giovedì 6 settembre 2012

l’Unità 6.9.12
Oggi a Pisa l’Unità e Left con Profumo
Al secondo appuntamento di Unitalia si parla di cervelli in fuga
Come fermarli? Stasera il dibattito in diretta streaming su unita.it a partire dalle 21


E’ una fuga che si paga anche in termini economici, quella dei nostri migliori cervelli. E se il calcolo non è facile, il danno prodotto da questa emorragia negli ultimi 20 anni è stato stimato in 4 miliardi di euro, una cifra pari all’ultima finanziaria.
Proprio «Il sapere in fuga, come fermarlo» è il tema che al centro dell’appuntamento di questa sera di Unitalia, l’iniziativa lanciata dal nostro giornale per affrontare temi caldi con ospiti autorevoli, in giro per l’Italia. Una serie di momenti di confronto, che trovano spazio nelle Feste democratiche per sviluppare argomenti che ci stanno a cuore e che ogni volta potranno essere seguiti in diretta streaming sul nostro sito, unita.it, sempre a partire dalle 21.
Ospiti dell’incontro di stasera, organizzato alla festa del Pd a Pisa, saranno il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo, e Paolo Valente, fisico e rappresentante nazionale dei ricercatori dell’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare. E come in ogni appuntamento di Unitalia, a coordinare il dibattito saranno il direttore de l’Unità Claudio Sardo e Giommaria Monti, direttore di Left, la rivista che ogni sabato trovate allegata al nostro quotidiano e con cui abbiamo stabilito, già da tempo, un percorso di idee e collaborazione in comune. È alle loro domande e sollecitazioni che il ministro Profumo risponderà, non solo sulla situazione dei ricercatori italiani e sugli strumenti da mettere in campo per cercare di arrestare la loro fuga, ma a tutto campo su scuola, università e riforme. Un argomento scottante in un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e dove le migliori forze, il futuro della nostra Italia, sono costrette a guardare, cercare altrove. Con una perdita di intelligenze che ormai non riguarda più soltanto i ricercatori, ma anche gli studenti, e con danni che si quantificano in maniera pesante se si guarda ad esempio alla classifica dei brevetti: il valore attuale dei brevetti realizzati da team guidati dai 20 migliori scienziati italiani all’estero è di 861 miliardi di euro. Una cifra che raggiunge i due miliardi se si prendono gli ultimi 20 anni.
Quello di Pisa è il secondo appuntamento di Unitalia, dopo il successo di quello che si è svolto venerdì scorso a Piombino, ospiti la leader della Cgil Susanna Camusso, il responsabile economia Pd Stefano Fassina e quello della piccola industria di Confindustria Vincenzo Boccia, sui temi del lavoro e dello sviluppo.
Già in agenda per questo sabato, sempre alle 21 ma stavolta a Bologna, alla festa provinciale del Pd, l’incontro dedicato al costo della politica. Altro tema caldissimo, di cui si discuterà con Antonio Misiani, deputato e tesoriere del Partito democratico, e Mario Staderini, segretario dei Radicali italiani. Mentre un quarto dibattito si terrà probabilmente sabato 15 settembre a Milano. Come sempre, tutto in diretta su www.unita.it. Per seguirci basterà un clic.

l’Unità 6.9.12
Chi vuole bloccare il cambiamento
di Michele Ciliberto


IN ITALIA SIAMO ABITUATI, SE NON A TUTTO, A MOLTE COSE. MA LA DICHIARAZIONE di Pietro Grasso sulle «menti raffinatissime» che sono all’opera, come nel 1992, per impedire una soluzione positiva della crisi italiana non può passare inosservata. Quale è la situazione dell’Italia in questo momento? Qual è il nostro problema principale? Credo debba essere questo il punto centrale della discussione, né, a mio giudizio, ci sono dubbi sulla risposta. In questione oggi è il destino, e il futuro, dello Stato nazionale italiano, per motivi sia di ordine interno che internazionale. Riguardo a questi ultimi, sono sotto gli occhi di tutti le gravissime difficoltà in cui si trova il nostro Paese, e i problemi che sono oggi aperti intorno ai rapporti tra sovranità nazionale e sovranità europea.
Ma non meno decisivi, e gravi, sono i problemi di ordine interno. Anzi, per molti aspetti, è anzitutto qui che bisogna guardare per capire cosa sta effettivamente accadendo.
In Italia sono oggi in profonda crisi sia il potere esecutivo che quello legislativo e giudiziario. Se si volesse usare una espressione del linguaggio ordinario si potrebbe dire che stanno «saltando» i binari e che viviamo in una situazione eccezionale, in cui tutto è diventato possibile.
L’azione del presidente della Repubblica compreso il conflitto di attribuzione sollevato presso la Corte costituzionale si situa in questo contesto: è un momento importante ma un momento di un’azione che, restando nell’ambito delle proprie prerogative, si sta sforzando da tempo di evitare che il Paese deragli e di ricostituire le fondamenta della legalità e le regole repubblicane. In questo senso è anche, oggettivamente, una iniziativa politica opportuna, a mio giudizio. Ma certo, esposta, proprio per questa sua natura, alla possibilità di critiche di varia natura.
Detto questo, resta però da capire perché la presidenza della Repubblica venga attaccata con questa violenza e perché sia stata individuata da un fronte composito come il nemico principale, l’ostacolo da abbattere con tutti gli strumenti possibili.
Si può cominciare a capirlo se si analizzano gli schieramenti in campo e, quando ci siano, le strategie da essi proposte, sapendo che il governo Monti periodizza anche da questo punto di vista la storia della Repubblica.
Semplificando, le proposte principali di soluzione della crisi sono in sostanza tre: la democratica; la tecnocratica; la neo-giacobina. Esse ed è un punto interessante non sono, peraltro, specifiche di un singolo partito: ad esempio, la soluzione democratica e quella tecnocratica convivono nel Pd.
A conferma della complessità, della vischiosità e anche della novità della situazione, va però subito detto che a queste tre se ne aggiunge una quarta, altrettanto importante: paradossalmente, si potrebbe definire quella della non-soluzione della crisi. In altre parole, è quella che, in una situazione come quella attuale, punta, da un lato, a una sorta di «feudalizzazione» dei poteri economici e politici (con un nuovo ruolo politico e organizzativo affidato ai giornali); dall’altro a un declino del nostro Stato nazionale come realtà autonoma e specifica, con una strategia che non ha nulla a che fare con le vecchie politiche della Lega di Bossi: qui è l’idea di Stato in quanto tale che viene subordinata a una riorganizzazione proprietaria dei poteri, refrattaria ad ogni regola a cominciare da quelle sindacali -, e proiettata in un orizzonte post-statale e post-nazionale. Riprendendo la distinzione schematica ora proposta, sono forze che si oppongono frontalmente alla proposta «democratica»; ma sono distanti anche dalla prospettiva «tecnocratica» o dall’ipotesi di una «grande coalizione».
Né c’è da fare dietrologia. Basta limitarsi alla lettura di alcuni giornali per vedere all’opera forze che tengono in una condizione di tensione permanente il Paese per evitare che la crisi trovi una soluzione politica. Sono forze favorite, e alimentate, da alcuni dati obiettivi: la crisi dei partiti e delle culture politiche tradizionali; la decomposizione dei vecchi legami sociali ed economici; la frantumazione delle strutture associative, a cominciare dal sindacato; e, naturalmente, la crisi della sovranità nazionale...
Dicendo questo non penso solo alla camorra o alla mafia (cosa ben nota); ma a forze economiche ed politiche che puntano alla crisi e alla dissoluzione dei «vincoli» essenziali dello Stato, proprio mentre il problema del rapporto tra sovranità nazionale e sovranità europea si configura in termini, per molti aspetti, drammatici. La violenza e la durezza dell’attacco alla presidenza della Repubblica e al suo ruolo nasce qui: essa è, di fatto, individuata come l’ostacolo politico principale a questo disegno. Quella che si sta svolgendo in questi mesi è una battaglia integralmente politica, condotta con tutte le armi-lecite ed illecite-; ed è strategica per una serie di forze che stanno cercando di ricollocarsi dopo la fine del berlusconismo per fronteggiare e risolvere la crisi internazionale a proprio vantaggio. Questa è la sostanza della cosa. Si tratta di un complesso di forze potenti, ed è, certo, possibile che, alla loro testa, siano «menti raffinatissime»; ma per capire come esse agiscono e cosa vogliono basta Karl Marx. Quelli che sono in campo sono interessi precisi, materiali, che si sono schierati sulla base di quelle che considerano le proprie convenienze.
Credo che sia un altro, invece, il punto principale da sottolineare per capire la situazione in cui ci troviamo: la realtà dei fatti, specie in queste ultime settimane, è stata fortemente annebbiata, e confusa, da uno scontro ideologico di estrema violenza. Non è la prima volta, né sarà l’ultima. Ma in questo caso la nebbia si è particolarmente infittita perché l’ideologia si è «colorata» in buona o in cattiva fede (mi guardo bene dal fare di ogni erba un fascio) di «legalismo» e di «moralismo», diffondendosi e trovando consensi anche a sinistra. E si capisce: il «moralismo», oltre ad essere una cosa in sé rispettabile, è un classico, ed eccezionale strumento ideologico anche se non è mai servito per capire, o per cambiare, la realtà. Ma questa «coloritura» (parola cara a Machiavelli) ha contribuito ad accentuare ulteriormente la confusione sotto il cielo.
A differenza di quanto pensava il presidente Mao, da questa confusione è però necessario uscire, e per farlo bisogna richiamare l’attenzione di tutti sul punto centrale, mettendolo in piena luce: il nostro destino come Stato, come comunità nazionale imperniata sui diritti e sui doveri sanciti dalla Costituzione. Giorno dopo giorno, intorno a noi sale una marea che travolge ogni cosa, anche i principi elementari di un possibile confronto. Per cercare di ristabilire le fondamenta del nostro «vivere civile» a cominciare da quello costituzionale occorre andare alla sostanza delle cose ponendo al centro della discussione, in modo rigoroso e disincantato, le ragioni interne e internazionali della lunga crisi dello Stato italiano, i motivi profondi del conflitto attuale, interrogandosi ed è il punto decisivo su quale possa essere un suo possibile futuro, mentre si esaurisce il paradigma «moderno» della statualità.

l’Unità 6.9.12
Matteo Orfini: «Renzi non è un rinnovatore, servono idee nuove»
«Il sindaco si pone in continuità con quelli che vuole rottamare. Una nuova classe dirigente va selezionata nel Paese, non nei palazzi della politica»
di S. C.


«Renzi è l’ultimo giapponese di una linea che in tutto il mondo è stata abbandonata», dice Matteo Orfini. Il responsabile Cultura e informazione del Pd dice anche che alle primarie voterà Bersani e che il tema del rinnovamento va posto, ma non sul piano puramente anagrafico, come fa il sindaco di Firenze, bensì su quello politico. «E da questo punto di vista Renzi non è un rinnovatore, si pone anzi in continuità con molti di quelli che vuole rottamare».
Intanto: dice che le primarie si faranno?
«Certamente».
Per mandare all’aria quel patto di sindacato tra i big del partito di cui si vocifera da quest’estate?
«Le primarie lo renderebbero impossibile, ma se Bersani dice che non esiste alcun patto, non esiste alcun patto».
Allo stato la discussione sulle primarie non sembra però far bene al Pd, non crede?
«La sfida deve essere sul progetto per l’Italia, cosa che mi sembra Bersani stia facendo, parlando di lavoro, crisi, Europa. Altri portano il discorso su un terreno che con progetti e programmi ha poco a che fare, mentre sarebbe bene che si politicizzi il confronto, parlando di quale profilo debba avere il futuro governo di centrosinistra».
“Altri” sarebbe Renzi?
«Finora ha fatto emergere esclusivamente il tema della rottamazione».
Sì ma nel Pd ci sono anche altri che hanno sollevato questioni tutt’altro che programmatiche: si deve dimettere da sindaco, tanto per dirne una.
«È sbagliato accettare la rissa. Anche perché quando si inizierà a discutere del programma politico, si vedranno le differenze tra i candidati e si capirà che Renzi è l’ultimo di una generazione datata, non il primo di una nuova».
Un giudizio che andrebbe argomentato...
«Sulla Fiat sta con Marchionne, sulla Pubblica amministrazione fa uscite alla Brunetta, si mette nella scia di una certa idea di sinistra che andava di moda vent’anni fa, si pone come il prosecutore di una politica che una parte della classe dirigente del centrosinistra ha messo in campo negli anni ‘90 e che oggi in tutto il mondo viene considerata fallimentare, responsabile della crisi che stiamo vivendo. Si pone insomma in continuità con molti di quelli che vuole rottamare».
Il tema del rinnovamento però va posto, non crede?
«Ma certamente, e non solo in politica, ma in tutti i settori della società italiana. Però va impostato discutendo di idee, di programmi. Da questo punto di vista, veniamo da una storia che ha lasciato tanti problemi e che il centrosinistra in due occasioni in cui è stato al governo non è riuscito a risolvere. Pensiamo all’introduzione della flessibilità senza un’adeguamento del welfare, che ha portato alla precarizzazione del lavoro, pensiamo alla costruzione dell’Europa lasciando che fosse soltanto una moneta. Per questo, nel futuro governo di centrosinistra non ci potranno essere gli stessi che si sono misurati con quella sfida e hanno fallito».
Bindi chiede rispetto per le persone e la storia di quegli anni.
«Non penso che dicendo queste cose si manchi di rispetto. Si tratta di un ragionamento politico. Bisogna fare qualcosa di nuovo, la politica deve selezionare
una nuova classe dirigente prendendola nel Paese, non nelle stanze dei palazzi romani. Serve rinnovamento, non la somma di ambizioni personali di leader consumati».
A breve dovrete decidere le regole per le primarie: che ne pensa dell’ipotesi del doppio turno?
«È un’idea interessante. Sarà una sfida vera, è importante che chiunque vinca abbia una legittimazione forte».
E se si andasse a votare con una legge elettorale proporzionale e che assegna il premio di governabilità al primo partito, hanno ancora senso le primarie? «Certamente, andranno comunque fatte, anche se saranno una sfida tra candidati del Pd».
Si è fatto un’idea sul perché alcuni dirigenti del suo partito invece non le vogliano fare?
«Le primarie obbligano a misurarsi col consenso che si ha nel Paese. Sono una sfida affascinante e Bersani ha dato una lezione a tutti, visto che poteva rivendicare quanto scritto nello Statuto. Evidentemente, c’è invece qualcun altro che teme di misurare il consenso di cui gode tra i nostri elettori».

Corriere 6.9.12
«Ora solo alleanze per governare Basta campagne contro i dirigenti pd»
D'Alema: l'agenda Monti è irrinunciabile, poi abbiamo anche una nostra agenda
intervista di Roberto Zuccolini


ROMA — Massimo D'Alema non è tranquillo. Anzi, è decisamente inquieto. Per la crisi, che deve essere «la prima preoccupazione di tutti», governo e partiti. Ma anche per il «degrado» del dibattito politico che ruota «attorno alle persone e non alle idee» e che è il terreno fertile per lo sviluppo di fenomeni di antipolitica come il grillismo. «È un dovere fare presto la legge elettorale e poi andare alle urne, in tempi ragionevoli, in modo che si evitino pericolosi vuoti istituzionali». E quindi, al massimo a metà marzo, in modo che «non ci si trovi nella situazione in cui manchi un governo ed un presidente della Repubblica nella pienezza dei suoi poteri». Cioè, con Napolitano a nominare il nuovo esecutivo.
Nel suo ufficio di presidente del Copasir, ai piani alti di Palazzo San Macuto, D'Alema sta preparando un incontro con l'ambasciatore armeno per parlare del Nagorno-Karabakh. Ma lo assillano i titoli dei giornali che sono sul suo tavolo, con le prime pagine che insistono su un'altra guerra, piuttosto nostrana, quella delle primarie. Parlano quasi tutte di Matteo Renzi. E lui non riesce a digerirlo. Non la candidatura in sé, ma la campagna già lanciata dal sindaco di Firenze, che «appare essere rivolta non alla costruzione di una prospettiva di governo, ma esclusivamente contro il gruppo dirigente del Pd e tutti i potenziali alleati di governo del centrosinistra».
Intanto però non si fa che parlare di Matteo Renzi, fuori e dentro il Pd.
«Registro con amarezza che sembra essere sostenuto soprattutto da quelli che il Pd al governo non lo vogliono, a partire dalle personalità politiche e dai giornali che fanno riferimento al centrodestra. Tutto questo dovrebbe preoccupare Renzi, anche perché non credo che fosse il suo progetto».
C'è chi, come Rosy Bindi, mette in dubbio lo svolgimento delle primarie.
«Non mi sembra ci siano preoccupazioni di questo tipo. Mentre invece mi chiedo che fine abbiano fatto le primarie del Pdl. L'errore è che la sfida è partita senza parlare dei problemi del Paese. La situazione sociale ed economica è drammatica. Tante persone si interrogano sul futuro loro e dei propri figli e invece si assiste ad uno scontro tutto interno al ceto politico. C'è una curiosa distorsione del dibattito sul rinnovamento. Mentre Berlusconi si ricandida, sembra che questo passi per la cacciata dal Parlamento dell'intero gruppo dirigente del centrosinistra».
Ma non esiste comunque un problema generazionale?
«Certo che esiste, tanto è vero che la segreteria di questo partito è affidata ad una nuova generazione e intendiamo proseguire su questa strada».
Il potere reale, dicono, resta nelle mani dei vecchi dirigenti.
«Non è vero nel modo più assoluto. Ci sono, come è naturale, esponenti che per la loro storia hanno un peso nella vita politica e nel rapporto con l'opinione publica. Ma questo dovrebbe essere considerato una risorsa. E comunque non è un problema che si possa affrontare con misure di carattere amministrativo o disciplinare. Anche noi quando eravamo giovani, ci siamo misurati con una classe dirigente autorevole. Abbiamo discusso, non abbiamo pensato di stabilire per regolamento che doveva essere cacciata».
È più vicino Renzi o Bersani all'agenda Monti?
«Monti è diventato presidente del Consiglio grazie ad una scelta generosa e responsabile di Bersani che ha rinunciato alle elezioni e ha privilegiato gli interessi del Paese. Monti può governare grazie al sostegno di Bersani e del nostro partito. Cosa proponga Renzi nei contenuti ancora non l'ho capito».
Lei lo ha giudicato non in grado di fare il presidente del Consiglio. In questo modo non lo delegittima anche come sindaco?
«Ho detto che per governare il Paese in un momento così difficile e unire il Pd e il centrosinistra la persona più adatta è Pier Luigi Bersani. Non mi pare che ci sia nulla di offensivo nei confronti di Renzi. E non capisco cosa c'entri il Comune di Firenze. Ci sono tanti bravi sindaci che in questo momento non sarebbero adatti a fare il presidente del Consiglio».
Ma con che regole vanno fatte le primarie?
«Spetterà ad altri definirle. L'importante è avere regole che impediscano manipolazioni e inquinamenti, come negli Stati Uniti dove esiste l'albo degli elettori. Albo a cui tutti possono iscriversi e quindi sono primarie aperte a tutti».
Si riuscirà a fare la riforma elettorale?
«Si tratta di un dovere. Il miglior sistema è il collegio uninominale. Il sistema tedesco lo comprende. Va senz'altro accompagnato da circoscrizioni piccole e una correzione maggioritaria che sia l'effetto combinato di uno sbarramento e di un significativo premio di maggioranza».
Al partito o alla coalizione?
«Noi proponiamo alla coalizione. Poi si vedrà, stanno trattando».
Ma le alleanze vanno fatte prima o dopo il voto?
«In tutto il mondo si fanno dopo. Prendiamo l'esempio della Gran Bretagna: Cameron ha chiesto il voto per il suo partito, poi non avendo l'autosufficienza ha fatto un'alleanza con i liberali di Clegg. In ogni caso il Pd ha già detto con chiarezza con chi si vuole alleare. Il vero problema non è quando si dichiarano le alleanze, ma se esse funzionano ai fini del governo. Abbiamo sperimentato per venti anni alleanze che poi non sono state in grado di governare. Dovremmo aver capito la lezione».
Dichiarerete la vostra alleanza con l'Udc prima del voto?
«Lo abbiamo già detto. Bersani ha spiegato che vogliamo l'unità dei progressisti con Sel ma riteniamo che il governo debba nascere dall'alleanza con i moderati».
La campagna per i diritti civili portata avanti da Vendola, come il matrimonio gay, non rischia di diventare tema di campagna elettorale?
«Certamente sarà un tema della campagna elettorale e credo che il Paese debba fare un passo avanti sul tema dei diritti civili. Tuttavia penso che la crisi economica e sociale imporrà altre priorità. Il problema è non fare di questi argomenti una discriminante ai fini della costituzione di una maggioranza di governo. Sono temi che dividono trasversalmente le forze politiche e sui quali deve svilupparsi un confronto libero. Non dimentichiamo che la legge sul divorzio e la 194 sull'aborto furono ottenute con il voto contrario del maggior partito di governo, la Dc».
Lei è favorevole?
«Io personalmente non ho nulla in contrario, ma penso che se si vuole trovare una soluzione condivisa non si può non tener conto, nel nostro Paese, anche della sensibilità del mondo cattolico».
All'estero si guarda con preoccupazione al dopo Monti. Ci vorrebbe un Monti bis?
«L'agenda Monti è un punto di partenza irrinunciabile. Non arretreremo sul rigore, non intendiamo smontare le riforme. Detto questo noi abbiamo una nostra agenda che va dal lavoro alla giustizia sociale e alla riduzione delle disuguaglianze. Monti ci ha dato la possibilità di tornare ad avere una voce in Europa. Ma ricordo che noi in passato abbiamo governato con Ciampi, Prodi e Padoa Schioppa. In Europa lo sanno».
Esistono patti segreti nel centrosinistra per spartirsi le cariche dopo il voto?
«È una sciocchezza. I ministri li nomina il Capo dello Stato».
Monti o Prodi al Quirinale?
«La scelta non è nelle disponibilità di un partito. E poi non conosco nessuno che sia stato proposto da un solo partito e poi eletto».
Riferimento autobiografico?
«Come è noto anch'io sono stato candidato, ma non venni eletto perché il centrodestra giudicò la mia scelta troppo politica. Io ne presi atto e presentammo la candidatura di Napolitano con senso di responsabilità, facendo, come si è visto, cosa utile e positiva per il nostro Paese».
È favorevole ad una legge che regoli la pubblicazione delle intercettazioni?
«A suo tempo il governo Prodi presentò un ddl sulla materia. Se lo avessimo approvato saremmo al riparo da certi abusi. Oggi la priorità è la legge contro la corruzione. E non è che abbiamo infiniti mesi di fronte a noi, dato che c'è la riforma elettorale e ci sono i provvedimenti sulla crescita. Bisogna andare alle elezioni in tempi ragionevoli: se dovessimo eleggere il Presidente prima del nuovo governo si creerebbe un vuoto di potere troppo lungo».
È stata ironica la recensione al libro di Veltroni, come sostengono alcuni?
«La verità è che ho letto il libro e mi è piaciuto. Con Veltroni ho avuto, ho e avrò tanti motivi di dissenso politico, ma non ho mai avuto ragioni di rissa personale. Un giorno ti può piacere un romanzo, un altro si può discutere sulle primarie...È la normalità della vita. E della vita politica».

Corriere 6.9.12
Renzi: più mi attaccano più ho consensi
Bersani assicura: primarie aperte, nessun patto per spartirsi cariche
di Monica Guerzoni


ROMA — «Rompere l'argine», prima che il Pd venga «portato via». Lasciare che siano i cittadini e non le classi dirigenti a scegliere i programmi. Rottamare ciò che è vecchio, non per età anagrafica ma perché «se uno è stato vent'anni in Parlamento, quello che poteva fare ha fatto». Dalla convention democratica di Charlotte, negli Usa, Matteo Renzi piccona le colonne portanti del Pd. D'Alema? «È andato a Palazzo Chigi non perché è stato eletto, ma perché ha cucito una relazione con Mastella e Cossiga». Gli chiedono di dimettersi da Palazzo Vecchio e lui fa spallucce: «Non sta né in cielo né in terra!». Un fiume in piena, uno tsunami in arrivo: «C'è un gruppo dirigente che si definisce unico rappresentante del Pd. Ma ha fatto il suo tempo e lo vedremo alle primarie...».
Visti i toni di uno che, a 37 anni, non ha pudore di paragonarsi all'inquilino della Casa Bianca («Obama nel 2008 ha vinto proprio contro la macchina del partito»), adesso anche Bersani comincia ad aver paura, a temere che le primarie per la premiership possano terremotare il partito e innescare quel «riequilibrio» al vertice che lo sfidante ha indicato tra gli obiettivi della sua battaglia. Nelle stesse ore al segretario del Pd tocca smentire le voci, sempre più assordanti, di un «patto» tra i maggiorenti del partito per spartirsi i posti chiave della prossima legislatura. «Sgombriamo il campo da cose che non esistono — ammonisce Bersani rivolto più ai leader del Pd che alla stampa —. Sento, vedo che da agosto in qua ci sono indiscrezioni su ipotetici patti che io avrei fatto per cariche istituzionali, cariche di partito, cariche di governo...». Veltroni alla presidenza della Camera? Franceschini segretario? D'Alema, Letta e Fioroni ministri? Bindi vicepremier? Niente di tutto questo, giura Bersani. «Non ci sono in corso né patti grandi, né patti medi, né patti piccoli». E anche Veltroni smentisce le «invenzioni» di chi lo vede già assiso sullo scranno più alto della Camera. E quando Bersani dice «io lavoro per un partito unito, rinnovato, contendibile e senza padroni» sembra replicare a chi insinua che i capicorrente stiano prendendo a bersaglio più lui che Renzi: «Vorrei che si sgombrasse il campo da cose che non esistono e si parlasse di Italia». E qui il leader mostra di aver compreso quello che molti commentatori vanno dicendo nelle ultime ore. E cioè che più si prova a demolirlo, e più il sindaco cresce nei sondaggi, tanto che alcune rilevazioni prevedono un testa a testa. «Non seguo queste cifre, i conti si fanno alla fine», ci va cauto Renzi e provoca i suoi detrattori, pregandoli di non attaccarlo tutti insieme: «Ogni attacco che ricevo provoca l'apertura di 5-10 circoli a nostro favore...».
Visto il crescendo di polemiche, le tensioni al vertice e ora anche l'incertezza sul risultato, la segreteria ha riservatamente affrontato il tema «primarie sì, primarie no». Ma per quanto spiazzati dalla discesa in campo di Renzi, il leader e i suoi hanno convenuto che non sia ormai possibile fermare la macchina elettorale. «Non abbiamo già vinto le elezioni e non possiamo fare marcia indietro», avverte via Twitter l'ex ministro Paolo Gentiloni. E il sindaco di Firenze torna a dire che mettere in discussione un «elemento fondante del Pd» equivarrebbe a mettere in discussione il partito stesso: «Su questo Bersani è una tutela. Ha dato la sua parola che si faranno entro l'anno e che saranno aperte». Perché dovrebbe dubitarne? «Ho chiesto io primarie aperte, anche in deroga al nostro statuto» ricorda il segretario, che ieri con l'altro candidato, Bruno Tabacci, ha parlato delle regole del gioco. «Verrà adottato «un sistema rigoroso per evitare brogli», anticipa Pino Pisicchio dell'Api. Il Pd ribolle. Fioroni torna a chiedere a Renzi di lasciare Palazzo Vecchio entro il 28 ottobre per candidarsi al Parlamento. Che succede se le primarie le vince lui? «Può il candidato del centrosinistra restare in panchina alle politiche? «E se la sua coalizione non dovesse vincere — incalza Fioroni —, è forse serio pensare che il capo dell'opposizione fugga e si ritiri a Palazzo Vecchio?».

il Fatto 6.9.12
Fatta l’Imu trovato l’inganno
di Marco Politi


Sorpresa! Il governo non ha approntato i decreti attuativi per fare pagare l’Imu agli immobili della Chiesa. C’è il rischio – lo denuncia Milano Finanza non certo accusabile di manie anticlericali – che la Chiesa non paghi il dovuto nemmeno l’anno prossimo. Il governo nega e dice che a breve il regolamento attuativo sarà pronto. “A breve” è una parola grossa, perché le norme per spiegare bene agli enti ecclesiastici come non evadere più le tasse dovevano essere già note maggio scorso.
Lo dice il comma 3 dell’articolo 91 bis della legge 24 marzo 2012 che il ministro dell’Economia e delle Finanze (lo stesso Mario Monti, all’epoca) doveva emanare le norme apposite “entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge”. Cioè il 24 maggio. Una lentezza sorprendente.
Borbottano al ministero delle Finanze che la materia “è complessa”. In realtà non doveva essere difficile separare il commerciale dal non commerciale. In altri paesi europei non si sono rotti particolarmente la testa. Ma la via dell’inghippo è già contenuta nel decreto legge, fatto per evitare la “Procedura d’infrazione” messa in moto dall’Unione europea per condannare decenni di scandalose esenzioni.
PREVEDE, infatti, la legge che negli edifici a “utilizzazione mista” l’eventuale esenzione (alle abitazioni dei religiosi o alla famosa cappella) “si applica solo alla frazione di unità, nella quale si svolge l'attività di natura non commerciale”. Fin qui tutto chiaro. Ma poi segue una parolina: “…se identificabile…”. E qui si apre il varco alle furbate. Se la divisione dell’edificio non si può fare con chiarezza, dice la legge, l’“esenzione si applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile quale risulta da apposita dichiarazione”. Cioè l’ente ecclesiastico soggetto a tassazione si mette a calcolare per conto proprio (e poi lo dichiara al fisco) quanti spazi e metri quadrati dell’edificio servono a usi non commerciali: corridoi, scale, pianerottoli, parcheggi, stanze varie, spazi ad “uso comune”? Chissà? Dalle carte Vatileaks apprendiamo che Gotti Tedeschi, quando era ancora presidente dello Ior, aveva già trafficato con il ministro Tremonti per arrivare a parametri che definissero“livello di superficie usata, tempi di utilizzo e di ricavo”. Si noti la finezza: tempi di utilizzo!
L’immobile commerciale andrebbe tassato soltanto nei mesi in attività. Come se un albergo normale non pagasse l’Imu durante la chiusura stagionale.
La lentezza del ministero delle Finanze, che Monti ha tenuto fino all’11 luglio scorso, sta tutta in questa ricerca di sottigliezze per agevolare il più possibile la definizione dei parametri di “non commercialità”. È ovvio che siamo ben lontani dall’angolo in parrocchia.
Graziano Delrio, presidente dell’Anci, aveva proposto nel dicembre scorso l’istituzione di una “anagrafe degli immobili ecclesiastici”. Quelli destinati al culto avrebbero continuato a essere esentati e quelli commerciali avrebbero pagato. In casi controversi, sosteneva il presidente dell’associazione dei Comuni italiani, era “giusto che sia il Comune di appartenenza a giudicare se vada versata l’imposta o meno, sulla base delle attività svolte”.
Non risulta che la Cei si sia attivata per creare un’anagrafe del genere né che il governo abbia premuto per farlo. D’altronde anche il governo tecnico Monti, così sollecito a riferirsi al quadro normativo europeo, non ha mostrato il minimo interesse per una norma cardine vigente in Germania: i soldi pubblici vanno solo a enti che pubblicano il loro bilancio. Ci fosse in Italia, ordini religiosi e diocesi, destinatari di 8 per mille o altri sussidi statali, sarebbero indotti alla trasparenza assoluta.
C’È POCO da sperare che i tanti enti ecclesiastici evasori adottino il comportamento virtuoso delle suore che a Roma gestiscono l’hotel Giusti: il loro albergo si estende su tre piani, gli altri due costituiscono il convento: ma le suore hanno deciso da anni di pagare le tasse sull’intero edificio. Nella sola Roma si sono accertate evasioni per 25 milioni di euro. In Italia si può calcolare tranquillamente qualche centinaio di milioni di euro. Soldi che il governo non ha fretta di incassare. Infatti ha condonato le tasse per il 2012. Un regalo fiscalmente ingiustificabile. Ma c’è un neo: rimandando il pagamento Imu per gli enti ecclesiastici commerciali al 2013, il governo si rende passibile ex nunc di una nuova procedura di infrazione presso la Ue a motivo della concorrenza sleale tra alberghi normali e alberghi ecclesiastici.

Repubblica 6.9.12
Imu-Chiesa, il governo prova ad accelerare
Tesoro: “Niente proroghe”. Entrate fiscali +4,7%, dall’acconto sulla casa 3,9 miliardi
di Valentina Conte


ROMA — Anche la Chiesa pagherà l’Imu, senza alcuna proroga né ripensamento, a partire dal prossimo anno. La conferma arriva in serata dal ministero dell’Economia. «Tutti gli adempimenti previsti per il 2013 non subiranno alcun ritardo», si legge nella nota. A cominciare dal «primo versamento Imu fissato per il 16 giugno».
Un altro modo per dire che il decreto ministeriale, atteso per la fine di maggio, ancora non c’è, come riferito ieri da Repubblica.
Ma ci sarà «a breve». «In data odierna», ovvero solo ieri, scrive ancora il dicastero guidato da Grilli, «il ministro ha trasmesso al Consiglio di Stato, per il prescritto parere, lo schema di regolamento di attuazione dell’articolo 91 bis». Modello indispensabile a Chiesa - ma anche partiti, sindacati, fondazioni, associazioni - per calcolare (entro il 2012) quanta parte degli immobili a «utilizzazione mista » sarà sottoposta all’imposta (nel 2013) e quale no. E distinguere, così, tra attività commerciale e culto, volontariato, politica, assistenza. Il dicastero di via Venti Settembre rivela poi l’invio di una «risposta puntuale» anche alla Commissione europea e alla sua «richiesta di informazioni relativa al caso C26/2010». Per chiudere così l’indagine aperta a Bruxelles contro l’Italia per aiuti di Stato, “mascherati” con la storica esenzione Ici agli immobili degli enti ecclesiastici.
L’accelerazione dell’Economia arriva dopo una giornata di rimpalli con Palazzo Chigi, dove il testo del regolamento sembrava giacere in atteso di un “visto”. Alla fine, però, la precisazione. E così «l’esame complesso della materia», che ostacolava l’iter Imu, si è sbloccato. La nota spiega che il decreto ministeriale, con lo schema per gli enti, riguarda solo il comma 3 dell’articolo 91 bis. Articolo aggiunto in extremis al Cresci-Italia, il provvedimento sulle liberalizzazioni diventato legge il 24 marzo, dal presidente del Consiglio in persona. Per due motivi: evitare le sanzioni Ue e sciogliere il nodo su una «materia delicata», così la definì, visti i malumori crescenti tra i proprietari di case (prime comprese), costretti a versare già da quest’anno un’imposta pesantissima. Il comma 3 di quell’articolo è relativo proprio agli immobili ad uso misto, la realtà più diffusa negli enti non commerciali. Laddove cioè non è immediato stabilire quanti metri quadri fanno utile (un bar in parrocchia che va ri-accatastato, però) e quali no. Detto in altro modo, laddove «non è possibile procedere al distinto accatastamento della frazione di unità immobiliare nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale». Il regolamento dovrebbe far luce su questi casi e indicare una modalità di calcolo.
La partita, secondo stime Anci (Comuni), potrebbe valere oltre 600 milioni. Entità mai confermata dai vescovi italiani (Cei), che però non ne hanno mai offerta una alternativa. Il censimento si farà solo grazie a queste nuove direttive. Ovviamente sono e saranno esenti dall’Imu (comma 1) tutti gli immobili destinati «esclusivamente » ad attività non commerciali, e non più «prevalentemente».
L’Imu intanto si conferma uno degli assi portanti delle entrate tributarie. Nei primi sette mesi del 2012 lo Stato ha messo fieno in cascina per 232 miliardi, il 4,7% in più del 2011 (10 miliardi aggiuntivi), «per effetto delle misure correttive varate a partire dalla seconda metà del 2011», scrive il ministero dell’Economia. Se il gettito Iva va giù (nonostante l’aumento di un punto) dell’1,5%, ovvero 880 milioni in meno, il primo acconto dell’Imu ha assicurato 3,9 miliardi, «in linea con le previsioni» (parte statale). Una discreta fetta dei 10 miliardi extra. Bene anche l’imposta sostitutiva sui redditi di capitale, l’imposta di bollo e quella di fabbricazione sugli oli minerali.

Repubblica 6.9.12
Inchiesta della procura di Campobasso: nove milioni destinati fuori dal territorio colpito
A 19 parrocchie i fondi pro terremotati “Favore elettorale del governatore del Molise”
di Giuseppe Caporale


CAMPOBASSO — Il sisma non colpì il loro territorio, eppure diciannove parrocchie della provincia di Campobasso chiesero e ottennero quasi nove milioni di euro dal fondo per l’emergenza del terremoto in Molise (avvenuto nel 2002). Bastò un’autocertificazione e nulla di più. Fu un “favore elettorale-propagandistico” da parte del governatore Michele Iorio (Pdl). Lo sostiene la Procura di Campobasso che ha inserito queste diciannove parrocchie nell’elenco di chi ha «indebitamente percepito fondi statali » nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei fondi post-sisma molisano.
Secondo il sostituto procuratore Fabio Papa quei soldi non dovevano essere erogati semplicemente perché quelle chiese non erano situate nell’area del cratere sismico. O almeno, non in quella stabilita con ordinanza dalla Protezione Civile. Quello dell’ottobre di dieci anni fa, secondo il pubblico ministero, fu solo
un “terremotino” (come lo definì l’allora presidente dell’Ingv Enzo Boschi) che coinvolse appena 14 Comuni. Fu poi il governatore Iorio – appena nominato commissario all’emergenza – con un atto monocratico ad allargare l’area del cratere ad altri 69 Comuni: in pratica, a tutti i Comuni della provincia di Campobasso (84) tranne uno. «Iorio – scrive il magistrato – ampliò il cratere abusivamente». Provocando così un danno
erariale per le casse dello Stato stimato dalla Procura molisana in 143 milioni di euro.
Nei giorni scorsi il pm Papa ha chiesto per Iorio il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio e
indebita erogazione di fondi statali e nel presentare la richiesta ha allegato due elenchi: quello dei sessantanove Comuni che non dovevano essere considerati “terremotati” e quello delle diciannove parrocchie che hanno indebitamente percepito i fondi pubblici. E in quest’ultimo elenco spiccano i due milioni e trecentomila euro erogati alla parrocchia di Santa Maria Assunta nel Comune di Guardialfiera, i 700 mila euro erogati
alla parrocchia di San Nicola di Mira nel Comune di Macchia Valfortore, i 600 mila euro alla parrocchia di Santo Stefano nel Comune di Limosano, i 550 mila euro all’istituto Speranza di Campobasso, i 538 mila euro alla parrocchia di Santa Maria Assunta del Comune di Spinete, i 658 mila euro alla parrocchia San Michele Arcangelo del Comune di Monacilioni, i 493 mila euro della parrocchia Sant’Elia Profeta nel Comune di Sant’Elia a Pianisi e il milione di euro consegnato ai frati minori cappuccini per la chiesa di San Francesco a Campobasso.
«Questa vicenda è solo la punta dell’iceberg – spiega Massimo Romano, consigliere regionale rappresentate della lista civica di centrosinistra Costruire Democrazia – tanti altri soldi dei fondi della ricostruzione e della ripresa post-sisma sono stati spesi assai peggio. Speriamo che la magistratura faccia, seppur a distanza di dieci anni, finalmente
piena luce».

il Fatto 6.9.12
Ora approvino una “legge Martini”
di Paolo Flores d’Arcais


Giulia Facchini Martini, nipote del cardinale Carlo Maria Martini, ha raccontato con semplicità toccante la morte dello zio, con una lettera che comincia così: “Caro zio, zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti, questo è il mio ultimo, intimo saluto”. Ci sono brani della lettera che riguardano soprattutto e forse solo i credenti, per i quali “lo spirito, la vera essenza, rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi” dopo la morte, dopo che “lì sul letto rimaneva soltanto l'involucro fisico”. Ma ce ne sono altri che ci riguardano tutti, riguardano da vicino ogni cittadino (e del resto, non è stata proprio questa cifra della presenza del cardinale a capo della diocesi di Milano a spingere tanti agnostici e atei a dargli l’estremo saluto ?).
SCRIVE GIULIA: “Tu vorresti che parlassimo dell’agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell'importanza della buona morte”. E sente che parlarne è un dovere, quando vede un malato di Sla che va incontro al feretro. Perciò si rivolge così allo zio: “Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato”. Ma di questo già è stato scritto, del rifiuto della nutrizione e idratazione artificiali che una sciagurata legge vorrebbe invece rendere obbligatoria per molti morenti. Più importante quello che segue: “Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato (…). Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato”.
Carlo Maria Martini ha deciso, deciso liberamente e sovranamente, il momento in cui voleva perdere definitivamente conoscenza, non “vivere” più la propria agonia e la propria morte. Questo e non altro, infatti, significa essere sedati. Non sentire più nulla, non provare più nulla, essere “fisicamente non cosciente” (anche se un credente crede, e dunque anche Giulia lo riafferma, che lo spirito misteriosamente resti presente nella sedazione, proprio come presente sarà anche nella morte e dopo, per l’eternità). Essere già, soggettivamente, nel sonno eterno, nell’eterno riposo, nella fine irreversibile di ogni sofferenza e di ogni angoscia.
Carlo Maria Martini ha giustamente goduto della libertà di scegliere il momento in cui dire basta, essere sedato, non dover provare più nulla, il momento in cui “una dottoressa con due occhi chiari e limpidi” ha compiuto il gesto che il malato ha chiesto. Questa è l’“alleanza medico-paziente”, troppe volte invocata a sproposito e sadicamente, per imporre al paziente ore e giorni di vigile sofferenza che vorrebbe rifiutare.
CARLO MARIA Martini ha goduto di un privilegio, mentre avrebbe dovuto godere di un diritto. Un privilegio, perché ogni giorno in ogni ospedale italiano ci sono esseri umani, “soggetti deboli”, che rivolgono la stessa richiesta, essere definitivamente sedati, non dover provare più nulla mentre il loro organismo si avvia verso l’ultimo respiro, e che non vengono esauditi, non trovano la loro “dottoressa con due occhi chiari e limpidi”, ma la disumana durezza burocratica che quella sedazione definitiva rifiuta. Malati terminali che per ore, giorni, settimane, sono costretti alla mostruosa altalena di periodi di sedazione alternati a periodi di veglia e coscienza, saturi di quelle angosce che il cardinal Martini ha giustamente preteso di evitare, di non percepire, di lasciar vivere al suo organismo ma non al suo essere cosciente. Ora attraverso le parole affidate alla nipote, chiede a tutti, dunque in primo luogo alle istituzioni “di condividere i suoi [del morente] timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia”.
Ecco, io credo che il modo migliore per onorare il cardinal Martini sarebbe una “legge Martini” che stabilisca in modo inequivocabile il diritto di ogni malato di scegliere il momento in cui ricevere una sedazione definitiva che lo accompagni in perfetta e irreversibile incoscienza alla morte dell’organismo. Ma sono ancora più certo che la Chiesa gerarchica e i politici che ne sono succubi (quasi tutti, anche a “sinistra”) e gli atei devoti e i falsi liberali che imperversano nei media e il cui nome è Legione, troveranno mille cavilli per dire no.

Repubblica 6.9.12
Che cosa resta del “tradimento” se l’azione dell’apostolo viene letta dal punto di vista del combattente
Giuda e l’autonomia della politica
di Eugenio Scalfari


Il caso di Giuda, anzi il mistero di Giuda che vendette Gesù per trenta denari e poi si impiccò mentre il cielo esplodeva solcato da fulmini e la terra tremava e il Cristo sulla croce esalava l’anima mortale prima di risorgere trasfigurato: così si conclude la storia terrena del Dio incarnato e si apre quella della nuova religione e della Chiesa che da duemila anni la rappresenta.
Il personaggio di Giuda lo zelota è uno dei punti centrali di quella storia e bene ha fatto Gustavo Zagrebelsky a rievocarlo con ampia documentazione teologica e letteraria nel suo articolo del 29 agosto sul nostro giornale. Le fonti e le interpretazioni da lui richiamate sono numerose, da libro di Benedetto XVI su Gesù al Vangelo di Giuda, fino al Thomas Mann del Doctor Faustus, a Borges e a molti altri teologi, scrittori, pensatori.
Bene ha fatto, perché il traditore, il rivoluzionario, lo strumento di Dio, il peccatore designato e addirittura necessario, la sua punizione che segna il massimo di incoerenza della divinità e del destino, sono temi sempre ricorrenti e tanto più nella nostra modernità agitata da contraddizioni al tempo stesso laceranti e non risolvibili, ricchezza e disperazione dell’epoca che viviamo.
Alle numerose citazioni di Zagrebelsky ne aggiungo una che sintetizza in modo esemplare i termini del problema e l’enigma che esso contiene. Sono due versi d’un sonetto di Gioacchino Belli, scritto a difesa degli ebrei accusati da secoli di deicidio: «Se Cristo era venuto pe’ morì / quarcheduno l’aveva da ammazzà».
Se la nostra vita è dominata dal destino, cioè è già scritta, l’enigma rappresentato da Giuda è irrisolvibile. O meglio, sancisce la non punibilità e l’irrilevanza delle opere ai fini della salvezza nel regno dei cieli. Dio ha già deciso tutto prima ancora che il tutto avvenga; ha deciso anche come dispensare la grazia e sarà la grazia a consentire alle anime prescelte di bearsi nella luce del Signore.
È vero che insieme alla grazia riservata ai prescelti il Dio cristiano ha dato a tutti la libertà di decidere i propri comportamenti. Dio, ovviamente, sa già quale sarà la decisione, ma consente che i figli di Adamo la prendano assumendone la responsabilità.
Attenzione: non Adamo. Adamo aveva ricevuto l’ordine di non mangiare i frutti dell’albero. La libertà di scelta non l’aveva. Trasgredì cedendo alla tentazione di Eva e del serpente. Fu scacciato dagli angeli e balzò nella storia insieme alla sua compagna; da meraviglioso animale diventò persona dotata di pensiero con tutto che ne seguì a cominciare da Caino e Abele.
Il «Genesi» la racconta così. Il Dio cristiano è diverso quasi in tutto dal Dio biblico ma accetta l’«incipit» così come accetta il decalogo mosaico come fondamento della morale sebbene la predicazione evangelica modifichi profondamente le tavole del Sinai.
Allora: Adamo come Giuda, anzi Giuda come Adamo? Due prescelti a farsi strumento necessario del disegno divino? Chi mai può dire - tra quanti credono nel Dio cristiano - se quei prescelti sono stati puniti o accolti nella grazia del Dio misericordioso? Adamo sicuramente sì: il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo proprio per assumere su di sé il peccato commesso all’origine dei tempi e ripristinare l’alleanza di Dio con le sue creature. A condizione che cessino di peccare.
In che modo possono adempiere a questa condizione? Lo dicono i Vangeli che raccontano il discorso della Montagna: scegliendo la «carità» come canone primario della nuova morale. La carità, cioè l’amore del prossimo, l’amore per gli altri è il solo modo d’amare il Dio cristiano infinitamente misericordioso.
Ma Giuda non ha amore per gli altri. Giuda ha una visione «politica», appartiene
ad una setta nazionalista, vuole cacciare i Romani, disprezza i membri del Sinedrio, spera che Gesù si metta alla testa di quel movimento.
Quando vede che il presunto Messia persegue tutt’altra strada, allora lo tradisce. Non c’è carità nell’animo politico di Giuda. Quindi è punibile e forse punito.
***
Ecco che siamo arrivati al punto. Un punto di estrema attualità, che può essere analizzato da diverse angolazioni: quella del credente cristiano, quella del non credente e quella della politica.
Del credente si è già detto. Non può certo penetrare nei misteri divini, ma che Giuda sia punibile non c’è per lui dubbio alcuno e la dottrina della Chiesa lo conferma.
La visione politica introduce una variante di grande importanza e cioè l’autonomia della politica e qui il discorso riguarda sia i credenti che i non credenti. Per questi ultimi Giuda ha tradito un rapporto di amicizia profonda e quindi è moralmente squalificabile; ma non ha commesso alcun reato poiché ha denunciato alle autorità religiose e civili un sovversivo che sta turbando la pace pubblica. Da questo punto di vista dunque Giuda è una sorta di «pentito» che accusa un terrorista.
Ma qual è invece la posizione dei teorici dell’autonomia della politica?
La politica, per i pensatori che hanno fondato la filosofia come scienza del sapere, è e dev’essere al vertice dell’attività umana perché riguarda le regole di convivenza della società, quello che si dice il bene comune.
La visione del bene comune deve tener conto di molti elementi: la storia d’un paese, il suo stadio di sviluppo culturale ed economico, i suoi punti di forza e di vulnerabilità, i paesi suoi vicini. La valutazione di questi elementi è ovviamente soggettiva, sicché la politica ha come fine dichiarato la conquista del potere per attuare quella visione del bene comune.
Alla lontana (molto alla lontana) il bene comune ricorda la «carità», cioè l’amore per gli altri; ma la carità non ha bisogno del potere, è e dev’essere il contenuto d’una vita. Il bene comune invece ha la conquista del potere come obiettivo irrinunciabile. E
quindi la lotta tra le diverse visioni. Questo è il connotato permanente dell’autonomia della politica.
Da questo punto di vista Giuda non è un traditore e neppure un «pentito» che denuncia un sovversivo, bensì uno «zelota» che ha una visione precisa di quello che per la sua parte è il bene comune del popolo di Israele, così come gli «esseni» avevano una loro visione e le tante altre sette che in quell’epoca di presagi pullulavano in Palestina. Giudicato come combattente politico, nelle azioni di Giuda non c’è nulla di condannevole anche perché non è affatto sicuro che volesse la condanna a morte del «maestro». Voleva probabilmente che scoppiasse uno scandalo, che il processo che gli fu intentato mobilitasse le varie sette politiche; che si formasse un’opinione pubblica, che in parte infatti si formò nel momento di scegliere la libertà tra Gesù e Barabba.
Da notare che il Sinedrio non voleva processare Gesù, tanto meno lo voleva
Erode e neppure Pilato. Alla fine fu il procuratore romano a rompere gli indugi: lo interrogò, lo fece suppliziare, lo sottopose al referendum popolare e invitò (ordinò) al Sinedrio di confermare la condanna. Così avvenne e furono i legionari romani ad eseguirla. Il potere romano in sostanza ne uscì rafforzato.
Poca cosa. In quel momento ben altre forze erano in moto nelle regioni del Medio Oriente e Roma era ormai un impero di cui la Palestina era un piccolo anche se importante tassello.
Comunque, la condanna di Gesù fu per lo zelota Giuda un fiasco colossale. Forse proprio per questo si impiccò, se le fonti che lo raccontano dicono il vero.
***
Concluderò osservando che la Chiesa è stata nei secoli ed è tuttora un’istituzione che ha - o dovrebbe avere - alla sua base la predicazione di Gesù e dei suoi apostoli, ma in quanto istituzione opera nella politica e non è seconda a nessuno nella lotta per la conquista del potere.
Naturalmente per attuare la sua visione del bene comune utilizza una doppia categoria: la pastoralità e la temporalità, la Chiesa predicante e missionaria e la Chiesa militante e politica. L’istituzione è la scatola, la pastoralità il contenuto; ma spesso è accaduto che la scatola, cioè la politica, diventasse il fine e soffocasse il contenuto.
Zagrebelsky scrive ad un certo punto che un Giuda, cioè un potenziale traditore, c’è probabilmente in ciascuno di noi, è il nostro «doppio» che contrasta l’autenticità della persona. Arrivo anch’io ad un’analoga conclusione ma per un’altra strada: ciascuno di noi ama se stesso ed è perfettamente fisiologico che ciò avvenga, ma ama anche gli altri, il suo prossimo. La nostra vita individuale e sociale nasce dalla continua dialettica tra queste due polarità. Oggi stiamo attraversando una fase in cui l’amore di sé predomina e le regole del bene comune giacciono dimenticate in qualche sudicio scantinato.
Facciamo il possibile per riattivarle, soprattutto per i figli e i nipoti che sperano nel futuro.

Repubblica 6.9.12
Insulti politici
Quando denigrare l’avversario è il grado zero della democrazia
Tipica è la volontà di ridurre il nemico a meno che uomo mettendone in dubbio la virilità o paragonandolo a un animale
L’ingiuria dal basso contro il potere fa parte da sempre della strategia dei populisti e degli outsider, spesso a corto di idee
di Carlo Galli


L’Iliade, l’archetipo della letteratura occidentale è appena cominciata (con la parola “ira”, per altro), e già due eroi, Achille e Agamennone, litigano. Per una donna (la schiava Briseide), certamente; ma è un litigio politico: i due sono entrambi re, capi di uomini; in quella disputa non è in gioco soltanto l’Ego debordante e fanciullesco di due protagonisti dell’infanzia del mondo; ne va del loro ruolo pubblico, della loro capacità di sopportare la vergogna, il giudizio altrui, e non solo della loro dignità privata. O meglio, le due dimensioni sono inscindibili. E infatti per delegittimarsi politicamente (come capi) i due si insultano personalmente (come uomini): «avvinazzato, tu hai lo sguardo del cane e il cuore di un cervo», dice Achille (il cane è l’emblema dell’impudenza, della mancanza di vergogna; e il cervo della viltà); e l’altro gli ha appena detto «sei odioso, devi imparare che sono molto più forte di te». L’insulto in questa sua forma politica essenziale è un’aggressione – questo è il significato di “insultare”: “saltare addosso” – che consiste nella diminuzione del prestigio, della gloria, dell’avversario; per colpirlo al cuore, nell’immagine di sé, prima che nel corpo; per comunicare disprezzo e quindi incutere timore. È parola violenta che prepara la violenza fisica.
L’insulto tipico è quello che riduce il nemico a meno che uomo, mettendone in dubbio la virilità, o meglio ancora paragonandolo a un animale, possibilmente immondo: “cane”, appunto; ma anche “porco”; oppure, più signorilmente, “pidocchio” – così si espresse Togliatti nel 1951, paragonando i due comunisti reggiani dissidenti, Cucchi e Magnani, ai pidocchi che possono annidarsi «anche nella criniera di un nobile cavallo» (il Pci; il cavallo non si presta all’insulto, sostituito dal più inespressivo, “asino”; mentre è sempre andato forte il “verme”). In ambito teologico – che in realtà è spesso anche politico –, «becchi privi di ragione» definisce Lutero i polemisti cattolici, mentre la corte papale è per lui “Babilonia”, la «grande meretrice» dell’Apocalisse, seduta sulla «bestia dalle sette teste e dalle dieci corna».
Si sarebbe potuto pensare che l’avvento delle moderne geometrie del potere – un processo che è avvenuto sotto il segno di un’altra bestia biblica, il Leviatano (il titolo dell’opera di Hobbes) – avrebbero eliminato la necessità di personalizzare la politica, trasformandola in un campo di impersonali funzioni di potere, dove si affrontano idee o interessi, forze storiche e orizzonti ideologici; in un mondo adulto, in cui c’è posto per il rapporto amico/ nemico – che è una cosa seria, anzi mortale –, ma che in linea di principio non prevede l’odio personale, il disprezzo morale per l’avversario. Nella politica moderna dovrebbe esserci posto per la violenza oggettiva, ma non per gli infantilismi, per le parolacce.
Nulla di meno vero. Quanto più ci si inoltra nella modernità, tanto più la polemica politica si fa accesa, e l’insulto si fa feroce: il mondo moderno è segnato non
solo dal potere statale ma anche dalle ideologie, che sono sì impersonali ma hanno bisogno del nemico: inteso però non tanto come avversario da battere, ma come nemico dell’umanità, da eliminare. E quindi mentre permangono i riferimenti alle bestie (nella Marsigliese «tigri senza pietà» vengono chiamati i «despoti sanguinari» contro i quali i «figli della Patria» debbono marciare), nella modernità – in cui gioca un ruolo rilevantissimo l’opposizione vecchio/nuovo (e tutto il valore sta nel secondo termine) – abbondano le dichiarazioni di morte presunta, a carico dell’avversario: che cosa c’è di più vecchio, superato, sorpassato, di un morto? Che cosa c’è di più giusto che porre fine alla nonvita di un morto vivente? Non a caso già lo stesso Hobbes definiva la Chiesa di Roma (insieme all’Impero) uno “spettro”, che è in questo mondo ma non dovrebbe esserci (“salma”, come oggi dice Grillo); e sulla stessa linea Togliatti, che da comunista credeva nell’inesorabilità del progresso, usava citare, contro gli avversari politici, due versi dell’Orlando innamorato (nella versione di Berni), in cui si parla di un cavaliere colpito da Orlando, che, non accortosi delle ferite, «andava combattendo, ed era morto». Sull’opposto versante, la violenza verbale di D’Annunzio a Fiume – ricca di non pubblicabili riferimenti scatologici rivolti ai politici di Roma, oltre che di tratti razzistici – anticipa quella di Mussolini contro il Partito Socialista Unitario (spregiativamente definito “pus”) e le ributtanti polemiche antisemitiche del regime, rivolte contro chi non poteva difendersi né ricambiare.
L’insulto è, insomma, una forma di violenza politica, che dice poco di chi è insultato, e molto di chi insulta. Si deve quindi distinguere fra l’insulto asimmetrico di un potere ideologico che prepara la persecuzione, lo sterminio, la guerra a morte, e l’insulto fra pari, un elemento antropologico arcaico che esprime la fisicità della politica, un rituale espressivo che precede il combattimento, a cui ogni politico di professione è preparato (come ha detto Obama a proposito degli attacchi di Clint Eastwood). C’è anche, lo vediamo sempre più spesso, l’insulto dal basso, contro il potere, che fa parte della strategia comunicativa degli outsider, dei populisti che parlano alla pancia del Paese (prima Bossi, ora Grillo); in bocca ai quali l’insulto è ovvio – meraviglierebbero di più le pacate argomentazioni –.
Ma in generale, in una democrazia – che non è uno stato di guerra, di aperto conflitto, di rivoluzione – non deve esserci spazio per l’insulto, per la violenza verbale, come non c’è per la violenza fisica. Il confronto sulle idee e sulle opinioni, per quanto appassionatamente difese, non può essere sostituito dall’assalto alle persone. Se ciò avviene, siamo davanti a una tipologia dell’insulto ancora diversa: all’insulto irresponsabile – che ignora il rischio che la violenza verbale inneschi quella fisica, che l’intolleranza accenda nuovi roghi –, e all’insulto che è una cattiveria vigliacca (magari smentita, fra i sogghigni, il giorno dopo). Astenersene sarebbe un gesto di sobrietà, di tolleranza, di civismo, di buona educazione; anche se la politica non è sempre un pranzo di gala, una “civil conversazione”, non è per nulla detto che la volgarità e la violenza verbale la rendano intensa e drammatica. Negli insulti di oggi non echeggia la grandezza omerica; semmai, si rivela lo squallido degrado della piccola politica, dei piccoli tempi, dei piccoli uomini, della piccola democrazia.

Corriere 6.9.12
Negati i domiciliari alla Franzoni «Non può accudire il figlio»


BOLOGNA — Anna Maria Franzoni non potrà avere la detenzione domiciliare a Ripoli Santa Cristina, sull'Appennino bolognese, per poter assistere uno dei due figli. Il tribunale
di Sorveglianza di Bologna non ha infatti accolto
la richiesta dei difensori della «mamma di Cogne», condannata a 16 anni di reclusione
per il delitto del figlio Samuele Lorenzi.
Anna Maria Franzoni aveva chiesto di scontare a casa il residuo della pena per potere occuparsi
di uno dei due figli ma il tribunale le ha negato
il permesso. La decisione dei giudici è stata motivata con la decadenza della potestà genitoriale. È di fatto il secondo «no» nel giro di pochi mesi che le chiude la possibilità di lasciare, anche solo temporaneamente, il carcere bolognese della Dozza dove è reclusa dalla notte del 21 maggio 2008. Già a fine di luglio un'altra corte, quella di Cassazione, aveva negato alla Franzoni la possibilità di poter usufruire di permessi premio per almeno i prossimi quattro anni. La motivazione dell'Alta Corte: la gravità del reato la donna ha commesso e le regole dell'Ordinamento penitenziario per i detenuti pericolosi.

Corriere 6.9.12
La Sinistra mondiale intollerante per i diversi come Clint Eastwood
di Francesco Piccolo


La storia di Clint Eastwood racconta in modo perfetto che cosa è diventata la sinistra (in tutto il mondo). In una discussione, a un certo punto il tuo interlocutore pronuncia la frase più minacciosa: «Tu che sei intelligente...». Ti sta avvertendo: poiché ti considero intelligente, devi essere d'accordo con me. Se non sei d'accordo con me, non sei intelligente. Che è praticamente quello che ha detto Michael Moore a Clint Eastwood. Michael Moore è il re della demagogia e della semplificazione. E infatti è il rappresentante più puro della nuova sinistra: penso delle cose così giuste che tutti quelli che non le pensano con me, sono dei deficienti.
Il pensiero democratico mi ha insegnato il rispetto delle opinioni altrui. È uno dei motivi più profondi che mi hanno spinto a considerarmi di sinistra, quando ero ragazzo: la dialettica, la tolleranza. Perché ora la sinistra è diventata del tutto intollerante al pensiero diverso? Perché si è trasformata in un censore del mondo? Di qua gli intelligenti pochi, di là i deficienti molti. Se uno viene reputato intelligente, non può stare di là. Altrimenti è la dimostrazione che così intelligente non era.
Questo accade in particolar modo con gli artisti. La sinistra considera tutti gli artisti di valore roba di sua proprietà. E se scopre che qualcuno è diverso, si scandalizza: vuol dire che non è più bravo — che non è mai stato bravo.
Forse la performance di Eastwood dal palco dei repubblicani è stata mediocre. Di istanze mediocri (anche di più) a favore dei democratici ce ne sono state infinite, negli Stati Uniti come in Italia. Ma non hanno mai scandalizzato. In verità a Clint Eastwood non si dà la colpa di un discorso mediocre, ma di un discorso conservatore. La sinistra mondiale non tollera che un artista sia conservatore, e confonde immediatamente il pensiero con la qualità dell'artista. E infatti è già successo quello che mi aspettavo; una amica mi ha detto: i suoi ultimi film non erano nemmeno poi così belli.
Eastwood è uno dei più grandi registi viventi. Il fatto che non la pensi come me, lo rende, in fondo, ancora più interessante.

Corriere 6.9.12
La «Maghrebina» e la «Spagnola» si disputano il Comune di Parigi
La gollista Dati e la socialista Hidalgo in corsa per la carica di sindaco
di Massimo Nava


Una «spagnola» o una «maghrebina» alla guida di Parigi. Se otterranno la designazione dai rispettivi partiti, la socialista Anne Hidalgo e la gollista Rachida Dati si sfideranno nel 2014 per la conquista dell'Hotel de Ville, il palazzo più ambito e prestigioso dopo l'Eliseo. La Hidalgo, sposata, tre figli, è nata a Cádiz, in Andalusia, ed è emigrata in Francia, nella regione di Lione, con i genitori spagnoli. La Dati, single, una figlia, è nata in Francia da padre marocchino e madre algerina, ed è cresciuta, con dieci fratelli e sorelle, nella banlieue.
Vicine alla cinquantina, sono anche facce relativamente nuove e giovani per la politica. Anne ha lavorato nel partito e nelle istituzioni locali. Attualmente è vice sindaco. Succederebbe a un'altra personalità che ha scosso la scena politica francese, il sindaco Bertrand Delanoë, il quale ha pubblicamente dichiarato la sua omosessualità ed è protagonista in prima linea di battaglie per i diritti della persona. Rachida è sindaco del VII arrondissement di Parigi, dopo una parentesi come ministro della Giustizia e l'elezione a Strasburgo, incarico che l'ha tenuta alla larga — controvoglia — dalla politica nazionale. Fra i tratti comuni delle candidate ci sono anche eleganza, bellezza, fascino e immancabili pettegolezzi sul web, che attribuiscono alle due signore un vecchio flirt rispettivamente con il presidente Hollande (Anne) e con l'ex presidente Sarkozy (Rachida), ma questo è appunto gossip, diffusosi anche perché, nel caso della Hidalgo, corroborato da una maldestra diffida nei confronti di Twitter.
Entrambe dimostrano grande determinazione. Nella Parigi ecologica e bohémienne dove i socialisti governano da due legislature, il compito per la Hidalgo è più facile. È favorita contro qualsiasi candidato della destra e rischia soltanto la concorrenza, non ancora ufficiale, della giovane ministro verde Cécile Duflot, 37 anni. Più complicata la scommessa per la Dati, che non suscita adesioni unanimi nel popolo della destra e deve togliere di mezzo, alle primarie, concorrenti agguerriti come François Fillon (anche se l'ex premier potrebbe rinunciare per puntare alla presidenza del partito) e l'ex ministro Jean-Louis Borloo o vedersela con un'altra donna, Chantal Jouanno, anch'essa ex ministro, molto vicina a Sarkozy ed ex campionessa di judo.
La lotta politica resta feroce, dentro e fuori i partiti. La sinistra è specialista nel dividersi quando sta al governo. La destra quando passa all'opposizione. Ma il ricambio c'è. Per quanto rivali, le candidate della sinistra e della destra hanno infatti molti tratti comuni che riassumono una certa capacità della Francia di rigenerare e selezionare la propria classe dirigente politica, con maggiore attenzione, in nome della parità, alle donne, ma anche «pescando» fra personalità di origine non francese e relativamente nuove, senza cioè un infinito curriculum d'incarichi e legislature alle spalle. La battaglia per la presidenza del partito socialista vede protagonisti due figli dell'immigrazione, Harlem Désir e Jean-Christophe Cambadélis. Va detto che per le donne e per i figli degli immigrati il percorso non è semplice nemmeno in Francia. Ed è ancora in salita. Ma i passi avanti sono stati fatti. Non soltanto in politica. Basti pensare ai volti della televisione o a incarichi in vari ambiti.
Le prime svolte importanti si sono viste durante la presidenza Sarkozy, il quale volle marcare di «diversità» il suo governo, di cui proprio Rachida fu l'immagine esemplare. Il governo di Hollande è nato all'insegna dell'assoluta parità (17 donne e 17 uomini, record nella storia dei governi francesi), della diversità (sette membri di origini etniche e culturali diverse) e anche della carta d'identità: età media 53 anni (con sette membri sotto i 40 anni). Ma questo non è un record per la Francia: già nel 1965 il presidente Pompidou abbassò la media a 48 e nel 1995 Chirac arrivò a 49. Quanto al ricambio generazionale, basti ricordare che il presidente Hollande ha 57 anni e il suo predecessore Sarkozy (salvo riapparizioni) è a riposo a 56. E come dimenticare che Giscard d'Estaing salì all'Eliseo a 48?

La Stampa 6.9.12
Solo la pietà può far finire l’orrore in Siria
di Domenico Quirico


Più passano questi giorni abominevoli e il massacro, in Siria, mostruosamente, sconciamente, si gonfia, più mi convinco che la soluzione, l’unica possibile ancora per poco, ovvero un intervento dell’Occidente, non verrà dal prevalere di pur evidenti ragioni pratiche, politiche, «egoistiche»: ovvero che il tollerare un governo assassino ci macchi e ci renda infinitamente più deboli, ci esponga la prossima volta, e ci saranno infinite prossime volte, a pericoli maggiori, a vergogne più devastanti. No: questo non basterà, abbiamo torto a contarci troppo. La nostra stanca viltà è così limacciosa da soffocare anche la coscienza di ciò che ci conviene. La Turchia, perfino la Turchia che abbiamo altezzosamente respinto dall’Europa, noi sussiegosi professori di democrazia, ci dà una lezione, definisce «terrorista» il governo siriano, ribaltando efficacemente proprio l’insulto che Bashar Assad rivolge ai ribelli.
L’unica soluzione verrà dal prevalere della pietà. Sì, la cristiana antica, umilissima compassione per l’altrui sofferenza. Ma anche la pagana, laicissima «pietas», che non chiede fede, a cui basta il rispetto dell’uomo per l’altro uomo anche se vive in una terra diversa e le sue ragioni non coincidono con le nostre.
Certo tutto questo non può smuovere cancellerie astutamente parolaie e concretamente inerti: dicono di preparare il «dopo Assad», questi sofisti pretenziosi, hanno già voltato pagina, i ministri e i presidenti, e fanno finta di non accorgersi che il despota guadagna posizioni, macella gli avversari, parla di nuovo con alterigia e arroganza. Ma la compassione può accendere in una gran vampa il cuore di un’opinione pubblica finora sospettosa, mal informata, assente. E’ qui che il cuore dell’Occidente batte sempre di un sangue più ricco. Vedremo allora, finalmente!, un corteo per la Siria nelle strade delle capitali d’Europa.
La pietà dunque. E saranno i bambini siriani che ci costringeranno a partecipare infine alla altrui sofferenza, quella che Boccaccio chiamava, mirabilmente, «umana cosa». I bambini di Aleppo bombardata, dove il sangue non ha il tempo di raggrumarsi, di Homs, di Idlib, di Hama: questa in fondo è una rivoluzione nata dall’indignazione per lo strazio di un gruppo di bambini. Bambini cheti guardano con occhi da vecchi, tormentati, quasi fossero al mondo da settanta anni. Li hanno mai visti, finora, questi occhi, inconfondibili, indimenticabili, fissi di muto smarrimento, pieni di riflessi di fiamme e di rovine, i politici che si turbano per i rischi, in caso di aiuto ai ribelli, di una destabilizzazione del Medio Oriente, che indietreggiano davanti al pericolo di una jihad fatta da qualche centinaio di forsennati e che i siriani sono i primi a voler accantonare e rimandare a casa? Non giocano più i bambini di Aleppo perché le strade sono spazzate dalla bombe, perché perfino andare a comprare il pane è scendere in prima linea, diventare «terrorista». Possibile che abbiamo ripudiato questa gente?
Muoiono i bambini di Aleppo, se ne è accorta, finalmente, dopo 500 giorni, anche la Cnn e lo mostrerà agli americani. In passato le immagini di bambini assassinati dalla carestia e dalla guerra ci ha fatto scoprire (in ritardo, quanto in ritardo) la tragedia somala. I bambini trucidati accanto alle madri ai piedi degli altari, in chiesa, ci hanno svelato l’Uganda. Allora guardiamo, imprimiamoci in mente questi bimbi uccisi dalle bombe dei piloti di Bashar; non censuriamo l’orrore anche se ci fa male, i corpicini straziati dalle schegge, le teste staccate dalle bombe termiche. Gli assassini contano su questa censura della pietà. E invece bisogna pensare a coloro che con il loro agire hanno provocato tutto ciò e a coloro che, chiudendo gli occhi e balbettando le scuse della realpolitik, se ne fanno complici. Questo pensiero è utile, questa rabbia è utile. Perché educa alla indignazione, ci rende acuti, impedisce che si dimentichi. Darà a tutti la stessa sensazione, atroce, che prova chi è stato in Siria in questi mesi, la sensazione di una capillare, invisibile potenza del male, di una saturazione da parte di un invisibile odio corrosivo. Coloro che hanno ucciso questi bambini sono malvagi, e il male non può, non deve vincere. Abbiamo bisogno di dare una veste politica a questa misericordia? C’è, esiste, è la celebre tesi della «sovranità come responsabilità». I governi, tutti i governi sono cioè responsabili sia di fronte ai propri cittadini sia di fronte alla comunità internazionale, di garantire la sicurezza e il benessere anche di coloro che vivono negli altri paesi. Dove questo neo-interventismo, questo sacrosanto diritto di intrusione ha più ragioni di essere che nella Siria che massacra i suoi bambini?

Repubblica 6.9.12
Quel vento di guerra che soffia su Siria e Iran
di Jean Daniel


La Francia ormai è unico capofila di una mobilitazione contro la Siria e di un ultimatum all’Iran: due iniziative che per alcuni leader, sia arabi che israeliani, sono inseparabili l’una dall’altra.
Non si sa ancora (benché sia più urgente di quanto si pensi) se intervenire militarmente per fermare i massacri di Bashar al Assad, malgrado l’opposizione del Consiglio di sicurezza, la netta ostilità dei russi e l’impopolarità di una parte delle forze insurrezionali, segnatamente presso cristiani e curdi. Quest’ultima osservazione sulle possibili garanzie per le minoranze ha suscitato polemiche. Ma il fatto stesso di poter pensare che dubbi del genere esprimano rassegnazione a quanto sta accadendo mi indigna. Tanto più che dalla scorsa settimana, benché nessuno l’abbia adeguatamente rilevato, siamo in presenza di una situazione nuova, e della possibilità di una guerra su due fronti: la Siria e l’Iraq.
Come tutti noi, sono anch’io sommerso dalle informazioni dei media, ove le approssimazioni sono presentate come certezze e il verosimile si confonde col vero. Dopo tutto, forse il nostro mestiere è proprio questo. Tanto che non riesco ancora a capire – mi serve tempo, ed è questa la mia ossessione – quali effetti potrebbe scatenare un intervento a livello internazionale, né cosa avverrebbe se si provocasse l’esplosione della società siriana. In effetti, non posso fare come se non fosse successo nulla dallo scoppio delle rivoluzioni arabe, né come se non vi fosse nulla in preparazione per intervenire altrove – cioè in Iran. Mi limiterò quindi a radunare qui alcuni elementi di riflessione.
Il primo articolo ad allarmarmi è stato quello di Bernard Henry Levy, che per la prima volta dopo molto tempo invita allo scambio e non a una tenzone: decisamente, guadagna molto quando adotta nel dibattito la ferma serenità di un Raymond Aron, piuttosto che le imprecazioni alla Malraux; ma resta comunque assai lontano dal proporre risposte convincenti alle domande che ci poniamo qui.
Quali sono i problemi? Mai come ora il presidente siriano ha meritato in pieno la qualifica, assegnatagli dalla Francia, di massacratore del suo popolo. Chiunque lo abbia incontrato di recente conferma che Bashar al Assad non ha nessuna intenzione di fermarsi. Davanti ai suoi intimi, sembra si comporti come se pensasse veramente di essere il presidente sovrano di una nazione innocente, aggredita da «terroristi stranieri». Ogni parola conta in questa formula, che esprime la sua convinzione e la sua strategia. La sua convinzione, perché proclama che gli islamisti sunniti, armati ed equipaggiati dall’Arabia Saudita, vogliono farla finita con la dinastia alawita, la piccola ma schiacciante minoranza di cui fa parte. E quanto alla strategia, Bashar al Assad si sforza di rilanciare una crociata contro gli Stati Uniti e Israele attraverso l’alleanza con Hezbollah e soprattutto con l’Iran, e sotto il patrocinio russo e cinese. Di fatto, sembra convinto che non vi sarà alcun intervento militare in Siria, grazie alla strenua opposizione del Consiglio di sicurezza, immobilizzato dai russi.
Di fatto, a tutt’oggi la nostra attenzione non si è soffermata sulla psicologia di un tiranno più che sulle nostre ragioni e possibilità di abbatterlo. Ma in che modo? Per quanto attiene al Consiglio di sicurezza, il nostro presidente – fisico da Luigi XVI, talenti da Lafayette – ha creduto di poter aggirare l’ostacolo. Ha fatto appello agli insorti invitandoli a formare un governo rappresentativo che potrebbe immediatamente riconoscere. A questo punto, grazie a una mossa da illusionista, gli aiuti non andrebbero più a gruppi di ribelli ma un governo da sostenere. Dalle parti di Sarkozy si esulta: magari non è legale, ma è legittimo! Non si tratterà più dell’invio di fantaccini come in Iraq o in Afghanistan, ma semplicemente di un’interdizione dello spazio aereo su talune città e regioni, per impedire all’aviazione siriana di bombardare la sua stessa popolazione. Sembra che tutto ciò sia allo studio. Non penso che il presidente francese abbia potuto farne cenno alla Conferenza degli ambasciatori; ma non dimentico che François Hollande è di turno per le ultime settimane della presidenza a rotazione del Consiglio di Sicurezza.
Nel frattempo è in corso altrove un evento considerevole: i preparativi per le elezioni americane. Raramente, nella storia degli Stati Uniti, lo spirito dell’estrema destra si è affermato con una volgarità vendicativa pari a quella dei discorsi di Mitt Romney, e più ancora di Paul Ryan. Sul piano internazionale, il loro partito manifesta un sostegno incondizionato alla destra israeliana, e in particolare al capo dello stato ebraico Benjamin Netanyahu, che si dichiara fautore di un intervento militare contro i siti nucleari iraniani. Gli strateghi di Gerusalemme si mostrano più moderati dei leader politici, ma pensano che un intervento in Siria fornirebbe una buona occasione per colpire l’Iran. Perciò, come si può vedere, l’interrogativo assume un’altra forma. È possibile fermare il massacro in Siria e farla finita con Bashar al Assad? E con quali conseguenze? Gli elementi fin qui esposti impongono una riflessione.
In ogni caso, per il momento, se da un lato la Francia e il Qatar aiutano i ribelli siriani e hanno praticamente dichiarato guerra a Bashar al Assad, dall’altro è difficile pensare di poter impedire agli israeliani di attaccare l’Iran. Dobbiamo vigilare affinché queste due guerre siano al centro delle preoccupazioni dei nostri capi di Stato e di governo.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Corriere 6.9.12
Le linee rosse di Israele e la cautela degli europei
di Maurizio Caprara


GERUSALEMME — Due fattori stanno cambiando i termini di una controversia internazionale in corso da circa un decennio, quella sui piani nucleari con i quali Teheran potrebbe dotarsi di bomba atomica: il potenziale collasso del regime siriano di Bashar Assad, che priverebbe l'Iran di un alleato prezioso, e le difficoltà finanziarie che turbano l'Europa e gli Stati Uniti. Il primo fattore indebolisce la Repubblica islamica presieduta da Mahmoud Ahmadinejad. Il secondo l'ipotesi che Unione Europea e numerosi Paesi, se non trascinati da un'accelerazione, assecondino bombardamenti israeliani o statunitensi su impianti atomici iraniani. Incursioni aeree o colpi di artiglieria farebbero salire il prezzo del petrolio, e affaticherebbero i desiderati scatti in avanti nelle economie occidentali.
Questa partita è scivolosa, elementi oggi non visibili in superficie o sottovalutati potrebbero imprimere svolte di segno opposto. La strada delle armi tuttavia ha costi che sembrano in rialzo. «La comunità internazionale deve stabilire una linea rossa che l'Iran non può oltrepassare», ha detto ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme dopo aver ricevuto il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi. Da giorni Netanyahu, premier di destra di un governo di coalizione, evita di precisare se quel limite, al quale farebbe seguire bombardamenti qualora fosse valicato, vada indicato in ostacoli di Teheran alle ispezioni dell'agenzia atomica Aiea, nell'eventuale scoperta di impianti nucleari nascosti, in arricchimenti dell'uranio oltre una percentuale da non superare. «Trigger», grilletto, chiamano quel limite gli israeliani nei colloqui con governi stranieri.
È innanzitutto agli Stati Uniti diretti verso le presidenziali del 6 novembre che Netanyahu di fatto indirizza la richiesta di certificare una linea rossa. Dopo mesi nei quali prevaleva la diffidenza verso future instabilità, il governo israeliano adesso ritiene che nella Siria pro iraniana la caduta di Assad sia preferibile a una stabilità corrosa. Per l'Italia, Terzi ieri ha sottolineato a Netanyahu e al collega Avigdor Lieberman quanto le sanzioni e il negoziato con l'Iran siano meglio di una guerra. Il ministro, che conosce entrambi da quando era ambasciatore a Tel Aviv, lo ha fatto però senza riservare all'opzione dei bombardamenti toni tali da irritare il governo israeliano, interessato a salvaguardare da cori di sconfessioni europee la deterrenza dell'eventuale opposizione armata a una minaccia atomica in cantiere. «Qui dà fastidio sentire da alcuni Paesi europei che l'azione militare avrebbe conseguenze devastanti», osserva il titolare della Farnesina. Chi la reputasse una delicatezza eccessiva si domandi quanto si addica, a questo dossier, il metodo dell'agitare prima dell'uso.

l’Unità 6.9.12
Completata la mappa della materia oscura del «Dna»
di Valeria Trigo


ARRIVA LA MAPPA DELLA «MATERIA OSCURA» DELLA BIOLOGIA: IL COSIDDETTO DNA SPAZZATURA, AL QUALE PER DECENNI ERA STATA assegnata questa etichetta nella convinzione della sua inutilità, si rivela invece un autentico regista del codice genetico.
Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature, si deve al consorzio internazionale Encode (Encyclopedia of Dna Elements) e assegna una funzione ad almeno l'ottanta per cento dell'intero genoma. Obbliga inoltre a rivedere le definizioni di «gene». Più del 90% dell'intero genoma è composto da sequenze che non esprimono proteine e per questo motivo è stato considerato per lungo tempo privo di qualsiasi funzione. L'importanza di questo Dna spazzatura, trattato come una sorta di relitto dell'evoluzione, è venuta lentamente alla luce negli ultimi anni fino a far sospettare oggi che queste sequenze non codificanti siano siano dei veri e propri «registi» occulti in grado di controllare l'espressione di geni già conosciuti. Il progetto Encode ha ora completato e messo a disposizione dell'intera comunità scientifica le sequenze di 1.640 genomi, completate con le informazioni relative alle numerose strutture molecolari associate. Tra queste ci sono gli istoni, ossia le molecole che 'impacchettanò la catena di Dna.
È stata ottenuta così una vera e propria mappa a disposizione dei ricercatori per aiutarli nella comprensione delle complesse interazioni in gioco tra i numerosi elementi del sistema costituito tra le informazioni, anche quelle «senza senso», contenute nel «libretto di istruzioni», il Dna, e le strutture che ne permettono l'espressione.
Tra le prime evidenze, che confermano molti degli studi realizzati negli ultimi anni, messe in luce grazie ai dati del progetto, emerge che almeno l'80% del genoma, comprese le sequenze apparentemente prive di senso, svolge funzioni importanti. Le lunghe «strane» sezioni tra i vari geni, sequenze che codificano proteine, sono costituite in realtà da elementi stimolatori e promotori per la trascrizione dei geni.
L'analisi sistematica, attraverso l'uso di potenti calcolatori, delle lunghe genetiche ha permesso di comprendere la funzione di buona parte di quello che era definito Dna spazzatura, classificandolo ora come Dna non codificante, che non esprime proteine, ma che riveste funzioni cruciali per il funzionamento dell'intero sistema. Il «nuovo» Dna che emerge dal progetto Encode è una molecola tridimensionale più complessa di quanto ritenuto finora e costituita per gran parte da sistemi di controllo dei geni.

Repubblica 6.9.12
Dna. Nel segreto del “codice spazzatura” la ricetta per costruire un uomo
di Elena Dusi


Se una torta non è solo un mucchio di ingredienti, neanche l’uomo è una semplice sequenza di geni. In mezzo, a fare la differenza, deve esserci una buona ricetta. Nel caso dell’organismo umano, la ricetta — così come i geni — è scritta nel Dna. Ma fino a ieri eravamo stati così ciechi da aver battezzato la sezione in cui è codificata “Dna spazzatura”. Oggi, con la pubblicazione dello sterminato progetto Encode (Encyclopedia of Dna Elements) in 30 articoli nel nostro Dna abbiamo scovato anche la ricetta necessaria per fare un uomo. Nel 2000 con il Progetto Genoma Umano avevamo analizzato tutte le “lettere” che compongono il nostro Dna. Ma avevamo compreso il significato solo del 2-3% del loro numero totale. Si trattava dei 23mila geni che hanno il compito di sintetizzare le proteine contenute nel corpo umano: cioè gli ingredienti. A cosa servisse tutto il resto della doppia elica (il 98%) non era affatto chiaro. I ricercatori battezzarono quella sezione oscura del genoma “Dna spazzatura”. Ma per nulla convinti che la natura avesse sprecato tutto quello spazio (3,25 miliardi di lettere su un totale di 3,3 miliardi), nel 2003 gli scienziati lanciarono il progetto Encode con l’obiettivo di svelare il mistero. Oggi, dopo 1.500 esperimenti di sequenziamento in 147 tipi di cellule diverse condotti in 32 laboratori americani, inglesi, spagnoli, svizzeri e di Singapore da 440 fra biologi, genetisti, matematici e informatici e una spesa di 190 milioni di dollari, il “manuale di assemblaggio” del corpo umano ha preso forma. I risultati, oltre a essere pubblicati sulle riviste, sono consultabili liberamente sul sito del progetto Encode. E la conclusione, sintetizzata dai ricercatori, è che il “Dna spazzatura” è in realtà «un immenso relè con milioni di interruttori che regolano l’attività dei geni. Senza questi interruttori i geni non saprebbero come funzionare e le malattie si accumulerebbero». Gli interruttori osservati arrivano addirittura a 4 milioni. Una proporzione enorme rispetto ai 23mila geni. Ma il compito che è loro affidato è in effetti molto delicato. È grazie a questo “libretto delle istruzioni” se il gene che sintetizza l’emoglobina si attiva solo nelle cellule del sangue e — pur essendo ugualmente presente — resta spento in quelle del cervello, mentre la proteina distrofina viene prodotta solo nelle cellule del muscolo e non negli occhi, l’insulina nel pancreas e la dopamina nel cervello. Gli interruttori del Dna non riconoscono solo le diverse aree del corpo con i diversi tessuti, ma anche le fasi della crescita. Alcuni geni infatti si devono attivare solo durante lo sviluppo fetale per gestire la formazione degli organi e il loro corretto posizionamento. Uno sbaglio e pochi istanti di ritardo creerebbero danni irreversibili. Se nel 2000 abbiamo scoperto gli ingredienti e oggi abbiamo decifrato la ricetta dell’uomo, per il futuro ci resta da spiegare come il “libretto delle istruzioni” sia stato messo insieme. Cioè come fanno gli interruttori a sapere che devono accendersi e spegnersi in determinate condizioni. Le idee a questo proposito sono ancora piuttosto vaghe (così come la ricerca di un nuovo nome per il Dna spazzatura). Ma dimostrano come nella scienza ogni risposta finisca puntualmente con l’aprire nuove domande, anziché offrire certezze definitive. In attesa della prossima caccia, i ricercatori si godono i risultati dello sforzo. «È una coreografia incredibile. Un modesto numero di geni gestito da un immenso numero di interruttori» ha commentato Eric Green, alla guida del National Human Genome Research Institute, il direttore di orchestra dei 440 scienziati impegnati nel progetto. «È come guardare una giungla» ha aggiunto Ewan Birney dell’European Molecular Biology Laboratory di Hinxton in Gran Bretagna. «Non ci aspettavamo che gli interruttori fossero così attivi. D’altronde però sappiamo di essere organismi molto, molto complessi. Di cosa stupirsi se anche il nostro manuale d’istruzioni è così spaventosamente intricato? ».

Repubblica 6.9.12
Giuseppe Novelli, genetista: “È come avere un’orchestra con un direttore”
“È una scoperta sorprendente ci aiuterà a trovare nuovi farmaci”


ROMA — «Quando gli studenti mi chiedevano che differenza c’è tra un uomo e un topo, non sapevo che rispondere. Il nostro Dna infatti è identico al loro al 98%. Oggi, con i risultati di Encode, saprei cosa dire». Lo racconta Giuseppe Novelli, genetista dell’università Tor Vergata a Roma. Siamo curiosi anche noi. «Prendiamo un’orchestra. Gli elementi che suonano sono sempre violino, clarinetto, tamburo, ecc. Ma gli spartiti possono essere i più vari. Oggi sappiamo che i geni sono come gli strumenti, e cambiano poco fra le specie. A fare la differenza è il tipo di musica. E a suonarla ci pensa quella porzione del Dna che un tempo chiamavamo “spazzatura” perché non codifica nessuna proteina. Pur non suonando note, svolge il ruolo di direttore d’orchestra e dà il tempo agli strumenti». Ci saranno implicazioni pratiche? «Oltre alle differenze tra uomini e topi, sono molte le cose che riusciremo a spiegarci. Sappiamo che malattie diversissime come cancro e diabete, o arteriosclerosi e tumore della mammella e della prostata, possono avere alla base dei meccanismi comuni. Ad esempio, un problema nel metabolismo dei lipidi. Una delle ipotesi è che sia il “direttore d’orchestra” a sbagliare il tempo non per uno, ma per tutta una serie di strumenti. Questo spiega perché alcuni farmaci, in maniera abbastanza sorprendente, funzionino per problemi diversi. Capire il meccanismo comune fra le malattie ci permetterà di trovare nuove medicine in modo più rapido». (e. d.)

Corriere 6.9.12
L'anima? È solo un'illusione
Si intitola Quel che resta dell’anima il nuovo libro di Edoardo Boncinelli
Così la scienza supera il dualismo tra la mente e il corpo
di Chiara Lalli


Il nostro corpo è stato a lungo considerato come sede, momentanea e imperfetta, di un'anima immortale e immateriale. Con la fine o l'attenuazione della concezione religiosa dell'anima si sono alternati diversi agenti che hanno ripreso e incarnato alcune delle sue caratteristiche: dall'inconscio ai condizionamenti sociali, dalle emozioni alle passioni, tutti hanno ammiccato a un dualismo ontologico. La scienza ha sempre cercato di mettere in guardia gli uomini dal potere seduttivo di soluzioni facili, illusorie e lontane dalla corretta spiegazione dei fenomeni. «Ma è noto che l'uomo non ama conoscere la verità, soprattutto se lo riguarda da vicino, e preferisce le nozioni confuse e inverificabili che conducono al fiorire delle mitologie, passate e presenti» — scrive Edoardo Boncinelli in Quel che resta dell'anima (Rizzoli), un vero e proprio viaggio attraverso la tradizionale idea di anima e i suoi molteplici aspetti nel corso dei secoli. Un viaggio anche attraverso le parole, soprattutto quelle così cariche di significati da rendere ogni conversazione faticosa e spesso confusa. Sono le parole che Boncinelli chiama «parole-interruttore», quelle che ci trascinano in una nebbia di frasi fatte e pregiudizi, che non riescono a scrollarsi di dosso il peso ideologico e che attivano in noi reazioni immediate e poco razionali.
«Anima» è certamente una di queste parole, ma è in buona compagnia: coscienza, mente, razionalità, identità, emozione, informazione, pensiero. Sono termini che usiamo tutti i giorni e che richiedono una opera di pulizia semantica, se vogliamo procedere nella discussione senza inciampare in ostacoli insormontabili.
Nel cammino intorno all'anima si incontrano innumerevoli rompicapi, molti dei quali resi ingombranti dallo sviluppo delle neuroscienze. Ciò che oggi sappiamo ha reso irrimediabilmente superflua la nozione di anima e ha segnato definitivamente la fine del dualismo tra mente e corpo — o tra anima e corpo.
Eppure la credenza che ci sia qualcosa di superiore e non riducibile al nostro corpo è ostinata e diffusa, in parte per ragioni psicologiche. È figlia della nostra tentazione di non rassegnarci di fronte all'inspiegabile, di volerlo ammantare, innalzare al livello «dell'Immaterialità Suprema». Scrive Boncinelli: «È questa riposante immersione in regioni prelogiche che si conquista la nostra predilezione. Oltre che a subirne il fascino, tendiamo di solito anche a ritenere più profondo ciò che è più ambiguo e polisemico, fino a considerare mistico ciò che è spesso solo confuso e contraddittorio». Se aggiungiamo la tendenza a spiegare e a interpretare i fenomeni con strumenti che ci sono familiari e a propendere per una interpretazione finalistica, ci rendiamo conto di quanto sia complessa e faticosa la strada per ripulire termini e concetti.
In un mondo che rifiuta spiegazioni magiche e religiose, la sfida è quella di costruire ipotesi esplicative senza invocare un deus ex machina. A volte anche quella di saper rinunciare momentaneamente alla ricerca.
A questo proposito Boncinelli ci ricorda l'avvertimento del grande fisico Erwin Schrödinger: il pericolo più grave di ricorrere a spiegazioni insoddisfacenti non è tanto quello di dire bugie, ma quello di sopprimere l'esigenza di cercarne una accettabile.
Tra le questioni più complesse e controintuitive c'è senza dubbio quella riguardante la nostra volontà e libertà decisionale. Se in un mondo fisico i nostri immateriali stati mentali sono causati da quelli cerebrali, e se è il nostro cervello a decidere, cosa rimane del libero arbitrio? Sono questioni su cui i filosofi della mente e i neuroscienziati si interrogano da tempo. Boncinelli propone una riflessione interessante: «Se il mio io si estende a tutto il mio corpo, allora non c'è dubbio che a decidere sono sempre io, ovviamente in assenza di coercizioni esterne. Paradossalmente, se invece l'io è inteso come un'istanza immateriale di natura autoreferenziale e distinta dal corpo stesso, l'anima appunto, allora l'esistenza del libero arbitrio è messa seriamente in dubbio dalle indagini sperimentali».
Rimane il fatto che la sovradeterminazione causale è un nodo difficile da sciogliere, ma è indubbio che il primo passo debba essere quello di chiarire i termini e le condizioni della nostra ricerca e dei dibattiti, troppo spesso soffocati da stratificazioni di malintesi e di equivoci.

Repubblica 6.9.12
Ma la sentenza non vale per due bambine “protette” da un altro giudice
Caos sulle staminali il Tar blocca le cure
di Sandro De Riccardis


MILANO — Ad aspettare e sperare c’erano le famiglie di un bimbo di cinque anni affetto dal morbo di Niemann Pick, di dieci piccoli malati di atrofia muscolare e sindrome di Kennedy che avevano iniziato e poi interrotto le cure, di altri cinquecento pazienti senza cura in tutta Italia. Per tutti, la possibilità di accedere alla terapia della Stamina Foundation e del pediatra Marino Andolina era appesa alla decisione del Tar di Brescia che, ieri pomeriggio, ha detto no al ricorso di tre famiglie che avrebbe aperto la strada alla cura per tutti: resta il divieto dell’Agenzia del farmaco di praticare la terapia della onlus, che prevede il trapianto di cellule dalla parte ossea del midollo e successive iniezioni di staminali. Celeste Carrer, la bimba veneta di due anni affetta da Sma1, la forma più grave di atrofia muscolare, e la catanese Smeralda Camiolo, sedici mesi, in coma irreversibile dalla nascita per asfissia da parto, potranno continuare il ciclo di infusioni di staminali soltanto grazie al ricorso vinto davanti al tribunale civile. Ma per Daniele Tortorelli, cinque anni e mezzo, di Matera, affetto dal morbo di Niemann Pick, la cura — interrotta a maggio — non potrà ripartire nonostante i miglioramenti. Aveva iniziato a muovere braccia e gambe, da uno stato vegetativo era passato a una minima attività cognitiva, con la testa che reagiva quando veniva chiamato. Poi, lo stop dell’Agenzia del farmaco agli Spedali Civili di Brescia lo ha riportato indietro: Daniele non ingoia più, butta fuori la saliva, è assente, rischia di morire se non verrà alimentato con il Peg, che prevede l’uso di un sondino per l’alimentazione artificiale. Come i suoi cari, quasi cinquecento famiglie vedono nella terapia bocciata da Aifa — dopo l’inchiesta del pm torinese Raffaele Guariniello che ha indagato medici e psicologi della Stamina — l’unica speranza per evitare la morte. Sono pronti a ricorrere al Consiglio di Stato e ai giudici del lavoro delle loro province di residenza per «far riconoscere il diritto alla salute». Il Tar ha deciso di non sospendere l’ordinanza di blocco di Aifa e deciderà nel merito il 16 gennaio. Il tribunale riconosce la competenza di Aifa in maniera «incontestabilmente», sia per «i compiti ispettivi» sia per «l’adozione dei conseguenti provvedimenti » e conferma l’«assenza di evidenza scientifica» della terapia di Stamina e del suo fondatore, lo psicologo Davide Vannoni, dato che «l’unica pubblicazione, di tre pagine, è redatta dal dottor Andolina su una rivista edita in Corea». Manca, scrive il Tar, anche la comunicazione all’Istituto Superiore di Sanità dei dati sui pazienti in cura, «la tracciabilità dei prodotti », l’indicazione della «metodica per produzione e uso terapeutico di cellule mesenchimali», la prova di un rapporto favorevole tra benefici e rischi sui dodici pazienti in cura. Per tutto questo, all’ospedale bresciano — che ora ha annullato la convenzione con Stamina — andranno avanti solo le terapie di Celeste e Smeralda. Per Valeria Scordo, mamma di Smeralda, si tratta comunque di «un successo perché il Tar non entra nel merito, anche se troppi pazienti restano ancora nel limbo, in un’incertezza drammatica sul loro futuro». Per il pediatra delle due bimbe, Marino Andolina, «è il decreto Turco, reiterato da Fazio, a prevedere l’uso delle staminali come cura compassionevole, cioè per quei malati senza cura, quando si trovano in pericolo di vita o in caso di aggravamento. Il cambio ai vertici dell’Aifa — accusa Andolina — ha fatto cambiare il parere dell’agenzia su questa vicenda. Il giudice ha detto no all’urgenza perché non competente, per il resto ne parliamo tra sei mesi, la lotta continua». Proprio ieri, risultati «incoraggianti» sono arrivati da Smeralda. «Al controllo elettroencefalografico, sono risultati movimenti volontari — dice Andolina —. È stato dimostrato che c’è attività cerebrale ma soprattutto che si sono movimenti volontari. E anche Celeste migliora: ieri ha dato un calcio a una infermiera, che per la sorpresa a momenti sveniva».

Repubblica 6.9.12
Il genetista Vescovi: “Anch’io uso quelle cellule, ma rispettando tutti i protocolli”
“Stop ai Rambo della provetta senza una sperimentazione seria si alimentano false speranze”
di Vera Schiavazzi


ANGELO Vescovi, il biologo che per primo in Europa ha trapiantato cellule staminali umane su un paziente malato di Sla, è indignato e non fa nulla per nasconderlo: «So che è impopolare dirlo, ma l’Agenzia per il farmaco prima e il Tar della Lombardia ora hanno fatto bene a bloccare delle terapie che non si possono definire tali. Quello che amareggia è che siano le famiglie dei bambini malati a doversi presentare davanti ai giudici, mentre chi produce le cosiddette “cure” resta un passo indietro». Perché, secondo lei, è giusto fermare terapie che possono dare una speranza a chi altrimenti non ne avrebbe nessuna? «Perché esistono delle regole. E queste regole dicono prima di tutto che per somministrare qualcosa a un paziente, in questo caso cellule che equivalgono a un farmaco, deve essere dimostrato che non si provocheranno dei danni. Nel caso dei bambini di cui stiamo parlando non è così: la Stamina Foundation (un’organizzazione guidata da uno psicologo, già al centro di un’inchiesta del procuratore Guariniello, ndr), che produce queste cellule, dichiara di seguire propri protocolli ma non si è mai sottoposta alle procedure per l’approvazione da parte dell’Aifa. In questo modo si corrono molti rischi». Quali? «In Germania, ma anche in Texas, si sono avuti casi di bambini morti o ammalati ancora più gravemente dopo essere stati iniettati. Il secondo rischio è quello di alimentare false speranze. Il terzo è che dietro queste intenzioni umanitarie ci siano interessi economici, anche indiretti, come ad esempio brevettare cure». Come è potuto accadere, allora, che tutto ciò entrasse in un ospedale pubblico lombardo? «Me lo chiedo anch’io, ed è proprio questa la ragione che ha fatto intervenire l’Aifa. Certamente ci sono stati medici che hanno agito in buona fede. Ma per curare occorre comunque essere certi di non nuocere e possibilmente anche registrare in modo certo qualche forma di miglioramento. I genitori disperati che dichiarano che i loro bambini stavano “un po’ meglio” purtroppo non aiutano la scienza». Oggi la parola “staminali” evoca grandi speranze collettive. Ma che cosa sappiamo davvero? «Ancora poco. Sappiamo che si tratta di una grande possibilità. Un paziente malato di Sla che ha ricevuto il trapianto negli Stati Uniti dal professor Nicholas Boulis, ora cammina. Ma non è abbastanza. In Italia esistono 13 factory dove le staminali vengono riprodotte in modo sicuro e certificato, sono poche. Sono in corso sperimentazioni come la nostra, che il 24 settembre faremo il terzo trapianto. Per iniziare i trapianti abbiamo fatto test per nove anni e lavoriamo da oltre 20. Perché qualcun altro deve seguire una strada diversa? È Rambo? Sa qualcosa che noi non sappiamo? ». Grandi speranze, decisioni impopolari, pochi fondi per la ricerca. Non è una contraddizione? «Altroché: qui a Terni, dove lavoro (Vescovi è direttore del centro tessuti del Niguarda e dell’ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, ma non ci sono soldi per trasportare le cellule), facciamo fatica a comprare un microscopio. Ho una proposta: nel 2013 l’Italia comperi un caccia F22 in meno e dia alla ricerca sulle staminali gli stessi soldi. È più di quanto abbiamo mai avuto». Un’ultima domanda: se suo figlio fosse malato, accetterebbe le cure che hanno ricevuto Smeralda, Celeste e Daniele? «Ci ho pensato. E la risposta è no: avrei paura, non mi fido di quello che non è chiaro».

La Stampa 6.9.12
Sono i giochi dei bimbi a distinguerci dalle scimmie
Nell’infanzia abbiamo la capacità di imparare le «regole» L’intervento della De Monticelli a Torino Spiritualità
di Roberta De Monticelli


LA DIFFERENZA Gli altri primati seguono gli istinti, solo gli umani vivono secondo «norme»
LA COOPERAZIONE Quest’interazione non sempre ha un connotato positivo, oggi spesso si trasforma in consorteria

L’ uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono, per intenderci rapidamente, in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola «normalità», proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano. Tutta la nostra vita cosciente, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni, pensieri, percezioni, è soggetta alla questione se sia come dovrebbe. C’è una coscienza normativa - tipicamente, un senso di (in) adeguatezza - che attraversa ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire: ci rendiamo conto del suo essere più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito, «esatto» (da «esigere»). Del resto, l’anima di ogni cultura – a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla…
Da dove viene il potere obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si danno a questa questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, è dai tempi di Socrate che noi conosciamo un modello di «normalità» umana che è centrato sul potere dell’interrogativo. Socrate incentrò su questo potere la sua paideia, l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella politica, nella religione. La «normalità» socratica è il rinnovamento morale quotidiano, che idealmente presuppone la libertà e la ricerca di verità, per dare alla norma quotidiana verifica, o allora ragionevole e giusta modifica. Husserl nello stesso spirito pensava che «etica» e «rinnovamento» quotidiano siano quasi sinonimi. Il gioco socratico della verifica delle regole è in un certo senso l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca, scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose gerontocrazie di oggi.
Oggi però sappiamo molto di più di un tempo sulle basi naturali della cultura. Sulla differenza fra noi e le specie più evolute di primati la scienza ha detto molto. La differenza è minima in termini genetici, eppure enorme all’apparenza. Come mai? Michael Tomasello, ugualmente esperto nella psicologia sperimentale dei primati e degli infanti umani, è diventato famoso per aver individuato questa differenza nel fatto che questa pur minima differenza ha fatto di noi degli animali cooperativi. Tomasello ha giocato a lungo coi bambini più piccoli, e ha studiato il loro giocare. Qui, nel loro gioco, ha scoperto quello che ci distingue davvero dai primati. Noi abbiamo delle capacità naturali in cui questa attitudine cooperativa si fonda. Noi sappiamo veramente imitare, cioè non semplicemente copiare le azioni, ma capire le loro intenzioni e riprodurle: direi, afferrare la regola che anima un gesto. Mentre le scimmie, quand’anche scimmiottino, sanno solo «emulare»: cioè imitare l’uso di un mezzo per scopi che già hanno indipendentemente. Non apprendono per imitazione fini e intenzioni nuove. Non imparano le regole di giochi per loro nuovi, come i bambini anche piccolissimi. Non imparano a scambiarsi il ruolo nei giochi, quindi a relativizzare il proprio punto di vista sulla realtà, capire ce ne sono anche altri. Non sanno condividere l’attenzione, e quindi il riferimento a un comune contesto. Non sono fatti per condividere un linguaggio, e neppure una cultura materiale. Non c’è propriamente crescita tramite accumulo e innovazione nel mondo animale.
Un equivoco grava su questa scoperta: una sorta di tesi neo-roussoviana, per cui noi saremmo allora «naturalmente» buoni, simpatici. Èl’equivoco della naturalizzazione dell’etica: questa starebbe già nella nostra natura cooperativa - e non soltanto competitiva. Un equivoco, perché non è affatto il carattere cooperativo come tale a rendere un’interazione umana, o addirittura una società umana, giusta. È vero che le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia, tanto è vero che fin dall’inizio delle civiltà si dibatte sull’alternativa fondamentale: la legge si fonda sulla forza o sulla giustizia? Socrate e Trasimaco aprono una disputa che dura fino ai nostri giorni - e se la filosofia tende a dar ragione a Socrate la storia tende a darla a Trasimaco. Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di criminalità organizzata, che è la tendenza a co-operare conformemente al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei all’accordo, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti appartiene. Il modello di «normalità» che sembra oggi dominante in Italia è quella dell’uomo di consorteria. È la soggettività così caratteristica dei nostri giorni: la «normalità» priva di ogni senso di (in) adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo, mera funzione di quella collettiva della consorteria d’appartenenza. È la mentalità dell’esecutore - che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno «mediatore»: il faccendiere, il referente politico per l’attività lobbistica, il funzionario di partito, il giornalista deferente. La sua funzione è quella del topo roditore di normatività. Si parla oggi più correntemente di erosione di legalità, perché di questa abbiamo dati contabili, l’enorme fatturato annuale che comporta. Ma non è che la punta dell’iceberg, dove l’iceberg è l’erosione di legalità interiore. Ne esiste una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose. Ciò che l’erosione di legalità esterna e interiore produce, è la sostituzione della regola esplicita, che si rivolge alla coscienza personale e alla sua facoltà di dubbio e interrogazione, con il potere normativo della pressione sociale, la cui caratteristica è la delegittimazione del dissenso. Ne sappiamo qualcosa in questi giorni, quando torna in auge una frase che potevamo sperare sepolta nel cimitero degli orrori politici: «Se dici così fai il gioco dell’avversario».

Repubblica 6.9.12
Quanto clamore per un incesto
L’evento creato dalla stampa per il libro di Christine Angot
di Tahar Ben Jelloun


Immaginate per un secondo che La Repubblica o El País dedichino 5 pagine, con apertura in prima, a un libretto di 137 pagine scritto da una donna che ha cominciato la sua carriera con un racconto di fantasia in prima persona sull’incesto. Stavolta il romanzo non tratta di questa perversione, è un testo rigorosamente pornografico sui trastulli fra un uomo sposato e una giovane donna che accetta di farsi dominare e umiliare da lui. Il testo comincia in bagno, dove l’uomo, seduto sul water a gambe larghe, dispone delle fette di prosciutto sul proprio pene chiedendo alla donna di inginocchiarsi per mangiare il salume e succhiargli il membro. Le acrobazie sessuali sono descritte con un’accuratezza che non lascia da parte nulla. I trastulli proseguono in altri luoghi dell’appartamento e terminano in un letto dove l’uomo sperimenta diverse tecniche di sodomia fino a raggiungere il suo scopo. Di tanto in tanto chiede a lei di dire: «Va bene, papà».
Non è il testo di Christine Angot che contesto. A costei piace scrivere tutto quello che le succede e chiama i suoi personaggi con il loro nome reale. (È stata citata in giudizio da una donna – Élise Bidoit – che si è riconosciuta nel suo ultimo libro, Petits, e il tribunale ha dato torto alla Angot.) È una scelta stilistica che a mio parere denota un’assenza di immaginazione, ma non voglio giudicare questo testo, né dal punto di vista letterario né dal punto di vista morale. Il problema è che sono stato ingannato sulla merce: entro in libreria per acquistare un romanzo, un prodotto letterario, e mi ritrovo un racconto pornografico a tutti gli effetti. È come entrare in un cinema per vedere un film di Fritz Lang e trovarsi con il proiezionista che scambia le bobine e proietta «Le sette puttane in calore».
Negli anni ’60 c’era stata l’Histoire d’O, scritta da una signora della buona società sotto pseudonimo. Alcuni anni dopo ne era stato ricavato un film erotico. L’Express, diretto all’epoca da Françoise Giroud, aveva dedicato la copertina a questo film tratto da un testo proibito. Ma tutto era rimasto in un ambito limitato, niente a che vedere con il fenomeno a cui assistiamo oggi.
Com’è possibile che giornali seri abbiano scelto di fare di questa pubblicazione un evento politico di importanza tale da eclissare la gravità della crisi economica, il superamento della soglia dei 3 milioni di disoccupati, il quotidiano massacro di innocenti in Siria, i preparativi di Israele per l’attacco all’Iran, senza parlare del futuro di alcuni Paesi europei devastati dai delinquenti della finanza?
Le Monde ha occupato un quarto della prima pagina, con tanto di foto dell’autrice, per annunciare l’articolo che il supplemento Le Monde des Livres del 31 agosto dedicava in prima pagina al libro.
Libération si è spinta più in là, dedicandogli 5 pagine (analisi del fenomeno, intervista con l’autrice, analisi di come è stato accolto il libro dalla critica ed editoriale del direttore del giornale!).
C’è di che perdere la bussola. Un direttore di giornale è libero di prendere la penna in mano per avvisarci che è nato un capolavoro. Non è un critico letterario, ma chi se ne importa.
Questa attenzione smisurata vuol dire altro, un altro che non è culturale, che non è letterario : questi giovani critici segnalano a chi sa leggere che il problema più importante oggi non è ciò che succede in Mali, in Congo, in Iran o in Siria, ma quello che tocca una società francese in cerca delle sue radici, in un’Europa sempre più assediata dagli immigrati e dal meticciato culturale che mette sottosopra gli elementi dati di un’entità giudeo-cristiana. Quando si puntano i riflettori con così tanta insistenza su un libro di poco valore, è evidente che l’obbiettivo è stimolare una presa di coscienza sui pericoli che incombono su questa società. Poi, certo, c’è anche l’effetto snobismo insito nel sostenere autori che danno scandalo, e non si è trovato niente di meglio del sesso e delle derive perverse per suscitarlo. Tutto questo si ricollega, senza volerlo, al discorso di Richard Millet, l’autore dell’«elogio letterario di Anders Breivik». È desolante.
No, non riesco a immaginarmi La Repubblica, non riesco a immaginarmi El Paíso la Vanguardia, non riesco a immaginarmi The Guardian sconvolgere la loro impaginazione per dedicare 5 pagine a un libretto di grottesca insignificanza. L’eccezione culturale francese è una buona cosa, ma bisogna stare attenti a non sbagliare argomento o valori.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 6.9.12
Le Clézio contro Millet: testo ripugnante
Sul “Nouvel Observateur” l’intervento del Nobel che attacca l’editor pro-Breivik
di Anais Ginori


PARIGI «Una lugubre elucubrazione ». Così J. M. G. Le Clézio definisce il pamphlet
Elogio letterario di Anders Breivik firmato da Richard Millet. Lo scrittore premio Nobel, pubblicato da Gallimard dove Millet lavora come editor, critica apertamente il libello da giorni al centro di un acceso dibattito. Mentre Antoine Gallimard ha cercato di chiudere la controversia sostenendo che si trattava di libertà di espressione di un suo dipendente, Le Clézio rifiuta questa tesi in un articolo che esce oggi sul Nouvel Observateur.
«In nome di quale libertà di espressione, e con quali fini una persona può scegliere di scrivere un testo così ripugnante?», si chiede lo scrittore francese. Un libro «insignificante », secondo Le Clézio, «vuoto di senso» e che «alimenta gli istinti più bassi». Il premio Nobel considera infatti il problema della multiculturalità, sollevato da Millet e da altri intellettuali, come superato. «Viviamo in un mondo di incontri — spiega — . I flussi migratori esistono da sempre e sono all’origine della razza umana, la sola razza». Il rischio della «nostalgia di una sedicente purezza originaria» è da evitare, mentre Le Clézio raccomanda «l’apertura verso l’interculturale».
Al di là della critica nel merito, lo scrittore francese sostiene che non
bisogna sottovalutare il pamphlet dedicato al massacro compiuto dall’attentatore norvegese oltre un anno fa. Le Clézio crede infatti che esista in Francia una “sindrome Céline”, secondo cui è sufficiente essere un provocatore per sentirsi un genio. L’“insignificanza” apparente del libro di Millet, aggiunge, è vicina all’ideologia dell’estrema destra durante gli anni Trenta, culla del nazismo. L’Elogio
letterario di Anders Breivik, conclude Le Clézio, è sintomatico di una «certa corruzione del pensiero contemporaneo e della responsabilità degli scrittori nella diffusione del razzismo e della xenofobia ».

Corriere 6.9.12
Politici astratti e premoderni a lezione di concretezza da Marx
di Piero Ostellino


La classe politica tutta intera e una certa sinistra in particolare — che è, culturalmente e politicamente, la maggiore responsabile dei ritardi del Paese — dovrebbero rileggersi la pagina di Marx dove il padre del socialismo scientifico si chiede come possa essere concreta la «veduta» (l'osservazione) della realtà se la realtà è «astratta». È qui che, da noi, casca l'asino.
In oltre sessantacinque anni di Repubblica — sull'onda della convinzione della pressoché totalità degli intellettuali dell'epoca, fatta propria dalla parte maggioritaria degli stessi costituenti, che il comunismo fosse il superamento della democrazia liberale e del capitalismo — si è costruita una versione «astratta» della realtà che non corrisponde alla «realtà effettuale». Sulla realtà «astratta» — che dà del liberalismo, del capitalismo e del mercato un'immagine totalmente distorta e storicamente falsa e dello statalismo e del dirigismo ne dà una progressista e provvidenzialistica altrettanto falsa alla luce delle «dure repliche della storia» — si è formata l'ideologia dominante, la «falsa coscienza» nazionale, per dirla ancora col vecchio Marx.
All'origine della formulazione della realtà «astratta» c'è la negazione della metodologia empirica della conoscenza — che impone di verificare l'aderenza alla realtà delle idee politiche e attribuisce ai singoli comportamenti individuali l'agire politico e sociale e le loro conseguenze — e l'individuazione dell'origine della conoscenza e della prassi politica nella «collettività», sulla base di una (pretesa) conoscenza filosofica o ideologica che dir si voglia. Aver fatto risalire alla collettività la fonte primaria della Politica — demonizzando contemporaneamente l'Individuo come egoista e produttore di ingiustizia e di sopraffazione — ha deresponsabilizzato gli italiani e caricato sullo Stato, trasformato in «buon padre», il compito di provvedere anche a bisogni cui il cittadino dovrebbe provvedere da solo.
L'assegnazione alla sfera pubblica — oltre tutto mal definita in un Paese formalmente di democrazia liberale, capitalista e di mercato e sostanzialmente di cultura politica statalista e dirigista — di un compito provvidenzialista ha disamorato gli italiani per le libertà. Ma l'esercizio delle libertà implica (anche) una forte componente di responsabilità personale e un certo gusto della sfida, del «rischio» — peculiarità, queste, delle popolazioni dei Paesi di democrazia liberale e di regime capitalista e di mercato avanzati — che gli italiani mostrano volentieri di non avere.
Fra libertà-sfida-rischio-responsabilità e sicurezza, molti italiani non scelgono l'equazione liberale — abdicando alla responsabilità personale, diffidando del rischio e scegliendo la sicurezza garantita dalla Stato — ma propendono, più che per le libertà, per i divieti a esercitarle nell'ingiustificato timore che ne approfitti qualcuno ai loro danni. Il paternalismo pubblico è l'anticamera dei totalitarismi, fra i quali si distingue, per astuzia della Ragione ideologica, il «dispotismo burocratico-amministrativo» del quale finiamo con essere vittime tutti, compresi coloro i quali vi si affidano.
Accusare, perciò, l'uomo della strada di poco amore per le libertà è, in fondo, fargli torto. Egli è, piuttosto, la proiezione, se non la vittima, di una cultura politica, fondamentalmente pre-moderna nell'accezione storicista, prima ancora che illiberale in quella politica, che la scuola, i media, i partiti hanno diffuso a piene mani dalla caduta del fascismo. C'è un gap culturale fra l'Italia e l'Occidente cui appartiene dal dopoguerra che perpetua i vizi autoritari del fascismo sconfitto e alimenta quelli tendenzialmente totalitari — nella definizione di Piero Calamandrei, uno dei maggiori costituenti, della nostra Costituzione — di una rivoluzione «promessa» (egualitaria) in cambio di una rivoluzione «mancata».
Nell'attuale clima di riformismo istituzionale e politico, non solo a una certa sinistra, bensì anche alla classe politica che marxista non è, farebbe, forse, bene, una bella ripassatina del Marx che si chiedeva — rimettendo, realisticamente, l'hegelismo, ma in realtà, profeticamente, ciò che sarebbe stato lo stesso marxismo senza Marx, con la testa in su — come potesse conciliarsi una osservazione concreta della realtà con una realtà «astratta». Mi rendo conto che, per rileggere Marx e, soprattutto, per tenere conto della sua constatazione, occorre, da parte della classe politica, con una buona dose di onestà intellettuale, di maturità culturale, di realismo politico rinunciare ai vantaggi che continuare a predicare la realtà «astratta» assicura. Ma ne va del futuro del Paese. Che è condannato alla progressiva decadenza e alla definitiva scomparsa dal novero delle democrazie liberali e dei sistemi capitalisti se non si pone mano a una radicale revisione della sua cultura politica.
postellino@corriere.it

Repubblica 6.9.12
Michael Lonsdale e Claudia Cardinale in “O Gebo e a sombra”
L’ultracentenario De Oliveira cattura il pubblico col mistero
di Maria Pia Fusco


VENEZIA — Le inquadrature si contano sulle dita di una mano, un paio di esterni su uno stretto vicolo tra porte chiuse, per il resto è un ambiente, l’interno della casa modesta di Gebo (Michael Lonsdale), seduto davanti a un tavolo, vicino altre due sedie, una sarà occupata dalla moglie, Claudia Cardinale in gran forma, un’altra dalla nuora (Leonor Silveira). È O Gebo e a sombra, il film che Manoel de Oliveira ha girato in 25 giorni, in francese perché, ha detto, nella sua carriera mancava un film sulla povertà. Non ci sono accadimenti, un fatto è l’arrivo del caffè, Gebo parla con vaghezza del figlio che se n’è andato da anni, ha incontrato qualcuno che lo ha visto, ma non va oltre, continua a fare i conti per la società in cui lavora da cassiere, mentre sua moglie lo incalza, insiste, suo figlio è la sua vita, prega e piange per lui tutte le notti, e lui, Gebo, la fa soffrire non dandole le notizie che aspetta. Piange anche la nuora, la moglie abbandonata, forse lei ne sa di più della sorte del marito. Il caffè attira anche ospiti, un regista di teatro e una vicina di casa, che ha tutta l’eleganza e la classe di Jeanne Moreau. E si parla, della povertà che li circonda, del figlio lontano, del triste declino dell’arte. Non succede niente, eppure si resta incantati a guardare lo schermo e ad ascoltare le parole, è la stessa immagine ma cambiano i sentimenti che l’attraversano, l’amore materno, la gelosia, il sospetto, i diversi rapporti con la vita e con il denaro: a 104 anni Manoel de Oliveira è sempre maestro nel catturare l’attenzione del pubblico usando soprattutto il mistero del figlio. Che ricompare, forse. E forse è un ladro, ma è meglio che la madre non lo sappia.

l’Unità 6.9.12
Il film
Le incoerenze dell’amore
Quattro storie per Bellocchio sullo sfondo del caso Englaro
Vince la scommessa il regista nel ricostruire l’atmosfera e il clima politico di quando fu staccata la spina a Eluana raccontando altre vicende che a quella sono collegate
di Alberto Crespi


VENEZIA. ELUANA ENGLARO È MORTA IL 9 FEBBRAIO DEL 2009. AVEVA 38 ANNI, E DA 17 VIVEVA IN STATO VEGETATIVO. È probabile che molti italiani, forse tutti, ricordino dov’erano e cosa stavano facendo quando hanno appreso la notizia. Un po’ come Dallas, o le Twin Towers. È arduo paragonare un evento così intimo, come la decisione di un padre di «staccare la spina» che tiene in vita (vita?) una figlia, ad avvenimenti storici così eclatanti. Ma la sorte di Eluana, in quel febbraio di tre anni fa, era divenuta parte delle nostre vite, e in fondo Bella addormentata il nuovo film di Marco Bellocchio passato ieri in concorso a Venezia parla di questo. Di un accanimento terapeutico che si trasformò in accanimento politico e mediatico.
Bellocchio e i suoi sceneggiatori, Veronica Raimo e Stefano Rulli, hanno atteso tre anni per tentare un esperimento artistico difficilissimo. Bella addormentata non è un film di ricostruzione storico-cronachistica, ma non è neanche uno di quei film in cui si finge di «parlare d’altro». Eluana e Peppino Englaro sono presenti in tg e filmati di repertorio, con i loro nomi e cognomi. Così come è presente, con il proprio nome, il partito politico il Pdl che era al governo e che cavalcò l’evento in modo sgradevole. Ma partendo da un contesto concreto, ricostruito con la precisione del film-inchiesta, Bellocchio gioca una scommessa artisticamente estrema, e la vince al 100 per 100. La scommessa è: inventare quattro storie, montate in parallelo (non è un film a episodi), che partano direttamente dal caso Englaro (quella dell’onorevole Pdl interpretato da Toni Servillo; e quella di sua figlia, Alba Rohrwacher, che si reca a Udine per dimostrare contro la scelta del padre di Eluana e si innamora di un giovane, Michele Riondino, schierato sul fronte laico) o che lo riverberino per assonanza, per empatia (quella della tossica Maya Sansa e del medico che vuole ostinatamente salvarla, Pier Giorgio Bellocchio; e quella della grande attrice, Isabelle Huppert, chiusa nella vana speranza di veder rivivere una figlia in coma, esattamente come Eluana).
L’atmosfera di quel febbraio 2009, e le polemiche politiche intorno al caso, sono il collante delle quattro storie. Quella con Servillo è forse la più folgorante. Il modo in cui Bellocchio ricostruisce liberamente un Senato della Repubblica che sembra quello dell’antica Roma, con senatori che vanno in sauna e si scambiano consigli politici e medici... ma che hanno completamente perduto
ogni grandezza, ha dell’incredibile. Servillo è Uliano Beffardi (sui nomi scelti da Bellocchio per i suoi personaggi bisognerebbe scrivere un saggio), un ex socialista, ora berlusconiano, che vorrebbe votare «secondo coscienza». Nel suo passato c’è un buco nero, straziante quanto quello di Peppino Englaro: anni prima ha «aiutato» la moglie a morire, risparmiandole le sofferenze di una fine lenta e dolorosa. Ora sente Englaro come un fratello, ma i suoi colleghi di partito lo ammoniscono: vuoi giocarti la carriera? Roberto Herlitzka e Gigio Morra (quest’ultimo nei panni di un capogruppo, anch’egli ex Psi, che allude non poco a Cicchitto) fanno da coro a Servillo in un balletto grottesco del Potere che ricorda Todo modo, ma anche Shakespeare. La figlia di Beffardi, Maria (altro nome a caso?), è invece a Udine per pregare per Eluana, ma l’energia vitale di un «nemico» la costringe ad ascoltare il risveglio dei propri desideri.
Ovviamente Bellocchio lascia trasparire le sue idee sul teatrino della politica, e sulla sua ingerenza (spesso vergognosa) nelle nostre vite. Ma è mirabile il modo non ideologico in cui lo fa, raccontando con umana tenerezza anche personaggi ai suoi antipodi, come quello di Alba Rohrwacher. Il vero Leitmotiv emotivo che ci sembra percorrere Bella addormentata, in realtà, è un altro. Bellocchio si interroga sull’amore che può indurre al sacrificio e all’annullamento di se stessi. In ciascuna delle storie c’è un essere umano che dedica la propria vita a un altro: un fratello, una figlia, una moglie scomparsa, una sconosciuta. E la grande domanda per la quale non esistono risposte univoche è: è giusto? È giusto annullarsi nell’amore fino al punto di escludere gli altri, come rimprovera alla diva il figlio sano da lei ignorato? Addirittura, fino a intrufolarsi nella vita altrui, a impedire a qualcuno di compiere un gesto estremo ma libero? Non è casuale che Bellocchio incornici il film con la storia di Rossa, la tossicodipendente che vuole morire, e di Pallido (i nomi, ancora!), il medico che le impedisce di suicidarsi. Nel gesto di Rossa, che tenta di gettarsi dalla finestra dell’ospedale, ci è sembrato di leggere un’allusione forse affettuosa alla fine consapevole di Mario Monicelli, ma chissà. In quella storia, che sembra la più slegata dalle altre, Bellocchio compie la riflessione estrema. È amore, quello di Pallido per un’estranea, o è una forma egoista di accanimento terapeutico? A giudicare dal gesto finale di Rossa, che non sveleremo, è amore. Ma l’amore prende forme strane e inattese, lavora in modi misteriosi, è a volte incomprensibile.

l’Unità 6.9.12
«Il mio film? È fatto di risvegli»
Bellocchio svela le sue idee senza tesi né pregiudizi
Un’ovazione collettiva per l’attesa «Bella addormentata» Un lavoro ispirato anche a un’altra dormiente:
l’Italia contemporanea, con i suoi politici «smarriti»
di Gabriella Gallozzi


APPLAUSI COSÌ NON SE N'ERANO ANCORA SENTITI IN QUESTA MOSTRA. E SI SONO LEVATI FRAGOROSI, EMOZIONATI, ADDIRITTURA COMMOSSI. SIA ALLA PROIEZIONE PER LA STAMPA CHE A QUELLA DEL PUBBLICO. Ieri è stato il giorno del «ciclone» Bellocchio che si è abbattuto sul festival non in termini di «polemiche» quelle preventive si sono già scatenate ma di entusiasmo. Di «ovazione collettiva» per la potenza raffinata di un film che, come dice lo stesso autore è, tra l'altro, «una riflessione sulla libertà di scelta. E la libertà nel suo significato più generale. Che è comunque una bellissima parola».
Eccolo dunque Marco Bellocchio col suo Bella addormentata da oggi nei cinema -, accolto da una standing ovation della gremita sala stampa, mentre una giornalista svedese dice che dovrebbe andare agli Oscar. Eccolo Marco Bellocchio col suo straordinario cast: dal gigantesco Roberto Herlitzka alla sempre intensa Alba Rohrwacher, dalla dolorosa Isabelle Huppert a un qui veramente grande Toni Servillo, da una emozionante Maya Sansa alla densità emotiva di suo figlio Piergiorgio. Eccolo Marco Bellocchio, con la sua consueta «modestia» dei veri grandi artisti parlare finalmente a film visto del suo lavoro su Eluana Englaro, ma anche è soprattutto sull'Italia altra «bella addormentata». «Non un film a tesi», spiega subito per chi si attendeva un «volantino pro eutanasia», «né un film ecumenico, ma un film in cui svelo comunque le mie idee. La mia posizione di laico, di chi non ha fede ma guarda comunque con curiosità e senza disprezzo al mondo cattolico. Senza cioè compatire o condannare chi la fede ce l'ha». Consapevole di vivere in Paese cattolico Bellocchio spiega ancora: «La mia formazione è cattolica e molte cose di quell'educazione sono incancellabili. Siamo in Paese pieno di cattolici. Nessuno va più a messa, eppure ci sono cattolici ovunque. Anche nel governo ce ne sono tanti. Io con loro mi confronto, scambio le idee, non voglio certo cancellarli». E con questo, sottolinea scherzando «non mi sono convertito, però!».
Del resto a incarnare questa posizione del «dialogo», diciamo così, nel film c'è il personaggio di Maria (interpretato da Alba Rohrwacher). «Lei è una ragazza molto religiosa prosegue il regista eppure si innamora di un ragazzo che sta su posi-
zioni opposte alle sue».
L'idea di Bella addormentata, prosegue è nata come «reazione a quell'aggressione mediatica che ho vissuto da cittadino in quei giorni. Davanti alla clinica di Eluana, a fare la veglia, ci saranno state sì e no 30, 50 persone. A giorni non c'era nessuno. Eppure questo caso ha occupato tutti i media. L'Italia intera si è come armata tra chi difendeva la costituzione e chi voleva il decreto che avrebbe impedito al padre di Eluana di portare a compimento la vita di sua figlia». Così a Bellocchio sono venute le prime immagini. «Che circa un anno dopo – prosegue ho orchestrato insieme a Stefano Rulli e Veronica Raimo gli sceneggiatori -. Ed è venuto fuori un film di tanti risvegli: quello del senatore interpretato da Servillo, un risveglio della sua coscienza di fronte alla disumanità della politica, patologica nel suo unico intento di arraffare. Il risveglio del figlio che riesce finalmente a staccarsi dalla madre». Quella interpreta dalla Huppert, una grande attrice che rinuncia a vivere per seguire la figlia, altra bella addormentata, nel suo coma irreversibile. Ma anche il risveglio sul finale del film – del personaggio interpretato da Maya Sansa, una «tossicodipendente che vuole
suicidarsi prosegue il regista ma che viene fermata da un medico (il personaggio interpretato dal figlio). Un giovane medico che naturalmente, vedendola buttarsi dalla finestra, cerca di salvarla». Una reazione semplicemente umana. Che non implica messaggi a tesi. «Mi rifiuto aggiunge Bellocchio – di rispondere sì o no all'eutanasia. Eppure mi colpisce proprio in questi giorni il caso che è nato intorno alla morte del cardinal Martini. Non è in discussione la sua fede, ma chiedere un non accanimento terapeutico è una cosa che colpisce. Anche nel mio film, Papa Wojtyla dice: Lasciatemi tornare dal padre».
I temi sono tanti e si rincorrono. La politica, la malapolitica, infatti è centrale: «Mi ricordo che in un film di Moretti qualcuno dice a un certo punto: “ma dov'è la lotta di classe?”. Insomma perché parlare di un film politico. Verso i politici abbozzati nel mio film non c'è un atteggiamento di disprezzo, ma casomai la consapevolezza di un loro smarrimento, di una loro disperazione. Non dico loro: andate a casa. Ma come dice Herlitzka sono come malati di mente. E che la cosa giusta è dare loro medicine perché i malati sono di una noia mortale».

il Fatto 6.9.12
Il film ispirato alla vicenda Englaro

Bellocchio, ritratto di un Paese in coma
di Nanni Delbecchi


L’ anno scorso Marco Bellocchio venne a Venezia per consegnare il Leone d’oro alla carriera a Bernardo Bertolucci. Non ci stupiremmo se dopodomani tornasse al Lido per riceverlo lui, il Leone. Bella addormentata, accolto alle proiezioni di ieri con applausi scroscianti, non è forse quel capolavoro cui nei Festival si dà la caccia come al mostro sul Loch Ness, ma una lettura di estrema lucidità sull’Italia di oggi e di sempre, guelfi e ghibellini sullo sfondo di una classe politica che non ha il nerbo per rappresentare né gli uni né gli altri. Questo film “nato per caso”, secondo l’ammissione del regista, nei giorni del febbraio 2009 che segnarono la fine di Eluana Englaro non è affatto un film su Eluana; piuttosto, su Beppino Englaro e sulla sua grandezza, “per aver portato all’attenzione il suo dramma in questa Italia cinica e depressa, e di volere agire nel rispetto della legge”. Il più privato, il più estremo, il più insondabile dei drammi umani che si trasforma in uno psicodramma mediatico e risucchia un intero Paese nel buco nero che nessuna sceneggiatura avrebbe mai osato immaginare. La prima, felice intuizione di Bellocchio sta nell’insistere con precisione cronistica su quei giorni. Le edizioni speciali dei telegiornali, gli aggiornamenti dell’ultima ora, le esternazioni di Berlusconi, tutta l’eutanasia minuto per minuto, Eluana che diventa icona dell’inconscio collettivo più profondo. Parte da qui la crisi di coscienza del senatore di Forza Italia Uliano Beffardi (Toni Servillo), che in passato aveva aiutato a morire la moglie sofferente; ma nell’ombra e nel silenzio, come ancora oggi capita in tante famiglie italiane. Richiamato a Roma per votare il decreto lampo preparato dal partito, Beffardi è lacerato anche dall’intransigenza della figlia Maria (Alba Rohrwacher), cattolica integralista, e medita le dimissioni proprio mentre Maria è travolta da una poco casta passione per Roberto (Michele Riondino), che invece è impegnato a favore dell’eutanasia. ALTRI DRAMMI paralleli fanno da contrappunto: quello della grande attrice (Isabelle Huppert) che da quando la figlia giace in coma ha abbandonato il teatro, e recita solo il suo dolore; quello del medico (Piergiorgio Bellocchio) che decide di aiutate a tutti i costi una tossicodipendente (Maya Sansa). Storie sui confini estremi della coscienza, cui fa da contraltare il cinismo della politica. Nell’osservare la casta, Bellocchio fa prevalere la pena sul disgusto. Non tanto la perdita delle ideologie, che si dà per scontata, quanto della decenza e del rispetto di sé. Non la grandezza criminale, ma la pochezza umana. Più che sbagliata, la crisi di coscienza del senatore Beffardi appare incomprensibile in un mondo fatto di calcoli, ricatti, miserie; dove se l’onorevole non va ospite in tv, finisce in depressione, come racconta lo psichiatra-farmacologo Roberto Herlitzka: “Penso di di-mettermi” “Ah sì? Intanto ti consiglio un riequilibratore leggero”. “Senza il Vaticano non si governa”, prosegue lo psichiatra, e qui emerge un altro tema forte del film: la pressione della Chiesa sullo Stato italiano, tanto aggressiva nei diritti umani quanto debole e conformista nelle anime. Una Chiesa che pare davvero indietro di 200 anni. “Sarà privilegiato chi ascolta di più”, ha dichiarato ieri il cardinal Ruini, in risposta al j’accuse di Carlo Ma-ria Martini. Ebbene, in Bella addormentata accade esattamente il contrario. Beffardi dovrà accontentarsi di leggere la sua lettera di dimissioni allo specchio. Troppe complicazioni familiari faranno tornare ognuno dei due innamorati dietro la sua barricata. Il medico dovrà mettersi contro i superiori per vincere gli istinti suicidi della paziente. Buon segno quando il valore di un film si dimostra più forte delle polemiche da esso stesso suscitate; appunto quello che è accaduto nelle conferenze stampa veneziane, dove Bellocchio ha parlato di “un film che respinge ogni tesi precostituita, dove sono rappresentate tutte le posizioni e dove in tutti in personaggi ritrovo qualcosa di legittimo”. NEL FILM c’è anzi l’idea che “il risveglio è possibile solo nel dialogo, e dunque nell’amore”. Solo quando gli si è chiesto un commento sulla decisione della giunta del Friuli di chiudere la Film Commission regionale come rappresaglia per avere coprodotto Bella addormentata, Bellocchio ha abbandonato il sorriso: “A Udine abbiamo lavorato bene, mai nessun problema con la città; avere sabotato il film a posteriori mi sembra simbolo esemplare dell’autodistruttività in cui è caduta la classe politica italiana”. Una cosa è certa: se Bella addormentata dovesse vincere il Leone, i meriti artistici ci sono tutti. Si sussurra che Michael Mann abbia preferenze diverse (e abbia adorato il film Kim Ki-duk), ma stavolta il più cerebrale dei nostri registi ha realizzato, a modo suo, un film d’azione, e ci sono buone ragioni per puntare su di lui. Negli anni ha affinato l’intelligenza e ha trovato perfino della ragionevolezza; ma per strada – e questa è la cosa più singolare – non ha perduto la rabbia.

La Stampa 6.9.12
Bellocchio: la mia Italia “Bella addormentata”
Ben sedici minuti d’applausi per il film su Eluana: “Non è a tesi. Inguaribile oggi è il potere, vedo i politici disperati e smarriti”
di Fulvia Caprara


CORTEO DEI CATTOLICI INTEGRALISTI «Sono laico - dice il regista ma non voglio condannare chi ha fede, anche se io non la ho»
Beppino Eglaro «So che ha visto il film - dice Bellocchio - ma non voglio rivelare quello che mi ha detto. Ci incontreremo a Udine il 7»

Sul volantino del «Movimento con Cristo per la vita» c’è scritto «Eluana, con questo film ti hanno ucciso due volte». E mentre si alzano le voci che recitano il rosario, qualcuno agita i cartelli con più vigore: «Governo Monti, senza Dio l’Italia finirà male». E’ il giorno di Bella addormentata, il film, applauditissimo (alla conferenza stampa tifo da stadio per gli attori e per il regista), in cui Marco Bellocchio dipinge l’affresco dell’Italia isterica in cui si consumò, nel febbraio 2009, l’ultima settimana di vita di Eluana Englaro: «Prima di girare mi sono sentito in dovere di parlare con il padre, avevo letto il suo libro, si è detto disponibile. So che ha visto il film, ma non voglio dire nulla di quello che pensa».
Con immagini di straordinaria bellezza l’autore dei Pugni in tasca insegue i destini incrociati di tanti, diversi personaggi, medici, malati, cattolici integralisti, giovani innamorati, una tossica che cerca la morte, una madre attrice che ha sacrificato la propria esistenza alla figlia in coma irreversibile, un parlamentare in crisi, un attore in erba. Sullo sfondo scorrono i servizi dei tg, si vedono i politici italiani, compreso l’allora premier Silvio Berlusconi che a chiare lettere si schierò contro la scelta della dolce morte. Allora come oggi il tema fa discutere, e torna di bruciante attualità, in coincidenza con la morte del Cardinale Martini e delle polemiche legate alle sue dichiarazioni contrarie all’accanimento terapeutico: «Sono tutto tranne che un cinico - dichiara il regista - e non spererei mai, neanche per un attimo, che la morte di Martini possa servire a far entrare qualcuno di più al cinema». Mai come in Bella addormentata Bellocchio appare quieto, riflessivo, possibilista. Nessuna furiosa denuncia, nessuna condanna senza appello, piuttosto uno sguardo empatico su un universo in pena, che, nonostante tutto, lotta per la vita: «Non c’è pregiudizio, nè partito preso, certo il mio non è un film imparziale, in arte credo che l’imparzialità non esista, ma è sincero, e per nulla ideologico. Ho le mie idee, ma il film non ne è il manifesto».
Più che di sonno eterno, dice Bellocchio, il film parla di «risvegli», e il cattolicesimo, anche nelle sue forme più integraliste, è descritto e non semplicemente messo al bando: «Non vuol dire che mi sono convertito scherza l’autore -. La mia è una posizione calmamente laica. Non ho fede, ma rispetto e guardo con interesse e curiosità chi invece ce l’ha». Nelle sale da oggi, Bella addormentata è destinato a far discutere, già oggi l’ex sottosegretario dell’ultimo governo Berlusconi, Eugenia Roccella parla di «opera prevedibile, anticattolica». «Sarebbe innaturale utilizzare questo film come la bandiera di una tesi - dice Bellocchio - ma sarebbe anche sciocco pensare che non darà luogo a dibattiti». La coincidenza con la scomparsa di Martini aiuta: «Ho una mia posizione, ma rifiuto di esprimerla in modo semplicistico. Mi sembra che il Cardinale, pur animato da una fede assoluta, abbia richiesto una sedazione e si sia espresso contro un inutile accanimento terapeutico. D’altra parte, come viene ricordato due volte nel film, anche Papa Wojtyla espresse un desiderio simile». Di cattolicesimo, dice ancora Bellocchio, siamo tutti intrisi: «Anche se non vado in Chiesa e non credo in Dio, conosco cattolici e con alcuni di loro ho rapporti ottimi, anche di affetto». Non è un caso che ad Alba Rohrwacher l’autore abbia affidato il ruolo di un’attivista del Movimento per la vita che s’innamora di un ragazzo (Michele Riondino) di idee opposte: «Alba e Michele sono come Capuleti e Montecchi, stanno lì a dire " possiamo amarci, anche se tu hai fede e io no" ».
Personaggi dinamici, come quello di Isabelle Huppert, la madre che ha trasformato la casa in un tempio dove si celebra il rito della sopravvivenza della figlia, legata alla vita dai macchinari, assistita come una principessa in attesa del bacio che la sveglierà: «Sono un’attrice che mette letteralmente in scena la morte - osserva Huppert -, mi piaceva l’idea che il mio personaggio avesse scelto di sacrificare il suo mestiere in nome della tragedia che l’ha colpita». I più statici sono i politici, paralizzati dalla loro stessa ininfluenza, fermi nella palude dell’intrigo, in attesa di esserne definitivamente inghiottiti: «Non c’è nei loro confronti un atteggiamento di disprezzo, più che la tendenza ad arraffare ne metto in luce la disumanità patologica, la disperazione di cui, forse, sono inconsapevoli». L’unico che si muove, agisce, pensa, è il senatore Servillo, padre della militante Rohrwacher, e marito di una moglie malata e amatissima che gli chiede di porre fine alla sua sofferenza: «Molti parlamentari della maggioranza - ricorda Bellocchio - sperarono che Eluana morisse prima del voto». La bella addormentata che alla fine si risveglia è Maja Sansa, eroinomane vagabonda, riportata al mondo dall’interesse di un dottore, ma «è anche un po’ l’Italia, assopita, come in uno stato di dormiveglia».

La Stampa 6.9.12
Toni Servillo
“Io, onorevole dubbioso ma con dignità”
di F. C.


«Rappresentare la conflittualità per uno che ha scelto di fare l’attore è un invito a nozze»

Si chiama Uliano Beffardi ed è un senatore che sta per dimettersi dal partito di maggioranza cui appartiene. Non può votare una legge in cui non si ritrova, proprio lui che ha accettato, staccando la spina, di accogliere la richiesta della moglie malata terminale: «Al contrario dell’immagine che abbiamo di certi politici - spiega Toni Servillo che lo interpreta in Bella addormentata - è una figura dotata di una fragilità molto interessante».
Che cosa l’ha attratta di Uliano Beffardi?
«Nella sua coscienza si agitano spinte opposte, da una parte deve rispondere al suo partito, dall’altra alle esigenze di una moglie e di una figlia. È un senatore della Repubblica che si trova ad avere vissuto in famiglia un dramma simile a quello vissuto dagli Englaro. Insomma, è pieno di conflitti, e rappresentare la conflittualità, per un attore, è un invito a nozze».
Che ricordi ha dei giorni che precedettero la fine di Eluana Englaro?
«Ricordi identici a quelli ricostruiti da Bellocchio, un’Italia a disagio, vittima della superficialità, alle prese con un argomento importante, assediata da un frastuono mediologico al massimo livello, priva di quel silenzio necessario a riportare la vicenda nell’ambito delle coscienze di ognuno».
Come è nata l’intesa con Bellocchio?
«Sono da sempre spettatore ammirato del suo cinema, così profondo e così ricco di dignità romanzesca, un cinema che aiuta ad ampliare la conoscenza. Ho tenuto un incontro con gli studenti a Bobbio, il suo paese, dove ho parlato a lungo del mestiere d’attore. Mi piace immaginare che in quell’occasione sia scattata la scintilla che ci ha portato a questo risultato».
Qui alla Mostra è presente con ruoli profondamente diversi, nei due film di Ciprì e di Bellocchio. In quale registro si trova più a suo agio?
«Ho fatto film in cui ero praticamente muto, altri in cui parlavo molto, e poi a teatro monologhi infiniti... Nel bagaglio dell’attore devono esserci gli strumenti adatti ad affrontare le situazioni più varie. Mi piace definirmi un attore servile, ovvero creare un personaggio e servirlo. Mi affascina cambiare, non per eclettismo, ma perchè tutti abbiamo dentro diversi sè e gli attori hanno la fortuna di poterli esprimere».
Qual è la sua posizione sulla vicenda Englaro, a prescindere dal film?
«L’attore è un essere pensante, che manifesta il proprio pensiero attraverso i personaggi che interpreta. Questo è un mestiere nobile, sennò saremmo scimmie ammaestrate. Nei ruoli che si fanno si lasciano trasparire le proprie idee, le proprie posizioni. Penso a Volontè, in Porte aperte, la sua espressione era meglio di qualunque trattato sulla giustizia offesa in questo Paese».

Corriere 6.9.12
Successo di Bella addormentata Bellocchio: rispetto chi ha fede
Sedici minuti di applausi e ovazioni. Nel film ricordata l'agonia di Wojtyla
di Giuseppina Manin


VENEZIA — Sono tante le «belle addormentate» di Marco Bellocchio. Una fanciullina incantevole come la principessa della favola, stesa sul letto circondata di rose. Una tossica randagia raccattata da una strada. Una donna morente che impegna l'ultimo fiato per sussurrare al marito: aiutami. E poi, naturalmente, c'è colei che giace immobile da 17 anni, immersa in uno stato vegetativo, Eluana Englaro, dormiente destinata a svegliare un Paese comatoso che sul suo caso si divise e si accese. È lei, che il regista non ci mostra mai, il motore delle tante storie intrecciate nell'arazzo di Bella addormentata, secondo film italiano in gara, accolto con 16 minuti di applausi e standing ovation per il suo autore. Ma anche con qualche contestazione da parte di un gruppetto oltranzista del movimento veneto Cristo per la vita che ha manifestato chiedendo il ritiro del film di Bellocchio e di Faith di Seidl.
Ma, da oggi nelle sale italiane, Bella addormentata ha dalla sua molte ragioni per cui dovrebbe essere visto da tutti. Tra le più urgenti, l'ardua riflessione sul fine vita, sulla libera scelta di come e quando uscire di scena. Oltre a ricordare quanto accadde negli ultimi giorni di «vita» di Eluana, le infinite bagarre in tv e in parlamento dove il Pdl tentava di far approvare a tempi record una legge per impedire la sospensione dell'alimentazione artificiale a quel corpo inerte.
«Seguendo la vicenda, mi sono sentito aggredito da quello che vedevo e sentivo — ricorda Bellocchio —. Con il passare del tempo mi sono reso conto che il film aveva senso solo se poteva rendere in modo ecumenico la complessità dell'argomento. Ho voluto dar voce alle varie posizioni, senza atteggiamenti di disprezzo o di odio. La mia opinione in merito emerge chiara, ma in tutti i personaggi ho ritrovato una parte di ragione».
Pensando a Bellocchio, autore laico, ateo, anticlericale, la sorpresa è proprio questo suo sguardo distaccato su quel mondo ultracattolico, qui impersonato dalla giovane Maria (Alba Rohrwacher), che recita litanie e accende lumini davanti alla clinica di Udine a difesa delle ragioni di una vita a oltranza. «No, non mi sono convertito — scherza il regista —. Non ho fede, però guardo con curiosità e interesse chi ce l'ha». E poi, anche sullo stesso fronte dei credenti, possono emergere dubbi e scelte diverse. Nel film si ricorda la frase di papa Wojtyla, che alla fine della lunga agonia implorò: «Lasciatemi tornare alla casa del Padre». «Un desiderio analogo lo ha quello espresso il cardinale Martini sul letto di morte. Temendo di finire soffocato, ha pregato di interrompere ogni cura ed essere sedato». Andarsene in santa pace, richiesta legittima in certi casi, demonizzata se definita «eutanasia».
Ma se ideologicamente il film lascia carta bianca allo spettatore, politicamente spalanca le porte allo sconforto. Berlusconi compare per informarci del bell'aspetto di Eluana, ancora con il ciclo mestruale e quindi capace di procreare. L'onorevole Quagliariello poi tuona in aula che è stata assassinata... Slogan e tresche del Palazzo in cui si muove con disagio il senatore Pdl Beffardi (Toni Servillo) lacerato tra l'obbedienza al partito e la sua coscienza di uomo che non aveva esitato a staccare la spina alla moglie in agonia. «Il potere è inguaribile — sostiene Bellocchio che si definisce un anarchico pacifista —. Non disprezzo i politici, piuttosto li considero dei casi clinici». Nel film affida questa opinione a un onorevole psichiatra, Roberto Herlitzka che, durante una seduta tra i vapori di un bagno turco, «piccolo inferno per dannati di seconda classe», teorizza «sono molti i malati di mente in Parlamento». Da trattare con psicofarmaci o dosi di comparsate tv «cure tampone per chi sa di non contare nulla». Quanto alla Divina Madre, un'attrice che rinuncia alla carriera per vegliare la figlia in coma, Isabelle Huppert spiega: «Il mio personaggio lascia il palcoscenico ma non rinuncia a recitare, ogni giorno mette in scena il suo teatrino di dolore incitando cori di rosari, vestendo la sua creatura come una bambola, interpretando lei stessa la mater dolorosa...».
Bella addormentata ha però un lieto fine con la tossica Maya Sansa. «Mi piaceva chiudere con un risveglio — conclude Bellocchio —. Un augurio anche per l'Italia, l'altra Bella addormentata che deve aprire gli occhi».

Corriere 6.9.12
Tanta voglia di sorprendere (e graffi ai politici obbedienti)
di Paolo Mereghetti


Su un argomento incandescente e passionale come il caso Englaro, Bellocchio ha fatto invece un film che si sforza di ragionare. È questa la prima, evidente qualità di Bella addormentata, dove gli ultimi giorni di vita di Eluana fanno da sfondo a una serie di storie che si intrecciano: il senatore di Forza Italia che non vuole votare la legge sull'alimentazione forzata, la figlia cattolica oltranzista che prega a Udine di fronte alla clinica La Quiete, l'attrice con una figlia in coma che spera solo in un miracolo per risvegliarla, la drogata che vuole farla finita e il medico che vuole salvarla. Tutte storie che parlano del rapporto tra la vita e la morte e le rimandano allo spettatore con un particolare punto di vista. Pur nella differenza delle rese (Servillo senatore è perfetto e il suo duetto con Herlitzka da antologia), l'idea vincente di Bellocchio e dei suoi sceneggiatori Stefano Rulli e Veronica Raimo mi è sembrata quella di sbriciolare le contrapposizioni ideologiche per mettere in ognuno dei personaggi un po' di quelle «ragioni» e di quei «torti».
Così che lo spettatore si ritrova sullo schermo non il muro contro muro ma piuttosto le tante tessere di un mosaico che deve ricostruire, mentre sullo sfondo un perfetto utilizzo del materiale di repertorio si incarica di ricordare la realtà di quei giorni.
Un'operazione, questa, che lascia anche molto spazio alla forza creativa del regista, alla sua voglia di sorprendere chi guarda (la scena della foto dei politici, con il regista Saverio Costanzo nella parte del fotografo; i bagni turchi inventati sotto il Senato) ma anche al suo piacere di graffiare (i politici che dicono solo «Sì» al telefonino, il rosario detto sempre più forte e più in fretta, il medico che accetta scommesse sulla fine di Eluana).
Dimostrando ancora una volta la capacità di leggere l'Italia e la sua cronaca con una libertà che non tradisce la verità ma anche con una linearità che non annulla la complessità. Tutte qualità che l'americano Harmony Korine ha lasciato fuori dal suo Spring Breakers, l'interruzione, cioè la vacanza dalle lezioni che i college concedono in primavera. Il film vorrebbe raccontare quella di quattro studentesse (tra cui l'idolo degli adolescenti Selena Gomez) ma diventa quasi subito una noiosa puntata di quei programma tivù tipo «Naked Beach Party»: ragazze in bikini che agitano tette e culi e giovani infoiati che si ubriacano di birra (e altro). Lontani mille miglia dalla carica anarcoide e surreale di Russ Meyer ma anche dalle estetiche post post tarantiniane, mi sembra impossibile anche prenderlo per «un patetico testimone di una congiuntura storica» (per rubare una definizione di Massimo Mila su John Cage).
Nel film si fa riferimento esplicito alla confusione tra realtà e videogiochi e il massacro finale (due delle quattro amiche diventano giustiziere a tempo pieno) è raccontato secondo quella logica sgangherata e sconclusionata, ma nemmeno queste pretese pseudo sociologiche possono salvare il più brutto film visto fin qui a Venezia.

Corriere 6.9.12
«Ma l'etica del dubbio non spiega il caso Englaro»
di Paolo Di Stefano


Film complesso, Bella addormentata. Strutturalmente ostico, giocato su vari piani narrativi e molteplici significati. Film non ideologico, anche se dichiaratamente dalla parte di papà Beppino. Un film che prende spunto da quel caso Englaro (con le ricadute grottesche sulla politica) per allargare lo sguardo. È d'accordo anche Adriano Pessina, professore di Filosofia della persona all'Università Cattolica di Milano, oltre che direttore del Centro di Ateneo di bioetica. Un film in cui ogni risposta apparente genera nuove domande, all'infinito. Ultima, ma non l'ultima: qual è lo spazio di libertà nelle scelte che riguardano il proprio corpo? E di rimbalzo, la domanda più gigantesca: qual è il valore della vita? Che comprende anche una questione primaria anche se tecnica: qual è il momento in cui la vita si può dire chiusa? Il tutto giocato entro la dinamica delle relazioni umane, in primo luogo quelle tra genitori e figli, leitmotiv ricorrente in Marco Bellocchio, al punto che si potrebbe anche sostenere che, sotto sotto, tutta la sua opera è improntata al nodo irrisolto dei rapporti generazionali. Quel che prevale è l'etica del dubbio.
«Il film fa esplodere molte contraddizioni — osserva Pessina — senza chiudere su nulla ma offrendo molti spunti di riflessione: non aiuta però a comprendere la questione Eluana, a parte il fatto che riporta al clima di quei giorni, alla perdita del senso della misura: ma direi che Bellocchio affronta diversi dilemmi della coscienza attraverso tante facce e con alcuni stereotipi». Quali? «Il mondo cattolico viene presentato in forma monolitica, come cattolicesimo orante e non pensante». Si potrebbe obiettare che la Grande Madre Huppert, che nel finale chiede alle suore di eliminare tutti gli specchi di casa forse per annullare la propria identità nel dolore per la figlia «addormentata», è una Mater dolorosa, metafisica, jacoponiana. E si potrebbe obiettare anche che la battaglia per il sì alla vita della giovane Maria viene progressivamente deviata verso l'amore tutto «terreno» per Roberto. Insomma, sembrerebbe un film fatto più di sfumature che di partiti presi. «Ci sono due obiettivi polemici: il cinismo della politica e la Chiesa militante. Mi pare poi — controbatte Pessina — che manchi anche quel turbamento di coscienza che spesso vedo nei non credenti: il conflitto interiore del senatore è solo tra l'obbedienza al partito e le sue convinzioni individuali, che non conoscono il dubbio».
L'ambivalenza maggiore si riassume nel giovane dottore che, pur essendo favorevole alla decisione di Beppino Englaro, si ostina a evitare il suicidio della tossicodipendente Rossa, stanca di vivere. «Questo dimostra che la volontà non è un criterio per valutare la bontà di una scelta: il rispetto delle scelte di vita della persona va bilanciato con la responsabilità del medico. A Rossa, il dottor Pallido offre una possibilità che lei non vedeva e che alla fine accetta». Bellocchio si augura un pubblico non indifferente, che riprenda a discutere su questi temi. Vedremo come andrà nei prossimi giorni. «Ci sono diversi errori da evitare: continuare nel muro contro muro sul sì e sul no a proposito del caso Englaro e non fare confusione tra stato vegetativo e fine vita. Sono due cose completamente diverse». Il pensiero del filosofo Pessina sulla decisione di Beppino Englaro? «A mio avviso si è trattato di una forma di abbandono assistenziale. Se, come dice il rianimatore, Eluana è morta 17 anni fa, perché non è stata seppellita allora? La verità è che non era un cadavere, perché non basta il venir meno della coscienza e delle relazioni con gli altri per essere dichiarati morti e sospendere le cure proporzionate alla condizione del paziente». Come si fa a far convivere, in una società, lo spirito laico e la fede? «C'è una religiosità non confessionale, ma umana, che può aiutare a creare una vera dialettica tra il fronte laico e quello della fede».

Repubblica 6.9.12
Il caso Bellocchio
Nel film sugli ultimi giorni del dramma Englaro tre diverse esistenze “sospese”. Bravi Servillo e la Huppert. Sedici minuti di applausi in sala
“Eluana oltre la vita e la morte, in un’Italia divisa in due”
di Natalia Aspesi


VENEZIA Bellocchio ce le fa rivedere, e a distanza di tre anni e mezzo, come liberati da un incantesimo, se ne percepiscono tutta la vergogna, il cinismo, l’opportunismo, in certi casi l’orrore: come quando il primo ministro Berlusconi, col suo sorriso da piazzista, in totale impudente crudeltà, informa gli italiani che quel corpo perduto alla vita da tanti anni, ha ancora le mestruazioni e potrebbe quindi fare figli. E poi le sedute in Senato, e gli anatemi del pidiellino Quagliarello, e l’assurdo minuto di silenzio chiesto dal presidente Schifani all’annuncio che la macchina che mimava la vita di Eluana era stata finalmente staccata.
Con grande sapienza, e bravissimi attori, Bellocchio racconta del valore della vita e della morte con la storia di una tossica (Maya Sansa) che vuole a tutti i costi suicidarsi, a cui si oppone un dottore (Pier Giorgio Bellocchio) che vuole impedirglielo, “in nome dell’umanità”, mentre i cinici colleghi scommettono su quando Eluana morirà; con quella di una grande attrice (Isabelle Huppert) che ha una bellissima figlia in coma e che, senza fede, circondata da suore, sgranando il rosario, lavandosi le mani imbrattate da un sangue immaginario come recitasse nel Macbeth, pretende da Dio un miracolo; e quella che si riallaccia al frenetico momento politico di quei giorni, quando frettolosamente Berlusconi decise di far votare una legge che, per compiacere il potere vaticano, avrebbe dovuto cancellare quella che consente la libertà di cura. Il senatore del Pdl Toni Servillo non vuole andare contro la sua coscienza, e annuncia che non solo non voterà a favore, ma esprimerà nell’aula le ragioni del suo dissenso, per poi dimettersi. «Ma perderai la pensione! » gli dice il collega, che fu socialista come lui ricordandogli che fu il grande boss a salvarli dalla galera e non si può quindi disubbidirgli: e infatti, nelle stanze del partito, tutti a chiacchierare col telefonino e ad assicurare il loro sì.
Ci fu davvero, dice Bellocchio, un senatore friulano, amico di Beppino Englaro, che era deciso a dire no, poi come si sa, la nonvita di Eluana cessò prima che si votasse, e tutto finì lì. Il regista sostiene di non avere alcun atteggiamento di disprezzo verso quelle figure di politico che si aggirano nel suo film, ma certo non li esalta nella scena del tutto surreale in cui, come fossero i senatori dell’antica Roma, s’immergono nudi nei vapori del bagno turco, continuando a guardare la tivù del parlamento. Si ride quando il senatore psicanalista Roberto Herlitzka sostiene che «I politici sono tutti malati di mente». E noiosissimi, da curare con pastiglie per toglierseli di torno: «Sono smarriti, depressi, infelici, vagano per il centro senza sapere che fare, sentendosi inutili, terrorizzati dall’idea che la televisione non li chiami più, sempre più convinti di non contare niente».
Il senatore di Servillo non è una macchietta, è una bella figura di uomo ferito dalla malattia della moglie che ha aiutato a non soffrire più, e dall’ostilità della figlia, Alba Rohrwacher, che sta dalla parte di chi prega perché non sia staccata la spina della macchina che fa respirare, ma non vivere, Eluana. Bellocchio ricostruisce con maestria il caos emotivo di quei giorni che avevano trasformato la discussione sull’eutanasia in una tragedia nazionale dai pesantissimi risvolti non solo morali e religiosi ma anche politici. La folla di credenti davanti alla clinica, i canti sacri, le preghiere, i lumini, le messe, le grida «Assassini! », gli ammalati in carrozzella con il cartello «Ammazza anche me», la polizia, i sostenitori del diritto di far cessare le sofferenze di Eluana, i dibattiti in televisione, i cronisti a caccia di dichiarazioni sensazionali. Ma l’Italia si sa, è impaziente: annunciato che il corpo della povera Englaro si era spento, tutto finì in pochi giorni, si passò subito ad altro. Però al momento di girare il film, se ne sono ricordate la Provincia di Udine (il Comune ha favorito le riprese) e la Regione, che hanno cancellato la Friuli Film Commission che aveva già comunque partecipato al finanziamento del film, come appare nei titoli di testa. Bella addormentata entra nella ristretta rosa dei candidati al Leone d’oro.

Nello Speciale Venezia su Repubblica.it la videointervista a Bellocchio le foto del regista e del cast al Lido, le foto e le clip del film

Repubblica 6.9.12
La par condicio non si addice a questa vicenda
di Curzio Maltese


La colpa di Beppe Englaro fu di voler compiere alla luce del sole e nel rispetto della legge quello che ogni giorno si fa in silenzio in molte famiglie. Restituire la dignità della morte alla figlia Eluana, già persa alla vita da 17 anni. Staccare la spina di un accanimento terapeutico senza senso e senza speranza per Eluana, che serviva ad altri per altri scopi. È la scelta compiuta in tempi recenti dai due uomini più amati della chiesa, Karol Wojtyla e Carlo Maria Martini. Ma la chiesa, come tutti i poteri italiani, dei quali rimane l’archetipo, non è interessata tanto al rispetto autentico della legge morale, quanto al pubblico atto di sottomissione. Per averlo rifiutato, papà Englaro ha pagato un prezzo enorme. Gerarchie e associazioni cattoliche non hanno esitato a mettere in campo una propaganda infame, a usare disabili nelle manifestazioni con cartelli appesi al collo («Uccidi anche me! »), al linciaggio quotidiano («boia», «assassino») di un padre provato da un lungo calvario. Non si sono vergognati neppure di sfruttare il potere mediatico e il grottesco magistero morale di un noto organizzatore di festini, incidentalmente presidente del Consiglio. Un abisso di degrado insomma di una chiesa già percorsa da una furibonda lotta di potere, come si rivelò poi dagli scandali.
Con tali premesse, si sarebbe potuto temere dall’autore de I pugni in tasca e L’ora di religione un eccesso di furia indignata. A sorpresa invece Bella addormentata ha il difetto di apparire troppo prudente. Preoccupato di «non offendere nessuno», Bellocchio intreccia storie e personaggi con una strana ansia da par condicio. In termini giuridici, si chiama eccesso colposo di legittima difesa. Non che qualcuno possa sbandierare verità assolute in questi casi. Ma alla fine i personaggi della finzione appaiono al di sotto della tensione del conflitto reale, che esplode nelle immagini di cronaca splendidamente montate. Lo splendore del cinema di Bellocchio riemerge in scene indimenticabili, come il bagno da basso impero dei senatori, oppure in figure laterali, il capo banda berlusconiano interpretato dal grandioso Roberto Herlitzka, che distribuisce psicofarmaci per sedare i rari sussulti etici. A parte la scrittura, tutto è straordinario, regia, fotografia di Ciprì, montaggio di Francesca Calvelli, il portentoso gruppo di attori, tanto più quando i personaggi risultato meno credibili. Per esempio, il politico interpretato, al solito magnificamente, da Toni Servillo. In vent’anni da cronista non mi è mai capitato d’imbattermi in un parlamentare berlusconiano non tanto in preda a una crisi di coscienza, questo è capitato, ma totalmente immerso in un universo morale tanto limpido e coerente, quasi kantiano. Ma il cinema serve anche a inventare mondi paralleli.

Repubblica 6.9.12
Già partite le discussioni sull’eutanasia. Gli attori grati al regista
“Una storia anticattolica” l’accusa dei politici di destra ma il pubblico applaude
di Maria Pia Fusco


VENEZIA Puntuali. Sono arrivate e arriveranno le reazioni polemiche a Bella addormentata, per lo più da chi non ha visto il film, come l’ex ministro Maurizio Sacconi che, sia pure “laico e curioso”, riporta il giudizio di «una persona che stimo e mi ha riferito di un assoluto disprezzo per la tesi di coloro che nel dubbio scelsero un principio di precauzione in favore della vita». O come l’ex sottosegretario del governo Berlusconi, Eugenia Roccella, che, parte «da quello che mi hanno raccontato » e definisce il film «scontato, prevedibile, anticattolico e non racconta nulla della vicenda Englaro». Fulvio De Nigris, direttore del centro studi per la ricerca sul coma, che almeno lo ha visto, dice: «è un buon film, ma a senso unico».
Alla Mostra a parte un piccolo gruppo di cattolici riunito davanti al Palazzo del Cinema, Bella addormentata è stato accolto con favore straordinario, una rara standing ovation ha salutato in sala stampa Bellocchio e il suo cast. A cominciare da Toni Servillo, il senatore Beffardi nel film, «un personaggio dubbioso nella sua fragilità, che mantiene la sua dignità. Marco lo ha creato tormentato dalla memoria di una moglie che ha aiutato a morire, milita nel partito di Berlusconi ma viene dal Psi, vive un dramma di coscienza, ha un rapporto controverso con sua figlia: con tutti questi conflitti per un attore è come andare a nozze». Per Isabelle Huppert, la Divina Madre, «è la libertà che Bellocchio concede agli attori a farmelo amare. E, come gli attori, i personaggi sono liberi di scegliere, ciascuno di noi cerca la sua strada senza avere certezze assolute, e a me piace chi conosce il dubbio».
Amore e gratitudine dal giovane Brenno Placido, da Gian Marco Tognazzi, da Alba Rohrwacher — «Un’esperienza di vita, che va oltre il percorso professionale» — da Michele Riondino — «Bellocchio come un grande direttore d’orchestra trae il meglio da ciascuno» — da Roberto Herlitzka, dal figlio Pier Giorgio che «mai avevo fatto un personaggio così distante da me». Per Maya Sansa «il lavoro si è svolto in due fasi, voleva una tossicodipendente lontana dai cliché. Io ho fatto una proposta, ne abbiamo parlato poi con Pier Giorgio abbiamo approfondito il rapporto: è meravigliosa la sensazione di condivisione che Marco ti regala».