mercoledì 5 settembre 2012

l’Unità 5.9.12
Statali, Cgil e Uil confermano lo sciopero
Nessun passo avanti nell’incontro tra sindacati e Patroni Griffi
Il nodo degli esuberi
di Massimo Franchi
Un «primo» incontro per rimanere ognuno sulle sue posizioni. Sugli effetti della spending review sui lavoratori del settore pubblico nulla si muove: il ministro Patroni Griffi continua ad assicurare «dialogo senza veti» per gestire i tagli del 10 per cento; Cgil, Uil e Ugl confermano lo sciopero del 28 settembre, la Cisl invece è contraria alla mobilitazione e spinge per trovare un accordo.
Intanto però gli effetti della “Revisione di spesa” che chiuderà i rubinetti delle risorse agli enti locali produce già effetti devastanti lungo la Penisola: la Cgil stima in 100mila i precari che dal 31 dicembre rimarranno disoccupati e a Palermo la rabbia di molti di loro è già scoppiata con i casi Gesip (1.800 lavoratori a casa dal primo settembre per la scadenza del contratto con il Comune) e forestali (23mila a rischio in tutta la Sicilia) che hanno bloccato buona parte della città ieri.
Dunque in mattinata l’incontro «informale» tra ministro e sindacati non sortisce effetti. Due ore di confronto fra Filippo Patroni Griffi e i rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confsal in cui ognuno dei presenti ribadisce quanto sempre sostenuto. «Ci siamo parlati con la solita franchezza ha raccontato alla fine il ministro -. Il governo ha chiarito di dare luogo all’esame congiunto per la gestione delle eccedenze, dei prepensionamenti e della mobilità». Il confronto con i sindacati, se ci sarà l’accordo, si tradurrà in una direttiva da inviare alle pubbliche amministrazioni, «senza poteri di veto da una parte e dall’altra». Patroni Griffi ha spiegato inoltre che la prossima settimana ci sarà un nuovo incontro per affrontare anche il tema di un accordo quadro. «Il 31 ottobre arriveranno i numeri reali» sugli esuberi, ha annunciato. «I 24 mila sono una fotografia di tipo aritmetico ed è precisa solo per quanto riguarda le amministrazioni statali. Il 31 ottobre i numeri saranno reali e non frutto di una proiezione aritmetica ha spiegato -. Stiamo raccogliendo ora i dati dalle singole amministrazioni per avere la proiezione della riduzione sulle dotazioni organiche attuali».
100MILA PRECARI A RISCHIO
Cgil e Uil all’unisono hanno invece richiesto il rispetto dell’accordo firmato con lo stesso ministro il 3 maggio che prevedeva un piano totalmente diverso. Assieme all’Ugl, le due confederazioni hanno confermato lo sciopero dei lavoratori statali (scuola esclusa, dunque) per il 28 settembre. E sempre all’unisono hanno espresso forte preoccupazione per la sorte dei precari, che hanno la sfortuna di avere i contratti in scadenza proprio in coincidenza con la definizione delle piante organiche. Il segretario generale della Fp Cgil, Rossana Dettori, lancia l’allarme: «Il ministro Patroni Griffi oggi ci ha detto con molta chiarezza che per il precariato non ci sono soluzioni, perché a fronte del fatto che ci sono esuberi è complicato ragionare sulla stabilizzazione dei precari. Una parte dei precari è in scadenza a ottobre» e già tanti sono andati via: solo «nel 2011 sono stati lasciati a casa circa 45 mila lavoratori a termine». Secondo i numeri della Fp Cgil gli ultimi dati parlano di oltre 100 mila lavoratori a tempo nella Pa, esclusa la scuola. Il segretario confederale della Uil Paolo Pirani sottolinea: «Le singole amministrazioni, penso soprattutto a ricerca e sanità, devono entro ottobre definire i tagli della pianta organica. Ecco che aggiunge il livello di perdita di posti di lavoro in queste realtà rischia di essere maggiore, con problemi sociali e di tenuta del servizio». A riguardo la Uil ha quindi proposto «l’immediata apertura di un tavolo sulla gestione del precariato».
Ben diversa la posizione della Cisl: «il ministro spiega il segretario confederale Gianni Baratta ha fornito delle risposte che consentiranno di affrontare, in un confronto con una possibile intesa, i temi stabiliti dalla spending review: esuberi, compensazioni, mobilità, tabelle di equivalenza professionale. È singolare ha continuato altri sindacati abbiano confermato invece uno sciopero in una fase in cui i lavoratori fanno già fatica ad arrivare a fine mese».

Corriere 5.9.12
Quei centomila precari pubblici che ora rischiano il posto Patroni Griffi: sperimenteremo tutte le soluzioni
Cgil e Uil confermano lo sciopero sugli esuberi
di L. Sal.
ROMA — Lo Stato taglia la pianta organica dei ministeri, come previsto dalla legge sulla spending review. E la situazione si fa ancora più difficile per chi, in un ufficio pubblico, ha messo solo un piede ed ha un contratto a termine. La questione è stata sollevata ieri mattina dalla Cgil davanti al ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi. Era il primo incontro con i sindacati dopo la pausa estiva, sul tavolo proprio quei tagli del 10% per i dipendenti e del 20% per i dirigenti prescritti alla macchina dello Stato con la revisione della spesa pubblica. Se si prepensiona o si mette in mobilità chi ha un contratto stabile, cosa succederà ai precari?
«Senza contare la scuola — dice Susanna Dettori, segretario generale della Cgil funzione pubblica — i precari della pubblica amministrazione sono almeno 100 mila. Rischiano di restare a casa, come i 45 mila che sono rimasti senza contratto dal dicembre dell'anno scorso». Un problema vero, ma non facile da risolvere.
A giugno è stato aperto un tavolo tra ministero e sindacati proprio per affrontare la questione. Ma la strada è stretta e, anche se in termini diplomatici, lo lascia capire lo stesso ministro Patroni Griffi: «Credo che occorra sperimentare tutte le soluzioni possibili per avviare a soluzione il problema. Questo, naturalmente, non significa che ci sarà una stabilizzazione di massa». Quello che resta aperto è solo uno spiraglio: «Bisogna individuare un percorso che consenta il loro graduale assorbimento ma che sia rispettoso del principio del concorso e che non blocchi per anni la possibilità di immettere giovani». Insomma, dialogo aperto per evitare lo scontro con i sindacati in un momento delicato come questo.
Ma la sostanza è che per i precari della pubblica amministrazione le speranze sono poche. «Un fatto grave — dice Paolo Pirani, segretario confederale della Uil — anche perché viene ignorato un passaggio dell'accordo che avevamo firmato con il ministro il 3 maggio scorso». Quell'intesa fissava alcuni principi che dovrebbero guidare l'estensione al settore pubblico della riforma del mercato del lavoro. «Uno dei punti condivisi da tutti — dice Pirani — stabiliva che in attesa del passaggio alle nuove regole, i contratti a termine sarebbero stati rinnovati». Una promessa non facile da mantenere. Nel settore privato la riforma è in vigore da poco più di un mese, e tra i primi effetti c'è proprio il mancato rinnovo dei contratti a termine senza che questo porti ad un'assunzione a tempo indeterminato, come nelle intenzioni del governo. Sui precari anche la Cisl è preoccupata: «Bisogna studiare il modo — dice Giovanni Faverin, segretario generale per il comparto Funzione pubblica — di favorire nel lungo termine la stabilizzazione di chi ha un contratto a termine». Ma è davvero l'unico punto sul quale i tre sindacati parlano ad una voce sola.
Sugli esuberi — cioè i tagli del 10% del personale e del 20% dei dirigenti — il ministro Patroni Griffi si dice pronto a cercare un'intesa con i sindacati «senza però accettare veti». Cgil e Uil confermano lo sciopero degli statali programmato per il 28 settembre perché, dicono, il confronto riguarderà non il numero degli esuberi ma solo la gestione delle procedure. Non la sostanza, insomma, ma i dettagli. La Cisl, invece, sceglie una linea diversa: conferma il suo «no» allo sciopero e parla di segnali positivi arrivati dal governo. «In altri Paesi come Spagna e Grecia — dice Faverin — il settore pubblico ha subito tagli agli organici e allo stipendio senza che i sindacati avessero nemmeno la possibilità di parlare. Finché c'è un tavolo al quale discutere non preferiamo restare seduti».

Repubblica 5.9.12
Imu, decreto in ritardo la Chiesa non paga
Il gettito stimato dall’associazione dei Comuni è pari a 600 milioni cifra sempre contestata dalla Cei
di Barbara Ardù e Valentina Conte


ROMA - La tanto invocata estensione dell´Imu agli immobili della Chiesa, anche per evitare la procedura d´infrazione della Ue per aiuti di Stato, rischia di trasformarsi in un clamoroso flop del governo. Il decreto attuativo per il pagamento dell´imposta non c´è ancora. E in assenza, a beneficiarne, non sono solo gli istituti ecclesiastici, ma anche sindacati, fondazioni e associazioni. Il ministero del Tesoro assicura: ci lavoriamo, ma la materia è complessa. In ballo ci sono oltre 600 milioni di euro. Doveva essere una svolta storica. Per ragioni di equità, ma anche per evitare la procedura d´infrazione dell´Unione europea per aiuti di Stato. Eppure la tanto invocata estensione dell´Imu alla Chiesa rischia di trasformarsi in un clamoroso flop. Il decreto del ministero dell´Economia, atteso per la fine di maggio, ancora non esiste. E senza, dal primo gennaio 2013, la Chiesa continuerà a non pagare l´Imu. Così partiti, sindacati, fondazioni, associazioni. Una beffa. La notizia, rilanciata dal quotidiano Milano Finanza, rimbalza nei corridoi di via Venti Settembre. L´imbarazzo è palpabile. «Nessuna proroga all´imposta, il decreto arriverà a breve e poi dovrà passare l´esame del Consiglio di Stato», si affrettano a precisare, nel tentativo di stemperare il ritardo cronico del ministero dell´Economia. E non solo su questa materia, visto che il dicastero guidato da Grilli deve varare ancora tre quarti dei provvedimenti attuativi delle sette grandi riforme targate Monti. «Il ritardo si deve all´esame complesso della materia», spiegano. «Ma questo non pregiudica la corretta applicazione della norma, anche perché la scadenza della prima rata è il 16 giugno 2013». Tutto vero. Peccato però che in base all´articolo 91 bis del Cresci-Italia, aggiunto con un emendamento firmato da Monti in persona e presentato dal premier in Senato lo scorso 27 febbraio, l´esenzione all´Imu «si applica in proporzione all´utilizzazione non commerciale dell´immobile quale risulta da apposita dichiarazione». Dichiarazione da presentare entro il 2012 per pagare nel 2013, in base al modello disposto dal decreto del ministero. Che ancora non c´è. La Chiesa - e gli altri enti - non devono alcuna Imu sugli edifici o loro porzioni nei quali si svolge attività no profit, che non dà lucro, come il culto o il volontariato. Mentre «alla frazione di unità» in cui si fanno utili si applicano le regole valide per tutti gli altri proprietari. Il punto è proprio questo. Un bar in parrocchia deve essere accatastato ex novo. Senza bisogno di decreto. Ma per tutte le superfici meno individuabili (la maggior parte) si procede in base a «un rapporto proporzionale» (il 10% commerciale, il resto no, ad esempio), secondo le modalità del regolamento "fantasma". Il decreto, tra l´altro, dovrebbe precisare anche tutti i casi in cui escludere scuole e ospedali cattolici (ma anche altri enti) dall´Imu, come anticipato da Monti a febbraio. Esentati solo se non iscrivono utili a bilancio. Il gettito stimato (Anci) da questa porzione di Imu è pari a 600 milioni. Cifra sempre contestata dalla Cei (vescovi).
In Italia ci sono oltre 8000 istituti dove si pagano rette fino a 7mila euro
Sono oltre ottomila le scuole paritarie o private gestite da religiosi. Asili e materne, scuole medie e anche licei, alcuni molto prestigiosi. Un patrimonio sconfinato, vicino al miliardo di metri quadrati, per un valore approssimativo di 1.200 miliardi di euro. Come le scuole pubbliche non hanno mai pagato l´Ici, nonostante per frequentarle sia richiesta una retta, che spesso è piuttosto elevata. Per studiare nei licei più quotati si può spendere oltre 7mila euro per anno scolastico. Il testo del governo prevede che per ottenere l´esenzione dalla tassa sugli immobili gli istituti paritari debbano svolgere un´attività esclusivamente didattica. Non solo. Gli eventuali profitti derivanti dalle rette vanno reinvestiti nell´attività didattica.
La norma prevede lo stop all´esenzione per circa 2000 case di cura e cliniche
Una cappella e le case di cura e le cliniche private gestite da religiosi sono state sempre esenti dal pagamento della tessa sugli immobili. Un altare e un inginocchiatoio sono sufficienti a definire non totalmente commerciale un´attività dove in realtà quella prevalente è la cura o la riabilitazione, non la preghiera. Molte sono strutture di lusso, dove la degenza si paga a caro prezzo. Ce ne sono circa 2.000 in Italia e nella maggioranza dei casi, avvalendosi del decreto 223/2006 Visco-Bersani, non hanno mai versato nessuna imposta nelle casse dell´erario. Alcune, come il Centro Don Orione di Roma, sono in causa con il Comune, proprio perché la riabilitazione che viene effettuata è a pagamento. Rimangono invece esenti gli ospedali religiosi accreditati con il Servizio sanitario nazionale.
Bar e negozi nei santuari e negli oratori ma anche nelle sedi di partiti e sindacati
NEL decreto Cresci-Italia anche le Onlus, le sedi dei partiti politici e dei sindacati, che ospitano bar o negozi, finiscono nel mirino della tassa sugli immobili. Nel testo Palazzo Chigi non fa infatti mai riferimento alla Chiesa, ma solo al tipo di attività che viene svolto. Dunque se c´è un´attività commerciale, che essa si trovi in un oratorio (dove spesso c´è un bar) o in un santuario, (dove abbondano i negozi che vendono immagini e oggetti religiosi), arriva la tassa sull´Imu. Ciò che vale per la Chiesa vale dunque anche per organizzazioni no profit, partiti, sindacati, associazioni. In sostanza l´esenzione dalla tassa sugli immobili dovrebbe essere prevista solo per quei locali nei quali si svolgono «in modo esclusivo» attività non lucrative. Dove non c´è business dunque niente tassa. Ma basta una cassa per far scattare l´aliquota.
Pensioni per studenti mascherate da conventi saranno tassate anche se c´è una cappella
Non basterà più l´attività non commerciale «prevalente» per esentare gli immobili posseduti e gestiti enti ecclesiastici dall´Imu. L´attività, in base alla nuova legge, dovrà essere «esclusivamente non commerciale». Di conseguenza, ostelli, case per ferie o di studio, collegi gestiti da frati, suore, ordini religiosi vari, che fino a oggi sono riusciti a dribblare l´imposta solo grazie, magari, alla presenza di una cappellina sul piano, dovranno abituarsi all´idea che l´Imu vale anche per loro (ma alcuni la pagavano già). Un censimento ufficiale di queste strutture religiose non esiste. Molte sono concentrate a Roma, come ovvio. Città in cui il mancato gettito della vecchia Ici, riferito a strutture che sembrano ostelli ma che spesso si rivelano hotel di discreto livello, sarebbe pari a 25,5 milioni di euro.


l’Unità 5.9.12
La sinistra di governo
di Mario Tronti


PER LA BUONA BATTAGLIA, I CAMPI DELLA LOTTA VANNO BEN DEFINITI. PRIMA LE IDEE, CERTO, le proposte alternative, su cui poter scegliere, con coscienza e coerenza. Su questo, siamo avanti. La Carta di intenti è chiara. I punti sono fermi. Si può discutere, approfondire, aggiungere, articolare. Soprattutto, consultare: i militanti, gli elettori, i cittadini. Ma c’è da tener presente che questo è un tempo distratto rispetto al mondo delle idee. Davanti ad esse sta, sovrastante, l’immagine. Come, davanti al reale, sta, prepotente, il virtuale.
Questo comporta che l’offerta politica di oggi pretende che davanti al programma ci sia un volto. Non è bene che sia così. Ma è così.
Il problema che si pone è di presentare una diversa forma di volto, una radicale alterità di immagine. Credo che uno degli snodi di uscita da quella che si chiama seconda Repubblica sia comparso quel giorno in cui Bersani ha detto: non troverete mai il mio nome sul simbolo di partito. Ecco, lì si è aperta una via. Non so se la prossima legge elettorale abbia l’audacia di imporre questo vincolo. Non penso proprio: anche se l’abbandono di un maggioritario personalizzato andrebbe in quella direzione. Ma questa decisione unilaterale fa la differenza, proprio sul piano dell’offerta politica. Se alla figura del candidato premier si accompagnasse la proposta di una possibile squadra di governo, sarebbe perfetto. La politica, seria, e vera, riprenderebbe fiato. E, con essa, il primato delle idee sulle persone. In questo senso, il futile chiasso giornalistico sui competitors alle primarie mi pare riporti indietro le cose.
Se il volto per gli altri è la faccia del leader, per noi è il corpo del partito. Una comunità, di donne e di uomini, che sulla base di un programma per il presente e di un progetto per il futuro, chiede un consenso di popolo per governare e per cambiare. Qui è la diversità, e qui l’identità. Il riscatto della politica sta molto nel ritorno di un confronto tra esperienze politiche collettive, che mostrino di avere un proprio comune sentire, finalizzato a un compito per l’oggi e a una visione per il domani. Mai come in questo particolare momento, queste due dimensioni si richiamano e si completano. Bisogna uscire bene dall’esperienza transitoria del governo tecnico. Uscirne bene vuol dire superare ambedue le emergenze, quella economico-finanziaria e quella politico-istituzionale. Il governo del dopo elezioni avrà questo come compito immediato.
Allora diventa essenziale la definizione dei campi. Non è politicismo. È politica. Lo schieramento di sinistra che si va configurando ha interesse a che si organizzi una seria forza di centro. Questa deve prendere su di sé un compito preciso, a cui il Pd non può assolvere, tanto meno Sel: ripoliticizzare il fronte moderato, spoliticizzato dai vent’anni di berlusconismo. Si è parlato in questi giorni della figura di De Gasperi. Proprio di quella operazione degasperiana che la Dc fece con successo nell’immediato dopoguerra, c’è bisogno. Allora, quello che residuava dal consenso di massa al regime fascista, che cominciava ad esprimersi nelle forme del qualunquismo, fu recuperato dentro le nuove forme della democrazia nascente. Oggi è quella cosiddetta pancia del Paese, che si esprime nelle forme di una rabbia  antipolitica, sempre più volgare, a scendere, dal leghismo, al berlusconismo, al grillismo, che va recuperata e in qualche modo ridemocratizzata. Bisogna togliersi dalla testa il sogno che possa nascere in questo Paese una destra normale. In tutti i Paesi che hanno attraversato un’esperienza totalitaria, Italia, Germania, Spagna, questo non è stato possibile. Sono nate delle piccole sette antisistema e delle consistenti forze centriste. Occorre intendersi sull’idea di grande coalizione. Grosse Koalition è esperimento fondamentalmente tedesco. E lì non è, non è mai stata, transitorio accordo di governo tra destra e sinistra, ma tra un forza di centro e una forza di sinistra. Se si porrà, qui da noi, la necessità di un passaggio di questo tipo, questo è l’unico modo in cui può essere considerato.
Ma lo sguardo va gettato oltre la siepe. Una sistemazione di lungo periodo del nostro sistema politico può essere quella di un bipolarismo e, tendenzialmente, di un bipartitismo tra queste due forze. Risolverebbe molti problemi. Sulla base di un comune patriottismo costituzionale, si potrebbe tornare alla competizione sui temi decisivi di società e di civiltà. Al centro dell’agenda politica, non più la giustizia, il conflitto di interessi, le intercettazioni, la Rai, ma un confronto a livelli culturali alti, tra liberismo e solidarismo, con quello che queste due visioni alternative comportano, come modello sociale, come questione antropologica, come uguaglianza, libertà, diritti. Non è vero che così lo schieramento di sinistra sarebbe condannato all’opposizione. Solo così si aprirebbe invece per esso la grande sfida sul futuro.
Qui va continuato un discorso già iniziato. Superare le due sinistre, non vuol dire tornare alla sinistra del passato. Il salto va fatto in avanti. Se è necessaria un’operazione neodegasperiana, non è necessaria un’operazione neotogliattiana. Per una ragione semplice: perché il popolo di sinistra è saldamente inserito nelle istituzioni democratiche. I due leader storici attenzione, però, attraverso i loro partiti dopo aver fatto la Costituzione hanno costituzionalizzato il Paese reale, dopo aver fatto la Repubblica hanno radicato lo spirito repubblicano nelle masse cattoliche, socialiste, comuniste. Quello che è accaduto nell’ultimo ventennio è che questo edificio è franato dal lato del fronte moderato. E la sinistra è stata gravemente colpita dai massi che cadevano giù da questa frana. Non bastava scansarsi. Bisognava alzare un muro di contenimento. Comunque adesso è esattamente questa la situazione che va sanata: in un accordo di legislatura neocostituente per la ricostruzione politica, come allora per la ricostruzione economica. È così che va giocata la carta di una sinistra di governo. Le risorse dal basso ci sono. Ma bisogna scegliere. Guardate quel popolo che si è raccolto intorno alla figura del cardinale Martini, non solo a Milano, ma in commosso silenzio nelle case di una gran parte del Paese. Confrontatelo con queste piazze vocianti intorno al palco di qualche comico o di qualche sindaco. Da una parte un popolo di «pensanti», dall’altra una folla di passanti.
Poi, la potremo chiamare in altro modo. Ma quando penso alla sinistra, il volto, ecco appunto, il volto, che mi si staglia davanti è quello di Berlinguer, è quello di Martinazzoli. Politici della crisi, serietà della vita, compostezza d’animo, intelligenza degli avvenimenti, è vero, anche un pizzico di melanconia per come vanno le cose del mondo e per i personaggi che questo riesce a produrre. E dunque, mai stare dalla parte dei grandi, sempre stare dalla parte di quelli che padre Pio Parisi chiamava «i piccoli». Ma questa è una sinistra maggioritaria di governo.

l’Unità 5.9.12
De Gasperi e Togliatti: l’intreccio di due radici
di Bruno Gravagnuolo


DECISIVO DIBATTITO QUELLO SU TOGLIATTI E DE GASPERI. E per nulla ozioso o passatista. Perciò ha fatto bene l’Unità ad aprirlo con Michele Prospero nell’anniversario della morte di Togliatti. Che cosa c’è in gioco? Non solo il giudizio storico sui due leader. Ma quello sull’identità del Pd, problema aperto. Visto che nel Pd confluisce l’eredità di entrambi. In sintesi, De Gasperi incarnò un popolarismo di centro, aperto a sinistra. E perciò: interclassismo mobile e inclusivo nel leader trentino. Partecipativo. All’ombra dell’inevitabile ricostruzione capitalistica del dopoguerra (e dentro i blocchi geopolitici contrapposti).
Togliatti invece fu il nuovo Pci, gradualista e di massa, erede della tradizione socialista. In pratica il suo Pci fu l’avanguardia riformista del movimento operaio. E Togliatti il suo capo nazionale, con un forte legame con l’Urss, ma senza subalternità (di qui l’ambivalenza di quel Pci, fino allo strappo e al Pds). Cosa significò tutto questo? Nent’altro che la costruzione, culturale e materiale, della democrazia italiana. Frutto precipuo di due spinte storiche contrapposte e convergenti: popolarismo e movimento operaio. Insomma al netto della guerra fredda e delle rispettive mitologie e lealtà internazionali Pci e Dc cofondarono la Repubblica. Raccogliendo sotto le loro bandiere il grosso del popolo italiano.
E questa è la storia passata. Ma il futuro? Il futuro, almeno per quel che riguarda il Pd, non può che partire dalle «radici», senza le quali cui non v’è prospettiva a venire. E le radici chiave restano due: movimento operaio e popolarismo. Oppure, se si preferisce, lavorismo e interclassismo partecipativo di cittadinanza. È dallo scontro e dall’incontro di queste due grandi correnti che dipende l’avvenire d’Italia, e quello del Pd. Scontro e incontro che deve produrre un grande partito di governo: vittorioso. Con un avversario comune: il neoconservatorismo liberale e populista.

Repubblica 5.9.12
La memoria corta
di Franco Cordero


Tra i difetti italiani uno è la memoria corta: difetto grave in politica, perché la razionalità delle scelte presuppone analisi esatte; svanendo il passato, errori radicati nell´istinto ricorrono a cicli. Tale punto debole spiega come mai la storia prefascista, fascista, postfascista sia così vischiosa. Suggerisce qualche rilievo clinico il conflitto Quirinale-Procura palermitana, gran questione estiva 2012, obliquamente rinfocolata dal berlusconiano «Panorama», e cominciamo dal Presidente. Lo connota mezzo secolo d´una disciplinata e poco visibile carriera nel partito-Chiesa dove ai bei tempi pontificava Palmiro Togliatti, Talleyrand rosso: nessun sospetto d´eresia, chierico fedele; estinta Mater Ecclesia moscovita, naviga nella scia postcomunista. Aveva presieduto la Camera e guida gl´Interni, passandovi sine strepitu: diventa senatore a vita; che sia statista d´anima liberale, è avventato supporlo. Quando gli ex compagni tornano al governo in coalizione suicida, sale al Quirinale, figurando meglio dei concorrenti. In capo a due anni l´Affarista riprende lo scettro governativo sulle ali d´una maggioranza bulgara, deciso a rifondare lo Stato in signoria personale: il primo passo è l´immunità, necessaria a chi, trascinando vari conti penali, s´avventura ancora pericolosamente; vuol essere persona «sacra e inviolabile» (lo erano Carlo Alberto e successori, articolo 4 dello Statuto).
La congiuntura climaterica richiede un uomo dalle idee chiare, risoluto contro la deriva piratesco-plebiscitaria, e sotto tale aspetto gli manca qualcosa: sta bene schivare i traumi; ogni tanto però appare inerte, quasi fosse timido o non avvertisse i pericoli. Era scelta malaccorta immischiarsi nel cosiddetto lodo Alfano, risuscitando un privilegio immunitario affossato dalla Consulta: la stessa sorte tocca al precario redivivo; affiora una punta d´ira nella stupita nota emessa dal Quirinale. Siccome Palazzo Madama riacconcia la soperchieria nel ddl costituzionale 2189, una lettera 22 ottobre 2009 «formula profonde perplessità», e non perché sia biasimevole mettersi au dessus de la loi: questa terza versione affievolirebbe l´immunità processuale che rivendica per sé ex art. 90 Cost.; opinione insostenibile, né esistono prassi in tal senso (vedi Alessandro Pace, nel «Mulino», 2012, 24-34, 58-60). Quanto alle «larghe intese» che assiduamente predica, il punto è dove miri l´impresario d´affari oscuri: avesse mano libera, saremmo repubblica peronista in peius (al posto del generale, un plutocrate stregone del medium televisivo, attivo dovunque pulluli denaro); e il paese drogato accumula debiti. Gianni Letta va e viene benedicente tra Palazzo Grazioli e Monte Cavallo. In alto loco disturbano i discorsi sul notorio morbo italico, quasi fosse disfattismo. Grazie al Cielo, Berlusco ormai infelix butta via la messe elettorale con vari passi falsi, incluse le notti d´Arcore, segnale d´una lugubre débâcle, così percepita dal pubblico; perdente in casa, alle urne milanesi, affoga nella crisi economica, svelandosi inetto fuori delle scorribande sotto bandiera nera; chi fosse, era evidente al primo sguardo. Stavolta il Presidente agisce comme il faut, imponendo le ormai inevitabili dimissioni, decretate dalle borse: eravamo a due passi dalla bancarotta; e installa un governo cosiddetto tecnico. Ben fatto.
Il solstizio d´estate porta tempeste politiche. Pubblici ministeri palermitani indagano sui negoziati che vent´anni fa uomini dello Stato conducevano con la cupola mafiosa, gratificata d´ampi favori, e un ex ministro degl´Interni, nonché vicepresidente del Csm, testimone sospetto, poi incriminato, arremba negli appelli al Quirinale invocando una tutela indebita: il caso vuole che i suoi telefoni fossero sotto controllo; le parole d´un consigliere scoperchiano interni poco lodevoli. Due volte risuona la Voce ma poiché i contenuti risultano irrilevanti, nastri e verbali restano segreti: spetta al giudice delle indagini preliminari disporre l´eventuale distruzione, sentite le parti private; è procedura codificata. Qui il Presidente insorge: l´intrusione ledeva spazi inviolabili; l´intero flusso verbale è tabù (vocabolo d´un lessico primitivo, tale essendo anche l´idea); materiale del diavolo, da incenerire a porte chiuse, e honny soit chi avendo udito o visto qualcosa, ne parli. Dirlo non costa niente ed esclamativi corali lo ripetono, senonché il discorso giuridico ha regole ferme, specie negli ordinamenti a fonti chiuse. Vanno col vento i canti ad laudandum dominum contro ermeneutica e sintassi, malviste dai cultori del potere. L´escalation culmina nel conflitto davanti alla Consulta. Deve essersi acceso un lume tra gli apologeti, infatti smussano le punte: a parte qualche armigero tardivo, nessuno grida più che l´ascolto fosse abuso o addirittura eversione; la parte pubblica applica norme vigenti, ammettono i cauti, quindi niente da obiettare; dica la Corte se esistono lacune e come rimediarvi. Gli eufemismi sottintendono l´augurio d´un epilogo dolce, quale sarebbe desistere dal ricorso, ma affermandosi «inviolabile» s´era molto esposto, forse troppo. Comunque vada, la partita finisce in perdita secca.
Siamo nel paradosso del medico untore: il governo dipende da una molto anomala maggioranza, dove l´unico interessato alla malora veste da «patriota statista»; e in casi simili le difese cominciano dalle idee chiare. Chiamate alle armi contro i fantasmi, invece, confondono i quadri. Chiude il memento una notizia insistente: che tra i possibili senatori a vita (uno eligendus est) il favorito sia Gianni Letta: nella compagnia d´Arcore è gentiluomo dal sorriso cardinalesco, consigliere intimo del Re Lanterna, ciambellano, plenipotenziario; figura d´ancien régime, sarebbe perfetto con parrucca, cipria, lorgnette. Dio sa quanti negozi gli passino sotto mano. Titoli ragguardevoli ma l´Italia dista un oceano dalle Antille, né al Quirinale siede l´Olonese (vi puntava e non sarebbe lui se, vistosi nello specchio morale, desistesse dalla corsa): l´articolo 59 Cost. richiede «altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e [rectius "o"] letterario; sarà arduo dire, sfidando i sogghigni, in qual modo abbia «illustrato la Patria».


l’Unità 5.9.12
Enrico Rossi: «Per le primarie non basta un camper. Ci vogliono regole»
Il presidente della Toscana condivide la proposta di Marini: «Sì all’albo degli elettori e al doppio turno Renzi sbaglia a non fare i conti col berlusconismo»
intervista di Vladimiro Frulletti


Subito le regole, albo degli elettori e doppio turno, perché non c’è più tempo da perdere». Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, il Pd e la coalizione a stabilire il prima possibile i termini della gara delle primarie e fa proprie le proposte che Franco Marini ha fatto su l’Unità. Quanto ai concorrenti boccia senza appello, «inadatto», il sindaco di Firenze Renzi che accusa di sparare «a palle incatenate contro il Pd».
La corsa per le primarie è partita...
«Una ben strana gara».
Perché?
«Non esiste una gara per cui uno decida per proprio conto di partire senza le regole. A Colle Val d’Elsa, in Toscana, nel senese c’è il distretto nazionale della camperistica. Non vorrei che senza regole molti pensassero che basti prendere un camper in affitto per iscriversi alla corsa. Magari questo farà bene al settore, ma non certo al Pd».
Ce l’ha con Renzi?
«Non ce l’ho con nessuno, ma credo che sia singolare che si allestiscano camper e si fissino date di campagna elettorale senza un minimo di regole. Ad esempio sul tetto per le spese».
Che rischi vede?
«Di trovarci in una situazione nella quale il leader del centrosinistra viene scelto con la partecipazione determinante degli elettori di del centrodestra. E non vorrei ritrovarmi in situazioni imbarazzanti come quelle di Palermo o Napoli. Si minerebbe la credibilità del nostro partito. Non c’è più tempo da perdere». Quali regole vorrebbe?
«Quelle che propone il presidente Marini le trovo molto sensate. Formare rapidamente un albo degli elettori di centrosinistra e doppio turno».
Con l’albo degli elettori non sarà più difficile la partecipazione dei cittadini?
«No, non credo. Chi è interessato davvero a partecipare può farlo assumendosi fino in fondo le proprie responsabilità. Qui in gioco del resto c’è una posta decisiva per la sinistra e il Paese. Non ci è dato di sbagliare».
Cosa teme?
«Mi pare che molti hanno interesse a indebolire il Pd e la candidatura Bersani che è l’unica che può evitare che si producano divisioni e sbandamenti». Renzi no?
«Mi pare difficile che Vendola ad esempio possa starci. Bersani è l’unico che può tenere insieme i progressisti e trovare un accordo col centro. Questa è la sola strada per battere le soluzioni tecnocratiche sia di chi pensa alla grande coalizione anche dopo il voto, sia di chi ritiene che un premier politico sia una scelta sbagliata».
E per lei Renzi non sarebbe adatto?
«Non lo so se è adeguato. Per qualsiasi ruolo oltre al talento serve anche una certa esperienza e a me non risulta che Renzi abbia mai fatto esperienze nazionali. E ancor meno mi convince quando sostiene che tutti quelli prima di lui hanno fallito. Renzi non vuole fare i conti col berlusconismo. Anzi si rifiuta apertamente di attaccarlo. A volte si ha la sensazione che abbia voluto costruirsi una fortuna sparando a palle incatenate sul Pd».
Il rinnovamento al Pd non serve?
«È necessario e dovrà essere profondo perché è giunta a conclusione l’esperienza di un gruppo dirigente. Ma un conto è questo, un conto è correre il rischio di favorire oggettivamente il centrodestra indebolendo il Pd. Io sono d’accordo con Renzi per applicare la regola sul limite dei 15 anni in Parlamento, ma anche sulla regola per cui chi ha ricevuto un mandato diretto dagli elettori, come un sindaco, lo rispetti fino in fondo. In giro fra la gente sento molta rabbia e non per le primarie».
Che vuol dire?
«Che ha ragione Bersani. Il Pd deve occuparsi del lavoro che non c’è, del credito alle imprese. Guai a noi se dessimo l’idea di essere ripiegati in battaglie personali».
E che dovrebbe fare il Pd?
«Rilancerei la proposta Camusso di detassare le 13esime, trovando le risorse nella lotta all’evasione fiscale. Serve un gesto forte almeno quanto quello che il Pdl manda ai suoi elettori quando s’oppone alla patrimoniale».

l’Unità 5.9.12
Primarie ad alto rischio per il Partito democratico
Se la sfida è tra «vecchio e nuovo», e non tra diverse idee di rinnovamento, perdono tutti
di Francesco Cundari


La campagna per le primarie è cominciata subito e senza troppi complimenti, almeno in quello che verosimilmente ne sarà l’epicentro: il Partito democratico. Tanto che si fatica a ricordare che di primarie di coalzione si tratta, convocate cioè per scegliere il candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi, non il segretario del Pd.
Almeno in questi primi giorni, infatti, su tutto si è concentrato il dibattito, le dichiarazioni dei protagonisti, i titoli dei giornali, i commenti degli osservatori, meno che sul programma di governo e i problemi del Paese, il modo di affrontare la crisi dell’euro che tiene l’Italia in bilico sui mercati internazionali e le crisi industriali che minacciano migliaia di lavoratori. Anzi, quando a Renzi i cronisti hanno chiesto dell’Ilva o dei minatori del Sulcis, il sindaco ha replicato stizzito che non era un jukebox da dichiarazioni e non potevano fargli domande su tutto. Mentre Pier Luigi Bersani, nella conferenza stampa seguita ieri all’incontro con i lavoratori dell’Alcoa, all’inevitabile domanda sulle primarie, rispondeva: «Oggi ci occupiamo di lavoro». Ma non dovrebbe essere proprio questo il primo e il principale tema della campagna per le primarie, assai più che la composizione del gruppo dirigente del Pd, il suo maggiore o minore grado di rinnovamento, e quanta e quale parte di esso meriterebbe di entrare nella futura eventuale squadra di governo? Eppure è questo il tema delle primarie, del dibattito interno al Pd, dei commenti e dei resoconti sulla stampa.
Se però la sfida delle primarie diviene una sfida tra vecchio e nuovo, invece che tra diverse opzioni politiche, ugualmente legittime, ciascuna portatrice di una propria idea di rinnovamento, è molto alta la probabilità che a perdere, comunque vada, sia il Partito democratico, e con esso tutto il centrosinistra. Se la sfida per una leadership e un progetto di governo del Paese si riduce a una battaglia interna a un partito, per di più tutta incentrata sugli organigrammi, l’anzianità e le biografie personali, è evidente che il risultato non può in nessun caso essere positivo né per il partito, né per la coalizione. Non per niente, su tutti i giornali già si sprecano maliziosi paralleli tra Renzi e Grillo, dove al sindaco di Firenze spetterebbe alle primarie la parte che alle elezioni è attribuita
all’ex comico: il nuovo contro il vecchio, senza tante distinzioni di merito.
Bersani avrebbe naturalmente tutto l’interesse a uscire quanto prima da questo schema. Il problema è che tanto nella competizione delle primarie quanto in quella delle politiche il segretario del Pd deve fare i conti con mille vincoli, non solo esterni. Deciso a farsi carico fino in fondo della responsabilità di sostenere il governo Monti assieme al Pdl, Bersani paga il prezzo più alto a questa condizione di sostanziale sospensione della fisiologica dialettica politica destra-sinistra: condizione che non fa che offrire sempre nuovi argomenti ai sostenitori della teoria che «sono tutti uguali», e pertanto tutti ugualmente da rottamare. Un vantaggio per Renzi, nell’immediato, che però il sindaco può sfruttare fino a un certo punto, pena il rischio di ritrovarsi a capo di un esercito magari numeroso, ma percepito dal corpo del suo partito e del suo elettorato sempre più come straniero in patria, per non dire nemico. Anzi, da questo punto di vista, le insidiose e spesso provocatorie dichiarazioni a suo sostegno da parte di esponenti del centrodestra rappresentano una minaccia prima di tutto per lui.
Al termine di una competizione interna fondata sulla delegittimazione reciproca non ci sarebbero vincitori, solo vinti. Per dimostrare però che in gioco non ci sono soltanto ambizioni personali, ma diverse idee sul futuro dell’Italia, tutte ugualmente legittime, queste idee andrebbero rese esplicite, messe a confronto, discusse. E questo non è semplice né scontato. Anzi, a giudicare dal dibattito di questi mesi sul governo Monti e il «rischio» di un «ritorno della politica», non sembra scontato nemmeno che possano esistere idee diverse sul futuro dell’Italia; che cioè l’Italia e gli italiani, in sostanza, abbiano ancora il diritto di concepire idea alcuna sul proprio futuro. Ma se l’unico compito della politica consiste nel fare bene «compiti a casa» assegnati da altri, e il ruolo del leader si riduce al recitare un unico copione, scritto altrove e identico per tutti, non c’è da stupirsi se gli elettori si rivolgono a un commediante.

La Stampa 5.9.12
E Bersani ora dubita degli alleati
di Federico Geremicca


Matteo Renzi cresce nei sondaggi, miete simpatie anche fuori del Pd, richiama folle crescenti alle sue iniziative eppure paradossalmente non è il sindaco di Firenze, in queste ore, la preoccupazione maggiore di Pier Luigi Bersani. A campagna per le primarie ormai aperta (aperta senza regole e senza nemmeno la certezza che la consultazione avrà poi davvero luogo) quello che comincia a impensierire il segretario dei democratici sono gli scricchiolii e i riposizionamenti all’interno della maggioranza che lo ha sostenuto fino ad ora, e che dovrebbe spingerlo alla vittoria contro lo scatenato sindaco di Firenze.
Infatti, sotto l’effetto del ciclone-Renzi e alla luce di un paio di mosse del segretario che non pochi nel Pd hanno giudicato sbagliate la geografia interna al partito sembra mutare col passar dei giorni in maniera imprevedibile e non favorevole a Bersani.
Walter Veltroni è perplesso, tanto da augurarsi mentre molti degli uomini a lui vicini cominciano a spostarsi verso Renzi che le primarie non si svolgano; Enrico Letta e i suoi riflettono e tacciono, dopo alcune sortite del segretario giudicate eccessivamente anti-montiane; Romano Prodi non annuncia quello che pareva uno scontato sostegno al suo «ministro delle lenzuolate» e i cosiddetti «giovani turchi» sono partiti decisamente all’attacco e chiedono (proprio come il sindaco di Firenze) che «i vecchi si facciano da parte».
Un quadro, come si vede, non incoraggiante. Al quale si è aggiunta ieri una pesante e inattesa critica di Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale Pd, che ha chiesto a Bersani «una parola chiara» in difesa del gruppo dirigente, pena il rischio che «tra il battutismo renziano e le intemerate dei giovani turchi sul ricambio generazionale» le primarie si trasformino «in una farsa o in una impropria resa dei conti». E’ l’intero gruppo dirigente del Pd, insomma, a fibrillare sotto l’incalzare del «tutti a casa» urlato da Renzi in giro per il Paese. Fibrilla e sospetta che di fronte all’efficacia di quello slogan Bersani stia mettendo nel conto di abbandonare al loro destino alcuni dei più stagionati dirigenti del partito...
Non basta. Per i leader della maggioranza legata al segretario, infatti, gli imbarazzi di Bersani sul tema del rinnovamento non sono l’unica ragione di perplessità. Non sono piaciuti, per esempio, i toni riservati di recente al governo di Mario Monti e alla necessità del ritorno in campo della politica: sono parsi uno sgradito avvicinamento alle posizioni di chi considera il governo tecnico «una parentesi» da chiudere rapidamente, quasi fino a mettere in discussione perfino quell’«agenda Monti» considerata ancora ieri la stella polare del cammino futuro. La preoccupazione insomma è che complice la necessità di contrastare la linea moderata e filo-montiana di Matteo Renzi Bersani faccia ancor più sue posizioni «gauchiste» alla Fassina.
Anche il piglio da «candidato in pista» assunto dal segretario non convince molti. Non è piaciuta la decisione (solitaria) di dare del fascista a Beppe Grillo, trasformando in un colpo il Pd nel «nemico numero uno» del popolare comico genovese; non ha convinto l’articolo su Togliatti e il pantheon del Pd pubblicato da «l’Unità» (che avrebbe fatto davvero infuriare Romano Prodi) e ancor meno è stato gradito il mancato invito al ministro Fornero alla Festa nazionale Pd. Insomma, un decisionismo insolito per Bersani: e che sembra poter riservare una sorpresa al giorno, mentre i big del partito chiedono al segretario rassicurazioni e collegialità.
Una partita che sembrava senza storia, dunque, rischia di trasformarsi in una sfida dall’esito e dalle conseguenze imprevedibili. A ciò, più in generale, va aggiunta la sgradevole sensazione di confusione che regna con e tra i possibili alleati elettorali e di governo: Vendola contro Casini, Casini contro Vendola e il Pd che cerca di rassicurare e tenere tutto assieme. Inevitabilmente, torna a volteggiare il fantasma dell’Unione, quell’alleanza così indimenticabilmente eterogenea da portare al naufragio del secondo governo di Romano Prodi. E al di là delle primarie, è questo quel che rischia di render davvero più difficile una vittoria elettorale che pareva certa...

Repubblica 5.9.12
"Fatevi da parte o saremo travolti" nel Pd la battaglia tra generazioni
Bindi si appella a Bersani: devi intervenire tu, serve rispetto
D’Alema attacca Renzi: "Litiga con tutti". Serracchiani: "Ma lui avrebbe dovuto dimettersi"
di Giovanna Casadio


ROMA - Dispiace (a chi non dispiace "uccidere" i padri?), ma i trenta-quarantenni del Pd classificati sotto la sigla "rottamatori" oppure "giovani turchi" o "rinnovatori" hanno ingaggiato la battaglia contro i "vecchi" dirigenti. Non vogliono che "la foto di famiglia" dei governi Prodi, D´Alema, Amato sia riproposta. Renzi il "rottamatore" ne ha fatto la bandiera con cui scende in camper (il 13 settembre) nella sfida delle primarie: «Facce nuove, rottamiamo Bindi, D´Alema, Veltroni, Finocchiaro... «. Gli altri si incontrano (l´8 settembre a Reggio Emilia), attaccano («Quella immagine di famiglia è indigeribile») e con questo slogan alle feste democratiche incassano applausi. Solo un paio d´anni fa, nessuno avrebbe immaginato «i toni giacobini» dello scontro vecchi-giovani: ammette Andrea Orlando, responsabile Giustizia, bersaniano, anni 43.
Rosy Bindi - la cattolicodemocratica presidente del partito, vice presidente della Camera, due volte ministro, una carriera politica di battaglie in prima linea dal 1989 - posta sul suo blog l´indignazione e invita Bersani a chiarire sul «rinnovamento della classe dirigente che riguarda tutto il paese, non solo la politica, e che non può essere usato strumentalmente per coprire l´assenza di idee». Non si può andare avanti così: si sfoga. «Chiedere che nessun ministro dei governi Prodi, D´Alema, Amato faccia parte del prossimo governo di centrosinistra - denuncia - equivale ad accreditare l´immagine di un Pd complice dei fallimenti dell´era berlusconiana. Tra il battutismo renziano e le intemerate dei "giovani turchi" le primarie rischiano di diventare una farsa».
«Nessuna volontà di essere irrispettosi, però la presidente non ne faccia una questione di bon ton, non lo è. Sono i cittadini ad avere voglia di altre facce» replica Matteo Orfini, uno dei membri della segreteria, anni 35, responsabile Cultura. D´altronde occorre dare il senso della discontinuità rispetto ai governi di centrosinistra precedenti - ragiona - è «un punto politico, non anagrafico». Rincara Debora Serracchiani, europarlamentare, candidata alla guida della Regione Friuli: «D´Alema se non sbaglio ha perso. All´estero di solito chi perde si ritira, o fa un passo indietro, e non dia giudizi sprezzanti su Renzi». D´Alema, il lìder maximo, ex premier, ex ministro, che fu nel 2006 in corsa per il Quirinale, ora presidente del Copasir, giudica il trentasettenne Renzi non in grado di fare il premier, e ironizza: «Il problema di Renzi è Renzi! Litiga con tutti, con Bersani, Vendola, Bindi, Casini, noi abbiamo bisogno di uno che unisce».
Una cannonata contro la discesa in camper per le primarie di Renzi la spara Beppe Fioroni, altro big "rottamabile": «Se fa sul serio, Matteo si deve dimettere da sindaco di Firenze entro il 28 ottobre per partecipare alle elezioni di deputato o senatore. Non sarebbe certo possibile, se vincesse le primarie, che il capo dello Stato affidi l´incarico di governo a un non-eletto». Renzi è in volo per gli Usa, per lui rispondono i collaboratori: «Non ha intenzione di dimettersi, se perde resta sindaco non si candida in Parlamento». E Bersani? Il segretario del Pd ribadirà domenica a Reggio Emilia che punta a una squadra mista di «esperienze e giovani». Quando Bersani, D´Alema, Veltroni avevano quarant´anni - ricorda Stefano Di Traglia, portavoce del segretario, e "t/q", trenta/quarantenni - erano in governi con Ciampi, Napolitano, Andreatta, ci vogliono personalità che si affiancano a chi è più giovane». Orlando afferma: «Tutto il gruppo dirigente rischia di essere travolto e il Pd di perdere, se non ci si rende conto che questa è la richiesta dei cittadini, di cambiamento. Se riproponiamo un Prodi-ter, finiremmo per perdere, che non significa "tutti a casa" i vecchi dirigenti, come sostiene Renzi». Così la pensano anche Fassina, Nico Stumpo, Alessandra Moretti, il sindaco di Perugia, Boccali. E i "rinnovatori" di Gozi e Civati.

Repubblica 5.9.12
Lo schema prevede Bersani premier, Veltroni alla presidenza della Camera e D´Alema ministro
Il "grande patto" dei maggiorenti l’organigramma che blinda i big
Franceschini verso la segreteria, Fioroni e Bindi al governo. Il nodo del Quirinale
L’accordo sta garantendo una tregua nel partito tra i big l´attuale segreteria
Organigramma più sicuro se si evitano le primarie e lo scontro con il sindaco Renzi
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il patto di potere tra i big a cui si riferisce Matteo Renzi è anche l’organigramma dell´ultimo giro. È la spartizione di poltrone dei "vecchi", come si evince chiaramente dalle parole del trenta-quarantenne Matteo Orfini, unito al sindaco di Firenze solo dalla voglia non di mandare tutti a casa ma di non vederli più in prima fila. «Nessuno ex ministro dovrà tornare al governo nel 2013», avverte Orfini facendo capire che molti invece scaldano i muscoli. Ma anche Antonello Soro, prudente e navigato ex capogruppo del Pd alla Camera ora transitato all´authority per la privacy, descriveva, alla vigilia dell´estate, una futuribile divisione dei compiti: «Franceschini spera nella presidenza della Camera, ma per quel posto è in corsa Veltroni. A Dario daranno la segreteria del Pd».
Qualcosa più di una voce, dunque. Qualcosa, anzi molto meno di un patto blindato che sarebbe comunque sottoposto a un numero infinito di variabili, la prima della quale non è irrilevante: vincere le elezioni e gestire il ricambio di governo. In questo caso, quello che il Foglio ha chiamato "papello" ma che in realtà è vero un toto-poltrone, disegna così l´Italia del 2013. Pier Luigi Bersani premier, Rosy Bindi vicepremier, Veltroni presidente della Camera, D´Alema ministro degli Esteri o commissario europeo, Franceschini segretario del Pd, Fioroni ministro. Secondo Renzi questo tipo di intesa spiega l´insolita assenza di litigiosità tra le correnti democratiche. E sta alla base, per esempio, dell´equidistanza di Veltroni sulle primarie mentre gran parte dei veltroniani riconoscono nel sindaco di Firenze il vero erede del programma illustrato al Lingotto nel 2007. Ma la pianificazione a tavolino è reale? Pur coinvolto direttamente, sono mesi che Beppe Fioroni mette in guardia i suoi colleghi dalla sindrome dell´ultimo giro. «E se alla fine ci spazzassero via tutti?», dice.
In nome di quell´organigramma, si alzerebbero anche le dichiarazioni di chi vorrebbe evitare le primarie. La Bindi (pronta a correre nella complicata gara per il Quirinale) dice che non sa se si faranno, lo stesso Fioroni chiede a Renzi di dimettersi da sindaco se davvero ha intenzione di correre, Veltroni - che in subordine potrebbe approdare ad un "megaministero" per i Beni culturali e le Comunicazioni - vuole capire «primarie per cosa». Il duello interno come grimaldello per rinnovare il partito e soprattutto far saltare "l´organigramma", insomma. È così? Orfini le interpreta anche in questa chiave: «È chiarissimo perché qualcuno non le vuole. Scompaginano antiche consuetudini, rimettono in discussione big senza voti. Ma sono utili proprio per questo. Le primarie tra Renzi e Bersani si devono fare. Pier Luigi le vincerà». Con quali garanzie per i dirigenti più esperti?
Domande, dubbi, timori. Persino qualche ironia sulla recensione fatta da D´Alema sull´Unità al nuovo libro di Veltroni: sarebbe un´altra prova dell´entente cordiale. Sulle indiscrezioni, sullo scontro generazionale, sulle insinuazioni di cui "l´organigramma" fa parte a pieno titolo perché tira in ballo nomi molto conosciuti, Bersani rischia di vedere spaccarsi il partito. Orfini sa essere diretto come un cazzotto: «Il segretario uscirà da candidato premier nella sfida con Renzi. Ma io sarei ancora più sicuro della vittoria se fosse uno scontro diretto tra i due. Temo che il sostegno dei notabili a Pier Luigi si trasformi in una zavorra». È Bersani a dover sbrogliare la matassa di questo incredibile caso. Il leader ha già annunciato un ricambio robusto delle liste per il Parlamento e ha spiegato la sua alchimia per un eventuale governo di centrosinistra. «Qualche presidio di esperienza e tanti volti nuovi come ministri», ha spiegato. Un identikit e non un organigramma. Da sempre Bersani è uno dei dirigenti democratici più attenti ai giovani. Ha creato una segreteria di quarantenni, "scopre" ragazzi sui territori e li appunta su un quaderno, non gli dispiace l´idea di avviare una ristrutturazione del centrosinistra per lasciare spazio al nuovo. Ma, come dice D´Alema, Bersani deve anche tenere unito il partito. E da qualche giorno, vedendo allargarsi la polemica generazionale, insiste sul tasto in ogni occasione, in ogni festa democratica. «Non dimentichiamoci di chi ci ha portato fin qui». Che sono gli stessi che lo hanno portato alla segreteria nel congresso del 2009. Bindi gli ha chiesto di fermare la deriva del duello a distanza sull´età, gli anni in Parlamento, il limite dei mandati, gli "editti" di Renzi o di Orfini, l´epurazioni a mezzo stampa. Bersani farà chiarezza. Ma senza prendere la bandiera di una o dell´altra squadra. Sapendo che il rinnovamento potrebbe essere dettato dall´esterno. Dalle liste di Grillo, dai giovani che sceglierà Nichi Vendola per il suo partito, dalle mosse di Berlusconi.

Corriere 5.9.12
Protestanti «Rigorosi» del Nord contro Cattolici «Lassisti» del Sud
Dietro le polemiche sul debito un solco che risale a Martin Lutero
di Massimo Franco


Forse non tutti lo sanno, ma in Nord Europa molti pensano che lo spread alto sia il frutto di un peccato cattolico. In tedesco il termine «Schuld» non significa solo debito ma anche colpa. Sono sfumature semantiche che riflettono differenze culturali profonde. E aiutano a comprendere meglio la diffidenza marcata, fino al pregiudizio, di alcune nazioni europee del Nord nei confronti dei Paesi percepiti come membri di un incosciente «Club Med». Lo spread, il differenziale fra titoli di Stato italiani e spagnoli e quelli tedeschi, finisce così per assumere un'eco con vibrazioni etiche: discriminanti ben più dei bilanci dei singoli Stati. Rimanda senza volerlo, anzi quasi con la paura di dirlo, a valori che impastano cultura e religione, e iniettano nelle fibre stanche dell'Ue veleni antichi.
Di fatto, viene toccato e infranto un tabù che riporta in auge fantasmi di Riforme e Controriforme, e guerre combattute all'ombra del Dio europeo. Si tratta di un aspetto delle polemiche degli ultimi mesi affrontato solo di sfuggita. Eppure affiora a intermittenza, mentre l'euro comincia a evocare non più ricchezza e stabilità ma disoccupazione, povertà e declino. La retorica anti-italiana e anti-mediterranea, e all'opposto antitedesca, si nutre inconsciamente di stereotipi non soltanto culturali ma religiosi. «Verità» antiche, sepolte nella memoria del Vecchio Continente; e da non riesumare per non spezzare il faticoso compromesso fra nazioni che ha garantito per decenni pace sociale e politica. L'incertezza le riconsegna però a quanti propugnano nuovi isolazionismi, nella convinzione illusoria che da soli ci si possa salvare meglio.
È una solitudine accarezzata da alcuni circoli della Germania che si definisce luterana, e da Paesi a maggioranza protestante come Olanda, Finlandia, e via risalendo. Al punto che si è arrivati a teorizzare che se Martin Lutero, il teologo tedesco del XVI secolo, avesse potuto essere presente a Maastricht nel 1992, quando furono gettate le basi dell'unione monetaria, avrebbe bocciato l'adesione delle nazioni del Mediterraneo. «Leggete le mie labbra: nessun Paese cattolico che non ha vissuto la Riforma protestante» deve entrare nell'euro, si immagina che avrebbe detto Lutero. La tesi è di Stephan Richter, direttore del Globalist, il sito che analizza i trend mondiali nell'era della globalizzazione.
Richter è un commentatore cattolico ma soprattutto tedesco. E teorizza che «un eccesso di cattolicesimo danneggia la salute fiscale delle nazioni, anche adesso nel XXI secolo». Sarebbe questa la «legge di Lutero» che oggi il Nord Europa si rammarica non sia stata applicata; e la cui violazione sarebbe alla base di molti guai. Se invece le sue parole immaginarie fossero state interpretate a dovere, «l'euro sarebbe più compatto, e l'economia europea meno in difficoltà». Insomma, per analizzare l'idoneità di una nazione a far parte della moneta unica sarebbe bastato non passare al setaccio i suoi bilanci ma i suoi cromosomi religiosi: sarebbe stato tuto più facile. L'assunto è assai semplice: i cosiddetti Pigs, o Piigs, acronimo che sta per «maiali» in inglese e indica le iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, o con la doppia «i» comprende anche l'Italia, sono tutti Paesi con una maggioranza di cattolici, tranne la Grecia ortodossa.
La novità è che ultimamente l'etichetta sta assumendo non un significato congiunturale, legato a una crisi del capitalismo finanziario esportata dagli Usa, ma una sorta di sentenza di condanna definitiva nei confronti di una cultura, di un modo di governare; e, di nuovo, di una religione. Alla base della «colpa» delle nazioni indebitate ci sarebbe l'incapacità di emanciparsi dal cattolicesimo: un modo di vivere, prima ancora che una fede, passato dalla pratica delle indulgenze per farsi perdonare i peccati, a un'eccessiva tolleranza in materia di «peccati fiscali». La polemica sta spingendo economisti soprattutto spagnoli a risalire alle origini del capitalismo, smentendone l'origine protestante e mettendo invece in risalto il dinamismo di quello ispano-cattolico proprio al tempo di Riforma e Controriforma.
Ma la diatriba retrospettiva sui quarti di nobiltà capitalistica conferma solo l'ambiguità di un'operazione che rischia di preparare una rottura e non una riconciliazione europea. L'allarme di qualche settimana fa del presidente del Consiglio italiano, Mario Monti, sul rischio che lievitino le pulsioni antitedesche in risposta alla rigidità della cancelliera Angela Merkel, fa il paio con l'esasperazione della Germania profonda nei confronti delle nazioni mediterranee. L'amarezza di Benedetto XVI per l'ostilità nella sua Baviera contro l'Italia è quella di chi conosce in profondità la Germania; e sa che per il tedesco medio il fondo salva Stati sarebbe un cedimento alla «cultura del peccato» e del debito di un'Europa cattolica considerata incorreggibile.
Senza tener conto di questo sfondo, diventa difficile capire l'incomunicabilità apparente delle classi dirigenti europee; e il tentativo strumentale di alcuni circoli politici ed economici di sfruttarlo: di recente, la Bbc inglese ha parlato di «una linea di frattura religiosa nell'eurozona». Insomma, sembra quasi che sulla scia della crisi dei mercati finanziari si stia cercando di evocare un conflitto fra cattolici e luterani, con le polemiche sugli aiuti come casus belli. C'è chi spiega il conflitto latente con la torsione verso il nord e l'est dell'asse europeo in seguito all'allargamento; e dunque con un'ipoteca crescente delle nazioni protestanti. Non a caso oggi si dice che la Finlandia è nel cuore dell'Ue, mentre l'Italia sarebbe in periferia. È una delle molte conseguenze della fine della guerra fredda. Da una comunità europea che ha sviluppato la sua unità lungo un asse centro-meridionale, Germania-Francia-Italia, a quella egemonizzata da una nazione tedesca che a tratti sembra coltivare la rivincita delle tradizioni orientali e protestanti contro l'entusiasmo dei cattolici tedeschi nei confronti dell'Europa. La cancelliera Angela Merkel viene dalla Germania dell'Est ed è figlia di un pastore protestante. Lo stesso neopresidente tedesco, Joachim Gauck, è un ex pastore luterano. Per questo non sorprende che nel vertice dei capi di governo dell'eurozona, nel luglio scorso a Bruxelles, l'apparente vittoria della linea perseguita dall'Italia di Monti e dalla Spagna di Mariano Rajoy, ma anche dalla Francia di François Hollande, sia stata vissuta a Berlino come un colpo di mano della «nuova alleanza latina».
Ma la geo-religione dello spread in versione luterana costringe a qualche strattone politico-geografico. E il dubbio che vengano messi in fila e razionalizzati una serie di stereotipi è forte: per quanto la crisi economica li faccia passare in secondo piano. Se il debito è anche una colpa da espiare, e per la quale l'assoluzione giustamente non è più scontata, le scomuniche e i presunti primati geoeconomici e georeligiosi minacciano di risvegliare demoni destinati a ricacciare indietro l'Europa non di qualche anno, ma di decenni: quelli più bui.

l’Unità 5.9.12
Harlem Désir. Europarlamentare e coordinatore nazionale del Partito socialista francese, 53 anni, già presidente dell’ong «Sos racisme»
«Francia e Italia possono insieme cambiare le priorità»
di Umberto De Giovannangeli


«Il fattore tempo è decisivo, quanto lo è la necessità di rafforzare le istituzioni politiche, e non solo quelle economiche, dell’Europa. Occorre un salto di qualità nella definizione di una nuova governance europea che sia all’altezza della sfida decisiva: quella della crescita. In questa ottica, Hollande sta rafforzando quel patto euromediterraneo che vede l’Italia tra i protagonisti». A sostenerlo è Harlem Désir, europarlamentare e coordinatore nazionale del Ps francese. «È importante rileva Désir l’apertura di Hollande alla richiesta greca di avere più tempo per realizzare un risanamento che non comporti altra devastazione sociale. L’Europa deve ricominciare ad essere sinonimo di speranza, di solidarietà, di nuove prospettive in un mondo messo in crisi dal dominio dei mercati finanziari». Quanto al rapporto con la Germania, il numero due dei socialisti francese nega che Hollande intenda perseguire la strada di un direttorio franco-tedesco. «Il punto aggiunge è che è interesse dell’Europa, e non solo della Francia, portare la Germania su posizioni meno rigide. E le ultime affermazioni della cancelleria Merkel (i mercati non sono al servizio del popolo, ndr) confortano questa visione».
L’incontro a Roma tra Monti e Hollande apre una settimana cruciale per l’Europa. Con quali prospettive?
«La posta in gioco è quella di cambiare le priorità nell’agenda europea, al cui centro devono essere poste le misure necessarie, e non più rinviabili, per affrontare la sfida decisiva per il futuro dell’Europa. Questa sfida si chiama crescita. Ed è una sfida fatta di impegni concreti, che chiamano in causa non solo le istituzioni economiche dell’Europa, a cominciare dalla Bce, ma anche quelle politiche che non possono essere relegate ai margini del processo decisionale. Da questo punto di vista esiste una grande “questione democratica” europea. È su questo terreno che si misura la capacità dei progressisti di portare avanti una visione, un progetto di Europa alternativi a quelli dei conservatori. Il deficit democratico non è meno importante di quello di bilancio».
L’Europa come centro dell’azione politica.
«Non può essere altrimenti. Cercare soluzioni nazionali per uscire dalla crisi non è solo sbagliato, è qualcosa di anacronistico. Vuol dire non fare i conti con i processi di globalizzazione, le cui dimensioni sono tali da non permettere a nessun Paese europeo, da solo, di poter competere. L’Europa è al centro della crisi mondiale, perché la destra non è stata capace di attaccare la speculazione, smantellando così lo stato sociale e aggravando la situazione. Abbiamo una grande responsabilità verso la Grecia, la Spagna e gli altri Paesi attaccati dalla speculazione finanziaria e la risposta a questa crisi deve essere europea, un’Europa differente che discuta di crescita e solidarietà, che disponga di una moneta comune e di una finanza comune, partecipe di un’avventura comune: non vogliamo un’Europa del nord contro un’Europa del Sud».
A proposito di Grecia e Spagna. «Credo che l’Europa non decida abbastanza in fretta. Non possiamo aspettare ancora che la Grecia, la Spagna presentino nuovi rischi. Bisogna agire subito». Così Hollande a Roma.
«Di nuovo la centralità, tutta politica, del fattore tempo. La Grecia ha chiesto a l’Europa più tempo, non più aiuti. È una richiesta ragionevole che non va lasciata cadere nel vuoto. Lo stesso discorso vale per la Spagna. Indebolire i Paesi dell’Eurozona sarebbe una sciagura per tutti, anche per chi si crede oggi più forte. Ed è importante che Hollande e Monti si siano ritrovati nella definizione di una concreta road map a tre tappe per uscire dalla crisi. In questo contesto, l’affermazione di Hollande sulla Grecia conforta quanto abbiamo sostenuto in un appello lanciato da esponenti politici e intellettuali europei: è opportuno valutare una revisione realistica degli obiettivi di bilancio da raggiungere entro il 2014 che consenta alla Grecia di coniugare ripresa economica e sostenibilità dei conti pubblici».
Le dinamiche in atto confortano o mettono in crisi il «manifesto di Parigi»? «Non solo non lo mettono in crisi ma al contrario rende ancor più urgente la sua attuazione. Vogliamo rafforzare il ruolo della Banca europea degli investimenti, un migliore uso dei fondi strutturali europei. Pensiamo ad una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, sia per regolare i mercati finanziari e sia per generare nuove risorse (50 miliardi di euro l’anno) per sostenere misure per la crescita in Europa. Assieme al Pd e alla Spd abbiamo messo in campo una proposta relativa alla emissione di project bond e alla mutualizzazione dei prestiti, per finanziare iniziative per la crescita in settori strategici, come è quello, ad esempio della green economy, un campo nel quale l’Europa dovrebbe essere pioniera».

l’Unità 5.9.12
Michelle, la pasionaria
La First Lady grazie all’impegno personale e allo stile di vita è oggi più popolare del marito
Il suo compito è recuperare i consensi perduti tra le elettrici e gli afroamericani
di Martino Mazzonis


È stato il giorno di Michelle Obama alla convention democratica. E di una possibile star in ascesa del partito democratico, il giovane sindaco di San Antonio, in Texas, Julian Castro. Due facce diverse, due storie diverse ma nel complesso qualcosa di molto più somigliante all’America di quel che si è visto alla convention repubblicana di Tampa: la First lady che viene da una famiglia afroamericana di Chicago e che ha fatto strada grazie alla tenacia, al duro lavoro della sua famiglia e allo studio. Il giovane sindaco latino che rappresenta una storia simile a quella del presidente o viene venduto così da-
gli addetti stampa della convention. Il titolo della giornata di inaugurazione della convention di Charlotte era «Americans coming together», gli americani si ritrovano insieme e questa è l’impressione che gli speaker volevano dare dal palco. Il sindacalista, il vigile del fuoco, il sindaco della malmessa Newark, Cory Booker altra figura politica dal grande fascino e poi un membro della famiglia Kennedy, Joe III, candidato alla Camera, il governatore dello Stato ospite, due eletti a Washington di origine ispanica. Una foto dell’America, quella che sta bene,quella che fatica, i veterani, che sono tanti, gli eletti. Del resto il sindaco di Los Angeles a capo del comitato organizzatore di questa tre giorni, lo ha detto: «Questa sarà la convention più “diversa” della storia». Anche per le strade di Charlotte il calderone è “diverso” e complesso come la società americana. In questo centro urbano che ha conosciuto una crescita formidabile in pochi anni gli edifici sono tutti nuovi e la città è piccola e circondata di complessi in stile Wisteria Lane -, le facce dei delegati sono bianche, nere, ispaniche, asiatiche. E le espressioni sorridenti. Non sembra esserci il panico in questa città del Sud. Obama ha le sue difficoltà ma sembra esserci la consapevolezza che facendo uno sforzo su possono spiegare chiaramente le ragioni del presidente e del partito che ha guidato l’America attraverso una crisi devastante.
Per questo tutti dal palco hanno parlato della difficoltà di farcela. Da una parte una rappresentazione in carne ed ossa del sogno americano, dall’altra la fotografia di una realtà molto complicata. Ai democratici, e soprattutto a Obama domani, il compito di mostrare che la ricetta per uscire da una crisi molto lunga, è quella di investire in scuola, infrastrutture ed energia. E di non toccare le tasse se non per alzarle un po’ ai ricchi.
I DUBBI DI BARACK NEL PRIVATO
A Michelle il compito di parlare alle donne. Che tradizionalmente votano più democratico e rappresentano anche uno dei segmenti di elettorato indeciso. La First lady, che nel 2004 venne attaccata per aver detto «ora che Barack ha ottenuto la nomination sono fiera del mio Paese per la prima volta», ha fatto molta strada per entrare in relazione con gli americani. Come è tradizione la moglie del presidente sta lontana dalla politica in senso stretto, puntando piuttosto a campagne mirate. A Hillary Clinton, nominata dal marito per la riforma sanitaria, non andò troppo bene. La forza di Michelle sta nell’essere giovane e madre di due figlie che quando gli Obama sono entrati alla Casa Bianca erano bambine. Giocare in una classe o animare una festa, le viene naturale. Non deve entrare nella parte. Quella parte, sebbene fosse un avvocato di grido, era già la sua prima del 2008. La campagna per una nutrizione sana e uno stile di vita attivo per i ragazzi, l’ha fatta comparire in ogni show televisivo possibile, moltiplicandone la popolarità. Che ora è più alta di quella del marito.
Michelle ha parlato di come Barack non dorma la notte per dedicarsi al suo lavoro, che è quello di cercare in ogni modo di restituire slancio alla middle class americana. Ha raccontato che lei non si sente bene, che non ha gran fiducia nel futuro e che pur ammirando il presidente, non è certa che i tempi duri che attraversa non siano anche un po’ frutto di una mancanza di leadership da parte sua.
E POTREBBE ESSERE PEGGIO
I repubblicani riutilizzano lo slogan usato da Reagan contro Carter: «State meglio di quattro anni fa?». La risposta dei democratici è: «Stareste molto peggio senza di noi»: i posti di lavoro creati nel privato sono milioni e il pubblico licenzia solo perché i repubblicani si rifiutano di spendere. Ma per essere rieletti, il presidente lo sa, serve fiducia nel domani.
E i democratici sembrano avere fiducia. «Penso che ce la faremo a riempire lo stadio. La Carolina Fest di lunedì è stata un grande successo e la gente continua a chiederci biglietti», spiega in conferenza stampa Kristie Greco, capo della convention. Il messaggio è quello di apertura e partecipazione. «Cerchiamo di non essere solo una piattaforma per il candidato spiega il direttore della comunicazione della campagna Obama for America, Brent Colburn La convention per noi è anche uno strumento per organizzare la campagna. Chiunque volesse avere un biglietto per il discorso di Obama di giovedì, ad esempio, poteva fare tre turni di volontariato e ottenere un biglietto. E quando fa volontariato una volta, di solito la gente torna, si sente coinvolta».
A passeggiare per i corridoi del Convention centre e a giudicare dall’entusiasmo che c’è in giro, sembra che la campagna Obama stia anche recuperando lentamente la capacità di essere un motore di entusiasmo. Non c’è l’elettricità del 2008, sarebbe impossibile, ma le cose stanno ripartendo e si percepisce. Michelle Obama e Julian Castro hanno dato il loro contributo.

l’Unità 5.9.12
Fedeli, non tifose, le donne in prima fila per Obama
di M.M.


«Non posso dire di essere entusiasta. Ho quasi sempre votato democratico e credo che lo farò ancora. Ma le cose non vanno per niente bene». Jeffrey è un ristoratore e lunedì scorso era a passeggio con la famiglia per le strade di Charlotte. C’era la festa di inaugurazione della convention democratica ed era venuto a vedere. Simpatizza, non fa il tifo. «Credo che il presidente abbia cercato di fare delle cose giuste. Ma credo che non abbia saputo fare compromessi. D’altra parte i repubblicani non lo hanno aiutato». Jeffrey non se la passa male. Ma dal 2008 ad oggi ha guadagnato senza dubbio di meno. Ed è preoccupato per il futuro delle sue due figlie adolescenti. «Vorrei mandarle all’università, non sono proprio sicuro di farcela se le cose non torneranno a migliorare».
Betty, la moglie di Jeffrey è più fiduciosa e battagliera. «La colpa è dei repubblicani, non hanno cercato compromessi, solo lavorato per danneggiare il presidente e peggiorare la situazione». Betty voterà Obama, anche perché «certe cose che dicono sulla salute riproduttiva le trovo insultanti. Non sarà la posizione ufficiale del partito, ma ci sono certe figure nel Grand Old Party che non meritano la dignità di essere elette a Washington». In questi giorni molti appuntamenti paralleli alla conveniton parleranno di donne: l’estremismo repubblicano in materia di aborto è un’arma da giocare. E in famiglia la discussione è aperta. Jeffrey sembra pronto a farsi convincere perché «da Romney non ho sentito grandi proposte concrete. Non basta avere esperienza negli affari. Io ce l’ho, 21 anni, ma non mi candiderei nemmeno a fare il consigliere comunale» dice ridendo. Jeffrey e Betty sono gli elettori che Obama deve conquistare a tutti i costi. Bianchi, middle class, disillusi e preoccupati. Con loro, almeno, il presidente ha degli ottimi margini.
A parlare con Kelly, veterana delle convention del Massachussets alla sua decima esperienza da delegata, le cose saranno difficili. Persino nel suo Stato, il più liberal di tutti. Non per il presidente, ma per Elizabeth Warren che parla oggi candidata al seggio che fu di Ted Kennedy perso dai democratici nel 2010. «Il seggio di Elizabeth è cruciale per mantenere la maggioranza al Senato e il suo avversario è stato abbastana furbo da votare alcune cose con i democratici, quelle non importanti, per poi schierarsi con il partito a ogni tornante cruciale. Ma oggi continua Kelly può vantarsi di essere stato bipartisan. E accusare la Warren di estremismo. Da noi è un testa a testa».
LA MACCHINA ORGANIZZATIVA
Meno preoccupata Maureen, che viene da Washington, afroamericana middle class, di grande eleganza. È appena stata in Italia e non vede l’ora di parlare. «Le cose vanno bene, lo sento tra le persone che conosco e nel mio quartiere. Non sono entusiasti ma convinti sì. Lo sforzo sarà portare la gente ai seggi. Ma per quello Obama ha dimostrato di avere un’ottima macchina organizzativa».
Le voci sono molte e diverse. Ciascuno ha una sua preoccupazione, teme di perdere le elezioni nello Stato in cui vive, oppure si sente tranquillo perché dalle sua parti non c’è pericolo di perdere.
GLI OPERAI DELL’OHIO
Lo sguardo di Ben, sindacalista di Seiu, il sindacato dei servizi, è diverso. «In Ohio, da dove vengo, i lavoratori sono in bilico. Quelli del pubblico sanno che i democratici sono dalla loro parte, ma in molti hanno perso il lavoro e sono sfiduciati. Quelli dell’industria si fanno in parte attrarre dal messaggio pro-business di Romney. Sarà un difficile equilibrio e dovremo saper parlare loro con grande accortezza. Spero davvero che ne saremo capaci».
Sono tutti qui per trovare le parole, ascoltarle e ripeterle in giro. Adattarle alla realtà locale. Sono qui per sapere se e come potranno essere utili negli ultimi giorni della campagna. Maureen, per esempio, prenderà qualche giorno di vacanza per andare a fare campagna nel relativamente vicino Nevada. «Se c’è bisogno bisogna muoversi, no? Ce la faremo, non sono preoccupata. Spero di incontrarti a Washington Dc il giorno dell’inaugurazione. Io ci sarò e sul palco ci sarà il presidente Obama».

il Fatto e Der Spiegel 5.9.12
Pussy Riot, parla la leader: “Amo la Russia, dio Putin, e sogno la rivoluzione”
Nadezhda Tolokonnikova, 22 anni, vuole “risvegliare la maggioranza silenziosa del popolo russo dal sonno imposto dal regime di Mosca”


A Mosca c’è un solo carcere per donne in attesa di giudizio. Ospita 1300 detenute ed è conosciuto col nomignolo di “Bastiglia”. Qui le Pussy Riot, condannate in primo grado per aver realizzato un video nel quale cantavano “Madre di Dio, caccia Putin”, attendono l’esito dell’appello. Nadezhda Tolokonnikova, 22 anni, è considerata la leader politica del gruppo, anche perché vantava già una considerevole militanza nei gruppi di opposizione a Putin.
Come sono le sue giornate in prigione?
Sopportabili. È pur sempre una prigione russa con tutto il suo charme sovietico. Il sistema carcerario russo rimane ancora oggi una via di mezzo tra una caserma e un ospedale. Sveglia alle 6, colazione e ora d’aria. Il resto della giornata lo passo scrivendo o leggendo. Oggi, ad esempio, ho letto la Bibbia e un libro del filosofo marxista sloveno Slavoj Zizek.
Si pente dell’iniziativa di protesta all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca?
No, niente affatto. Il processo contro di noi è stato importante perché, condannandoci a due anni di prigione senza che avessimo commesso alcun reato, il sistema putiniano ha emesso una sentenza contro se stesso.
Lei ha una figlia di 4 anni. Non pensa che il suo comportamento sia stato irresponsabile nei suoi confronti?
Chi ha paura dei lupi non si avventura nella foresta. Io non ho paura dei lupi. Lotto perché mia figlia possa crescere in un Paese libero.
C’è chi vi considera delle eroine e c’è chi giudica di cattivo gusto le vostre iniziative. Quando era incinta prese parte completamente nuda a una manifestazione al Museo Biologico per protestare contro la politica demografica del Cremlino.
I gusti sono un fatto personale. Le nostre sono performance di arte moderna.
Cosa pensano i suoi genitori di queste performance?
Mio padre dopo la manifestazione al Museo Biologico non mi ha rivolto la parola per due mesi. Ma solo perché non lo avevo invitato ad assistere.
Avete iniziato con il collettivo di artisti Voina, che significa “guerra”. Contro chi siete in guerra?
Le iniziative di Voina erano una prova di forza tra la società civile e il governo.
Qual è l’obiettivo delle Pussy Riot?
La rivoluzione in Russia. Vogliamo una Russia diversa e lo facciamo traducendo in azione le nostre idee libertarie.
Ama il suo Paese?
Amo la Russia, ma odio Putin.
Putin è uno degli uomini più potenti della terra.
L’onnipotenza di Putin è una illusione. Lo si capisce dalla mastodontica macchina propagandistica che ha messo in piedi. In realtà il presidente è patetico e spregevole.
Come mai avete suscitato l’interesse internazionale per il problema dei diritti umani in Russia più dell’assassinio di alcuni giornalisti o dell’approvazione di leggi repressive?
Perché la nostra performance non era banale. Siamo state capaci di portare lo scontro tra governo e società civile all’interno di un contesto religioso, politico e sociale. Il regime di Putin assomiglia alle società tribali e ai regimi dittatoriali del passato.
Le vostre dimostrazioni non hanno come bersaglio solamente Putin, ma più in generale il capitalismo. Oleg Vorotnikov, un esponente di Voina, ha anche giustificato la “spesa proletaria”.
Sì, facciamo parte del movimento anti-capitalista internazionale nel quale si riconoscono anarchici, trozkisti, femministe ecc. Il nostro anti-capitalismo non è né anti-occidentale né anti-europeo. Ci consideriamo parte dell’Occidente e frutto della cultura europea. Ci dà fastidio l’inefficienza del consumismo, ma non ci proponiamo di distruggere la società consumistica. Il fulcro della nostra ideologia è la libertà e il concetto di libertà è un concetto occidentale.
Voi siete femministe. Cosa caratterizza le donne russe oggi?
Le donne russe sono stritolate da due stereotipi: quello occidentale e quello slavo. Disgraziatamente in Russia domina ancora la vecchia concezione della donna regina del focolare, della donna che cresce i figli senza alcun aiuto dell’uomo. È una concezione che la Chiesa ortodossa contribuisce a diffondere e che rende schiave. L’ideologia di Putin si muove nella medesima direzione. Sia la chiesa sia Putin rifiutano l’Occidente, femminismo compreso. Ma anche qui da noi il movimento di liberazione delle donne ha una tradizione e fu soffocato da Stalin. Speriamo risorga.
Sceglierebbe ancora un luogo di culto per tenervi una manifestazione di protesta?
Siamo artisti e gli artisti non si ripetono mai. Comunque il video e il testo non potevano in alcun modo offendere i sentimenti religiosi dei credenti. I media controllati dal governo hanno offerto una rappresentazione distorta della realtà accusandoci di odio religioso.
Al processo ha citato il Vecchio e il Nuovo Testamento. Lei è religiosa?
Non credo in Dio, ma considero la religione un aspetto importante della cultura.
La chiesa ha chiesto clemenza per le Pussy Riot.
Non è vero. La chiesa ha chiesto clemenza solo dopo che era stata resa nota la sentenza. Perché non ha parlato prima?
In tribunale si è paragonata a Fiodor Dostoevskij e Alexander Solgenitsin. La notorietà le ha dato alla testa? Solgenitsin ha trascorso 8 anni in un gulag. E Dostoevskij fu condannato a morte e graziato quando si trovava già dinanzi al plotone di esecuzione.
Non volevamo fare alcun paragone. Volevamo solo sottolineare che l’atteggiamento del governo nei confronti del dissenso è esattamente lo stesso.
Diversi oppositori pensano che con la performance nella cattedrale abbiate esagerato. Aleksey Navalny, il più noto politico di opposizione, ha definito la vostra performance “stupida”. Avete per caso diviso l’opposizione?
Navalny ci ha lodato quando sulla Piazza Rossa abbiamo detto che Putin era un vigliacco. Sì, è vero vogliamo dividere, ma non l’opposizione. Vogliamo svegliare quella parte della società che finora è rimasta inerte e ha preferito rimanere tranquilla a casa invece di scendere in piazza a difesa dei diritti civili. La vera spaccatura al momento è quella tra il governo e la maggioranza silenziosa dei russi.
Dal giorno del vostro arresto c’è qualcosa che vi ha fatto particolarmente piacere o dispiacere?
La straordinaria pubblicità data dai mezzi di informazione di tutto il mondo al nostro caso è stata una piacevole sorpresa. La reazione del governo ce l’aspettavamo. Mi ha fatto piacere il sostegno ricevuto da moltissima gente oltre che dagli amici.
Avete fatto appello. Vi aspettate una riduzione della pena?
Non mi interessa.
Teme per la sua vita una volta che vi manderanno in una colonia penale?
Sono le autorità a dover avere paura non noi.
Una volta uscite di prigione sfrutterete la vostra fama per fare soldi? O magari entrerete in politica?
A che serve parlare di cose del genere fin tanto che in Russia ci sarà un sistema autoritario?
© Der Spiegel, 2012 – Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere 5.9.12
Le isole contese tra Cina Giappone e Corea
I nazionalisti soffiano sul passato È tempesta nei mari orientali
di Ian Buruma


Non sembrano gran che, quei pochi scogli disabitati, sparpagliati nel Mar della Cina orientale tra Okinawa e Taiwan, e quel paio di minuscoli isolotti nel Mar del Giappone, popolati da qualche pescatore e un manipolo di guardie costiere sudcoreane. I primi, chiamati Isole Senkaku in giapponese e Diaoyutai in cinese, sono rivendicati da Cina, Giappone e Taiwan; i secondi, chiamati Takeshima in giapponese e Tokto in coreano, sono rivendicati da Giappone e Corea del Sud.
Ammontano a ben poco, quelle quattro rocce che spuntano dal mare, eppure la disputa sulla loro appartenenza rischia di sfociare in una pesante controversia internazionale: da una parte e dall'altra sono stati richiamati gli ambasciatori, massicce manifestazioni antigiapponesi sono in corso in tutta la Cina — provocando danni a persone e beni giapponesi — mentre tra Tokyo e Seul rimbalzano minacce di ogni genere. Si è arrivati persino a paventare un intervento militare.
I fatti di per sé appaiono semplicissimi: il Giappone si impadronì di queste isole nella sua espansione imperialistica nel corso della guerra sino-giapponese del 1895 e in seguito all'annessione della Corea nel 1905. Prima di allora, la sovranità su queste isole era poco chiara: su Takeshima/Tokto vivevano pescatori giapponesi, mentre la Cina considerava come sue le isole Senkaku/Diaoyutai. Ma nessuna rivendicazione specifica era stata fatta dalle nazioni in causa.
Le cose si complicarono dopo la Seconda guerra mondiale. Il Giappone avrebbe dovuto restituire i territori coloniali, ma gli Stati Uniti subentrarono ai giapponesi sia nelle Senkaku sia a Okinawa, per restituire tutte le isole al Giappone nel 1972. I coreani, ancora inviperiti per l'oppressione coloniale subita per oltre mezzo secolo, si impadronirono delle isole Tokto senza darsi pensiero della legalità del loro intervento.
Tenuto conto della brutalità dell'occupazione giapponese sia in Corea sia in Cina, ci si sente naturalmente inclini a simpatizzare con le antiche vittime del Giappone. Le forti emozioni suscitate da questa disputa — alcuni coreani si sono addirittura mutilati in segno di protesta — suggeriscono che le ferite inferte dalla guerra giapponese in Asia stentano ancora a rimarginarsi. Non per nulla il primo ministro sudcoreano, Lee Myung-bak, ha sfruttato l'occasione per chiedere le scuse formali al Paese da parte dell'imperatore del Giappone e risarcimenti finanziari per le donne coreane costrette dai soldati invasori a lavorare nei bordelli militari durante la guerra.
Il fatto che il Giappone, malgrado l'evidenza circostanziata e documentale fornita dagli storici giapponesi, oggi preferisca negare ogni responsabilità e coinvolgimento in queste azioni spaventose compiute sotto il regime militare, non ha fatto che infiammare il risentimento della Corea.
Eppure sarebbe troppo facile attribuire l'attuale disputa esclusivamente alle ferite lasciate ancora aperte dall'ultimo conflitto mondiale. I sentimenti nazionalisti, alimentati di proposito tanto in Cina quanto in Corea e in Giappone, si rifanno indubbiamente alla storia recente, ma gli scenari politici sono diversi in ciascun Paese. Poiché la stampa in tutti e tre questi Paesi appare quasi autistica nel suo rifiuto di rispecchiare altro che non sia il punto di vista nazionale, questi retroscena politici non vengono mai correttamente spiegati.
Il governo comunista in Cina non riesce più a fondare la sua legittimità sull'ideologia marxista e ancor meno su quella maoista. La Cina è un Paese capitalistico autoritario, disposto a trattare affari con qualunque nazione capitalistica, tra cui — soprattutto — il Giappone. Dagli anni Novanta a oggi, il nazionalismo è andato man mano sostituendosi al comunismo per giustificare il governo monopartitico dello Stato. Appoggiare il nazionalismo significa attizzare sentimenti antioccidentali, ma soprattutto antigiapponesi. Non è mai un compito difficile, questo, in Cina, a causa di un passato recente dolorosissimo, e serve inoltre a sviare l'attenzione pubblica dalla repressione politica e dalla frustrazione di vivere sotto la dittatura.
In Corea del Sud, tra i più penosi ricordi del periodo coloniale giapponese resta quello della diffusa collaborazione con le élite del Paese. I discendenti di queste classi sociali svolgono ancora un ruolo importante nella politica conservatrice della Corea del Sud e questo spiega perché a intervalli regolari la sinistra coreana chieda a gran voce purghe e punizioni.
Il primo ministro Lee è un conservatore, peraltro piuttosto pro giapponese. I suoi recenti sforzi di affrontare il Giappone avanzando la richiesta di scuse ufficiali e di risarcimenti finanziari — e il riconoscimento della sovranità coreana sulle isole del Mar del Giappone — vengono percepiti in Giappone come una specie di tradimento. Ma proprio in quanto considerato un personaggio politico favorevole al Giappone, Lee si vede costretto a riaffermare le sue credenziali nazionalistiche. Non può assolutamente lasciarsi macchiare dal sospetto di voler collaborare con i giapponesi. I suoi avversari politici non sono i giapponesi, bensì la sinistra coreana.
L'uso della guerra per rinfocolare i sentimenti antigiapponesi in Cina e in Corea irrita in modo particolare il Giappone, scatenando anche lì reazioni difensive. Ma il nazionalismo giapponese è alimentato anch'esso da ansietà e frustrazioni — in particolare l'assoluta dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza militare del Paese — e dalla paura del crescente potere della Cina. La costituzione pacifista post-bellica, scritta dagli americani nel 1946, viene considerata dai conservatori giapponesi come uno schiaffo alla sovranità del Giappone. Oggi che la Cina flette i muscoli rivendicando l'appartenenza di quei territori, non solo nel Mar della Cina orientale, ma anche nel Sud-est asiatico, i nazionalisti giapponesi premono affinché il Giappone si comporti da grande potenza per essere considerato un giocatore serio, pronto a difendere la propria sovranità a tutti i costi, anche per qualche isolotto insignificante.
Cina, Corea e Giappone, i cui interessi economici sono strettamente collegati, hanno tutti i motivi per evitare un conflitto grave. Eppure questo è quanto tutti e tre si stanno apprestando a fare e con dispiegamento di energie. Per ragioni puramente interne, ciascun Paese sta manipolando la storia di una guerra devastante, soffiando sulle braci di passioni che possono solo causare nuovi danni.
Politici, osservatori, attivisti e giornalisti in ciascuno di questi Paesi non fanno altro che rivangare il passato e i ricordi sono soggetti a una feroce manipolazione a fini politici. Perché nessuno di loro sembra seriamente interessato alla ricerca e all'affermazione della verità.
(traduzione di Rita Baldassarre)

il Fatto 5.9.12
Atene pronta a chiedere i danni di guerra a Berlino


Il ministero delle Finanze greco ha reso noto che Atene inizierà a calcolare le riparazioni generali di guerra tedesche avvenute durante la Seconda guerra mondiale. Il ministro Christos Staikouras ha precisato che il calcolo dei danni – fatto per la prima volta nella storia – sarà effettuato dal General Accounting Office, dopo una richiesta fatta da alcuni parlamentari. “La questione delle riparazioni generali della guerra è particolarmente complessa dal punto di vista giuridico ed è soggetta alle regole del diritto internazionale”. Il dibattito ha preso corpo nel Paese dall’inizio della crisi del debito con alcuni politici greci che hanno evocato i ricordi dell’occupazione nazista, Nell’ultimo decennio la Grecia aveva già avanzato simili richieste a Berlino. Nel 2006 la Corte costituzionale tedesca ha stabilito che la Germania non doveva pagare un risarcimento ai singoli individui per i crimini di guerra commessi durante il conflitto. Nel 2010 è stato reso noto che la Germania ha pagato 115 milioni di marchi tedeschi (74 milioni di dollari) alle vittime dei crimini nazisti greci stando a un trattato del 1960.

l’Unità 5.9.12
Carteggio Mussolini-Petacci stasera su Rai3
«Stalin grande, io no»
Vittimismo e odio per il popolo italiano in una lettera del Duce alla sua amante piena di ammirazione per i «cani bolscevichi»
di Bruno Gravagnuolo


UN UOMO IN GINOCCHIO, MA ANCORA INTRISO DI ARROGANZA E ILLUSIONI. IN BILICO TRA RABBIA E VITTIMISMO. Così ci appare il Mussolini del 16 gennaio 1945 nella lettera alla sua amante Claretta Petacci che pubblichiamo in questa pagina. Un frammento privato della grande tragedia nella quale il Duce ha gettato il suo popolo, che viene fatto oggetto di disprezzo, per l’incapacità di vincere e diventare un «popolo militare». Questo e altri reperti epistolari, assieme a tante immagini storiche, sono il cuore documentario di Mussolini il cadavere vivente, in onda stasera alle ore 21 su Rai3, un programma a cura di Giuseppe Giannotti, Dante Savelli, e Clemente Volpini, per la regia di Fedora Sasso, che si vale della consulenza di tre storici come Emilio Gentile, Giovanni De Luna e Mauro Canali.
Un programma che anticipa la serie prodotta da Rai Educational per Rai Storia, dal titolo Ben e Clara, le ultime lettere, in onda dal 22 settembre ogni sabato alle ore 23. Altro elemento di novità, oltre a lettere inedite e non, è l’allestimento scenico e narrativo. Con Maya Sansa e Michele Placido a recitare l’epistolario di Mussolini e Petacci, che almeno da un paio di anni è oggetto di studio e pubblicazione. A partire da una edizione antologica del carteggio per Mondadori a cura dell’Archivio di Stato (2011), nonché dalla raccolta a cura di Barbara Raggio e Pasquale Chessa, sempre per Mondadori: L’ultima lettera di Benito (2010).
Ma veniamo alla missiva del 16 gennaio 1945. I sovietici avanzano in Polonia e sono alle porte della Germania: il 27 gennaio verrà liberato il campo di Auschwitz. E tuttavia il Duce del fascismo crede ancora di poter fermare il nemico. Segno di autoconvincimento allucinato che confida nella riscossa tedesca. Del resto proprio in quei mesi Mussolini parlava con il suo allievo De Begnac dell’«arma segreta» nazista che avrebbe rovesciato le sorti del conflitto. Erroneo quindi che il Duce si fosse rassegnato a creare la Rsi, per evitare guai peggior a sé e al suo popolo, come ha sostenuto Renzo De Felice. La verità è che credette fino all’ultimo nella vittoria finale. Altro elemento: la rabbia per il popolo militare mancato e l’ammirazione malcelata per i «cani bolscevichi». È una conferma della vocazione totalitaria e imperial-globale del fascismo mussoliniano, che ravvisava nel comunismo una specie di «fratello-coltello» degenere, da imitare e sconfiggere. Infatti il sogno «mitopoietico» di Mussolini, passato dal socialismo ultra massimalista al suo fascismo, era quello di un regime imperiale padrone dell’Europa mediterranea e dell’Oceano indiano. Africa e Medioriente inclusi. Un Impero «sociale», composto da una gerarchia di popoli con alla testa quello italico e «ario-mediterraneo», rivale geopolitico dei popoli nordici, anglosassoni e asiatici. Progetto maniacale, perseguito con azzardi e mezzucci da baro, non escluso il mimetismo verso il razzismo tedesco. Un razzismo imitato, scimmiottato in salsa mediterranea. E persino fintamente denunciato nella versione tedesca, agli occhi di Pio XI. Per meglio procedere in direzione delle leggi razziali del 1938.
IL COLLOQUIO CON LA FEDELISSIMA
Infine c’è il Mussolini intimo, a colloquio con la sua amante. Claretta, sedotta da ragazza dal Duce e frutto di facile conquista, fu forse l’unica donna, (a parte Donna Rachele) alla quale Mussolini restò amorosamente attaccato. Forse in ragione della sua modestia intellettuale e della sua inerme dedizione. La Petacci, a differenza di donne come la Sarfatti, Angelica Balabanov o della stessa Dasler, che lo avevano influenzato e condizionato, non chiedeva altro che di vivere il mito del suo uomo. Fino a condividerne la sorte. Il che non significa che fosse senza personalità né idee proprie. Come rivela l’epistolario, Claretta era fascistissima e determinata. Una sorta di falco repubblichino al femminile, che pretendeva dal suo eroe piena coerenza e rispondenza all’ideale, e che contribuì non poco a radicalizzare Mussolini nei suoi convincimenti, facendogli da specchio. Dunque, come confermano gli archivi, anche l’ultimo fascismo fu un’illusione condivisa a due. Con Mussolini in scena anche nel privato, e Claretta a fargli da critico e spettatore esigente. Infine, due parole sugli archivi, che hanno ispirato il programma. Fino al 1956 la famiglia Petacci riuscì a mantenerli secretati. Ma con sentenza definitiva del 1956 fu stabilito che si trattava di materiale storico e pubblico. Talché, via via che trascorrono i legali 70 anni, anche i carteggi divengono accessibili. Di qui la fioritura di studi su «Ben e Claretta», che è molto più che un romanzo d’appendice.

«Cara Clara», il testo del 16 gennaio 1945
MIA CARA CLARA,
Oggi io sono piuttosto grigio per non dire nero. Quegli stramaledetti russi vengono avanti, almeno per il momento. Credo, però, che a un certo punto saranno fermati. Ahimè! il comunismo ha creato un popolo “militare”; il fascismo non vi è riuscito? Dipende dal popolo o dalla dottrina? Terribile dilemma.
O è dipeso dagli uomini? Per venti anni ho sognato, di dare al popolo italiano una gloria che è la regina di tutte le glorie: quella militare. Stalin è riuscito; io, no.
Minoranze, individui, reparti; ma la grande massa, la valanga immane come in Russia, no. Dunque; ho sognato. Il comunicato germanico di oggi ammette che quei cani di bolscevichi, hanno fatto “brecce di una certa profondità” ed è ricominciata la rituale sparatoria dei 224 cannoni di Mosca ! Addio, Clara; se tu sapessi come ho amara e piena di cenere la bocca. Colla quale tuttavia ti mando il mio bacio.

il Fatto 5.9.12
Riti compulsivi
L’invasione degli ultrafestival
Da oggi la Letteratura a Mantova, poi la Filosofia a Modena: settembre è il mese delle rassegne, con centinaia di incontri stipati in pochi giorni
di Antonio Armano


Solo le grandi città si possono permettere di non avere una grande manifestazione culturale: nelle altre gli intellettuali, scrittori, librai e professori si danno pena perché sono stati a Mantova, Sarzana, Pordenone ed era pieno di gente, avessi visto, i giornali ne parlano, un momento di gloria, soldi che girano, i ristoranti pieni... Il Festival della mente (Sarzana) si è appena concluso, quello della letteratura di Mantova parte oggi con oltre 200 eventi in 5 giorni con ospiti com i premi Nobel Toni Morrison e Seamus Heaney, o i più popolari Guy Delise e Joe Lansdale.
E TANTI, tantissimi, forse troppi altri. La rassegna, sedici anni fa, era nata una manciata di ottimi incontri. Ma nel tempo è cambiata e ora è un contenitore zeppo di nomi e parole non necessariamente interessanti. Dopo Mantova, poi, ci saranno anche la filosofia a Modena (14-16 settembre) e Pordenonelegge: da mercoledì 19 a domenica 23. L'affluenza è in aumento, tutte le grandi manifestazioni tengono, nonostante la crisi. Mantova è passata dal 62,1% di finanziamento pubblico e 27,7 privato nel '97 al 79% di sponsor aziendali e 12 aiuti dalle amministrazioni nella scorsa edizione. Una rivoluzione. Tocca battere cassa, sudare, altro che invidiarli. “Capita che mi chiami qualche politico e mi dica: ma perché non facciamo un bel festival culturale, invitiamo questo o quell'autore, parliamo di libri”, racconta Filippo Taricco, ideatore di Collisioni che quest'anno ha portato 40mila paganti e altrettanti non-paganti a Barolo con Bob Dylan, Patti Smith e Ammaniti in cartellone: “La verità è che se non hai un'idea è meglio lasciar perdere. Mantova ormai è un riferimento a livello europeo per la letteratura, Lucca per i fumetti... Noi mischiamo cantanti pop come Zucchero a scrittori come Don DeLillo, la nostra formula è la contaminazione. Quest'anno per la prima volta abbiamo fatto pagare un biglietto di 5 euro: basta con la mentalità assistenzialista della cultura gratis, ci sono autori stranieri che non vengono se non fai pagare il biglietto, non vogliono un pubblico demotivato”.
MANTOVA è sempre cresciuta perché ha saputo lavorare sul territorio e fare un buon cartellone. Paganti 64mila e altri 40mi-la agli eventi gratuiti: questi i numeri del 2011, un'affluenza dieci volte superiore a quella del primo anno. Se contiamo una spesa media di circa 25-30 euro giornaliere a persona, tra vitto e tutto il resto, l'indotto non è trascurabile. Ci sono intellettuali-prezzemolo che campano di gettoni di presenza. Il pubblico dei festival non è quello del Billionaire, ma neanche i pellegrini polacchi del dopo-Muro a Roma. Mantova è un gioiello, vero. Ma la manifestazione l'ha rilanciata turisticamente. A Modena, Carpi e Sassuolo il pienone nei ristoranti e hotel si fa solo durante il Festival di filosofia perché i russi in transito da Milano per vedere il museo-Ferrari fanno numero fino a un certo punto. Quest'anno sarà un'edizione particolare. Non per gli ospiti che sono sempre di livello, da Bauman a Reale e Settis. Ma perché si ricomincia dopo il terremoto, soprattutto a Carpi, la più colpita. Alcune strutture non sono agibili, il budget 2012 (880mila euro) è del 15% in meno rispetto all'anno passato. Ma con uno sforzo si farà tutto: diminuiscono le risorse di due dei tre comuni fondatori (Modena e Sassuolo), ma ci sono quelle dei privati, in primis la Cassa di risparmio di Modena. Alcuni artisti verranno gratis, come Guccini che dialogherà sul suo ultimo libro Dizionario delle cose perdute e, a scendere, Fabio Volo e Finazzer-Flory, successore di Sgarbi alla cultura di Milano nella giunta Moratti, che porterà alle popolazioni terremotate il suo Pinocchio. Ma allora la crisi si sente o non si sente? “La crisi è strutturale – spiega Gian Mario Villalta, direttore artistico di Pordenonelegge – e lo spiego con un banale esempio. Il librario che prima metteva dieci banchetti ora ne mette cinque perché è in sofferenza e reclutare personale costa, quindi in alcuni eventi lo scrittore non avrà qualcuno che gli cura la vendita e sarà meno contento. Gli editori hanno meno soldi e se prima ti aiutavano pagando, chessò, la trasferta del loro autore, ora non possono. Muovere un autore costa, le spese di viaggio, l'interprete... ”. Ospiti a Pordenone 2012: da Augé a Magris passando per Ammaniti. Poi ci sono gettoni di presenza. Si dice che per invitare Bauman, 87enne ma vero conferenziere-nomade, ci vogliano 5mila euro, qualcosa meno per Augé. Per gli americani i costi di spostamento fanno lievitare il cachet. Poi ci sono le richieste particolari: lo scrittore e umorista americano David Sedaris non si muove se non gli mettono a disposizione un ferro da stiro e un'asse, si rilassa così. Per Dylan fiumi di Coca Cola.

Corriere 5.9.12
I 650 libri per capire il presente
Più Marx che Nietzsche, Pasolini al fianco di «Dracula»
di Cristina Taglietti


Una biblioteca minima costruita ponendo a quattro studiosi la stessa domanda: «Quali sono i libri che ritenete oggi indispensabili per vincere i nuovi analfabetismi, interpretare il mondo che abbiamo intorno e acquisire una cittadinanza piena e attiva del nostro tempo?». Il quesito è indubbiamente impegnativo, le risposte, date da un matematico, Claudio Bartocci, uno scrittore bibliofilo, Alberto Manguel, uno psicoanalista lacaniano, Massimo Recalcati, un architetto, Marco Romanelli, pure. Ne è uscita una raccolta eterogenea, come tutti i progetti simili, suscettibile di integrazioni, con grandi assenti e libri a volte difficilmente proponibili a quello che dovrebbe essere un pubblico popolare, dove i testi filosofici stanno accanto alla letteratura di intrattenimento, la Bibbia alla fantascienza, Jacques Lacan a Mauro Corona.
La sedicesima edizione del Festivaletteratura che apre oggi a Mantova, si presenta subito con una nuova iniziativa chiamata «Le biblioteche circolanti», ispirata a quei carri che tra la fine dell'Ottocento e sopratutto l'inizio del Novecento, sull'onda degli ideali umanitari e socialisti che si andavano diffondendo, si fermavano nelle periferie, nelle campagne, nei luoghi in cui la gente lavorava portando libri di intrattenimento, libri morali, manuali utili per apprendere mestieri. Il Festival ha ricreato una di queste raccolte circolanti attraverso un'opera di selezione dei fondi confluiti nelle biblioteche civiche mantovane che avevano ereditato il patrimonio librario di istituzioni filantropiche come le Università popolari o le Società operaie di mutuo soccorso. La biblioteca, ricostruita e riordinata, è consultabile liberamente negli spazi delle Sale del capitano di Palazzo Ducale.
Ma accanto alla parte storica c'è pure una biblioteca contemporanea di circa 650 titoli. Come quelle antiche sarà circolante e si muoverà attraverso due «bibliobus» che faranno sosta in sei piazze della città (Erbe, Marconi, Martiri di Belfiore, Canossa, Virgiliana, San Leonardo), mentre i quattro selezionatori, coordinati da Guido Vitiello, confronteranno in due incontri i princìpi che li hanno ispirati nella scelta. In generale sembra che ciascuno abbia seguito criteri propri: chi si è limitato agli ultimi due secoli, chi ai soli libri «oggettivamente» importanti, chi ai propri libri preferiti. Così il catalogo rivela scelte curiose e inaspettate, a volte forse troppo tecniche. «C'è molta fantascienza e molti generi considerati un tempo minori, come giallo o noir», dice Vitiello che dalle biblioteche dei quattro studiosi ha selezionato per noi i 40 titoli che fanno da cornice a questa pagina. «Tra gli italiani, Pasolini e Calvino fanno la parte del leone, e anche contemporanei come Eco o Erri De Luca. Il grande assente, almeno per i miei gusti, è Sciascia. C'è meno Nietzsche di quanto ci si potrebbe aspettare, ma in compenso c'è molto più Marx. Pochi i classici del liberalismo (solo Bartocci ne menziona qualcuno), molti i pensatori antiliberali e terzomondisti, da Fanon a Toni Negri. Insomma, sono liste da tempo di crisi: la critica del capitalismo e della modernità in generale è un elemento preponderante nelle scelte saggistiche».
Alberto Manguel, scrittore argentino, erudito bibliomane autore di testi come Una storia della lettura, Diario di un lettore, La biblioteca di notte, accanto a La Bibbia e il Talmud, a classici greci e latini come le tragedie di Sofocle, le Metamorfosi di Ovidio, le Vite parallele di Plutarco, a maestri della letteratura ottocentesca quali Manzoni, Leopardi, Zola propone come letture indispensabili autori contemporanei come Milan Kundera (L'insostenibile leggerezza dell'essere), Ian McEwan (L'amore fatale), V. S. Naipaul (Una casa per Mr. Biswas), Iris Murdoch (Il mare, il mare). Manguel sceglie anche opere di intrattenimento diventate pietre miliari della letteratura pop, dal Frankenstein di Mary Shelley al Dracula di Bram Stoker, da Il fidanzamento del signor Hire di Georges Simenon alla fantascienza di Asimov (Io Robot), senza dimenticare un classico della letteratura per ragazzi come Il mago di Oz di L. F. Baum o un bestseller contemporaneo come Il paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak, grande illustratore scomparso lo scorso maggio.
La biblioteca di base dello psicoanalista Massimo Recalcati contiene i testi classici della disciplina, da Freud a Lacan, (senza, però, dimenticare il Libro nero della psicoanalisi), i saggi di Marcuse e Adorno, i testi di autori contemporanei (Giorgio Agamben, Silvano Petrosino, Simona Forti per esempio, ma anche Toni Negri e Michael Hardt con il loro Impero), accanto a Gli ossi di seppia di Montale, a tutte le poesie di Ungaretti, a molti testi di Pier Paolo Pasolini, alla «trilogia araldica» di Italo Calvino, a Middlesex di Jeffrey Eugenides. Recalcati, che si è interrogato in un volume su Cosa resta del padre, mette nella sua biblioteca ideale, oltre al suo saggio sulla «paternità nell'epoca ipermoderna», anche romanzi contemporanei che il rapporto padre-figlio l'hanno esaminato in forma narrativa, come La strada di Cormac McCarthy o Patrimonio, in cui Philip Roth racconta «la storia vera» di suo padre e della sua malattia, o ancora Uccidere il padre della scrittrice francese Amélie Nothomb.
L'architetto Marco Romanelli si muove tra quelli che per lui sono i ferri del mestiere (le riviste Domus e Abitare, Il disegno industriale di Gillo Dorfles, la Storia dell'architettura moderna di Leonardo Benevolo, qualche testo suo) con incursioni nella narrativa contemporanea (Tabucchi, Saramago, Ortese, Del Giudice, ma anche Muriel Barbery, Banana Yoshimoto, Alessandro Baricco) e un'ampia selezione di letteratura per ragazzi, da Il giro del mondo in 80 giorni a Le favole di Federico di Leo Lionni, da Cappuccetto Rosso Verde Giallo Blu e Bianco di Bruno Munari a Il corsaro nero di Emilio Salgari, a Storia di Babar l'elefantino di Jean de Brunhoff.
C'è Albert Einstein (L'evoluzione della fisica con Leopold Infeld) nelle scelte del matematico Claudio Bartocci, ci sono La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, La legge fisica di Richard Feynman, ma anche l'enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, Il piccolo principe di Saint-Exupéry, L'autobiografia di Malcolm X, Il libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa, il Romacero gitano di Federico García Lorca.
Confrontando le selezioni si scopre che ci sono quelli che mettono tutti (o quasi) d'accordo: Kafka, Montale, Philip Roth, Borges, Primo Levi, ma anche Claudio Magris (con Danubio) o Erri De Luca. Sui grandi assenti, ognuno può dire la sua. Il bello delle liste è proprio quello.

Repubblica 5.9.12
Se ribellarsi alle regole ti rende uguale ai tuoi nemici
Perché se manca la solidarietà essere liberi è solo un´illusione
di Zygmunt Bauman


Ma è il rimedio di un’élite
La sfrenata competitività individuale ha ormai soppiantato la logica dell´autotutela collettiva
I coniugi Woodward attraverso il loro sito internet promuovono un´esistenza lontana dalla schiavitù del lavoro
Anticipiamo un brano dal nuovo saggio di Bauman che analizza diversi aspetti della vita di oggi

Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole? La domanda appare con grande rilievo in testa al sito Internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta: «Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente? E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina [...] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest´idea non andava – e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto».
Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?!
Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all´epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s´imbatte in un indigeno che russa beato all´ombra di un albero. Sopraffatto dall´indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l´inglese sveglia l´uomo con un calcio, gridando: «Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?». «E cos´altro potrei fare, signore?», ribatte l´indigeno, palesemente interdetto. «È pieno giorno, dovresti lavorare!». «Perché mai?», replica l´altro, sempre più stupito. «Per guadagnare denaro!». E l´indigeno, al colmo dell´incredulità: «Perché?». «Per poterti riposare, rilassare, goderti l´ozio!». «Ma è esattamente quello che sto facendo!», aggiunge l´uomo, risentito e seccato.
Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito locationindependent citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?! Per i Woodward, così come per l´«indigeno» del nostro aneddoto, l´insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l´«indigeno», è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo – e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell´aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera) – non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.
Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un´abominevole eresia è indice di un´imponente «rivoluzione culturale». Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.
Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase «liquida» della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase «solida», quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza – ma anche i privilegi, i bonus, i «colpacci» in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell´«inizieremo a preoccuparcene quando accadrà»; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al «godi subito e paga dopo». In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto. (...)
Tuttavia, nell´appello dei Woodward c´è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all´interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. (...) A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la «libertà di scegliere ciò che è giusto per te» – per te, e non «per gli altri» – o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.
Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che – come scrive Alex Berenson, del New York Times – ricevono «stipendi a otto cifre» (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).
Tutti, unanimemente, approvano il fatto che «l´ordine dell´egoismo» abbia preso il sopravvento su quell´«ordine della solidarietà», che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche. Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l´abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l´alterazione dei contratti di lavoro, l´esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo «flessibili») gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l´avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell´autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.
Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti – che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l´unico mezzo per raggiungere la «libertà di scegliere ciò che fa per te» – richiederebbe, comunque, l´abolizione della «sede di lavoro fissa» e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica. Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine. Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali. L´assenza più cospicua sarebbe quella delle «classi colte», a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 5.9.12
Esce oggi il nuovo romanzo di Christine Angot ed è già un caso Il racconto della relazione tra padre e figlia occupa giornali e tv
Un libro-evento sull’incesto in Francia cade l´ultimo tabù
Il rapporto viene descritto nei dettagli più morbosi e ieri "Libération" gli ha dedicato la prima pagina
L´autrice, amata e odiata nel suo paese, non lascia mai indifferenti Il "Nouvel Observateur" l’ha definita un vampiro
di Anais Ginori


L´uomo è in bagno, ha lasciato la porta socchiusa. Ordina alla ragazza di avvicinarsi. La fa inginocchiare. Il resto è una lunga sequenza, a tratti insostenibile, di sottomissione sessuale. Sono le prime pagine di Une semaine de vacances, il nuovo libro di Christine Angot, scrittrice francese abituata a fare scandalo. Il libro narra l´iniziazione di una giovane vergine nel chiuso di una casa di vacanza. Non sono i dettagli osceni che si susseguono a disturbare il lettore ma la relazione pedofila che si crea tra l´uomo e la ragazza. Un padre e sua figlia.
L´incesto, tabù universale su cui ogni società si costruisce, è raccontato nei dettagli più morbosi, con un stile disumano e scarno. Prima ancora di essere pubblicato, l´uscita è prevista per oggi, il libro di Angot ha scatenato un acceso dibattito tanto da conquistarsi ieri la prima pagina di Libération. Un romanzo-evento come succede spesso in Francia, paese nel quale gli scrittori di narrativa possono aprire polemiche trasversali, incrociando la cultura e la politica. Nell´intervista pubblicata dal quotidiano francese, l´autrice difende la sua scelta. «L´incesto non è un qualcosa di privato o intimo, è qualcosa di sociale, di politico» spiega Angot. I casi di molestie sessuali all´interno della famiglia diventano spesso un segreto inconfessabile sul quale si preferisce stendere un velo di omertà.
Anche per la scrittrice francese è stato così. Cresciuta con la madre e la nonna, Angot ha conosciuto solo a quattordici anni suo padre, un traduttore del parlamento europeo, descritto come un uomo poliglotta, colto, amante della buona tavola. Le violenze sessuali che la giovane Christine subisce allora vengono ignorate o passate sotto silenzio da gran parte dei suoi parenti e amici. Nel racconto letterario, la protagonista ha sedici anni ed è completamente asservita ai desideri del suo padre-padrone che mentre abusa del suo corpo le ordina di dire: «Ti amo, papà». Le centoquaranta pagine del romanzo si soffermano su particolari raccapriccianti, un´indagine anatomica di ogni servizio sessuale richiesto, in un crescendo di perversione senza limiti. Uno shock letterario che, secondo Angot, dovrebbe provocare un presa di coscienza. «Ho capito - spiega - che la dimensione sessuale dell´incesto non è chiara a tutti, molte persone non realizzano cosa accade davvero».
La scrittrice aveva già rivelato gli abusi di cui era stata vittima pubblicando nel 1999 L´Incesto, tradotto anche in Italia. Ma allora le violenze erano solo accennate. Questa volta la scrittrice riprende il racconto con minuzia scientifica, usando il tono impersonale del narratore. È uno dei suoi pochi libri in terza persona. Una scelta, spiega, che permette anche di elaborare la violenza pedofila e di presentarla al lettore senza il filtro delle emozioni. L´utilizzo dell´Io ha contraddistinto tutta la sua opera così come i riferimenti autobiografici. Angot è considerata un´esponente di spicco dell´autofiction, genere molto frequentato dagli scrittori francesi spesso accusati di essere "nombrilistes", concentrati solo sul proprio ombelico. Con il suo gusto per la provocazione, l´autrice cinquantatreenne è amata e odiata dalla stampa francese. È un´ospite apprezzata dalle televisioni perché capace di sostenere polemiche e accendere risse in diretta. Spesso se la prende con i suoi editori, che prende e lascia con disinvoltura. Ha esordito con Gallimard per approdare oggi a Flammarion, dopo aver abbandonato Le Seuil che pure l´aveva ingaggiata con un lauto compenso. Amata e odiata, non lascia mai indifferente. Coccolata da testate come Libération e il settimanale Inrockuptibles, è stata invece definita un "vampiro" dal Nouvel Observateur. Nei suoi romanzi, quasi venti dal debutto nel 1990, fa continue allusioni ad amici e conoscenti. Non sempre finisce bene. L´ex moglie del cantante Doc Gyneco, con cui Angot ha avuto una turbolenta passione, l´ha denunciata per violazione della vita privata, riconoscendosi in ben due dei suoi libri. Separata, madre di Léonore alla quale ha dedicato molti dei suoi primi romanzi, ha collezionato amanti per poi servirsene come materiale letterario. Angot si paragona per la durezza della scrittura a Marguerite Duras. «Disturba perché è una donna, questo è il suo più grave difetto» chiosa Libération. La pervicace ricerca dell´oscenità è per lei il meccanismo con il quale svelare le zone d´ombra della società, la dominazione sessuale e famigliare sugli individui. Sull´incesto, che torna continuamente nei suoi libri, Angot dice di aver preso spunto da Anaïs Nin e dall´Edipo re di Sofocle. «Non sono certo la prima a parlarne, eppure ogni volta c´è qualcuno che riesce a distogliere lo sguardo, a coprirsi con una maschera». Forse ora non sarà possibile, almeno per i temerari, che avranno voglia di aprire il suo nuovo libro.

La Stampa 5.9.12
Quest’anno al Lido si porta la religione
Il prete di Malick, la setta di Anderson, i fanatici di Seidl
E oggi il film di Bellocchio sulla “buona morte” di Eluana
di Fulvia Caprara


Alzare lo sguardo verso l’alto, interrogarsi, sperare che in un altrove la vita possa essere migliore di qui. Non si era mai vista al Lido una simile sventagliata di film di argomento religioso. Dall’inizio con, Il fondamentalista riluttante di Mira Nair, fino ad oggi, con la Bella addormentata di Marco Bellocchio, la passerella di titoli sul tema non si è mai interrotta. Forse la crisi acuisce il bisogno di spiritualità, forse il desiderio di soprannaturale si avverte con più forza, ma è un fatto che così tanti autori abbiano sentito, tutti insieme, nello stesso periodo storico, il bisogno di indagare i territori della fede.
Se il film di Bellocchio, che ieri è sbarcato al Lido accompagnato da quasi tutto il cast, il figlio Piergiorgio, Maja Sansa, Isabelle Huppert, Roberto Herlitzka, Alba Rohrwacher, Michele Riondino, (Toni Servillo è in arrivo oggi), ha scatenato polemiche già mentre veniva girato, molti titoli visti in questi giorni alla Mostra hanno aperto confronti vivaci, discussioni, schieramenti. Non a caso, tra le immagini più singolari della rassegna, resterà quella di Ken Loach, il regista militante di tanti film sulla classe operaia, che riceve dal Patriarca il Premio della Fondazione Ente dello Spettacolo, in accordo con i Pontifici Consigli della Cultura e delle Comunicazioni sociali del Vaticano. Un connubio insolito, che ha stupito molti, ma che in fondo è perfettamente in linea con l’aria del tempo.
Così, mentre Bellocchio s’interroga sull’eutanasia mettendo in scena le diverse posizioni sul tema, senza giudizi preventivi, ma, anzi, lasciando allo spettatore la libertà di considerare ogni scelta, Loach riceve un premio cattolico pronunciando un discorso contro il capitalismo. Tutto si tiene, perfettamente. Come nel giorno in cui, a fare da contraltare alla provocazione di Ulrich Seidl in Paradise Faith, con la rappresentazione degli eccessi malati di una fede maniacale, il cartellone del festival proponeva le Clarisse di Liliana Cavani, documentario sulla vita delle suore e sulla loro posizione subalterna rispetto alle figure maschili della gerarchia cattolica.
Ma non basta. Nei film dei due maestri americani, To the wonder di Terrence Malick, e The master di Paul Thomas Anderson, la tensione religiosa è centrale. Nel primo l’amore è inteso come rappresentazione più alta della presenza di Dio, nel secondo campeggia il bisogno di una fede cieca e totale, capace di risollevare l’equilibrio mentale distrutto di un reduce di guerra alcolizzato. In To the wonder, l’unico baluardo contro l’inevitabile usura dei rapporti tra uomo e donna è «l’amore che ci ama», quello più alto e superiore che viene dal Cielo. In The master, la nascita della setta di Scientology è anche una risposta al senso di solitudine e di inadeguatezza, un altro modo di pregare e di credere.
Le differenze, integralismo e non, spiccano anche in Fill the void di Rama Bursthein, dove una ragazza di famiglia ebrea ortodossa rinuncia ai propri sogni per venire incontro ai desideri della comunità cui appartiene. E naturalmente nel Fondamentalista riluttante dove la tragedia delle Torri gemelle dirotta sul terreno dell’intransigenza religiosa la vita di un giovane pakistano che, all’inizio della storia, vediamo innamorato del sogno americano. [F. C.]