severino, per la quale l’estrema «Follia» è credere che una qualsiasi cosa, anche la più irrilevante, provenga dal nulla e vi ritorni. Il filosofo aggiunge, illustrando l’itinerario percorso nel libro: «Appunto per questo l’intervista Educare al pensiero è, come abbiamo prima rilevato, la trasformazione radicale del senso che è stato sempre dato alla pedagogia e all’educazione. Il "pensiero" al quale si tratta di educare, infatti, è proprio la negazione del valore dell’educazione in quanto Follia dell’e-ducere le cose e l’umanità dal niente e da quel niente che è la povertà della condizione iniziale dell’essere umano».
A questo punto chiediamo a Severino come si concilia tutto questo con il titolo della seconda parte dell’intervista Educare alla tecnica. Il compimento del nichilismo. La sua risposta non si fa attendere: «Aspettavo questa domanda, del tutto pertinente. La tecnica è diventata, sul Pianeta, la forma suprema dell’e-ducere le cose dal nulla (produzione, trasformazione, invenzione, manipolazione) con le corrispettive forme di distruzione. Analogamente Dio, alla fine dei tempi, dopo averlo fatto essere, annienta il creato. Non è possibile per ora saltar fuori dalla dominazione della tecnica (che ha sì sostituito quella di Dio, ma nemmeno essa ha l’ultima parola). All’interno di questo dominio l’educazione non può essere che il condurre l’uomo a favorire la crescente potenza della tecnica. È vero, è l’educare all’Errore estremo, alla Follia estrema, al nichilismo, ma è necessario che l’errore e la Follia e il nichilismo si facciano innanzi in tutta la loro concretezza proprio per essere oltrepassati dal non-errore, dalla non-Follia e dal non-nichilismo, ossia da ciò che chiamo "Destino della verità". Senza l’apparire dell’errore e degli erranti, la verità è impossibile. Tra l’altro questa educazione all’errore è la Grande Politica, che le politiche mondiali di destra e di sinistra non sono ancora capaci di realizzare».
Severino, dopo Educare al pensiero per La Scuola, pubblicherà in autunno presso Rizzoli un saggio sul futuro del capitalismo e, alla fine dell’anno, da Adelphi, una nuova indagine sul senso del nulla. Ma questa, direbbe Kipling, è un’altra storia. Della quale vi racconteremo a suo tempo.

Corriere 18.7.12
Sinistra e diritti
I pronipoti di Turati e don Sturzo uniti (e divisi) sotto lo stesso tetto
di Paolo Franchi


In una bellissima intervista al Popolo, sul finire del 1924, Filippo Turati argomenta come e perché l’intesa tra i socialisti riformisti e i popolari (oggi diremmo: il centro-sinistra) sia, sotto il profilo democratico, una scelta non solo opportuna, ma persino obbligata. Nell’immediato sbaglia; sul lungo periodo, probabilmente, molto meno. Ma è per un altro motivo che quel testo conserva ancora oggi una sua particolarissima attualità.
Alla domanda finale su come potrebbero mai fare socialisti e cattolici a trovare un accordo su temi come il divorzio o le scuole religiose, Turati prima risponde ridimensionando la portata del conflitto. Poi taglia corto: dovremo pur lasciare ai nostri nipoti qualcosa su cui litigare.
In effetti, sui temi che oggi pudicamente definiamo «eticamente sensibili», i nipoti e i pronipoti di Turati (e di Sturzo) litigano da un pezzo: gli esempi più classici sono il divorzio e la legalizzazione dell’aborto. C’è molta gente, in giro, convinta che siano stati introdotti dai referendum. Non è così, ovviamente. È vero che quei referendum (soprattutto il primo) hanno cambiato la faccia politica e civile del Paese. Ma si trattava di referendum abrogativi (segnati in entrambi i casi da clamorose sconfitte di chi li aveva promossi) di leggi varate dal Parlamento, e approvate da maggioranze diverse da quelle che sostenevano il governo senza che ciò comportasse la crisi del governo medesimo, a guida, inutile dirlo, democristiana: per il banalissimo motivo che non facevano parte del suo programma. Forse sarebbe bene ricordarlo anche a chi sostiene che la prudenza, chiamiamola così, del Pd in materia di diritti sia soprattutto un prezzo da pagare per raggiungere l’accordo con Casini e l’Udc. Nella riunione di sabato scorso del parlamentino del Partito democratico, dove la presidenza ha rifiutato di mettere ai voti un documento di minoranza sui diritti civili e il riconoscimento delle coppie gay, è successo invece qualcosa di nuovo e di inquietante. Qualcosa di più preoccupante ancora, forse, di quell’«allergia al dissenso» che, come ha scritto giustamente Pierluigi Battista (Corriere, 16 luglio), affligge, seppure in forme diverse, un po’ tutti i (cosiddetti) partiti della (cosiddetta) Seconda Repubblica. Qualcosa che riguarda da vicino la natura stessa del Partito democratico. Sotto il cui tetto, ecco la novità, i succitati nipoti e pronipoti di Turati (e di Sturzo) non possono litigare. Attenzione alla questione cattolica (ma Antonio Gramsci preferiva parlare di «quistione vaticana») ce n’era anche, Dio sa quanta, nel vecchio Pci dell’articolo 7 e del compromesso storico e, seppure in misura assai minore, nel vecchio Psi, il cui ultimo leader, Bettino Craxi, detestò il gesuitismo ma firmò pure il nuovo Concordato. In nessuno dei due principali partiti della sinistra, però, i cattolici, che pure vi erano largamente presenti, rappresentavano una componente costitutiva e organizzata, implicitamente deputata a montare la guardia a principi e valori considerati non negoziabili. Nel Pd, fin dal suo atto di nascita, le cose stanno invece proprio così. E non è solo per via di una (ipotetica) prepotenza di Rosy Bindi che questo stato di fatto non può essere messo in discussione. Persino mettendo ai voti un documento integrativo sui principi, moderato nei toni e ragionevole nei contenuti, si rischia di innescare tensioni e scontri potenzialmente ingovernabili. Il confronto, nel caso lo scontro, e infine la conta sui valori fondamentali (e la concezione che un partito esprime della laicità e dei diritti sicuramente è tale) diventano un lusso stravagante che, soprattutto in tempi di magra, non è lecito concedersi. Perché, per dirla con Pier Luigi Bersani, «le nostre beghe» debbono passare in secondo piano.
Meglio non chiedersi, e non chiedere, come mai nessun partito socialista o socialdemocratico europeo versi nella stessa condizione: magari si verrebbe accusati di tardo zapaterismo. Ma chiedersi, e chiedere, quale futuro possano avere i nostri partiti, se il più grande tra loro sui valori e sui principi è quasi per definizione obbligato a muoversi sottotraccia, questa sì ci pare una domanda che meriterebbe risposte convincenti. Nell’interesse della democrazia italiana. E anche nell’interesse del Pd.

Repubblica 18.7.12
Come superare il mondo di Narciso
Due saggi analizzano le difficoltà degli adulti di oggi
di Massimo Recalcati


L’idolo della crescita e dell’espansione senza misura di cui si è nutrito l’Occidente ha rivelato il suo limite: l’uomo come “misura di tutte le cose” ha alimentato l’illusione narcisistica di una libertà senza debiti che si è beffardamente ribaltata – in questa grande crisi finanziaria – nella realtà di un debito smisurato. Due libri di resistenza, duri e forti, scritti da due teste non omologate, fuori serie, ci introducono alla necessità di pensare l’uomo in modi diversi. Si tratta di Contro gli idoli postmoderni (Lindau) di Pierangelo Sequeri e Come fare. Per una resistenza filosoficadi Rocco Ronchi (Feltrinelli). La loro lettura del disagio della nostra Civiltà utilizza lenti teoriche diversissime. Sequeri – teologo di fama internazionale – sa riprendere e attualizzare la parola biblica facendola dialogare con quella della filosofia contemporanea più alta con una originalità unica. La sua prospettiva è quella di un sostenitore convinto della necessità di un ritorno alla radici umanistiche del cristianesimo in un’epoca che sembra ridurre a carta straccia ogni riferimento alla dimensione etica e insostituibile della responsabilità singolare. Ronchi è invece uno studioso di Bataille e Blanchot, di Sartre e Bergson, di Lacan e Deleuze, da tempo impegnato a ricordarci che la filosofia non può mancare l’appuntamento con l’assoluto in un’epoca dove questo compito – pensare l’assoluto – sembra suscitare solo la pacca sulla spalla di una critica ironica che ha preso congedo da ogni pretesa di dire la Verità ultima.
Sequeri è un teologo e pensa a Dio, ma cristianamente si rivolge innanzitutto all’uomo: l’anima dell’Occidente ha bisogno di rifondare un altro umanismo, non antropocentrico, non narcisistico. Ronchi è un filosofo che critica spietatamente la retorica umanistica che celebra l’Uomo come centro del mondo e si rivolge ad un Assoluto materialistico come espressione della potenza infinita della vita al di là dell’uomo. Ma non si deve confondere la prospettiva di Ronchi con una riedizione nostalgica dell’assoluto della vecchia metafisica. La sua scommessa è quella di glorificare il tempo non come scadimento, esaurimento dell’essere, ma come manifestazione assoluta dell’essere. Rovesciamento di Emanuele Severino: il nichilismo non è attribuire essere al divenire, ma pensare il divenire come esaurimento dell’essere, laddove il divenire è invece la sua manifestazione assoluta e non la sua falsa apparenza.
Ronchi cerca l’assoluto nel mondo, nella sua forza impersonale, nella sua potenza vitale. Se Sequeri mette al centro dell’assoluto l’uomo, Ronchi scarta l’uomo per mettere al centro l’inumanità impersonale dell’assoluto. Se il primo insiste a pensare il mondo come donazione, come indebitamento dell’uomo a un’offerta e a una Grazia che lo trascendono, il secondo parte dal presupposto che «l’uomo non è l’unità di misura del mondo», che «il mondo non è per l’uomo e l’uomo non è per il mondo». Eppure queste due voci così diverse finiscono per porre la stessa domanda: cosa resta in un tempo dove tutte le grandi narrazioni del mondo – come ripete l’adagio postmoderno – sono evaporate? Come si può trarre soddisfazione dalla vita, senza cadere nel circo iperedonista, senza perdersi, senza inseguire l’idolo narcisistico dell’espansione senza misura e della frenesia della “mobilitazione totale”? Cosa resta oggi se nei luoghi in cui si gioca la partita dell’umano, Narciso ha preso il posto del Prometeo di Marx e del Dioniso di Nietzsche?
Per Sequeri resta il dono della testimonianza, la responsabilità degli adulti nel rendere generativo il processo di filiazione. Per Ronchi «restano i post, vale a dire coloro che si definiscono reattivamente sulla base di una impotenza a essere comunisti, fascisti, padri, ecc. Restano gli esausti», ovvero coloro che possono farla finita con la retorica della riduzione del mondo a risorsa da sfruttare infinitamente. Quello che resta non è l’io del narcisismo, l’io del cogito, l’io come autoaffermazione di sé, ma piuttosto l’infinito della vita dalla cui potenza noi ci difendiamo attaccandoci, in una illusione di padronanza, al nostro piccolo Io. Il mondo della vita non è terra di conquista e l’antropocentrismo non può essere l’ultima parola dell’Occidente.
Ecco il punto dove le acque di questi due libri convergono: esiste una soddisfazione che non si riduca alla soddisfazione sterile e mortifera di Narciso? Si può godere in modo diverso rispetto al godimento sterile di Narciso e di Caino? Esiste una alternativa al falso divenire dell’iperedonismo e la sua ideologia del benessere, del corpo obbligatoriamente in forma, della celebrazione narcisistica della libertà? Non c’è libertà se non nell’assunzione della solitudine del nostro godimento, sostiene Ronchi, ma non c’è libertà se non come esperienza della donazione al di là dell’Io, impegno nella trasmissione di una eredità, di una filiazione generativa. È questo l’appello che Sequeri rivolge con voce alta e chiara a noi adulti: «Che vogliamo fare? Credenti o non credenti, quanto siamo, è ora di onorare l’impegno senza svicolare in dialoghi troppo socratici: o siamo contro l’idolo che mangia i bambini, o siamo fiancheggiatori della sua devozione intoccabile… Andate, liberateli, fateli lavorare. Battetevi con le unghie e coi denti perché abbiano la migliore formazione possibile... sperano di trovare qualcuno che non cerchi pateticamente di imitare la loro insicurezza».

Repubblica 18.7.12
Quel che resta del desiderio
Un saggio di Michela Marzano sul tema del rapporto con il corpo
di Anais Ginori


In poco meno di mezzo secolo, la pornografia ha perso gran parte della sua carica sovversiva, conquistando l’immaginario di massa, non solo maschile, banalizzandosi persino. L’industria audiovisiva di porno, che a lungo è stata un’avanguardia, una controcultura, è entrata a pieno titolo nel consumo mainstream, con una diffusione e una facilità di fruizione mai sperimentata prima. Il concetto di trasgressione è stato così continuamente ridefinito, i produttori hanno via via ripiegato su sottogeneri pornografici sempre più specializzati, di nicchia. Sul valore liberatorio e libertario di queste pellicole si dibatte almeno da quando, era il 1972, venne prodottoGola Profonda. In La fine del desiderio la filosofa Michela Marzano cerca però di far uscire la polemica dalla logica di “genere” sviluppata dalle femministe americane a partire dagli anni Settanta, le quali sono state poi contestate da altre voci all’interno del movimento. Accanto a chi ha denunciato la reificazione del corpo femminile e gli stilemi della dominazione maschile, c’è chi ha difeso uno spazio di libertà e una presunta funzione emancipatrice. Senza entrare direttamente nel merito, Marzano sposta la discussione sulla decostruzione della soggettività, indagando quelle sottili sfumature che differenziano l’erotismo dalla pornografia. Attraverso una vasta bibliografia, l’analisi comparata di film e romanzi, la filosofa pubblica un saggio in forma di pamphlet preceduto in Italia da polemiche e dibattiti ancor prima di essere tradotto. L’edizione originale francese risale al 2003 ma La fine del desiderio, nella versione aggiornata degli Oscar Mondadori, non ha perso nulla in pertinenza e attualità, quasi fosse una lettura a consuntivo di un periodo politico da taluni definito “pornocrazia”. Marzano applica infatti la definizione di pornografico (dal latino “scritto sulle prostitute”) al di là dell’aspetto cinematografico, estendendolo alle “condotte”. Il confine estetico, ma non solo, tra quel che è o non è osceno è sempre incerto. Soggettivo, appunto. Come sosteneva Alain Robbe-Grillet: «La pornografia è l’erotismo degli altri». Sarebbe sbagliato ridurre tutto a una questione di gusto, moralismo, comune senso del pudore. Non si tratta, avverte Marzano, solo di rappresentare più o meno esplicitamente l’atto sessuale. La pornografia diventa tale attraverso la negazione dell’altro, del suo desiderio. È la “destituzione del soggetto” che rende le persone non più uniche e insostituibili ma personaggi intercambiabili. L’accostamento di corpi che diventano automi, presentati come un “assemblaggio di pezzi”, trascura gli aspetti più oscuri, reconditi, trascendenti del sesso. L’oggetto dell’erotismo, invece, è il corpo erogeno. «Il corpo nel suo insieme, in cui si concretizza il desiderio». È la possibilità, spiega la filosofa, di “toccare ed essere toccati”, sia dal punto fisico che psicologico. La cancellazione del desiderio altrui si ripercuote anche su quello proprio, con comportamenti stereotipati. La sfida del saggio è sfuggire, come avvertiva Michel Foucault, da una storia della sessualità basata solo sulla repressione. Senza mai limitarsi a una denuncia tout court, Marzano ci invita a interrogarci su come, mettendo in scena gli aspetti più nascosti e rimossi della vita umana, la pornografia svuota di contenuto di mistero, stupore, che da sempre accompagna la sessualità. «È la frattura ontologica che ci caratterizza in quanto esseri umani – ricorda la filosofa – a spingerci a desiderare».

La Stampa 18.7.12
Alessandro (non troppo) Magno più barbaro dei barbari
Dalla Scozia un professore (di origine iraniana) rovescia il mito del condottiero civilizzatore: in Persia si macchiò di malvagità gratuite
di Vittorio Sabadin


Oggi come allora, le scuse per cominciare una guerra sono sempre le stesse.
Persepoli era l’agglomerato urbano più grande e più bello del mondo Il Macedone lo prese nel 330 a.C. dopo una notte di eccessi alcolici culminata con un corteo in onore di Dioniso con generali e cortigiane
Distrusse i templi e i simboli dello zoroastrismo e perseguitò i magi sacerdoti della religione iranica

Persepoli era l’agglomerato urbano più grande e più bello del mondo quando Alessandro Magno arrivò davanti alle sue mura nel 330 avanti Cristo. Non ci fu bisogno di combattere per conquistarlo: un anno prima il re persiano Dario era stato sconfitto a Gaugamela e nessuno cercava più di opporsi all’esercito macedone. Alessandro si fermò davanti alla grande Porta delle Nazioni fatta erigere da Serse, ammirò le 72 colonne che reggevano l’Apadana realizzata da Dario il Grande e l’infinita sequenza di finissimi bassorilievi che la adornavano. In Grecia non c’erano costruzioni che potessero essere paragonate allo splendore di quei palazzi reali, alla imponente scalinata del Tripylon che aveva al suo culmine tre porte, una delle quali segreta, che si apriva sull’harem.
Alessandro arrivò alla Sala del Trono e immaginò il deferente omaggio delle nazioni sottomesse a Dario, così come era raffigurato nei bassorilievi della processione di Capodanno: gli abitanti di Susa e poi gli Armeni, i Lidi e i Sodghiani, gli Indiani e i Babilonesi, i Parti e i Bactriani ogni 21 marzo portavano ricchi doni al Re dei Re. Furono necessari 20.000 muli e 5.000 cammelli per svuotare la camera del tesoro dal suo contenuto.
Tre mesi dopo un incendio, ordinato o causato da Alessandro, distrusse la più maestosa città che l’uomo avesse costruito: crollarono i muri, le statue, le colonne; si fusero le lamine d’oro che ancora ricoprivano le statue e il trono, e di Persepoli restarono solo le rovine che ancora resistono a 50 chilometri dalla città di Shiraz, in Iran. Per i libri di storia occidentali, figli della cultura ellenistica, l’incendio fu la giusta vendetta per le ferite che Serse aveva inferto al mondo: l’incendio di Efeso, i santuari devastati ad Atene, le distruzioni a Babilonia. Finalmente, un conquistatore che agiva in nome della superiorità della cultura greca aveva fatto giustizia.
Ma il professor Ali Ansari, direttore dell’Istituto di Studi Iraniani all’Università di St Andrews in Scozia, ritiene che sia giunto il momento di raccontare un’altra storia, quella vista dalla parte dei persiani sconfitti. «Se andate a visitare le rovine di Persepoli ha scritto in un saggio che ha causato qualche polemica le guide vi spiegheranno che la città fu fondata nel 500 avanti Cristo da Dario il Grande, che fu ampliata e abbellita da suo figlio Serse e distrutta da quell’uomo, quel barbaro, Alessandro Magno».
Secondo il prof. Ansari guarda caso, di origine iraniana la cultura occidentale ha infuso l’idea che i persiani esistessero per essere conquistati da Alessandro, il portatore della civiltà. Ma la civiltà che lui annientò non era inferiore a quella nel nome della quale agiva. «Alessandro si comportò come i barbari che invasero Roma, che venivano ad ammirare quello che conquistavano, al punto che volle assumere lo stesso titolo di Re dei Re dei sovrani che aveva sconfitto».
Visto con occhi persiani, Alessandro è tutt’altro che «Magno». Bruciò Persepoli al termine di una notte di eccessi, cominciata come tante con una cena assieme ai suoi generali, continuata con la recitazione di poesie e di brani di Euripide, e terminata nell’ebbrezza, in compagnia di cortigiane e suonatori. A un certo punto, lo stesso Alessandro propose di formare una processione in onore di Dioniso, il dio dell’estasi, e tutti lo seguirono barcollanti portando una fiaccola. Dopo pochi minuti, la Sala delle Udienze e quella del Trono erano avvolte dalle fiamme.
Ma nelle malvagità gratuite che gli vengono imputate non c’è solo questa. I persiani lo condannano anche per la sistematica distruzione dei simboli dello zoroastrismo, l’attacco ai templi e la persecuzione dei sacerdoti della religione, i magi. «L’influenza della cultura e della lingua greche sostiene il prof. Ansari con qualche evidente riferimento a situazioni contemporanee ha contribuito a diffondere in Occidente la convinzione che l’invasione di Alessandro sia stata la prima di molte crociate destinate a portare la cultura e la civiltà nel barbaro Est. In realtà l’impero persiano andava conquistato non perché avesse bisogno di essere civilizzato, ma perché era il più grande impero che il mondo avesse visto fino a quel momento e si estendeva dall’Asia Centrale alla Libia. La Persia era un enorme, ricco bottino».
Nell’ Anabasi di Alessandro lo storico greco Lucio Flavio Arriano cita un discorso del condottiero macedone diretto a Dario che sembra senza tempo: i vostri antenati invasero la Macedonia, ora voglio vendicarmi, ma sia chiaro che siete voi che avete dato inizio alle ostilità. Avete aiutato i nemici di mio padre e inviato denaro ai greci per turbare la pace che io avevo costruito. Avete corrotto i miei amici e alleati e tu, Dario, hai preso e detieni il potere illegalmente.