martedì 4 settembre 2012

l’Unità 4.9.12
La storia per immagini
Il poeta eretico
Presentato a Venezia il film sulla vita di Pietro Ingrao
Fuori concorso il documentario «Non mi avete convinto» di Filippo Vendemmiati dedicato alla vicenda privata e politica di una delle figure simbolo della sinistra italiana
di Gabriella Gallozzi


«OGGI LA POLITICA SI OCCUPA MOLTO DEL NOSTRO CONSUMARE, MA NON DEL NOSTRO GIRONZOLARE, DEL NOSTRO FANTASTICARE... Per questo mi piace la poesia, la sua capacità di alludere. Di non chiudere mai le parole in un senso solo. In questo modo la poesia sa dire cose che la politica non può». Pietro Ingrao sopra Venezia.
Coi suoi 97 anni da ragazzo che ancora è ascoltato dai ragazzi. Quelli del Social forum, delle battaglie per i beni comuni, della «pace che si prepara con la pace». Pietro Ingrao che non si riconosce come «un utopista visionario affezionato all'idea comunista» ma come «un eretico» che ha sempre «praticato il dubbio» e che per questo «se l'è passata male» in un Pci dove i dubbi non erano ammessi. Lui che le armi della poesia le ha sapute usare per «la bella politica», nonostante le sconfitte, ieri sera ha emozionato e commosso la Mostra. Sì, perché il suo dire e il suo stare, ancora oggi fari per il nostro presente, sono arrivati al Lido, alle Giornate degli autori, con Non mi avete convinto, appassionato ritratto di Pietro Ingrao, firmato da Filippo Vedemmiati, lo stesso di È stato morto un ragazzo, sull'omicidio Aldrovandi.
LE RIPRESE NELLA CASA DI LENOLA
Ripreso nella sua casa di Lenola, dove l'11 settembre sarà presentato il film insieme ad Ettore Scola, Ingrao si racconta idealmente ad un ragazzo degli anni Ottanta. E la memoria personale si intreccia alla storia, quella del secolo breve che ha percorso tutto, «svalcandolo» anche. Quel «900 – dice – in cui le guerre si sprecavano».
Ecco i ricordi d'infanzia, tanti. Legati a quel suo piccolo paese della Ciociaria, dove, «tra cieli ineffabili che parlano tanto al mio cuore, ho appreso a leggere ed amare». Dove appena bambino, una notte, disse a suo padre di volere la luna come ricompensa per essere andato a far pipì. Da dove appena ragazzo di fronte alla guerra di Spagna, ha fatto «la sua scelta» interrogandosi su «cosa c'è da cambiare». Ma prima di tutto è il cinema a rapire l'interesse di Pietro che sceglie il Centro sperimentale per studiare regia. Ed è un piacere ascoltarlo parlare dei suo autori preferiti. Chaplin su tutti. Quei «tre minuti di Luci della città in cui la fioraia cieca lo riconosce sono i più belli della storia del cinema», dice. Come anche, il momento in cui in Ladri di biciclette dopo il furto «il ragazzino stringe la mano del padre. Ecco quell'immagine lì andrebbe messa nel museo delle cose belle, se ci fosse». Il cinema, prosegue Ingrao, «è uno strumento di lingua che è entrato talmente dentro alle relazioni umane che ci prende in modo obbligato». Ma anche Ingrao è entrato nel cinema. È emozionante, infatti, rivedere quel momento de Il dramma della gelosia di Scola, in cui l' «operaio» Mastroianni passando davanti ad un comizio del Pci esclama: «Bravo Pietro!», per poi domandare al compagno: «Una sofferenza d'amore può in qualche modo essere collegata alla lotta di classe?».
Corrono le immagini di repertorio. La guerra, la Resistenza. Ed è proprio in quei giorni l'incontro tra Pietro e Laura, compagna di una vita. Insieme si ritrovarono a Massenzio per un'azione. «Io da ragazzaccio – ricorda – ho tentato di darle un bacio e mi beccai uno schiaffone. Poi, però,ci innamorammo». Corrono i ricordi. Il primo comizio a Milano, dopo la guerra. «Sapevo fare i comizi – racconta – dosare le parole e chiedere il silenzio. Un comizio è un grande fatto emotivo». Poi la direzione de l'Unità di Roma, coi filmati di «propaganda» che tuonano: «Ecco i cronisti del giornale comunista mentre raccolgono la voce del popolo nelle campagne e nelle città». Erano gli anni, appunto, in cui i dubbi non erano ammessi. Di fronte ai fatti di Ungheria, racconta ancora Ingrao, «dissi a Togliatti che non capivo. E lui mi rispose: oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più. A dire cioè che era d'accordo con l'intervento sovietico». Via così fino all'11esimo congresso del Pci, nel '66 «in cui ci fu la proposta di escludermi dalla direzione». Intanto la storia d'Italia continua ad intrecciarsi con la vita di Ingrao politico: le stragi di piazza della Loggia, piazza Fontana, il rapimento di Moro. Il suo arrivo alla presidenza della Camera, poi nel 93 l'uscita dal Pds con le celebri «lacrime». E quella voglia comunque di «cambiare il mondo e vincere gli sfruttatori» che ancora oggi lo porta a dire: «C'è bisogno con forza di unire la sinistra». Ma allo stesso tempo di guardare la luna attraverso la finestra della sua casa.

Repubblica 4.9.12
Giornate degli Autori
La politica nobile spiegata da Pietro Ingrao


VENEZIA — «La vocazione politica ha segnato la mia vita, bene o male, buono o cattivo, così ero fatto. La politica vinceva su tutto. La politica come strumento per cambiare un mondo che non mi piaceva». È Pietro Ingrao che parla, si racconta nel documentario di Filippo Vendemmiati Non mi avete convinto – Pietro Ingrao, un eretico, coprodotto e distribuito da Cinecittà Luce, qui alle Giornate degli Autori. Con la sua voce burbera, lo sguardo tenero e severo, racconta sogni, indignazioni, delusioni dei suoi 97 anni vissuti senza risparmio, racconta la passione per il cinema e la poesia: «Mi intendo più di cinema che di politica, volevo fare il regista, sono stato spinto a calci nel sedere verso la politica ». C’è Ingrao ragazzo nei ricordi della sorella Giulia, 90 anni lucidi, con immagini di archivio e discorsi ufficiali che arricchiscono il ritratto: bello e commovente, un'idea nobile della politica, che oggi appare così antica, così lontana.

l’Unità 4.9.12
Pd a Monti: ora misure concrete
Bersani teme la tenaglia debito-recessione: ricadute anche sulla natura del prossimo governo se finiamo nel mirino della troika
Il messaggio: «Adesso pensiamo al Paese, non alle primarie»
di Simone Collini


«Pensiamo al Paese, adesso, non alle primarie». Vendola si è candidato, Renzi lo farà il 13 ma è già da giorni in tour elettorale e ora propone anche un faccia a faccia televisivo, però Bersani non cambia registro. E non è perché diversi dirigenti del Pd stanno tornando a mostrare perplessità sull’opportunità della sfida ai gazebo. «La situazione è molto preoccupante», ripete nei colloqui di queste ore il leader democratico, che si aspetta dal Consiglio dei ministri di domani «misure concrete a sostegno dell’economia reale». E il messaggio inviato a Palazzo Chigi è che almeno un paio di decisioni debbano essere prese immediatamente, a cominciare da un intervento sulle procedure per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese e dall’alleggerimento delle accise della benzina utilizzando come copertura l’extragettito dato dall’Iva del carburante venduto negli ultimi tre mesi.
Bersani, racconta chi ci ha parlato in queste ore, non è preoccupato della tenaglia Renzi-Vendola, quanto piuttosto da quella debito-austerity. Se Monti non «cambia passo», è il suo ragionamento, se anche questo Consiglio dei ministri, come quello precedente, non sarà sotto il segno della «concretezza», il rischio di un «avvitamento tra rigore e recessione» sarà drammatico, e condizionerà la vita del Paese non solo per i prossimi mesi, ma per i prossimi anni.
GOVERNO POLITICO O TECNICO
La preoccupazione è per il destino nazionale, ma anche per le ricadute sul Pd e sulla natura del prossimo esecutivo. Sul Pd perché il partito, che ha sostenuto Monti, a meno di un’inversione di tendenza della politica economica del governo che sia in grado di far fronte al malessere sociale, rischia di pagare un prezzo alto alle urne. E sulla natura del prossimo esecutivo perché un governo politico, che è ciò a cui punta Bersani, difficilmente vedrebbe la luce se l’Italia dovesse finire nel mirino della troika.
Il rischio di un commissariamento da parte di Bce, Commissione Ue e Fmi è infatti alto, in mancanza di misure che rilancino la crescita, così come sarebbe alta la probabilità che a quel punto assumano maggiore forza le spinte per un governo tecnico sostenuto da una maggioranza di larghe intese. «Il rigore ci vuole e ci vorrà, ma non è l’obiettivo, che è il lavoro», è il ragionamento di Bersani, che vuole a tutti i costi evitare nel 2013 una maggioranza composta da partiti avversari. La convinzione del leader Pd è che «se si restringe la base produttiva è impossibile tenere i conti a posto», che tenere d’occhio lo spread è giusto e che però bisogna anche guardare all’economia reale. Da qui le proposte al governo sulla riduzione delle accise della benzina, i pagamenti alle imprese, un rafforzamento degli sgravi fiscali sulle ristrutturazioni e per una defiscalizzazione degli investimenti produttivi.
CONFRONTO SULLA CARTA D’INTENTI
Ma non c’è solo il pressing sul governo affinché apra una «nuova fase» che permetta nei prossimi sette mesi di far adeguatamente fronte a recessione e malessere sociale. Bersani ha dato mandato a tutti i dipartimenti tematici del Pd (lavoro, giustizia, ambiente, terzo settore ecc.) di organizzare una serie di incontri con le associazioni di categoria impegnate nei medesimi settori. Al centro di questi appuntamenti ci sarà la «carta d’intenti» presentata da Bersani a fine luglio, e l’obiettivo è quello di raccogliere suggerimenti per poi arrivare (è prevista anche una consultazione on-line tra tutti gli iscritti del partito) alla stesura definitiva del documento che sarà alla base della coalizione dei progressisti. La firma della «carta d’intenti» è prevista per la metà di ottobre. Chi sottoscriverà il documento potrà partecipare alle primarie per la scelta del candidato premier. A quel punto, spiegano al Nazareno, partirà la campagna di Bersani per la sfida ai gazebo.

l’Unità 4.9.12
Il sondaggio
Ipr, solo con patto Pd-Udc-Sel c’è la maggioranza


Solo un’intesa tra Pd, Sel e Udc può consentire una maggioranza stabile al prossimo governo. È quanto emerge da una simulazione condotta in base agli ultimi sondaggi da Ipr Marketing per Repubblica.it. Se dovesse essere approvata una nuova legge elettorale che prevede uno sbarramento al 5%, l’elezione di una quota di parlamentari col sistema proporzionale e un premio di maggioranza tra il 10 e il 15%, solo
un patto tra centrosinistra e moderati potrebbe portare a una maggioranza stabile (circa 360 deputati). Da quanto emerge dai colloqui delle ultime ore però, l’accordo che Pd, Pdl e Udc sembravano aver raggiunto ad agosto per una legge di questo tipo sembra sfumato. Domani torna a riunirsi la commissione Affari costituzionali del Senato, e la discussione ripartirà praticamente da zero.

l’Unità 4.9.12
Franco Marini: «Per le primarie servono l’albo e il doppio turno»
«Al vincitore è necessario un consenso molto ampio altrimenti ne perderebbe in autorevolezza»
«Iscritti ed elettori devono dichiararsi, vanno evitate le incursioni degli avversari, altrimenti il Pd sarà un vaso di coccio»...
«Per me è già discutibile la possibilità che nelle primarie di coalizione corrano due candidati Pd»
di Maria Zegarelli


Il Pd rischia di apparire come un «vaso di coccio» se non si dota di regole chiare per le primarie. Il senatore Franco Marini, già presidente del Senato, stavolta è davvero preoccupato. Racconta che non gli piace la piega che sta prendendo il dibattito dentro il suo partito. Non gli piace spiega mentre parte da Roma verso la festa del Pd a Piombino e alla vigilia del suo arrivo a quella nazionale di ReggioEmilia il fatto che si possano anche solo immaginare gazebo aperti a chiunque, senza alcun obbligo di doversi iscrivere ad un albo. Presidente, la partita è iniziata e i giocatori sono in campo. Ma le regole sono ancora in alto mare e lei si dice molto preoccupato. Perché?
«I nostri militanti ed elettori vedono che è partita, almeno nel Pd e per le iniziative mediatiche di Renzi, la competizione per le primarie. Ma io ricordo che nell’ultima direzione del partito molti dirigenti ed io stesso sostenemmo che un passaggio di questo rilievo meritava una seria definizione delle regole per le primarie. E ricordo anche che è l’assemblea nazionale il luogo di definizione di queste regole. Non può essere la volontà degli attori che si presentano a determinarne l’assetto». Nel Pd c’è un gruppo al lavoro, il punto resta a chi aprire i gazebo. Renzi chiede che non ci siano albi e che possa votare chiunque. Lei teme un’opa sul Pd?
«Ho letto con soddisfazione su l’Unità che si sta lavorando ad una bozza che fisserà le regole per rendere queste primarie una cosa seria e al riparo da polemiche distruttive che potrebbero evidenziarsi dopo il voto. Ma le mie perplessità restano».
Lei è tra coloro che avrebbero fatto a meno delle primarie?
«Bersani ha voluto le primarie aperte e ha chiesto delle modifiche dato che lo Statuto prevede che sia il segretario il candidato alla premiership. Io mi allineo per amor di partito e cerco di convincermi che un larghissimo coinvolgimento di militanti ed elettori del Pd diano spessore e forza a questa consultazione. Resta tuttavia vitale definire chi vota e di questo dovrà occuparsene l’assemblea nazionale. Da tempo vado sostenendo che iscritti e elettori debbano dichiararsi».
Insomma, sarebbe pericoloso non dotarsi degli albi?
«Dico che ci vogliono questi elenchi, che non è difficile realizzare. Insomma, sono da sempre convinto che sia una procedura demenziale quella di permettere a chiunque di andare a votare versando un contributo di un euro e mostrando la propria carta d’identità. Siamo di fronte ad un momento straordinario e difficile della politica italiana, è in gioco la candidatura del premier per il centrosinistra e la possibilità di tornare a guidare il Paese in questo momento drammatico. A noi e alle nostre aspirazioni viene richiesto un supplemento di serietà e razionalità. Senza regole chiare ogni incursione, anche degli avversari, è possibile. Se ciò accadesse il popolo italiano ci boccerebbe prima ancora delle elezioni. Per me è già discutibile, anzi non la capisco proprio, la possibilità che nelle primarie di coalizione si presentino due candidati del Pd. È già capitato per i sindaci, in alcuni Comuni la presenza di più candidati del Pd ha fatto vincere un esponente di un altro partito della coalizione di centrosinistra e, anche se questo ha fatto sì che venissero eletti bravi amministratori, non possiamo non riflettere. Il problema è un altro ed è squisitamente politico. Si tratta del rapporto tra noi, i nostri militanti e i nostri elettori, che non ci hanno capito allora e che farebbero una grande fatica a votarci di nuovo al prossimo giro, le elezioni politiche».
Si discute anche dell’ipotesi di un doppio turno se nessun candidato supererà subito la maggioranza assoluta. Potrebbe essere un modo di dargli una forte legittimazione?
«Sono convinto che si debba ragionare seriamente su questa ipotesi: chi vince, visto che sarà il candidato alla guida del Paese, deve uscire dalle primarie con un consenso molto ampio, altrimenti ne perderebbe in autorevolezza e capacità di guida».
Marini, secondo Casini se vince Renzi il Pd si spacca. Secondo lei c’è questo rischio?
«Io voglio parlare alla mia gente e al mio partito: soprattutto in questa fase dobbiamo evitare divisioni. I nostri elettori e l’opinione pubblica ci guardano con grande attenzione e non ci capirebbe nessuno se facessimo l’errore di dividerci. Cerchiamo di discutere di regole chiare e funzionali: se non ne saremo capaci altro che perno dell’alternativa al centrodestra... Appariremmo come un vaso di coccio».

Corriere 4.9.12
Un tavolo sulle regole per «gestire» le primarie
L'obiettivo è contenere il sindaco di Firenze Il timore che il voto diventi un congresso anticipato
di Monica Guerzoni


ROMA — Un tavolo con tutti i candidati per scrivere le regole delle primarie, contenere Matteo Renzi e disinnescare tagliole e trappole. Pier Luigi Bersani lo insedierà entro la fine del mese, sempre che per allora salti fuori l'accordo sulla legge elettorale. E sempre che i dubbi e i sospetti incrociati, che vanno lievitando tra le varie anime del Pd, non lo convincano che è inevitabile fare dietrofront.
D'Alema notoriamente non le ama, Veltroni pensa che in un sistema proporzionale le primarie non avrebbero alcun senso, Rosy Bindi e Franceschini fanno il tifo per un rinvio alle calende greche. Ecco perché da giorni Matteo Renzi non fa che appellarsi al popolo del Pd. «Le primarie sono la regola della casa, le abbiamo inventate noi e dobbiamo continuare a farle — ha risposto a distanza a Rosy Bindi, la quale non sa "se si faranno o no" —. Altrimenti siamo come il centrodestra».
Nei piani di Bersani la sfida si terrà a fine novembre e lui è convinto di vincere. Ma al segretario non sfugge la fondatezza del monito lanciato da Romano Prodi sul Corriere. Se la legge elettorale venisse modificata in direzione proporzionale a che servirebbe chiamare ai gazebo gli elettori per decidere tra lui, Renzi, Vendola e Tabacci? A nulla, visto che il premier sarebbe scelto dopo le elezioni e nelle segrete stanze dei partiti. «I dissensi crescenti tra i massimi dirigenti del Pd portano in evidenza contraddizioni troppo a lungo nascoste», li sprona a venire allo scoperto Arturo Parisi, che a Bersani chiede di prendersi una pausa di riflessione.
Come dice Beppe Fioroni il primo nodo da sciogliere è la legge elettorale: «Se il premio è alla coalizione le primarie si fanno e i cittadini scelgono il presidente del Consiglio». E se il premio è al partito? «Le primarie saltano — risponde il responsabile Welfare —. Mica possiamo fare il congresso un anno prima... È talmente banale che perfino Renzi dovrebbe capirlo». Cresce la paura che le primarie possano trasformarsi in un congresso anticipato e dunque in una conta interna. A sentire i bersaniani è questo il gioco che Renzi sta tentando ed è per questo che al Nazareno, sede del Pd, si studiano le contromosse. Tornare indietro non si può, ma evitare di farsi male da soli forse sì... «Se un iscritto al Pd vuole sfidare Bersani deve ottenere una deroga, che è un atto formale del segretario — avverte Nico Stumpo, responsabile Organizzazione in segreteria —. Renzi la deroga la otterrà, ma poi bisognerà scrivere le regole». Il sindaco di Firenze ha detto che se vince cambierà l'Italia e se perde si batterà per «riequilibrare» il Pd. «La parola riequilibrio mi sembra un po' vecchia», lo stoppa Stumpo. E anche Stefano Fassina chiarisce che «il riequilibrio di cui Renzi parla non è oggetto di discussione». Altrettanto energico suona il monito di Matteo Orfini, altro esponente della segreteria bersaniana: «Spero che l'obiettivo di Renzi non sia fare una corrente dentro il Pd. Ci sono delle regole. Se vuole candidarsi a leader deve chiedere il congresso».
Il non detto, in questa battaglia, sono le trattative per il governo e per le liste elettorali, un aspetto delicatissimo della vicenda che spiega le resistenze dei leader. Giocoforza infatti le primarie spazzano via «caminetti» e posizioni consolidate e ridisegnano l'assetto del partito. E se davvero Renzi dovesse incassare il 30 per cento dei voti che gli assegnano i sondaggi? Non a caso Antonello Giacomelli, braccio destro di Franceschini, scolpisce su Twitter la sua tabella di marcia: «Prima la legge elettorale, poi le eventuali alleanze, infine (se c'è premio di coalizione e servono) primarie».
Al Nazareno tengono alta la guardia, ma a sentire i suoi Bersani non è preoccupato più di tanto. «Se il premio sarà alla coalizione si faranno primarie di coalizione — è il ragionamento di Orfini — se invece il premio sarà al partito i candidati saranno solo del Pd». Vendola sarebbe fuori gioco, a meno che Bersani non decida di correre con una lista unitaria.
Sia come sia «scorrerà il sangue», per usare un'espressione di Prodi che ha fatto storia nel Pd.

il Fatto 4.9.12
Vendola, D’Alema e Bindi contro Matteo Renzi: “E’ un juke-box di banalità”

qui

La Stampa 4.9.12
Pd, bordata di D’Alema su Renzi
“E’ inadatto a governare il Paese”. Il sindaco critico con l’esecutivo Monti: non dà speranze, ora tocca alla politica
di Carlo Bertini


ROMA Che le primarie possano trasformarsi in una resa dei conti tutta interna che parli poco a un paese roso dalla crisi e molto alla nomenklatura interna è un rischio che i big del Pd non vogliono affatto correre. Basta sentire cosa dicono leader e dirigenti delle varie correnti per capire come la paura di celebrare anzitempo il congresso del 2013 dovendo fare i conti con un Renzi intenzionato a redistribuire le carte sia molto diffusa. «Perché comunque vada, anche se la posta in gioco non è la leadership, Matteo provocherà un terremoto nella geografia interna del partito», ammette uno dei suoi massimi dirigenti. D’altronde, basta sentire come Massimo D’Alema liquida Renzi «è inadatto ad unire il partito, a formare una coalizione e a governare il paese» o come Renzi liquida l’eventualità evocata dalla Bindi che le primarie non si tengano («inutile discuterne») per capire quanta tensione inneschino queste consultazioni. Di cui peraltro ancora non si conosce neanche la data di convocazione. Per ora è certo solo che l’unico a volerle nel Pd, oltre a Renzi è Bersani, che vuole arrivare a Palazzo Chigi con una forte legittimazione popolare.
E per questo motivo saranno a doppio turno: sarebbe disdicevole se nel conteggio finale il leader non superasse il 50% dei consensi avendo per giunta dalla sua il sostegno della quasi totalità del gruppo dirigente. Circostanza molto probabile con primarie a turno unico e vari candidati in pista, da Vendola a Renzi. Il quale oggi volerà alla convention di Obama dopo aver sfidato Bersani a un duello in tv ed essersi beccato una rasoiata da Grillo. Citando una battuta del celebre corsivista dell’Unità Fortebraccio su Nicolazzi, Grillo se la prende con il sindaco di Firenze, reo di averlo accusato di essere «in crisi di visibilità». «Hanno bussato alla porta e non c’era nessuno, era Matteo Renzi».
E dunque, mentre la Bindi chiede di vietare che vi siano due candidati del Pd in primarie che devono essere «di coalizione», a lanciare un appello a cambiare registro è il vicesegretario Enrico Letta. «Bisogna ritarare queste primarie su crescita, sviluppo ed Europa, centrarle sulla premiership del governo e su un’idea di paese, evitando di farne un congresso di partito». Ancora più dura la Bindi che reagisce all’accusa di Renzi di aver accettato un premio di consolazione dopo essere stata sconfitta alle primarie. «Il congresso lo faremo e sarebbe più corretto concentrarsi sui problemi dell’Italia. Io considero un grande onore fare il vicepresidente della Camera. Non ho sentito una proposta per la disoccupazione, per la scuola, la sanità, il welfare e così il Pd dà un contributo alla demagogia imperante. Insomma, sulle primarie servono regole chiare». E sara’ forse per rintuzzare queste accuse che in serata, parlando alla festa del Pd di Ferrara, Renzi mostra una venatura critica verso il governo Monti, «che non dà speranze. Lui ha fatto benissimo, ma ora tocca alla politica». Ma dagli ex Ds piovono lo stesso critiche che sono un assaggio dello scontro al vertice che si profila.
«Bisogna scegliere chi si candida a governare il Paese, ma ora si scopre che Renzi pensa si debbano fare le primarie per capire chi guida un partito. Sta imbrogliando le carte», attacca Cesare Damiano. Non la pensa così Paolo Gentiloni. «La discussione che si è aperta sull’agenda Monti, sulla linea politica del Pd e sul futuro dell’Italia è positiva e non nociva».
Ma al di là di queste schermaglie, a far sì che i gazebo si trasformino in un congresso anticipato sarebbe di sicuro uno schema di legge elettorale con premio di maggioranza concesso alla prima lista e non alla coalizione. E per questo lo scontro interno sulle primarie si intreccia al nodo della legge elettorale. «Se il premier lo scelgono i partiti dopo il voto, secondo lo schema di cui si discuteva in agosto, le primarie diventano inutili», fa notare il veltroniano Enrico Morando. «Le primarie sono incompatibili con un ritorno al proporzionale», denuncia Arturo Parisi.

Corriere 4.9.12
Gli scenari di primavera devono fare i conti con la riforma che non c'è
di Massimo Franco


È possibile che in una domenica di metà marzo, forse il 17, si vada a votare dopo avere concordato l'autoscioglimento delle Camere; ma senza le dimissioni del governo. Sarebbe un modo per garantire continuità istituzionale e limitare l'effetto di un vuoto decisionale, in un passaggio che prevede sia le elezioni, sia la scelta del nuovo presidente della Repubblica: soprattutto in un contesto europeo e finanziario difficile. Formalmente, le Camere scadono il 28 aprile, e il capo dello Stato fu eletto dal Parlamento il 15 maggio del 2006. Ma se partiti, presidenti delle Camere, capo del governo fossero d'accordo con Giorgio Napolitano per un breve anticipo, la soluzione sarebbe pronta. Ci sarebbe una nuova coalizione al lavoro mentre si comincia a pensare al capo dello Stato; e l'ingorgo istituzionale che si profila apparirebbe assai meno drammatico. Ma il problema è che mentre da settimane c'è chi analizza gli scenari elettorali del 2013, manca ancora qualsiasi certezza sul nuovo sistema di voto. Fino a quando ha aleggiato la possibilità di andare alle urne in autunno, si è anche fatta strada l'ipotesi che la riforma elettorale potesse essere approvata rapidamente. Anzi, si era detto che la riforma sarebbe stata la scorciatoia per il voto entro novembre. Tramontata questa prospettiva, le spinte al rinvio sono cresciute: al punto che sono aperte le scommesse su un possibile nulla di fatto. A congiurare per un rallentamento della trattativa è certamente la scomparsa di elezioni a breve termine. Ma non solo. Nel Pd, il progetto di una riforma di tipo proporzionale si incrocia con le elezioni primarie chiamate a definire il candidato del centrosinistra a palazzo Chigi. E tutta la filiera maggioritaria del Pd, a cominciare dall'ex premier Romano Prodi, fa sapere di essere contraria ai compromessi abbozzati fra Pd, Pdl e Udc dei quali si è parlato nelle scorse settimane: anche perché, avverte Prodi, la formula del governo sarebbe decisa solo dopo le elezioni. Eppure, la prova data da coalizioni cementatesi solo in vista delle elezioni non è stata granché: a sinistra e, dopo il 2008, a destra. La stabilità è durata poco. E a oggi, le coalizioni di allora sono in frantumi. Non solo. Se il modello è quello del sistema proporzionale, nel Pd c'è chi sostiene che sarebbe inutile anche svolgere le primarie: tanto, probabilmente il candidato a palazzo Chigi finirebbe per essere solo di bandiera, dovendo fare i conti con un Parlamento in cui nessuno ha la maggioranza assoluta. Per questo, fra chi lavora ad una rivincita del maggioritario e chi coltiva la rivincita del proporzionale, alla fine potrebbe vincere l'immobilismo: un mantenimento del vecchio Porcellum, il sistema che tutti a parole disprezzano e vogliono cambiare; ma che offre ai capi dei partiti il potere di «nominare» i parlamentari. Si tratta di una partita aperta, destinata a incrociare la campagna elettorale e anche quella per il Quirinale. Avere una maggioranza solida o un Parlamento frammentato modificheranno la silhouette del possibile presidente della Repubblica: sebbene sia difficile pensare che le dinamiche conflittuali dei prossimi mesi possano favorire una soluzione mancata anche quando la maggioranza trasversale di Mario Monti sembrava vicina all'accordo. E la confusione che regna nel Pdl e intorno alla leadership berlusconiana non aiuta. Forse, il timore che l'immobilismo possa favorire il Movimento 5 stelle del comico populista Beppe Grillo e il «grillismo moderato» del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, farà superare lo stallo. Ma è difficile, nonostante il Quirinale abbia già fatto sapere che se una riforma non ci sarà, dovrà emergere per intero la responsabilità dei partiti.

La Stampa 4.9.12
Riecco lo spettro dello stallo Legge elettorale nel caos i partiti fermi al Porcellum
Il Pdl lotta per le preferenze. E nel Pd anche Prodi s’è fatto sentire
di Amedeo La Mattina


ROMA Tutti giurano di voler cambiare il Porcellum, ma sta crescendo la possibilità che si vada a votare proprio con il più vituperato dei sistemi elettorali. Che comunque lascia in mano alle segreterie politiche la “nomina” dei parlamentari. Un rischio concreto e un terribile scacco d’immagine per i partiti che hanno promesso agli elettori (e al milione di cittadini che hanno firmato un referendum abrogativo) di modificarlo, senza ancora trovare un accordo. Domani pomeriggio ritorna a riunirsi il comitato ristretto della commissione Affari costituzionali del Senato e sarà ancora una volta un nulla di fatto. Migliavacca (Pd) e Verdini (Pdl), gli sherpa delle due maggiori forze politiche, hanno interrotto da tempo i contatti e non hanno in programma alcun incontro. La scena potrebbe cambiare se arriveranno novità dal vertice che Berlusconi ha convocato per domani all’ora di pranzo. Ci sarà il via libera al premio di governabilità alla coalizione vincente su cui sono attestati i Democratici? No, rispondono in coro i berlusconiani, perchè consegnerebbe a Bersani, in caso di vittoria elettorale, una maggioranza parlamentare tale da mettere all’angolo il Cavaliere: rimarrebbe fuori da tutte le partite che si giocheranno nel prossimo Parlamento, compresa quella dell’elezione del nuovo capo dello Stato.
All’ex premier delle preferenze interessa ben poco nonostante nel suo partito sono in molti a volerle e a vedere come una sciagura i collegi. Una fonte del Pdl che ha seguito da vicino la trattativa spiega che la guerra intestina nel Popolo della libertà è tale che un candidato non gradito o imposto dalla segretaria sarebbe impallinato dai suoi stessi compagni di partito. Allora meglio le preferenze che però una parte dello stesso Pdl rifiuta, come tiene a precisare l’ex ministro Matteoli rivolgendosi al suo capogruppo ed ex sodale di An: «Il mio amico Maurizio Gasparri continua a dire che il Pdl è per le preferenze dimenticando che nel partito sono in molti a non volerle, me compreso». «Sì, ho capito, ma è la posizione prevalente», replica Gasparri, il quale prende atto di quanto la situazione si sia complicata per colpa del Pd, con il rischio concreto di tenersi il Porcellum. E parla di «passi indietro perché la sinistra vuole conservare la legge vigente». Anche il capogruppo Pd Franceschini è ormai scettico sulla possibilità di arrivare a un’intesa.
Cosa farà Berlusconi? Tenterà di trovare un accordo con Maroni e Casini, al quale fanno gola le preferenze, per mettere con le spalle al muro Bersani. Ma Casini fa sapere che a questo gioco non ci sta. Il Cavaliere esita e lega la decisione di scendere in campo alle nuove regole elettorali. Se nei prossimi giorni ci sarà una schiarita, l’ex premier potrebbe annunciare la sua ennesima sfida il 14 settembre alla festa dei giovani di Atreju.
La nebbia è fitta, le posizioni rimangono distanti. Nel Pdl si chiedono perchè il Pd ha cambiato idea: a un certo punto l’accordo era chiuso su un sistema proporzionale, il premio per il partito e i collegi. Accordo che risulta a certi ambienti Democratici. A farlo saltare sono stati in tanti. Uno zampino ce l’avrebbe messo pure Romano Prodi. Nel Pd circola una versione velenosa, non sappiamo quanto vera: nell’incontro della scorsa settimana a Bologna, l’ex premier avrebbe minacciato Bersani di sostenere Renzi alle primarie se fosse passato il modello concordato con il Pdl. Viene aggiunto che la questione ha a che fare con la corsa al Quirinale. In soldoni, solo se il centrosinistra avrà una chiara maggioranza nel prossimo Parlamento potrà governare ed eleggere il prossimo inquilino del Colle. E a quel Colle punterebbe Prodi. Ecco, una forte maggioranza il centrosinistra potrebbe averla o con il Porcellum verso cui si rischia di scivolare o con un premio di governabilità da assegnare alla coalizione. Berlusconi piuttosto si farebbe tagliare tutte e due le mani. Ma il nome di Prodi comincia a girare per la presidenza della Repubblica, alla quale lo candidano Vendola e Bindi. Mentre Renzi chiede di fermare il totonomine.

il Fatto 4.9.12
Martini
Da una parte l’amore dei fedeli dall’altra la freddezza del Papa
Anche l’abbraccio di Buddisti, Musulmani e atei
A San Pietro nemmeno un accenno all’Angelus
di Marco Politi


Il segreto di Martini sta nei volti di quanti alla vigilia dei funerali si sono seduti nei banchi del duomo di Milano semplicemente per pensare a lui. Il segreto sta nel silenzio del Papa all’Angelus domenicale, quando avrebbe dovuto scegliere se indicarlo o no come esempio. E non lo ha fatto. Il segreto sta nei buddisti e nei musulmani e nei non-credenti, che hanno partecipato alla messa. E nei rabbini ebrei che sono andati in fila a fare le condoglianze in arcivescovado.
NON È QUESTIONE dell’impatto mediatico di questi giorni. Carlo Maria Martini viveva nel cuore di una massa enorme di cattolici, che aspettavano l’apparire dei suoi libri e delle sue frasi illuminanti, sparse con misura sulle pagine del Corriere della Sera in una rubrica di colloquio con i lettori che – apprendiamo dallo stesso direttore Ferruccio Bortoli – “spiacque a Roma”, cioè al Vaticano.
I fedeli amavano Martini perché dava voce ai loro dubbi, alla loro ansia di trovare risposte a problemi difficili, perché dava forma teologica a scelte di coscienza che sentono giuste e in sintonia col loro essere cristiani. I cattolici del quotidiano, quelli delle parrocchie, del volontariato, dell’associazionismo, amavano – anzi amano – Mar-tini, perché la sua cultura teneva insieme la parola della Bibbia e i nodi esistenziali con cui credenti e diversamente credenti devono misurarsi.
Ha colpito come una folgore, ieri nel duomo, l’applauso scrosciante indirizzato al cardinale Tettamanzi perché ha detto la semplice parola “Noi ti amiamo”. Un contrasto fortissimo con il compatto silenzio riservato al messaggio papale letto dal cardinale Comastri e all’omelia del cardinale Scola.
Perché Ratzinger ha dedicato a Martini parole molto belle, di affettuosa stima, ne ha lodato l’impegno generoso, la “grande apertura d’animo”, la carità, l’incontro e il “dialogo con tutti”. Ma nella scelta precisa delle parole affiorava l’ergersi di una barriera fredda, che non permette la condivisione dell’esperienza di Martini: il distacco profondo da tutto quello che Martini ha detto e scritto negli ultimi anni. A partire dal grido finale “La Chiesa è indietro di 200 anni”, lanciato dal cardinale poche settimane prima della sua morte.
IN TUTTI i discorsi cesellati, ascoltati durante i funerali, il crinale è stato uno solo: Carlo Maria Martini è un indicatore del futuro o no? Soltanto il cardinale Tettamanzi ha espresso ciò che la folla sentiva di pancia, di cuore e di testa: “Ti abbiamo amato per il tuo sguardo capace di vedere lontano…”. E la vox populi ha reagito con l’ovazione.
Il segreto di Martini sta in tutte quelle donne cattoliche, giovani e anziane, impegnate in famiglia o immerse nella vita professionale, che sentivano la sua disponibilità ad aprire le porte dell’istituzioni ecclesiastica ad una partecipazione reale, determinante, del mondo femminile nel cammino della comunità dei fedeli. Quelle donne che ieri in duomo osservavano che di femminile c’era solo il canto delle soliste e due suore e tre laiche nel corteo delle offerte, sommerse da una nuvola di tonache maschili.
Il segreto di Martini sta in quei giovani – vicini o lontani dall’istituzione ecclesiastica – che ne amavano l’assenza di teatralità, lo stile controllato di chi non vuole strappare punti alla hit parade dei consensi, ma propone cose su cui riflettere, rimuginare, da cui lasciarsi interrogare. La sua capacità di attrazione riluce anche nella volgarità dei suoi avversari come il ciellino Antonio Socci, felice di proclamare che le massime del cardinale era “terribilmente banali” e ansioso di accusarlo di avere “accarezzato il Potere, quello della mentalità dominante…” e di essere stato “ospite assiduo dei salotti mediatici”.
LA FOLLA, che si è recata a vedere la sua bara nei giorni scorsi e ieri straripava in piazza Duomo, amava soprattutto il suo coraggio di parlare, di dire apertamente che ci sono problemi che la Chiesa deve affrontare e risolvere. L’Italia cattolica si sta desertificando. Sono morti cattolici non intimiditi come Lazzati, Scoppola, Alberigo. Ora che si è spenta anche la voce autorevole di Martini la scena è popolata da persone che parlano per piccoli accenni, che temono di apparire dissenzienti, che hanno paura di essere bollati come critici fuori dal coro.
Avranno nostalgia di Martini i credenti e i diversamente credenti, interessati a riflettere su quanto di “infinito” c’è nell’uomo, ma avidi di un confronto vero, non fra chi sa tutto e chi deve essere ammaestrato. Sentiranno bisogno delle sue ultime riflessioni quanti – di nascosto, e ce ne sono tanti tra preti e vescovi – condividono il suo giudizio su una Chiesa che “non si scuote”, che sembra avere paura invece di coraggio. Se il cardinale Scola ha evocato un cattolicesimo, in cui esistano “diversità di sensibilità e letture diverse delle urgenze del tempo”, in cui ci sia spazio per la pluriformità nell’unità, manca ancora molto perché questa visione diventi realtà praticata nella Chiesa di Roma.
Martini non lascia successori. Nel collegio cardinalizio non ci sono voci, come la sua, pronte a proporre un concilio o un vertice di capi cristiani insieme al pontefice. Ma poiché la sua visione di riforme si contrappone alla Chiesa in trincea dell’era ratzingeriana, il porporato sarà ben presente in spirito e scritti al futuro conclave.

La Stampa e Corriere 4.9.12
La lettera della nipote
“Tu oggi vorresti che parlassimo della buona morte”
“Così zio Carlo ha chiesto di essere addormentato”
di Giulia Facchini


Ecco la lettera scritta dall’avvocato Giulia Facchini, nipote del cardinale Carlo Maria Martini, che è stata al suo fianco negli ultimi istanti di vita.
Giulia Facchini, nipote del cardinal Martini, durante i funerali nel Duomo di Milano

«Quando non ce l’hai fatta più hai chiesto di essere sedato»
«Ho percepito che qualcosa si staccava dal corpo»

Caro zio, zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti questo è il mio ultimo, intimo saluto. Quando venerdì il tuo feretro è arrivato in Duomo la prima persona, tra i fedeli presenti, che ti è venuta incontro era un giovane in carrozzina, mi è parso affetto da Sla.
D’improvviso sono stata colta da una profondissima commozione, un’onda che saliva dal più profondo e mi diceva: «Lo devi fare per lui» e per tutti quei tantissimi uomini e donne che avevano iniziato a sfilare per darti l’estremo saluto, visibilmente carichi dei loro dolori e protesi verso la speranza.
Lo sento, Tu vorresti che parlassimo dell’agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell’importanza della buona morte.
Morire è certo per noi tutti un passaggio ineludibile, come d’altro canto il nascere e, come la gravidanza dà, ogni giorno, piccoli nuovi segni della formazione di una vita, anche la morte si annuncia spesso da lontano. Anche tu la sentivi avvicinare e ce lo ripetevi, tanto che per questo, a volte, ti prendevamo affettuosamente in giro.
Poi le difficoltà fisiche sono aumentate, deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno e spesso catarro e muchi, che non riuscivi più a espellere per la tua malattia, ti rendevano impegnativa la respirazione. Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede.
Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato.
Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato. Se tu potessi usare oggi parole umane, credo ci diresti di parlare con il malato della sua morte, di condividere i suoi timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia.
Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato.
Seppure fisicamente non cosciente - ma il tuo spirito l’ho percepito ben presente e recettivo - l’agonia non è stata né facile, né breve. Ciò nonostante, è stato un tempo che io ho sentito necessario, per te e per noi che ti stavamo accanto, proprio come è ineludibile il tempo del travaglio per una nuova vita.
È di questo tempo dell’agonia che tanto ci spaventa, che sono certa tu vorresti dire e provo umilmente a dire per te.
La chiave di volta - sia per te che per noi - è stata l’abbandono della pretesa di guarigione o di prosecuzione della vita nonostante tutto. Tu diresti «la resa alla volontà di Dio».
A parte le cure palliative di cui non ho competenza per dire, è l’atmosfera intorno al moribondo che, come avevo già avuto modo di sperimentare, è fondamentale.
Chi era presente ha sentito nel profondo che era necessaria una presenza affettuosa e siamo stati con te, nelle ultime ventiquattro ore, tenendoti a turno la mano, come tu stesso avevi chiesto. Ognuno, mentalmente, credo ti abbia chiesto perdono per eventuali manchevolezze ed a sua volta ti abbia perdonato, sciogliendo così tutte le emozioni negative.
In alcuni momenti, mentre il tuo respiro si faceva, con il passare delle ore, più corto e difficile e la pressione sanguigna scendeva vertiginosamente, ho sperato per te che te ne andassi; ma nella notte, alzando gli occhi sopra il tuo letto, ho incontrato il crocefisso che mi ha ricordato come neppure il Gesù uomo ha avuto lo sconto sulla sua agonia.
Eppure quelle ore trascorse insieme tra silenzie sussurri, la recita di rosari o letture dalla Bibbia che stava ai piedi del tuo letto, sono state per me e per noi tutti un momento di ricchezza e di pace profonda.
Si stava compiendo qualcosa di tanto naturale ed ineludibile quanto solenne e misterioso a cui non solo tu, ma nessuno di coloro che ti erano più vicini, poteva sottrarsi. Il silenzio interiore ed esteriore, i movimenti misurati, l’assenza di rumori ed emozioni gridate - ma soprattutto l’accettazione e l’attesa vigile - sono stati la cifra delle ore trascorse con te.
Quando è arrivato l’ultimo respiro ho percepito, e non è la prima volta che mi accade assistendo un moribondo, che qualcosa si staccava dal corpo, che lì sul letto rimaneva soltanto l’involucro fisico. Lo spirito, la vera essenza, rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi.
Grazie Zio per averci permesso di essere con te nel momento finale. Una richiesta: intercedi perché venga permesso a tutti coloro che lo desiderano di essere vicini ai loro cari nel momento del trapasso e di provare la dolce pienezza dell’accompagnamento.

il Fatto Lettere 4.9.12
Il messaggio di Martini che la Chiesa non capisce
di  Maria Grazia Perna


Il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio afferma che: “Ci sarebbero dei tentativi di stravolgere e strumentalizzare in chiave antiecclesiale il senso delle ultime ore terrene del cardinal Martini”. Accettare che la visione del cardinale su temi eticamente sensibili quali l’inizio e il fine vita, l’eutanasia, l’omosessualità, sia apparsa più illuminata di quella della Chiesa ufficiale è difficile. Altrettanto difficile è riconoscere che il desiderio di Martini di vedere una Chiesa nella povertà e nell’umiltà e che non dipenda dalle potenze di questo mondo, è stato disatteso. La Chiesa appare molto lontana dal modello auspicato dal cardinal Martini quando: i vescovi non denunciano, perché non hanno l’obbligo, i preti pedofili (semmai li spostano in un’altra parrocchia), quando nella sua banca, lo Ior, ricicla denaro sporco, quando non pronuncia parole chiare di condanna delle dichiarazioni razziste di ministri al governo non molto tempo fa. Mi piacerebbe che il direttore di “Avvenire ” avesse colto tentativi di strumentalizzazione quando i principi religiosi sono stati utilizzati in modo demagogico dai politici come nel caso del referendum del 2005 relativo alla legge 40 o nel caso di Eluana Englaro. Ai miei occhi di credente la Chiesa, nelle sue alte gerarchie, appare più preoccupata del potere temporale che di quello spirituale. È solo nell’esempio di uomini come il cardinal Martini o dei preti di parrocchia, nel loro quotidiano servizio ai fedeli, che la Chiesa appare autentica.

Repubblica 4.9.12
La Santa Sede non ha gradito l’eco mondiale delle sue posizioni progressiste
Il tributo dei laici imbarazza il Vaticano “Adesso non usatelo contro la Chiesa”
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — Si è respirato un certo imbarazzo in Vaticano in questi giorni per l’inatteso bagno di folla registrato ai funerali del cardinale Carlo Maria Martini. Ma, soprattutto, per come è stata presentata la sua figura, esaltata tanto per le doti di studioso quanto per il forte impegno sociale. In Curia c’è chi è rimasto sorpreso per la partecipazione popolare al Duomo ambrosiano, con 200 mila persone in fila a rendere omaggio all’esponente più rappresentativo di un percorso di riforma della Chiesa, pur sempre rimasto nel solco della dottrina. Un punto di riferimento amato e rispettato per l’autorevolezza. Testimoni i suoi libri, di grande successo presso il pubblico, quasi al pari di quelli del Papa.
Ma a far alzare nelle Segrete stanze qualche sopracciglio sono state alcune pagine che hanno riproposto il pensiero martiniano. Non si è levato certo un battimani in Curia quando si è letta l’ultima intervista in cui l’arcivescovo emerito di Milano sosteneva che «la Chiesa è indietro di 200 anni». Né ha fatto piacere l’insistito riferimento al fatto che, già durante il Pontificato di Giovanni Paolo II, e particolarmente nell’ultimo Conclave, Martini venisse considerato come il possibile Papa riformista rispetto al candidato conservatore. Velati imbarazzi anche per il caso sorto sul suo rifiuto dell’accanimento terapeutico. E poi per la riproposizione continua di alcuni temi a lui cari, come l’apertura alle coppie di fatto o la comunione per i separati e divorziati.
Domenica molti fedeli si aspettavano che, all’Angelus, Benedetto XVI potesse dire qualche parola sul cardinale scomparso. E se è vero che non è prassi che il Papa si pronunci in tale senso dal balcone, in parecchi speravano che potesse dare un segno comunque tangibile, magari addirittura celebrandone di persona i funerali. La decisione che è invece scaturita è stata di altro tipo. A rappresentare il Pontefice è stato inviato non un alto esponente della Segreteria di Stato, ma il cardinale Angelo Comastri, arciprete di San Pietro e vicario del Papa per la Città del Vaticano. Il quale, presentando il messaggio di Joseph Ratzinger, ha premuto sulle capacità anche diplomatiche di Martini (pronto al «dialogo con tutti») , glissando però sul suo impegno sociale. Anzi ha detto Comastri, cercando di spegnere le polemiche: «Il cardinale Martini è un figlio della Chiesa e non deve e non può essere usato contro la Chiesa».
Ha commentato ieri il portavoce del movimento “Noi Siamo Chiesa”, Vittorio Bellavite, ricordando del cardinale scomparso l’«attenzione alle nuove problematiche poste da nuovi aspetti della convivenza civile, in particolare quelli sollecitati dalla ricerca scientifica, soprattutto in campo bioetico»: «La diversità di questo magistero da quello consueto è, da tempo, apparsa evidente ben al di là del mondo cattolico, a tutta quella parte dell’opinione pubblica che è interessata alle grandi questioni esistenziali. Tramite Martini, il messaggio del Vangelo è stato ascoltato da tanti che si sentono lontani dalle strutture ecclesiastiche e dalle loro politiche».

il Fatto 4.9.12
Norvegia. Pubblicate le email di Breivik


Quasi 7mila email di Anders Breivik sono state pubblicate in Norvegia in un libro del giornalista Kjetil Stormark. Le lettere sono state recuperate da hacker entrati negli account dell’autore delle stragi di Oslo e Utoya in cui morirono 77 persone. “Ora che il processo è concluso è il momento di rendere il materiale pubblico”, ha spiegato l’autore di “Le email private di uno stragista”.

La Stampa 4.9.12
In Cina arriva una nuova occasione per i riformisti
di Wei Gu


La Cina potrebbe trarre beneficio da un cambio di marcia politico. Secondo Reuters, il presidente Hu Jintao potrebbe lasciare la sua posizione nel Partito comunista, attualmente al potere, favorendo l’arrivo di nuovi leader all’inizio dell’anno prossimo. Un vero e proprio cambiamento di direzione rispetto al suo predecessore, Jiang Zemin: l’idea che Jintao possa abbandonare simultaneamente tutte e tre le cariche da egli occupate quella di presidente, di segretario generale del Partito e di capo della Commissione militare centrale - lascerebbe maggior spazio ai nuovi arrivati. Le speranze sono rivolte al possibile nuovo presidente Xi Jinping e al probabile primo ministro Li Keqiang. Se Hu si farà da parte, essi avranno maggiori possibilità di ottenere carta bianca, facendo emergere il loro pensiero e garantendo la possibilità di portare a termine riforme con un minor grado distrazione dovuto alle lotte di fazione. Inoltre, una leadership nuova e forte darebbe speranza ai riformisti. In Cina una fetta crescente dell’opinione pubblica ritiene che gli interessi personali stiano diventando troppo predominanti, impedendo così una crescita equa. La rottura dei monopoli statali nel settore ferroviario e ospedaliero, oltre alla riduzione del dominio delle aziende statali nel campo bancario e finanziario, potrebbe dare nuovo slancio alla crescita. Il popolo cinese chiede anche maggiore libertà politica. Il Partito deve prendersi una fetta minore della torta se vuole che questa cresca.
Eppure, la rottura con il passato potrebbe essere solo apparente. Come per Jiang, la volontà di Hu ha avuto un ruolo determinante nel porre politici più anziani al potere. Secondo la Reuters, egli sarebbe disposto ad abdicare solamente a condizione che il suo protetto, il vice primo ministro Li Keqiang, assuma la posizione di vice presidente della Commissione militare generale. Ad ogni modo, un atto simile instillerebbe fiducia e una rottura netta potrebbe essere un ottimo inizio per il prossimo decennio.

Corriere 4.9.12
Scandalo «Ferrari» Minipurga a Pechino
di Marco Del Corona


In Cina il pre-congresso del Partito comunista è in pieno svolgimento. Tutto incluso: colpi violenti e regolamenti di conti. Vittima recentissima è Ling Jihua. Era capo dell'ufficio generale del Comitato centrale, una posizione nevralgica alla destra del numero uno Hu Jintao, che dovrà passare la mano a Xi Jinping. Ling contava in una promozione, invece dirigerà un ufficio del Fronte Unito. Una rimozione. Qualunque interpretazione non può prescindere da uno dei misteri che hanno costellato la prima metà di quest'anno cruciale, cioè lo schianto di una Ferrari nera a Pechino all'alba di domenica 18 marzo, nei giorni di un altro scandalo, l'affair Bo Xilai. Un ventenne morto e due ragazze ferite. Ling Jihua sarebbe, secondo fonti diverse, il padre del ragazzo, la cui fine venne oscurata sui media dando il via a voci inverificabili. Si disse che l'esponente della gioventù dorata si chiamasse Jia (che peraltro in mandarino suona come la parola «falso») e si dedusse fosse figlio illegittimo di Jia Qinglin, numero 4 del Partito. Stando ad alcune ricostruzioni, Jia Qinglin, furioso per il pettegolezzo, ordinò un'indagine con l'appoggio del suo mentore, l'ex leader Jiang Zemin che vuol contare nel cambio di leadership imminente.
Oltre ai particolari piccanti sul ragazzo seminudo e sulle due donne svestite (una tibetana e una musulmana uigura), imbarazzante era che un rampollo dell'élite guidasse un'auto da milioni di renminbi, fuori dalla portata teoricamente anche di dirigenti del Partito. Che poi il morto fosse Ling Gu, figlio del capo dello staff di Hu Jintao, ha messo pressione all'attuale leader. Hu potrebbe essere incalzato dagli avversari o aver deciso di allontanare un collaboratore che ne menoma l'autorevolezza e le capacità di manovra e mina ulteriormente la credibilità di un Partito roso dalla corruzione. E il congresso si fa attendere...

l’Unità 4.9.12
Due studenti su dieci non arrivano al diploma
La dispersione scolastica italiana è tra le più alte in Europa. Peggio di noi solo Spagna, Portogallo e Malta. Tra classi pollaio e ritardi tutte le criticità
di Mario Castagna


I primi a ricominciare saranno il 5 settembre gli studenti altoatesini ma il grosso degli alunni tornerà tra i banchi tra il 12 ed il 17 settembre. Ancora più difficile sarà ricominciare l’anno alla scuola Morvillo Falcone di Brindisi, dove il 19 maggio scorso un attentato ha provocato la morte di Melissa Bassi ed il ferimento di 9 sue compagne di scuola. «È stata un’estate particolare questa ci spiega Martina Carpani, presidentessa della consulta provinciale degli studenti di Brindisi con gli psicologi al lavoro per cercare di far superare ai ragazzi il trauma della morte a scuola». Per il primo giorno di scuola stanno organizzando un ricordo di Melissa, sicuramente un minuto di silenzio ma anche qualcosa di più.
Quel giorno di maggio tutti si aspettavano un noioso giorno di scuola, come scritto in un instant book che raccoglieva i pensieri degli studenti brindisini dopo l’attentato e pubblicato anche sul sito del Miur. Quella noia purtroppo non c’è stata ed è arrivata la tragedia. «Il 19 maggio tutti avrebbero voluto quella solita noiosa giornata di scuola, ma oggi quella stessa noiosa giornata rischia di essere un problema – continua Martina parlandoci del metodo di studio e di insegnamento – si fa presto a parlare di educazione alla legalità e di scuola presidio di democrazia, ma se non riusciamo neanche ad aprire la scuola il pomeriggio, ai ragazzi offriamo solo la vecchia e noiosa lezione frontale».
Sarà difficile ricominciare anche tra le scuole terremotate dell’Emilia Romagna. Dei 429 edifici scolastici che hanno subito danni a causa del sisma nelle province emiliane, moltissimi sono quelli già messi in sicurezza e che riapriranno regolarmente tra qualche giorno. Sono una sessantina invece gli edifici che necessitano di lavori più lunghi e che riapriranno solamente tra uno o più anni. In molti comuni, come a Finale Emilia, è una corsa contro il tempo per cercare di inaugurare il nuovo anno scolastico, che si svolgerà nei prefabbricati, con il minor ritardo possibile, auspicabilmente entro i primi giorni di ottobre.
Difficile ricominciare se i grandi problemi si aggiungono ai problemi di sempre. Il caro-libri è uno di questi. Secondo l’osservatorio mensile Findomestic, quest’anno le famiglie italiane prevedono di spendere per le spese scolastiche in media 500 euro per figlio fino ad arrivare ai circa 700 euro nel caso di figli iscritti ad un liceo. Peccato che, secondo i tetti di spesa previsti ogni anno dal ministero, la spesa per i libri non dovrebbe superare i 250-300 euro a seconda dell’indirizzo prescelto. Purtroppo non si sta rilevando una soluzione il formato misto, cartaceo/e-book, che anzi ha fatto diventare improvvisamente non acquistabili molti volumi sul mercato dell’usato.
A superare le difficoltà ci prova lo spirito mutualistico degli studenti, con mercatini del libro usato che spuntano come al solito in quasi tutte le città italiane. In tempi di crisi sembra questa l’unica soluzione per avere lo stesso livello di servizi ad un costo inferiore.
Per elementari e medie la novità di quest’anno saranno le maxi-scuole, frutto degli accorpamenti voluti dal governo, con un numero minimo di mille alunni. Le maxi-scuole avranno anche maxi-classi, soprattutto per gli indirizzi di studio più richiesti. Insomma, le famose classi pollaio ormai sono una consuetudine, anche se la legge prevede il numero massimo, già altissimo, di 30 alunni per classe. Ma sono molti gli istituiti che non la rispettano. Anche in questo caso le leggi sono espressioni di un desiderio più che indicazioni da rispettare.
I problemi sembrano quelli di sempre, eppure ogni anno se ne aggiunge qualcuno. La notizia contenuta nel rapporto Istat «Noi Italia» è da far tremare i polsi: il 20% degli studenti italiani non arriva al diploma, lasciando prima la scuola. Uno su cinque, peggio di noi solo Spagna, Portogallo e Malta mentre la media Ue non raggiunge il 15%. Oltre allo spread finanziario c’è uno spread di opportunità tra i giovani italiani e i loro omologhi europei che fatica a riempire allo stesso modo le pagine dei giornali.
Sullo sfondo si affacciano le prime proteste degli studenti che già annunciano le giornate di mobilitazione. Il 12 ottobre sarà la volta dell’Unione degli Studenti, ma sia la Federazione degli Studenti che la Rete degli Studenti Medi hanno in calendario mobilitazioni simili. Quest’anno poi arriva in discussione alla Camera il disegno di legge Aprea sul riordino delle istituzioni di governo delle scuole italiane e gli studenti già promettono battaglia.
Tra sedicenti riforme e puntuali proteste, la scuola ricomincia anche quest’anno. Risolvere i suoi problemi sembra un’eterna fatica di Sisifo, ma ogni anno è sempre più difficile portare in cima il grande masso della formazione di tutti e per tutti. Per quanta simpatia abbia provocato il maestro D’Orta alle prese con i suoi innocenti alunni, «io speriamo che me la cavo» non può continuare ad essere il motto della scuola italiana.

Corriere 4.9.12
Lucrezio, una scoperta che aprì il Rinascimento
Il suo poema fu ritrovato da Bracciolini nel 1417
di Paolo Mieli


Il 28 ottobre del 1958, quando fu eletto Papa, Angelo Roncalli scelse un nome che per il suo mondo da 500 anni era tabù: Giovanni XXIII. Tabù perché la Chiesa aveva già avuto, all'inizio del Quattrocento, un Giovanni XXIII e il suo non era stato un pontificato felice, al punto che si concluse con la deposizione del Papa stesso. In un anno, come vedremo, molto particolare: il 1417.
Quel Giovanni XXIII si chiamava Baldassarre Cossa, era nato nell'isola di Procida e apparteneva a una famiglia di pirati (due suoi fratelli furono catturati e condannati a morte, anche se poi, grazie agli intrighi di Baldassarre, la pena fu commutata in detenzione). Ma non fu per l'attività corsara che quel pontefice mise in imbarazzo i suoi contemporanei. Cossa si era già distinto, nelle vesti di camerlengo del papa napoletano Bonifacio IX, mettendo su un fruttuoso mercato di cariche ecclesiastiche e di indulgenze. Poi, quando morì papa Alessandro V, si mormorò che fosse stato lo stesso Baldassarre ad avvelenarlo. Ciò nonostante il Cossa fu scelto nel 1410 come suo erede e prese, appunto, il nome di Giovanni XXIII.
Erano anni di scisma, Cossa fu considerato un antipapa, e gli si contrapposero lo spagnolo Pedro de Luna (Benedetto XIII) e il veneziano Angelo Correr con il nome di Gregorio XII. Contro di lui — come nei confronti dei suoi predecessori, ma stavolta in maniera più decisa — si mosse il re di Napoli Ladislao d'Angiò-Durazzo, che nel 1413 invase Roma, costringendolo a rifugiarsi a Firenze e a chiedere aiuto all'imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Questi lo aiutò, obbligandolo, però, a convocare, nel 1414, un concilio a Costanza sui monti tra la Svizzera e la Germania. Lì avrebbero affrontato anche le questioni poste dal riformatore ceco Jan Hus, erede per molti versi dell'eretico inglese John Wycliffe e precursore, con cento anni d'anticipo, di Martin Lutero. Sulle rive del Lago di Costanza si radunarono decine di migliaia di persone (principi elettori, duchi, ambasciatori di varie potenze, il margravio di Brandeburgo, oltreché trenta cardinali, trentatré vescovi, tre patriarchi, cento abati, cinquanta prevosti, cinquemila monaci e frati, diciottomila sacerdoti). Come prima cosa, il Papa e l'imperatore tesero la mano a Hus, invitandolo — con la garanzia dell'immunità — a Costanza per esporre le ragioni della sua protesta contro la vendita delle indulgenze. Era una trappola. Hus si fidò, si presentò, ma fu tratto in arresto senza neanche poter prendere la parola. E però Giovanni XXIII, che credeva di aver stretto con Sigismondo un patto indistruttibile in ragione di quel clamoroso voltafaccia, sbagliò ed ebbe, di lì a breve, una sorte in parte analoga a quella di Hus.
Che le cose per lui si stessero mettendo male, Baldassarre Cossa lo capì l'11 marzo del 1415 quando, dopo che l'arcivescovo di Magonza aveva dichiarato che non avrebbe obbedito a nessuno se non a lui, prese la parola il patriarca di Costantinopoli e, rivolto all'arcivescovo di cui si è appena detto, disse: «Chi è quel tipo? Merita di essere bruciato!». Baldassarre Cossa presagì il pericolo che si celava dietro quell'invettiva contro l'arcivescovo di Magonza, fuggì da Costanza e si rifugiò da un amico nel castello di Sciaffusa. L'amico, però, non era tale da resistere alle lusinghe dell'imperatore, al quale riconsegnò Giovanni XXIII, così che questi immediatamente poté farlo arrestare. Per un breve periodo (prima di essere segregato nel carcere imperiale di Heidelberg) il Papa fu rinchiuso nel castello di Gottlieben, sul Reno, dove era imprigionato Hus, che di lì a breve sarebbe stato arso sul rogo. Ma a differenza di quello per Hus, il procedimento giudiziario contro Giovanni XXIII andò più per le lunghe: venne istruito un processo nel corso del quale gli furono contestati reati di simonia, sodomia, stupro, incesto, tortura e omicidio. Un suo «devoto», Teodorico di Niem, depose contro di lui riferendo che in un solo anno aveva sedotto duecento donne: vedove, ma anche spose e suore. Il processo si concluse nel 1417, come si è detto, con la sua deposizione.
Ed è qui che comincia la nostra vera storia. Non tutti i collaboratori di Cossa lo tradirono come Teodorico di Niem: uno in particolare, Poggio Bracciolini, segretario personale del Papa, si limitò ad allontanarsi da Costanza e decise di dedicarsi alla sua passione, la ricerca di testi dell'antichità. Poggio Bracciolini — sul quale Eugenio Garin ha scritto pagine mirabili in Ritratti di umanisti (Bompiani) e in un saggio che accompagna l'edizione Bur di Facezie — era nato a Terranuova in Toscana e aveva all'epoca 37 anni. Nella sua lunga vita (morì quasi ottantenne) «servì» otto Papi. Nei giorni della disgrazia di Giovanni XXIII andò a cercare soddisfazione nei monasteri, dove giacevano sepolti piccoli e grandi capolavori dell'antichità copiati, nei secoli, dai monaci. E a Fulda — un'abbazia fondata nell'VIII secolo da un discepolo di san Bonifacio, l'apostolo della Germania — proprio in quell'anno, il 1417, Poggio trovò il De rerum natura: un meraviglioso poema di 7.400 versi in esametri composto da Tito Lucrezio Caro a metà del I secolo a. C.
A questo ritrovamento, che ha cambiato il corso della Storia molto di più di quanto si immagini, è dedicato lo straordinario libro di Stephen Greenblatt Il manoscritto che, nell'impeccabile traduzione di Roberta Zuppet, sta per essere pubblicato da Rizzoli. Con ogni probabilità, scrive Greenblatt, quando trovò il De rerum natura e lo fece copiare da uno scrivano, Poggio «conosceva già il nome di Lucrezio tramite Ovidio, Cicerone e altre fonti antiche che aveva studiato con cura insieme ai suoi amici umanisti». Ma «né lui né gli altri avevano letto più di uno o due scampoli della sua scrittura che, a quanto si sapeva, era andata perduta per sempre». E pensare che 1.450 anni prima il De rerum natura era ben conosciuto e molto apprezzato. «L'opera poetica di Lucrezio», aveva scritto Cicerone al fratello Quinto l'11 febbraio del 54 a. C., «è proprio come mi scrivi, rivela uno splendido ingegno, ma anche notevole abilità artistica». Virgilio lo aveva lodato (pur senza nominarlo) nelle Georgiche. E Ovidio aveva scritto estasiato: «I versi del sublime Lucrezio sono destinati a perire solo allora quando in un sol giorno tutta la terra sarà distrutta».
L'unico profilo biografico di Lucrezio era stato scritto alla fine del IV secolo d. C. — cioè centinaia di anni, quasi 500, dopo la morte del poeta — da un grande Padre della Chiesa, san Girolamo, il quale aveva parlato del poeta riferendo «che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto negli intervalli della follia alcuni libri, che Cicerone emendò, si suicidò all'età di 44 anni». Qui Greenblatt fa sua la tesi già argomentata da Luciano Canfora nella Vita di Lucrezio (Sellerio), secondo cui Girolamo elaborò un racconto maligno di pura fantasia, scritto in funzione delle guerre filosofico-religiose della Chiesa del suo tempo. Racconto che nulla aveva a che fare con i termini reali dell'esistenza dell'autore del De rerum natura.
Perché questa ostilità nei confronti di Lucrezio? Alla Chiesa del IV secolo interessava colpire il filosofo che aveva ispirato l'opera di Lucrezio: Epicuro. Epicuro era nato verso la fine del 342 a. C. nell'isola egea di Samo, dove suo padre, un povero maestro ateniese, era emigrato come colono. Aveva raccolto l'eredità di Leucippo di Abdera e del suo allievo Democrito (V secolo a. C.), sostenendo che ogni cosa esistita e che esisterà si compone di minuscoli atomi indistruttibili. Affermava anche che gli dei sono indifferenti alle sorti degli esseri umani. L'altra sua tesi filosofica secondo cui lo scopo supremo della vita è il piacere — seppur definito in termini assai sobri e responsabili — «fu uno scandalo sia per i pagani sia per i loro avversari, gli ebrei prima e i cristiani poi». Tra i primi cristiani, però, ce n'erano stati alcuni, tra cui Tertulliano, che avevano giudicato ammirevoli alcuni elementi dell'epicureismo. Ma quando, dopo Costantino, la religione cristiana si affermò definitivamente, la Chiesa stabilì che le tesi di Epicuro e Lucrezio sulla mortalità dell'anima andassero combattute in ogni modo.
«Platone e Aristotele, pagani che credevano nell'immortalità dell'anima, potevano in ultima analisi essere tollerati da un cristianesimo trionfante», scrive Greenblatt, «l'epicureismo no». Persino l'imperatore Giuliano l'Apostata (331-363 d. C. circa), che pure aveva cercato di proteggere il paganesimo dall'assalto cristiano, fece un'eccezione a danno di Epicuro: «Non dobbiamo ammettere i discorsi degli epicurei», scrisse. Epicuro non doveva più apparire quello che effettivamente era stato, vale a dire «l'apostolo della moderazione al servizio di un piacere ragionevole», bensì — secondo quelli che erano stati nel De ira Dei i dettami di Lattanzio, un nordafricano nominato precettore del figlio di Costantino — come «una figura dedita a eccessi sfrenati». La filosofia epicurea, sosteneva Lattanzio, ha numerosi seguaci «non perché proponga una qualche verità, ma perché il nome allettante del piacere invita molte persone». I cristiani, proseguiva, devono rifiutare tale invito e comprendere che «piacere è un nome in codice per vizio».
Tale condanna durerà molto a lungo: mille anni dopo, Dante nella Divina Commedia metterà Epicuro all'inferno (Canto X) in bare incandescenti con «tutti suoi seguaci che l'anima col corpo morta fanno». E Lucrezio doveva subire lo stesso trattamento. Così, tra il IV e il IX secolo, il De rerum natura sopravvisse solo per la sua preziosità stilistica, citato en passant in liste di esempi grammaticali e lessicografici, ossia come modello di un corretto uso del latino. Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia, nel compilare una vasta enciclopedia, l'aveva utilizzato come fonte autorevole sulla meteorologia. Il libro, scrive ancora Greenblatt, era riemerso brevemente all'epoca di Carlo Magno, quando si era registrata una cruciale ondata di interesse per i volumi antichi e Dungal, un colto monaco irlandese, ne aveva meticolosamente trascritta una copia. Tuttavia «non essendo mai stato discusso o diffuso, il volume era ricaduto nell'oblio dopo ciascuna di quelle fugaci apparizioni». Accadde quasi per caso che qualche monaco nel IX secolo, del tutto ignaro delle polemiche di alcuni secoli prima e solo in omaggio allo stile e alla sintassi dell'opera, ne copiasse nuovamente il testo; certo non per diffonderlo, ma solo per tramandarlo. Tant'è che due manoscritti del De rerum natura — non quello da cui copiò Poggio Bracciolini che è andato distrutto — sono sopravvissuti, per essere infine ritrovati nella collezione di Isaac Voss, uno studioso olandese del XVII secolo e, dal 1689, si trovano all'Università di Leida. Ma nel Quattrocento di quei volumi non si sapeva ancora nulla.
Fu nel Quattrocento che Francesco Petrarca prima (a partire dal 1330) e poi Giovanni Boccaccio, Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica fiorentina, iniziarono a scoprire quel genere di testi e a diffonderli. Poggio, che arrivò a Roma 25 anni dopo la morte di Petrarca (1374), fu discepolo di quei grandi umanisti. Di volumi da riportare alla luce ce ne erano moltissimi. Nell'antica Grecia si era già sviluppata una grande passione per i volumi, passione che contagiò il mondo mediterraneo. Intorno al 40 a. C., all'incirca dieci anni dopo la morte di Lucrezio, a Roma, sull'Aventino, Asinio Pollione, un amico di Virgilio, costruì la prima biblioteca pubblica. Qualche anno dopo Augusto ne fondò altre due e nel IV secolo se ne contavano 28. Anche i privati che se lo potevano permettere iniziarono ad acquistare libri. Nella distruzione di Ercolano (79 d. C.) fu coperta di lava quella che oggi chiamiamo la Villa dei Papiri, dove erano collezionati innumerevoli rotoli di cui si è salvata la parte interna. Il grammatico Tirannione possedeva 30 mila volumi. Il medico Sereno Sammonico, 60 mila: Roma antica, scrive Greenblatt, era stata contagiata «dalla febbre greca dei libri». Nel corso di quei secoli furono realizzati e venduti decine di migliaia di volumi.
Poi venne Costantino, grazie al quale nel 313 d. C. iniziò il processo che avrebbe fatto del cristianesimo la religione ufficiale. E — nel 391 d. C. — Teodosio il Grande diede il via a una campagna per la distruzione dei luoghi del paganesimo, tra cui le biblioteche. Ad Alessandria se ne occupò il patriarca Teofilo e, qualche anno dopo di lui, suo nipote Cirillo, che estese l'attacco agli ebrei. Ai due si devono la distruzione della biblioteca del Serapeo e l'uccisione della filosofa Ipazia. «La sua figura», ha scritto Silvia Ronchey in Ipazia (Rizzoli), «ha incarnato la superiorità del paganesimo, con il suo pluralismo e la sua apertura, rispetto alla dogmatica chiusura dei monoteismi». Secondo alcuni, ha aggiunto la Ronchey, «il suo fu un assassinio politico; secondo altri, fu l'espressione dell'intolleranza religiosa di antichi monaci talebani, nella cui violenza si specchiavano la vocazione estremista e gli eccessi integralisti della Chiesa alle origini della sua scalata al potere». Per quel che riguarda la distruzione dei libri, gli «eccessi integralisti» cristiani fecero una parte, guerre e crisi economica il resto.
Talché sono sopravvissuti solo 7 degli 80 o 90 drammi di Eschilo e dei circa 120 di Sofocle, mentre Euripide e Aristofane se la sono cavata un po' meglio: 18 su 92 per il primo, e 11 su 43 per il secondo. Didimo di Alessandria scrisse più di 3.500 libri, che però, a parte qualche frammento, sono svaniti nel nulla. Alla fine del V secolo d. C. il curatore letterario Stubeo compilò un'antologia di prose e poesie dei migliori autori antichi: su 1.430 citazioni, 1.115 sono tratte da opere ormai irrecuperabili. Sono stati inghiottiti nel nulla i testi dei fondatori dell'atomismo, Leucippo e Democrito, e quasi tutte le centinaia di opere del loro erede intellettuale, Epicuro, di cui sono rimaste solo tre lettere e una lista di 40 massime riportate dallo storico della filosofia Diogene Laerzio. Così come sono scomparse del tutto le opere, citate con ammirazione da Quintiliano, di Macro, Varrone Atacino, Cornelio Severo, Saleio Basso, Gaio Rabirio, Albinovano Pedone, Marco Furio Bibaculo, Lucio Accio, Marco Pacuvio. Durante le guerre gotiche, scoppiate alla metà del VI secolo, e ancor più nel periodo successivo, «gli ultimi laboratori commerciali dedicati alla produzione di volumi erano falliti». Toccò ai monaci copiare i libri già in loro possesso, non potendo neanche più ricorrere ai produttori di papiro egiziano che, in assenza di un mercato librario remunerativo, erano tutti falliti. Così accadeva spesso che «lavorando con coltelli, spazzole e stracci, i monaci avevano cancellato dalle antiche pergamene i vecchi scritti — Virgilio, Ovidio, Cicerone, Seneca, Lucrezio — per sostituirli con i testi che i superiori avevano ordinato loro di copiare».
Ma il testo più importante — che se non fosse stato per quella missione di Poggio Bracciolini a Fulda forse avremmo perso per sempre (anche se poi se ne ritrovarono altre due copie del IX secolo, ma chissà se qualcuno sarebbe riuscito a leggerle secoli e secoli dopo) — fu quello di Lucrezio. Vediamo — con estrema semplificazione — quali sono i concetti basilari del De rerum natura anche se, avverte Greenblatt, una sintesi come quella che segue rischia di oscurare «l'incredibile vigore poetico» dell'opera che, del resto, il poeta stesso sminuisce quando paragona i propri versi al «miele spalmato intorno al bordo di una tazza contenente una medicina che altrimenti un bambino ammalato potrebbe rifiutarsi di bere».
Ogni cosa è fatta di particelle invisibili. Le particelle elementari della materia — «i semi delle cose» — sono eterni. Le particelle elementari sono infinite nel numero, ma limitate nella forma e nelle dimensioni. Le particelle si muovono in un vuoto infinito. L'universo non ha un creatore o un architetto. Ogni cosa prende origine da una «deviazione» (che Lucrezio chiama declinatio, inclinatio o clinamen). La deviazione è la fonte del libero arbitrio. La natura sperimenta senza sosta. L'universo non fu creato per o intorno agli esseri umani. Gli esseri umani non sono unici. La società umana non iniziò in un'età dell'oro in cui prevalevano la tranquillità e l'abbondanza, bensì durante una lotta primitiva per la sopravvivenza. L'anima muore. L'aldilà non esiste. La morte non è nulla per noi. Le religioni organizzate (va tenuto presente che Lucrezio scriveva alcuni decenni prima della nascita di Cristo) sono illusioni superstiziose. Le religioni sono tutte crudeli. Non esistono angeli, demoni o fantasmi. Lo scopo supremo della vita umana è l'aumento del piacere e la riduzione del dolore. Il maggiore ostacolo al piacere non è il dolore, bensì l'illusione. Comprendere la natura delle cose genera profondo stupore.
Poggio mandò il libro appena copiato a un amico, Niccolò Niccoli, perché ne facesse altre copie, senza neanche comprendere bene di chi si trattasse. Qualche anno dopo cercò di rientrarne in possesso («Voglio leggere Lucrezio ma vengo privato della sua presenza: intendi tenerlo per altri dieci anni?», protestava con Niccoli) e però non ci riuscì. Di lì a poco Johannes Gutenberg avrebbe inventato i caratteri mobili e il De rerum natura sarebbe stato finalmente stampato, diffuso e reso, per così dire, eterno. Comunque la sua fortuna fu immediata, già alla fine del Quattrocento. E con essa, quella di Epicuro. Nel 1509 allorché Raffaello dipinse la «Scuola di Atene» — una rappresentazione di omaggio alla filosofia greca — nella Stanza della Segnatura in Vaticano, diede a Platone e Aristotele «il posto d'onore nella luminosa scena», ma sotto l'ampio arco raffigurò anche Epicuro, stabilendo con ciò che la filosofia epicurea potesse «convivere in armonia con la dottrina cristiana», e fosse meritevole di un'attenta discussione da parte dei teologi raffigurati sulla parete opposta. Sbagliava.
Nel dicembre 1516, quasi un secolo dopo il ritrovamento del De rerum natura, il Sinodo fiorentino, un influente gruppo di ecclesiastici d'alto rango, proibì la lettura di Lucrezio nelle scuole. Poi, nel 1551 i teologi del Concilio di Trento misero al bando sia Epicuro che l'opera di Lucrezio. Ma era tardi. A quel libro si sarebbero ispirati Tommaso Moro, Giordano Bruno, William Shakespeare (e con lui Spencer, Donne, Bacone), Galileo Galilei. I Saggi di Montaigne, pubblicati per la prima volta in Francia nel 1580 e tradotti in inglese nel 1603, contengono quasi cento citazioni dal De rerum natura. Il filosofo, astronomo e sacerdote francese Pierre Gassendi (1592-1655) si dedicò a un ambizioso tentativo di riconciliare epicureismo e cristianesimo e uno dei suoi più celebri discepoli, Molière, si applicò a una traduzione (purtroppo perduta) del poema di Lucrezio. Ammiratore di Epicuro fu, nel XVII secolo, Isaac Newton, e così anche il presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, che collezionò ben cinque edizioni latine del De rerum natura e in una lettera a William Short del 31 ottobre 1819 scrisse: «Ritengo che le dottrine autentiche di Epicuro (non quelle attribuite) contengano tutte le cose razionali della filosofia morale che ci hanno lasciato la Grecia e Roma». A Epicuro e Lucrezio renderanno omaggio Baruch Spinoza nel Seicento e Charles Darwin nell'Ottocento.
A questo punto dobbiamo riaffermare, con Greenblatt, che non esiste un'unica spiegazione per l'inizio del Rinascimento e la liberazione delle forze che hanno modellato il nostro mondo. E certo «non si può dire che un poema sia stato responsabile di un così drastico mutamento intellettuale, morale e sociale… Nessuna opera da sola avrebbe potuto produrre un effetto così esplosivo, soprattutto un testo di cui per secoli non si era potuto parlare liberamente in pubblico senza correre rischi». Ma si può dire che questo libro antico, ricomparso all'improvviso, «fece la differenza».
E i due protagonisti di quel fondamentale 1417? Giovanni XXIII, tornato ad essere Baldassarre Cossa, dopo tre anni di carcere, pagò la propria liberazione, fu nominato cardinale a Firenze, dove morì nel 1419, e fu sepolto in una bellissima tomba realizzata da Donatello nel battistero del Duomo. Poggio Bracciolini, per sottrarsi alle tensioni di cui si è detto all'inizio, accettò il posto di segretario di Henry Beaufort, vescovo di Winchester, e rimase in Inghilterra per quattro — per lui interminabili — anni. Poi tornò a Roma, in Vaticano. Si arricchì collezionando oggetti antichi. Nei suoi ultimi anni di vita fu cancelliere di Firenze. Morì nel 1459, fu sepolto nella chiesa di Santa Croce, ebbe un ritratto di Antonio Pollaiolo e la città di Firenze gli fece fare una statua che fu collocata davanti a Santa Maria del Fiore. Statua che, però, nel 1560, allorché fu ristrutturata la facciata del Duomo, fu spostata in un'altra parte dell'edificio. Nel 1959, in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua morte, il paese in cui nacque è stato ribattezzato Terranuova Bracciolini e la statua è stata collocata nella piazza principale della cittadina. Greenblatt è andato a vederla e ha avuto l'impressione che «pochi di coloro che vi passano davanti per raggiungere i vicini spacci aziendali di abbigliamento abbiano idea di chi commemori». Un destino non insolito per un grande umanista che pure ha cambiato la storia dell'umanità.

La Stampa 4.9.12
«Non sembri aver altro pensiero per la mente Ben, rifletti prima di riunire il Gran Consiglio»
Dal carteggio di Mussolini con la Petacci emerge la figura di una donna capace di lucide analisi politiche. Ma sorprende che a pochi giorni dalla fine parlino di sesso
di Giovanni De Luna


Una collaboratrice fedele e lontana dal cliché banale dell’amante del Duce
Lui si sente tradito da tutti e non ha fiducia né nella Rsi né nell’alleato tedesco
Le lettere vanno dal 1943 al 1945 e ripercorrono gli ultimi drammatici anni della coppia
Il Duce voleva che l’epistolario fosse distrutto, fu Claretta a conservarlo «per la Storia»

Domani su Rai Tre Qui accanto Claretta Petacci, a destra Benito Mussolini. Il documentario Mussolini. Il cadavere vivente di Giuseppe Giannotti, Davide Savelli e Clemente Volpini, con la regia di Fedora Sasso sarà trasmesso domani, alle 21, su Rai3. Nasce da un progetto de La grande storia di Rai3 in collaborazione con l’Archivio Centrale dello Stato. Michele Placido e Maya Sansa, leggeranno le lettere. Il documentario anticipa la serie prodotta da Rai Educational per RaiStoria: Ben e Clara. Le ultime lettere. Quattro puntate, in onda dal 22 settembre ogni sabato alle 23, su Rai Storia, Digitale Terrestre e TivùSat

L’ultima lettera di Mussolini a Claretta Petacci è del 18 aprile 1945. Manca poco più di una settimana al tragico epilogo che porterà i loro corpi allo scempio di Piazzale Loreto. Pure, nel marasma in cui si sta consumando il crollo della Repubblica Sociale, quella lettera è scritta solo per rassicurare l’amante, di frenarne la gelosia («Vedo che sei sempre bene informata. Ieri sera ho ricevuto la signorina Pia Piazzi - e naturalmente sono accadute tremende cose. Non è accaduto assolutamente niente…»), introducendo toni da commedia rosa in una tragedia che stava assumendo le tinte fosche della violenza e della morte. Non c’è niente di epico in quella lettera, nessuna «ultima raffica di Salò», niente propositi di un’ultima disperata resistenza in Valtellina. Questa dimensione privata del Duce è uno degli aspetti più rilevanti delle lettere scritte tra l’ottobre del 1943 e l’aprile del 1945 da Mussolini alla Petacci. Il carteggio, depositato all’Archivio centrale dello Stato, ha già attirato l’attenzione degli studiosi ed è l’oggetto di un libro curato da Luisa Montevecchi. uscito nel 2011. Grazie alla disponibilità dell’Archivio centrale dello Stato è stato reso accessibile nella sua completezza agli studiosi e viene ora riproposto in una trasmissione televisiva, dall’eloquente titolo Mussolini il cadavere vivente, con una selezione delle lettere più significative affiancate dalle risposte di Claretta, in un dialogo interpretato da Michele Placido e Maya Sansa.
Le lettere di Mussolini confermano molte certezze storiografiche sul suo ruolo di leader impotente (la definizione del titolo della trasmissione è dello stesso Duce), sul fallimento della Rsi, incapace di darsi un apparato istituzionale credibile, sul dominio assoluto esercitato dai tedeschi. In più, la scelta della trasmissione di intrecciarle con quelle di Claretta restituisce a quest’ultima un’immagine lontanissima dallo stereotipo dell’«amante del Duce». In particolare, quella del 20 luglio 1943 è assolutamente sbalorditiva. Accompagnata da un appunto («Non distruggere: è storia! È la verità su di me e su di te») la lettera comincia con un approccio dimesso ( «Ben - ascoltami... io sono una povera donna - una creatura semplice e che mai ha voluto occupare un posto oltre quello che spetta alla donna-mamma-amante e sorella...) ma poi va subito al sodo di questioni cruciali per la sopravvivenza del regime. Siamo alla vigilia del 25 luglio, nell’imminenza di quella riunione del Gran Consiglio in cui la «congiura monarchico-badogliana» prenderà la forma del colpo di Stato contro Mussolini. E Claretta scrive: «Ben rifletti... rifletti prima di riunire il Gran consiglio... io sento che questo è il famoso passo verso la fine... Ricordati che tutti sono contro di te... L’esercito tradisce tutto - la massoneria lavora - i ministri che tutto ti devono sono venduti ai loro interessi alla loro smodata smisurata ambizione - quelli in cui tu hai fede. Casa Reale ti tradisce credimi - e ti tradisce perché mai ti perdoneranno di essere più grande di loro tu figlio di un fabbro - tu nato dal popolo... Nessuna gratitudine in loro... solo interesse e freddo disprezzo… Tu non mi credi quando ti dico che Badoglio lavora... mi hai risposto – “Badoglio giuoca a bocce... ” e io ti ripeto quanto ti dissi.. “si gioca a bocce ma con la tua testa...! ” ».
Possibile che Claretta abbia intuito tutto quello che Ben sembrava ignorare? «Io sento - continua - questo lavorio di forze contrarie - io sento che si prepara il grosso colpo... io sento che l’inglese Grandi credendo di sosti- 10 aprile 1945 «Clara, vi è qualcosa di sommamente antipatico nelle tue lettere e cioè l’ossessione del mio fatto sessuale e del tuo. Non sembri avere altro pensiero per la mente, la tua preoccupazione è questa: che io prenda altre donne. Tutto ciò è tremendamente stupido. Penosoffensivo. Tu dici di conoscermi? Una volta. Oggi non più. Non sono questi giorni da donne, nemmeno se si trattasse di Veneri redivive…» tuirti in un domani - ti tradirà…!!! ». Si tratta di «previsioni» così esatte da far pensare che la lettera sia stata scritta «dopo» il 25 luglio, che Claretta l’abbia rimaneggiata «conoscendo» già quello che era successo. O si tratta quindi di un «falso» consapevolmente architettato nell’atmosfera mefitica di Salò per mostrare a posteriori la propria lungimiranza o siamo in presenza di una lucidità politica davvero notevole. Ma anche nelle lettere successive Claretta si mostra una consigliera sollecita per un Duce sempre più solo e che lei rassicura con l’impeto di una fiducia assoluta nell’uomo e nel fascismo.
Claretta, in realtà, non è solo la donna innamorata che perseguita il Duce con la sua gelosia; le si offre come una collaboratrice «alla pari», gestisce una sorta di potere parallelo con la sua corte di intrighi e di spie, sceglie di morire per essere fedele non solo all’amore ma anche a una fede fascista professata fino all’ultimo.
Da Mussolini, giustamente preoccupato per la propria immagine frantumata dalla crudele sincerità di quelle lettere, arriva in maniera ossessiva l’invito a distruggerle. Claretta invece le conservò gelosamente, così da offrirle oggi agli occhi impietosi degli storici. Ed è questo il suo unico, vero tradimento nei confronti del Duce.

Corriere 4.9.12
De Oliveira: la mia vita non ha fretta
«A 103 anni felice di esserci ancora. La morte? Sarà una sorpresa»
di Giuseppina Manin


VENEZIA — Quante vite ha vissuto Manoel de Oliveira? Quante esperienze, emozioni, amori e dolori ha messo insieme negli infiniti anni che la sorte gli ha dato da vivere? Forse lui non li conta nemmeno più, ma il prossimo 11 dicembre saranno 104. Quel che però più sorprende di questa sua lunghissima traversata nel tempo è proprio l'ultima parte, la più fertile. L'inverno del patriarca del cinema è ricolmo di frutti e fiori. Come regista difatti, pur avendo girato documentari dagli anni Trenta, de Oliveira inizia la sua miracolosa carriera intorno agli 80 anni. Da allora ha realizzato una trentina di titoli, più di uno all'anno, in un crescendo artistico che gli ha portato quasi altrettanti premi internazionali, tra cui il Leone alla carriera a Venezia nel 2004 e la Palma a Cannes nel 2008. E domani alla Mostra verrà presentato fuori concorso il suo nuovo film, O Gebo e a Sombra, protagonisti Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau. De Oliveira, che avrebbe dovuto accompagnarlo, non ci sarà. Qualche acciacco dei mesi scorsi l'ha costretto a fermarsi, a sottoporsi a cure ospedaliere. Adesso si è ripreso però la prudenza sconsiglia trasferte impegnative. Il maestro risponde da Oporto.
Di cosa parla «O Gebo e a Sombra»?
«Di temi molto attuali come la povertà e il denaro. Della fame, bisogno comune a tutti gli uomini, che li spinge a ogni tipo di azioni. A darmi lo spunto è stata una pièce teatrale di Raul Brandão, una storia di povertà e di onestà. Di un padre che accoglie in casa il figlio assente da molti anni, e questi ruba dei soldi, denaro della società per cui il padre lavora. Toccherà al genitore difendere l'onore e la dignità della famiglia. Anche a costo della vita».
Onore e dignità sono termini oggi un po' fuori moda...
«Il mondo è mutato, ma c'è ancora gente capace di sacrificare se stessa, e sempre ci sarà. D'altra parte noi non siamo veramente responsabili delle nostre azioni. Tutto dipende dal destino, o forse dal caso. Sono le circostanze a determinare il sacrificio di Gebo, e anche se un figlio verrà fuori buono o cattivo. Perché accada è un mistero della Natura. Ogni uomo ha in sé un Abele e anche un Caino, e talora quest'ultimo ha il sopravvento sul primo. Siamo come gli angeli: alcuni stanno dalla parte del bene, altri da quella del male. Alla fine la salvezza risiede solo nella speranza».
Quanto Gebo le somiglia?
«Nella misura in cui è un uomo. Ogni artista è vicino all'anima umana».
Quanto conta il denaro? È un male in sé o lo diventa se finisce nelle mani sbagliate?
«Il denaro è il motore di ogni cosa. Per alcuni è la ragione di vita. Se manca, se c'è la crisi economica, è perché qualcuno l'ha rubato. Ma la povertà in sé non è un valore».
E lei, che rapporto ha con il denaro?
«A me è indispensabile per fare i film. Ma il denaro non è rimasto mai a lungo nelle mie tasche. Mio padre era un industriale facoltoso, poi le cose sono cambiate. E io ho dovuto vendere la fabbrica, la casa... Mi sono rimasti solo i debiti. A salvarmi è arrivato il cinema. Non sono diventato ricco, ma mi ha permesso di tirare avanti. E poi, morire poveri è il destino di noi artisti».
A proposito di cinema. Lei ha sempre adorato quello di Méliès. Vede oggi in giro dei suoi eredi?
«Il cinema, come la vita, è cambiato completamente. Le nuove tecnologie rendono più facile realizzare un'opera. E mi pare che spuntino molti talenti».
Un film che le è piaciuto di recente?
«Uomini di Dio con Michael Lonsdale, il mio Gebo».
Anni fa in «Un Filme Falado» ha tracciato la storia dell'Europa. Che pensa dell'unificazione?
«Che deve ancora venire».
Che opinione ha del progresso e della cultura? Servono a migliorare l'uomo?
«Né l'uno né l'altra possono cambiare la natura umana. La cosiddetta civiltà è stata creata dagli uomini a immagine e somiglianza dei loro istinti. Non so come il mondo andrà a finire. Tanto io non ci sarò».
Che rapporto ha con la morte?
«E' un enigma di per sé, come l'aldilà. Misteri che accetti oppure no. Mi piace citare un racconto: un nobile era nella sua casa sapendo di essere a un passo dalla morte. Guardando una porta, concluse che la morte era un'uscita. Cosa ci sarà oltre, è la sorpresa. D'altra parte anche la vita non si spiega, la si vive. E per ora siamo vivi, felici di esserlo. Non ho mai avuto fretta nella vita. Non ce l'ho neanche per morire».

Corriere 4.9.12
La generazione dopo il '68 ritratto senza ideologie
Il regista Assayas: tanti sogni e l'ombra della droga
di Valerio Cappelli


VENEZIA — «Nel maggio '68, i giovani avevano vere idee; adesso i blocchi e le occupazioni spesso sono solo una scusa per non andare a lezione e fumare canne fuori da scuola», dice Clément Métayer.
Ha appena fatto la maturità, è lui il protagonista in cui Olivier Assayas si è rispecchiato in Après Mai, ieri in gara. Una storia senza la zavorra dell'ideologia in cui aleggia l'eco del «leggendario» '68: «Ma non ci può essere nostalgia nel mio film, perché quegli eventi sono appena accaduti». Eccoci all'alba dei 70 nella periferia di Parigi, dove «un gruppo di liceali scopre il mondo con una certa ingenuità, non hanno fatto la rivoluzione del '68 (così difficile da raccontare per la forza dei simboli, e poi al cinema l'ha già fatto Garrel), ma sono cresciuti in quel solco». È l'età in cui si impara a pensare da soli, il regista francese la guarda immedesimandosi in occhi giovani. La storia si apre su una manifestazione vietata del '71 che in Francia marcò quell'epoca, le manganellate dei corpi speciali in moto, i sassi lanciati dagli studenti. Ma presto il regista inventa un'azione dimostrativa nel liceo che finisce male, con un agente di sicurezza in coma. Quel fatto influenzerà in maniera sotterranea il destino di ognuno dei personaggi, che non hanno una definizione sociale precisa, e che nella vita reale sono studenti.
Assayas mostra il risultato di quella libertà improvvisa: la voglia di essere impegnati (i dibattiti sì), le scelte eccentriche («studiamo danza sacra, oggi l'Occidente ha dimenticato i riti magici e spirituali»), le sue ombre (la droga). Ma i protagonisti come vedono quegli anni da cui sembrano passati non 40 ma 400 anni? «È stato difficile imparare a memoria dei dialoghi pieni di riferimenti politici, non ci capivamo niente, Olivier però voleva che sapessimo di cosa parlavamo, ci dava documenti, volantini dell'epoca; idealizzare il '68 è diventato un business, non dovevamo esprimere quegli anni, piuttosto la nostra gioventù e spontaneità, anche se siamo un po' ignoranti; per capire il linguaggio politico dell'epoca abbiamo consultato il dizionario; gli adolescenti erano impegnati e oggi hanno perso la fede politica, che non consente di cambiare le cose, dobbiamo trovare un altro mezzo per poterci esprimere, abbiamo un modo diverso di vedere il mondo, sì, ci sono gli Indignati ma l'approccio è diverso». Diceva Pascal della gioventù: «Tra noi e l'inferno o tra noi e il cielo c'è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo». Per Assayas oggi i giovani «sono più ragionevoli, radicali ma senza ideali, vivono in termini di esclusione e inclusione; dicono che sia per la disoccupazione, a me sembra una spiegazione semplicistica. Non ci si proietta più verso un futuro radioso e utopico, si chiede allo Stato di combattere l'esclusione. Nel mio film L'acqua fredda, del '94, avevo già descritto l'adolescenza, ma in modo più poetico, questa è una versione realista. Per me fu un periodo malinconico con un forte amore per la vita. Un'epoca triste, c'era l'ossessione della politica, tutto veniva soffocato dal super Io, dalla responsabilità rispetto alla classe operaia e a valori astratti del XX secolo. La generazione del '68 ha fatto carriera, quella del dopo '68 è nata e si è evoluta nel caos, aveva il rifiuto del mondo, un integralismo distruttivo. Ha pagato un tributo pesante». Nella sinistra, da cui egli proviene, «c'era qualcosa di violento. Se ho un messaggio? No, per carità, non mi è venuto in mente». Il film ci riporta alla cultura underground di cui si è nutrito, e alla controinformazione: «Col web i media si sono democratizzati, nel meglio e nel peggio, tutto è accessibile. A quel tempo l'informazione era nelle mani degli adulti, che erano i nemici».
Il protagonista che Olivier si è cucito addosso è un pittore, un artista che vive nel suo immaginario, l'arte consente di planare al di sopra della realtà. Si trova trascinato dai tumulti dell'epoca: diventerà regista sperimentale per un film di fantascienza con dinosauri e nazisti. Nelle ultime immagini c'è la sua amata. Una ragazza morta inseguita dalle fiamme. Brucia nel fuoco dell'utopia: «La fine della mia storia ha a che fare con la fede nell'arte come resurrezione, di quello che si è perso e attraverso il cinema si può rivivere».

Repubblica 4.9.12
Giovani di ieri e di oggi
Elogio del ’68 quando avere 16 anni era un’avventura
di Natalia Aspesi


VENEZIA Storia di un altro secolo, ma non è solo il tempo a renderla lontana, piuttosto il ricordo di come ci si immaginava allora il futuro, che poi si è rivelato completamente diverso da ogni speranza e da ogni certezza di allora. Essere giovani quarant’anni fa, essere giovani oggi, figli o addirittura nipoti di quei ragazzi che, diventati adulti, si sono loro stessi dimenticati, cancellati, omologati al nemico, quello che la rivoluzione avrebbe dovuto distruggere. Due mondi separati, inconciliabili, lo ieri e l’oggi, sconosciuti uno all’altro: avere 16 anni nel 1971, essere liceali della borghesia, con il culto della giovinezza al potere, come in Après mai il bel film del francese Olivier Assayas, in concorso; averli oggi, in una famiglia operaia di Piombino, occupata dalla grande acciaieria, come in Acciaio di Stefano Mordini tratto dal bestseller di Silvia Avallone ( Giornate degli Autori) ; oppure, essere ancora adolescenti e già vittime della vita senza sbocchi e dalla camorra, come ne L’intervallo di Leonardo di Costanzo, ( Orizzonti). Assayas, che oggi ha 57 anni ed è uno dei cineautori francesi più apprezzati, era allora uno studente parigino che, come il protagonista del film, voleva diventare un pittore e intanto partecipava al caos, alla disinvoltura sessuale, al sogno di totale libertà, alle illusioni, e agli errori, di una parte della sua generazione. «Ci sono troppi fraintendimenti su quel periodo, che spesso viene ridicolizzato, oppure demonizzato, o ancora peggio, ricordato solo per la sua estetica, la moda poverista, le canzoni, la droga» dice il regista: «Io vorrei che gli spettatori giovani di oggi ne capissero la complessità, l’entusiasmo, i tanti vicoli ciechi che portarono poi al ritorno all’ordine o al terrorismo; e soprattutto come le nostre vite fossero impregnate di politica, di cultura, di libri e d’arte, come per noi contassero le idee, e il nostro linguaggio quotidiano comprendesse Marcuse o Deleuze, il marxismo e Mao, e le nostre giornate il dibattito, la riflessione, l’assemblea, lo scontro con la polizia, il volantinaggio, il ciclostile, la cancellazione degli adulti».
Il film inizia con la manifestazione, proibita, del 9 febbraio 1971 a Parigi, organizzata da Soccorso Rosso: le brigate speciali della polizia comprendono i “voltigeurs”, agenti in moto il cui passeggero manganella forsennatamente chiunque abbia l’aria giovane. Si studiano sommosse e rivendicazioni, l’ultrasinistra attacca naturalmente il partito comunista (francese) ma per Gilles c’è anche il tempo di far l’amore con la sua bellissima eterea ragazza del tipo malinconico che piaceva allora. Innamorarsi e fare coppia non è previsto dalla rivoluzione, e per non finire in galera ci si disperde, si va in Italia. Dove abbondano i collettivi internazionali, nei giardini delle ville dei ricchi disprezzati, invisibili genitori: c’è chi andrà in India, chi si dedicherà alle danze rituali, chi porterà aiuto alle lotte operaie che però non ne vogliono sapere, tutto è controcultura autogestita. Si fuma hashish, si creano comuni, si girano film marginali sulle vittorie dei popoli in lotta che nessuna va a vedere, ci si fa di eroina, si sostiene la free press, si prova Lsd, si fa l’amore, ci si suicida. Arrivano notizie luttuose sulla tanto ammirata Rivoluzione Culturale cinese, mentre a decidere del futuro del mondo pare che siano solo i maschi, perché le donne rivoluzionarie devono comunque fare la spesa e da mangiare e lavare i piatti. Per forza nascono i collettivi femministi. Tutto poi si sfalda in pochi mesi, e chi non è passato alla clandestinità, capisce che la vacanza dalla realtà è finita, che la giovinezza sta sfuggendo, che bisogna rientrare nei ranghi, affrontare la vita. E Gilles sceglie il cinema, e va a Londra, oscuro apprendista per un film non sperimentale, non militante, non rivoluzionario, che racconterà di una guerra tra animali preistorici e nazisti. Gli attori scelti da Assayas sono sconosciuti e forse per questo le loro facce aderiscono ai personaggi d’epoca.
Après mai si accoda a quelli che potrebbero vincere il Leone d’Oro, soprattutto per la dolcezza senza nostalgia con cui riesce a dare l ritratto di una giovinezza oggi impossibile. Allora per Gilles e i suoi amici il denaro non contava nulla perché l’avevano le loro famiglie, oggi ragazze come le studentesse Francesca, e Anna, ma anche la più adulta Elena e il giovane operaio Alessio di Acciaio, sognano ciò che il denaro, che non hanno, può procurare, e hanno disimparato a pensare che il loro futuro sarà diverso, che saranno loro i protagonisti del cambiamento. Nel romanzo l’operaio Alessio vota Berlusconi, mentre sua madre è di Rifondazione, il che segnala il cambiamento non solo ideologico tra due generazioni: ma il film ha soppresso ogni accenno politico, puntando sulla fatica di crescere, di diventare adulte delle due ragazzine, nel vuoto di un tempo, di un luogo, di una condizione sociale, di un distacco dalla cultura politica che limiterà i loro sogni e la loro vita.

Repubblica 4.9.12
Una società all’ultimo stadio della corruzione
di Curzio Maltese


C’era bisogno di un altro film sul ’68? Forse no, ma le schiere di reduci nostalgici del mito sessantottino abbondano nel cinema e Olivier Assayas, regista e critico uscito dalla scuola dei Cahiers du Cinema, è senz’altro uno di quelli più interessanti e attrezzati per rievocarne i sogni perduti. Après mai è una storia sui dintorni di Parigi e del ’68, ambientato nel dopo rivolta, nel ’71, in un gruppo di liceali divisi fra l’impegno politico e le ambizioni artistiche. È insomma anche un ritratto dell’artista da giovane e un romanzo di formazione, altri generi piuttosto affollati. Il giovanissimo Gilles attraversa le follie dell’epoca con un po’ troppo del senno di poi, insegue l’amore difficile per Laure e sogna di diventare un pittore o alla peggio un regista di cinema. Non mancano gli ingredienti giusti. Le facili ma efficaci ironie sulle ubriacature ideologiche dei marxisti immaginari, la tragedia della droga, la poetica sentimentale dell’adolescenza, un bel mazzo di citazioni sparse, dalla Nouvelle Vague al manifesto situazionista, e il comprensibile rimpianto per le gioie della liberazione sessuale che sarebbe finita di lì a poco con l’avvento dell’Aids.
Film ben girato e recitato da un gruppo di giovani bravissimi, accuratissimo nei dettagli e nella ricostruzione del clima e con una morale semplice e chiara. Quel che resta del ’68, secondo l’autore, non è la politica, ma la rivoluzione nel costume e nella cultura giovanile. Bisognerebbe però chiedersi anche cosa può dire un film come questo ai giovani di oggi, costretti a confrontarsi con ben altri problemi che non la scelta se vivere a New York, Londra o Parigi, continuare la professione borghese dei genitori o tentare la strada del bohémien a carico.
Chi continua a infischiarsene di qualsiasi sentimentalismo è il grande Takeshi Kitano. Outrage beyond non dice molto di nuovo sulla visione del maestro giapponese, ma nel suo caso è lecito ripetersi. Stanco, ingrigito e ironico come il suo eroe mafioso Otomo, Kitano non ha più voglia di lanciarsi in nuove avventure. Soltanto di prendersi qualche altra vendetta sulle ipocrisie del mondo. Il racconto è ripreso dove era stato interrotto da Outrage, nel mezzo di una guerra mafiosa fra i clan Sanno e Hanabishi, molti protagonisti sono gli stessi. Ma a guardare da più vicino è cambiato il paesaggio antropologico, degenerato fino alle estreme conseguenze. Chi parla di film di genere, yakuza film o gangster movie, testimonia scarso senso dell’umorismo. Quella di Kitano è satira allo stato puro su una società caduta nell’ultimo stadio della corruzione. Mafie, grandi compagnie, ministeri e polizia sono esattamente la stessa cosa, seguono identici riti, si vestono dallo stesso sarto, si ritrovano in consigli d’amministrazione governati da facce e logiche assolutamente indistinguibili.
Tutti fingono di rispettare regole formali destinate a saltare alla prima guerra di potere. Il tradimento è l’unica vera legge. Con il suo senso dell’onore, il disincanto e la feroce ironia, l’anarchico Otomo- Kitano finirà per fare giustizia di tante finzioni. Come può accadere, s’intende, soltanto al cinema e non nella vita reale. La violenza barocca delle esecuzioni e il grottesco di certe sanguinarie trovate convertono in risata l’inevitabile ecatombe finale.
Può darsi, anzi è certo, che questo non sia il più bel film di uno dei più grandi cineasti viventi. Com’è sicuro che To the wondersia stato appena l’eco dello splendore di The tree of life. Ma rimane un grande merito di Barbera aver riportato quest’anno a Venezia due artisti che hanno fatto la storia del cinema. Fra tanti film in concorso e no, qui e altrove, che riescono a malapena a riempire con qualche trovata la cronaca vuota di un paio di giorni.

Repubblica 4.9.12
Alle Giornate degli Autori il film di Stefano Mordini dal libro di Silvia Avallone, con Michele Riondino
La classe operaia al cinema Vittoria in fabbrica con rabbia
di Arianna Finos


VENEZIA L’Isola d’Elba è un paradiso per turisti tedeschi e torinesi, inaccessibile alla classe operaia che vive al di qua della lingua di mare: un fronte di ruggine e sabbia, le case popolari di Piombino, la grande fabbrica siderurgica. Alla Mostra di Venezia (
Giornate degli Autori) è di scena la trasposizione di Acciaio (accolto in sala tra gli applausi), firmato da Stefano Mordini e benedetto dall’autrice Silvia Avallone (Premio Campiello opera prima e finalista allo Strega 2010). Scrittrice e regista hanno lavorato insieme per un film che cambia il tono e ambienta all’oggi le storie intrecciate che ruotano attorno alla Lucchini, che inquina e aliena e mantiene gli operai e le loro famiglie. Tra quest’umanità scondonna, fitta e rassegnata si consumano le esistenze di due adolescenti, anche loro d’acciaio: Anna e Francesca, amiche che si perdono e ritrovano.
Dice Silvia Avallone: «Mordini ha rispettato in pieno lo spirito del libro, mettendo al centro la storia della fabbrica e delle due ragazzine». Il film deve molto alle due protagoniste, le diciassettenni Anna Bellezza e Matilde Giannini. Reclutate davanti scuola, scelte tra centinaia di aspiranti: belle, fresche e consapevoli. Rispetto al libro lo sfondo alle loro vicende è attualizzato. Mordini spiega: «Siamo a un passaggio epocale, è il momento delle speranze disattese. Una volta alla proprietà spettava la responsabilità dei lavoratori, il trucco è stato far scomparire la proprietà, eliminare la responsabilità. Agli operai manca un referente, questa classe muore per mancanza di dialogo». Mordini e Avallone hanno parlato e soprattutto ascoltato i metalmeccanici, i pensionati, le donne.
Si è immerso nella vita di fabbrica anche Michele Riondino, che interpreta Alessio, operaio che crede ancora nel proprio lavoro. È innamorato di una
Elena, «che ha studiato ed è tornata in fabbrica con una nuova testa: sa che il futuro è il cambiamento» dice l’attrice Vittoria Puccini. Per Alessio, invece, la lotta è la conservazione di quel posto: «Sono cresciuto a Taranto, figlio di operai, senza conoscere la fabbrica da dentro e questa è stata l’occasione: ho visitato i reparti, osservato la scansione del lavoro: ripetitivo, ma che richiede grande allerta. La noia può uccidere». Riondino si scalda quando lo si interroga sull’Ilva: «I media oggi parlano di bustarelle e intercettazioni, ma a Taranto tutti sapevano. La politica non s’interessa davvero del problema. La famiglia Riva si è schierata con ogni partito, con la Chiesa. Non ci resta che strappare la scheda elettorale. Potrebbe sembrare gesto non costruttivo, ma è un segnale per la mia parte politica, che non è mai stata al potere».


Corriere 4.9.12
Addio al maestro Farulli del Quartetto Italiano Fondò la scuola di Fiesole
di Enrico Girardi


Borciani-Pegreffi-Farulli-Rossi. Il Quartetto Italiano non è stato semplicemente un'ottima formazione da camera. È tuttora una leggenda, il «Quartetto» per antonomasia, l'unico di cui anche il semplice appassionato ricordi i nomi dei musicisti che ne fecero parte. E questa è la prima ragione per la quale apprendere della morte di Piero Farulli, 92 anni, e sentire un vuoto incolmabile è un tutt'uno. Anche perché degli alfieri di quella prodigiosa formazione — «il più bel Quartetto che il nostro secolo ha conosciuto», scrisse il New York Times l'indomani del debutto concertistico in America — Piero Farulli è quello che ha continuato a far parlare di sé anche dopo lo scioglimento del gruppo, avvenuto nel 1981. Paolo Borciani, primo violino, il fondatore è morto nell'85; Franco Rossi, il violoncello, nel 2006. Elisa Pegreffi, secondo violino e moglie di Borciani, nonché prima donna a far parte di un Quartetto di tal livello (il Borodin, il Berg, il Tokyo, il Budapest, il Juilliard: tutti rigorosamente maschili), si è ritirata da tempo dalla vita musicale. In realtà Farulli era entrato nel gruppo due anni dopo la fondazione, del 1945, sostituendo Lionello Forzanti che desiderava dedicarsi alla direzione d'orchestra, e ne uscì quattro anni prima a causa di un infarto. Ma in tutti i concerti che contano e in tutte le incisioni discografiche — integrali di Beethoven, Mozart, Brahms, Schumann, Webern, parecchio Schubert e Haydn, molto Novecento a partire da Debussy e Ravel — il suo nome c'è. Così come c'è il suo contributo nella ricerca del gruppo di definire un suono che fondesse la cantabilità italiana con il rigore armonico della letteratura cameristica centroeuropea. La musica italiana è in lutto però anche per tutto quanto Piero Farulli ha fatto dopo essere stato quel gigante di concertista che è stato. In primo luogo l'insegnamento, perché alla sua scuola si sono formati decine e decine di violisti non solo italiani, praticamente tutti i maggiori violisti di oggi. E poi per aver fondato la Scuola di Fiesole che non è mai stata solo un formidabile centro di perfezionamento, il migliore in Italia insieme con la Chigiana di Siena (dove pure Farulli è stato docente) ma un luogo dove vivere la musica in tutti i suoi aspetti artistici, umani e sociali, anche politici: un luogo in cui accogliere dilettanti e professionisti di ogni età, in cui dare la possibilità ai giovani migliori di suonare in orchestra (la Giovanile Italiana), in cui affrontare i problemi delle istituzioni musicali in difficoltà, in cui stimolare i politici perché la musica vedesse riconosciuto il peso culturale che le spetta in una società civile, in cui sperimentare modelli didattici efficienti, efficaci e praticabili, in cui combattere lo spaventoso analfabetismo musicale che affligge il Paese. Ha avuto mille riconoscimenti, Piero Farulli, impossibile enumerarli. Ha avuto però anche mille batoste, che non ne hanno mai piegato la forza carismatica e la fierezza da vero toscano. Speriamo ora che la straordinaria esperienza di Fiesole non venga a scemare. Sarebbe una brutta cosa.

Repubblica 4.9.12
Genesi e dintorni
Un saggio di Betta ricostruisce questa lunga storia che inizia dall’abate Spallanzani
Quei duecento anni di dibattiti sulla fecondazione artificiale
di Simonetta Fiori


Solo lo sguardo lungo sulla fecondazione artificiale ci consente di penetrare quel groviglio mai risolto e ora esploso tra sessualità, morale, politica, diritto, paternità e maternità, natura e cultura, ruoli maschili e corpi delle donne, investimenti emotivi, desideri e paure. Solo una prospettiva storica permette di interpretare un paradosso che è anche metafora della vicenda italiana: proprio il Paese che oltre due secoli fa ebbe un ruolo pionieristico nel vecchio mondo grazie all’abate Spallanzani, artefice delle prime sperimentazioni sui mammiferi, subisce oggi il richiamo della corte di Strasburgo per l’eccessiva rigidità della legge, una disciplina restrittiva che non ha paragoni nell’Europa comunitaria. Dalla luce del progresso alle ombre della violazione dei diritti umani.
È una storia lunga quella narrata da Emmanuel Betta in questo suo nuovo L’altra genesi (Carocci), ricostruzione meticolosa della fecondazione artificiale dai primi laboratori di fine Settecento – in cui uno scienziato italiano, un chirurgo inglese (Hunter) e un medico francese (Thouret) definirono i primi fondamenti della pratica – fino alle corti di giustizia di oggi, dove si tenta di porre rimedio alle incoerenze della norma. Una storia affascinante che ci conduce dentro le camere da letto della borghesia europea di metà Ottocento, scosse dallo scandalo d’un modus operandi considerato svilente per la figura maschile, sostituita da speculum e siringa, ma anche dentro i meandri del Vaticano, dove la condanna ufficiale pronunciata dal Sant’Uffizio nel 1897 fu preceduta da una varietà sorprendente di posizioni, talvolta dirompenti, con argomenti a favore della fecondazione di ordine morale e teologico.
Storie di uomini – medici, scienziati, giuristi, cialtroni mediatici, anche intellettuali come Luciano Bianciardi (in veste di traduttore) – ma soprattutto di donne molto diverse tra loro – casalinghe e maestre elementari, borghesi e popolane, spose e zitelle – pronte a rompere pudori e convenzioni sulla spinta del desiderio di maternità. Una storia di fantasmi che ancora non s’acquietano, ben presenti nel dibattito pubblico di oggi.
«Sì, sono gli spettri che riaffiorano intorno al rapporto tra sessualità e riproduzione», dice ora Emmanuel Betta, 43 anni, docente di storia contemporanea all’Università La Sapienza e studioso delle questioni di bioetica. «Fantasmi che investono il significato del maschile e del femminile e scaturiscono da una concezione del corpo delle donne come chiave per la riproduzione di un ordine sociale e culturale». In quegli stessi decenni di fine Ottocento in cui emerge la fecondazione artificiale, si discute anche di contraccezione, controllo delle nascite, aborto terapeutico, gestione del parto, declino demografico. «Molti di coloro che praticavano e scrivevano di riproduzione artificiale la presentavano come uno strumento per incrementare le nascite ed accrescere il corpo della nazione. Si innesta in questo quadro la questione della paternità, o meglio del ruolo riproduttivo del maschio. Scoprire che la sterilità era anche una questione maschile, anzi sempre di più maschile, scosse certezze consolidate e un ordine simbolico che attribuiva la parte attiva nella riproduzione all’uomo, anche dal punto di vista biologico. La fecondazione artificiale appariva ancora più disturbante perché esplicitava il carattere culturale – e non biologico – dei rapporti famigliari».
Paternità come scelta e non come dato puramente biologico. Il principio, assorbito dalla giurisprudenza americana fin dagli anni Quaranta del Novecento, è destinato a rimanere largamente estraneo alla nostra cultura, che continuerà ad associare la fecondazione eterologa all’adulterio.
Fin dai suoi primi pronunciamenti negli anni Cinquanta, il diritto italiano mostra un carattere repressivo, legato a un’interpretazione organicista della sessualità presente dai tempi del codice unitario. «Prevaleva l’idea che l’individuo, soprattutto donna, non avesse una totale autonomia sulla propria sessualità, perché portatore di un valore che travalicava il singolo e chiamava in causa un organismo superiore: la nazione, o la stirpe e la famiglia o la società».
Può colpire che uno dei firmatari nel 1958 del primo progetto di legge sulla fecondazione (il missino Clemente Manco) di lì a poco avrebbe presentato un disegno volto a criminalizzare l’omosessualità. Questa coincidenza ci dice qualcosa? «La fecondazione artificiale fu spesso accusata di essere un veicolo di svirilizzazione dell’uomo e come tale un vettore di omosessualità. Questo non solo perché veniva messo in discussione il ruolo riproduttore dell’uomo ma anche perché per avere il seme maschile era necessaria la masturbazione, e intorno a questa pratica si scatenava la condanna morale».
Il ruolo determinante della Chiesa cattolica è certo la chiave per comprendere molti degli attuali fantasmi. Basti vedere la distanza tra l’irrigidimento del Vaticano, formalizzato nel 1930 nell’enciclica Casti connubii, cui si conformeranno i successivi interventi dottrinali nel corso del Novecento, e gli esiti della commissione d’indagine istituita nel 1945 dall’arcivescovo di Canterbury. «Mentre per il discorso morale cattolico l’inseminazione artificiale era da considerarsi illecita perché violazione di un ordine naturale della sessualità, la commissione inglese approdò a una sostanziale accettazione della pratica, dopo una lunga discussione che sembrava ammettere anche l’eterologa, poi esclusa nel pronunciamento definitivo ». Posizioni molto lontane che forgeranno geografie mentali distanti.
Un altro spettro ancora molto vivo è quello dell’eugenetica.
L’altra genesi ripercorre con puntualità tutte le implicazioni eugenetiche legate alla fecondazione artificiale, dal modello americano alla pratica nazista, ma siamo ben lontani dai problemi attuali. «L’eugenetica ha oggi un ruolo fuorviante, perché evoca più di quanto sia capace di spiegare. Essa è stata un fenomeno complesso e articolato, con declinazioni nazionali, politiche, culturali, religiose differenti. Quindi è indubbio che la fecondazione artificiale contenga aspetti problematici, ma è altrettanto vero che ciò di cui discutiamo oggi – se una coppia fertile portatrice sana di una malattia genetica possa accedere alla fecondazione artificiale e sottoporre il feto a diagnosi preimpianto – non ha niente a che vedere con l’eugenetica. È chiara la differenza che passa tra la volontà di edificare un essere superiore e quella di evitare che una persona nasca e muoia rapidamente a causa di una malattia degenerativa». L’equivoco, in sostanza, appare assurdo e inaccettabile. Tra i fantasmi, forse il più molesto.

Repubblica 4.9.12
Chi ha paura della morale laica
La Francia si è divisa sulla proposta di introdurli nelle scuole
di Michela Marzano


Si può insegnare la morale come si insegna la grammatica o l’aritmetica? Spetta alla scuola pubblica spiegare ai cittadini di domani “cosa è giusto”, oppure uno stato liberale non dovrebbe permettersi di intervenire nell’ambito del “bene” e del “male”?
In Francia, in questi ultimi giorni, il dibattito sulla morale a scuola è estremamente vivo. Visto che, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, il ministro dell’Educazione Vincent Peillon ha detto che il compito della scuola non può più essere solo quello di trasmettere una serie di nozioni, ma anche quello di educare all’etica, per permettere ai più giovani di capire che «alcuni valori sono più importanti di altri: la conoscenza, l’abnegazione, la solidarietà, piuttosto che i valori del denaro, della concorrenza e dell’egoismo».
E così il linguaggio dei valori, rifiutato per anni dalla sinistra in quanto sinonimo di un ritorno all’ordine morale, fa la sua comparsa “scandalosa”. Provocando polemiche. Rilanciate, all’indomani delle dichiarazioni di Peillon, dall’ex- ministro del governo sarkozista Luc Chatel, che accusa il socialista di utilizzare argomenti “ pétainistes”. Chiedere alla scuola di inculcare nei giovani la morale, perché il risanamento di una nazione non può essere solo materiale, ma anche spirituale, significa, per Chatel, fare un passo indietro nella storia: solo il Maresciallo Pétain, negli anni 1940, aveva osato fare dichiarazioni di questo genere.
Come se parlare di decadenza spirituale fosse all’appannaggio della destra. Oppure della Chiesa. Visto che anche da parte del mondo cattolico si sono sollevate alcune obiezioni, per paura che questi famosi valori da insegnare non siano in conformità con il magistero della Chiesa. Ma di quale morale stiamo allora parlando?
Per Peillon, la sola morale che la scuola può insegnare è una “morale laica”. Non si tratta di tornare alle nozioni tradizionali di “patria” e di “famiglia”, né ai concetti di “ordine” e di “disciplina”, ma solo di stimolate la capacità di ragionare, di dubitare e di criticare dei più giovani. È per questo che a scuola si dovrebbe tornare a parlare di libertà, di
rispetto, di dignità e di giustizia. Come non dar ragione al ministro dell’educazione, quando si sa che anche solo per formulare correttamente un giudizio critico si devono avere alcune basi? Certo, all’era dell’autonomia individuale, qualunque forma di ritorno al paternalismo sarebbe incongrua. Non si tratta di dare agli studenti un breviario delle azioni da compiere e di quelle da evitare, né di insegnare cosa si debba o meno pensare della vita, della morte, o della sessualità. Si tratta solo di spiegare il significato preciso dei valori che giustificano l’agire umano. Nozioni come il rispetto, la dignità, la responsabilità o la libertà, che sono alla base di ogni etica pubblica contemporanea, non possono essere utilizzate a casaccio. Ognuna di loro ha una propria “grammatica”; per utilizzarle correttamente si devono conoscere le regole del gioco linguistico.
Ecco quale è lo scopo della scuola oggi: insegnare di nuovo ad utilizzare correttamente le parole della morale per permettere l’organizzazione del “vivere-insieme”; evitare che alcuni radicalismi religiosi interferiscano nella sfera pubblica; alimentare il dibattito democratico, senza che la violenza prenda il posto della critica. Esattamente il contrario di ciò che voleva fare Pétain. Ma anche l’opposto di quello che sognerebbero oggi i nuovi integralisti della morale.