venerdì 7 settembre 2012

l’Unità 7.9.12
Le radici dell’infelicità
Italiani poco felici, ma lo shopping non c’entra
di Oreste Pivetta

Mi confidava un banchiere, tra i più importanti, al quale mostravo la mia invidia per il carico di milioni e di stock options della sua liquidazione, che il denaro non fa la felicità. Me lo diceva anche mia madre, brava a trasformare in virtù la nostra mediocre condizione.
E a convincermi così che non era il caso di piangere sulle magliette che mi costringeva a indossare, quelle smesse dall’amico benestante e quindi cresciuto più in fretta, e persino a indurmi a commiserare i compagni di scuola in partenza per le vacanze a Davos o a Santa Margherita. Il vecchio proverbio era il cavallo di battaglia del parroco, che, poveraccio, in soldi non era davvero messo bene e che, per propria consolazione, qualcosa doveva aver letto a proposito di San Francesco, il santo che aveva mostrato la via della povertà, capitato davvero male in questo paese che si onora d’averlo scelto come patrono, marciando però nel senso opposto della strada, perchè l’italiano medio è sempre stato convinto che i soldi fanno la felicità e se c’è qualche virtuoso che pratica in modo diverso è davvero “l’eccezione che conferma la regola” (altro proverbio...). A conforto di questa opinione ci sta la storia ed ora ci sta pure l’inchiesta Coop che conferma: italiani tristi, italiani che si sono dimenticati la gaiezza spendacciona degli anni ottanta, quando comandava Craxi in barba al deficit che spiccava il volo, italiani più inclini a piangere su se stessi che a rimboccarsi le maniche e inventarsi lotte, come poteva capitare nei duri anni della ricostruzione, quando la vita era pesante, ma intanto si cresceva accanto ad altri, c’erano i “compagni”, con i quali rivendicare salari, diritti, persino cultura (compare nell’inchiesta un numero di straordinario interesse: gli italiani siedono davanti alla televisione più di un tempo, non escono, non s’incontrano a cena, frequentano meno cinema e teatri, si danno invece alla tv tra le mura domestiche, consegnano la loro tristezza rassegnata a Piero Angela e a Maria De Filippi). L’infelicità degli italiani nasce da quello stato cui ci hanno condotto la crisi, la globalizzazione, la finanza padrona del mondo, lo spread, Berlusconi, il professor Monti, Fornero, la rinuncia a una politica di investimenti, l’economia in nero, la mafia, la camorra, l’evasione, la siccità, le alluvioni, i salari fermi, le pensioni immobili, la disoccupazione, la politica... e quel fantasma che s’è aggirato per decenni e che s’è infine materializzato, prima da noi che in Cina, prima in America che in Africa, che non è il comunismo, che è invece il consumismo, incontrastato trionfatore su ogni conflitto.
La felicità, nella maniera più evoluta fare shopping, è partecipare alla festa del consumo. I tuoi hobby? chiedono in tv alla ragazzina campionessa di nuoto: ascoltare musica e fare shopping. La mutazione in senso ludico di una attività una volta solo funzionale... una volta, quando si comperava, chi poteva, un paio di scarpe solo perché si avvicinava l’inverno e ce n’era bisogno per non gelarsi i piedi... La crisi, nelle sue varie espressioni, ci costringe ad una revisione: non girano soldi, si torna all’indispensabile (vedi il precipizio delle vendite di detersivi e di auto: non tutti sono come il padre nel film veneziano di Ciprì). Sarebbe il momento di inventarsi un nuovo modello d’esistenza che tenga conto del valore del limite, per noi, per l’ambiente. La felicità è un traguardo universale, da quando la prima scimmia o il primo uomo sono comparsi sulla terra. Poi ciascuno l’ha inseguita come meglio preferiva. Per San Francesco felicità era dare ai poveri, contemplare il creato. Martini parlava di contemplazione come capacità di osservare la realtà e operare per migliorarla, per accendere una piccola fiamma di speranza. Non teneva in gran conto lo shopping. Così non sente l’italiano “in chiaro” che sta nel rapporto. Anche qui c’è del “sommerso”: gli evasori fiscali non sono mai sotto inchiesta (e di sicuro potrebbero vantare i “loro” motivi per sentirsi felici).

l’Unità 7.9.12
Bersani: «Coraggio Pd mettiamoci in gioco»
Il leader democratico incontra i segretari regionali: «Non sarò seduto ad aspettare»
Renzi elogia le primarie americane: «Funzionano e danno entusiasmo»
di Maria Zegarelli

ROMA «Il segretario del Pd non starà seduto nella sua stanza ad aspettare una vittoria annunciata, né alle primarie né alle elezioni»: è questo che dice Pier Luigi Bersani incontrando i segretari regionali e i membri della segreteria al Nazareno. E se sceglie toni sobri, non scende in polemica e continua a parlare dei problemi concreti del Paese, spiega, non è perché sta sottovalutando insidie e difficoltà. «Non sottovaluto nulla dicealtrimenti mi sarei appellato al regolamento, ma il Paese chiede alla politica di avere coraggio e spetta soprattutto a noi dimostrare di averlo. Dobbiamo guardare gli italiani negli occhi e non avere paura di andare incontro a primarie in mare aperto». Questa è la strada, secondo il segretario, per fare delle primarie un grande evento di partecipazione, «una risposta concreta a quanti guardano la politica un po’ schifati, perché il contrario di populismo è popolarità». Il numero uno del Nazareno non nasconde la preoccupazione per i toni del dibattito interno e per una discussione che rischia come di fatto sta già accadendo di apparire chiusa e lontana dai problemi reali delle persone. Per questo chiede a tutti, leader, giovani e vecchi, di moderare i toni, «c’è bisogno di un cambio di passo, di un time out perché dopo le primarie ci sono le elezioni politiche e noi, un attimo dopo il voto per la leadership, dobbiamo essere un’unica squadra, unita, che lavora per vincere». E questo sarà il messaggio che lancerà chiudendo la festa nazionale a Reggio Emilia domenica prossima: parlare al Paese, perché la «passione per la politica si riaccende se si è credibili, affidabili e se
si discute dei temi concreti», di quel rapporto tra sviluppo e coesione sociale su cui il centrosinistra vuole fondare il suo Patto con il Paese.
«Il Paese sta vivendo un periodo di grande difficoltàdice Andrea Manciulli, segretario della Toscana -, le file davanti al distributore della benzina per risparmiare qualche euro sono un segnale forte. Il Pd non può chiudersi alla società civile discutendo di primarie e battaglie interne, noi dobbiamo dare una prospettiva realistica agli italiani». C’è anche chi, nel corso dell’incontro andato avanti per oltre due ore, chiede di arrivare a regole certe per le primarie al più presto, «anche se sarebbe stato meglio non rimettere tutto in discussione non dando troppa voce ai tanti desiderata di cui si legge in questi giorni». «Delle regole risponde Bersani discuteremo alla prossima Assemblea nazionale».
LE REGOLE
«Dobbiamo cogliere le primarie aperte come un’occasione per rafforzarci e non per indebolire il partito dice la presidente del partito Rosy Bindi -. Se le primarie saranno un’occasione per parlare di problemi veri, di scelte e di programmi per l’Italia, sarà sicuramente positivo. Se viceversa si approfitterà delle primarie per una competizione elettorale, allora forse si rischia non tanto di indebolire il Pd ma la politica italiana tutta». Matteo Renzi, che torna convinto dagli Usa che «è bello quando la politica riesce ad emozionare», senza rinunciare al suo repertorio made in Italy, ormai consolidato, contro l’establishment del suo partito. Assicura che le primarie saranno «un’occasione, poi chi perde dà una mano a chi ha vinto. Noi partecipiamo con rispetto ed umiltà, rinnovando a Bersani amicizia e affetto perché non è una gara gli uni contro gli altri, ma per il bene dell’Italia. Faremo questa gara senza litigare, ma raccontando idee diverse: noi siamo perché cambi il gruppo dirigente, vadano a casa quelli che da vent’anni sono in Parlamento e si rottamino le idee che hanno portato l’Italia a non funzionare». Sulle regole dice di non voler mettere bocca, purché siano primarie aperte. «L’esperienza americana aggiunge è un’occasione per verificare anche solo per 24 ore un modello di partito in cui le primarie hanno assolutamente una funzione centrale e insostituibile».
Massimo D’Alema, in un’intervista al Corriere della Sera, dice: «Renzi sembra aver lanciato una campagna rivolta non alla costruzione di una prospettiva di governo ma esclusivamente contro il gruppo dirigente del Pd e tutti i potenziali alleati di governo del centrosinistra». E registra «con amarezza» che il primo cittadino fiorentino sembra essere «sostenuto soprattutto da quelli che il Pd al governo non lo vogliono». Paolo Gentiloni, che non nasconde simpatie per Renzi, critica i suoi colleghi: «A me l’aria che è tirata in questi giorni in cui la classe dirigente del Pd ha dato talvolta l’impressione di essere una specie di nomenclatura un po’ impaurita dal ciclone Renzi, penso che sia un errore». E invita a fare le primarie «con le regole con cui si sono fatte sempre», per Prodi, Bersani, De Magistris e Pisapia. Antonello Giacomelli, invece, parlando dei «giovani turchi» evoca Achille Occhetto e chiede al segretario di dire «parole chiare». «A me sembra che l’obiettivo di Matteo Orfini e dei “giovani turchi” sia quello di fare di Bersani il leader di una nuova gioiosa macchina da guerra», afferma Bersani legge i botta e risposta tra i democrat che le agenzie rilanciano e avverte: «Bisogna avere le spalle larghe, mostrare solidità e sobrietà perché le primarie non sono un congresso. Quello si farà poco dopo, nel 2013. Prima dobbiamo vincere le elezioni».
Fase doppiamente delicata per il segretario: tenere insieme il partito, lavorare al programma da sottoporre al Paese e alla futura alleanza, e contemporaneamente giocarsi la partita per la leadership, «farò il segretario fino all’ultimo minuto», assicura ben sapendo che i prossimi mesi saranno difficilissimi: una doppia campagna elettorale da condurre in un autunno che farà sentire tutto il peso sociale della crisi, con la disoccupazione e l’inoccupazione giovanile ai massimi e il lavoro che resta la prima emergenza del Paese.

l’Unità 7.9.12
Zagrebelsky: di Pier Luigi ci si può fidare

«Considero Pier Luigi Bersani una delle persone migliori del nostro panorama politico su cui si può fare un investimento di fiducia». Così Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale e presidente onorario di Libertà e Giustizia, alla Festa del Pd di Torino.
Il costituzionalista senza citare nessuno ha poi aggiunto di «non avere mai avuto rapporti e di non volere rapporti con altri personaggi emergenti del Partito democratico, per i quali mi viene in mente una citazione: diffidate se nell’eloquio di una persona ogni tanto ci sono incertezze, perché vuol dire che quella persona parla come una macchina indottrinata e colui che parla come una macchina indottrinata non merita la nostra fiducia». Tornando alla politica del Pd «così come è impersonata dal segretario Bersani», Zagrebelsky ha aggiunto che «se vogliamo vincere le elezioni, bisogna acquisire dei soggetti votanti che oggi non votano o votano altrove. C’è nel Paese una grande domanda di rinnovamento: non che si debba fare del giovanilismo, ma c’è bisogno di immettere nella politica delle forze non nuove, ma fresche». Per il costituzionalista è un errore clamoroso qualificare come antipolitica «ciò che viene da quel mondo che sta oltre il Pd». E «i partiti politici devono sapersi presentare in veste rinnovata, per riacquistare quella fiducia che è fondamentale per la vita della democrazia».

Corriere 7.9.12
D'Alema scuote i democratici E nasce un asse antisinistra
Dai moderati un documento contro i «neostatalisti» di Fassina
di Tommaso Labate

ROMA — Dopo una settimana scandita dalle polemiche a scena aperta, dentro il Pd scocca l'ora dei sospetti. E quella delle domande maliziose. Quasi tutte generate, almeno quelle di ieri, dall'intervista rilasciata da Massimo D'Alema al Corriere. La stessa in cui l'ex premier — che attacca frontalmente Renzi e conferma il suo sostegno a Bersani — torna a dare la sua preferenza al sistema elettorale che da anni sta in cima ai suoi desiderata: il modello tedesco. «Concordo con D'Alema che c'è un lavoro per favorire un Monti bis e comunque ostile al centrosinistra», premette Antonello Giacomelli. «Proprio per questo», aggiunge il fedelissimo di Dario Franceschini, «mi sembra incongruo che, nella stessa intervista, si manifesti disponibilità per un modello elettorale che può creare le condizioni per un'ampia coalizione e un nuovo governo Monti».
Ma se tra i bersaniani c'è chi guarda con sospetto alle mosse dalemiane, al di fuori del blocco che sostiene il segretario c'è la corsa alle domande maliziose. «Bersani condivide il disprezzo di D'Alema per gli altri candidati?», chiede Arturo Parisi. «Se l'Inghilterra ha fatto a meno di Blair e la Germania di Kohl l'Italia potrebbe fare a meno di D'Alema, no?», è la domanda che il presidente dell'Anci Graziano Delrio rivolge dai microfoni di Radio24.
Da quando Bersani ha dato il disco verde alle primarie aperte e Renzi ha ufficializzato la sua discesa in campo, insomma, dentro il Pd s'è esasperato quel conflitto classico che sta all'anticamera di un congresso. E lo scontro potrebbe surriscaldarsi domani sera, quando i «giovani turchi» del tridente Fassina-Orfini-Orlando interverranno alla festa democratica di Reggio Emilia. Anticipati da dichiarazioni di chi, come Giacomelli, li accusa di voler «fare di Bersani il leader di una nuova gioiosa macchina da guerra».
Ma proprio per evitare quello che in molti hanno chiamato il «rischio del 1994» — una sconfitta dei progressisti che arriva nonostante i favori del pronostico — la settimana prossima, dentro il fronte che sostiene Bersani, potrebbe coagularsi un vero e proprio «correntone». Che farà una guerra senza quartiere a Renzi. Ma che si pone come obiettivo quello di arginare i «giovani turchi».
Il «correntone» sta per nascere benedetto dal vicesegretario Enrico Letta, che ha evitato l'emorragia dei suoi verso Renzi. E anche da Dario Franceschini, che ha schierato sull'iniziativa alcune delle sue giovani leve. Iniziativa che vedrà la luce con un documento (titolo: «Guardare avanti, cambiare l'Italia») in cui si ribadiscono il «sostegno convinto» a Bersani e due condizioni. No «all'approssimativo liberismo di sinistra» di Renzi. E no alla «nuova-vecchia socialdemocrazia neostatalista» dei Fassina e degli Orfini. Perché, si legge nelle linee guida che ispireranno il testo, «anche a sinistra c'è chi attacca la Bce, nonostante l'azione di Mario Draghi». Al contrario, «fare politica non è accusare gli gnomi di Zurigo o i tecnocrati di Bruxelles». E Monti? Il correntone riformista pro Bersani lo dirà con nettezza: «L'azione del suo governo» ha evitato all'Italia «la caduta immediata in un baratro che avrebbe peggiorato drasticamente le condizioni materiali di vita per tutti, a cominciare dai più deboli».
Ma non ci saranno solo lettiani e franceschiniani nel «correntone». Anche alcuni segretari regionali del Pd che vengono dai Ds saranno della partita. «È uno snodo delicato. Al contrario di quello che sta succedendo in questi giorni, dove tutti pensano a regolare conti e conticini, il Pd deve tornare a parlare al Paese reale», ammette il leader del Pd lombardo Maurizio Martina. E aggiunge: «Adesso serve un'iniziativa forte a sostegno di Bersani». Il documento del «correntone» — a cui potrebbero aderire anche il segretario dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini e quello della Campania Enzo Amendola, oltre al tesoriere del partito Antonio Misiani — potrebbe diventarlo. E nella disputa tra montiani e sinistra, la scelta di Sel di sostenere il referendum dipietrista per ripristinare l'articolo 18 potrebbe avere un suo peso. Non indifferente.

Corriere 7.9.12
Bindi sui gay: no alle nozze. S'inventino qualcosa

MILANO — Rosy Bindi non sfugge al tema dei matrimoni gay. Tema che ha riaperto nel Pd e nel centrosinistra il confronto sulle nozze tra omosessuali e, più in generale, sulla praticabilità di un'alleanza che vada da Casini a Vendola. Botta e risposta ieri a Genova tra la presidente del partito e un esponente omosessuale di Sel che le ha chiesto: «Mi può dire perché non vuole che io mi sposi?». Bindi ha risposto: «Io ti auguro di fare quello che vuoi, ma in questo Paese c'è la Costituzione. Il matrimonio è un istituto che è stato pensato storicamente per gli eterosessuali. Potreste avere più fantasia per inventarne uno vostro». Qualche ora più tardi, scena simile alla festa pd a Torino. «Non è vero che il matrimonio è incostituzionale. Offende i cattolici di qualche partito, l'Udc», ha detto Marco Giusta, presidente dell'Arcigay cittadino, rivolto a Bindi. E mentre lei cercava di ribadire la posizione del Pd, sono arrivate le contestazioni: «Vigliacca, questa posizione è retrograda», le ha urlato un ragazzo. Nei giorni scorsi a contrapporsi a Rosy Bindi era stato Nichi Vendola, governatore della Puglia e leader di Sel. Alla festa del Pd a Reggio Emilia aveva detto: «Voglio sposarmi con il mio compagno». Bindi gli aveva risposto che la Carta «con chiarezza» non consente altre forme di matrimonio che fra uomo e donna. Il tema aveva fatto discutere anche all'interno dello stesso partito: lo scorso 14 luglio, durante l'Assemblea del Pd, venne approvato un documento messo a punto dal Comitato diritti guidato proprio da Bindi. Al punto 5.5 il documento parlava di «formule di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali». Paola Concia, Ignazio Marino e altri dell'ala laica del partito avevano chiesto la votazione su un altro documento che poneva la questione delle nozze gay. Bindi si oppose alla votazione. Dopo giorni di discussioni la posizione della presidente — e del segretario del Pd — è stata formalizzata nel sì al «modello tedesco»: un istituto giuridico ad hoc che dà gli stessi diritti e doveri delle coppie etero sposate.

l’Unità 7.9.12
Sono primarie o è una sfilata?
di Michele Prospero

CE LA FARÀ LA SINISTRA AD INTERPRETARE IN MANIERA EFFICACE E NON AUTODISTRUTTIVA la tornata delle primarie di coalizione che, per la prima volta in Italia, assumono vesti altamente competitive? Le prove tecniche di primarie hanno già svelato una preoccupante inadeguatezza per via di un ardore polemico spericolato. Non è l’intensità dei fendenti che preoccupa. Che i gazebo non siano mai una cerimonia di gala è cosa scontata. E però andrebbe evitato che le primarie si traducano in una occasione afferrata al volo per assestare dei colpi agli organigrammi congressuali e per tendere delle imboscate al quartier generale.
Senza la condivisione di un percorso politico, e sguarnite di un senso del limite, le primarie possono rivelarsi un incidente utile per un avversario a corto di chance. Quello che urta è perciò la mancata comprensione del carattere specifico delle primarie. Il destinatario vero della contesa non può essere l’elettore astratto, raggiunto ovunque esso si collochi nello spazio politico e stimolato con l’arte della provocazione e con le metafore della esagerazione. Per quanto le primarie siano aperte, esse non possono rivolgersi all’opinione pubblica indifferenziata, che presta attenzione solo ai messaggi più eccentrici. Non bisogna confondere le primarie, che tendono a mobilitare una parte soltanto della società, che condivide simboli, lessico e riti, con le elezioni politiche che sono invece una battaglia rivolta al popolo nel suo complesso. Il confronto che si chiuderà nei gazebo ha per referenti principali gli iscritti e, insieme ad essi, quella delimitata, sebbene ampia, porzione di elettorato affezionato e partecipe che per tradizione è vicino alla sinistra. Ciò deve avere delle conseguenze ineludibili nelle strategie anche linguistiche che devono essere rispettate dai candidati. La fissazione per gli effetti magici della esasperazione mediatica, che reclama eterne battute contro i gruppi dirigenti e attira ironie sulla età del ceto politico, non può tradursi in una accentuata curvatura comunicativa che va alla ricerca di corpi nuovi e non di politiche nuove. Chi, invece che rivolgerli alla propria parte per definire altri stimoli ad agire e suscitare dei più forti motivi di impegno, orienta i ritrovati della comunicazione (se non del marketing) verso una spregiudicata deriva elettoralistica cercherà in ogni modo di alterare il senso delle primarie per tramutarle in una indebita simulazione del voto per il Parlamento. Ma le primarie, per loro vocazione differenziale, non devono conquistare il territorio elettorale altrui, quello presidiato dalle destre, devono al contrario far scattare una più nitida identità e una più solida convinzione nel proprio mondo, che così assapora la vittoria. Per un malinteso disegno di sfondare già con le primarie nell’altro campo, si nota l’ossessiva ricerca di effetti speciali studiati a tavolino dai consulenti di immagine per stimolare la compiacente copertura dei media, la cui proprietà è da tempo infastidita dagli echi di pretese torsioni neosocialdemocratiche in atto nel Pd. Le primarie svaniscono ogni senso di rimobilitazione (del proprio campo politico e sociale, a stento ritrovato) se le distanze ideali dei protagonisti del confronto appaiono abissali e restano tali in virtù della costruzione mediatica di una diversità effimera basata solo sull’immagine.
Certe declinazioni sul ricambio generazionale come valore in sé, talune sortite sulle facoltà quasi divinatorie delle attardate pratiche liberiste, certe compiaciute esposizioni in abiti sportivi per curare la visibilità del corpo danno di sicuro l’impressione di un partito che ha dentro di sé una polarizzazione assiale piuttosto clamorosa, non inferiore per intensità a quella che di solito distingue all’esterno la destra e la sinistra. Se la battaglia in corso tra la politica rimotivata e le forme dell’antipolitica rigonfiate dalla rabbia smisurata dei poteri forti si svolge in forme carnevalesche già dentro il partito è evidente che il virus del populismo non potrà essere estirpato. Tutto il paziente lavoro fin qui svolto per sconfiggere le forze materiali e immateriali dell’antipolitica rischia di franare, travolto dalla riedizione postuma di una fiacca politica sub specie comunicationis.
L’agenda politica delle primarie non può essere quella che mira a stuzzicare l’appetito dei media con effetti speciali ingannevoli ma deve consistere in una calibrata differenza di accenti e di sensibilità all’interno di un medesimo paradigma dell’innovazione (Europa politica e sociale, riassetto delle istituzioni, rilancio del valore del lavoro, nesso tra crisi sociale e crisi democratica). Se invece di primarie sobrie tra candidati che muovono da una stessa identità programmatica, sia pure declinata con accenti diversi, si svolge un duello rusticano che si prolunga scomposto dinanzi alla luce della ribalta allora è meglio lasciar stare. Si chiamano primarie ma diventano in realtà una maldestra pratica impoliticamente assistita per favorire a telecamere accese il mesto suicidio della sinistra che balbetta una polarità incandescente nuovo-vecchio, utile solo per risollevare gli umori di una destra che pareva derelitta.

Corriere 7.9.12
Timori di un testa a testa. Bersani: sbagliato attaccarlo
Il segretario ai suoi: voglio mettermi in gioco così ridaremo credibilità alla politica
di Maria Teresa Meli

ROMA — Il gruppo dirigente del Pd è spaventato. La forza d'urto di Matteo Renzi ha colto tutti alla sprovvista. «Potrebbe vincere lui», mormora ormai qualcuno. E a largo del Nazareno ci si interroga da qualche tempo su questa eventualità. «Ma non è possibile: il segretario del partito non può perdere», spiegava l'altro giorno il bersaniano Maurizio Migliavacca. «Anche perché così chiudiamo», chiosava più amaramente che ironicamente il franceschiniano Antonello Giacomelli.
Il Pd trasuda dubbi e timori. Eppure Pier Luigi Bersani non sembra preoccupato: «Se perdo mi riposo», scherza con i collaboratori. Ma non ha intenzione alcuna di uscire sconfitto dalle primarie: «Sono agitati tutti — quelli dell'agenda Monti, i giovani turchi, gli antigiovani turchi — perché non sanno bene quello che ho in testa. Io sto solo aspettando che vengano scritte le regole per le primarie, che devono essere aperte, perché non possiamo dare l'impressione di chiuderci a riccio, e poi finalmente mi riterrò con le mani slegate». Ragiona così il segretario, con i fedelissimi (Vasco Errani in testa), e solo con loro, non perché non si fidi degli altri, ma perché vede che in tanti, troppi, temono di perdere terreno e ruolo. Tant'è vero che al Pd circola addirittura un'indiscrezione che vorrebbe Rosy Bindi tentata dalla candidatura alle primarie, nonostante prima dell'estate tutti i maggiorenti abbiano siglato un patto di non aggressione promettendo di non scendere in campo. Sarebbe un modo per non perdere peso nel Pd.
Il leader non si nasconde dietro un dito, sente il nervosismo dei compagni di partito, però critica certi atteggiamenti: «È sbagliato attaccare Renzi». Lui, la "sua" campagna elettorale per le primarie non la immagina nel recinto del dibattito pro o contro il sindaco di Firenze: «Parlerò all'Italia, non mi farò incastrare sul rinnovamento. Le primarie sono una cosa seria e non basteranno gli effetti speciali o le trovate comunicative per vincerle». Ma nonostante la tranquillità ostentata dal segretario, l'ultimo sondaggio che dà Bersani e Renzi testa a testa non fa dormire sonni tranquilli ai dirigenti del Pd. Del resto anche un'eventuale vittoria di misura del segretario — un 40 per cento a 35, per intendersi — preoccupa molti. E non c'è doppio turno che regga.
I segretari regionali hanno incontrato ieri il leader e hanno manifestato tutti i loro dubbi e timori. Renzi sta aggregando amministratori locali su amministratori locali. Quelli hanno i voti, i dirigenti periferici del partito ne hanno assai meno. Ma Bersani non si è mosso di un millimetro dalle sue posizioni: le primarie ci saranno perché rappresentano «un'occasione e non un rischio». «Dobbiamo avere tutti coraggio: il Pd deve mettersi in gioco, io mi voglio mettere in gioco», ha spiegato ai suoi interlocutori. E poi ha aggiunto: «Per le sfide occorre avere le spalle larghe e noi dobbiamo dimostrare di avercele. Le primarie saranno un'ottima occasione per guardare gli italiani negli occhi, per far capire loro che cosa proponiamo. C'è chi dice che la crisi è passata: non è così. La situazione è grave. Chiudono le imprese, le aziende e i negozi. Il Pd deve chiarire come intende agire su questo fronte. È questo che gli elettori ci chiedono: le nostre beghe non interessano nessuno. Il nostro compito — e le primarie possono aiutarci in questo senso — è un altro: quello di ridare credibilità e ruolo alla politica».
Il timore del segretario in questi giorni non è quello di una possibile sconfitta nel duello con Renzi. È un altro il rovello che lo assilla. Riguarda le "secondarie", ossia le elezioni politiche della prossima primavera. Con i fedelissimi ne parla spesso: «C'è una parte importante dei poteri forti che non vuole che il Partito democratico governi. Non sottovalutiamo questi rischi. Non pensiamo di avere già la vittoria a portata di mano». E Bersani non riesce a togliersi dalla testa il dubbio che i tentativi di sbarrare il passo al Pd passino anche per la legge elettorale. «C'è chi vorrebbe mandarci avanti per le lunghe — ragiona il segretario con i collaboratori — perché punta a farci esaminare la riforma sotto il ricatto di un colpo di mano. Però sia chiaro: non è che noi siamo disponibili a tutti i costi per qualsiasi sistema elettorale. Se mi presentano una riforma che non consente la governabilità, che non permette di sapere chi andrà al governo, io non ci sto».

il Fatto 7.9.12
Renzi, l’arma segreta
di Marco Travaglio

Allarme generale: “Massimo D’Alema non è tranquillo”. Anzi, “è decisamente inquieto”. Così lo descrive, in una frizzante intervista, il Corriere della Sera. Non bastassero “la crisi” che “dev’essere la prima preoccupazione di tutti” e “il degrado del dibattito politico” (tutte vicende che lo vedono incolpevole spettatore, non avendo lui ricoperto alcun incarico negli ultimi 40 anni), c’è pure la questione del “Nagorno-Karabach” di cui si appresta a parlare con l’ambasciatore. Ma soprattutto “lo assillano i titoli dei giornali” che “parlano quasi tutti di Matteo Renzi. E lui non riesce a digerirlo”. A queste parole, il Renzi deve aver acceso un cero alla Madonna: negli ultimi giorni si era diffusa la voce che alcuni supporter di Bersani si stessero spostando su di lui. Tipo il sindaco di Piacenza e anche un fedelissimo di Napolitano come Umberto Ranieri. Mancava solo l’appoggio di D’Alema e il sindaco di Firenze avrebbe fatto prima a ritirarsi, risparmiandosi una costosa e faticosa campagna elettorale. Quello di D’Alema, com’è noto, è il bacio della morte: appena ti appoggia, sei spacciato. Ne sa qualcosa Francesco Boccia, noto trascinatore di folle, doppiato due volte da Vendola dopo il decisivo sostegno dalemiano nella comune terra di Puglia. Tant’è che qualcuno, nello staff di Bersani, per liberarsi di Renzi aveva pensato di scatenargli a sostegno la Volpe del Tavoliere. Figurarsi la gioia del giovine Matteo quando, ieri mattina, ha appreso che avrà D’Alema contro, mentre il povero Bersani l’avrà a favore (“per governare il Paese in un momento così difficile la persona più adatta è Bersani”, mentre il Renzi “non è in grado di governare”). È l’arma segreta che potrebbe assicurare al rottamatore una vittoria a sorpresa. Ma che cosa esattamente D’Alema “non digerisce”? Non la campagna del Renzi per le primarie, questo sarebbe troppo: ma che essa venga condotta “contro il gruppo dirigente del Pd”. Il Renzi, per non rovinargli la digestione, dovrebbe candidarsi a favore del gruppo dirigente. Decoubertinianamente. Magari assicurando che, anche in caso di vittoria, lascerebbe Bersani al suo posto, con tutto il cucuzzaro di D’Alema, Veltroni, Bindi, Finocchiaro e magari pure Violante e la Turco. L’idea che le primarie si facciano proprio per decidere il gruppo dirigente, non sfiora neppure il Viceconte Max. Il gruppo dirigente lo decide lui (“capotavola è dove mi siedo io”). Squadra che perde non si cambia. “C’è – denuncia – una distorsione del dibattito sul rinnovamento: sembra che questo passi per la cacciata dal Parlamento dell’intero gruppo dirigente del centrosinistra”. È chiaro a tutti che il rinnovamento passa dalla riconferma dell’intero gruppo dirigente. Tra l’altro, così giovane. “La segreteria Pd è affidata ad una nuova generazione”: infatti Bersani s’iscrisse al Pci nel 1973, diventò presidente della Regione Emilia nel '93, poi nel '96 si dimise per fare il ministro del primo governo Prodi e nel 2001 entrò in Parlamento. Insomma, un bebè. Renzi non si capisce bene “cosa proponga nei contenuti”, mentre il Pd di Bersani & D’Alema “ha già detto chiaramente con chi si vuole alleare: Sel e l’Udc” e che “l’agenda Monti è un punto di partenza irrinunciabile”, per non ripetere l’errore di “vent’anni di alleanze che poi non sono state in grado di governare” (e lui, modestamente, non c’era mai, in quei vent’anni). Il fatto che Vendola ripeta che l’agenda Monti va sbaraccata perché affama il popolo è un dettaglio trascurabile. Del resto, non è questa l’unica minuzia su cui Max sorvola: per esempio, sostiene che nel 2003 fu trombato nella corsa al Quirinale “perché il centrodestra giudicò la mia scelta troppo politica”. Ma ricorda male: i berluscones – Confalonieri, Ferrara, Rossella, Dell’Utri, Feltri, Farina, Guzzanti padre, Baget-Bozzo, Ostellino e Veneziani – erano tutti a suo favore. Poi purtroppo corse voce che D’Alema fosse sostenuto anche da D’Alema: e fu la fine.

il Fatto 7.9.12
Affinità elettorali
Il fascino di Renzi per il centrodestra
Parecchi anni fa tutte le donne di Forza Italia erano innamorate di Bertinotti

Ora tutte le donne del Pdl amano Renzi”. Parola di Iva Zanicchi, parlamentare europea, appunto, del Pdl. Da politica (sulla carta) nemica questo “è un guaio”: “Se Renzi decidesse di fare un nuovo partito – infatti – rischia di diventare il primo partito in Italia”. “Speriamo di no”, ha poi aggiunto con un sorriso. “A pelle mi piace molto – ha confessato –, però non tradirei mai Berlusconi per Renzi. Per ora”.
Chi sta meditando di offrire al sindaco di Firenze il posto da leader del centrodestra che fu di Berlusconi sono “Libero” e il “Giornale”. “Cercasi erede del Cav. Offerta a Renzi: il Pd ti odia guarda a destra” intitola il giornale di Maurizio Belpietro un pezzo in prima a firma di Marco Gorra. Che sostiene: “Matteo Renzi ha le carte in regola onde essere per il centrodestra quel che Franco Baresi fu per il Milan. Ovvero un formidabile giocatore finito a portare gloria a una squadra il cui principale merito fu di soffiarlo alla compagine avversa che non ne aveva intuito le potenzialità”. Un po’ meno esplicito Vittorio Feltri che in un fondo sul “Giornale” mentre formalmente bacchetta il Pd “unito solo per demolire Renzi” in realtà si spertica in lodi per “il giovane politico spuntato in riva all’Arno” che “non ha un linguaggio politicamente corretto, si esprime in fiorentino salace, si fa capire da tutti, è pieno di entusiasmi contagiosi”. E, “insomma è l’esatto contrario del grigio funzionario di Botteghe Oscure”. Tanto per dirla tutta “è l’unico che possa raccogliere consensi perfino tra i delusi del centrodestra”. (wa.ma.)

l’Unità 7.9.12
Marco Rossi Doria: «Il concorso è l’unico modo per tornare alla normalità»
Il sottosegretario all’Istruzione: «Capisco le sofferenze e le fatiche dei colleghi precari, da questo deriva il compromesso del 50% dei posti disponibili»
di Jolanda Bufalini


ROMA Davanti al palazzone di viale Trastevere un gruppo di precari protesta contro il concorso, all’interno incontriamo il sottosegretario Marco Rossi Doria, il maestro di strada che oggi si trova dall’altra parte della barricata.
Cosa si porta dietro dell’esperienza di maestro in prima linea?
«Cerchiamo di capire come ricade sulla scuola ciò che facciamo, ci chiediamo quali siano i possibili errori. Chiamiamo, andiamo nelle scuole, il metodo di lavoro è partecipativo».
Siamo all’inizio dell’anno scolastico e quasi al primo compleanno del governo dei tecnici. Che voto si dà?
«Con il ministro Profumo ci siamo dati obiettivi coerenti con la possibilità che questo governo ha di smuovere le cose e, al tempo stesso, sappiamo di avere una maggioranza formata da forze politiche fra loro avverse. Mi pare che stiamo riuscendo a rispettare le priorità: in primo luogo c’è l’obiettivo politico di cambiare il clima, siamo riusciti ad aprire un dibattito pubblico sul ruolo della scuola nella crescita del paese».
Ma siamo in tempi di vacche magre e di tagli, spesso gli istituti restano chiusi nel pomeriggio, ci sono classi di 30 e più allievi.
«Facciamo i conti con il debito pubblico ma il paesaggio è molto variegato, ci sono regioni con tradizioni consolidate che riescono a tenere aperte le scuole, ce ne sono altre dove è importante il contributo comunitario degli utenti, come in alcune esperienze a Roma, ci sono esperienze nuove avviate con entusiasmo. I tagli penalizzano ma hanno mobilitato risorse della cittadinanza attiva. L’agenda politica impostata da Profumo ha il merito, chiunque vada dopo al governo, mano a mano che si aggiustano i conti pubblici, di considerare scuola e ricerca non una spesa ma un buon investimento».
In concreto quali gli investimenti fatti?
«C’è un bando pubblico di 25 milioni di euro per la lotta alla dispersione scolastica a cui si aggiunge l’iniziativa congiunta dei ministri Barca e Profumo in Europa per proseguire con politiche attive contro la dispersione scolastica fino al 2020. Ci sono 200 milioni per interventi nelle scuole del Sud e un miliardo per l’edilizia scolastica, c’è l’implementazione tecnologica delle scuole».
I precari protestano contro quello che definiscono il concorso beffa.
«Quando ho iniziato io, nel 1975, l’abilitazione consentiva di fare supplenze ma si entrava in ruolo solo vincendo un concorso. I concorsi si facevano ogni anno, per coprire i vuoti del turn over. La situazione che si è creata dal 1980 ha generato una grande aspettativa e un grande precariato, conosco le sofferenze e le fatiche dei colleghi precari. Abbiamo scelto di ripristinare il dettato costituzionale, dopo 12 e in alcuni casi 20 anni che non si facevano concorsi, ma non ci possiamo nascondere la situazione che abbiamo ereditato. Il compromesso è che l’ingresso in ruolo sarà al 50% per concorso, il che consente di aprire ai ragazzi che si stanno laureando, e al 50% attraverso le graduatorie fino a esaurimento».
Le graduatorie scorreranno più lentamente.
«Lo scorrimento più lento ha due cause, una è la riforma delle pensioni, il picco dei pensionamenti è ritardato ma ci sarà. E, in alcuni casi, per le materie scientifiche, le liste delle graduatorie sono già quasi esaurite. L’altra causa è la scelta del concorso, sono convinto che il cerchio andava rotto, andava dato un segnale di svolta e ripristinato il dettato costituzionale. Per i precari non c’è penalizzazione, possono partecipare ai concorsi restando in graduatoria».
Lei ha deleghe molto ampie, fra queste quella sui programmi della scuola di base. «C’erano le indicazioni dei ministri precedenti, Fioroni e Moratti, ma il curriculum della scuola di base non era definito. Abbiamo lavorato con le scuole, in due mesi di dibattito intenso, collegi e singoli docenti hanno mandato 10.000 osservazioni su ciò che non va, sulle sperimentazioni degli anni passati, poi c’è stato il voto quasi unanime del Consiglio nazionale. Si è chiusa un’operazione che era aperta da molti anni, definendo in modo rigoroso cosa devono sapere i ragazzi sulla base delle indicazioni che vengono dall’Unione europea e dalla tradizione italiana».
Nella classifica Ocse l’Italia è penultima per risorse destinate all’istruzione.
«È una classifica che comprende la ricerca e l’università, nella scuola spendiamo più della Germania».
Ci sono sprechi?
«Il vero spreco è nella vetustà degli edifici, spendiamo 8 miliardi l’anno di riscaldamento. È una cifra che si potrebbe dimezzare, ci stiamo muovendo, di concerto con gli enti locali, con il Cipe e la Cassa depositi e prestiti».

l’Unità 7.9.12
Quella strana sinistra che dice cose di destra
Il linguaggio di Grillo o i messaggi del Fatto sono orientati da una egemonia di destra e da una visione del mondo che va oltre il qualunquismo
di Luigi Manconi


Dichiaro in primo luogo le mie generalità: sono d’accordo con Pier Luigi Bersani sul fatto che nel discorso pubblico di Beppe Grillo (e non solo suo) si trovino tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. E questo già vuol dire che a utilizzare quel linguaggio fascistico, non è necessariamente “un fascista”: possono farlo individui e gruppi che, senza esserlo per biografia e ideologia, attingono a un vocabolario e a una retorica, a un sottofondo culturale e a una struttura semantica la cui origine, certo lontana ma non esaurita, è quella fascista. Qui vi si trova disprezzo dell’avversario e rancore plebeo, sfregio dell’identità altrui e concezione gerarchico-autoritaria delle relazioni sociali. Insomma si può ricorrere a “linguaggio fascista”, senza essere fascista.
Quand’ero piccino e movimentista e scostumato, fui tra coloro che, in una contrapposizione assai aspra col Pci, ricevettero da quel partito l’onta di quell’epiteto: “fascista”. Fu un’esperienza bruciante all’interno di una polemica politica condotta fino alle estreme conseguenze, da una parte e dall’altra. Chi ne era bersaglio, cresciuto nel mito della Resistenza antifascista, pativa quell’insulto come sommamente ingiusto. E tuttavia la nostra contestazione nei confronti della politica del Pci, e la rappresaglia verbale che produceva, pure durissima, risultava comunque “interna” allo stesso campo.
La sinistra che si voleva rivoluzionaria era, almeno nel nelle sue espressioni più mature, una specie di “Fiom” e la critica al Pci era tutta concentrata su temi come, le diseguaglianze sociali, la condizione operaia, lo stato delle periferie urbane, i diritti di libertà. Un episodio, cioè, del classico scontro tra estremismo e riformismo. Oggi il quadro mi sembra totalmente diverso. Se dunque capisco la ferita politica che quel termine produce, e personalmente fatico a usarlo nei confronti di altri, sono tentato di ricorrervi nell’analisi di quel linguaggio scellerato e dalla mentalità da cui deriva.
Il florilegio di aggettivi e sostantivi e di formule e di frasi che Grillo e Antonio Di Pietro, molti protagonisti e una moltitudine di anonimi del web offrono quotidianamente, ne è testimonianza incontrovertibile. Non tutti, indubbiamente, ricorrono alla medesima prosa, ma il leader dell’Italia dei Valori e quello di 5 Stelle, su un tema cruciale come quello dell’immigrazione – ed è solo un esempio hanno detto cose da fare rizzare i capelli in testa.
Ma la questione è più profonda ancora: di ispirazione fascistica è una certa struttura mentale che quel linguaggio, nelle sue espressioni aggressive e nei suoi accenti di disprezzo e odio, rivela. E tuttavia sarebbe assai ingiusto affastellare la varietà di forme dell’ostilità antipolitica in un’unica categoria e qualificarla a partire dalle pulsioni violente (“fasciste”) che spesso esprime. Depurato di queste ultime, quell’atteggiamento evoca comunque tratti culturali e orientamenti politici che rimandano al campo della destra.
Sotto questa luce, il caso più interessante è rappresentato da Il Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Antonio Padellaro, già direttore de l’Unità, è uomo limpidamente di sinistra per storia e cultura. Di sinistra, d’altro canto, sono numerosi redattori e di sinistra è una parte significativa dei lettori. Tuttavia ciò che emerge nitidamente è che l’egemonia culturale che orienta il quotidiano e la sua immagine, i suoi titoli e i suoi messaggi, è di destra. E qui, per evitare equivoci, chiamo destra l’insieme di connotati culturali e politici che definiscono, da due secoli a questa parte, uno dei due campi in cui si divide il sistema politico. Anche a voler essere prudenti, il minimo che si possa dire è che, in ogni caso, l’egemonia culturale che orienta Il Fatto non è di sinistra.
So bene che, a questo punto, sembra impossibile sottrarsi all’eterno quesito su cosa sia destra e cosa sia sinistra, ma – appunto per questo – preferisco esprimermi in negativo, indicando ciò che certamente “non è di sinistra”.
PENSIERI E PAROLE
E prendo, a mo’ di esempio, un titolo a tutta pagina del Il Fatto del 5 aprile scorso: «In un Paese di ladri». Sembra un titolo come tanti, ma è invece straordinariamente significativo del ragionamento che qui intendo fare. Innanzitutto perché la sacrosanta lotta alla corruzione diventa, con quelle cinque parole, non solo il punto di vista del quotidiano, ma anche qualcosa di simile a una “visione del mondo”. Come si fa, infatti, a definire l’Italia, ma anche solo il suo sistema politico e istituzionale come un universo di mascalzoni?
Qui non si esprime solo il qualunquismo che fa di tutta l’erba un fascio, che azzera le differenze, che livella le biografie individuali e le storie collettive; qui si manifesta, piuttosto, un’idea della società come un’unica macchina del malaffare, dove non c’è spazio alcuno, non dico per l’onestà dei singoli, ma nemmeno per la libera esistenza dei singoli stessi, per le loro soggettività e le loro esperienze.
C’è un blocco unico, che annulla le persone e l’autonomia individuale e la capacità di autodeterminazione e i percorsi di emancipazione collettiva. Siamo di fronte o all’idea di un’unica e sola e omogenea struttura dispotica – e va dimostrato che l’Italia attuale sia questo – o alla proiezione paranoide di una concezione autoritaria e disperata della vita sociale. In entrambi i casi, simili letture della società italiana contemporanea nulla hanno a che vedere con un punto di vista e un metodo interpretativo qualificabili come di sinistra: di qualunque sinistra.
La ragione è semplice: in quella rappresentazione, cupa e irredimibile, risulta azzerata – o affievolita fino al punto di non potersi cogliere – qualunque polarità che si richiami al conflitto tra destra e sinistra: uguaglianza/gerarchia; giustizia/ingiustizia; individuo/Stato; libertà/autorità. In luogo di queste coppie di concetti, vengono esaltate altre polarità: giovani/vecchi; legalità/illegalità; popolo/élites; antipolitica/politica. Si tratta di polarità tutte legittime, spesso motivate e comunque assai sentite, ma che rimandano a un campo diverso da quello della sinistra nelle sue molte articolazioni storiche e nelle sue differenti espressioni culturali. E che risalgo-
no, tutte, agli ultimi due decenni, e a quella Seconda Repubblica che, appunto, avrebbe fatto evaporare il discrimine tra destra e sinistra.
Trovo questa lettura fallace, e per più ragioni. In primo luogo perché il tramonto della Seconda Repubblica e la crisi economico-finanziaria ripropongono con forza un conflitto tra due campi e due culture che, comunque rinnovati e persino qualunque nome assumano, rimandano sempre alla Destra e alla Sinistra. Come, per altro, accade in tutti i Paesi europei.
Ma non è solo la necessità di misurarsi su un tema, quello del lavoro, che inevitabilmente richiama le antiche categorie, a motivare la definizione “di destra” per l’agitazione populista e demagogica in corso.
Si pensi alla questione del giustizialismo: quel titolo prima citato («In un Paese di ladri») è il punto di arrivo di un’intera concezione. Se tutta la vita sociale viene vista attraverso l’ottica della fattispecie penale – il furto, la corruzione – è inevitabile che questa si porti appresso
tutte le carabattole di tic e arnesi, di pensieri e di invettive conseguenti.
Se viviamo «in un Paese di ladri», è inevitabile che il primo e principale slogan politico coincida col grido di Giorgio Bracardi: «in galera». Ed è conseguente, ancora, che la preoccupazione di una presunta “difesa sociale” prevalga sempre sulla tutela dei diritti individuali. E che il programma politico della sinistra debba essere quello del “populismo giudiziario”, dove i pubblici ministeri diventano i leader della mobilitazione emotivo-moralistica e i cronisti giudiziari assumono il ruolo di autorevoli opinion leader.
Ma gli effetti possono essere ancora più devastanti: si diffonde una modalità di osservazione della politica, dell’economia, delle istituzioni attraverso il buco della serratura, formando così un’opinione pubblica convinta che la dimensione più sordida e oscura sia quella che domina l’intera collettività e tutte le relazioni interpersonali. Attraverso il buco della serratura si guarda la vita: e, dunque, attraverso lo spioncino della cella si crede di conoscere “la vera natura” della persona – comunque colpevole e reclusa – e non, invece, l’intollerabile sofferenza della perdita di libertà e dignità.
Ne deriva inevitabilmente che la grande questione dei diritti umani e delle garanzie individuali – questa sì propria di una sinistra di alto profilo politico e morale – risulti totalmente ignorata. Così come, a quello sguardo dal buco della serratura e dallo spioncino della cella, sfuggono altre decisive questioni: il problema dell’Ilva sembra essere solo quello delle sanzioni nei confronti dei proprietari e dei dirigenti, e non l’enorme questione dello sviluppo sostenibile.
Vale anche per tutte le altre crisi industriali: è il conflitto d’interesse del ministro Passera e non il destino della classe operaia e degli operai in carne e ossa, ciò che viene posto al centro dell’attenzione. E così via. Il giustizialismo, in questa visione tetra e nevrotica, non è solo una torsione nell’amministrazione della giustizia: è una patologia della politica.

Corriere 7.9.12
Quel 23° posto dell'Italia nell'uso di Internet
di Edoardo Segantini


L'Italia è solo al ventitreesimo posto nella classifica mondiale che misura l'impatto economico, sociale e politico di Internet, il Web Index realizzato dalla World Wide Web Foundation di Tim Berners-Lee, il celeberrimo coinventore della Rete con Robert Cailliau. Il dato conferma e contribuisce a spiegare la differenza di produttività e di innovazione che separa il nostro Paese, pure in molte sue componenti laboriosissimo, da altri Paesi occidentali meglio organizzati, a più alto tasso di istruzione e internazionalmente connessi.
La graduatoria suggerisce tre considerazioni, a partire dalla lingua. Dal momento che Internet è una «conversazione globale», come è stato definito, la sua diffusione è direttamente correlata a quella dell'inglese: non è un caso che i primi dieci Paesi del Web Index (Svezia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Finlandia, Svizzera, Nuova Zelanda, Australia, Norvegia e Irlanda) usino, con l'eccezione elvetica, l'idioma di William Shakespeare come prima o come seconda lingua.
Ma il lessico non basta a spiegare tutto, l'Italia soffre di un più profondo e ampio svantaggio culturale, avendo una popolazione poco omogenea sotto il profilo della scolarizzazione e ampi settori dell'economia, soprattutto nella piccola impresa, nell'artigianato e nel commercio, che ancora prescindono dal Web, proprio come se non esistesse. Un esempio clamoroso è il turismo online, dove siamo superati anche da Paesi non certo anglofoni come la Spagna e il Portogallo, che infatti stanno davanti a noi nel Web Index. Il 50 per cento dei nostri connazionali del resto non si è mai collegato a Internet contro il 20 per cento degli svedesi. Insomma, per dirla con Tim Berners-Lee, gli italiani non puntano «automaticamente» sul Web.
C'è infine una terza, più urgente considerazione, di natura politica, istituzionale e organizzativa. Da un esecutivo tecnico, forse ci si poteva attendere qualche «discontinuità» in più rispetto al passato, per esempio nell'introdurre con una certa rapidità misure efficaci di «Stato digitale» come chiede da tempo anche la Confindustria.
Nessuno certo nega la difficoltà di portare innovazione nel moloch policentrico e complesso della burocrazia: che, senza bisogno di leggere il celebre saggio di Ludwig von Mises, sembra progettato con l'unico fine di far prosperare se stesso, complicando le vite degli altri. Ma qualche segno visibile di cambiamento è lecito aspettarselo, proprio a partire dal varo (e dai futuri capitani) dell'Agenda digitale.


Corriere 7.9.12
Maldive, frustate in paradiso Condanna per una sedicenne
«Colpevole» di rapporti con un uomo più anziano
di Monica Ricci Sargentini

Cento frustate per una sedicenne. È questa la pena decisa da un tribunale delle Maldive per punire una ragazzina che ha confessato di aver avuto una relazione sentimentale con un uomo di 29 anni. La sentenza è stata emessa nello sperduto atollo di Raa, 200 chilometri a nord di Malè, ed è stata fortemente contestata dalle organizzazioni dei diritti umani. A denunciare la giovane, il cui nome non è stato reso noto, sono stati i genitori che hanno anche ottenuto la condanna del suo amante a dieci anni di carcere per aver avuto rapporti sessuali illegali con una minorenne. La sharia vieta alle donne relazioni amorose al di fuori del matrimonio prima della maggiore età.
Ora la ragazzina avrà due anni di tempo per decidere se ricevere o no la punizione corporale. Ma in caso di rifiuto dovrà passare otto mesi agli arresti domiciliari. «Nella maggior parte dei casi — ha detto un responsabile del tribunale alla France Presse sotto garanzia dell'anonimato — le colpevoli accettano i colpi di frusta come penitenza per il peccato commesso».
Nonostante l'eco internazionale l'episodio non è di certo isolato. Sono tantissime le giovani che ogni anno vengono frustate dai capivillaggio per aver infranto le regole imposte dal Corano. La pratica è stata condannata più volte dalle Nazioni Unite. Meno di un anno fa l'Alto commissario dell'Onu per i diritti umani Navi Pillay aveva intimato al governo maldiviano di mettere fine alle punizioni corporali sulle donne. La stessa richiesta è arrivata in questi giorni anche da parte di Human Rights Watch: «Le Maldive — ha detto Aruna Kashyap, ricercatrice in Asia per l'organizzazione — dovrebbero immediatamente abolire queste leggi discriminatorie che prevedono punizioni disumane e degradanti». Secondo il Centro asiatico per i diritti umani, invece, «la sentenza è uno dei tanti modi in cui il governo cerca di ottenere l'appoggio degli islamici radicali. Nelle Maldive i tribunali non sono indipendenti ma condizionati dal potere politico».
L'episodio non fa che confermare il potere crescente delle forze più conservatrici dopo che, lo scorso febbraio, il presidente Mohamed Nasheed, il primo democraticamente eletto nel 2008, è stato costretto alle dimissioni dai militari anche a causa delle pressioni dei gruppi islamici più integralisti legati all'ex dittatore Gayoom. Per molti Nasheed, strenuo difensore della democrazia e fervente ecologista, era in fin dei conti un anti-islamico. Dopo la sua caduta i musulmani radicali hanno imposto regole sempre più rigide che prevedono, tra l'altro, mutilazioni genitali obbligatorie per le bambine. E questo non stupisce in un Paese dove è proibito praticare qualsiasi religione diversa dall'Islam. Ma non è tutto: nei giorni scorsi Amnesty International in un rapporto dal titolo L'altro lato del paradiso: crisi dei diritti umani alle Maldive ha documentato le gravi violazioni perpetrate dalla polizia dopo il colpo di Stato. Tra queste si annoverano: torture, pestaggi e detenzioni arbitrarie.
Il turismo, però, non si tocca. Così negli atolli vacanzieri gli stranieri continuano a bere alcol e prendere il sole in costumi succinti, ignari, o forse consapevolmente indifferenti, di quello che succede a pochi chilometri di distanza.

Corriere 7.9.12
L’enigma dell’odio smisurato che sconvolge tutta l'Europa
di Donato Carrisi


I bambini non vedono la morte, perché la loro vita dura un giorno, da quando si svegliano a quando vanno a dormire. Infatti la più piccola delle due bambine di Chevaline sorrideva in braccio agli agenti mentre la portavano via dall'orrore di quei corpi straziati, più tardi pare abbia chiesto dei genitori. E mi sono tornate in mente proprio le parole che avevo scritto in un libro per spiegare la barriera invisibile che protegge l'infanzia, come le astronavi nei film di fantascienza che hanno sempre un campo di forza per respingere gli attacchi nemici. Ecco, i bambini a volte sono come marziani su questo pianeta dove gli adulti sono capaci di uccidere a sangue freddo senza fare nemmeno distinzione di età. Quella barriera fatta d'innocenza, però, col tempo è destinata a esaurire il suo potere. E allora l'orrore potrà permearla. Il ricordo di ciò che è accaduto non è svanito. Invece rimarrà acquattato su quel confine, come in attesa. E tornerà, portandosi dietro, intatte, paure e angosce. E dolore.
Così, questa bambina di quattro anni un giorno, nel futuro, dovrà rivivere la stessa scena ma con occhi adulti. Perché ogni sopravvivenza ha un costo, è una legge di natura. Il male può essere solo rimandato.  Una giustizia superiore al bene e al male richiede che i bambini non vengano toccati, come fossero terra consacrata. Un patto che alcuni, a volte, spesso, decidono di violare. Chissà se davvero questa bambina è stata capace di sottrarsi a una sacrilega furia omicida nascondendosi fra la mamma e la nonna. O se il mostro o i mostri che hanno compiuto la strage si sono fermati davanti all'idea blasfema di riservarle lo stesso destino dei familiari. Forse è andata davvero così e, anche se ci ripugna il pensiero di concedere a chi ha ucciso quest'attenuante, siamo costretti ad ammettere che la storia della bambina eroica, in fondo, ci serve. Infatti, se ci crediamo, possiamo anche convincerci che chi ha compiuto la strage non fa parte del genere umano. Non fa parte di noi.
Però c'è un'altra bambina in questa storia maledetta, e ha sette anni. Era riversa sull'asfalto, ferita con un corpo contundente. Qualcuno dirà che l'assassino le ha riservato un trattamento diverso perché forse, in fondo, inconsapevolmente voleva risparmiarla. Non un'esecuzione con una pallottola in testa, come per gli altri, ma un atto meno risolutivo. Invece non è così. È peggio. Una pistola crea sempre una distanza con la vittima, con il sangue, con la morte. Si può sparare da lontano, lasciando che sia la pallottola a fare tutto, senza sporcarsi le mani. Ma infierire su una bambina con un oggetto trasformato in arma, sentire il colpo che si abbatte e si riverbera lungo il braccio, la carne che cede alla violenza, significa essere capaci di un odio che supera ogni umana decenza. Alla bambina di sette anni, perciò, è toccata la sorte peggiore. È viva, forse per caso. Non ha ancora ripreso conoscenza, ma dipende molto da lei la soluzione di questo assurdo enigma di morte che sta sconvolgendo l'Europa. Gli investigatori attendono le sue parole. Sarà la voce di una bambina a inchiodare il mostro. Ma quando si sveglierà in preda alla paura, nessuno potrà consolarla come si fa coi bambini quando fanno un brutto sogno. Il brutto sogno stavolta è la realtà.

Corriere 7.9.12
Il Vaticano e il fascismo condannati all'accordo
Ma lo squadrismo anticattolico intralciò i negoziati
di Sergio Romano


Il saggio di Gabriele Paolini e il carteggio Silj-Gasparri-Federzoni sono inclusi nel numero della «Nuova Antologia», rivista diretta da Cosimo Ceccuti, in uscita a fine settembre

Nel 1895 gli abitanti liberali di Borgo, il quartiere romano che si affaccia su piazza San Pietro, decisero di festeggiare con discorsi e luminarie il venticinquesimo anniversario della presa di Roma. Un'altra festa laica alle porte della Santa Sede, forse ancora più pericolosa di quella per l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori il 9 giugno del 1889? Il cavaliere Giuseppe Manfroni, commissario di pubblica sicurezza, corse ai ripari. Prima parlò con gli organizzatori della festa e li convinse a evitare che le luminarie venissero estese a piazza San Pietro. Poi parlò con i suoi abituali interlocutori del Vaticano per evitare che i clericali rispondessero alle celebrazioni blasfeme con un pubblico funerale dei soldati pontifici morti il 20 settembre 1870. Non riuscì a impedire qualche reciproca provocazione, ma la giornata passò senza troppi inconvenienti. E Manfroni tirò un sospiro di sollievo.
Vi sono in questa vicenda i due ingredienti che hanno caratterizzato per parecchi decenni i rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede: il mediatore e la provocazione. Come ricorda Gabriele Paolini nel saggio che precede la pubblicazione della corrispondenza fra il cardinale Pietro Gasparri e il senatore Cesare Silj sulla «Nuova Antologia», i mediatori furono numerosi. Ma non meno numerose furono le provocazioni. Ogniqualvolta l'Italia e il Vaticano volevano raggiungere un'intesa, qualcuno, in ciascuno dei due campi, cercava di renderla impossibile. Accadde soprattutto negli anni in cui Mussolini raccolse l'eredità dei contatti avviati da Vittorio Emanuele Orlando e decise che un accordo con la Chiesa avrebbe giovato al suo governo e alle sue ambizioni.
Gasparri e Silj erano cugini e interlocutori ideali. Il primo era segretario di Stato dal 1914, il secondo senatore dallo stesso anno dopo una lunga presenza alla Camera nel gruppo parlamentare di Giovanni Giolitti. Ma Gasparri aveva l'orecchio di Pio XI, papa dal febbraio 1922, mentre Silj doveva a sua volta informare e convincere Luigi Federzoni, ministro degli Interni dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti. Dalla loro corrispondenza emerge con chiarezza quali fossero le priorità delle due parti. Mussolini era disposto a consentire la nascita dello Stato vaticano e a permettere che la Chiesa avesse una considerevole presenza nel sistema educativo nazionale, ma voleva la scomparsa del Partito popolare di don Sturzo e la sconfessione del suo leader. Gasparri e Pio IX erano convinti che Mussolini avesse risparmiato all'Italia il rischio di un'avventura bolscevica ed erano disposti a sacrificare don Sturzo, ma erano decisi a ottenere garanzie per l'Azione Cattolica e, più generalmente, per le numerose associazioni e istituzioni che dipendevano, in una forma o nell'altra, dalla Chiesa. Non sorprende quindi che i provocatori delle due parti cercassero di esasperare il dissenso e che l'ala anticlericale del fascismo, in particolare, ricorresse in molti casi alle provocazioni violente.
La situazione peggiorò dopo la morte di Matteotti, quando gli scontri divennero nuovamente violenti. Dal ministero degli Interni, intanto, Luigi Federzoni, nazionalista e cattolico, cercava di gettare acqua sul fuoco ora sostenendo che questi casi erano modesti, ora accusando alcuni prelati di eccitare gli animi con atteggiamenti antinazionali soprattutto nei territori che erano appartenuti all'impero austro-ungarico.
Vi è persino una lettera di Federzoni a Silj del 20 giugno 1925 in cui il ministro degli Interni scrive: «Ma insomma che deve fare il governo? Si ritiene forse possibile e desiderabile, in Vaticano, che Sua Eccellenza Mussolini lasci il potere. Quale altro senso ha codesto incessante creare intorno a lui, e ai suoi collaboratori, imbarazzi e malintesi?». La lettera termina con una sorta di inno a «la pace, l'ordine, il lavoro, la gioia serena e fidente della popolazione rifatta italiana e cristiana dall'opera di Mussolini e del fascismo, dopo decenni di vicende turbinose, che sembravano annunziare l'irreparabile dissoluzione civile, sociale e morale». Dietro l'enfasi retorica vi era il concetto che, secondo Federzoni, avrebbe maggiormente influito sulla politica della Chiesa verso lo Stato: Mussolini aveva riportato l'ordine in un Paese sconvolto dagli scioperi e dai conflitti civili, ed era per la Chiesa la migliore delle soluzioni possibili.
Il fascismo e la Chiesa erano quindi condannati ad accordarsi. Agli anti-concordatari del fronte liberale restava una sola speranza: l'opposizione di Vittorio Emanuele III, notoriamente laico e poco incline alla Conciliazione. Secondo una voce diffusa a Roma qualche mese prima della conclusione del negoziato, Giovanni Giolitti aveva consigliato al re di abdicare per non mancare «di fede al giuramento prestato nell'ascendere al trono». Sul fondamento della voce non esistono, che io sappia, altri documenti. Giolitti, comunque, morì il 17 luglio del 1928 e i Trattati Lateranensi, insieme ai Concordati, furono firmati da Mussolini e Gasparri l'11 febbraio 1929. Cesare Silj non fu neppure invitato alla cerimonia.

Corriere 7.9.12
La Spagna dal 1936 al 1939, una guerra per molti conflitti
risponde Sergio Romano


Non ho compreso il suo parallelo fra le tre guerre in atto Siria e la guerra civile spagnola avvenuta negli anni Trenta. Vuole chiarirmi le idee?
Stefania Bassi, Lecco

Cara Signora,
Ho ricordato la guerra spagnola perché anche quella fu un intreccio di conflitti diversi, nazionali e internazionali. Il primo fu quello civile, provocato dall'alzamiento di quattro generali nel luglio 1936 contro il governo di sinistra costituito dopo le elezioni del febbraio dello stesso anno. Fu spietato e sanguinoso perché le ragioni sociali e culturali del dissenso avevano spaccato la società spagnola e creato condizioni in cui la vittoria dell'uno avrebbe significato la scomparsa dell'altro.
Fra le ragioni dello scontro vi fu anche la posizione che la Chiesa cattolica aveva tradizionalmente occupato nella storia del Paese. Per molti di coloro che vinsero le elezioni del 1936 il clero era un nemico ancora più minaccioso e insidioso della casta politica conservatrice da cui la Spagna era stata lungamente dominata nelle generazioni precedenti. L'assalto ai monasteri, i massacri di monache e preti, la macabra fucilazione dei cadaveri dissotterrati nelle chiese e nei cimiteri dei conventi ebbero l'effetto di aggiungere alla guerra civile una forte connotazione religiosa e di mobilitare, in un campo o nell'altro, larghi settori delle società europee e americane.
Fu anche una guerra fra opposte ideologie. Il profilo politico del generale Franco e il sostegno che il Caudillo ricevette dall'Italia fascista e dalla Germania nazista diffusero la convinzione che le sorti della democrazia dipendessero dall'esito della guerra spagnola. Nacquero così, nel giro di pochi mesi, le Brigate internazionali, un corpo militare composto da più di 50.000 volontari accorsi in Spagna per combattere accanto all'esercito repubblicano. Per qualche mese, quindi, la guerra civile spagnola fu, agli occhi di molti, uno scontro fra la democrazia e il fascismo. Ma il sostegno dell'Unione Sovietica, la crescente presenza dei comunisti nel campo repubblicano, i metodi spicci con cui si sbarazzavano dei loro compagni socialisti e anarchici trasformarono la guerra in una sfida fra due ideologie totalitarie: fascismo e comunismo.
Come oggi nella guerra siriana, anche in quella di Spagna, gli interessi delle maggiori potenze ebbero nella vicenda una parte importante. L'Italia entrò nel conflitto perché sperò di approfittare della crisi dello Stato spagnolo per stabilire una sorta di egemonia sul Mediterraneo occidentale. La Germania intervenne perché Hitler e il suo stato maggiore si servirono dell'occasione per mettere alla prova, in condizioni «reali», le nuove forze armate tedesche. L'Unione Sovietica fornì mezzi e uomini per estendere la sua influenza all'Europa occidentale. Francia e Gran Bretagna, infine, si astennero dall'aiutare militarmente i repubblicani perché temettero di contribuire a un successo comunista. Il loro «non intervento» fu, nella realtà, un indiretto aiuto alla vittoria di Franco.

Repubblica 7.9.12
Sognando la cura perfetta
Staminali, istruzioni per l’uso
di Elena Dusi


Dalla provetta al corpo umano le cellule della speranza sembrano perdere efficacia.
Ma i ricercatori continuano a crederci
Si alimentano aspettative, si sospettano truffe: così scoppia la polemica tra i giudici e i genitori dei piccoli pazienti. Se Celeste e Smeralda vanno avanti con le cure, Daniele ne resta escluso.
I trattamenti con le staminali sono al centro di dispute giudiziarie. Ma la terapia è ancora a un bivio. Tra essere una speranza e trasformarsi in un’illusione

Giudici e genitori sono sulle barricate. Ma sulle staminali, cosa ha da dire la scienza? Nei laboratori i ricercatori elogiano da 15 anni le proprietà di questi meravigliosi oggetti della biologia: cellule capaci di rigenerarsi senza stancarsi mai e restare sempre giovani. Accanto al letto dei pazienti, i medici faticano a tradurre in cura quella che era stata descritta come la pietra filosofale della medicina. Come Sansone perde la forza dopo il taglio dei capelli, le qualità delle staminali sembrano in buona parte svanire nel passaggio tra laboratorio e ospedale.
Eppure la potenza di fuoco investita in questo settore è enorme. Le sperimentazioni in corso sull’uomo sono 4.186 e coprono quasi 1.700 condizioni diverse, dai tumori all’autismo passando per la calvizie. Il paradigma alla base di questi trattamenti è comune. E appare tanto convincente da essere usato anche dalla “Stamina Foundation” di Torino per reclutare bambini con le malattie più disparate in tutta Italia.
Un frammento di tessuto viene prelevato dal paziente o da un parente. Al suo interno viene isolato il maggior numero possibile di staminali (e sulla capacità della Stamina di svolgere questa operazione l’Autorità italiana del farmaco ha sollevato i dubbi che, fra gli altri, hanno portato all’ordinanza di stop dei trattamenti il 15 maggio). Le cellule vengono poi iniettate nell’organo da curare: muscolo nel caso dell’atrofia muscolare spinale di Celeste, 18 mesi. E cervello per riparare la lesione di Smeralda, 17 mesi, vittima di asfissia durante il parto. A quel punto — in teoria — le staminali dovrebbero iniziare a moltiplicarsi, ricostruendo l’organo devastato dalla malattia. La realtà finora si è mostrata più complessa. Una volta iniettate nel corpo, queste cellule in genere prendono due strade alternative. O smettono di crescere, come avevano fatto gagliardamente in provetta fino al giorno prima, e muoiono. Oppure aumentano fin troppo. La loro incontrollabile capacità proliferativa ha causato il cancro in alcuni pazienti sottoposti alle sperimentazioni, come il ragazzo israeliano che nel 2009 si sottopose a una terapia non autorizzata in Russia e tornò con una serie di tumori del sistema nervoso centrale. Mentre il primo caso avviene spesso quando si usano le meno potenti cellule adulte (le più usate nelle sperimentazioni, somministrate anche a Brescia), il secondo rischia di verificarsi con le staminali di embrioni o feti vittime di aborto. Un giusto equilibrio fra freno e acceleratore nella proliferazione di queste cellule è stato per il momento trovato in provetta, ma non ancora nel corpo dei pazienti.
Le staminali usati dalla Stamina Foundation sono dette “mesenchimali”. «Si trovano nel midollo osseo — spiega Giuseppe Novelli, genetista dell’università di Tor Vergata a Roma — e sanno trasformarsi in osso, cartilagine e grasso. Una volta inoculate rilasciano citochine e fattori di crescita: sostanze che possono ridurre le infiammazioni, ma che non contrastano affatto la distruzione dei motoneuroni». I motoneuroni sono le cellule colpite in malattie come la Sla o l’atrofia muscolare spinale della piccola Celeste. La loro distruzione progressiva fa perdere la capacità di movimento. Ma la speranza di rimpiazzarli con le mesenchimali iniettate dall’esterno viene considerata vana. «La biologia delle staminali è chiara in questo» spiega Lorenz Studer, che dal suo laboratorio al Memorial Sloan-Kettering di New York conduce sperimentazione sui neuroni. «Non c’è alcuna possibilità che le mesenchimali si trasformino nei motoneuroni distrutti dalla malattia. Ancora più inverosimile è l’ipotesi che queste cellule crescano formando fibre che dovrebbero raggiungere la lunghezza di un metro per innervare tutti i muscoli, dal midollo spinale agli arti».
L’ipotesi che le mesenchimali possano invece alleviare l’infiammazione non viene esclusa del tutto. «Esiste un unico meccanismo di azione teoricamente possibile. Le cellule mesenchimali potrebbero secernere dei fattori benefici o modulare il sistema immunitario in modo da proteggere i motoneuroni residui. Non c’è nessuna evidenza chiara che questo avvenga, ma almeno da un punto di vista teorico si potrebbero influenzare così i sintomi della malattia». La presenza di questi “fattori extracellulari” benefici è stata notata in vitro e viene analizzata al momento in diverse centinaia di test sui pazienti. Lo stesso Luca Coscioni, malato di sclerosi laterale amiotrofica, si sottopose il 20 maggio 2002 all’ospedale Giovanni Bosco di Torino a un autotrapianto di staminali mesenchimali. Ma la malattia proseguì il suo corso fino alla fine, nel 2006.
Lo scarto tra ricerca e cura è normale in medicina, ma nessuna società lo ha mai vissuto pacificamente. La sperimentazione del più semplice dei farmaci dura in media dieci anni, con tendenza all’aumento. Il numero dei pazienti che perdono la vita in questo lasso di tempo resta spesso incalcolato. L’Aids ha impiegato un ventennio a diventare una malattia controllabile con le medicine. Gli effetti della chemioterapia furono analizzati a partire dagli anni ‘40, ma iniziarono a far abbassare le curve di mortalità negli anni ‘70. La terapia genica, studiata da oltre un trentennio, ha curato finora una decina di bambini. La complessità e i dilemmi etici legati alle staminali hanno aggiunto ostacoli a questa strada. E il compito di sciogliere il nodo in Italia è finito oggi nelle mani dei giudici di Celeste e Smeralda (che hanno autorizzato il proseguimento delle cure). Al presidente Giorgio Napolitano ieri invece si è rivolta la famiglia di Daniele, 5 anni, il bambino di Matera con il morbo di Niemann Pick cui il Tar di Brescia ha invece negato l’accesso al trattamento.
Una delle sperimentazioni più avanzate con le cellule staminali è attualmente in corso in Italia. L’ha iniziata 10 anni fa al San Raffaele di Milano Giulio Cossu, ora all’University College London. «Abbiamo trattato 3 bambini con distrofia muscolare. Altri due dovrebbero iniziare entro l’anno, siamo in attesa delle autorizzazioni. Compresi i test in vitro, quelli sugli animali e le prove di tossicologia, abbiamo speso finora 3,5 milioni di euro». Una delle condizioni della sperimentazione infatti è la gratuità per i pazienti. Secondo il tribunale di Torino, i genitori che si sono rivolti alla Stamina sono stati forzati a versare migliaia di euro sotto forma di donazioni. «In fasi così preliminari dei test non è etico chiedere denaro ai pazienti» dice Studer. «Tutti i bambini della nostra sperimentazione hanno viaggio e alloggio pagato sia per il trattamento che per i controlli successivi» precisa Cossu.
Il suo decennio di lavoro al San Raffaele ripercorre tutte le difficoltà che si incontrano nell’uso delle staminali. La prima è somministrarle nel punto esatto in cui si vuole far ricrescere un tessuto. «Nel caso della distrofia, si usavano in passato cellule che andavano iniettate ogni 0,2 millimetri. Ora abbiamo trovato un altro tipo di staminali capaci di attraversare le pareti dei vasi sanguigni. Iniettandole in un’arteria, si distribuiscono a valle». Dopo il trattamento, occorre valutare se le staminali abbiano attecchito. «Usiamo una biopsia o dei test funzionali. Ma nel caso delle malattie neuromuscolari valutare peggioramenti o progressi è difficile. La capacità di camminare e alzarsi, la forza o la prontezza dei riflessi sono parametri misurabili con percorsi ed esercizi. Ma la loro oggettività arriva fino a un certo punto. E spesso queste malattie procedono a denti di sega, con fasi alterne di miglioramento e di regressione».
La valutazione dei benefici di un trattamento è il campo in cui più si scontrano emotività e razionalità. «A volte i genitori ci accusano » racconta Cossu. «Sostengono che nessuno può conoscere un bambino meglio di sua madre, e solo a lei può essere affidato il giudizio sulla cura. Ma noi ricercatori possiamo fidarci solo delle misurazioni oggettive per escludere l’effetto placebo o le aspettative di miglioramenti dopo un trattamento. A nessuno di noi fa piacere se un piccolo paziente peggiora, e magari finisce sulla sedia a rotelle, mentre siamo in attesa di un’autorizzazione. Ma dobbiamo restare razionali. Farsi vincere dall’emotività è l’errore peggiore che si possa fare».

Repubblica 7.9.12
I limiti della scienza intrappolata tra ragione e umanità
di Michela Marzano


Primum non nocere, “innanzitutto non nuocere”. È uno dei più importanti principi etici della medicina. Uno dei cardini del famoso giuramento di Ippocrate, oggi ripreso da tutti i codici di deontologia medica. Ogni medico, prima di cominciare la professione, giura di tutelare la saluta dei propri pazienti, di far di tutto per alleviarne le sofferenze, e di evitare che corrano rischi eccessivi legati ai trattamenti prescritti. Che fare allora di fronte ad una malattia incurabile, quando la sola speranza sembra essere quella di utilizzare delle terapie ancora sperimentali e incerte? Che dire a dei genitori che, di fronte alla malattia dei propri bambini e ai limiti della medicina, implorano perché si utilizzino le staminali, anche in assenza di una prova certa dei loro benefici, come nel caso di Smeralda, Celeste e Daniele?
La possibilità di accedere o meno alla terapia della Stamina Foundation rappresenta un vero e proprio dilemma etico. Perché nessuna soluzione sembra del tutto soddisfacente se si invocano valori e principi morali universali. Anzi, in questa storia, tutti sembrano aver ragione. Hanno ragione i genitori, che vogliono solo cercare di far qualcosa per i propri figli, che non riescono ad accettare l’ineluttabile, che si attaccano ad ogni speranza. Anche se non può essere dimostrato che queste cure non provocheranno danni ulteriori. Chi potrebbe d’altronde biasimarli? Chi non sarebbe disposto a tutto, trascurando l’analisi del rapporto tra rischi e benefici delle cure, per cercare di salvare il proprio bambino? Non è il principio della sacralità della vita che giustifica la loro scelta. È solo l’amore incondizionato per i propri figli. Che non ha bisogno di nessuna giustificazione etica, come sa bene chi è padre o madre.
Quando si cambia di punto di vista, però, anche chi critica le staminali sembra aver ragione. Perché le evoluzioni della scienza e della medicina sono possibili solo a condizione di rispettare alla lettera i protocolli di ricerca. Perché un medico non dovrebbe mai far prendere ad un paziente rischi eccessivi. Perché non è giusto alimentare false speranze e illudere la gente.
Chi potrebbe biasimare una postura di questo tipo? Non c’è un’etica della ricerca che si deve rispettare anche quando, a livello individuale, ci si confronta con un dramma? La scelta, in questo caso, si giustifica in nome della deontologia scientifica e medica. Anche se la vulnerabilità della condizione umana dovrebbe spingerci a concettualizzare un’etica che talvolta contraddice la semplice deontologia.
Staminali si. Staminali no. Se si resta su questa alternativa secca, non c’è soluzione al dilemma. Perché è ovvio che ci vuole tanto tempo, tanta pazienza e tante risorse perché la ricerca medica avanzi. E cercare delle scorciatoie, o giocare agli apprendisti stregoni sulla pelle delle persone, non sembra una soluzione eticamente accettabile.
Primum non nocere, appunto. Eppure, proprio perché la medicina è un’attività umana, si dovrebbe fare attenzione a non assolutizzarne i principi. Albert Camus aveva un giorno confessato che se gli avessero chiesto di scegliere tra la “Giustizia” e sua “madre”, non avrebbe avuto dubbi e avrebbe scelto sua madre. Il che non vuol dire che la giustizia non fosse per lui importante. Al contrario. Ma sacrificare una persona ad un principio è un modo per rendere vano ogni sforzo etico. Ecco perché di fronte a genitori disperati, ci si può chiedere se non valga la pena di dar loro una speranza. Non in nome di un principio, ma in nome della compassione. Che forse non giustifica in modo rigoroso una scelta, ma serve sempre a capire la situazione drammatica in cui si trovano talvolta le persone, e a cercare una soluzione che ne rispetti l’umanità.

Repubblica 7.9.12
Un convegno e alcuni saggi rilanciano una categoria ispirata da Huizinga
Siamo di passaggio
Così l’era della transizione sta cambiando la storia
di Simonetta Fiori


“Transizione” è tra le parole più abusate del nostro lessico politico. Ad essa viene ricondotta la storia degli ultimi decenni, ma a guardar bene si può risalire ancora più indietro, all’arco temporale tra la fine della seconda guerra e gli anni Settanta. E forse tutta la storia occidentale è una “transizione” continua. Insomma, di cosa stiamo parlando?
Dal laboratorio storico di Trento, l’Istituto storico italo-germanico che fa a capo alla Fondazione Kessler, ci arriva una preziosa strumentazione per sottrarre dalla nebbia un concetto oggi più che mai dibattuto anche in sede storiografica. «Bisogna distinguere tra transizione come mero cambiamento/passaggio e transizione storica in un’accezione più forte, quella di axial age, assimilabile a un “perno” attorno a cui ruota la storia dell’umanità », spiega il direttore Paolo Pombeni, studioso tra i più internazionalizzati, specialista di storia politica tra il XIX e il XX secolo. «Il nostro punto di partenza è stata l’esperienza attuale. Sempre più ci chiediamo se siamo testimoni non tanto di un progresso quanto di una più definita transizione. Ricorrerò a un esempio efficace usato da Umberto Eco: scrivere a macchina anziché con la penna è un progresso. Ma scrivere con computer è una transizione: acquisisco potenzialità che cambiano la mia impostazione mentale ». Alla Transizione come problema storiografico sarà dedicata a Trento una settimana di studio (dall’11 al 14 settembre) cui parteciperanno studiosi di vari paesi – da Romanelli a Stauber, da Verga a Dipper, da Macry a Freeden – e i sedici ricercatori coinvolti nel progetto.
Viviamo un’età di trasformazioni radicali che però facciamo fatica ad accettare fino in fondo.
«Si modificano i paradigmi – cambiano le nozioni di famiglia, di lavoro, di sessualità, di dovere civile, di identità – ma rimaniamo aggrappati alle vecchie certezze. Non vogliamo mollare i nostri modi di pensare, perché abbiamo paura che senza di loro saremmo nel vuoto. Al massimo cerchiamo di inquadrare il nuovo nei parametri del vecchio».
E come potremmo definire questa fase in termini storici?
«Ora ci arriviamo, ma prima vorrei illustrare come abbiamo proceduto con il nostro gruppo di lavoro. Il primo passo è stato quello di analizzare il rapporto tra conservazione e innovazione. Ogni grande età di passaggio è un intrecciarsi di perduranze e di dismissioni innovative. Ci siamo ispirati a un volume che è stato una svolta negli studi, L’autunno del Medioevo di Huizinga, apparso nel 1919: lo studioso olandese contrastava l’idea di “date spartiacque” per spiegare come i passaggi storici fossero un lento declinare unito all’incubazione del nuovo».
E che cosa ne avete ricavato?
«Questa lettura non ci bastava. Nell’osservare l’evo contemporaneo, da un lato abbiamo riscontrato la persistenza di tratti propri della modernità. Il carattere preminente della libera determinazione individuale. Un rapporto con la natura che esclude qualsiasi implicazione magica. Il predominio della scienza come strumento della ragione, l’applicazione di questa alla sfera pubblica. Dall’altro lato, però, non si può negare che tutta questa struttura sia in crisi: la libera determinazione individuale pone problemi. La natura non avrà forze magiche ma ha un suo equilibrio su cui la signoria dell’uomo non può esercitarsi appieno. Scienza e ragione hanno a volte generato mostri, come rilevò Horkheimer: “Al culmine del processo di razionalizzazione la ragione è diventata irrazionale e stupida”. E la sfera pubblica non riesce ad essere contenuta e razionalizzata né dall’economia né dall’amministrazione né dal diritto».
La modernità, in sostanza, sembra andare in crisi, ma sentiamo di non poterne fare a meno.
«Sì, da qui l’ipotesi che lanceremo a Trento nel definire la nostra come una nuova “età assiale”. Il concetto fu sviluppato originariamente da Jaspers, poi ripreso da Eisenstadt e Schluchter, e più recentemente dai sociologi americani Robert Bellah e Hans Joas, curatori del volume The Axial Age and its consequences, che uscirà in ottobre da Harvard University Press».
Ma cosa si intende per età assiale?
«È una età-perno attorno a cui è girato il mondo, che dopo non sarebbe stato più quello di prima. Certo all’interno delle età assiali ci sono evoluzioni, ampliamenti e anche regressioni, ma non ne viene modificato il tratto essenziale: da quel giro di boa non si torna indietro».
Mi può fare un esempio nel passato?
«Jaspers e i suoi seguaci avevano in mente le grandi civiltà classiche dell’antichità: la cinese, la indiana, l’ebraica e la greca tra il IX e il III secolo a. C.. Queste ci- viltà elaborarono la prima uscita dell’uomo dalla sfera magica per introdurlo in quello della ragione, ossia dell’organizzazione dei modi di capire quel che gli succedeva intorno facendo conto sulla sua capacità di mettere in rapporto cause ed effetti. Tra le età assiali a cui hanno pensato questi autori non c’è quella moderna, sebbene Eisenstadt si sia spinto su questo terreno. Ma noi proviamo ad affiancare alla civiltà classica l’età assiale della modernità, articolata in tre periodi».
Quali?
«I primi due sono abbastanza ovvi. Si comincia con il passaggio tra la fine del XV secolo e il seguente (l’età delle riforme, della riorganizzazione della sfera dei domini politici e del nascere della moderna economia). Si passa poi a considerare il tornante tra il XVIII e XIX secolo, dall’età dei lumi all’emergere della sfera dell’opinione pubblica, dal costituzionalismo al primato dell’amministrazione, dalla crisi della coscienza religiosa al sorgere delle religioni politiche. È stato più difficile scegliere la fase finale».
Molti la indicano nell’Ottantanove, con la fine del bipolarismo Est-Ovest.
«A noi è apparsa una soluzione semplicistica. Può essere una data importante sul piano politico, ma non su quello della struttura profonda degli eventi storici. Abbiamo preferito concentrarci sul periodo 1945-1973, perché ci è sembrata la fase che con un ossimoro potremmo definire della “stabilizzazione dissolutiva” ».
Cosa vuol dire?
«Apparentemente con la seconda guerra mondiale il mondo aveva raggiunto una sua stabilizzazione, sia sul piano politico – pur nell’equilibrio dei blocchi – che in ambito culturale, con il dominio della razionalità occidentale. Eppure più questo mondo si stabilizzava imponendosi come l’unico possibile, più le sue strutture si indebolivano. E a partire dagli anni Settanta fummo chiamati a misurarci con un futuro che non stava più nei canoni precedenti. Abbiamo scelto come data emblematica il 1973, l’anno
della prima crisi petrolifera. Di lì in avanti è stata una dissoluzione continua. Crisi culturali. Crisi politiche. Crisi religiose. E l’emergere di forze che l’antica filosofia della modernità non riusciva più a dominare, a meno di non accettare di rimettersi radicalmente in gioco».
Una ricerca, la vostra, con implicazioni civili.
«Sì, non è una questione di lana caprina per gli specialisti, ma è il tema di questa e delle generazioni future. Le società che non comprenderanno di essere dentro una transizione per sua natura irreversibile soccomberanno nella vana ricerca di difendere la prosecuzione di un passato che è già finito. E che non ritornerà più».

il Fatto 7.9.12
Bellocchio, di padre in figlio il coraggio del cinema
Pier Giorgio, produttore e attore per il padre: un rapporto oltre la competizione
di Malcom Pagani


Per Bella addormentata, Marco Bellocchio ha scelto l’uomo e non la maschera. Il ragazzo che porta lo stesso cognome, parla senza interruzioni e imita perfettamente timbro vocale e attitudine di chi lo ha messo al mondo, ha quasi 40 anni. Nel film del padre, Pier Giorgio Bellocchio si àncora a una stanza illuminata dal neon, a una laica inflessibilità, a una scommessa disperata e con la religiosità degli ostinati, restituisce il significato più profondo della parola fede. Nella vita: “Sia preciso, ne ho attraversate almeno 8” lo descrivono armato di puntigli che trasmutano in frecce. Carattere complicato, ammorbidito dal tempo, eredità di una famiglia allargata che all’applauso ha sempre preferito lo scontro.
COLLETTORE di sogni trasformati in incubi: “Facevo il produttore, a 21 anni finanziai un film in concorso a Berlino. Poi sbagliai una mossa e pur di non dichiarare fallimento, mi indebitai. Pago ancora e tra i miei coetanei sono l’unico a non possedere carte di credito o libretti degli assegni”, poi attore. Onda anomala nella calma piatta dei soliti eletti, Bellocchio frequenta il cinema da 30 anni. “Se lei incontra un soldato e gli domanda: “Legionario, qual è l’ambiente in cui ti trovi meglio? ” lui risponderà “Il deserto, senza acqua”. Se lo chiede al Calciatore, non dubiterà: “A Formentera”. Bellocchietto, come lo chiamano gli amici e i non pochi nemici che un’indole ispida ha contribuito a creare, sceglie il set.
“Per capire che dovevo fare una sola cosa, ho faticato. A 18 anni pensavo di poter essere produttore, direttore della fotografia, scenografo, attore e distributore. Era energia, incoscienza dei 20 anni, presunzione legata all’ambizione. Davanti al “non si può fare” o peggio al “non lo so fare”, mi infuriavo. Nel cinema bisogna avere il coraggio di cadere. Sbagli una volta, sbagli la seconda e alla terza riesci”. A essere completo, dice senza particolare enfasi, riuscirà in età matura: “A 50 anni, diversamente da un recente ieri in cui affrontavo di foga, potenza, rabbia e rivalsa, chiunque mi trovassi di fronte”. Dietro la finestra della crescita, il nipote che nel nome porta il retaggio di un focolare in cui alle marce trionfali si anteponevano studi e quaderni piacentini, vede il futuro.
Non più paragone “inevitabile” né “ovvia ricerca della competizione”, ma una strada propria, distante dai vicoli in cui litigare a voce altissima: “Sarai anche un grande regista, urlavo a Marco, ma non sai fare tutto”, una linea sghemba di possibilità ancora da disegnare. Negli occhi, nei recessi meno esplorati di un passato collinoso come un panorama di Bobbio e in ogni parola pronunciata a velocità da oratore consumato, Bellocchio torna alle origini. Non le nega, né stringe pugni in tasca come quando ogni battaglia dialettica somigliava alla guerra decisiva, ma le analizza, codificando le ere, i passaggi, le distonìe. Attore di talento, a disagio con la recita del quotidiano. “Del giudizio degli altri, sempre pronti a decrittare il rapporto tra me e mio padre, me ne frego. Mi illudevo di poter creare una separazione, oggi non ci penso più. Pensi che fino ai 14, bastava un camion dei vigili del fuoco per vagheggiare un futuro da pompiere”.
L’INCENDIO divampò un anno dopo: “I miei erano separati, così trascorsi l’estate con Marco sul set de La condanna. Caricavo i magazzini, pulivo le cassette, non volevo finire il liceo artistico”. Discussione breve: “I Bellocchio si diplomano. Tutti” disse il patriarca. E così fu. Oggi Pier Giorgio, quello che dorme in piedi per credere nell’amore, lotta contro il sonno della ragione di Maya Sansa e disubbidisce al superiore rischiando ruolo e stipendio, ha smesso di domandarsi se domani, accadrà. Se sarà ancora il figlio di Marco o solo un originale intreccio di zigomi, ascendenze, eredità troppo ingombranti per essere nascoste. Il “vecchio” è in piedi: “In una forma psicofisica inquietante” e l’ex ragazzo diventato uomo si è riconciliato con il senso delle cose: “Mi sento fortunato, ma ringrazio soprattutto me stesso. Non sono andato in miniera, ma non ho mai avuto paura di sporcarmi la faccia”. Se il genitore non ama essere chiamato maestro: “Ha l’impressione che tu lo stia coglionando”, il figlio è refrattario agli elogi. Siede in un bar di Roma, fuma senza avidità, si è riprodotto. Qualcuno lo chiama papà e nel ribaltamento di ruoli, pulsa già una prospettiva.

il Fatto 7.9.12
Il risveglio degli strani cristiani davanti alla Bella addormentata
di Nanni Delbecchi


Aveva detto di voler rappresentare tutte le posizioni, Marco Bellocchio. Ad alcuni è parso fin troppo conciliante con il mondo cattolico e con le unghie spuntate rispetto all’Ora di religione. Ma i cattolici italiani sono strani: fatichi a vederli dove te li immagineresti, e dove non te li aspetti saltano fuori col coltello tra i denti. Così Bella addormentata diventa l’occasione giusta per rinfocolare le polemiche di cui il film mostra la grottesca inanità. Il quotidiano della Cei Avvenire, pur ammettendo sportivamente il valore dell’opera, muove un’obiezione di fondo, quella di confondere la malattia terminale con lo stato vegetativo, e il rifiuto dell’accanimento terapeutico con la sospensione dell’alimentazione forzata. Temi delicatissimi, certo; ma vien da chiedersi perché queste distinzioni così sottili arrivino da chi, nel rifiutare il diritto al testamento biologico, non pare altrettanto attento alle sfumature. E viene da dare ragione a Bellocchio nel mostrarci un’Italia addormentata perché due visioni del mondo non comunicano tra loro, e una in particolare non è disposta a concedere all’altra alcun diritto civile. Ma Bella addormentata racconta anche la frattura tra classe politica e cittadini, e qui le polemiche virano al comico. Il Giornale stupisce che i parlamentari del Pdl vengano rappresentati proprio con Il Giornale in mano; va bene che il quotidiano di Sallusti vende poco, ma almeno i deputati del fratello del loro editore dovrebbero concederseli. Per Libero, altra testata al di sopra delle parti, Bellocchio ha realizzato un film ideologico.
E IL PERSONAGGIO della Rorhwacher, cui bastano poche ore per finire a letto con un ragazzo di idee opposte, fa capire che i cattolici sarebbero “dei fanatici o nel migliore dei casi degli ingenui”. Ora, a parte il fatto che i fanatici nei film di Bellocchio ci sono sempre stati (e in Bella addormentata ce n’è pure uno di fede laica, il bipolare di Fabrizio Falco), vorremmo che Libero ci illuminasse. Come sono i veri cattolici? Gli scafati che considerano l’amore un atto di ingenuità? Sempre Libero si sente in dovere di difendere Berlusconi; ma Berlusconi appare in tv, e non è colpa di Bellocchio se riascoltare certe affermazioni sul ciclo mestruale o sul 50 per cento dei risvegli mette la pelle d’oca. Né risulta che Bellocchio si sia inventato il decreto che doveva bloccare la sospensione delle cure. E poi di che parliamo, quando parliamo di politica? Bella addormentata tenta una riflessione esistenziale sulla sua perdita di valore; si chiede come possa una classe dirigente essere composta da tanti calcolatori di miserevole volgarità. Non l’avesse mai fatto: ecco che subito c’è chi lo riporta rasoterra, gli dà del “grillino” e finisce per confortare il suo sospetto. Allora è proprio vero che la politica non vede più né la luna né il dito, ma solo l’ombelico (il suo). Ma che ci si può aspettare da una testata che giudica le polemiche sulla morte del Cardinal Martini “utili per la promozione”?

La Stampa 7.9.12
Il risveglio degli strani cristiani davanti alla Bella addormentata
di Nanni Delbecchi


Aveva detto di voler rappresentare tutte le posizioni, Marco Bellocchio. Ad alcuni è parso fin troppo conciliante con il mondo cattolico e con le unghie spuntate rispetto all’Ora di religione. Ma i cattolici italiani sono strani: fatichi a vederli dove te li immagineresti, e dove non te li aspetti saltano fuori col coltello tra i denti. Così Bella addormentata diventa l’occasione giusta per rinfocolare le polemiche di cui il film mostra la grottesca inanità. Il quotidiano della Cei Avvenire, pur ammettendo sportivamente il valore dell’opera, muove un’obiezione di fondo, quella di confondere la malattia terminale con lo stato vegetativo, e il rifiuto dell’accanimento terapeutico con la sospensione dell’alimentazione forzata. Temi delicatissimi, certo; ma vien da chiedersi perché queste distinzioni così sottili arrivino da chi, nel rifiutare il diritto al testamento biologico, non pare altrettanto attento alle sfumature. E viene da dare ragione a Bellocchio nel mostrarci un’Italia addormentata perché due visioni del mondo non comunicano tra loro, e una in particolare non è disposta a concedere all’altra alcun diritto civile. Ma Bella addormentata racconta anche la frattura tra classe politica e cittadini, e qui le polemiche virano al comico. Il Giornale stupisce che i parlamentari del Pdl vengano rappresentati proprio con Il Giornale in mano; va bene che il quotidiano di Sallusti vende poco, ma almeno i deputati del fratello del loro editore dovrebbero concederseli. Per Libero, altra testata al di sopra delle parti, Bellocchio ha realizzato un film ideologico.
E IL PERSONAGGIO della Rorhwacher, cui bastano poche ore per finire a letto con un ragazzo di idee opposte, fa capire che i cattolici sarebbero “dei fanatici o nel migliore dei casi degli ingenui”. Ora, a parte il fatto che i fanatici nei film di Bellocchio ci sono sempre stati (e in Bella addormentata ce n’è pure uno di fede laica, il bipolare di Fabrizio Falco), vorremmo che Libero ci illuminasse. Come sono i veri cattolici? Gli scafati che considerano l’amore un atto di ingenuità? Sempre Libero si sente in dovere di difendere Berlusconi; ma Berlusconi appare in tv, e non è colpa di Bellocchio se riascoltare certe affermazioni sul ciclo mestruale o sul 50 per cento dei risvegli mette la pelle d’oca. Né risulta che Bellocchio si sia inventato il decreto che doveva bloccare la sospensione delle cure. E poi di che parliamo, quando parliamo di politica? Bella addormentata tenta una riflessione esistenziale sulla sua perdita di valore; si chiede come possa una classe dirigente essere composta da tanti calcolatori di miserevole volgarità. Non l’avesse mai fatto: ecco che subito c’è chi lo riporta rasoterra, gli dà del “grillino” e finisce per confortare il suo sospetto. Allora è proprio vero che la politica non vede più né la luna né il dito, ma solo l’ombelico (il suo). Ma che ci si può aspettare da una testata che giudica le polemiche sulla morte del Cardinal Martini “utili per la promozione”?

Corriere 7.9.12
Il caso di Eluana, cattolici divisi sul film «Bella Addormentata»
La Cei: utile al dibattito. «Avvenire»: racconta una non verità
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — «Bella Addormentata», il film di Marco Bellocchio, che racconta storie di vite e di morte, di scontri politici e di scelte drammatiche di uomini e donne sullo sfondo degli ultimi giorni della ragazza che è diventata il simbolo del dibattito sul fine vita in Italia, Eluana Englaro, è da ieri nelle sale, ed è già un caso.
Presentato alla mostra di Venezia, ha suscitato le critiche del quotidiano dei vescovi Avvenire, ma a differenza di quanto ci si poteva attendere, non tanto per essere un esempio di cinema «a tesi», quanto per essere un film non realistico: cioè di essere un film che in fin dei conti trae spunto dalla vicenda Englaro, ma racconta una «non Eluana» e quindi una «non verità».
Eppure la Commissione nazionale di valutazione film della Cei non «boccia» Bellocchio. Quella proposta dall'organismo della Conferenza episcopale che dà «le pagelle» ai film è una valutazione pastorale articolata e aperta, in cui si possono riscontrare elementi positivi e critiche. Insomma, Bella Addormentata è giudicato, dalla Cei, un film «complesso, problematico, opportuno per dibattiti». E ancora si spiega che «il film può essere utilizzato in programmazione ordinaria, ben tenendo presenti le ampie sfaccettature dei temi trattati, che chiamano in causa sensibilità civili e spirituali, sfere pubbliche e private, istanze politiche difficili e dolorose». Tanto che nella valutazione più strettamente «tecnica» dell'opera la nota Cei afferma: «Bellocchio costruisce quattro vicende che vorrebbero essere esemplari della complessità di un dibattito, che chiede certamente a tutti uno sforzo in termini di dialogo e di reciproco rispetto per superare contrasti ruvidi, aspri, scostanti che spesso non portano a niente». Mina Welby, vedova di Piergiorgio, mentre da un lato sottolinea il giudizio della Cei, dall'altro, afferma: «Non possiamo aspettare i Bellocchio di turno per tornare a parlare di eventi così drammatici. Io invito il Parlamento a prendere atto dell'esigenza di un' indagine parlamentare sull'eutanasia clandestina, e la stampa tutta ad approfondimenti seri». Il deputato radicale Maria Antonietta Farina Coscioni chiede invece che «il Parlamento sfrutti gli ultimi mesi della legislatura per fare una buona legge sul fine vita, non ci possiamo accontentare che sia stata accantonata quella votata dal Senato. È dovere del mondo politico affrontare questo problema che riguarda tutti i cittadini». Farina Coscioni lancia un'idea: «La nuova legge dovrebbe essere intitolata al cardinale Martini, perché lui è stato fortunato e ha trovato una mano pietosa, tutti devono potere avere la stessa possibilità». Bella addormentata è «un buon film, ma a senso unico», è invece il commento di Fulvio De Nigris, fondatore dell'associazione «Gli amici di Luca». Per De Nigris, «presentare una persona in stato vegetativo talmente bella per essere in quella condizione, non aiuta ad alzare lo sguardo su un problema che coinvolge migliaia di famiglie. Nessuna loro storia di relazione, di comunicazione, di felicità e di voglia di vivere, viene rappresentata nella pellicola». Anche per l'ex sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, Eluana nel film «non è una persona, ma una bambola». Ma soprattutto Roccella respinge l'immagine dei politici di centrodestra che avrebbero votato la legge per «obbedire a Berlusconi». «Lo sanno tutti che c'era piena libertà di coscienza: la nostra è stata una mobilitazione per salvare una vita». E lui il padre di Eluana come ha reagito dopo aver visto il film? «Mentre lo guardavo — ha raccontato all'Espresso — mi sono chiesto cosa avrebbe detto Eluana: "Marco, non sei grande, sei super!". Questo film è un grido di libertà che sembra il grido di mia figlia. E siccome solo i cittadini possono cambiare davvero le cose, questo film sarà utilissimo».

Corriere 7.9.12
«Non è offensivo. Ma quei politici sembrano morti»
di Andrea Garibaldi


ROMA — «Va bene, non vincerò l'Oscar come miglior attore non protagonista». C'è anche il senatore Gaetano Quagliariello nella «Bella Addormentata» di Bellocchio: al Senato — 9 febbraio 2009 — quando gridò: «Eluana non è morta, è stata ammazzata. Noi non ci stiamo!», e abbattè la mano sul microfono.
Ieri pomeriggio, cinema Quattro Fontane, ha visto il film. Prima reazione: «Fortemente orientato sulle posizioni del papà di Eluana, Beppino Englaro. Ma non offensivo. Non a senso unico». La storia del medico che salva la vita alla tossicodipendente, quella del ragazzo che vuole disporre della vita della sorella in stato vegetativo, quella del senatore di centrodestra che aiutò la moglie a morire, «non possono essere riportate a una sola identità». Nessun caso narrato nel film, però, somiglia a Eluana: «Lì la famiglia ricostruì a posteriori una volontà della ragazza di morire se si fosse mai trovata in quella situazione».
Beppino Englaro, dopo sette anni di alimentazione artificiale, chiese a un tribunale di poterla interrompere, di lasciar andare la figlia. Nel film il fratello di Rosa, bambola immobile su un letto, accudita con dedizione e fede dalla madre, stacca per un istante la spina. Il padre gli dice: «Non puoi imporre agli altri quello che pensi sia giusto». Non è proprio ciò che rimproveravate voi a Englaro, senatore Quagliariello? «Ma il gesto del ragazzo è fatto soltanto per alleviare la madre. Non c'è alcuna attenzione per la sorella, considerata comunque perduta. E noi non eravamo d'accordo sul lasciar morire Eluana: da un punto di vista liberale, perché può sempre accadere qualcosa di inatteso e dal punto di vista cattolico, perché può sempre intervenire qualcosa dall'alto».
Secondo Quagliariello, ci sono due aspetti caricaturali nel film. Il primo riguarda «la religione, vista come superstizione, che può prosperare solo nel dolore, con figure di preti e suore usciti dagli anni 70». Il secondo aspetto riguarda la politica. Le hanno dato fastidio i senatori che guardano le sedute dalla tv di una sauna, come antichi romani? «Bellocchio non odia, compatisce i politici. Li dipinge morti dentro e infelici. Invece, quella scena vera dove io grido, piena di passione, mi sembra, al contrario, assai vitale...».
Il governo Berlusconi in quegli ultimi giorni di Eluana, varò un decreto per impedire che fossero bloccate nutrizione e idratazione. Il presidente Napolitano non lo firmò, non gli parve giustificata l'urgenza. Si tentò col disegno di legge e nel film si sottolinea la disciplina a cui furono chiamati i parlamentari del centrodestra, per fedeltà a Berlusconi («Ci ha fatto eleggere e salvato dalla galera»). «Ma no! — dice Quagliariello — ci furono libere discussioni nel gruppo. C'erano parlamentari a favore della legge dal punto di vista laico e liberale e parlamentari come Ferruccio Saro, vicino a Englaro, contrari».
Nel film qualcuno afferma che fu merito di Englaro non risolvere la questione nel privato, ma volergli dare dimensione pubblica: «Credo che il suo errore fu portare la vicenda di Eluana non in una dimensione legislativa, ma giudiziaria. Così, diversi tribunali diedero differenti risposte». Però, la legge che si voleva fare in pochi giorni, tre anni e mezzo dopo non è stata ancora approvata... «È stata approfondita, varata al Senato, modificata alla Camera e manca il passaggio finale al Senato. Prevede alimentazione e idratazione come sostegni vitali e che l'ultima parola, ove non ci sia più coscienza personale, spetti al medico». Ma l'approverebbe il solo centrodestra e oggi c'è un'altra maggioranza a sostenere il governo. «Penso che il Pdl dovrebbe chiedere di portare in aula quel tema prima che la legislatura finisca».
Fuori dal cinema, il movimento cattolico Militia Christi distribuisce volantini che contestano il film. Quagliariello va via con la scorta: gli fu assegnata all'indomani di quel 9 di febbraio.

Repubblica 7.9.12
Sull’Espresso in edicola oggi interviene il padre di Eluana sull’opera ispirata alla vicenda che lo ha visto protagonista
Al cinema con Englaro “Grazie a Bellocchio è un film per cambiare”
Anche la stampa estera si divide
Hollywood Reporter: “Il film di Bellocchio è un successo indiscutibile”
El Pais: “Personaggi sono ovvi e le loro azioni scontate. Un’autentica pena”
di Arianna Finos


Beppino Englaro ha visto la Bella addormentata di Marco Bellocchio: «Questo film non è ideologico, ma è un grido di libertà che sembra il grido di mia figlia ». In una lunga chiacchierata con Tommaso Cerno, sull’Espresso in edicola da oggi, il padre di Eluana racconta i ricordi, i pensieri, le emozioni suscitate dal film, il primo che ha visto al cinema in diciassette anni, da quel 18 gennaio del 1992 in cui Eluana ebbe l’incidente che la ridusse allo stato vegetativo. Allora Englaro condusse da solo una battaglia «da cane che abbaia alla luna». Oggi, «tutto il mondo può apprezzare Bellocchio ispirato dalla nostra lunga battaglia che ha cambiato il clima culturale del paese». Nel film Eluana non compare, e nemmeno suo padre. «Con Bellocchio ci siamo incontrati. Capiti al volo, quando gli ho raccontato che i medici e avvocati erano preoccupati per la mia repulsione ai meccanismi nei quali ero costretto a inoltrarmi. I miei argomenti di difesa erano considerati elucubrazioni ». Adesso Englaro chiederebbe loro “Elucubrazione o sano istinto? Guardatevi il film, è una storia semplicissima, che solleva un tema che dà fastidio». Rispetto agli ultimi vent’anni «i medici hanno fatto enormi passi avanti. Chi è rimasto fermo al ‘92 è la politica. Dire che è staccata dalla gente è perfino banale». Alla fine della proiezione Englaro telefona al regista: «Marco, una splendida creazione artistica, dentro i giorni cruciali di Eluana. Grazie per il bel film. Mi sono chiesto cosa avrebbe detto mia figlia: Marco non sei grande, sei super! ». «In questo film ho visto riflessa una certezza: se fosse successo a me quanto accaduto a Eluana, l’Italia avrebbe avuto a che fare con quell’energia pura, di puledro di razza, che era mia figlia. Eluana sì che avrebbe gridato con la sua voce viva tutta la forza della libertà».
Bella addormentata è stato accolto alla Mostra di Venezia da 16 minuti di applausi del pubblico: «Poiché solo i cittadini possono cambiare le cose, questo film sarà utilissimo», dice Englaro. Preceduto da infinite polemiche a scatola chiusa, il film di Bellocchio ha ricevuto generalmente recensioni positive dalla stampa italiana, con qualche eccezione soprattutto sui giornali di destra. Anche la commissione per la valutazione dei film della Conferenza episcopale non boccia la pellicola definendola «un film complesso, problematico e opportuno per dibattiti». Miste le reazioni dei critici internazionali. Il film è piaciuto molto all’Hollywood Reporter: «Bellocchio ribadisce la dignità della vita in un altro dei suoi film di brillante intelligenza, partendo da un caso reale di eutanasia». Per El Pais invece il film «è una radiografia del-l’Italia a cui manca l’anima». Nella recensione del critico di Variety si legge che il film «è una stimolante esplorazione dell’amore, della vita della politica, con scene di innegabile potenza», anche se «eliminare qualche storia avrebbe permesso maggiore profondità ». Secondo Screen: «Malgrado alcuni momenti di originale bellezza e dalle forti interpretazioni di Toni Servillo e Alba Rohrwacher, sotto il cuore della pallida e artistica bellezza della Bella addormentata batte un cuore da melodramma televisivo». Nella tabella dei voti dei critici del “daily” veneziano, Venews, gli entusiasti recensori francesi di Positif e Le Monde danno al film rispettivamente cinque e quattro stelle. Tre stelle da parte degli anglosassoni Times e Herald Tribune.