lunedì 3 settembre 2012

Corriere 3.9.12
Camusso: «Il governo è al capolinea»
di A. Bac.


L'attacco del segretario della Cgil: Monti non ha dato risposte sul lavoro
ROMA — «Almeno Fornero non dice più che la crisi occupazionale è finita...». Dal palco della festa Pd di Lendinara (Rovigo) il segretario della Cgil, Susanna Camusso, risponde a distanza all'intervista del ministro del Lavoro al Corriere, con una certa dose di ironia. Per il leader del maggior sindacato, il ministro a proposito della precarietà dice «basta contratti mordi e fuggi», ma poi non spiega come. A Padova, successivo appuntamento, Camusso è ancora più dura quando dichiara il fallimento dell'esecutivo sul lavoro: «Vediamo come arrivata al capolinea l'esperienza del governo Monti. Credo che l'unica risposta che questo governo doveva dare era quella della difesa e della creazione di posti di lavoro. Non lo ha fatto e credo che questo debba fare riflettere per il futuro». E sulle «pensioni d'oro» propone di pagarle «con i titoli di Stato».
Sul patto di produttività che il governo si appresta a proporre alla parti sociali nei prossimi incontri del 5 e dell'11 settembre, il primo con le imprese, il secondo con i sindacati, appare scettica, rilevando una sorta di «abuso» della parola stessa. L'aspetto che la Cgil pare interessata a approfondire è quello degli sgravi, che il ministro Fornero ha coniugato in forma di «taglio al cuneo fiscale» e che il sindacato invoca da tempo proponendolo in varie modalità. Per il resto il sindacato di corso d'Italia sembra propenso a credere che la materia della produttività sia propria delle parti, che hanno già peraltro siglato un accordo lo scorso anno. Fu proprio Camusso, nel giugno scorso, a riportare la Cgil a un tavolo di trattativa con Confindustria, arrivando a firmare un accordo unitario a quattro anni dall'ultimo.
Lo scetticismo pervade anche le parole del segretario della Uil, Luigi Angeletti, secondo cui la convocazione a palazzo Chigi per il prossimo 11 settembre arriva «ai tempi supplementari: serve solo per coprire il nulla». Per arginare la recessione, rassicura però, «si può ancora fare qualcosa come interventi per ridurre il cuneo fiscale e i costi della politica» spiega.
Alfiere dell'accordo possibile resta il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Siamo molto favorevoli — ha ripetuto anche ieri — al fatto che le aziende che investono abbiano un trattamento fiscale di favore». Dopo le aspre polemiche con Fornero, Bonanni ha per il ministro parole lusinghiere: «Sbagliano coloro che dicono che questa riforma sta contraendo l'occupazione». Perché, secondo il sindacalista, la riforma del lavoro è troppo recente per aver avuto effetti sulla stessa.
E Confindustria? A viale dell'Astronomia le posizioni sembrano immutate rispetto all'inizio dell'estate, quando il neopresidente Giorgio Squinzi accolse negativamente l'introduzione nel testo della riforma Fornero della delega sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili. «Siamo assolutamente contrari a ogni imposizione per legge di forme di cogestione o codecisione» tuonò nel discorso di insediamento, rilevando che il tema era stato aggiunto «a sorpresa» nell'agenda del governo.
Del resto le richieste avanzate dalle imprese, comprese quelle di Abi, Ania, Rete Imprese e Alleanza cooperative, sono altre e vanno dagli sgravi fiscali alle semplificazioni ma soprattutto agli incentivi da un miliardo per sostenere la ricerca e l'innovazione.
Chi è convinto che una qualche forma di dialogo alla fine ci sarà anche sul tema della produttività è il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, tra i primi nel governo a sollevare l'esigenza di un «patto» tra imprese e sindacati.
Sul suo tavolo negli ultimi mesi gli stati di crisi sono andati affastellandosi uno sull'altro. L'obiettivo del ministro, che Monti ha deciso di assumere nell'agenda del governo, è quello di spingere le parti a rivedere le regole del lavoro per diventare più competitive.
Oggi a Siena inizia la trattativa sindacale sulla crisi del Montepaschi (4.600 esuberi), e c'è chi dice che potrebbe essere questo uno dei primi laboratori di sperimentazione del nuovo «patto».

Repubblica 3.9.12
Intervista alla Camusso. Aumentano i giovani disoccupati
La leader della Cgil: senza risposte sarà sciopero generale, spero con Cisl e Uil. Camusso: “Detassare le tredicesime dei lavoratori e dei pensionati con i soldi recuperati all’evasione”
Intervista di Roberto Mania


ROMA — Sullo sviluppo è pressing delle parti sociali: senza sgravi fiscali non c’è crescita. «Bisogna detassare le tredicesime dei lavoratori e dei pensionati utilizzando i soldi recuperati dall’evasione». È la proposta del leader della Cgil, Susanna Camusso, che rilancia: «Senza risposte dal governo, sarà necessario uno sciopero generale e spero nell’adesione di Cisl e Uil». L’occupazione, intanto, resta una chimera per i giovani: dal 2007 sono andati perduti 1,5 milioni di posti di lavoro per under 35.

La prima cosa da fare — dice, in questa intervista, Susanna Camusso, segretario generale della Cgil — è detassare le prossime tredicesime di lavoratori e pensionati utilizzando le risorse recuperate dalla lotta all’evasione fiscale.
Non crede ci siano le condizioni per la riduzione del cuneo fiscale, come ipotizzano alcuni ministri?
«Prima di parlare di riduzione del cuneo fiscale credo che si debbano ridurre le tasse sui lavoratori e i pensionati. Ricordo che già il governo Prodi tagliò il cuneo fiscale ma solo a beneficio delle imprese. Così non va bene ».
Il governo ha però già detto che non ci sono i presupposti per modificare le aliquote dell’Irpef.
«Io penso che serva innanzitutto un segnale di discontinuità, per dare un po’ di soldi ai lavoratori e per rilanciare i consumi. E si può realizzare detassando le tredicesime fino a 150 mila euro di reddito».
Quanto ha stimato che costerà un’operazione di questo genere? E con quali risorse potrà essere coperta?
«I costi dipenderanno da come si interverrà. Per la copertura si potranno utilizzare i proventi della lotta all’evasione fiscale perché sarebbe una misura congiunturale e non strutturale».
Eppure un intervento sullo scarto tra il costo del lavoro e il salario netto sarebbe un beneficio strutturale per i lavoratori.
«Dipende come si fa. In questa fase si deve dare una risposta immediata ai lavoratori e per questo si può utilizzare quello che si ricava dalla lotta all’evasione fiscale. Non si può avviare la solita discussione per poi dire che non ci sono le risorse. I soldi si vanno a prendere dove ci sono».
E dove sono, secondo lei, i soldi?
«Dove ci sono i patrimoni,
dove c’è la corruzione, dove c’è il sommerso, oppure nelle transazioni finanziarie. Basta volerlo e le risorse si possono trovare».
Lei propone complessivamente un’altra politica economica rispetto a quella messa in campo dal governo.
«Esatto. Ma è ormai chiaro a tutti che se si vuole aprire una stagione di sviluppo serve un cambio di passo».
Cosa pensa dell’ipotesi di rinforzare gli sgravi fiscali sui premi di produttività?
«Le risorse per gli sgravi sui premi di risultato hanno subito un taglio da parte del governo Berlusconi e che Monti ha poi confermato. Il fatto che ora qualche ministro ne riparli mi pare un pentimento ritardato ».
Le sembra poco credibile?
«Non vorrei che si riaprisse una stagione nella quale si moltiplicano gli annunci per poi finire inesorabilmente con la fatidica frase: non ci sono le risorse. È per questo che sono un po’ preoccupata quando sento ministri che sollecitano, invitano, suggeriscono alle parti sociali cosa fare anziché dire loro cosa intendono fare.
Mi pare, come sempre, un rovesciamento dei problemi».
Tuttavia è difficile dare torto al governo quando sostiene che l’incremento della produttività dipende prevalentemente dai comportamenti di imprese e lavoratori.
«Non c’è dubbio. Infatti abbiamo sottoscritto a giugno la riforma del modello contrattuale che affrontava proprio il nodo della produttività. Diciamo che su questo punto siamo un po’ più avanti del governo. Piuttosto, mi pare che in questa fase più che di produttività bisognerebbe, purtroppo, affrontare la questione dell’assenza o almeno della perdita di produzione nel nostro Paese».
Su questo cosa può fare il governo?
«Intanto dovrebbe smettere di tagliare posti di lavoro. Perché è finito il tempo del rigorismo senza risposte. In questo senso vediamo come arrivata al capolinea l’esperienza del governo Monti. L’unica risposta che questo governo doveva dare era proprio quella della difesa dei posti di lavoro».
Non mi pare che sia il governo a tagliare l’occupazione.
«Come no? E quello che sta succedendo nel pubblico impiego? Senza la modifica del Patto di stabilità interno, gli enti locali dovranno tagliare i servizi. Questo vuol dire tagli all’occupazione non solo alle cose! Se il lavoro non è considerato una ricchezza e lo si considera solo un fattore di costo, sarà difficile uscire dalla recessione. Ci sarebbe più occupazione anche se si agisse sulla base di una politica industriale, indicando i settori strategici e le relative politiche».
La Confindustria chiede il credito di imposta per chi investe in innovazione e ricerca. Che ne pensa?
«È dal 2009 che lo proponiamo ».
Il ministro Fornero ha detto che bisogna pensare a una decontribuzione per le imprese che abbiamo il record di utilizzo della manodopera. Lei è d’accordo?
«Non capisco di cosa parli il ministro. Mi pare che si parli di lavoro senza sapere cos’è. Non è intensificando lo sfruttamento che si risolvono i problemi. Basta guardare quello che accade alla Fiat».
Insomma, non crede che ci siano le possibilità di un patto per la competitività?
«Vedremo cosa ci dirà il governo al tavolo. Se si limiterà a fare esortazioni agli altri, non credo che si andrà molto lontano».
Se servisse a rilanciare lo sviluppo, sareste disposti a rivedere il modello contrattuale?
«Lo abbiamo riformato con l’accordo del 28 giugno scorso. Si tratta di attuare quell’accordo non di riformarlo. Se poi qualcuno nel governo pensa che si debba mettere in soffitta il contratto nazionale riceverà la stessa risposta che ha già avuto Berlusconi».
Dalla Cgil non sembra arrivare alcuna apertura al governo. Vi preparate allo sciopero generale?
«Il 28 settembre ci sarà quello dei lavoratori pubblici indetto da noi e dalla Uil. Il Direttivo della Cgil valuterà il 10 e l’11 settembre come intensificare la mobilitazione se non arriveranno risposte dal governo».
Senza risposte ci sarà lo sciopero generale?
«Sarà necessario. E speriamo che sia di Cgil, Cisl e Uil».

La Stampa 3.9.12
Le prossime elezioni
Come nel 1994 lo scontro sarà tra vecchi e nuovi
di Luca Ricolfi


È difficile che si voti a novembre, ma è praticamente certo che a novembre comincerà la bagarre. Mentre il povero Monti, come succede a fine anno a qualsiasi presidente del Consiglio, sarà alle prese con i problemi dei conti pubblici, i partiti avranno tutti la testa già rivolta alle elezioni di primavera. Ogni gesto, ogni dichiarazione, ogni parola sarà finalizzata ad attirare il maggior numero di voti possibile.
A tutt’oggi, tuttavia, noi elettori siamo all’oscuro di tutto. Non sappiamo, ad esempio, quanti parlamentari dovremo eleggere. Non sappiamo se i condannati con sentenza definitivapotrannoesserecandidati oppure no. Non sappiamo con quale legge elettorale si voterà. Non sappiamo quante e quali liste saranno in campo. Anche se non sappiamo nulla, possiamo però fare qualche previsione. Io ne azzardo alcune, dalla più facile alla più difficile.
Numero di parlamentari: l’auspicata riduzione non ci sarà, penso abbia ragione Arturo Parisi quando dice che i continui rinvii dell’accordo sulla legge elettorale siano stati finalizzati all’obiettivo nascosto di rendere impossibile (con la scusa che «è troppo tardi, ormai») unariformapiùorganica, cheriduca il numero di parlamentari. Candidabilità dei condannati: sarà perfettamente possibile candidare al Parlamento un condannato con sentenza definitiva. In questo modo il nostro Parlamento potrà conservare un primato cui evidentemente tiene molto: quello di essere l’istituzione con la massima densità di soggetti condannati e rinviati a giudizio.
Legge elettorale: se non sarà il porcellum (legge attuale), sarà il super-porcellum (legge attualmente in discussione), ossia l’unico sistema capace di sommare i difetti del proporzionale e i difetti del maggioritario. La legge di cui si parla da settimane, infatti, gode di tre interessanti proprietà: permette ai segretari di partito di scegliere a tavolino una frazione considerevole degli eletti, a prescindere dalle scelte degli elettori; non consente ai cittadini di sapere, la sera delle elezioni, chi le ha vinte e chi le ha perse (si torna ad accordi fatti in Parlamento, come nella prima Repubblica) ; distorce la rappresentanza, nel senso che, con il premio di maggioranza, conferisce al partito più grande molti più seggi di quanti ne merita in base al voto e, con la soglia di sbarramento al 5%, toglie molti seggi ai partiti più piccoli.
Numero delle liste: saranno tantissime, come sempre, ma quelle «vere», ossia con ragionevoli chances di superare il 5% dei consensi, saranno solo 7.
Quali liste: qui viene il bello. Secondo me lo schema delle prossime elezioni sarà un 4 + 3 + «fricioletti» (pescetti fritti, come il mio maestro Luciano Gallino chiamava i libri che una biblioteca seria non dovrebbe mai ordinare, perché costano e durano poco).
Ci saranno quattro formazioni che, se non sbagliano clamorosamente strategia e se non sono cannibalizzate dalle liste di disturbo, possono aspirare a un risultato non lontano dal 20%. Due di esse, Pdl e Pd, sono vecchie ma si presenteranno con sigle più o meno rinnovate, il Pdl con un nome e un simbolo nuovi, il Pd con qualche segno che indichi l’annessione di Sel e di Vendola al super-partito della sinistra. Le altre due liste sono nuove di zecca, e sono il movimento di Grillo (Cinque Stelle) e quello nascente di Montezemolo (Italia Futura), più o meno ibridato con movimenti di ispirazione simile.
Ci saranno poi tre formazioni che possono aspirare a qualcosa più del 5%, e cioè l’Udc, l’Italia dei Valori e la Lega, anch’esse più o meno riverniciate e restaurate per non sembrare troppo vecchie.
E infine i fricioletti, almeno 20 liste e listarelle (alcune di nobili tradizioni, altre inventate per l’occasione), implacabilmente destinate a restare sotto il 5%, quando non sotto l’1%.
Quel che è interessante, però, è il tipo di competizione politica che si prepara. Potrò sbagliare, ma a mio parere quel che sta accadendo nell’elettorato italiano è molto simile a quel che accadde venti anni fa, nel periodo di sbriciolamento non solo delle istituzioni ma anche delle strutture mentali della prima Repubblica. Fra il 1992 e il 1994 diminuì drasticamente la quota di italiani che ragionavano prevalentemente in termini di destra e sinistra, e aumentò sensibilmente la quota di quanti ragionavano in termini di vecchio e nuovo. Ci fu un momento, anzi, in cui questo gruppo risultò più numeroso del primo. Oggi sta succedendo qualcosa di molto simile.
Gli elettori che andranno al voto si divideranno, innanzitutto, fra chi è ancora disposto a scegliere una forza politica tradizionale e chi invece preferisce puntare su una forza nuova. I primi, i «vecchisti», potranno comodamente ragionare in termini di destra e sinistra, scegliendo una fra le tre opzioni disponibili: Pdl, Udc, Pd, i tre partiti che hanno sostenuto il governo Monti. I secondi, i «nuovisti», dovranno invece abituarsi a ragionare in termini molto diversi, perché l’offerta politica delle due principali liste nuove è molto più polarizzata: da una parte c’è l’anticapitalismo anti-euro e antiEuropa di Grillo, dall’altra c’è il turbo-liberalismo di Italia Futura e dei gruppi ad essa vicini, come «Fermare il declino» di Oscar Giannino. Qui destra e sinistra c’entrano davvero poco, quel che conta - e divide - sono le ricette per affrontare la crisi: con meno Europa e meno ceto politico se voti Grillo, con meno tasse e meno Stato se voti Montezemolo. E dintorni.
Sono due modi di porre i problemi che, in questo periodo, hanno entrambi un grande appeal. I sondaggi mostrano da almeno cinque anni che le spinte anti-partitiche e i dubbi sull’Europa sono molto radicati nell’elettorato. Ma un interessante sondaggio di Renato Mannheimer di qualche tempo fa segnalava anche un’altra e assai meno nota novità: per la prima volta da molti anni sono più gli italiani che si preoccupano dell’eccesso di tasse che quelli che si preoccupano di salvare lo Stato sociale.
Insomma, se fossi il leader di una forza politica tradizionale sarei preoccupato, molto preoccupato. La forza d’urto dell’onda anti-partiti potrebbe essere assai forte, specie sotto l’ipotesi Ber-Ber: un Pd guidato da Bersani (l’usato sicuro) e un Pdl guidato da Berlusconi (lo strausato insicuro). E molto mi sorprende che, quando si parla di premio di maggioranza, se ne discuta come se potesse andare solo al Pd o al Pdl, o addirittura come se la corazzata Bersani-Vendola avesse già la vittoria in tasca. Se fossi Bersani non sottovaluterei né l’area Montezemolo né quella di Grillo, specie nella sciagurata eventualità che i partiti continuino a restare insensibili al «grido di dolore» che, da tanti anni e da tante parti d’Italia, i cittadini levano contro la politica e i suoi indistruttibili, irrottamabili, rappresentanti di sempre.

l’Unità 3.9.12
Primarie aperte? Si discutono regole e albo degli elettori
Pronta una norma per far correre Renzi. Veltroni aspetta la legge elettorale prima di schierarsi
Bindi: non va bene che ci siano due candidati Pd. Delrio: il sindaco è un’opportunità
di S.C.


ROMA Per ora siamo ai botta e risposta a distanza, ma tra poco il confronto si sposterà anche sul piano delle regole. Dice Matteo Richetti, che lo stesso Matteo Renzi ha definito «il vero leader dei rottamatori», che «ora è importante che non si cerchi di ingabbiare questa spinta con regolamenti ad hoc perché la sfida è alta, ed è quella di ridare credibilità ai partiti e costruire un progetto condiviso per il Paese».
Il presidente dell’Assemblea regionale dell’Emilia Romagna mette le mani avanti perché a breve verrà convocata l’Assemblea nazionale del Pd, che dovrà approvare una norma transitoria che permetta a Renzi di candidarsi alle primarie (da Statuto può partecipare soltanto il segretario del partito) ma nelle prossime settimane dovranno essere anche definite le norme della sfida ai gazebo.
Chi nel Pd sta lavorando alla proposta di regolamento, che andrà messo a punto nella versione definitiva insieme a tutti i partecipanti alle primarie (e quindi dopo che a metà ottobre verrà ufficialmente firmata la «carta d’intenti» che disegnerà i confini della coalizione progressista) ha messo tra le opzioni l’introduzione di un «albo degli elettori» a cui sarebbe necessario iscriversi per poter partecipare alle primarie. Uno strumento, viene spiegato al Nazareno, per evitare infiltrazioni da parte di elettori del centrodestra il giorno del voto.
L’ipotesi è però fortemente contrastata dal sindaco di Firenze, che vuole primarie «aperte e libere», senza l’obbligo di un’iscrizione preventiva che a suo giudizio condizionerebbe la sfida. Il nodo andrà sciolto entro breve, ed è tutt’altro che scontato che Renzi accetti uno scambio tra la deroga allo Statuto, che gli permetterà di candidarsi contro Bersani, e l’albo degli elettori.
VELTRONI E LA LEGGE ELETTORALE
Ma non c’è solo chi aspetta di conoscere le regole delle primarie, nel Pd. Walter Veltroni, in un’intervista a “Repubblica” alla domanda se ai gazebo voterà Renzi o Bersani risponde che gli «interessa poco questa discussione», mentre lo interessa capire «l’identità del Pd» e preferisce aspettare e concentrarsi sulla riforma elettorale, «perché non possiamo andare a votare con l’attuale sistema». Dice l’ex segretario democratico: «Sono favorevole alle primarie. Ma vorrei capire, prima che si parta, per eleggere chi e cosa. Se si va a votare con il Porcellum comprendo il senso della competizione. Ma se cambia la legge elettorale e si introduce il proporzionale facciamo una sfida per cosa, per decidere il capolista del Pd?». Per questo aspetta l’approvazione della legge elettorale prima di pronunciarsi.
L’intervista non è piaciuta, all’interno del fronte bersaniano. E chissà se sia un caso che ieri non ci fosse traccia delle parole di Veltroni sull’home page del sito web del partito, dove invece solitamente sono riportate le interviste pubblicate dai quotidiani ai dirigenti del Pd.
Nel gruppo dirigente democratico non tutti sono d’accordo con il percorso avviato, a cominciare dall’idea di approvare una deroga ad hoc allo Statuto per permettere a Renzi di correre. «Non va bene che ci siano due candidati del Pd a primarie di coalizione», dice Rosy Bindi. Di parere opposto il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, per il quale la candidatura del sindaco di Firenze è «un’opportunità, non un problema». Il presidente dell’Anci, che nella sfida con il primo cittadino barese Michele Emiliano per ricoprire questo ruolo trovò una solida sponda in Renzi, dice che queste primarie saranno per il Pd «una grande occasione per allargare il campo dei consensi».
Quanto al «patto di legislatura» con Casini a cui punta Bersani, Delrio dice di non condividere la strategia. «Non sono d'accordo con l'impostazione di Bersani, nonostante abbia grande stima di lui, che vede un’alleanza con l’Udc. Il Pd nasce con l'ambizione di essere un partito maggioritario ma non deve restringere il suo campo. Se il Pd restringe le sue ambizioni richiamandosi a Togliatti e così via perde una grande occasione perché il futuro è davanti non dietro».

Corriere 3.9.12
Nel Pd prova di forza per il premio di coalizione
Da Fioroni a Fassina, maggioranza trasversale nel partito
di Maria Teresa Meli


ROMA — L'accordo sulla legge elettorale è nato e morto il mese scorso. Solo un «blitz» agostano poteva salvarlo. Non c'è stato modo di farlo. E ora il Pd, che sembrava propenso ad accettare il premio di maggioranza al partito, torna ad attestarsi sul premio di coalizione. Su questo punto si è formata una maggioranza interna trasversale, che scavalca le correnti e le sigle. E che lascia pochi margini di manovra a chi spera ancora di ripristinare il vecchio patto. Anche perché il tema, inevitabilmente, si intreccia con quello delle primarie.
Andando per ordine: contro il premio di maggioranza al partito ormai si stanno schierando in molti. Il segretario, che per un periodo aveva tentennato, ora mantiene un atteggiamento disponibile alla trattativa perché non vuole intestarsi l'onere della rottura, però ai suoi è tornato a dire che per lui dà maggiori «garanzie di governabilità» il premio alla coalizione. Tant'è vero che Stefano Fassina non ha dubbi e sottolinea: «Noi vogliamo assolutamente fare la riforma perché il Porcellum va cambiato, e vogliamo il premio alla coalizione». Il capogruppo Dario Franceschini su questo è netto: secondo lui l'intesa che si stava profilando in agosto va cassata perché «non dà stabilità». Ancora più esplicito Beppe Fioroni: «Quella roba era una presa in giro: un sistema proporzionale che però veniva chiamato in altro modo».
Ultimativa Rosy Bindi: «Non mi risulta che ci sia mai stata una riunione del mio partito in cui si sia deciso di assegnare il premio di maggioranza al partito e non alla coalizione». La capogruppo a palazzo Madama Anna Finocchiaro, che nelle settimane scorse era sembrata trattativista, ora dice «no» con grande chiarezza all'ipotesi circolata in agosto. E il veltroniano Roberto Della Seta non usa troppi giochi di parole: «Con il premio di maggioranza al partito il rischio Grecia, o, in alternativa, quello dell'inciucio, sono veramente molto alti».
Superfluo dire che il «no» all'accordo di agosto di Romano Prodi ha la sua importanza in questa brusca frenata del Partito democratico. A tutti nel Pd era chiara una cosa: resistere all'ondata d'urto di Grillo e Di Pietro, entrambi sparati contro il patto che si andava profilando, era anche fattibile, ma arginare i malumori interni dopo una presa di posizione pubblica di Prodi non era possibile. E infatti. Tanto più che pur sempre di un'intesa con Berlusconi alla vigilia delle elezioni si trattava. Quindi di un accordo difficile da digerire per gran parte del popolo della sinistra.
C'è però un altro elemento che vanifica l'accordo raggiunto durante le vacanze. È quello che Arturo Parisi per primo ha segnalato ormai parecchio tempo fa: «Come si possono prendere sul serio le primarie per il candidato a capo del governo, mentre si lavora contemporaneamente a regole che escludono che dalle secondarie, cioè dalle elezioni, esca un governo?». Un interrogativo nient'affatto retorico. In tempi più recenti hanno cominciato a porselo — e a porlo — in tanti. Veltroni, per esempio, ha sottolineato che con un sistema come quello immaginato in agosto, che assegna un premio di maggioranza al partito, le primarie possono servire al massimo a decidere il capolista del Pd. E parole simili ha pronunciato anche il franceschiniano Antonello Giacomelli: «L'accordo di agosto rischia di rendere impraticabili le primarie». Dello stesso avviso Fioroni: «Solo con il premio di coalizione si garantisce di sapere la sera stessa del voto chi governerà. In questo caso le primarie hanno una ratio, altrimenti no». Ragionamenti, questi, che di certo non possono non far riflettere Bersani, tanto più quando una fetta del suo partito nutre molte perplessità sull'opportunità di indire le primarie. Bindi, per esempio, ancora l'altro ieri sera non le dava per scontate: «Non so ancora se si faranno». Ma su un punto non vi è dubbio: il segretario le primarie le vuole. Eccome. Un motivo in più per frenare sull'intesa agostana.
Dunque, in questo primo scorcio di ripresa dell'attività politica sembrano profilarsi all'orizzonte due prospettive: l'inevitabilità delle primarie e il declino del premio di maggioranza al partito. Ma la riforma elettorale si farà comunque, assicurano tutti al Pd.

Corriere 3.9.12
«Mai con il proporzionale, primarie svuotate»
Prodi: a che serve indicare il candidato premier se poi si decide con le trattative dopo le elezioni?
di Francesco Alberti


REGGIO EMILIA — «Certo che voterò alle primarie, ci mancherebbe, ma sarà un voto riservato e non farò campagna elettorale per nessuno perché non desidero entrare nella contesa: in politica o si sta dentro o si sta fuori, non in mezzo all'uscio». Dalla casa di Santa Maria di Novellara, Bassa Reggiana, rimbalzano le voci di nipoti scatenati e genitori affannati al loro inseguimento: tra qualche giorno Romano Prodi, 73 anni, si staccherà dalla sua famiglia formato «extralarge» per la consueta «stagione cinese», una decina di giorni a Pechino alla Business school tra lezioni, interviste e conferenze. Rientrerà in tempo per le primarie del Pd. Sempre che si tengano. Lui ne è convinto: anzi, ne è il primo tifoso, oltre che l'inventore assieme ad Arturo Parisi. Ma è anche consapevole che non tutto è così scontato. «Molto dipende — afferma — dalla piega che prenderà la trattativa sulla riforma elettorale. Se alla fine, per convenienze e interessi incrociati dei partiti, si arriverà a un modello elettorale di tipo proporzionale, allora lo strumento delle primarie verrà inevitabilmente svuotato: a che servirebbe infatti chiamare il popolo di centrosinistra a scegliere il candidato premier del partito se poi la formula di governo, come avviene con il proporzionale, viene delegata alla trattativa tra le forze politiche e solo dopo le elezioni?».
L'ex premier vede come il fumo negli occhi un eventuale approdo proporzionale: non solo perché sarebbe la più totale sconfessione della filosofia ulivista, di cui le primarie sono una delle poche eredità sopravvissute (e copiate), ma perché, come ha scritto ieri nella sua rubrica su Il Messaggero, «i progetti ad impianto proporzionale finora presi in considerazione sono confusi e complicati, con correzioni tali per cui sarebbe scelta dagli elettori poco più della metà dei parlamentari, assicurando l'elezione dei leader e dei quadri di partito con una quota di seggi a lista bloccata».
Eppure, sotto il tetto del proporzionale, quella parte del centrosinistra che, a dispetto dei proclami, ha sempre considerato le primarie un fastidioso intralcio potrebbe saldarsi con quelle frange del centrodestra che, sempre a dispetto dei proclami, cullano in realtà la speranza di tenere in vita il Porcellum («Che consente ai partiti — scrive il Professore — di controllare il cento per cento dei parlamentari»). Un rischio tutt'altro che remoto, di cui Prodi ha a lungo parlato nell'incontro dell'altro giorno a Bologna con il segretario Bersani, al quale ha ribadito la contrarietà alla soluzione sulla quale sembrava vicino l'accordo. «Mai come in questo momento — afferma —, ritengo che il Pd debba muoversi verso una riforma elettorale coerente con la decisione assunta di svolgere le primarie. Sono giorni decisivi, guai a sbagliare: a giugno scrivevo della corsa al suicidio dei partiti, sempre più lontani dai cittadini, e purtroppo non mi sembra che da allora le cose siano migliorate, anzi...».
Il modello elettorale vagheggiato dal due volte ex premier, scartato a malincuore quello a doppio turno alla francese («Sarebbe stata la salvezza del Paese, avrebbe garantito stabilità, sovranità agli elettori e alternanza di governo, ma è un obiettivo impossibile»), è il vecchio Mattarellum, «il male minore», un misto tra maggioritario al 75% e il resto proporzionale, mandato in soffitta nel 2005 dal Porcellum di Calderoli e soci dopo tre sole consultazioni ('94, '96, 2001): «Basterebbe un solo articolo — sospira Prodi —, se solo i partiti prendessero coscienza di quale cruciale importanza rivestono per il Paese le prossime elezioni».
Su Monti, le sue future proiezioni e quella «Agenda» che già divide il Pd, l'ex premier glissa («Nulla da dire, è materia dei partiti»), ma a chi, tornando alle primarie, ritiene un errore che siano due esponenti del Pd a sfidarsi, come nel caso di Bersani e Renzi, l'uomo dell'Ulivo non la manda a dire: «Non è un problema di numero degli sfidanti. Chiunque può alzare un dito e dire "sono più bravo degli altri", l'importante è che la gara sia vera, con regole uguali per tutti e un solo giudice: l'elettore».

l’Unità 3.9.12
Renzi: «Le alleanze a me non interessano»
Il sindaco di Firenze acclamato dai suoi fan alla Festa nazionale Pd
A Casini: lui che stava con Berlusconi ora si preoccupa per noi...
«Se vinco il partito non si dividerà»
Critiche a Bersani che ha dato del fascista a Grillo: «Per combatterlo basta fare poche cose»
Attacco a Franceschini: «Ha perso le primarie, fa il capogruppo». La replica: «Era un gesto di servizio»
di Maria Zegarelli


Sarà «una sfida seria, dura, ma con il sorriso sulle labbra». L’ha assicurato al segretario Pier Luigi Bersani e pazienza se D’Alema e Bindi non sono entusiasti delle primarie, «forse perché pensano che sia una battaglia interna», perché per Matteo Renzi, invece, saranno un’occasione «per rafforzare il Pd» e farlo crescere andando a prendere i voti dei «disillusi», quelli che in passato hanno votato Berlusconi e oggi aspettano un nuovo leader di riferimento.
Il sindaco di Firenze arriva a Campovolo alla festa democratica accolto dai suoi fan tre pullman arrivati da Firenze e dall’Emilia e anche se l’occasione è la presentazione del suo libro, Stil novo, di tutto si parla, nel corso dell’intervista con Federico Geremicca, tranne che dell’ultima fatica editoriale.
È già campagna elettorale per le primarie e questo è il tema, non poteva che essere così. Pier Ferdinando Casini ritiene che con Renzi vittorioso il Pd salterebbe in aria e sarebbe un problema essere rappresentati da lui nel mondo dopo Monti? Vola alto il sindaco: «Io credo che dovremo dimostrare con serenità che non è vero, l’onere della prova tocca a noi. Non bisogna lamentarci di Casini che lo dice». Però, certo, «questo affetto di Casini per il Pd è struggente e mi dà emozione. Si preoccupa per il Pd e dire che nel passato ha appoggiato Berlusconi».
Camicia, bianca, jeans e scarpe da ginnastica senza calze, l’aspirante candidato premier suona le note a lui più care: «Se perdo le primarie non accetterò di avere il premio di consolazione, non
solo non andrò in Parlamento, alla ricerca di una indennità, ma non accetterò neanche di contrattare la mia posizione personale. Torno a fare il sindaco di Firenze, finché i fiorentini mi vorranno». Non come Dario Franceschini e Rosy Bindi, dice, che dopo le primarie sono diventati rispettivamente capogruppo e vicepresidente della Camera. Se perde. Ma Renzi punta a vincere le primarie prima e le elezioni poi, con il 51 per cento, «perché il Pd al Lingotto era nato con la vocazione maggioritaria». Se vince il rottamatore si «cambia l’impostazione», spiega Giorgio Gori, il suo spin doctor.
«Gli elettori, quelli che parlano con me, non mi chiedono con chi mi alleo, ma che faccio per il lavoro dei giovani, per la scuola, la cultura» sottolinea il sindaco. E se l’intervistatore insiste, lui replica: «Casini e Vendola dicano: cosa vogliono fare con il prelievo fiscale che, secondo noi, deve essere diverso dal modello che abbiamo oggi?» Non basta, aggiunge, per combattere l’evasione un blitz «mediatico a Pontevecchio», servono hacker «che incrociando i dati riescano a trovare i veri evasori». Parla di asili nido e della «gigantesca questione femminile che abbiamo in Italia», dei giornali che danno risalto all’evento «Se non ora quando» e pochi giorni dopo «pagine intere a Belen e alla farfallina di Sanremo».
Ma di alleanze no, e poi «quando Casini e Vendola ci diranno cosa pensano di tutto questo, io mi ci alleo per la vita, ma finora non hanno detto nulla. Sono 30 anni che fanno politica e non l’ho capito». E poi a che serve stringere alleanze, «se non con gli elettori» fino a quando non si saprà quale legge elettorale ci sarà? L’unica che funziona, dice, è quella «dei sindaci». E smentisce anche l’eventuale ticket con una donna, Renzi-Serracchiani, «non esiste».
Stoccata a Vendola, che non può dargli «lezioni di appartenenza», non lo accetta da «parte di chi era in Parlamento e ha votato contro il governo Prodi, aprendo la strada al governo D’Alema». Critico con Bersani che ha dato del fascista a Grillo perché, argomenta, il comico lo smonti in un quarto d’ora facendo tre cose: «Dimezzamento dei parlamentari; eliminazione del vitalizio, taglio degli stipendi anche dei consiglieri regionali. Se le facciamo noi queste cose Grillo diventa un fenomeno da baraccone».
LE PAROLE D’ORDINE GRILLINE
Indica anche la cifra: 2400 euro al mese per tutti, «come accade oggi per i sindaci». L’applausometro impazzisce, Gori approva, seduto in seconda fila, idem Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza, consigliere politico. Accenna anche al Sulcis e all’Ilva, come a recuperare quel «Non posso mica sapere tutto», detto solo qualche giorno prima e finito sui giornali come una nota stonata per chi si candida a governare il Paese. E se parlando della partita per la leadership usa toni felpati per rispondere alle critiche dei giovani turchi sfodera frecce avvelenate: «Non andremo da nessuna parte se si fanno le battaglie generazionali ai convegni e gli inciuci generazionali quando si va alla competizione interna. Si va alla conta, chi vince vince e chi perde da una mano». Meglio passare per arroganti, chiude, «che per vigliacchi».
L’europarlamentare David Sassoli legge le agenzie di stampa e poi alza il telefono: «Se non si è capaci di tenere insieme il Pd come si potrà tenere insieme il Paese?». Franceschini detta una nota: «Sono un po’ all’antica. Pensavo che fare il capogruppo dopo essere stato segretario fosse un servizio, un onore e un piccolo contributo all’unità del partito. Fossi stato un po’ più moderno mi sarei di certo accorto che invece era un volgare premio di consolazione da rifiutare». In platea Graziano Del Rio, presidente Anci, nonché sindaco di Reggio Emilia. «Un fatto positivo le primarie commenta come la candidatura di Renzi, che è un mio amico». Ma per chi voterà alle primarie ancora non lo sa. Aspetterà di conocere il programma di Renzi, che verrà illustrato il 13 settembre e poi valuterà.

La Stampa 3.9.12
Renzi seduce anche i duri e puri nella terra dell’ortodossia Pd
“Se perdo le primarie non cerco premi di consolazione” E attacca Bindi e Franceschini: “Loro lo hanno fatto”
di Marco Alfieri

«Non so se dire benvenuti o farmi dare il benvenuto da voi», ironizza tra gli applausi, salendo sul palco della festa democratica di Reggio Emilia. Matteo Renzi, camicia bianca aperta e tanta curiosità intorno - mezz’ora prima l’area dibattiti è già piena da dover aggiungere altre sedie -, rompe il ghiaccio facendo capire che non teme il retropensiero di chi lo immagina un «berluschino».
Per Renzi la festa democratica è casa sua, anche se una casa che «ribalterà», dovesse vincere le primarie. Il sindaco lo ribadisce toccando per un’ora un registro ad uso militanti e uno più largo, rivolto ai delusi dal berlusconismo.
Il primo affondo è sulle primarie, dopo le parole dubbiose di Rosi Bindi. «Si faranno, Bersani che è persona seria», precisa. «Sarà una sfida dura sui contenuti, ma col sorriso sulle labbra per allargare il consenso del Pd». Se poi «vinciamo, proveremo a cambiare il Paese, se perdiamo dal giorno dopo daremo una mano a chi ha vinto. Le regole della casa sono non dividersi».
Di certo, «non chiederò premi di consolazione, come chi è diventato capogruppo o vice presidente della Camera», chiaro il riferimento a Bindi e Franceschini. Che replica a stretto giro: «Sono un po’ all’antica. Pensavo che fare il capogruppo dopo essere stato segretario fosse un servizio, un onore e un piccolo contributo all’unità del partito».
Anche se il passaggio più applaudito è quello in cui abbatte il totem D’Alema. «Niente di personale, ma è finito il tempo in cui chi sta in Parlamento da 25 anni continua a decidere il nostro futuro. Chi viene dal Pci ha cambiato nome 4 volte al partito ma le facce sono sempre le stesse; chi dalla Dc pure. Non si può andare avanti così... », si scalda tra gli applausi. Da Firenze è arrivato un pullman di supporter, ma lo slancio del pubblico, in maggioranza attempato, è vasto e genuino, con capannelli che lo ascoltano fin nella piazzetta a fianco.
Preso l’abbrivio «anti-casta», Renzi affonda a cominciare dalle alleanze: «L’anno scorso la foto a Vasto di Bersani-Vendola-Di Pietro è stata la causa principale del perché Napolitano non ha sciolto le Camere dando l’incarico a Monti e ai tecnici... ». Per questo «le alleanze noi non le faremo con Casini o Vendola, ma coi cittadini che hanno votato il programma delle primarie».
Se invece «cambiamo campo di gioco, la sfida sarà sui problemi della gente, sui contenuti che cominceremo a raccontare dal 13 settembre a Verona, rottamare non basta». Per intendersi: «su tasse, finanziamento alla cultura, diritto del lavoro e patto di stabilità cosa pensano Vendola e Casini? È 30 anni che stanno in Parlamento, ancora non lo abbiamo capito... Se hai 40 anni e ti candidi alla guida del Paese o a rompere gli equilibri del partito, diventi un arrogante», sibila Renzi. «Ma nella situazione in cui ci troviamo, è meglio essere arroganti che vigliacchi. Lo dico a quelli che chiamate “giovani turchi”: è ora di finirla di stare buoni e pensare che prima o poi toccherà a me. Basta fare convegni sul ricambio generazionale e poi fare gli inciuci generazionali interni... ».
Infine il passaggio sapido su Beppe Grillo, che in realtà è una stoccata al segretario Pd. «Bersani ha sbagliato a dare del fascista a Grillo», dice senza che nessuno fischi dalla platea. «Grillo è un signore che ha cambiato idea su tutto, spesso insopportabile, ma si smonta in 15 minuti se il Pd propone il dimezzamento del numero dei parlamentari, l’eliminazione del vitalizio e la riduzione degli stipendi dei consiglieri regionali». La verità è che «i temi di Grillo sono i temi di cui parla la gente. Mettiamoci a lavorare con la gente invece che con i papelli... », chiude tra gli applausi. Il tutto condito da battute su Tremonti («ricordo alle feste democratiche dirigenti innamorati di Tremonti»), su Merkel («Casini dice che farei ridere a parlare con la cancelliera, ma la gente che in vent’anni hanno mandato in Europa ci ha fatto piangere»), e su Vendola («non prendo lezioni da chi nel ’99 era in Parlamento e fece cadere Prodi»).

Repubblica 3.9.12
Renzi fa il pieno alla festa Pd
“Alleati? Né Casini né Vendola prima di loro ci sono i cittadini”
E a Bersani: se perdo non voglio premi di consolazione
di Giovanna Casadio


REGGIO EMILIA — «Pier Ferdinando Casini si preoccupa delle scissioni del Pd? Forse io conosco il suo omonimo, quello che stava con Berlusconi…». Comincia con le risate della platea del Campovolo - affollata come mai in questi nove giorni di Festa del Pd - il battesimo del fuoco di Matteo Renzi, sfidante di Bersani alle primarie. Il “rottamatore” sindaco di Firenze ha la
battuta pronta. E va dritto al bersaglio: rottamare non solo i big del Pd, ma proprio la logica della politica. Fa un discorso anti-casta, Renzi, che entusiasma il pubblico: «Con chi farò l’alleanza? Le alleanze si fanno con i cittadini ». Già l’altro giorno a Vasto ha fatto una foto con la gente. Altro che lo scatto di Vasto di Bersani-Vendola-Di Pietro ormai strappato, ha poi twittato. «Se invece della foto di Vasto il centrosinistra fosse stato più credibile, quand’è caduto Berlusconi - dice Renzi - ci saremmo andati noi al governo, non i tecnici».
Applaude anche Giorgio Gori, lo spin doctor, e riprende con il telefonino l’effetto che fa. Renzi cita Prodi che nel ‘96 e nel 2006 ha battuto il Cavaliere, salvo poi essere fatto fuori dagli «stessi dirigenti del partito che hanno tramato contro di lui». Ecco, ci vuole «un patto con la gente». Stop alla discussione su Casini e Vendola: «Quando ci diranno cosa pensano sarò felice di allearmi con loro per la vita. Ma sono 30 anni che stanno in politica e ancora non lo so. Da Vendola, che nel ‘98 fece cadere Prodi, non accetto lezioni di centrosinistra». «E poi basta disboscare foreste… Prima c’è stata la Quercia, l’Ulivo, la Margherita, ma sempre le stesse facce».
Né si sottrae all’accusa di non essere all’altezza di Monti (sempre mossa da Casini). «Dice che farei ridere? Beh, fare ridere la Merkel deve essere difficile… insomma dicono che non sono autorevole. Potrei dimostrare che non è vero, spetta a noi l’onere della prova». Se perde, Renzi si metterà al servizio di chi vince: «Saremo in prima fila a dare una mano. Non vorrò premi di consolazione ». Non farà come quelli - denuncia - che hanno perso alle primarie e sono diventati vice presidente della Camera e capogruppo, ovvero Rosy Bindi e Dario Franceschini: «Per loro le primarie sono state uno strumento attraverso
cui trattare la propria sistemazione ». Replica Franceschini: «Sono uno un po’ all’antica, pensavo che fare il capogruppo dopo essere stato segretario, fosse un contributo all’unità».
In maniche di camicia, qualche precoce capello grigio, il trentaseienne “rottamatore” afferma che non c’è alcun ticket con una donna ma arruolerà molti giovani. D’Alema - dice - deve sapere che chi sta da 25 anni in Parlamento non può continuare a decidere. Comunque, nel Pd «più che correnti, ci sono spifferi». Ai “giovani turchi”, i trenta-quarantenni bersaniani tra i quali ci sono Fassina e Orfini, riconosce di volere anche loro il rinnovamento però a colpi di «complottini, inciucini ». Evidente che proporsi premier per un under 40 è un atto d’arroganza — ammette — «però meglio arroganti che vigliacchi». I militanti apprezzano soprattutto gli argomenti anti-Grillo: «Basta fare tre cose per trasformare Grillo in un fenomeno da baraccone, mentre Bersani ha sbagliato a dargli del fascista: dimezzare il numero dei parlamentari; eliminare i vitalizi; tagliare gli stipendi anche dei consiglieri regionali». A Bersani proporrà un faccia a faccia. E il fatto che tutti i big siano contro di lui? «In questo senso sono un collante, li metto d’accordo».

Repubblica 3.9.12
Matteo seduce i militanti-nonni top di applausi alla “rottamazione”
Show nelle cucine. Ma c’è chi gli rimprovera la visita a Arcore
di Michele Smargiassi


REGGIO EMILIA — Quando l’anziano militante, fendendo la calca delle telecamere, riesce a dirgli «Io sto con te perché ho un figlio della tua età», forse Matteo Renzi la prende per una battuta, e invece può essere la sua briscola.
La Festa del Pd di Reggio Emilia è la prova del fuoco del sindaco rottamatore, la prova generale della sua ormai annunciatissima «discesa in camper» verso la
nomination a premier. La cittadella Dem lo attende pavesata di manifesti che annunciano il comizio finale dello sfidato, il segretario Bersani. Ma nella sala dibattiti per lui è tuttoesaurito. Due o tre pullmanate di claque gli sono venute in soccorso da casa, nelle prime file si sente parlare solo fiorentino e una ragazza indossa la maglietta «Matteo non si discute», ma il resto delle duemila presenze sembra spontaneo. Ed è la platea tipica delle feste dell’Unità, nel senso che due terzi delle teste sono canute.
E questo è il punto, perché questa gente è anche il popolo delle primarie, sono loro che decideranno le sorti della sua corsa. Una sfida generazionale il cui esito dipende da un elettorato dall’età media pensionabile, non è una sfida persa in partenza?
Forse no. In un’ora di intervista succede una cosa curiosa. I passaggi più «grillini» scatenano gli applausi della minoranza più giovane. Ma quando il sindaco di Firenze pesta il pedale della «rottamazione », sono le teste bianche che annuiscono con più enfasi, sono le pantere grigie che applaudono di slancio. «Chi sta seduto su una poltrona da venticinque anni deve farsi da parte», e i nonni si entusiasmano.
Che succede? Che Renzi parla dei dirigenti politici, ma nella mente dei senior in platea forse scatta un cortocircuito. Anziani stanchi costretti a rinviare l’età della pensione mentre i figli sono precari e i nipoti disoccupati. «Non può continuare a decidere per tutti chi lo ha già fatto per decenni», dice il rottamatore Renzi, e i canuti dalla lunga esperienza sussultano e gridano «bravo». Non è un paradosso, e un transfer psicologico. Vedono in Renzi la generazione ferma al palo dei loro figli e nipoti, giovani in coda, bravi ma prigionieri dell’ascensore sociale bloccato, l’angoscia delle loro famiglie. Lui del resto sembra fare di tutto per incarnare il modello del giovane di belle speranze, paziente e meritevole ma tenuto al margine. Camicia bianca fresca di stiro, pantaloni blu a tubo, sneakers, ben rasato, il marito ideale per ogni figlia di mamma. Dice sempre e solo «noi», fa capire che rappresenta una categoria bistrattata, una condizione frustrata, non un’ambizione privata. Una signora in maglietta viola lo branca stretto quando scende dal palco, «Vuol fare una foto con una nonna che crede nei giovani?».
Che le lusinghe di Matteo il giovane verso gli anziani militanti siano studiate o meno, sembrano far breccia. Come gli storici dirigenti del Pci, si concede il classicissimo giro nelle cucine, tra i volontari, ma a differenza dei segretari ingessati si scompone, scherza, ride, mette le mani fra i tegami, ruba tortelloni e se li mangia crudi, come un nipotino discolo. Misura la sua popolarità,
è l’esito è buono, il tormentone del «rottamatore» è passato, è ormai il suo marchio distintivo, è la prima parola che gli lanciano cuochi e rezdòre quando lo riconoscono, «Veh quanti ne hai rottamati oggi, Renzi?», «Renzi, rottamaci Luigi che ha bruciato l’arrosto».
Ma questo riconoscimento, che è la base di qualsiasi marketing, però non basta. Dopo tutto, siamo in politica, e gli emiliani con la politica non scherzano, le cose se le ricordano, e così tra le strette di mano arrivano anche le domande spinose. Uno serissimo, aria da partigiano: «Perché sei andato a trovare Berlusconi? », «Era il premier e io sono un sindaco, lo rifarei domattina, nell’interesse della città». Una cuoca cordialmente determinata: «Senti mi spieghi perché la Finocchiaro non può andare a fare la spesa all’Ikea?», «Con la scorta no, io non ce l’ho». Un’altra, accorata: «Far andare avanti i giovani va bene, ma non ricominciate a litigare come sempre».
Ecco, questo è lo scoglio su cui la seduzione del rinnovatore aggressivo potrebbe naufragare: i più anziani milianti ne hanno vissute troppe, di faide interne al partito, di questo-contro-quello, di correnti e spaccature, «e quante cattiverie», insiste la cuoca davvero affranta. «Io non divido, le primarie rendono tutti più forti», Renzi cerca di rassicurare gli animi dei militanti stanchi di guerre autolesioniste. Ma è un crinale stretto. «Io sono per il rinnovamento ma non esagerare», gli suggerisce un canuto dall’aria combattuta, mentre l’altoparlante annuncia l’inizio del dibattito dal titolo «Invecchiare bene, invecchiare attivi».

Corriere 3.9.12
E Renzi bacchetta i «giovani turchi»: fanno solo convegni


ROMA (M.Gu.) — Applausi, solo applausi per Matteo Renzi alla festa del Pd a Reggio Emilia. Chi sperava che il sindaco di Firenze avrebbe incassato anche qualche fischio è rimasto deluso. Perfino quando ha attaccato i «giovani turchi» come Orfini, Fassina e Orlando, lo sfidante di Bersani ha registrato il consenso dei militanti. «Stanno facendo una battaglia che rispetto, ma dopo aver detto per due anni che la rottamazione faceva schifo ora la stanno proponendo accodandosi a Bersani — attacca —. Non andremo da nessuna parte se si fanno battaglie generazionali ai convegni e inciuci quando ci sono le competizioni interne». Ma non è arrogante uno che si candida a Palazzo Chigi senza avere nemmeno quarant'anni? «Meglio arroganti che vigliacchi». Federico Geremicca gli chiede se la sua campagna non sia una perdita di tempo, visto che dirigenti come Bindi e D'Alema le primarie non le vogliono. E lui, come chiaro monito, ricorda che fu il segretario a dire «una classe dirigente che vuole governare non può aver paura di chiedere il consenso agli elettori». Il 13 settembre partirà in camper per «promuovere una classe dirigente nuova», perché chi è in Parlamento da 25 anni non può continuare a decidere il futuro: «Non significa avercela con D'Alema, perché il partito da cui proviene aveva il limite dei due mandati». Promette una «sfida seria, col sorriso sulle labbra». Non conferma il ticket con Debora Serracchiani. Bacchetta Vendola e Casini: «Sono 30 anni che fanno politica e ancora non so cosa pensano...». Una provocazione alla quale il leader di Sel risponderà in serata: «Le primarie non siano una polemica sulle biografie, ma una contesa sulle idee». E su Grillo, che pure ritiene «insopportabile», Renzi rimprovera Bersani: «Ha sbagliato a dargli del fascista del web». Molti pensano che se Renzi vince la scissione sarà inevitabile, ma lui questo scenario non lo vede: «Allucinante. La regola del gioco è che, il giorno dopo, chi perde dà una mano a chi vince». E se fosse lui a perdere? «Non solo non andrò in Parlamento alla ricerca di una indennità, ma non accetterò di contrattare la mia posizione personale». Stoccata finale per Franceschini e Bindi: «Altri hanno utilizzato le primarie per avere un premio di consolazione...».

l’Unità 3.9.12
Nichi Vendola: «L’Udc non è la nostra alternativa. Le ambiguità fanno perdere voti»
«Anziché dal risiko delle coalizioni dovremmo partire dall’Italia e dalla crisi. Renzi? I giovani che salgono in cattedra a dare voti invecchiano presto»
intervista di Simone Collini


«Casini, che ha passato tutta la vita nel campo neoconservatore, mi sembra un difficile alleato per un percorso di alternativa», dice Nichi Vendola. Che poi invita tutti (ma il pensiero va immediatamente a Matteo Renzi) a «non commettere l’errore di interpretare la politica come un concorso di bellezza».
Con Casini non si può governare, lei ha detto all’assemblea nazionale di Sel: non è un pregiudizio, presidente Vendola?
«Se invece di partire da quello che è diventato un gioco di società, il Risiko delle alleanze, partissimo dall’Italia, dalla sua crisi e dalle sue speranze, e mettessimo in campo non solo una diagnosi sul male oscuro che divora il nostro Paese ma anche una terapia per la ricostruzione, allora non c’è da avanzare i pregiudizi, ma con molta serenità si costruiscono giudizi politici».
E perché il suo “giudizio politico” è che con l’Udc non si possa trovare e applicare questa “terapia”?
«La grande sfida di fronte al Paese è quella della modernità. Come l’Italia riesce a usare l’occasione della crisi per mettere in campo una straordinaria innovazione delle politiche pubbliche, come è in grado di ricostruire una politica industriale capace di coniugare il profitto d’impresa, la qualità ambientale e la civiltà del lavoro. Quel che serve è una politica che sappia interloquire con le giovani generazioni e un’agenda di governo di alternativa che si ponga anche il tema del pieno esercizio dei diritti di cittadinanza e dei diritti in materia di fine vita, fecondazione assistita, coppie di fatto. Servono scelte coraggiose, diritti interi e non più dimezzati. E da questo punto di vista l’Udc è collocata in un’altra galassia. Per non parlare del fatto che la strategia dell’Udc, dopo i fallimenti del Grande centro e del Terzo polo, oggi è Monti da qui all’eternità». Veramente Casini ha detto di vedere bene Monti anche al Quirinale, non per forza a Palazzo Chigi.
«Quando si usa il riferimento a Monti si sta intendendo le politiche dell’austerity e quindi sbaraccamento ulteriore del welfare, una crisi tutta scaricata sulle spalle del lavoro dipendente, dei pensionati e delle giovani generazioni, nessuna risposta al tessuto di piccole e medie imprese che si sta schiandando anche sotto i colpi di un sistema bancario che ha drenato le risorse della Bce per continuare a fare i propri comodi e non certo per trasferire risorse per gli investimenti e per la ripresa economica».
Lei esclude anche la possibilità, a cui mira Bersani, di un “patto di legislatura” con l’Udc dopo il voto?
«Se agli elettori chiedessimo di condividere un patto per il futuro, un’agenda di cose concrete contro la disoccupazione, il precariato, l’inquinamento, la discriminazione sessuale, e poi dopo la campagna elettorale si tornasse al primato delle alchimine, degli alleanzismi che prescindono dai contenuti, ci infileremmo in un gioco a perdere».
La gravità della situazione richiede la collaborazione anche del fronte moderato, dice però Bersani.
«La gravità della situazione chiede a tutti noi un di più di responsabilità. Il che non significa che ciascuno di noi debba rinunciare a qualcosa della propria identità per poi mettersi tutti insieme. Quello che non si può più immaginare è di continuare a chiedere al ceto produttivo e alle giovani generazioni di continuare a rinunciare a frammenti materiali del proprio futuro. Su questo si gioca la partita. Sapendo che la crisi, in Europa e in Italia, è anche figlia di un clamoroso deficit di alternativa, di un vuoto della sinistra».
Che però per governare può anche essere chiamata a un’opera di mediazione, senza porre veti, o no?
«Sempre nel far politica bisogna avere saldezza di principi e duttilità tattica. Ma soprattutto in un tempo così pieno di smarrimento e povero di idee abbiamo bisogno di ricostruire l’idea della politica come educazione, conoscenza, contesa delle idee. E questo deve essere il contrario della doppiezza. A me non è mai piaciuto e non piacerà mai esercitare un diritto di veto, una politica dell’interdizione. Ma questo non significa sconfinare in un atteggiamento di commistioni disinvolte».
Lei non si pone la questione di come ottenere una maggioranza in Parlamento? «La questione che mi pongo è se il centrosinistra sia consapevole di quanto il Paese percepisca la gravità dell’arretratezza sul piano della legislazione in materia di diritti civili. Se si capisca quanto questo appuntamento è stato troppo a lungo rinviato anche perché in Italia ci sono stati coloro che hanno fermato per svariati decenni i conti con una domanda sociale di modernità. E tra questi c’è anche Casini. Le ambiguità fanno perdere consensi, non guadagnarne».
Alle primarie se la dovrà vedere con Bersani e Renzi: che dice del sindaco di Firenze? «Imperversa come un juke-box che ha come repertorio canzonette che fanno il verso al liberismo, al qualunquismo. Mi pare molto dentro lo stile della politica spettacolo, fatta di battute e aneddoti suggestivi. Al centro della sfida delle primarie dovrebbero invece esserci il Sulcis, l’Ilva di Taranto, il lavoro, inteso non solo in senso economicistico. Lavoro significa anche autonomia e libertà delle donne, nuovo modello di sviluppo».
Il tema dell’innovazione però si pone, non crede?
«L’innovazione di cui ha bisogno l’Italia riguarda un nuovo rapporto tra pubblico e privato, la necessità di rimettere in funzione gli ascensori della mobilità sociale, l’investimento sulla ricerca. Il cambiamento non è un fatto meramente anagrafico. Ci sono giovani che sono così vecchi e noiosi. Io spesso ho il piacere di incontrare un ragazzo di 97 anni, si chiama Pietro Ingrao, dal quale tutte le volte ricevo tanti stimoli, che dimostra tanta fame di conoscienza, che dovrebbe essere il dato fondamentale dei giovani. Quelli che sanno tutto e stanno in cattedra a dare voti agli altri invecchiano rapidamente».

Corriere 3.9.12
La sinistra e il coraggio (assente) di un dibattito sul liberalismo
di Antonio Polito


Mentre il resto della sinistra è impegnata in una rissa su questioni di procedura penale, loro due scrivono un saggio per ricordare ciò che davvero la divide: come si governa l'Italia. Del resto Enrico Morando e Giorgio Tonini sono due politici anomali; sempre in minoranza, prima nei Ds e ora nel Pd, ad animare le non fittissime schiere della corrente «liberale», compito improbo in un Paese in cui la sinistra, anche quella riformista, è tutta di estrazione marxista.
Anche questo libro, che pure si intitola «L'Italia dei democratici», non sembra destinato a diventare il programma per l'Italia del Partito democratico. Oggi più che mai le idee «liberali» risultano indigeste a gruppi dirigenti convinti di poter vincere le elezioni ricorrendo all'«usato sicuro», per «abbandono del campo da parte dell'avversario», evitando così ancora una volta di sciogliere i nodi che hanno affondato tutti gli esperimenti di governo della sinistra. Un membro della segreteria del Pd ha addirittura annunciato un'epurazione dal prossimo esecutivo di chi si sia «compromesso con il liberismo».
Il merito del libro è di svelare questa involuzione e di combatterla, cominciando con il rifiutare la facile equazione «crisi uguale mercato» oggi di gran moda, e aderendo piuttosto al giudizio espresso da Padoa Schioppa nel 2008: «La responsabilità è della politica economica, non del mercato». Cambiare si deve, dunque, ma non inseguendo l'illusione che la spesa pubblica possa essere il motore della giustizia sociale. Anzi, i dati dimostrano che in Italia altissimi e crescenti livelli di spesa (la metà del Pil) hanno lasciato quasi intatti gli indici di disuguaglianza. Il che vuol dire che il nostro debito, oltre ad essere ormai insopportabile, è anche «cattivo», perché quasi tutto acceso per finanziare spesa corrente.
Per Morando e Tonini, dunque, senza abbattere debito e spesa non ci saranno mai risorse da ridistribuire e per far ripartire il Paese. L'opposto delle chimere «keynesiane» che oggi vanno per la maggiore a sinistra. E anche la ragione per cui i «liberal» ritengono che l'esperimento Monti non possa essere considerato una parentesi, ma che anzi la sua agenda debba essere il programma di governo anche dei prossimi cinque anni.
Ma al cuore della fragilità della cultura di governo della sinistra italiana c'è qualcosa di più profondo della contingenza politica, secondo i due autori. Innanzitutto la mancanza di un leader, di un «Principe democratico», capace di sostenere sul consenso una politica riformista che ha bisogno di tempo per mostrare i suoi vantaggi. A parte la breve e illusoria stagione del Veltroni del Lingotto, queste idee non hanno mai avuto un interprete, al punto che la tentazione di cercarlo fuori dal Pd, ad esempio in Monti, è oggi molto forte (i «liberal» per ora non sanno neanche per chi votare alle primarie del centrosinistra). La seconda ragione è la mancanza di istituzioni capaci di sorreggere una politica di cambiamento: e qui il libro ripropone un altro cavallo di battaglia riformista abbandonato, e cioè un sistema elettorale e istituzionale che non abbia paura di produrre governi e premier forti, liberandosi del «complesso del tiranno» che ha ipnotizzato la lunga opposizione a Berlusconi.
Però questo dibattito a sinistra oggi non c'è. E il timore degli autori è che da qui alle elezioni si preferirà evitarlo, secondo l'antica convinzione che «ciò che davvero conta non è cosa si deve fare, ma chi siede nella stanza dei bottoni; l'idea cioè che se ci saremo noi, cioè tutti quelli che sono uniti dalla volontà di impedire che ci siano loro, le intese da farsi le troveremo, senza bisogno di stare ora a discutere e a dividerci». Si ripeterebbe così — scrivono Morando e Tonini — il tragico errore delle 286 pagine del programma dell'Unione di Prodi. Anche se stavolta, a dire il vero, non ci sono neanche quelle.

Corriere 3.9.12
Il Sessantotto del fratello minore
di Paolo Franchi


I più maliziosi tra i lettori dell'Unità magari l'avranno trovata un po' perfida. Ma a volte capita pure che, a voler essere troppo maliziosi, non ci si azzecchi più di tanto. La recensione, assai impegnata, di Massimo D'Alema al nuovo romanzo di Walter Veltroni (L'isola delle rose, Rizzoli), pubblicata ieri con grande rilievo dal quotidiano fondato da Antonio Gramsci, va intesa piuttosto come un gesto di pace e, prima ancora, di rispetto. E quindi, vista la storia ormai infinita dei contrasti grandi e piccini tra i due, prima di tutto come una notizia. Almeno per gli appassionati.
All'inizio, inutile dirlo, c'è il Sessantotto. D'Alema, diciannovenne, lo ha vissuto nella doppia, scomodissima veste di militante del Pci e, assieme, del movimento: nell'estate, ricorda, è a Praga a contestare i carri armati sovietici, poco più tardi è a Francoforte a rappresentare la Fgci al congresso della mitica Sds tedesca, dopo l'attentato a Rudi Dutschke. Veltroni, all'epoca, di anni ne ha invece tredici: vive il grande sommovimento come può viverlo un fratello minore. D'Alema l'iperpolitico forse è ironico quando si complimenta per la «precocità» con cui vi si è iscritto. Ma è sincero quando riconosce la maestria con cui lo narra. Tenendosi fuori da passioni politiche brucianti che ha conosciuto solo di riflesso, e raccontandone invece il vissuto quotidiano, i sentimenti, i rapporti con gli adulti, i costumi e i consumi in rapido cambiamento. Ma anche questo, meno politico, più periferico, riconosce D'Alema, è Sessantotto. O forse è questo il Sessantotto che, nel bene e nel male, ha cambiato di più l'Italia.
Certo non manca qualche alzata di sopracciglio alla vista di John Fitzgerald Kennedy che nell'universo veltroniano coesiste con Ernesto Che Guevara, o qualche stoccatina sulla «simpatica autoironia» con cui Veltroni ripropone il mito delle figurine Panini (per la cronaca, nel Sessantotto, Massimo, oltre che nel Pci e nel movimento, milita nella tifoseria romanista, mentre Walter ha, tra le sue riviste preferite, Hurrah Juventus: anche di questa antica e mai dismessa diversità, politicamente più significativa di quanto si possa credere, si è nutrita la storia delle loro vite parallele). E D'Alema non si risparmia neppure un sarcastico accenno al fatto che L'isola delle rose, anzi, Insulo de Rozoi, perché vi si parla l'esperanto, sia stata pensata e costruita (su ispirazione, tra l'altro, di un ingegnere di estrema destra, che da ragazzo è stato a Salò) fuori dalle acque territoriali italiane, al fine dichiarato di non pagare le tasse: anche questa propensione a evadere il fisco, scrive, fa parte di una società la cui forza «non sta tanto nel sentirsi comunità e nazione, quanto nelle reti di solidarietà, di amicizia, nei legami familiari, nel dialogo, anche se a volte difficile, tra le generazioni».
Ecco, le generazioni. Nel romanzo di Veltroni ce ne sono tre, quella che ha fatto la guerra e ricostruito l'Italia, quella dei figli e quella dei figli dei figli. Alla seconda, con la quale ha pure duramente litigato, la prima ha trasmesso la speranza. Agli attuali giovani e giovanissimi, invece, la generazione del Sessantotto e dintorni non ha trasmesso un bel nulla. Peggio, le ha tolto insieme l'illusione della ricchezza facile e la fiducia in una società migliore. Ma nel libro c'è, nonostante tutto, un messaggio di speranza: «Abbiate l'ambizione di fare qualcosa di grande». D'Alema lo condivide, ci mancherebbe: «Dal buio della crisi non si esce... senza tornare alla forza di un sogno». Su quale potrebbe essere il sogno perduto da ritrovare, invece, non si sofferma. Ma, in fondo, non lo fa nemmeno Veltroni. Dunque, nuovi motivi di polemica non ce ne sono.

Repubblica 3.9.12
Sull’Unità una entusiastica recensione di Massimo sull’ultimo romanzo di Walter sul Sessantotto
Tra gli eterni rivali D’Alema-Veltroni alla fine scoppiò la pax letteraria
di Filippo Ceccarelli


FRA i danni collaterali dell’odierna politica, oltre a una sensazione di stanchezza di fronte al perenne riapparire dei soliti personaggi, c’è che di questi ultimi non si osserva più ciò che fanno, ma perché lo fanno, e come (spesso lo fanno male, e quasi sempre lo fanno per non confessate e ormai automatiche smanie di protagonismo).
Questa desolante e desolata premessa vale purtroppo anche per i politici che, dismessa in via provvisoria la loro vocazione, com’è nel loro diritto scrivono romanzi, e in buona fede li presentano, o con la massima diligenza se li recensiscono, pure tra di loro, sulla base di spazi, aggettivi, allusioni e messaggi che per forza di cose suscitano giudizi più o meno maliziosi. Con il che si annuncerebbe, con il dovuto entusiasmo, che D’Alema e Veltroni stanno per fare pace, o forse l’hanno già fatta.
Comunque pace letteraria. Lo si deduce dalla recensione, apparsa ieri in prima pagina dell’Unità, che il primo ha firmato sull’ultimo romanzo del secondo, “L’isola e le rose” (Rizzoli), avventurosa storia e proto-sessantottesca di una piattaforma “liberata” nelle acque dell’Adriatico.
A giudicare dai toni D’Alema, culturalmente piuttosto schizzinoso e notoriamente caustico a proposito di certi languori veltroniani, l’ha molto gradito. Fino a sottolineare, incredibile a dirsi, un “simpatico” riferimento dell’autore alle figurine Panini.
Il libro, “che ha il sapore della nostalgia”, ha avuto il potere di riportarlo “in un tempo cruciale” della sua gioventù, considerazione che peraltro gli ha stimolato, in apertura, un capoverso di sommari ma significativi cenni autobiografici, da Praga a Francoforte. D’altra parte Veltroni racconta la vicenda “con molto garbo e affettuosa partecipazione”; egli narra “con freschezza” questa “incredibile storia vera” di ragazzi. Di più: “E’ straordinario come Walter sappia raccontare” la vita di una generazione. Sia pure attenuato da un “forse”, si spinge a scrivere D’Alema che dal romanzo “traspare un amore profondo verso il nostro Paese e una fiducia nelle sue potenzialità”. Impegnativo il titolo dell’Unità, quotidiano che sia l’uno che l’altro hanno diretto: “Un sogno può riunire i figli con i padri”. Ora, se l’inesausta rivalità tra i due leader non fosse ampiamente documentabile, in uno sfinimento psico-relazionale che oltretutto non ha mai recato speranza né fortuna al Pds, ai Ds e ora al Pd, nella recensione passerebbe probabilmente inosservato il passaggio in cui con iniziatico richiamo a Pajetta che di Berlinguer disse che si era iscritto giovanissimo alla direzione del Pci, Massimo fa notare che Walter “si è iscritto giovanissimo” (anche) al sessantotto, avendo non più di 13 anni quando scoccò la fatale scintilla.
E’ noto che a essere malignetti si fa peccato, ma la lettura del paginone riporta irresistibilmente alla memoria quello che nel suo “Millecinquecento lettori” Enzo Forcella (Donzelli, 2004) definì “l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene”. Pure confermato nello specifico post-comunista da Andrea Romano in “Compagni di scuola” (Mondadori, 2007), tale ventennale alternarsi di picche e ripicche, riavvicinamenti e riconciliazioni, non appare al momento ciò di cui ha bisogno un centrosinistra in ansia di svecchiamento.
Se nel 1994, agli albori dell’annoso e superbo antagonismo, i due si presentarono ai rispettivi figlioli come lo zio Massimo e lo zio Walter, nel frattempo sono entrambi anagraficamente candidati a diventare nonni. E senza nulla togliere all’Isola delle rose e all’alata recensione dell’Unità, viene il sospetto che siano i tempestosi venti e i minacciosi eventi in arrivo, più che la strategia e la nostalgia, a spingerli oggi a stare insieme. In un modo e per obiettivi che, considerati gli ideali della loro gioventù, rischiano di fare torto a entrambi.

l’Unità 3.9.12
La resistibile ascesa del partito «non-partito»
di Carlo Buttaroni


Giovanni Sartori l’ha definito «liquidismo». Rimuovere senza avere nulla da offrire, nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento. È il dissolvimento senza attesa che qualcosa di nuovo sostituirà ciò che è vecchio. Un passo oltre la società liquida di Bauman, una società, cioè, che cambia troppo velocemente per solidificarsi e strutturarsi. Un sentimento non nuovo nel nostro Paese, ma che emerge con forza ogni qualvolta ci si trova di fronte a un’attesa tradita.
Quando la società liquida approda al liquidismo, allora è inevitabile che trovino spazio gli imbonitori, i comici, gli intrattenitori. Perché la chiave del successo non è più nelle idee e nella capacità di progettare il futuro, ma soltanto nel sottrarre qualcosa a qualcuno, attraverso l’insulto, la delegittimazione, le insinuazioni, occupando quel territorio grigio al confine fra politica e farsa. Quando Bossi insultava il tricolore parlando di secessione e di fucili, dicendo di sparare ai clandestini, era quasi giustificato assimilando le sue idee solamente a un «linguaggio colorito». E così, col tollerare una nuova Babele, ecco che i partiti sono diventati sempre più liquidi tra transumanze parlamentari, privilegi feudali, cappi, corna, insulti, escort e veline di varie natura e grado. Fino ad arrivare al grillismo. Senza neanche accorgersene. Un fenomeno che parla la lingua dell’antipolitica ma che, per le domande che esprime, nel profondo ha bisogno di risposte politiche più di quanto s’immagini.
Grillo è solo un interprete casuale sulla scena del nostro Paese. Ce ne sono stati altri in realtà, come l’Uomo Qualunque di Giannini, negli anni del dopoguerra. Anche allora il qualunquismo, come il liquidismo oggi, anziché un insulto sembrava una virtù. E dal qualunquismo al liquidismo il passo è breve. Quasi fosse un istinto incastonato nel Dna del nostro paese, che rimane latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere, nutrendolo dei problemi irrisolti e degli stati d’animo più deleteri lisciati per ragioni elettorali. D’altronde il nostro è anche un Paese abituato a distribuire piccoli e grandi privilegi ad personam. E chi ne beneficia si nutre di ciò che ottiene fino a quando può ottenerlo. In epoca di «vacche grasse» ci si accontenta di ciò che c’è; al contrario, in epoca di «vacche magre» gli stessi rivendicando una fame insoddisfatta. Sentendosi sempre vittime, mai responsabili. Quando il sistema di cui si è fatto parte – e di cui direttamente o indirettamente si è goduto crolla, solo allora si riscopre la forza della propria presunta innocenza, convinti che le responsabilità sono sempre da attribuire ad altri e che è ora di prendere nelle proprie mani il potere che, in altri tempi, si è sempre riconosciuto ai padroni omaggiati e fedelmente votati.
DEFICIT DI RIFORMISMO
Se la politica è sofferente, scivolosa sugli scenari frammentati sui quali è chiamata a dare risposte, è anche perché, nelle molte crisi che ha attraversato il paese, è mancato un riformismo vero, di sinistra e di destra. Ancor più oggi, che la politica ha lasciato il campo alla tecnica e si aggira disorientata tra masse di elettori che esprimono una fluttuante geografia del consenso.
Per risolvere la sua crisi, quindi, la politica deve fare innanzitutto i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con le scelte che compie, con la capacità di creare idee e di produrre azioni che governino la società. La crisi dei partiti è la crisi dell’agire politico capace di esprimere un senso e caricarsi di significati. Una crisi che si aggrava nel momento in cui la politica sembra poter decidere solo in subordine, prima al sistema economico, poi all’apparato tecnico, trovandosi in una situazione di adattamento passivo, condizionata da decisioni contingenti che non può indirizzare, ma solo garantire.
Se i conti non tornano, è perché si continua a confondere il funzionamento con il pensiero, la direzione con la velocità e la crisi della politica si nutre dell’impotenza di fronte alle scelte che dovrebbe compiere.
UNA NUOVA TAPPA
Sotto questo punto di vista il grillismo è solo una nuova tappa evolutiva del partito leggero e del partito personale che ha segnato la storia politica degli ultimi vent’anni: la persona che diventa partito. Un partito «non-partito», con un leader che non è possibile mettere in discussione, organi d’informazione che dettano il nuovo verbo liquidatorio e liturgie che di democratico, aperto, inclusivo hanno ben poco. Il liquidismo-grillismo si afferma e si diffonde perché il problema è in quel sentimento che fa leva su un nichilismo lieve e che porta a preferire il nulla anziché il cambiamento, trasformando il risentimento in una protesta cieca, senza prospettive e direzioni, favorendo una forma di apatia, quando non di vera e propria ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche. Se cresce, infatti, la critica nei confronti dei partiti, cresce anche l’antiparlamentarismo, il leaderismo esasperato, l’insofferenza verso il confronto e il dibattito.D’altronde il grillismo non è la cura, ma soltanto il segnale d’allarme che invia il corpo di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza. Un virus che si diffonde e si moltiplica perché la democrazia, a differenza di qualsiasi altro regime politico, è inerte da se stessa e non può difendersi. Il carattere dei suoi anticorpi è nella famosa frase di Voltaire «non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu possa esprimerla».
Se lo scopo dell’antipolitica è mettere in luce i difetti del sistema, denunciarli e tentare di correggerli, i fatti dimostrano che la «cattiva politica» cresce proprio intorno all’antipolitica, alimentandosi a vicenda, giustificandosi l’uno con l’altra, dando luogo a una struttura del potere rovesciata, che cresce tra i detriti di una società capovolta che ha perso i suoi riferimenti economici, sociali e, appunto, politici.
Per vincere la sfida con il «liquidismo» occorre ridare forza e ruolo alla politica dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso la fiducia nei partiti e nelle istituzioni, minando le basi stesse della democrazia. Non ci sarebbe da stupirsi se le prossime elezioni politiche dovessero trasformarsi in un groviglio inestricabile e si dovesse ancora far ricorso a soluzioni tecniche. I presupposti ci sono nel momento in cui la metà degli elettori non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito e un governo. Come se il cambiamento fosse impossibile. O, peggio, inutile.
Cosa fare allora? Occorre innanzitutto farla finita con la favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nel momento in cui agisce in una determinata direzione. E, soprattutto, occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte. Perché, alla fine, il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Una perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità eterogenea, accompagnata da nessun’ultima istanza che determini una scelta e un’assunzione di responsabilità. Un deficit che ha il suo punto di ricaduta nell’eclissi dei grandi interpreti e nell’indisponibilità di riferimenti culturali e valoriali che alimentino idee bene comune e condiviso. C’è bisogno di politica perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che stanno prendendo forma in risposta al liquidismo e che hanno preso il posto dei grandi invasi ne sentono la mancanza.
Persino le pratiche che si moltiplicano aspirano a teorie in grado di spiegarle e darne un senso, così come le buone idee hanno bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. In un momento in cui il sistema delle appartenenze stabili e radicate sembra non avere più molto da dire, ciò che si chiede alla politica è attenzione e sensibilità rispetto alla vita reale, insieme a un maggiore coinvolgimento nella progettazione e nella gestione delle politiche pubbliche.
LA RAPPRESENTANZA
Tutto questo ha un nome: rappresentanza. E questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di rappresentanza e di governo della società. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto, ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che in realtà non si è indebolita, ma ha soltanto cambiato forma e nome.
Il liquidismo è nemico del futuro del nostro Paese. E per contrastarlo non occorre un uomo forte ma la forza del pensiero, condiviso, responsabile, partecipe del futuro. Qualcosa che solo la politica può offrire.

l’Unità 3.9.12
L’originale trasversalismo di «Se non ora quando?»
di Francesca Izzo


C’È UN ASPETTO DEL MOVIMENTO SE NON ORA QUANDO? CHE RISULTA PROBLEMATICO: PROVOCA PERPLESSITÀ E INCOMPRENSIONIin parti dell’opinione pubblica femminile e suscita resistenze anche al suo interno. Eppure costituisce un suo tratto distintivo che ne ha segnato l’origine e ne ha caratterizzato le azioni più significative. Mi riferisco al suo cosiddetto «trasversalismo», termine usato per definire la vocazione di Snoq a rivolgersi e ad accogliere tutte le donne, al di là delle storiche appartenenze a movimenti(femministi e femminili) e partiti e delle scelte culturali e religiose. La parola trasversale viene usata abitualmente nel lessico politico per indicare atti, iniziative politiche o legislative che tagliano appunto trasversalmente gli schieramenti politici e sono in genere frutto di convergenze occasionali che non modificano la fisionomia di questi ultimi. Mentre la natura del «trasversalismo» di Se non ora quando? ha un senso e una portata molto diversa. Vorrei provare a spiegare come io ho inteso questa vocazione di Snoq a rivolgersi a tutte le donne e quali ne sono, a mio avviso, le implicazioni. Si tratta
in prima battuta della volontà di superare i confini dati della politica delle donne in Italia, confini che si sono venuti formando nel corso di molti decenni. Decenni nei quali prima i movimenti di emancipazione, poi di liberazione e della libertà hanno progressivamente eroso, come del resto è accaduto in tutto il mondo industrializzato, le basi materiali e simboliche del patriarcato. Il femminismo ha lavorato in profondità dando corpo e voce alla soggettività delle donne, cosa che ha fatto crollare su se stesso l’ordine patriarcale che sul loro silenzio e sulla loro assenza si fondava. In Italia, per ragioni storiche, questo processo coincidente con la scomparsa della società tradizionale ha trovato ascolto quasi esclusivamente nelle forze della sinistra. Ma anche per le donne vale il principio storico che il tramonto di un ordine non comporta la nascita di un altro diverso: «il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere» e in questo intermezzo tutto può accadere, spesso anche forme morbose di reazione e di stravolgimento del senso e dei fini della libertà affermata.
E l’Italia, la storia italiana degli ultimi vent’anni, ne è un esempio eclatante. La ricerca di una esistenza libera ha rischiato di convertirsi in un individualismo chiuso allo scambio e alla costruzione di forme collettive di espressione di sé. Il risultato, certo non voluto, è stato una marcata ed anomala, nel panorama europeo, marginalità sulla scena pubblica e nella vita politica. L’archiviazione dell’etica tradizionale, rigorista e punitiva della sessualità femminile, è servita spesso da alibi per fare delle donne l’oggetto, la principale merce della società dello spettacolo. Il comando della legge del Padre «sacrifica il piacere», con la crisi del patriarcato, si è tramutato nell’ingiunzione «godi!» e questo mutamento ha trovato grottesca espressione negli scandali a base di sesso-denaro-potere che hanno di recente travagliato la vita delle nostre istituzioni. La autodeterminazione nella vita procreativa conquistata a prezzo di tanta sofferenza, la libertà di scegliere se essere o no madri, separando l’essere donna da una destinazione biologica, rischia di non essere più tale. Sempre più diffusa è la difficoltà, se non l’impossibilità di diventare madri, per gli ostacoli materiali di ogni tipo che una società inospitale frappone.
La differenza sessuata che costituisce la più straordinaria, rivoluzionaria visione del mondo prodotta dal pensiero di donne: i sessi sono due eguali e differenti ed entrambi formano simbolicamente e materialmente la realtà vede smussata la sua forza concettuale e reale e tende a svanire o nel transgender o nella prometeica e mimetica idea dell’unicità, ovvero che le donne possono fare a meno degli uomini. L’idea originaria del femminismo che il punto di vista delle donne riformula e riordina tutti gli altri punti di vista, politici e sociali, si è di fatto, sulla base di dati storicamente cogenti, ristretta alla identificazione della politica delle donne con lo schieramento di sinistra.
È rispetto a questa costellazione, frutto per altro degli stessi successi del femminismo, che va valutato il senso del «trasversalismo» di Se non ora quando?. Con esso si intende prendere atto che una fase straordinaria della nostra storia si è conclusa, che ci troviamo a fare i conti con altre sfide che sorgono dalla scomparsa del tradizionalismo patriarcale e dalle inedite e multiple resistenze ad adeguare il mondo alla libertà femminile e che quindi i noti e abituali confini della politica delle donne vanno superati. L’appello del 13 febbraio del 2011 aveva sullo sfondo questa inquietante costellazione e la connessa esigenza di cambiare i «paradigmi». Alcune hanno ritenuto che quanto era accaduto nella giornata del 13 fosse qualcosa di unico, dovuto sia al concorso di circostanze politiche irripetibili sia alla «genericità» delle parole d’ordine , a cominciare dal richiamo alla dignità femminile, parola che all’orecchio di molte evocava il polveroso decoro borghese. Mentre proprio l’uso di questo termine, così come il richiamo all’amicizia degli uomini, segnalavano la necessità di cambiare i «paradigmi». Dire dignità voleva significare che l’avvento della libertà femminile apre una epocale questione di carattere antropologico che investe la natura della libertà coinvolgendo tutti, uomini e donne e non può più essere affrontata rincorrendo il radicalismo dei diritti.
E in nome della dignità delle donne e dell’Italia nelle piazze di tutto il Paese mondi e sensibilità che per decenni si erano guardati con distacco se non con ostilità si sono incontrati: un popolo guidato da donne, si è detto. E su quell’incontro il movimento ha cercato di costruirsi e di agire, di concepire se stesso e la sua azione politica: il «trasversalismo» di Snoq indica la volontà di radicare le donne nel cuore della nazione per farne davvero una potenza di governo. Per governare in autonomia e non per graziosa concessione altrui, un movimento di donne deve avere la capacità di leggere l’insieme della vita della nazione e farsene interprete. È un compito arduo, Se non ora quando? ci ha provato in questo anno e poco più di vita, nelle sue iniziative. Con la manifestazione dell’11 dicembre, che ha inteso porre al nuovo governo e all’insieme delle forze politiche i temi più urgenti per cominciare a fare dell’Italia un Paese per donne, con l’appello Mai più complici che, forte di una matura visione del nesso corpo femminile-rappresentazione, chiama gli uomini a confrontarsi con i femminicidi e la violenza contro le donne, con le posizioni assunte sulla vicenda delle nomine del consiglio di amministrazione della Rai e il futuro del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma non senza incontrare difficoltà e resistenze, appunto. Probabilmente c’è bisogno di ancora più chiarezza e di più coraggio.

Repubblica 3.9.12
“Le idee di Martini anticiparono l’Europa cattolici e laici si uniscano per tenerle in vita”
Guido Rossi: su Welfare e giustizia ebbe intuizioni rivoluzionarie
di Carlo Annovazzi


MILANO — Professor Guido Rossi, centocinquantamila persone in Duomo, per il cardinal Martini una partecipazione intensa come per nessun altro vescovo nella storia. Perché?
«C’era gente di tutti i tipi, commossa, in fila, in una sera fredda e buia, l’ho voluto vedere anch’io sabato sera. Ma non mi sorprende. Perché Martini era unico. Un uomo del Rinascimento. Univa, ti accoglieva. Sapeva mettere a proprio agio le persone, una dote incredibile, come se in quel momento non avesse niente da fare e invece aveva sempre impegni importanti».
È stato il cardinale degli studi biblici ma anche delle aperture, della solidarietà, dell’accoglienza.
«Le sue visite ai carcerati, la sua capacità di dare speranza... In un momento di degrado che colpisce tutti, politica, società civile, chiesa, il suo insegnamento rivoluzionario non deve essere perduto. Il suo era un carisma internazionale, mi ricordo che dieci anni fa, quando compì 75 anni, anche prestigiosi quotidiani europei, Le Monde e il Times lo ricordarono e lui non era certo tipo che andava in giro a autocelebrarsi. E attenzione, non era solo la sua straordinaria conoscenza della Bibbia, la sua qualità di studioso a renderlo così popolare nel mondo, ma la sua capacità di aprirsi».
Quanto c’era di Milano nel cardinal Martini?
«Questa città ha avuto vescovi all’avanguardia, da Ambrogio in poi nessuno ha dato tanto alla Chiesa quanto i cardinali di Milano. Pensiamo a quello che ha fatto Schuster durante il fascismo, a Montini. Maestri di insegnamento umano. Martini ha continuato su questo solco diventando a sua volta rivoluzionario. Ha posto al centro di tutto la dignità dell’uomo. Mi sembrava di leggere Pico della Mirandola, non un cardinale. Il suo insegnamento è stato anche profondamente laico. C’è una frase importante in un suo discorso alla città del 2000».
Quale?
«Scriveva alla vigilia di Sant’Ambrogio, patrono cittadino. “L’illuminismo e il cristianesimo che innervano la nostra civiltà, pur essendo storicamente in contrasto, con il tempo hanno prodotto una sintesi preziosa che fa perno sulla dignità della persona umana e sul carattere inalienabile dei suoi diritti fondamentali”. Un non credente non avrebbe potuto scrivere una cosa più profonda».
Perché era tanto innovativo sul tema della giustizia?
«Con lui da Milano è partita una nuova legittimazione di una giustizia più equa. Nel suo libro “Sulla Giustizia” condannava senza appello la concezione retributiva della pena che era stato il nucleo centrale ebraico cristiano. Bisogna recuperare chi ha sbagliato, scriveva, superando la centralità del carcere in ambito penale. Sembrava Cesare Beccaria. Parlavamo a lungo del problema della giustizia, ci confrontavamo».
La giustizia e il recupero di chi ha sbagliato sono strettamente legati alla condizione di vita. Martini andava a parlare con i lavoratori per capirne i problemi e per affrontarli.
«Il suo era un nuovo welfare di un illuminismo tipicamente milanese, un laboratorio che anticipava temi che sono esplosi dopo, penso alla flessibilità del lavoro, all’articolo 18. Servono regole e non liberismo selvaggio, diceva. Sempre nel libro “Sulla Giustizia” attaccava il potere economico e politico. Pensava poi a un nuovo ruolo del sindacato, un welfare per i lavoratori, per i più deboli mettendo sempre al centro la difesa della dignità umana. Principi etici straordinari, che uniscono la tradizione rinascimentale italiana alla dimensione europea, sembra di sentire Altiero Spinelli».
Che cosa bisogna fare per non disperdere l’eredità di Martini?
«Per fare di Milano un laboratorio di una nuova cultura politica e civile bisogna raccogliere gli scritti di Martini, metterli a disposizione, organizzare un convegno con i più importanti studiosi del mondo. Bisogna tenere vivo Martini, tenere vivi i suoi straordinari insegnamenti. Va conservato il ricordo, c’è il dovere della memoria in un mondo e in un momento che non ne ha più».
E chi potrebbe raccogliere questo appello?
«Il cardinale Scola e il sindaco Pisapia, con il suo assessore alla Cultura Stefano Boeri. La Chiesa e il Comune insieme. Sarebbe un evento rivoluzionario. Quale modo migliore per continuare sulla scia di un uomo rivoluzionario quale era Martini. Sa una cosa?».
Prego.
«Martini non avrebbe obiettato al registro delle unioni civili di Pisapia. Ne sono sicuro».
Che Milano lascia Martini?
«Non diversa dal resto Italia, un patrimonio straordinario di individualità ed eccellenze che non riescono però a emergere su un conformismo imperante».
Proprio lei, pochi giorni prima del saluto di Martini alla diocesi di Milano, nel 2002, lo invitò a non andare a Gerusalemme. “Chi parlerà qui di immigrazione, di giustizia, di solidarietà, dei problemi della sanità con il suo equilibrio e rigore? Non lasci Milano ora”. E evocò il Medioevo con i padri della Chiesa che tornavano dalla Terra Santa per combattere la peste. C’è ancora quella peste?
«Lui fu costretto ad andare a Gerusalemme, non venne confermato. E la peste è rimasta, è forte anche adesso. E si sente e si sentirà la mancanza di Martini».
Martini ha voluto farsi seppellire in Duomo sotto la croce di San Carlo Borromeo, quella che servì proprio a sconfiggere la peste. Tutto torna.
«Stupendo, lui parlava e agiva molto per simboli e questa scelta ha un effetto importantissimo ».
Sarebbe stato un buon Papa?
«Sì. E adesso, guardando che cosa succede a Roma, mi chiedo che cos’è il Vaticano, questi momenti brutti ricordano un passato che si pensava cancellato, grandi riferimenti etici nelle parole ma non nei fatti. E quella intromissione nelle vicende dello Stato... Certo, Martini non sarebbe stato sulle posizioni di Bagnasco».

Corriere 3.9.12
Un quinto degli studenti abbandona: ecco la vera sfida della scuola
di Isabella Bossi Fedrigotti


Spaventosi sono i dati dell'abbandono scolastico in Italia. Quasi il venti per cento — il 18,8 per la precisione — degli alunni delle scuole superiori abbandona gli studi o nemmeno si iscrive a un corso una volta terminata la terza media. Perché succede? Non si sa. Cosa fanno, dove vanno, come passano i giorni, le settimane, i mesi questi fuggiaschi? Non si sa. Forse si trovano un lavoro, ma, considerati i numeri della disoccupazione giovanile italiana, con tutta probabilità, per la stragrande maggioranza, soltanto di lavoro nero si può trattare. Forse, invece, non fanno niente, forse semplicemente aspettano che la vita porti loro qualcosa, o forse si arrangiano lungo altre strade, molte delle quali magari poi finiscono male.
Per quel che riguarda le ragazze, un tempo si sarebbe pensato che lasciano la scuola per aiutare in casa o per sposarsi: oggi, tuttavia, l'ipotesi pare reale soltanto in parte, se non altro perché, un po' a sorpresa, il numero dei maschi transfughi dell'istruzione è parecchio più alto di quello delle femmine: 22 per cento contro 15,4. Un po' più disciplina e un po' meno distrazioni per le ragazze potrebbe essere la spiegazione del notevole divario. Non si tratta, quindi, di un innocuo gocciolio per così dire «fisiologico» bensì di un vero e proprio rubinetto aperto, che impoverisce e inselvatichisce il Paese. È vero che i numeri della dispersione sono, anno dopo anno, in leggero calo, ma la sproporzione di quel quasi venti per cento resta impressionante e la sfida per l'intera istituzione scolastica non più rinviabile.
Non è una malattia soltanto nostra, ma tristemente primeggiamo anche in questo, superati in Europa soltanto da Malta, Portogallo e Spagna. Né pare un fatto necessariamente legato alla generale situazione economica di un Paese in quanto i numeri di Inghilterra e Francia non sono così diversi da noi, mentre i più alti tassi di fedeltà scolastica si registrano in Slovenia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Simile tendenza la possiamo verificare anche in Italia dove, pur dovendo segnalare punte molto alte dell'abbandono scolastico soprattutto nel Meridione, è la notoriamente prospera provincia di Bolzano che, in assoluto, conta il maggior numero di studenti in fuga dalla scuola superiore: oltre il 30 per cento. (Ma forse questa è un'altra storia, storia di bilinguismo che può portare a non saperne bene né l'una né l'altra).

La Stampa 3.9.12
La «rifondazione dell’istruzione repubblicana» è uno dei punti chiave del programma di Hollande
Francia, a lezione di morale laica
Dal prossimo anno nelle scuole partiranno i corsi di “valori universali”
Il ministro Peillon «Si insegnerà la capacità di ragionare criticare e dubitare» Reazioni positive anche da destra. Ma restano i dubbi sul metodo
di Alberto Mattioli


Tra oggi e domani 12 milioni di studenti francesi tornano a scuola
Tutti a lezione di «morale laica». Non da quest’anno scolastico, che comincia fra oggi e domani per 850 mila insegnanti francesi e per 12 milioni di studenti, ma dal prossimo, appena decisi i contenuti della morale di Stato e il modo d’insegnarla.
Il ministro dell’Educazione nazionale, Vincent Peillon, ha lanciato la bomba ieri in una fluviale intervista al «Journal du dimanche». Si sa che la scuola, anzi «la rifondazione della scuola repubblicana», è uno dei punti chiave del programma di François Hollande e uno dei tre settori (gli altri sono le forze dell’ordine e la magistratura) dove non proseguirà il salasso dei dipendenti pubblici. Il governo socialista, concesso e non dato di trovare i soldi, vuole assumere 60 mila persone solo per l’educazione. E, il giorno dell’investitura, una delle sue corone di fiori Hollande è andata a deporla sul cenotafio di Jules Ferry, che creò la scuola obbligatoria e laica in quell’Ottocento positivista in cui l’istitutore era «l’ussaro della Repubblica», incaricato di portarne il verbo fin nelle più sperdute campagne clericali.
Adesso Peillon spiega che dalla cattedra si insegnerà ai cittadini di domani «cosa è giusto» secondo «una morale universale, fondata su idee di umanità e di ragione. La capacità di ragionare, di criticare, di dubitare, tutto questo si deve imparare a scuola». Perché «alcuni valori sono più importanti di altri: la conoscenza, l’abnegazione, la solidarietà, piuttosto che i valori del denaro, della concorrenza e dell’egoismo».
Morale sì, ma rigorosamente laica. E qui riciccia l’idea, vecchia quanto la Repubblica, dell’insegnante come prete laico che contende le coscienze a quelli veri. Se Nicolas Sarkozy in pellegrinaggio a Roma disse che «l’istitutore non potrà mai sostituire il curato», Peillon sostiene il contrario. E, usando un linguaggio squisitamente giacobino, spiega che la morale laica «comporta una costruzione del cittadino certo con una conoscenza delle regole della società, del diritto e del funzionamento della democrazia, ma anche di tutte le questioni che ci si pone sul senso dell’esistenza, sul rapporto con se stessi e con gli altri, su ciò che fa una vita felice o una vita buona. Se queste domande non sono poste, discusse e insegnate a scuola, lo saranno dai mercanti e dagli integralisti di ogni genere. Se la Repubblica non dice quali sono i vizi e le virtù, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, altri lo faranno al suo posto». Magari i genitori, si potrebbe obiettare. No, perché per Peillon «per dare la libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’allievo a tutti i determinismi, familiare, etico, sociale, intellettuale».
Fin qui il ministro. E le reazioni alla scuola etica sono, per il momento, positive. Applaude Jack Lang ma anche Luc Ferry (nessuna discendenza da Jules), filosofo ed ex ministro - di destra - dell’Educazione nazionale. Il problema, semmai, è di metodo. Perché, obietta il sociologo Jean Baubérot, «non si può insegnare la morale come si insegna una regola di grammatica».

Corriere 3.9.12
La morale laica non si insegna perché non ne esiste una soltanto
di Giuseppe Bedeschi


Apprendiamo che il ministro francese della Pubblica istruzione, Vincent Peillon, vuole introdurre come materia di insegnamento nelle scuole (fino al liceo) «la morale laica». Infatti, egli dice, se non è la scuola a diffondere e a inculcare principi, valori e nozioni di morale universale, saranno altri ad assumere quel ruolo, e non su quelle basi di «umanità e ragione» che sostengono la Repubblica. Insomma: «Bisogna accettare l'idea che sia la scuola ormai a esercitare un potere spirituale» nella società.
Il ministro è certamente mosso dalle migliori intenzioni; ma temo che il suo sforzo mancherà l'obiettivo al quale tende, per il semplice fatto che tale obiettivo è mal posto: tanto mal posto da essere insussistente. Infatti, «la morale laica» non esiste. Esistono tante morali laiche. La morale laica di Bertrand Russell (che rifiutava qualunque apporto intellettuale del cristianesimo, da lui considerato una calamità nella storia umana) non è la morale laica di Benedetto Croce (per il quale il cristianesimo aveva prodotto la più grande rivoluzione spirituale della storia umana, e affermato valori che sono alla base della nostra civiltà, sicché tutti noi «non possiamo non dirci cristiani»). In Francia, la morale laica di Raymond Aron non era la morale laica di Jean-Paul Sartre. E via enumerando.
Dunque, quale morale laica insegneremo? Le insegneremo tutte, naturalmente. Così come insegneremo la morale o le morali dei credenti. Perché questo è il compito della scuola in una società democratico-liberale, il suo vero «potere spirituale»: quello di illustrare tutte le fedi e tutte le concezioni, con adeguata informazione storica e dottrinale, affinché nel giovane si sviluppi una adeguata consapevolezza intellettuale e un vigile spirito critico, che lo aiutino a compiere, in piena autonomia, le proprie scelte culturali e spirituali (le quali, quindi, non possono essere «inculcate»). A un compito così impegnativo deve contribuire l'insegnamento di tutte le materie (della filosofia, della storia, della letteratura ecc.), le quali non possono essere costrette in una sola, angusta casella: quella «morale laica» che sa tanto di catechismo per (sedicenti) laici.

Repubblica 3.9.12
“Troppi, fannulloni e irregolari” ecco i falsi miti sugli immigrati
Un test “boccia” gli italiani: ignoranza e pregiudizi
di Vladimiro Polchi


PERCHÉ siamo frastornati da informazioni distorte e luoghi comuni. Cinese, clandestino, bracciante agricolo, poco utile al benessere nazionale: eccolo l’identikit deforme dell’immigrato- tipo tracciato dagli italiani.
A stilare la deludente pagella è uno studio della Fondazione Leone Moressa, che a fine luglio ha “interrogato” 600 italiani. Sempre più spesso al centro delle notizie che affollano le prime pagine dei giornali e delle tv, l’immigrazione pare rimanere però in gran parte un pianeta oscuro. La nuova sanatoria, pronta a scattare il 15 settembre prossimo, promette di riportare il tema al centro dell’attenzione.
A fronte di questo costante flusso d’informazioni la Fondazione Moressa si è chiesta quanto effettivamente conosciamo i “nuovi italiani”. Ecco i risultati.
Innanzitutto pensiamo che siano pochi: tra 1 e 2 milioni, a fronte di un dato reale di 4,5 milioni (Istat, 2011). Sovrastimiamo la clandestinità: gli irregolari sarebbero oltre un quarto degli stranieri (il 26,7%), mentre non superano il 10,7% (Fondazione Ismu). Vediamo cinesi ovunque: stando alle risposte degli
italiani sarebbero loro la prima comunità, mentre sono solo la quarta (dopo romeni, albanesi e marocchini).
Anche rispetto al lavoro mostriamo un po’ di confusione: l’agricoltura viene indicata come primo settore di occupazione degli stranieri, a seguire il lavoro domestico e le costruzioni. Nella realtà invece gli immigrati sono maggiormente occupati nel settore dei servizi alla persona (tra cui lavoro domestico), nell’industria e nelle costruzioni. E l’agricoltura? Arriva solo all’ultimo posto. Veniamo bocciati pure alla domanda sulla percentuale di ricchezza (Pil) che producono gli immigrati: il 38,2% indica una quota tra il 2% e il 5%, quando si tratta invece del 12,1% (Unioncamere).
Non solo: l’88% sbaglia quando, interrogato su chi abbia maggiormente subito un aumento della disoccupazione a causa della crisi, indica gli italiani, mentre si tratta degli stranieri. Infine, più della metà (63,6%) pensa erroneamente che un bambino nato in Italia da genitori stranieri acquisti la cittadinanza italiana. Da noi, invece, lo ius soli è ancora un miraggio, la nostra legge resta invece inchiodata al vecchio ius sanguinis (il bambino acquista solo la cittadinanza dei genitori stranieri).
Quando poi dal piano delle conoscenze si passa a sondare quello delle opinioni degli italiani, il quadro che emerge risulta contraddittorio: riteniamo che coi migranti aumenti la criminalità, ma siamo favorevoli a concedergli il diritto di voto dopo cinque anni in Italia. E ancora: siamo convinti che gli stranieri siano utili a compensare l’invecchiamento della popolazione italiana, ma non pensiamo che contribuiscano positivamente ai bilanci dell’Inps (e che quindi paghino in parte anche le nostre pensioni).
Insomma, in “immigrazione” i voti degli italiani restano ben al di sotto della sufficienza. La colpa? Dei media. Il 75% degli intervistati punta infatti
il dito contro un’informazione giudicata incompleta e fuorviante. Insomma, la brutta pagella non sarebbe da imputare agli “studenti” che non si applicano, ma ai “cattivi” testi sui quali studiano.

Repubblica 3.9.12
Oltre il passato senza indulgenza
di Ilvo Diamanti


Le polemiche sulla trattativa fra Stato e mafia. Ha coinvolto il presidente Napolitano e i magistrati di Palermo. Anche se i fatti di cui si discute sono avvenuti vent’anni fa. Nel 1992. Il crinale fra la Prima e la Seconda Repubblica. Quando Falcone e Borsellino vennero massacrati, insieme alla scorta, in due diversi attentati. A pochi mesi di distanza. Episodi tragici, parte di una strategia concepita da «menti raffinate» che tendeva a «mantenere l’esistente ed a fermare la spinta al cambiamento », ha osservato Piero Grasso, capo della Direzione nazionale antimafia. Il quale ha aggiunto che, come nel 1992, oggi sarebbe in atto «una ulteriore destabilizzazione (…) contro la magistratura e contro il capo dello Stato». Vent’anni dopo, dunque, la storia si ripete. Stessi attori, stesse questioni, con volti e nomi – talora, ma non sempre – diversi. Gli echi del passato sono tanti, troppi, per non suscitare sospetto.
Vent’anni fa – più uno – si era celebrato il referendum che riduceva a una sola le preferenze. In pratica: ne limitava il “mercato”, che favoriva il controllo delle
lobbies, degli uomini e dei gruppi di potere sulla società e sul territorio. Vent’anni fa – meno uno: nel 1993 – altri referendum avviavano il maggioritario al Senato. Mentre la Bicamerale trasformava la legge elettorale della Camera in un sistema misto, in prevalenza maggioritario. Il famoso Mattarellum, tanto criticato prima di essere sostituito per iniziativa del centrodestra, nel 2005, dal famigerato Porcellum. Vent’anni fa – meno uno – veniva approvata la legge che stabiliva l’elezione diretta dei sindaci per rispondere alle domande di autonomia espresse sul territorio, soprattutto – ma non solo – nel Nord. A cui la Lega – ma non solo – aveva dato voce. Vent’anni fa – uno più, uno meno – i partiti tradizionali – di governo e di opposizione – si sfaldavano. Fiaccati dal voto del 1992. E soprattutto da Tangentopoli. Si rifondavano. La Dc e il Pci. Si ri-nominavano. Si dividevano. Fra post e neo. E si redistribuivano fra i due schieramenti. Vent’anni fa – uno più, uno meno – Silvio Berlusconi si preparava a scendere in campo. Vent’anni fa: il Paese si dibatteva in una crisi economica pesante, condizionata da un debito pubblico enorme. I governi dell’epoca, affidati a ministri “tecnici”, come Amato, Dini e Ciampi, vararono manovre finanziarie onerosissime. Vent’anni fa, l’Italia chiudeva un lungo ciclo della propria storia. Condizionata dalla presenza di grandi organizzazioni illegali, radicate sul territorio. Mafia e camorra, in particolare. Sfidate, soprattutto, dalla magistratura e dai magistrati – oltre che da esponenti politici e della società civile. Con grande sacrificio di vite umane. L’Italia: al confine fra l’Occidente democratico (e capitalista) e i sistemi socialisti dell’Est. Percorsa da tensioni, spioni, attentati e complotti. Ispirati dall’esterno oltre che dall’interno.
Vent’anni fa: il cambiamento, a lungo annunciato, infine, irrompeva. Tumultuoso. Ma disordinato, privo di un disegno chiaro. Promosso da diversi attori e diversi soggetti. Con interessi e progetti diversi. Attraverso referendum, elezioni locali, svolte elettorali, inchieste giudiziarie e spinte territoriali.
Vent’anni dopo – anno più, anno meno. È lecito dubitare. Che quella svolta, quella frattura, quel cambiamento: abbiano prodotto i risultati annunziati. Sperati. Vent’anni dopo. Si parla ancora e sempre di Tangentopoli. Di referendum elettorali e di nuove leggi – che correggano l’ennesima degenerazione scaturita dalle mediazioni dei partiti. Con un nuovo sistema di voto, che rischia di fare rimpiangere il Porcellum. E verrà, puntualmente, sanzionato da una nuova, ironica definizione di Giovanni Sartori. Vent’anni dopo. Si continua a parlare di federalismo e di autonomie locali. Vent’anni dopo. Si parla ancora di ritorno del Centro, della nuova Dc. E se il comunismo è finito, l’anticomunismo c’è ancora. Agitato come una bandiera. Vent’anni dopo. Governano i tecnici. Berlusconi ha concluso il suo ciclo, ma incombe. Vent’anni dopo. Sempre lì. In attesa di nuove elezioni di svolta. A discutere di vent’anni fa. Vent’anni dopo e vent’anni prima. Le stesse questioni, le stesse polemiche, le stesse vicende, gli stessi attori. Come se, in vent’anni, niente fosse cambiato. O forse perché i cambiamenti sono avvenuti in modo contraddittorio. Eludendo i problemi invece di risolverli. Perché il cambiamento si è realizzato senza aver fatto davvero i conti con il passato. Senza aprire le pagine più scure della nostra biografia. Le leggi elettorali: modificate per via referendaria o compromissoria. Sempre a metà, fra maggioritario e proporzionale. Come la forma dello Stato: un presidenzialismo di fatto. Affermatosi per l’inerzia e l’impotenza dei partiti principali. Personalizzati e, anzi, “personali”. Mediatizzati. Hanno lasciato i cittadini «orfani, privi di concezioni generali, di una filosofia » (Per citare Berselli). Il federalismo e le autonomie locali. «Parole e nient’altro che parole ». Realizzati senza ridurre il centralismo dello Stato e lo Stato centrale. Il rapporto fra la politica e gli affari. Eluso. Rimosso. Come se Tangentopoli avesse risolto tutto. Come se la Prima Repubblica fosse finita insieme a Craxi e Andreotti. Così le collusioni fra poteri politici, istituzioni settori dello Stato e organizzazioni illegali. Mafiose e non solo. Hanno attraversato la nostra storia, ma non si sono concluse nel 1992. Sono proseguite e proseguono ancora. Come dimostrano le inchieste dei magistrati, che hanno coinvolto importanti protagonisti della politica e della vita pubblica.
Per questo ci scopriamo a discutere dei fatti e dei misfatti di vent’anni fa come fossero avvenuti oggi.
Perché i conti con il passato non li abbiamo mai chiusi davvero. Ma proprio per questo bisogna fare chiarezza. Senza indulgenza e senza reticenza, su quel che è avvenuto allora e poi. Soprattutto e anzitutto per quel che riguarda i rapporti fra istituzioni, politica e organizzazioni illegali. Un vizio inaccettabile per un Paese che voglia davvero voltare pagina. Nessun sospetto, nessuna zona d’ombra, a questo proposito, è tollerabile. Nelle trattative fra Stato e mafia. Oggi come ieri. Per non restare intrappolati nei meandri della nostra cattiva coscienza nazionale. Impegnati a guardare e a correre. Avanti verso il passato.

Corriere 3.9.12
il mosaico delle inchieste tra paradossi e realtà
Come si è arrivati alle polemiche incrociate contro Quirinale e pm
di Giovanni Bianconi


ROMA — Per quanto se ne è discusso e per le divisioni e polemiche che hanno provocato, si potrebbero definire il «giallo dell'estate». Le telefonate tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, casualmente intercettate nell'ambito dell'inchiesta palermitana sulla cosiddetta trattativa tra pezzi di Stato e pezzi mafia al tempo delle stragi, hanno alimentato un caso politico-giudiziario che dura da un'intera stagione. E promette altri sviluppi. Se non altro alle prossime scadenze: la decisione della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale, e l'udienza preliminare per gli imputati nel procedimento sulla trattativa. Anche lì, infatti, qualche avvocato potrebbe chiedere di sospendere il giudizio in attesa che la Consulta si pronunci, per poi — eventualmente — proporre l'acquisizione di quei colloqui. Sebbene, per ammissione degli stessi magistrati, quei colloqui non abbiano nulla a che vedere con i presunti reati e le persone chiamate a risponderne.
È il paradosso di questa contorta vicenda: dalla metà di giugno, quando i pubblici ministeri di Palermo hanno chiuso l'inchiesta, ci si accapiglia su un paio di intercettazioni (ma non se ne conosce nemmeno il numero esatto) in cui compare il presidente della Repubblica, nonostante gli inquirenti abbiano ripetuto in tutte le salse che si tratta di colloqui irrilevanti, estranei al procedimento giunto a conclusione. Eppure sono l'oggetto (misterioso) di una disputa dai toni sempre più alti, e non solo per via del conflitto avviato davanti alla Corte costituzionale.
Il conflitto strumentalizzato
Il capo dello Stato ha voluto porre una questione di principio: la possibilità che le sue conversazioni accidentalmente registrate siano valutate «ai fini della loro eventuale utilizzazione investigativa o processuale». Ma le polemiche pressoché quotidiane travalicano quella questione, e il nome del presidente Napolitano viene comunemente affiancato all'indagine sulla trattiva. Anche se non c'entra niente. Nemmeno per quanto riguarda presunti tentativi di condizionamento dell'inchiesta, ancora una volta esclusi dagli stessi magistrati inquirenti.
Ecco perché s'è arrivati alle strumentalizzazioni incrociate (contro il Quirinale e contro la Procura di Palermo) denunciate dal procuratore aggiunto Ingroia, e alle «menti raffinatissime» evocate dal superprocuratore Grasso dietro i tentativi di destabilizzazione indirizzati contro Quirinale e magistratura. Due modi per mettere in guardia dallo stesso pericolo: fare confusione per porre le istituzioni l'una contro l'altra. Allontanando l'attenzione dalla questione centrale: le «relazioni pericolose» tra uomini delle istituzioni e di Cosa nostra nel biennio 1992-94 contrassegnato dagli attentati in Sicilia e sul continente.
Quei contatti che vanno sotto il nome di «trattativa» non sono un'invenzione di qualche magistrato o investigatore fantasioso. Già nel 1998, la sentenza della Corte d'assise di Firenze sulle stragi del '93 certificò che i colloqui degli allora ufficiali del Ros dei carabinieri Mori e De Donno con l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino «avevano tutte le caratteristiche per apparire come una "trattativa", e l'effetto sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all'organizzazione». Di più. I giudici di Firenze si spinsero a ipotizzare che i contatti carabinieri-Ciancimino avessero aperto la via all'arresto di Totò Riina, al prezzo di «sostanziali concessioni ai mafiosi»; per esempio, sappiamo oggi, l'allentamento del cosiddetto «carcere duro». E scrissero: «Questa eventualità fa rabbrividire ogni persona avveduta, ma è inidonea a influenzare questo giudizio che non concerne i contraenti dalla parte di qua di questo ipotetico contratto illecito (gli ufficiali dell'Arma e i loro eventuali mandanti, ndr), ma coloro che, del contratto, sarebbero stati i beneficiari». Cioè i boss mafiosi, processati e condannati in quella circostanza.
Un pezzo del mosaico
Adesso i pubblici ministeri di Palermo ritengono di aver composto un altro pezzo del complesso mosaico chiedendo il giudizio anche per alcuni di coloro che stavano «dalla parte di qua», cioè gli uomini dello Stato: Mori, De Donno, il loro capo dell'epoca Subranni, l'ex ministro Mannino, il senatore Dell'Utri. Accusati di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato», per aver rafforzato la volontà ricattatoria dei mafiosi nei confronti del governo. È la veste giuridica (da sottoporre alla verifica dei giudici, ovviamente) dell'ipotesi avanzata dai giudici di Firenze, che s'erano dovuti fermare agli imputati «della parte di là», i rappresentanti di Cosa nostra.
Questa ricostruzione dovrà ora essere vagliata dal giudice dell'udienza preliminare Piergiorgio Morosini, che ha fissato il primo appuntamento con accusa e difese al prossimo 29 ottobre. Ma la conclusione a cui è giunta la Procura è una delle possibili conseguenze di quanto stabilirono altri magistrati nell'ormai lontano 1998. E anche se il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari dice che per la strage di via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino «non sono stati individuate responsabilità penali probatoriamente sostenibili davanti a un giudice a carico di soggetti diversi da Cosa Nostra», le conclusioni della sua inchiesta sono piene di giudizi che lasciano intravedere quelle responsabilità. Per esempio quando si afferma che i carabinieri del Ros «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992». E ancora: «In quel momento storico, ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate, con incursioni anche nel campo "avverso"». Attraverso le indagini «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa». Per questo, «è possibile sia che la decisione di anticipare l'uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si era opposto alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizione di maggior vigore».
Polemiche sulle intercettazioni
A proposito dell'ex ministro dell'Interno Mancino, gli stessi magistrati di Caltanissetta non hanno escluso «la possibilità teorica che egli possa aver mentito perché ha qualcosa da nascondere». Loro si riferivano all'incontro con Borsellino, prima negato e poi non ricordato dall'uomo politico; oggi a Palermo Mancino è imputato di falsa testimonianza sulla conoscenza dei contatti carabinieri-Ciancimino e sui retroscena della sua nomina, avvenuta fra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. Nelle sue telefonate al Quirinale l'ex ministro si lamentava — certamente con il consigliere giuridico del presidente, Loris D'Ambrosio, recentemente scomparso; con Napolitano non si sa — del comportamento dei pm di Palermo. Si ritorna così alle intercettazioni che hanno occupato gran parte delle cronache estive, e alle infinite polemiche per arrivare a una legge che ne modifichi la disciplina della loro pubblicazione. Soprattutto quelle «non rilevanti» sul piano processuale. Ma anche in questo caso si tratta perlopiù di discussioni superflue o strumentali. Perché le conversazioni di Napolitano, già giudicate irrilevanti, non sono state rese note, nemmeno nell'avventuroso articolo di Panorama. Quelle tra Mancino e D'Ambrosio invece, sebbene non contenessero notizie di reato, sono state considerate rilevanti dagli inquirenti in quanto rivelatrici dei timori e dello stato d'animo di chi, a loro giudizio, nascondeva la verità. E dunque destinate, prima o dopo, a diventare comunque pubbliche.

l’Unità 3.9.12
Netanyahu: Obama ostacola i miei piani di guerra all’Iran
Retroscena di un faccia a faccia al vetriolo tra il premier israeliano e l’ambasciatore Usa
di U.D.G.


«Ora basta, signor primo ministro, adesso è davvero troppo». Gerusalemme, ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’atmosfera è carica di tensione. A fianco di Netanyahu c’è il ministro della Difesa, Ehud Barak. Dall’altro lato del tavolo, l’ambasciatore Usa a Tel Aviv, Dan Shapiro. Al centro dell’incontro c’è il tema che più sta a cuore al primo ministro israeliano: il nucleare iraniano.
Netanyahu è un fiume in piena, accusa la comunità internazionale di essere succube degli ayatollah iraniani, e si lascia andare ad una durissima requisitoria contro la politica estera di Barack Obama: «Un discorso che avrebbe infiammato la Convention repubblicana di Tampa», dice a l’Unità una fonte diplomatica di stanza in Israele. A un certo punto della requisitoria, rivela a sua volta Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, sono volate «saette e scintille». Quello che il vicepremier israeliano Moshe “Bughy” Yaalon definisce adesso «uno scambio di idee fra amici» assomiglia sempre più ad una gara di wrestling fra Obama, presente in spirito, e Netanyahu. «Se Obama fosse confermato alla Casa Bianca avverte una fonte statunitense citata dalla radio militare israeliana Netanyahu dovrebbe trovarsi un riparo sicuro per sfuggire alla vendetta del Presidente». Il fattore tempo è sempre più cruciale. Lo chiarisce molto bene l’ex capo del Mossad, Efraim Halevy. In una recente intervista al New York Times, Halevy ha detto che «siccome gli israeliani sono notoriamente contrari ad attacchi d’inverno e visto che l’attuale situazione siriana non consentirà ad Hezbollah e ad Assad di dare manforte agli alleati iraniani, se c’è un momento buono per attaccare è proprio questo».
Tra Netanyahu e Obama la rottura appare insanabile. «Bibi Netanyahu ndr punta tutto su Romney», confida a l’Unità una fonte molto vicina agli ambienti governativi dello Stato ebraico. «Tra i due, amici personali da molti anni (dai tempi in cui entrambi erano consulenti della stessa società finanziaria, ndr) – aggiunge la fonte – la sintonia è totale». Sull’Iran e non solo. In questa chiave andrebbe letta la decisione del Pentagono di ridurre l’entità di alcune manovre congiunte con le forze israeliane: a sostenerlo è il settimanale statunitense Time, secondo il quale la decisione deriverebbe dalle divergenze fra Washington e Tel Aviv su come contrastare le ambizioni nucleari iraniane. Citando fonti bene informate in entrambi i Paesi, il settimanale rivela come il numero di effettivi che si recheranno in Israele sia stato tagliato di due terzi (da 5mila a 1.500) mentre le batterie di missili Patriot arriveranno regolarmente ma senza il relativo personale. Quanto ai due incrociatori dotati di sistemi di difesa missilistica Aegis, potrebbe arrivarne uno solo o addirittura nessuno. Secondo fonti militari israeliane la decisione giustificata ufficialmente dai tagli di bilancio equivale ad affermare: «Non ci fidiamo di voi». D’altro canto, l’intelligence Usa crede che Israele abbia già deciso di attaccare l’Iran, «a meno di cambiamenti importanti del programma nucleare iraniano nelle prossime settimane».
A riportarlo è l’emittente israeliana Channel 2, citando un «alto funzionario americano». «Tutti i funzionari dell’intelligence Usa sono certi che la leadership israeliana abbia già deciso di attaccare l’Iran». Una decisione che verrebbe sostenuta dal candidato repubblicano alla Casa Bianca «Se Israele dovesse agire per conto proprio per impedire che l’Iran venga a dotarsi di quelle capacità, il governatore (Romney) rispetterebbe quella decisione» ha del resto confermato il suo alto consigliere per la politica estera, Dan Senor in occasione della visita di Romney in Israele lo scorso 29 luglio. In quella circostanza, Netanyahu si era anche compiaciuto per le dichiarazioni rilasciate da Romney prima del suo arrivo in Israele. Fra queste, il fatto che «il pericolo maggiore» è che il regime degli ayatollah iraniani si doti di armi nucleari: uno sviluppo «inaccettabile», che va dunque impedito. «Mitt, io stesso non avrei potuto dirlo meglio» aveva aggiunto Netanyahu. Della delegazione al seguito di Romney c’era Sidney Abelson, un magnate dell’ industria dei casinò che si è impegnato a spendere 100 milioni di dollari per sconfiggere il presidente Obama. Adelson è ossessionato da una questione in particolare: l’appoggio incondizionato allo Stato d’Israele e una opposizione oltranzista verso qualsiasi trattativa con i palestinesi. Il patto Netanyahu-Romney è ormai realtà. Resta l’ostacolo-Obama.

La Stampa 3.9.12
Se Putin trasforma in una farsa la tragica Russia
L’Urss temeva i dissidenti, il nuovo zar fa processare una rock band: a Mosca la democrazia resta incompiuta
di Enzo Bettiza


Con la ripubblicazione in agosto d’una serie di prime pagine rievocative della «Stampa», riferentisi al 1962, mi sono ritrovato di colpo immerso negli eventi remoti, precursori ed eccezionali di una Russia che non c’è più. Ho potuto rileggere articoli dimenticati che, cinquant’anni orsono, inviavo da Mosca a Torino con un telefono gracchiante e controllato. Mi ha scosso la memoria, in particolare, una mia cronaca del 19 agosto ’62. Era dedicata, dopo i clamorosi debutti di Gagarin e Titov, ad un nuovo trionfo nel cosmo conseguito dal colonnello d’aeronautica Popovic e dal pilota mezzo ciu- Evascio Nikolajev. Il titolo a due righe, in apertura di pagina, sintetizzava benissimo lo spirito duplice, entusiasta e provocatorio, del kruscevismo ruggente di quell’epoca di rotture e novità imprevedibili. «Fastosa parata a Mosca in onore degli astronauti. Duro discorso di Kruscev sul problema di Berlino».
C’era qui, avrebbe detto Churchill, tutta la complessità dell’enigma racchiuso in un enigma. Quella Russia a doppia anima scrutava da un lato il cielo, esaltava i suoi grandi primati, inneggiava al libero volo nello spazio, applaudendo il progresso tecnologico dei laboratori nascosti nel più fitto mistero; dall’altro lato invece la medesima Russia fissava brutalmente la terra, col muro conficcato nel cuore della Germania, mentre gli stati maggiori già preparavano la «crisi dei missili» che di lì a poco sarebbe scoppiata a Cuba.
Se dovessimo dare oggi, dopo mezzo secolo, un giudizio retrospettivo sul tempestoso regno di Kruscev, potremmo dire con estrema essenzialità questo. Egli, se ci collochiamo nella sua ottica, aveva saputo usare meglio il bastone che la carota nei confronti dell’Occidente; messo alle strette da Kennedy, aveva accettato la resa e il ritiro da Cuba, mantenendo però intatto il potere di Mosca sulla fedele Germania dell’Est protetta dal muro.
In politica interna, invece, ha saputo usare sia pure a singhiozzo, ora volente ora nolente, la carota meglio del bastone e dell’ukaz. Mentre dal mausoleo della rivoluzione veniva cacciata la mummia di Stalin, ritornavano dai gulag fantasmi illustri e ingombranti. Sarà Kruscev in persona a elevare a fama mondiale uno zek profetico, il barbuto Aleksandr Solzenicyn, al quale concederà di dare alle stampe una mina vagante intitolata «Una giornata di Ivan Denisovic»: la primissima ammissione ufficiale, pubblicata sulla prestigiosa rivista «Novi Mir», della scandalosa esistenza dei campi di concentramento in Unione Sovietica. Quel passo, di cui Kruscev non aveva previsto le vaste conseguenze internazionali, Nobel incluso, non gli verrà mai perdonato dai conservatori neostalinisti. La cacciata del turbolento segretario dai vertici del Pcus si compirà due anni dopo, nell’ottobre 1964.
L’ambiguità di Kruscev Eppure, bene o male, le molecole distruttive di una latente svolta reversibile erano penetrate per la prima volta, con le imprudenti iniziative krusceviane, nel protoplasma sempre più vulnerabile della superpotenza sottosviluppata. Nella multiforme personalità dell’inventivo ucraino, l’istinto di conservazione e il fascino della rigenerazione erano coesistite in maniera più o meno inconsapevole. Egli aveva contenuto in sé, disprezzandole, le stesse identiche radici staliniane dei vecchi compagni e avversari nel politburo: il sapiente idiota Suslov che gli propinava anacronistici sermoni anticapitalisti; poi lo stagnante Breznev che lo sostituirà con un mafioso colpo di mano; quindi l’agonizzante Andropov in sedia a rotelle che perseguiterà con metodi maniacali i dissidenti; infine il cadavere vivente Cernenko che, con le sue povere e informi iniziative, non combinerà nulla e apparirà come l’ultima effimera fiammata che la candela dà prima di spegnersi.
Però la cosa più sorprendente era che proprio Kruscev, generazionalmente vicino a Cernenko, poi stalinista pentito e riformatore mancato, pareva tuttavia covare già sotto il suo cappotto di Gogol gli uomini della rigenerazione e della metamorfosi: i Gorbaciov, gli Eltsin, i Putin. Tutto quello che lui avrebbe voluto e forse non ha potuto fare, lo farà per amore o per forza Gorbaciov, spiccando un balzo al di là del catastrofico jato della stagnazione brezneviana. Ridarà fiato con la glasnost alla libertà d’opinione che, ai tempi di Kruscev, era stato un vagito promettente e quasi subito soffocato dai cani da guardia del regime. Inoltre, realista rassegnato ma convinto, capirà immediatamente che la Russia, per salvare la metà dell’impero interno, doveva liberarsi della zavorra greve e improduttiva della sua metà esterna: Polonia, Germania orientale, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria andavano abbandonate al più presto al loro destino.
La rassegnazione di Gorbaciov Sostenuto e incoraggiato dal pregiudizio positivo che gli manifestavano media e cancellerie occidentali, darà un contenuto concreto alla «coesistenza pacifica» purgandola degli equivoci krusceviani; punterà le carte sul disarmo atomico, sulla fine della guerra fredda, sulla cooperazione con la Nato, sull’abbattimento del muro di Berlino e addirittura, come se non bastasse, sulla riunificazione delle due Germanie. Nell’ardita azione di salvataggio del salvabile, che suscitava applausi a Occidente e resistenze a Oriente, c’era però qualcosa di negativamente originario, di insito nella sua formazione comunista; fu questo il freno ideologico che gli fece perdere la partita finale quando stava per vincerla. Non era stato capace di disgiungere l’idea del comunismo, in cui era nato, dall’aspirazione alla libertà e alla democrazia alle quali anelava. Avrebbe desiderato conseguire, non si sa come, l’impossibile quadratura del cerchio: conservare, assieme alla glasnost libertaria e alla perestrojka, un comunismo buono con al seguito un partito nuovo e un Soviet Supremo parlamentarizzato.
Sarà Eltsin a tagliare il nodo gordiano. Forse solo un siberiano di tal fatta, già abnorme nel fisico, coraggioso, sprezzante del pericolo, amante delle donne e della vodka, era l’uomo designato dalla sorte a ribaltare il tavolo e interrompere lo stallo gorbacioviano. Spetterà a lui, ex segretario del partito a Mosca, annunciare ai russi dalla torretta di un carro armato che «il comunismo è finito». Privo di freni psico-ideologici, deciso a farla finita col passato, deciso ad ammainare la bandiera rossa, più che mai deciso a cancellare l’Unione Sovietica per restituire alla Russia il suo nome antico, Eltsin attraverserà come una dirompente meteora dieci anni di cronache sempre più sconvolgenti. Lo circonderà, al crepuscolo, una corte di oligarchi corrotti, di portaborse servili, di famigli avidi, fino al giorno in cui uno dei più inauditi crolli economici del secolo metterà al suolo la nuova Russia pseudocapitalista.
L’ascesa dell’ex agente del Kgb L’era proteiforme di Vladimir Putin inizia, come la quiete dopo la tempesta, al principio del Duemila. Lo sconosciuto, scoperto da Eltsin, appare più simile a un curatore di fallimenti col registro in mano, che a un uomo di governo all’altezza del compito. Statura media, pallore nordico, occhi azzurri gelidi, pochi capelli biondi sul cranio rotondo. La sua insaziabile ambizione è inversamente proporzionale alle maniere asciutte con cui tende a nasconderla. Incredibilmente, dopo essere stato due volte capo del governo, diventa per la terza volta Presidente della Repubblica.
I russi si accorgeranno in seguito che l’uomo pallido è un maestro di arti marziali, un tiratore scelto, un cacciatore di selvaggina pesante, uno che nella lotta per il potere, come nelle lotte in palestra, non perdona, colpisce a fondo e non lascia per così dire traccia del colpo. Lo vedranno sbarazzarsi degli oligarchi eltsiniani del petrolio e dei media per sostituirli con oligarchi, editori, ministri, deputati, esponenti di partito e agenti segreti a lui assolutamente fedeli. Non stupiranno più di tanto quando si convertirà all’ortodossia e andrà nei giorni sacri ad accendere puntualmente un cero in chiesa. Diventerà perfino, all’insegna della Grande Russia, estimatore e ospite di riguardo di Solzenicyn negli ultimi giorni di vita del celebre descrittore dei gulag e delle malefatte di Stalin.
Putin in realtà si è servito della religione per impressionare la massa dei credenti, e della democrazia per snaturarla in una «democratura» flessibile di cui lui, dietro le quinte, è il vero organizzatore e fruitore. Non trascura niente e nessuno per mantenere e rafforzare ciò che ha conquistato. Si è dato per braccio destro un affabile dipendente come Medvedev, il quale, designato dal protettore, ha già svolto un mandato di capo di Stato posticcio, ritornando adesso al suo posto minore di capo del governo. Possiede inoltre nella Duma un suo personale partito maggioritario, ma giostra tuttavia, a carte semiscoperte, con gli altri partiti cercando di conquistarne l’appoggio o di metterli nell’angolo. L’assassinio di giornalisti critici come la Politkovskaja, poi l’impiego, da parte di ignoti, del polonio radioattivo contro esuli antiputiniani residenti a Londra, aveva suscitato in Inghilterra e altrove forti clamori e insidiose allusioni sui mandanti; in Russia, al confronto, quasi niente. Il tasso di popolarità di Putin, seppure oggi in relativo ribasso, resta sicuramente alto dall’epoca ormai chiusa delle guerre cecene e della spietata repressione dei terroristi islamici a Mosca e in altre località russe.
Cosacco e stalinista Certo, il numero degli scontenti, dei polemisti, dei giornalisti loquaci, dei divi insolenti del web, è in aumento. Questi dissidenti, se vogliamo definirli tali, scorgono nel terzo Putin un miscuglio di componenti contrastanti: uno zar mezzo bianco e mezzo rosso, autentico conservatore e falso riformatore, spadaccino cosacco una volta, fuciliere bolscevico un’altra, krusceviano un giorno, gorbacioviano il giorno dopo, estimatore dello Stalin della «guerra patriottica» e devoto dei vescovi ortodossi che nel ’41 benedicevano le baionette dei soldati al fronte.
Dicono, ripetendo lo slogan anarchico, che «sarà il ridicolo a seppellirlo». Ed è proprio sul ridicolo, infatti, che è scoppiato lo scandalo delle Pussy Riot che sta attizzando la Russia pro e contro e facendo il giro del mondo. Non varrebbe la pena soffermarsi su questo fatto increscioso, se non denunciasse il decadimento e il pervertimento di una storia tragica in una pochade da bassofondo parigino. I contestatori e dissidenti nelle Russie di Lenin, di Stalin, di Kruscev, di Breznev, non calpestavano cattedrali e non sbraitavano come cantori da cabaret. Si chiamavano Martov, Plechanov, Trockij, Bucharin, Solzenicyn, Sacharov, Šalamov, Sinjavskij. Non venivano condannati a due anni di carcere, ma brutalmente esiliati, uccisi o spediti nel gulag dove era più facile morire che vivere.
Con questo non voglio deridere le tre giovani postmoderne che hanno fiutato nella Russia attuale, la Russia di Putin, un Paese più idoneo alla commedia che alla tragedia. Vorrei soltanto avvertire gli ingenui che quando la Storia maldestramente si ripete, come diceva Marx, essa si trasforma in farsa. Spero che la pena inflitta alle tre Pussy Riot venga prima o poi ridotta; il rischio minore che corrono è di essere considerate tigrotte di cartapesta. Ma il rischio maggiore che invece corre Putin, con le sue giravolte, è di diventare lui uno zar da farsa.

Repubblica 3.9.12
Il nuovo saggio di Michela Marzano affronta il tema del rapporto con gli altri e di come sia necessario “credere” nella reciprocità
Sulla fiducia
Il senso della comunità al tempo della crisi
di Roberto Esposito


Chi si aspettasse di trovare nel libro di Michela Marzano Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, appena tradotto da Mondadori, un esercizio di tradizionale filosofia morale, rimarrebbe positivamente sorpreso. Non solo esso prende una salutare distanza da luoghi comuni sempre più diffusi – come quello della equivalenza tra verità e assoluta trasparenza –, ma annoda con esiti di particolare rilievo il linguaggio filosofico a quelli sociologico, antropologico, economico. Del resto quale concetto, più di quello di fiducia, si pone nel punto di incrocio e di tensione tra il lessico teologico della fede, quello sociale della credenza e quello economico del credito? Per inquadrarlo in tutta la sua valenza l’autrice attiva uno sguardo genealogico che dall’età classica – ancora basata sull’onore ed il rispetto della promessa – arriva alla modernità, in cui la categoria di fiducia subisce una serie di contraccolpi che finiscono per rovesciare la société de confiance nella société de défiance – come si intitolano rispettivamente i saggi di A. Peyrefitte (Odile Jacob, 2005) e di Y Algan e P. Cahuc (Presse de l’Ecole normale supérieure, 2007). Il punto di innesco di questo processo di secolarizzazione è costituito dalla critica cui i moralisti francesi, come Pascal, La Rochefoucauld e La Bruyère, sottopongono le antiche virtù eroiche dell’onore e della lealtà. Mandeville e Adam Smith assumono la medesima concezione disincantata, pur capovolgendone le conclusioni: sono proprio i vizi privati, e cioè gli interessi particolari, a costituire, nel loro insieme, la sorgente della ricchezza sociale. Ma questo passaggio dal negativo al positivo, presto traslato nell’immagine liberale della ‘mano invisibile’, si basa sulla sovrapposizione indebita tra la nozione, etica, di fiducia e quella, economica, di interesse: la “società di fiducia” di cui parla Smith poggia in realtà sulla generalizzazione della sfiducia reciproca.
È qui che l’autrice innesta il vettore forse più originale della propria ricerca, profilando con rapidi tratti il transito, genialmente intuito dall’economista scozzese John Law, dal sistema monetario incentrato sull’oro a quello fondato sull’emissione dei biglietti bancari e delle carte di credito. Il quale non può poggiare che sulla fiducia reciproca degli attori economici. Ma proprio qui inizia ad aprirsi quella frattura antropologica che oggi minaccia di diventare una vera e propria voragine: come conservare la fiducia nella solvibilità degli individui, delle banche o degli stessi Stati che le garantiscono, quando gli uomini si comportano in maniera palesemente egoistica? È come se tutto il castello dell’economia moderna poggiasse su un fondamento di carta destinato a strapparsi al primo urto.
La storia delle molteplici crisi finanziarie, dalla bancarotta del 1720 in Francia a quella dei nostri giorni, al di là delle ovvie differenze di tempo e di contesto, rimanda a questo vuoto originario, a partire dal quale la sfiducia tende sempre più rapidamente a sfondare le fragili pareti della fiducia: come scriveva Duclos nelle sue Memorie segrete, “la fiducia si ispira per gradi, ma basta un istante per distruggerla, e, allora è in qualche modo impossibile ristabilirla”. Senza una credibilità diffusa, l’intero sistema economico minaccia di crollare, ma per crearla occorre che da qualche parte si dia prova di meritarla. È il cortocircuito in cui la speculazione finanziaria ha trascinato prima l’economia americana e poi il resto del mondo: il mancato pagamento dei subprimes ha portato alla caduta del prezzo degli alloggi ipotecati senza copertura. Ciò, a sua volta, ha determinato una generale crisi del credito e una conseguente perdita di fiducia nei confronti dell’intero sistema finanziario.
Tutto ciò è ben noto agli economisti. Che però tendono a restare chiusi all’interno del loro orizzonte, impedendosi così di vedere quella faglia che lo sottende, sulla quale concentra invece l’attenzione la Marzano. Quando il senso comune diventa quello efficacemente stilizzato nel film di Ridley Scott Nessuna verità (2008) “Non fidarti di nessuno. Inganna tutti”, la soglia di guardia è abbondantemente superata. La fiducia, ridotta a credito economico, o a contratto giuridico, non è che l’ombra deformata della diffidenza. A quel punto, rotti gli argini etici che tengono insieme gli uomini, nulla può più arrestare la valanga. Quando, già nel 1937, Franklin D. Roosevelt affermava che l’egoismo è cattivo non solo moralmente, ma anche economicamente, coglieva l’anello decisivo della catena di crisi economiche che avrebbero squassato il sistema capitalistico. Ad uscirne non bastano i - pur necessari - provvedimenti economici. E neanche solamente quelli politici. Serve un sommovimento generale delle coscienze che liberi l’idea, e la pratica, della fiducia dalla sua sudditanza all’ideologia dell’interesse. Alla sua base non vi può essere solo la fiducia in se stessi predicata dai nuovi addestratori di manager e trader, quanto il coraggio di fare la prima mossa – credere negli altri prima ancora che questi credano in te. Con tutto il rischio che tale opzione comporta. Certo, guardarsi dalla sempre possibile cattiva fede altrui è opportuno, ma senza per questo presumere di dovere avere tutto sotto controllo. Un discorso – quello della Marzano – traducibile nelle categorie di comunità e di immunità: l’eccesso di protezione immunitaria contro il possibile pericolo conduce non solo alla rottura del legame sociale, ma anche al rischio mortale di una malattia autoimmune. © RIPRODUZIONE RISERVATA

La Stampa 3.9.12
Kandinsky, astratto e spirituale
Aosta Ottanta opere in vetrina al Museo Archeologico


ELENA PONTIGGIA AOSTA KANDINSKY E L’ARTE ASTRATTA TRA ITALIA E FRANCIA AOSTA, MUSEO ARCHEOLOGICO FINO AL 21 OTTOBRE

Cento anni fa, a Monaco di Baviera, un pittore russo riusciva finalmente a pubblicare uno strano libretto, scritto in un tedesco incollato e goffo, che tutti gli editori gli avevano rifiutato. Il pittore era Wassily Kandinsky e il libro, Lo spirituale nell’arte, diventerà il manifesto non solo dell’astrattismo, ma di un’intera generazione di artisti.
L’arte, diceva Kandinsky, deve esprimere la spiritualità e quindi deve eliminare figure e cose materiali. Non c’è bisogno di dipingere, poniamo, il cielo. Il blu da solo può dare l’idea dell’infinito o del sovrannaturale. E qui l’artista stilava una sorta di vocabolario dei colori: il giallo esprime la malattia, il bianco il silenzio, il verde l’immobilità e così via. Era un vocabolario assurdo e inservibile, di cui infatti non si servirà neanche lui, ma adombrava il principio della libera invenzione espressiva che è alla base di tutta l’arte moderna.
L’influenza della pittura e delle teorie di Kandinsky è stata incalcolabile. Lo documenta bene la mostra di Aosta, a cura di Alberto Fiz, che con oltre ottanta opere muove dal maestro russo per esplorare l’arte italiana e francese a lui ispirata. Dal surrealismo astratto di Arp e Mirò al dadaismo di Picabia, dall’astrattismo Anni Trenta di Reggiani e Veronesi a quello linearistico di Dorazio, dall’ironico, ridente, ma a suo modo anche lirico, design di Mendini a certi progetti di Sottsass, tanti hanno guardato a Kandinsky. E se alcune opere, come Trenta di Soldati, sono dei veri plagi, varie riescono, pur nell’imitazione (di Kandinsky, ma anche di altri maestri), a diventare originali.
Diversamente da quanto si crede, Lo spirituale nell’arte non considera l’astrattismo l’unica via della pittura. «Dobbiamo rinunciare a dipingere la realtà?» si chiede Kandinsky. La risposta è no: in arte non c’è nessun dovere, nessun dogma. Eppure, nonostante questo liberalismo, il suo fascino ha esercitato una vera dittatura. È un fascino legato al colore e alla leggerezza delle forme, come si vede nei suoi quadri in mostra, che vanno dal periodo del Bauhaus, dove insegna negli anni Venti, al periodo di Parigi, dove vive dal 1934 al 1944, l’anno della morte. Kandinsky diceva di aver capito il colore guardando il Pagliaio di Monet. «Per il catalogo era un pagliaio, ma io vedevo solo la forza dirompente del giallo», scrive. Già da ragazzo, comunque, entrando in un’izba di contadini, era rimasto abbagliato da quegli oggetti umili ma splendenti di rosso e di blu. Poi un viaggio a Venezia gli aveva rivelato la magia del nero delle gondole, di notte, sull’acqua nera.
Anche il suo disegno, però, ha una sottile magia, come si vede nella Camera da musica, 1931, ricostruita in mostra. Kandinsky dipinge in questi anni un mondo di forme «leggere e vaganti», per dirla con un verso di Saba. La loro fisionomia può far pensare a un universo di elementi biomorfici. Ma soprattutto dà l’idea che la cosiddetta realtà, alla fine, sia solo un’apparenza.