domenica 9 settembre 2012

l’Unità 9.9.12
Sempre più disoccupati in Italia
Secondo l’Ires-Cgil un terzo dei nuovi senza lavoro in Europa sono del nostro Paese
L’esercito di inattivi: quasi 4 milioni e mezzo
di Giuseppe Caruso


Un terzo dei nuovi disoccupati in Europa è italiano. A fornire un altro dato inquietante sullo stato di salute dell’economia del Belpaese ci ha pensato l’isituto di ricerche Ires, fondato dalla Cgil. Rielaborando i dati Istat e Eurostat, l’Ires ha reso noto che tra gennaio e luglio del 2012 i disoccupati nel nostro Paese sono aumentati di 292.000 unità passando da 2.472.000 a 2.764.000. Nello stesso periodo l’Ue nel suo complesso ha registrato 881.000 disoccupati in più.
AFFANNO
Ma le cattive notizie non finiscono qui, visto che nello studio si sottolinea come ci siano anche quasi 4 milioni e mezzo di persone all’interno dell’area della così detta “sofferenza occupazionale”. Per definire quest’area l`Ires ha scelto di prendere come riferimento, oltre ai disoccupati, i così detti “scoraggiati”, vale a dire quelle persone comunque disponibili a lavorare o che si trovano in cassa integrazione. Si arriva così all’enorme cifra di 4 milioni e 392mila persone. Per capire il peggioramento della situazione, basti pensare che con gli stessi parametri, nel secondo trimestre del 2007, cioè prima della grande crisi, le persone che potevano rientrare in questa sfera ammontavano a 2 milioni e 475mila (l`aumento è del 77% ndr).
Raffaele Minelli, presidente dell’Ires Cgil, e Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, commentando lo studio hanno rilevato che per troppo tempo «si è sbagliato, sostenendo che l’Italia si trovava in una situazione di vantaggio rispetto all’Europa guardando solo ai dati dei disoccupati formalmente riconosciuti e non tenendo in alcun conto l’enorme area dell’inattività. Questa differenza è ormai superata e come si vede l’aumento dei disoccupati in Italia è ora molto più forte della media europea».
 «Risulta evidente» hanno aggiunto MInelli e Fammoni «come l’andamento della crisi e le scelte fatte per contrastarla producano nel nostro Paese un netto peggioramento, con effetti insopportabilmente negativi sull’occupazione. Questo dato comporta un primo giudizio severo e negativo sull’operato del Governo. Vista la rilevanza del tema, l’Ires produrrà stabilmente approfondimenti sulla disoccupazione e sulla qualità dell’occupazione».
 «Il primo aspetto» hanno concluso «riguarda l’area della vera sofferenza occupazionale. Il secondo invece prende in esame il problema dell’inattività, un fenomeno molto più diffuso nel nostro paese rispetto al resto dell’Europa, un fenomeno dentro al quale si trova una parte rilevante di esclusi dal mondo del lavoro non formalmente riconosciuti come disoccupati. A questi milioni di persone non si può dire che la prospettiva di essere travolti dalla crisi si è allontanata. È evidente che il lavoro è il principale fattore non affrontato dal governo per uscire dalla crisi».
Una crisi, quella dell’occupazione, che in Italia è costante da ormai diversi anni. La Coldiretti per esempio ieri ha reso noto che a causa del caldo e della siccità che hanno tagliato i raccolti estivi ed autunnali, rischiano di rimanere a casa molti dei 200 mila giovani impegnati nelle attività di raccolta di frutta, verdura e nella vendemmia.
 «Sui dati relativi all’occupazione nel terzo trimestre» spiega la Coldiretti «si farà sentire purtroppo il crollo dei raccolti agricoli che va dal 22 per cento per le pere al 13 per cento per le mele ma arriva al 50 per cento per il pomodoro in Puglia e al 5 per cento per la vendemmia, tutti settori che richiedono una elevato impiego di manodopera. Si tratta degli effetti negativi dovuti all’andamento climatico sfavorevole che ha provocato danni diretti per circa tre miliardi di euro all’agricoltura nazionale, con inevitabili ricadute anche sull’indotto in termini economici ed occupazionali».

l’Unità 9.9.12
Bersani sul palco con i volontari «Ora tocca a noi»
Oggi il segretario conclude la Festa del Pd «Abbiamo l’ambizione di cambiare il Paese»
Rinnovamento: dibattito dei 30-40enni di “Rifare l’Italia” «Basta col liberismo»
Fassina: «Per 20 anni abbiamo fatto solo risanamento del debito pubblico»
di Simone Collini


Intanto, la scelta che è fino a un certo punto soltanto scenografica e che invece ha tanto a che fare col tema del rinnovamento, del partito popolare, della buona politica come migliore risposta all’antipolitica: intorno al segretario, sul palco, non ci sarà com’è sempre stato in passato il gruppo dirigente del partito, bensì i volontari della Festa e gli amministratori dei comuni colpiti dal terremoto. E poi il messaggio: «Sarà dura perché avremo molti interessi contro, ma abbiamo la forza per vincere la sfida e governare l’Italia».
Oggi Pier Luigi Bersani chiude la Festa nazionale del Pd con un comizio che sarà più proiettato verso le elezioni politiche che non le primarie. Queste si faranno, l’ultima domenica di novembre (con eventuale secondo turno sette giorni dopo) ma per Bersani la partita vera sarà quella che si gioca in primavera. «Sono in molti a non volere un vero cambiamento, in tanti proveranno a sbarrarci la strada, ma noi non ci fermeremo», dirà oggi a Reggio Emilia il leader del Pd. Una promessa ma anche un modo per spronare il partito a spingere con determinazione in quest’ultimo miglio. Bersani, dal palco dell’area dibattiti di Campovolo, giocherà oggi la carta dell’orgoglio di partito ma anche nazionale. Perché se è vero, come riconoscerà, che Mario Monti ha evitato che il Paese finisse nel «baratro», ora serve una «riscossa civica e morale» e bisogna avere «un’altra ambizione»: sta a un governo politico, con scelte economiche, politiche e culturali di impianto progressista, lavorare per la redistribuzione, la crescita, lo sviluppo e riportare a pieno titolo l’Italia tra le prime otto potenze mondiali. «Proviamoci insieme», è il messaggio che Bersani consegnerà alla base del suo partito ma non solo, visto che la sua convinzione è che quell’ «ambizione» possa essere realizzata soltanto se c’è quella «coesione nazionale» che troppe volte è stata più teorizzata che perseguita.
RICAMBIO E AGENDA NUOVA
Ormai è chiaro che il partito dei tecnocrati è trasversale e che il Monti-bis può essere l’unica alternativa a un governo a guida Pd. Lo sa Bersani, che non a caso non vuole una legge elettorale che preveda un premio di maggioranza al primo partito e non alla coalizione, e lo dicono apertamente i trenta-quarantenni di “Rifare l’Italia” che ieri si sono dati appuntamento a Reggio Emilia per discutere di rinnovamento e di quale debba essere l’agenda di governo per il 2013. Sala piena (fuori dal recinto della Festa) e posti in piedi, con Matteo Renzi a fare da «convitato di pietra», come dice il presidente della Provincia di Potenza Piero Lacorazza. Il sindaco di Firenze, dice il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando, «propone un rinnovamento anagrafico a cui non segue un rinnovamento politico, in parte perché il suo programma è un mistero, in parte perché quello che si conosce è in continuità con ricette politiche degli anni 90». Quelle politiche a cui si sono ispirati anche precedenti governi di centrosinistra, dice Matteo Orfini ribadendo che sarebbe un errore farsi promotori oggi di idee diverse e prive di fascinazioni liberiste e però riproponendo la stessa classe dirigente di vent’anni fa, che tanto per dirne una introdusse la flessibilità senza contestualmente inserire un adeguato sistema di welfare. «Siamo rispettosi e mi dispiace se qualcuno si è risentito dice il responsabile Cultura del Pd riferendosi a un’uscita di Rosy Bindi però mi chiedo se non sia una mancanza di rispetto diverso, e forse più grave, considerare che l’unico modo di dare il contributo al partito sia fare il ministro».
Il vero nodo politico che emerge da questo incontro è però quello riguardante l’agenda del prossimo governo. Nello stesso Pd c’è chi ritiene ci debba essere una forte continuità con quella dell’attuale esecutivo, ed è parlando soprattutto a loro che Stefano Fassina ironizza su questa fantomatica «agenda Monti»: «Dove si compra, dove si può leggere? Non ho mai capito cos’è. Vuol dire rigore? Ma non è distintivo dell’agenda Monti, può essere allora agenda Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema... Per vent’anni abbiamo fatto solo il risanamento della finanza pubblica. Vuol dire liberalizzazioni? Il nostro segretario da ministro ha fatto lenzuolate molto più ampie e incisive di quelle che siamo riusciti a fare in questa stagione. Dunque, se vogliamo essere seri, parliamo di agenda Bersani, di primato dell’economia reale, di redistribuzione del reddito».
Parole che escono dai confini di Reggio Emilia e che vengono duramente criticate da Paolo Gentiloni e Walter Verini. Dice il primo: «Contrapporre un’agenda Bersani a un’agenda Monti non mi pare una buona idea per il Pd». Mentre il secondo attacca i «tifosi di goodbye Lenin» e chiede a Bersani di riportare il dibattito allo stesso livello di serietà «che Monti ha dimostrato e sta dimostrando». Da Reggio Emilia si chiede invece di «evitare le caricature». E Fassina, guardando alla richiesta di un Monti-bis proveniente da Cernobbio, Chianciano ma non solo: «Ritornano gli atteggiamenti ostili che hanno caratterizzato la democrazia nel suo nascere, in Grecia, e si cercano tutte le possibilità per restringere gli spazi di democrazia ai soli ottimati, oggi chiamati tecnici». Anche di questo, dei rischi di una tecnocrazia e della necessità che anche in Italia «sia una democrazia come le altre», parla oggi Bersani.

l’Unità 9.9.12
Fabrizio Barca
«Da Monti una traccia. Poi tornerà la politica»
di Bianca Di Giovanni


Fabrizio Barca la vede «con ottimismo» (parole sue). «Tutto questo dibattito sul Monti-bis per me è come un pungolo per i partiti spiega Una richiesta a fare chiarezza sulle loro intenzioni». Come dire: la partita tornerà nelle mani della politica. Quello che non può tornare è la vecchia politica: in questo senso la «traccia di Monti andrà seguita», spiega il ministro della Coesione territoriale riprendendo un’immagine ( «azzeccata» dichiara) di Pier Luigi Bersani. La traccia, l’imprinting lasciato dal governo tecnico sta tutto nel rapporto con l’Europa e i suoi «buoni princìpi». Quanto alle primarie del Pd, il ministro non si espone: «non ci sono mai andato». Per ora, tuttavia, l’esecutivo è alle prese con i mesi più caldi per il suo mandato: in autunno sarà la realtà a tracciare un primo bilancio del suo operato. «Da ottobre a dicembre valuteremo l’efficacia delle misure già adottate, dalla scuola alle ferrovie al welfare spiega Barca e riprogrammeremo 3 miliardi di spesa, anche valutando nuovi interventi di rapidissima implementazione per le piccole imprese e i lavoratori e la marginalità sociale».
Signor ministro, se si invoca il Monti-bis viene da chiedersi: ma a che servono allora le elezioni?
 «Credo che tutte le riflessioni di questi giorni siano inviti ai partiti ad accelerare sulla strada della chiarezza di intenti. Sono pungoli a far emergere le intenzioni e i programmi. Oggi si parla di Monti bis, domani si parlerà di irreversibilità di cambiamenti, o magari delle rassicurazioni da fornire per garantire i partner europei».
Se non si tratta di Monti, si tratta della sua agenda: non è la stessa cosa? Ripeto: se serve l’agenda Monti, a che servono le elezioni? A che serve ridare ai cittadini il potere di scegliere i loro rappresentanti con una nuova legge elettorale?
 «Il tema è un’agenda che raccolga l’impegno a ricalcare le trasformazioni di metodo introdotte da Monti. Un metodo a sua volta ispirato al buonsenso dei principi europei. Parlo di principi, non di contenuti. Non esiste un solo modo per realizzare quello che l’Europa chiede. I principi europei sono ampi: c’è lo spazio per la democrazia e la rappresentanza. Per esempio sulla coesione a me chiede di migliorare l’efficienza amministrativa di alcune aree. Per farlo bisogna avere proposte politiche. A questo punto tocca ai partiti spiegare cosa vogliono fare, e soprattutto tocca a loro distinguersi per convincere gli elettori. Mi aspetto che ciascun contendente ci dica come vuole ridurre il debito, come vuole abbassare le tasse, come vuole creare sviluppo».
Un anno fa i fondamentali italiani erano migliori: più crescita e più occupazione. Non sembra un bilancio positivo per il governo.
 «Nei Paesi che hanno una tradizione di valutazione di impatto delle politiche è utilizzata la parola “controfattuale”. Il paragone non va fatto con l’anno scorso. Semmai bisogna chiedersi: come sarebbe oggi il Paese senza le misure adottate? In questo caso la risposta non sarebbe negativa per l’esecutivo». Monti considera una vittoria la decisione della Bce. Eppure sulle condizionalità sembra aver vinto Angela Merkel. «Quello che è accaduto a Francoforte è un fatto di portata notevolissima, che non sarebbe stato neanche immaginabile solo 90 giorni fa. Con questa decisione si è affermata la piena autonomia della Banca centrale in fatto di politica monetaria, come prevede il Trattato. È il riconoscimento che la politica monetaria non può essere efficace se il mercato dei tassi è alterato. La Banca ovviamente può avviare i programmi di acquisti solo quando ritiene sostenibili le condizioni del Paese, e quindi è giusto che chieda delle garanzie. Non è un punto a favore di Merkel o di Monti, ma a favore dell’Europa. Certamente però segna il ritorno sulla scena di uno dei Paesi fondatori, è sicuramente il segno del contributo che l’Italia ha dato al dibattito politico».
A che punto è la politica di coesione? I risultati si stanno monitorando, come aveva promesso?
 «Il primo obiettivo sui fondi comunitari è passare da un quarto della spesa delle Regioni a un terzo. Questo vale per tutte le Regioni, anche per quelle dove la situazione di partenza e la presenza di grandi progetti crea un effetto ritardo. Ad esempio la Campania sta facendo sforzi enormi per passare da un ottavo della spesa a un quinto. All’interno del piano di azione e coesione, da ottobre a dicembre si perseguirà l’attuazione del programma scuola (già impegnato circa l’80% dei fondi stanziati) e delle ferrovie (avvio effettivo della Napoli-Bari, con una diminuzione a regime del 20% dei tempi di percorrenza). Entro fine ottobre dovrà essere avviato il programma per la cura dell’infanzia e degli anziani. Sui giovani si è già avviato il piano “messaggeri” (che punta a mettere in contatto i ricercatori andati all’estero con gli studenti delle Università italiane del Sud). Più lenta invece appare l’attuazione delle misure sulle infrastrutture (edilizia scolastica, bonifiche, frane). Ma si è riusciti ad accelerare i tempi degli iter attuativi, dimezzando per esempio quelli tra le delibere del Cipe e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, mentre sono stati versati gli anticipi da parte del ministero dell’Economia».
Cosa devono aspettarsi i giovani del Sud, i più colpiti dalla crisi, in questo scorcio di legislatura?
 «Dobbiamo riprogrammare 3 miliardi di spesa, puntando su misure immediate ma non rinunciando a quelle di medio termine, altrimenti non si cambia mai. I primi segnali mostrano che sta funzionando molto bene il credito d’imposta per l’occupazione. C’è un impegno del governo a rifinanziarlo, preso a seguito di una mozione di maggioranza appoggiata anche dall’Idv».

il Fatto 9.9.12
Napolitano lo vuole: Monti per sempre
Monti bis, è già tutto deciso. Le elezioni non servono più
Banchieri e imprenditori reclamano un governo-fotocopia
Napolitano li rassicura: “Nella prossima legislatura mi adopererò per l’agenda europea”
Mieli al Fatto: “Questa è la vera antipolitica”
La Marcegaglia sposa Casini per il partito del premier
di Paola Zanca


Seduto nel suo studio al Quirinale, subito dopo aver usato il verbo “mi adopererò”, Giorgio Napolitano gira pagina. Il foglio degli appunti è terminato e non è il caso di proseguire a braccio. Sta parlando al forum degli imprenditori di Cernobbio e quelle che sta pronunciando sono parole decisive. Annunciano che per l’Italia, il momento di girare pagina, non è ancora arrivato. Il Capo dello Stato, appunto, si adopererà perché le forze politiche condividano “esplicitamente e largamente” l’agenda già scritta per l’Europa da Mario Monti. Che quasi 50 milioni di italiani debbano ancora esprimere il loro voto – magari in larga parte contrario a quella agenda – pare un dettaglio irrilevante. “Entro e non oltre l'aprile 2013”, scandisce Napolitano, è comunque il caso di arrivare a un “impegno convergente”. L’invito presidenziale è a mettersi d’accordo subito, a cominciare dalla legge elettorale: “necessaria”, ripete da tempo il Quirinale. E adesso è finalmente chiaro a tutti per che cosa. Una legge, in linea con le bozze circolate nelle ultime settimane, che non consenta a nessuno di governare da solo e costringa tutti a uno scenario “convergente”. Non esattamente un motivo di incoraggiamento per quel 40 per cento di cittadini che si dichiara indeciso sull’andare a votare. A che serve, se il risultato sembra già scritto?
C’È una coalizione tratteggiata, c’è una data di scadenza. Manca solo il nome. E anche qui, il messaggio che Giorgio Napolitano ha inviato a Cernobbio segnala un indiziato speciale. “Una risorsa altamente qualificata, una persona di grande competenza e prestigio europeo”, quello che ci ha tirato fuori dal pantano berlusconiano, il professor Mario Monti. “Potrebbe essere una delle soluzioni”, festeggia il ministro del’Ambiente Corrado Clini. “Bellissimo discorso”, quasi si commuove il titolare dell’Economia, Vittorio Grilli. Monti, però, rilascia in serata una dichiarazione nella quale conferma il suo addio: “Il mio orizzonte – ha spiegato – finisce ad aprile 2013. Nessun dubbio”. Eppure nel pomeriggio, osannato dai big dell’industria nazionale, il premier non sembrava sottrarsi alle lusinghe. Faceva sapere, al contrario, che si è messo a capo degli anti-populisti. Ha proposto al presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy di convocare un vertice straordinario per arginare la “fase pericolosa” che stiamo vivendo. Monti vuole che quella riunione si tenga a Roma, in Campidoglio, dove fu firmato il trattato europeo. Ne ha parlato “nei giorni scorsi” con il presidente Napolitano. E Van Rompuy ha già dato il suo via libera. Dunque, la discesa in campo di Monti per evitare i “fenomeni di rigetto a cui stiamo assistendo” si farà.
Vista così, sembra quasi che l’unica alternativa agli “sfascisti” dell’euro sia il prosieguo dell’esperienza dei tecnici al governo. Magari affiancati da qualche politico, come spiegavano nei giorni scorsi fonti di Palazzo Chigi, ma sempre sulla scia disegnata dall’esecutivo in carica. La terza via non è contemplata.
DICE Stefano Fassina, voce democratica fuori dal coro: “L'agenda Monti? Ma cos'è, dove si compra, che vuol dire? – si infervora il responsabile Economia del Pd – Agenda Monti vuol dire rigore? Ma il rigore non è distintivo di Monti. Potrebbe essere l’agenda Prodi, l’agenda D’Alema, l’agenda Amato: negli ultimi vent'anni abbiamo fatto solo risanamento di finanza pubblica. Vuol dire liberalizzazioni? – insiste Fassina – No, perché sono state molto più ampie e incisive quelle del governo Prodi. Allora, se vogliamo essere seri, parliamo di agenda Bersani: non siamo di fronte a un’agenda necessaria, un’agenda unica – conclude – Ci sono diverse ricette e quella dell’austerità cieca e della svalutazione del lavoro non funziona. Serve una rotta progressista”. Il trionfo di Monti a Cernobbio, evidentemente, indica che la sua agenda va in un’altra direzione. Lo ammette anche Enrico Letta, ultramontiano del Pd: “È naturale che l'ambiente di Cernobbio veda positivamente un Monti bis”, così come più volte (ma questo è meno naturale) ha dichiarato di vedere bene lui.
Sono pochissime, va detto, le voci della politica scandalizzate dallo scenario. Il Terzo Polo (ora ‘Per l’Italia’) è fatto apposta per questo. Al Pd, stretto tra il voto di protesta grillino e l’avanzata “amica” di Matteo Renzi, non è detto che dispiaccia temporeggiare un altro po’ prima di candidarsi alla guida del Paese (momentaneamente allo sfascio). Il Pdl al minimo storico e con un candidato azzoppato non ha motivo di alzare la testa. Lo fa solo una ex An come Giorgia Meloni: “Non capisco perché nessuno si ponga il problema del fatto che se Monti vuole governare anche la prossima legislatura dovrebbe candidarsi alle elezioni politiche come tutti e chiedere agli italiani cosa pensano del suo lavoro. Ricordo che in una nazione democratica è il popolo che decide chi governa, non le segreterie di partito o gli oligarchi”.

il Fatto 9.9.12
Si chiama Supermario risolve (i loro) problemi
Industriali, banchieri e manager: tutti i big in fila per il bis
di Giorgio Meletti


La cartina di tornasole si chiama Giorgio Squinzi. Come presidente di Confindustria è anche il simbolo della convergenza dei poteri forti verso la prospettiva obbligatoria del Monti-bis.
A ben guardare, infatti, fu lui due mesi fa a dare base teorica all’esigenza pratica di garantirsi il Monti-perenne. Disse sì alla tassa patrimoniale (vessillo della sinistra) “ma solo se fossimo in emergenza”. Il comma 22 di Squinzi funziona così: siamo abbastanza in emergenza da aver bisogno di Supermario forever, ma finché c’è Supermario non saremo mai abbastanza in emergenza da dover parlare di patrimoniale. E i grandi patrimoni saranno al sicuro.
E QUESTO vale per tutti i 137 “banchieri, manager, imprenditori e professori” che al convegno Ambrosetti di Cernobbio hanno partecipato al sondaggio promosso dall’agenzia Radiocor (proprietà Confindustria), rispondendo in coro (81 per cento) che l’Italia deve continuare ad affidarsi al governo tecnico. I partiti, la democrazia, le elezioni restano sullo sfondo, una formalità da sbrigare alla svelta e nel modo più indolore.
Squinzi, un industriale vero, attento alla penetrazione internazionale del suo Vinavil, è stato l’ultimo a capire l’aria che tirava. Appena eletto a capo degli industriali, il 23 maggio scorso, si è lasciato andare a considerazioni allegre sul governo dei tecnici, definendo “una boiata” la riforma del lavoro di Elsa Fornero, chiedendo quando arrivavano ai fornitori i 30 miliardi di pagamento delle fatture inevase dello Stato, e andando infine alla festa della Cgil di Serravalle Pistoiese, il 7 luglio, a dire che “il governo dei tecnici è una parentesi, ma deve tornare la politica”. Fu allora che Monti, spazientito, lo accusò di far salire lo spread con le sue critiche al governo, e soprattutto fu allora che in coro i maggiorenti dell’imprenditoria italiana scesero in campo in difesa di Monti, sconfessando pubblicamente e rudemente il loro presidente. Non era mai capitato nella storia della Confindustria, e infatti Squinzi ha capito la lezione.
Ed ecco che l’agenzia confindustriale lancia il suo sondaggio sottolineando i nomi più prestigiosi che vi hanno preso parte. Dal boss dell’Eni, Paolo Scaroni, a Marco Tronchetti Provera della Pirelli, dal capo dell’Enel Fulvio Conti al numero uno di Fin-meccanica Giuseppe Orsi e al presidente Telecom Italia Franco Bernabè. E poi i banchieri (Federico Ghizzoni di Unicredit, Enrico Cucchiani di Intesa Sanpaolo), e anche qualche imprenditore vero, come Francesco Gaetano Caltagirone, Carlo De Benedetti e suo figlio Rodolfo. Assente la famiglia Ligresti, recentemente passata di moda. Nessuno di loro chiede più al governo quando salteranno fuori i 30 miliardi promessi a più ripresa del ministro Corrado Passera per pagare i fornitori. Trattasi di quisquilie riguardanti le mitiche pmi, piccole e medie imprese buone per la campagna elettorale confindustriale e per i pensosi convegni sulla crescita. Ben altri sono i concreti e corposi interessi delle grandi imprese.
PRENDETE Cucchiani. È lui il portabandiera di giornata, parla di tutto e ha le idee chiarissime sul Monti bis, “fondamentale e probabile”. Poi gli chiedono quanti siano gli esuberi di Intesa Sanpaolo, e lui, come se passasse di lì per caso, balbetta in managerese: “Non sono assolutamente nella condizione di esprimere una valutazione puntuale”. Poi, come si confà alla vera classe dirigente, fa lo spiritoso: “Credo sia difficile esprimere dei numeri, è più facile dare i numeri, piuttosto che esprimere numeri concreti”. È intuitivo che a uno così interessi avere al ministero del Lavoro per sempre una Elsa Fornero sempre pronta a dire che “il governo non garantisce posti di lavoro”. E soprattutto ai banchieri come lui piace il governo tecnico che ha come priorità la stabilità delle banche, e pazienza se a costo di strangolare le imprese chiudendo i rubinetti del credito.
Prendete Tronchetti. La Pirelli è considerata dallo stesso sondaggio Radiocor una della aziende italiane più a rischio di scalata. Tronchetti comanda con poco più del 7 per cento del capitale grazie all’alleanza con il socio Vittorio Malacalza con cui sta litigando. Cucchiani, grande creditore del gruppo, lo sostiene. Ecco quanto è strategico per loro un governo che comprenda le ragioni dell’impresa e non voglia liberalizzare il mercato dei capitali, colpire il sistema delle scatole cinesi, minacciare i capitalisti senza capitali.
Prendete Orsi. Indagato per corruzione internazionale, continua a regnare incontrastato sulla Finmeccanica. La società a controllo pubblico va malissimo, e da oltre due anni è in tempesta continua: prima con Pier Francesco Guarguaglini e poi con Orsi, già indagato al momento della successione. Ci sono in gioco 75 mila posti di lavoro, e un’azienda tecnologica che tutti considerano strategica. Fa bene Orsi a tifare per il Monti bis. Quando lo ritrova un ministro dell’Economia distratto come Vittorio Grilli, che si occupa di Finmeccanica solo per smentire di aver chiesto consulenze per l’ex moglie?

il Fatto 9.9.12
Paolo Mieli: “È il Monti bis la vera antipolitica”
“L’essenza della democrazia? Regolari elezioni, come i Paesi civili”
di Silvia Truzzi


Ma le elezioni sono diventate un accessorio? Non si fa che parlare del Monti bis, lo vogliono tutti: Obama, Merkel, banchieri e manager di casa nostra. Abbiamo chiesto a Paolo Mieli, presidente di Rcs libri, se la sovranità popolare ha ancora qualche cittadinanza in un sistema che si vorrebbe democratico.
Mieli, che pensa di questo mettere le mani avanti? Sembra un plebiscito.
Una premessa è d’obbligo. Penso che il governo Monti abbia fatto e stia facendo un eccellente lavoro: l’Italia è ancora in crisi. Ma non come un anno fa, quando il Paese era uscito di strada. Adesso è in carreggiata. Essere in crisi quando si è in carreggiata è diverso da essere in crisi mentre sei fuori strada con il motore che fuma. Ovvio che a Monti si possono fare tutti gli esami sulle promesse mancate, ma nelle condizioni attuali sta facendo un buon lavoro. Quelli che oggi lo lodano, e a mio giudizio però sono molto nevrotici, sono gli stessi che due mesi fa quando lo spread salì sopra i 500 lo criticavano. Sarebbe augurabile un giudizio meno altalenante, senza isterismi legati alla giornata.
E del bis auspicato, annunciato, già quasi scontato che idea si è fatto?
L’esecutivo tecnico è un esperi-mento che ha un inizio e una fine, chiamato in una situazione straordinaria a guidare l’Italia con il sostegno dei partiti. Tra l’altro ricordiamoci che all’inizio anche l’Italia dei Valori diede il proprio sostegno a Monti. Per dire che tranne la Lega, erano con lui tutti i partiti. Salvo, come è normale, prendere una posizione diversa sui singoli atti. La maggioranza parlamentare di partenza era pressoché unanime. Ma parlare del Monti bis adesso è un gravissimo errore. E una mossa inopportuna. Perché il governo deve durare setto-otto mesi, sino alle elezioni. Sarà un periodo in cui continueremo a stare sulle montagne russe: l’accettazione della decisione di Draghi è un passaggio fondamentale, ma non siamo fuori da questa congiuntura. Quindi il governo dovrà prendere ancora molti provvedimenti: è un’avventatezza parlare del dopo.
Ma dopo ci sono le urne!
Infatti questo dibattito è un errore in sé: se tutti i Paesi civili dell’orbe terracqueo, compresi quelli sono messi peggio di noi, fanno regolari elezioni, dove qualcuno vince e qualcun altro perde, non si vede perché dare dell’Italia un’immagine per cui i partiti fanno tutti schifo e le elezioni vanno abolite. Chi agita questa richiesta come una bandierina della stabilità, non si accorge di fare implicitamente un’affermazione grave: questa sì che è l’antipolitica, altro che Grillo. E siamo noi che raccontiamo all’estero che i nostri partiti non sono presentabili, che chi vince non importa tanto si fa quello che decide l’establishment: un giudizio che ci ritorna di rimbalzo. Terribile procedere in questo modo.
Perché?
La Merkel, e gli altri governi stranieri, è chiaro che preferiscono Monti: finalmente si confrontano con qualcuno che ne capisce, anzi ne capisce più di loro. Tutto il mondo, a partire da Obama, si compiace di avere interlocutori italiani del calibro di Monti e Draghi. Due personalità di primissimo ordine: un giudizio che evidentemente non avevano dei predecessori. Ed è normale che si augurino che queste persone restino. Fossi nei loro panni, direi la stessa cosa.
Il problema è interno: se non siamo noi a tutelare il sistema democratico chi lo deve fare?
All’interno ci sono intanto i centristi, intenzionati a tornare alla Prima Repubblica, quando il voto era quasi irrilevante perché di fatto il governo si combinava poi in Parlamento. Può darsi che se lo auguri anche la destra, nella convinzione di risultare perdente. Lo dice l’establishment perché non si fida del centrosinistra e cerca in questo modo di provocarne un atto di responsabilità. Temono, credo, la solita vittoria del centrosinistra, che scelga per i ruoli importanti personalità che negli ultimi vent’anni hanno già fatto i ministri – non sempre con risultati degni di memoria – temono una coalizione divisa, che magari non sia in grado di mantenere i punti dell’agenda Monti.
C’è anche la questione legge elettorale...
Certo e mi auguro che il sistema elettorale sia tale da garantire la vittoria di una coalizione certa. Monti, anche per il futuro, è affidabile per la sua natura eccezionale. Così sarà anche per eventuali nuovi ruoli, come il capo dello Stato. O se ci sarà un’altra impasse, tornare a guidare il governo. Ma noi assolutamente dobbiamo rientrare nella fisiologia democratica: chi decide sono gli elettori. Dopo il voto, chi vince governa, chi perde sta all’opposizione.
E per ciò che riguarda la sovranità?
Io sono favorevole a una richiesta rapida di aiuto all’Europa. Anche se comporta appunto una cessione di sovranità in materia economica, ovviamente all’Europa degli eletti o a un mix di eletti e Banca centrale, non alla tecnocrazia. Già vent’anni fa abbiamo scelto di essere europei. Se facciamo questa scelta sarà la nostra fortuna. Tanto più se questo succede non già quando il paese è in difficoltà estrema, come è accaduto per la Grecia, con una pistola alla tempia.
Il problema è che questo potrebbe accadere accanto a una cessione di sovranità politica.
Il percorso giusto è: non parlare di Monti bis, perché il Paese deve avere fiducia nelle sue istituzioni politiche. È sovrano il popolo. Poi: adesso, non quando arrivassimo al punto di non ritorno, dobbiamo adottare tutte le pratiche per trasferire in materia economica il massimo di sovranità a un’entità europea eletta. Mi auguro che la crisi sia stata un tale choc per cui la sovranità economica si trasferisca dai singoli Paese alle istituzioni europee. Dopodiché vinceremo o perderemo le elezioni su scala europea.

l’Unità 9.9.12
Villa D’Este confidential, perché nasce la linea Monti-per-sempre
Imprese, banche e finanza rimuovono le proprie responsabilità nell’era Berlusconi e sperano di salvare interessi e privilegi con la tecnocrazia
Chi ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità? Non certo operai, precari e pensionati
Traspare un evidente fastidio verso la politica, i partiti, i sindacati. E il voto non serve, c’è Monti
di Rinaldo Gianola

Bisogna capirli. Sì, bisogna fare uno sforzo e comprendere le ragioni, almeno quelle più trasparenti, che spingono banchieri, industriali, manager e pure presentatrici e giornalisti c’è un parterre molto variegato a Villa D’Este a impegnarsi affinché Mario Monti resti alla guida del governo anche nella prossima legislatura. Sono gli stessi protagonisti dell’economia e della finanza che fino allo scorso anno, o poco più, proprio qui a Cernobbio erano pronti a scommettere ancora sulle promesse di Berlusconi e Tremonti, qualcuno di loro credeva alla storia dei «ristoranti pieni», della crisi già superata, dell’Italia che stava «meglio degli altri in Europa». A un certo punto le imprese si sono destate dal loro torpore, persino il Sole-24 Ore implorò a caratteri cubitali in prima pagina: «Fate presto». Ma dove eravate prima, che cosa avete combinato? Giocavate a golf?
LA MEMORIA DELLA BORGHESIA
Certo non si può pretendere. La borghesia italiana non ha mai avuto una memoria forte, né principi talmente radicati da renderli inattaccabili. Un giorno sta di qua, il giorno dopo di là. Un giorno pensa che Berlusconi sia l’erede di Einaudi e il motore della rivoluzione liberale, si affida a Bossi anche se è un po’ razzista, ma solo in piccole dosi e cosa volete che sia di fronte agli interessi del Nord. E poi, quando i nostri signori si accorgono che stiamo precipitando, implorano i tecnici, si affidano alle larghe intese, chiamano pure la sinistra e i sindacati perché tutti devono fare le loro parte. Adesso che hanno sperimentato Monti, preparato, serio, onesto e presentabile, non vogliono correre il rischio di rivedere Berlusconi o Tremonti. L’ex ministro dell’Economia a Villa D’Este annuncia la sua lista, «sto scrivendo il manifesto» e ipotizza che nella caduta del centro destra ci sia stata «un’autoregia, io la lettera alla Bce dell’agosto 2011 non l’ho mai chiesta..., la conosceva il Quirinale».
I signori del Workshop Ambrosetti hanno uno stile e una vocazione all’interesse personale o di categoria, di casta verrebbe da dire, che dovrebbero far riflettere. Il banchiere Enrico Cucchiani, successore di Passera in Intesa SanPaolo, vuole che rimanga Monti, ma non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello che ci sono le elezioni, magari gli italiani vorrebbero votare e scegliersi un altro candidato. Il presidente di Telecom, Franco Bernabè, reduce dagli straordinari risultati del gruppo, dichiara: «Bisogna mantenere l’agenda Monti, non ci può essere discontinuità, pena un passo indietro molto grave in termini di credibilità, di riforme strutturali e di recupero del nostro posto in Europa». Un altro telefonista, Paolo Bortoluzzo di Vodafone si spende generosamente per il «Monti-Bis, per portare avanti riforme importanti».
Non c’è nessuno che ipotizza la necessità di una svolta di politica economica, non ce n’è uno che offra una sponda, magari un riconoscimento alle forze politiche che sostengono Monti. Enrico Letta e Maria Paola Merloni, gli unici esponenti del Pd che si muovono sulla terrazza del lago, forse si interrogano sugli umori di questa platea che pensa soprattutto alle proprie tasche.
IL TENORE DI VITA
All’ora di pranzo, a un bel tavolo rotondo, mentre alcuni imprenditori gustano il rotolo di coniglio con i funghi, uno sussurra agli altri, conniventi, che è arrivata l’ora di abbassare il nostro tenore di vita «perché abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra delle nostre possibilità». Ma di chi sta parlando? Faccia vedere la dichiarazione dei redditi. Chi ha vissuto al di sopra delle sue possibilità in Italia? Forse gli operai o i pensionati hanno vissuto alla grande, hanno sperperato? Magari pensa ai dipendenti dell’Alcoa, dell’Ilva, ai cassintegrati della Fiat illusi da Sergio Marchionne che, per la cronaca, ha incassato 17 milioni di euro lo scorso anno, o ai 40 milioni di liquidazione di Alessandro Profumo da Unicredit? Non bisogna cadere nella facile demagogia. Stiamo ai fatti. Lavoratori, pensionati, precari e disoccupati non hanno certo vissuto al di sopra delle loro possibilità. La Banca d’Italia ha detto che il potere d’acquisto dei salari è praticamente fermo da quindici anni, la politica dei redditi del 1992-93 si è risolta in un impoverimento di operai, impiegati, pensionati. Negli ultimi vent’anni quote crescenti di Pil, in Italia e in Occidente, sono state trasferite dai salari a favore dei profitti e della rendita finanziaria. Se c’è qualcuno che ha vissuto fin troppo bene bisogna andare a cercarlo tra i partecipanti al Workshop Ambrosetti, tra i banchieri e i manager delle stock options miliardarie, tra gli immobiliaristi, gli speculatori finanziari e, certo, anche in un pezzo della politica e dell’amministrazione statale.
Bisognerebbe chiedere un parere all’economista Mario Deaglio, che accompagna la moglie, il ministro degli esodati Elsa Fornero, ma se la cava precisando che «mi occupo solo di questioni internazionali». Tutti vogliono Monti, dunque. Ma se si guarda in profondità alle motivazioni di questa scelta da parte di imprese, banche e finanza si individua non solo un apprezzamento per l’efficiente tecnocrazia dei prof, ma anche uno spirito di rivalsa verso la politica, una condanna definitiva dei partiti senza alcuna distinzione, quasi a volersi
autoassolvere dai disastri combinati in questi anni per scaricare sui soliti le famiglie, il lavoro dipendente, i giovani il costo della crisi.
È la solita storia, non cambia mai nulla. A Villa D’Este, anno dopo anno, si sentono le medesime litanie. Una volta quando Gianni Agnelli arrivava con l’elicottero e Carlo De Benedetti era in forma si potevano almeno scatenare fior di polemiche. Monti c’è sempre stato: fino allo scorso anno conduceva con Sergio Romano i lavori, ora fa il premier. Per il dottor Ambrosetti è come aver vinto alla lotteria. «Quest’anno dice l’uomo dei media Carlo Bruno ci sono 490 tra giornalisti e cameramen, se l’anno prossimo supero i 500 mi faccio dare un premio».
Il più in forma, come sempre, è l’ottantenne Simon Peres, presidente d’Israele. Si gusta un bicchiere di vino bianco sulla terrazza e osserva un’inquietante ragazza di colore sotto il flash di Chi, il settimale della Mondadori. «Quante foto hai scattato?» chiediamo al fotografo. «Ieri 800 scatti, oggi di più. Anche la figlia di Monti». Però.

Corriere 9.9.12
Quattro italiani su dieci per il governo tecnico
Italiani tentati dal governo tecnico, fredda la base Pdl, sì dal 46% del Pd
E un'altra «strana maggioranza» avrebbe più consensi di ognuno dei due poli
di Renato Mannheimer


Che cosa pensano gli italiani di un governo Monti bis? Quattro su dieci (il 37%) sono favorevoli. Il 68% dell'elettorato del Pdl vuole un governo politico, mentre il Pd è diviso in due.

Un Monti dopo Monti? Molti lo auspicano. Anzi, al Workshop Ambrosetti in corso a Cernobbio la larga maggioranza degli imprenditori presenti lo ha richiesto fortemente.
La natura del governo che si formerà dopo le elezioni è ormai un tema centrale della campagna elettorale, che è di fatto iniziata. Tutte le forze politiche in campo — e anche quelle che si apprestano a entrarvi — stanno valutando le alleanze e, al tempo stesso, impostando le strategie di comunicazione ritenute più efficaci e le tematiche su cui fare maggiormente leva.
Le proposte dei partiti e il giudizio degli elettori
I veri elementi discriminanti nelle proposte dei partiti saranno due, peraltro collegati tra loro: il grado di cesura verso il passato (per fronteggiare la concorrenza di Beppe Grillo da un lato e il pericolo rappresentato dall'astensione dall'altro) e, appunto, il livello di continuità e di supporto per l' «agenda Monti». Oltretutto, quest'ultimo è l'aspetto maggiormente sotto osservazione da parte dei vertici economici e finanziari del resto dell'Europa, che si interrogano sempre più di frequente sul dopo Monti, auspicando un proseguimento delle politiche (e forse anche dello stile) portato avanti dal Professore e temendo, invece, una «retromarcia» da parte dei vecchi partiti.
Ma cosa pensano gli italiani di un Monti bis? Pur essendo talvolta critici verso l'esecutivo, sono molti gli elettori che guardano con favore a una politica di continuità. Tanto che al quesito se sia meglio, a seguito delle prossime consultazioni, un esecutivo «politico» o un nuovo governo tecnico, magari guidato proprio da Mario Monti, quasi quattro su dieci (il 37 per cento) dichiarano di preferire una riedizione della gestione «tecnica».
Le divisioni per età e orientamento politico
Si tratta di un orientamento particolarmente diffuso tra i giovani sotto i 35 anni e tra i laureati, fra i quali raggiunge quasi la metà del campione. È naturalmente comprensibile che una percentuale lievemente maggiore di intervistati (il 46 per cento) opti invece per un governo «politico», spinti dall'appartenenza o dalla simpatia per questo o per quel partito o dall'insoddisfazione per la politica di rigore (atteggiamento questo inevitabilmente sempre più diffuso).
Questa predilezione per un governo politico è più frequente nelle regioni meridionali e varia ovviamente in relazione alla preferenze politiche. È infatti assai più diffusa nell'elettorato del Popolo della libertà, ove raggiunge il 68 per cento (ma anche qui il 27 per cento vuole un governo tecnico). Viceversa, il Partito democratico appare sostanzialmente spaccato in due tra le alternative proposte. Nell'Udc vi è, come era prevedibile, una maggioranza favorevole a un nuovo governo Monti.
Maggioranza trasversale per un elettore su tre
Nell'insieme è comunque significativo — e in qualche modo indice dell'avversità verso i partiti politici tradizionali — che così tanti arrivino ad auspicare la prosecuzione di fatto dell'esecutivo attuale. Questo orientamento è confermato anche dalle preferenze verso il tipo di maggioranza parlamentare che, nei desideri degli italiani, dovrebbe sostenere il futuro governo. Ancora una volta, molti optano per un esecutivo sostenuto dai soli partiti di centrosinistra (23 per cento) o di centrodestra (18 per cento). Ma una percentuale ancora maggiore di intervistati (32 per cento) dichiara di preferire una soluzione simile a quella attuale, vale a dire la «strana maggioranza» comprendente sia il Pd, sia il Pdl. Quest'ultima alternativa è indicata in particolare (36 per cento) dagli elettori che si dichiarano oggi indecisi su cosa votare (o, in certi casi, tentati dall'astensione): è a costoro, peraltro, che si deve anche il numero particolarmente alto di «non so» (28 per cento) rilevabile per questo quesito.
Ma la «strana» maggioranza è auspicata anche dalla maggioranza relativa degli elettori dell'Udc e trova comunque un consenso significativo tra i votanti per il Pd (31 per cento) e il Pdl (24 per cento). Insomma, l'attuale soluzione di governo tecnico e la direzione impressa da Mario Monti sembrano persuadere un'area vasta di cittadini, tale da poter condizionare significativamente l'esito delle prossime consultazioni.
L'opzione per un nuovo esecutivo composto di tecnici stimati in Europa, anziché di politici tradizionali, oltre a essere richiesto dalla leadership economica, è supportato da una quota consistente di elettorato.

Corriere 9.9.12
La possibilità di un bis del Professore divide il Pd
Bersani: lui presidente e io vice? È assurdo
Letta, Veltroni e Fassino vogliono l'agenda «tecnica» nella prossima legislatura
di Maria Teresa Meli


ROMA — L'eccitazione e la tensione per le primarie hanno fatto dimenticare ai dirigenti del Pd quello che per alcuni di loro è un assillo e per altri una speranza, cioè il tema del Monti bis. Ma la questione in questi ultimi giorni è tornata alla ribalta e, volenti o nolenti, i maggiorenti del Partito democratico devono farci i conti. E ora tra di loro serpeggia un ulteriore dubbio: finora il premier non ha dato mostra di avere ambizioni politiche per il futuro, ma se invece scendesse in qualche modo in campo, presentandosi magari come il possibile federatore di una nuova grande coalizione che porti a termine il risanamento avviato? Che cosa fare in quel caso?
Bersani continua a dire: «Noi siamo leali con Monti e Monti lo è con noi». Ma uno dei suoi colonnelli, Stefano Fassina, rivela che qualche dubbio c'è: «Ci sono pressioni fortissime per farlo scendere in campo da parte di uno schieramento di interessi che vuole lasciare i costi degli aggiustamenti economici sulle spalle dei lavoratori e coprire con il velo dell'agenda Monti queste scelte».
Intanto i due candidati del Pd alle primarie vanno avanti come se nulla fosse. «Monti premier e io suo vice? È un'assurdità», taglia corto Bersani di fronte alle indiscrezioni che circolano. E Renzi il suo pensiero non lo nasconde: «Monti ha rappresentato un pronto soccorso urgente, anche per responsabilità del Pd che non era pronto a governare, ma ora la situazione deve tornare nelle mani della politica, sennò non ha senso fare le elezioni».
Parlano così i due candidati, ma il Pd appare più che mai diviso su questo tema. E le divisioni maggiori riguardano proprio il variegato schieramento che sostiene Bersani. Letta, Veltroni e Fassino, per esempio, ritengono che occorra proseguire con l'agenda Monti anche nella prossima legislatura, nel caso in cui al Pd spetti il governo del Paese. Ma Fassina, Rosy Bindi, Franceschini, Enrico Rossi e Sergio Cofferati vogliono, seppure con modalità e toni differenti, un segno di discontinuità rispetto all'azione dell'attuale esecutivo. Dunque ci sono gli Orfini e i Fassina, i «giovani turchi», per intendersi, che dicono: «Dalla prossima legislatura ci sarà l'agenda Bersani». E c'è invece il vicesegretario Letta che afferma: «Come sempre Napolitano è nel giusto. Sarà il voto a scegliere il candidato premier, e Bersani, se otterrà un buon risultato a queste primarie, che sono primarie vere, ne uscirà rafforzatissimo in vista della contesa elettorale, e sarà lui il premier. L'agenda Monti, non il Monti bis, deve però andare avanti anche nella prossima legislatura». Su questo, secondo un altro esponente del Pd, Paolo Gentiloni, non c'è dubbio alcuno: «L'agenda Monti indiscutibilmente deve proseguire anche nella prossima legislatura. E credo che diventerà uno dei temi di queste primarie».
Ma c'è anche chi, dentro il Partito democratico, non nasconde che l'ipotesi di affidare all'attuale premier il governo della prossima legislatura, sia una strada percorribile. Spiega il senatore Giorgio Tonini: «C'è un solo modo per evitare il Monti bis: che Bersani si candidi nel segno dell'agenda Monti, che va certo sviluppata, ma non rinnegata. Ad esempio un suo deciso altolà a Vendola sul referendum anti Fornero sarebbe quanto mai opportuno. In caso contrario il bipolarismo diventa la scelta tra la padella e la brace. E a quel punto il Monti bis non lo ferma più nessuno». Ragionamenti analoghi fa un altro senatore del Pd, Stefano Ceccanti: «Bersani deve essere in grado di dare rassicurazioni ai mercati e all'estero. E per farlo deve svincolarsi da Vendola che ha detto sì al referendum anti Fornero, altrimenti sarà praticamente inevitabile il Monti bis». Anche Beppe Fioroni ritiene che per il Pd, per i moderati e per l'area liberal-democratica, Monti sia un punto di riferimento dal quale non si può prescindere. Lo dirà al convegno che sta preparando per sabato prossimo e intanto spiega: «Monti ha fatto un lavoro importantissimo. È impensabile che non sia fondamentale anche per il dopo». Bersani e Renzi sono avvertiti.

l’Unità 9.9.12
Anna Finocchiaro: «La grande coalizione è la scelta dei perdenti»
 «Il consenso internazionale di Monti ci fa piacere, ma il voto di aprile deve vedere la nascita di un governo politico»
Le primarie si faranno, ma se ci sarà il proporzionale secco il Pd candidi il suo leader
Se la legge elettorale non cambierà il Pd farà le liste con una consultazione e non nel chiuso delle segreterie
di Federica Fantozzi


Niente Monti-bis, a Palazzo Chigi andrà «un politico». Niente grande coalizione che «è l’ipotesi dei perdenti, il mestiere del Pd come primo partito è governare il Paese». Anna Finocchiaro, capogruppo dei Democratici a Palazzo Madama, fa il punto della situazione. Garantendo che, se non si riuscisse a cambiare la «devastante» legge elettorale, il Pd sceglierebbe i candidati al Parlamento «attraverso una consultazione democratica e non nel chiuso delle segreterie».
Quanto al dibattito sulle primarie, Finocchiaro avvisa: «Si faranno, il treno è partito». Ma sull’esito non è ininfluente la partita della riforma del Porcellum: «Con il proporzionale secco e senza le coalizioni, io credo che il Pd dovrebbe candidare premier il proprio segretario».
Prodi, Casini, il parterre di Cernobbio, i partner internazionali. Dopo il successo di Draghi e la svolta nella politica della Bce, è partita la rincorsa al Monti-bis. Andrà così nel 2013?
 «Non può che farmi piacere vedere che Monti riscuote questo consenso. Una scelta che abbiamo sostenuto con generosità in un momento tragico per l’Italia, quando per noi sarebbe stato facile vincere le elezioni, adesso è apprezzata non solo da soggetti politici ma da ampi settori imprenditoriali».
E dagli elettori del Pd è apprezzata?
 «Ora come allora penso che le elezioni di aprile debbano vedere la nascita di un governo politico. Monti è stata la scelta giusta, ma quella che deve seguire è una fase politica. E noi, come partito maggiore, dobbiamo imprimere alla seconda fase quella della crescita del Paese la forza, le specificità e le priorità del Pd».
Insomma, a Palazzo Chigi andrà un politico e non un tecnico?
 «Sì, deve andarci un politico. Questa è la mia opinione. Certo, capisco le difficoltà del Pdl, che annaspa in mezzo al ritorno di Berlusconi. Ma per quanto ci riguarda, il mestiere del primo partito è governare il Paese».
Con quale legge elettorale si potrà realizzare questa road map? I maligni sospettano che ci sia un lavorio trasversale dietro le quinte per arrivare a una grande coalizione.
 «La grande coalizione è l’ipotesi dei perdenti. Noi pensiamo di vincere con uno schieramento che abbia i numeri e la coesione politica per governare in maniera stabile».
Vede all’orizzonte un’intesa sulla legge elettorale?
 «Al momento è tutto in stallo. La ri-discesa in campo di Berlusconi ha imballato tutto, come dimostra anche l’atteggiamento del Pdl sui provvedimenti anti-corruzione. Cicchitto dice che il Porcellum va cambiato perché è impopolare. Io dico che va cambiato perché è un orrore».
Lei non crede che se la legge elettorale rimane questa la rabbia degli elettori sarà rivolta a tutti i partiti? Che la mancata riforma sarà un problema anche per il Pd?
 «Io credo che sarà un problema innanzitutto per il Paese. E ricordo che noi, a differenza di Pdl e Lega, il Porcellum l’abbiamo avversato e non votato. Dopodiché ci saranno partiti responsabili, come il nostro: anticiperemo le scelte elettorali con una consultazione democratica per la composizione delle liste».
Primarie per i candidati in Parlamento? «Vedremo lo strumento. Di certo non verranno scelti nel chiuso delle segreterie ma in modo trasparente».
Intanto ci sono le date per le primarie nazionali a doppio turno. 25 novembre e 2 dicembre. Significa che si faranno al 100%?
 «Si faranno, il treno è partito, gli impegni sono stati onorati. Poi certo, se la legge elettorale cambierà e ci sarà un proporzionale secco, mi chiedo se il Pd non debba allora candidare premier il proprio segretario. È la mia opinione personale. Ma non c’è ragione al mondo per cui non debba farlo».
E’ un obiezione tecnicamente valida, ma, come dice lei, il treno delle primarie è già partito. Mica si può dire ai cittadini “abbiamo scherzato”. Se vince Renzi allora che si fa?
 «E se vince Vendola? Queste primarie si fanno per il candidato premier della coalizione. Ipotizzando che una coalizione esista. Tutto questo si vedrà. Ma senza la certezza della legge elettorale non ci sono gli strumenti per metterle a punto. Ovviamente mi auguro che entro il 25 novembre avremo tutti gli strumenti e i tasselli che ci mancano. Poi, dopo le elezioni, chi sarà il segretario lo deciderà il congresso del partito». Casini diluisce l’Udc nella società civile, ruba a Berlusconi il nome «Italia» e prepara una sorta di Lista Monti corteggiando ministri in carica e auspicando il bis del Professore. Questo nuoce ai buoni rapporti con il Pd?
 «E perché mai? Casini vuole Monti? Bene. È la posizione, oggi, del segretario dell’Udc. Ma dopo le elezioni, se il Pd sarà la principale forza di una coalizione vincente che comprenda anche l’Udc, io credo che i ragionamenti a quel punto saranno altri».

l’Unità 9.9.12
David Sassoli, presidente degli europarlamentari Pd: «Solo se il partito è unito sarà credibile nel Paese»
 «Le primarie? Col doppio turno. Ma cessi l’autismo politico di chi ha bisogno del nemico per esistere»
 «Salotti e circoli imprenditoriali hanno paura di un partito che parla di uguaglianza»
 «Il dopo Monti? In democrazia chi governa lo decidono gli elettori Noi siamo pronti»
di Marco Mongiello


Monti ha ottenuto «risultati fondamentali» ma ora bisogna andare alle elezioni perché «in democrazia chi governa lo decidono i cittadini». Sul futuro David Sassoli, presidente degli europarlamentari del Pd, è ottimista ma avverte: ora la posta in gioco è «la tenuta del Pd e il governo del Paese». Per questo, afferma, le primarie vanno fatte con il doppio turno e deve finire «l’autismo politico» di chi come Matteo Renzi «ha bisogno del nemico per esistere».
Cosa pensa delle richieste di alcuni di un Monti bis?
 «Vede, noi abbiamo sostenuto il governo Monti e dobbiamo difendere quella scelta. È stato un governo importante, ma condizionato da una maggioranza parlamentare di destra che ha cercato di limitarne la funzione e l’iniziativa. Basti pensare che senza l’opposizione del Pdl la legge anti-corruzione sarebbe già passata. Oppure, c’è qualcuno che pensa che nel frattempo Berlusconi sia diventato uno statista? Nonostante tutto il governo ha ottenuto risultati fondamentali. Il suo merito, in un certo senso storico, è di aver consentito all’Italia, nel momento della burrasca, tramite alcune riforme, di non chiedere prestiti consentendoci di avere ancora voce in Europa. Lo capiscono tutti che se si chiedono prestiti non si conta più niente... Ora però andiamo alle elezioni e in democrazia chi governa lo decidono i cittadini».
Il Pd è pronto a questa nuova stagione?
 «Noi abbiamo il dovere di essere ottimisti. Si apre la fase più affascinante della vita del Pd, quella che ci dirà, come io credo, che siamo una risorsa del Paese. Io sono entrato nel Pd nel 2009, non provenendo né dai Ds né dalla Margherita. Ci sono entrato perché era a rischio il progetto del Pd, bruciato dalle divisioni interne, e volevo dare il mio contributo. Dopo 3 anni, con lo sforzo e il lavoro di tutti, il Pd si ritrova unito ed è in grado di proporsi alla guida del Paese. Le sembra poco? Dimentichiamo troppo spesso come eravamo e facilmente cadiamo nella trappola per cui la politica è sempre all’anno zero».
Cosa pensa della «discesa in camper» di Matteo Renzi?
 «La stagione che si apre ha due poste in gioco: la tenuta del Pd e il governo del Paese. Il Pd non si è mai ritrovato così unito. Se non si è capaci di tenere unito il proprio partito come sarà possibile lavorare con i partiti che saranno con noi al governo e tenere insieme i gruppi parlamentari della maggioranza? L’unità del partito non è un esercizio retorico, ma una condizione politica indispensabile per avanzare al paese una proposta autorevole e flessibile nel confronto con gli altri. Il tempo dell’autismo politico deve finire. Matteo si pone, invece, in un confine singolare per cui ha bisogno del nemico per esistere. In fondo è lo schema su cui l’Italia ha pagato un caro prezzo nell’età berlusconiana. Oggi il Pd non ha bisogno di separati in casa, ma di un confronto anche duro sulle proposte per il paese e di una sintesi all’altezza delle sfide. Ora vanno di moda i rottamatori, ma poi ci si accorgerà che alcuni di loro lavorano dagli sfasciacarrozze e non faranno più notizia. Giovani contro vecchi è lo sport tipico di chi non ha tante idee. Diceva bene il vecchio Fanfani: “Se uno è bischero a 18 anni ci sono buone possibilità che lo sia anche a 70”. Contro il Pd è stata lanciata un’Opa ostile e cercheranno in tutti i modi di dividerci per evitare che il Pd sia il motore del nuovo governo di centrosinistra».
Chi è che ha interesse a dividere il Pd?
 «Salotti e circoli imprenditoriali hanno paura di un partito che parla di giustizia e uguaglianza, perché da noi il capitalismo è protetto e in un certo senso fuori mercato. Non è un caso che si cerchi di usare in modo spregiudicato la politica, che alcuni grandi gruppi economico-finanziari posseggano giornali e tv, che la politica sia sempre la causa di tutti i mali. D’altronde, chi aizza il populismo nel nostro paese? Abbiamo parlato per anni della natura del potere berlusconiano, ma questo è il paese del conflitto d’interesse diffuso e continuato che non ha eguali nell’Unione europea. Se fosse libero da impegni mi piacerebbe organizzare un seminario sul capitalismo italiano e invitare Monti a dirci cosa ne pensa. Sarebbe sorprendente, non ho dubbi».
Le primarie vanno fatte? E in che modo?
 «Lo scorso anno alcuni colleghi francesi del Pse mi chiesero di spiegare come le organizziamo. Subito dopo si alzò uno e disse che non potevano svolgersi senza il doppio turno, perché chi vince deve essere pienamente legittimato. Dopo le esperienze di Napoli, Milano, Genova e soprattutto Palermo credo che il doppio turno sia indispensabile».

Corriere 9.9.12
Democratici, il nodo doppio turno
Renzi a Bersani: non avere paura di chi ti dice le cose in faccia
di A. F.


MILANO — Niente di deciso. Nel Pd il dibattito su come prepararsi alle primarie interne è ancora tutto aperto. Tanti gli interrogativi sul tavolo. A cominciare da quello sulla data. Sono due quelle individuate , ritenute molto probabili anche in virtù di ponti e festività: il 25 novembre e il 2 dicembre.
Tutto sta, dicono i ben informati, nel capire se l'assemblea democratica, prevista per fine settembre, deciderà per un doppio turno o meno. E qui le ipotesi si sprecano. Perché se da un lato il segretario Pd vorrebbe avere delle primarie che siano quanto più aperte possibili, dall'altro c'è chi sostiene che il doppio turno sarebbe un'iniziativa che aiuterebbe proprio Bersani nella sfida contro il suo principale «competitor», Matteo Renzi. C'è ancora in ballo, tra l'altro, l'ipotesi avanzata da Maurizio Migliavacca di un doppio turno atipico: non più il 50 più uno, bensì il 40 più uno dei consensi. Una norma considerata da subito «anti Renzi». A torto, forse. Visto che il sindaco di Firenze, a febbraio 2009, ha vinto quelle di Firenze proprio con il 40,52% dei voti. E poi va detto che, laddove passasse la norma Migliavacca, potrebbe sempre dichiararsi «vittima» di un fuoco amico, e sperare di convogliare su di lui i voti degli indecisi. Scenari, ipotesi. Ai quali aggiungere anche i timori di Bersani che con il doppio turno si aprirebbe una porta ai malpancisti interni, che potrebbero decidere di scendere in campo.
Da più parti, intanto si invocano regole certe di svolgimento della competizione. A cominciare dall'ipotesi di creare un albo degli elettori, caldeggiata anche da Massimo D'Alema in un'intervista al Corriere. A chiederlo, ieri, è stato il segretario dello Sdi Riccardo Nencini: «Se le primarie devono esserci, voglio regole certe. Serve un albo degli elettori». E Giorgio Merlo aggiunge: «Resta un mistero perché non si voglia fissare alcuna regola». Ma più che all'albo stile Usa, si starebbe pensando a una via di mezzo: una tesserina da distribuire all'atto del voto, previa registrazione con nome e cognome, in modo da formare una mailing list degli elettori del centrosinistra.
Intanto ieri i «giovani turchi», il gruppo formato dai pd Matteo Orfini, Stefano Fassina e Francesco Verducci, hanno fatto il pienone alla festa nazionale del partito a Reggio Emilia. Dove hanno attaccato Renzi: «Sta facendo una battaglia legittima, ma poco innovativa. La sua proposta non porta da nessuna parte. È vecchia». E Andrea Orlando: «Sono per l'albo e per il doppio turno. Serve che chi vinca abbia il massimo della legittimazione». Chi invece ieri ha difeso il sindaco di Firenze è stato Marco Follini, senatore del Pd: «Non è un eretico, non va demonizzato. Anche se io non lo voto».
E ieri è stato anche il giorno dell'esordio di Renzi nella sua città, Firenze, da candidato alle primarie. Il sindaco è intervenuto in serata alla Festa del Pd: oltre 1.500 le persone accorse ad ascoltarlo mentre si faceva intervistare dalla giornalista di La7 Gaia Tortora. E non sono mancati i momenti di tensione. Come quando una cinquantina di dipendenti del Comune sono comparsi «armati» di fischietti per protestare contro il ritardo nel pagamento del salario. O come quando qualcuno, dal pubblico, gli ha contestato il viaggio ad Arcore per incontrare Berlusconi. Viaggio che lui rivendica: «L'ho fatto alla luce del sole. E, da sindaco, lo rifarei». Poi ha spiegato: «Non ho la più pallida idea di come saranno le regole delle primarie, ma mi fido di Bersani... Al quale invece dico: non aver paura di noi, di chi dice le cose in faccia; ma di chi te le dice dietro». Ha poi replicato ai giovani turchi : «Parlano, parlano, però poi... nessuno di loro si è candidato». Quanto alla rottamazione, «se loro vanno a casa noi non lo diremo più». E ha concluso rivolto al pubblico: «Vi devo ringraziare. Se fosse stato per i miei dirigenti, non avrei fatto il sindaco»
A. F.

La Stampa 9.9.12
Pd, anche i giovani bersaniani alzano la voce
Pierluigi Bersani incalzato anche da Orfini, Fassina, Orlando
di Carlo Bertini


 «Il problema ormai è il terreno di gioco e se si innesca la dinamica di una partita tra il vecchio e il nuovo rischiamo grosso», ragiona uno dei dirigenti del Pd, che pure proviene dalle fila dei Ds e che quindi certo non si augura una vittoria di Renzi. Ecco alla vigilia dell’intervento «spartiacque» del segretario, che proverà a parlare il meno possibile del partito (guarda caso niente big sul palco, ma solo decine di volontari) e il più possibile di governo del paese ( «abbiamo le carte in regola per governarlo, non dobbiamo essere legittimati»), la preoccupazione di come finirà il primo giro di boa, (di più: la paura che il Pd si spacchi come una mela) qui alla festa è un sentimento palpabile. Ancor più dell’effetto urticante che può avere il tam tam su un Monti bis come approdo inevitabile, liquidato dai bersaniani con un «se ne facciano una ragione, chi decide non è certo la platea di Cernobbio...».
E se Bersani oggi darà il via alla campagna per le primarie con un discorso molto di sinistra e sui valori per differenziarsi da Renzi, in questa sfida per la leadership, si sa, gioca la carta dell’usato sicuro. E a spronargli la carica ci pensano i «giovani turchi», quarantenni bersaniani doc, da Orfini a Fassina a Orlando, passando per decine di amministratori e dirigenti locali, quasi tutti ex diessini che si sentono soffocati dal peso di una nomenklatura ingombrante. Così giovani non sono e lo dicono, come fa notare il vicesindaco di Vicenza, Alessandra Moretti: «Ci accusano di voler uccidere i nostri padri, ma i padri si uccidono a vent’anni, a quaranta si è padri, madri e figli insieme. Il rinnovamento significa valorizzare le migliori esperienze sul campo e non si fa solo in Parlamento». Pugnaci e irriverenti, dunque, antagonisti di Renzi, ma non della rottamazione. Forti di una ramificazione capillare sul territorio e riuniti in assemblea in una sala poco distante dalla festa, per spronare il leader a buttare a mare la zavorra della vecchia guardia come unica tattica per vincere una regata contro vento.
Il loro nemico numero uno è la Bindi, simbolo di quei politici consumati che non ci stanno a farsi da parte, la quale guarda caso arriva alla festa per parlare sul palco dell’eredità di Dossetti con Castagnetti e Cofferati e non perde l’attimo per una battuta delle sue. Cinquecento metri più in là, l’ex braccio destro di D’Alema, Orfini, infiamma i «turchi» dicendo che «non possiamo ripresentarci con le stesse facce perché se i precari sono in queste condizioni, la colpa non è solo di Berlusconi ma anche delle politiche passate del centrosinistra. Certo ci vuole rispetto, ma non è una mancanza di rispetto più grave pensare che l’unico modo di dare un contributo sia fare il ministro? O che averlo fatto un paio di volte dà il diritto divino a farlo sempre? Una visione lunare!». Lei, Rosy, prima di salire sul palco per un dibattito su Dossetti, sfodera un’occhiata che è tutta un programma: «Io sono per il ritorno delle preferenze e spero di candidarmi nella stessa lista di Orfini e di altri giovani come la Picierno e Gozi. E voglio vedere come va a finire, ecco...»
Ma al di là della questione anagrafica, «è ridicolo ridurre le primarie ad una scelta generazionale», è sui contenuti che gli affondi dei «turchi» lasciano il segno. Uno dei loro leader, Stefano Fassina, comincia le danze con un «no alla richiesta per l’Italia di aiuti del fondo salva-stati» e poi chiede: «Ma cosa è questa agenda Monti, dove si compra? Che vuol dire? Il rigore? Dopo l’agenda Monti ci sarà l’agenda Bersani, che significa primato dell’economia reale e redistribuzione della ricchezza». Con una botta a Renzi, «perché si illude chi pensa che con operazioni di marketing si portino da noi quelli che hanno votato dall’altra parte».

Repubblica 9.9.12
I giovani anti-Renzi rilanciano “Con Bersani ministri quarantenni”
Oggi il segretario sul palco senza big: “Pd pronto a governare”
Per i “giovani turchi” sostenitori di Bersani, il segretario Pd “saprebbe fare molto meglio di Monti”
di Giovanna Casadio


REGGIO EMILIA — «Se la domanda è: voi saprete fare meglio di Monti? La risposta è: sì, Bersani saprebbe fare molto, ma molto, ma molto meglio di Monti». I “giovani turchi” — trenta/quarantenni autoconvocati nello spazio colorato dell’Auditorium Children — sono bersaniani a oltranza. Però a condizione di liquidare la “foto di famiglia” dei vecchi big e di sapere che «con tutto il riconoscimento che va dato a Monti, il Paese ha bisogno di una svolta progressista». E nessun leader progressista — chiariscono subito — direbbe mai «con Marchionne senza se e senza ma», come ha fatto Matteo Renzi. Che risponde a stretto giro: «I giovani turchi parlano, parlano, parlano, però poi nessuno di loro si è candidato».
E proprio a Renzi, lo sfidante alle primarie — che tra l’altro ha negato di voler offrire la premiership a Monti in caso di sua vittoria — rubano lo slogan della “rottamazione” dei leader storici da D’Alema a Veltroni, ma lo declinano “a sinistra”, in un discorso filo-Bersani, contro il neo liberismo renziano, contro l’agenda Monti ma anche contro le politiche passate del centrosinistra. «Dov’è che si compra questa agenda?» ironizza Stefano Fassina che introduce l’incontro, platea affollata di amministratori “t/q”, e anche di “osservatori” delle correnti del partito. Per il responsabile economico del Pd, la risposta è semplice: «Se agenda Monti significa rigore, allora potrebbe essere l’agenda Prodi, Amato, D’Alema. In 20 anni non abbiamo fatto altro che risanamento di finanza pubblica. Serve un’agenda Bersani». Serve «perché dopo l’agenda Monti non ci sarà l’agenda Monti», rincara Matteo Orfini. «Chi vuole il Monti bis, vuole continuare a caricare sulle spalle di chi lavora e ha meno possibilità, i costi dell’aggiustamento», fa eco Fassina. Subito scatenando i full Monti del partito. «L’agenda Bersani contro l’Agenda Monti? Non mi pare una buona idea per il Pd», twitta Paolo Gentiloni.
I “giovani turchi” ritengono necessario cambiare il terreno di gioco, far capire che non è irrispettoso dire che i soliti noti devono farsi da parte, casomai — afferma Orfini — «irrispettoso è pensare di dovere fare i ministri per diritto divino». Del resto, «se a un precario gli riproponiamo i leader di vent’anni fa o le politiche renziane che sono quelle di vent’anni fa — attacca Orfini — se non ci mena, è un miracolo: se i precari stanno in queste condizioni, la colpa non è solo di Berlusconi, ma delle politiche passate del centrosinistra». Perciò, anche se vecchi/giovani non è — riconoscono — una categoria della politica, «questo è il tempo delle generazioni rappresentate in questa sala» aggiunge Alessandra Moretti, vice sindaco di Vicenza. «Ci accusano di volere uccidere i padri, ma noi abbiamo quarant’anni e siamo padri e madri, a quarant’anni si governa». S’entusiasma la platea. Per Bersani è un formidabile assist. Un effetto lo ottengono subito, plastico, visibile. Nel comizio che chiude oggi la Festa nazionale al Campovolo, sul palco non ci saranno i vecchi big. Niente “foto di famiglia”, bensì i volontari e gli amministratori di queste terre colpite dal terremoto. Per marcare che il rinnovamento ci sarà. Farà, Bersani, un appello all’unità affinché l’Italia esca dalle secche, ma con una rivendicazione precisa: «Il Pd ha tutte le carte in regola per governare il Paese». Ricetta progressista quindi, e appello al “popolo democratico”. Ormai il bivio è evidente — riassume il governatore della Toscana, Enrico Rossi — «o vince, e bene, Bersani o ci tocca un Monti bis». Renzi? Afferma di non credere ai sondaggi che lo danno in testa. Intanto al segretario è stata inviata una bella lettera dalla giovane responsabile delle donne emiliane, Lucia Bongarzone, nella quale la «generazione che non può derogare», schiacciata dal precariato, chiede un rinnovamento vero.

Repubblica 9.9.12
L’ex presidente del Consiglio alla festa di Terni: in democrazia il capo di un esecutivo è il leader del partito più votato
D’Alema boccia il ritorno dei tecnici “Se Pier Luigi vince farà lui il premier”


TERNI — Casini, Prodi, Renzi, persino una fetta del Pd chiede un Monti-bis. Ma non D’Alema. Perché «il governo tecnico è fondamentale, affronta l’emergenza e ci porta fuori dal disastro di Berlusconi, ma dopo ci vuole il centrosinistra». Venerdì sera. Massimo D’Alema a Terni parla davanti a cinquecento persone, moltissime in piedi, alla festa del Pd dedicata alla Pubblica amministrazione. E smonta pezzo a pezzo la suggestione di un prolungamento della grande coalizione dopo il 2013. Porta chiusa a Monti e pure alla sua “agenda”: «Quando sento qualcuno dire che dobbiamo continuare anche nella prossima legislatura così, con un governo di unità nazionale, perché “deve rimanere Monti” allora io mi chiedo: dobbiamo ancora tenere Berlusconi in maggioranza? Ci rendiamo conto di quali danni, malgrado Monti, abbia prodotto per il paese? Monti la patrimoniale non l’ha potuta fare, la legge sulla corruzione non l’ha potuta fare». Scartato il Professore, a palazzo Chigi è «logico e naturale» che vada Bersani. «Se il Pd vincerà le elezioni e se Bersani vincerà le primarie, sarà lui a indicare su che basi si formerà il governo del paese». In democrazia si fa così: «È prassi in tutti i paesi democratici che il leader del partito che ha più voti venga indicato come presidente del consiglio incaricato. La caratteristica propria di tutte le democrazie europee, anche dove c’è la proporzionale, è che il capo del governo, è il leader del partito che ha più voti: è un principio di civiltà, è la democrazia».
Dunque nel futuro c’è un governo con il Pd al centro, alleato con Vendola e il polo moderato. Il presidente del Copasir non teme «l’effetto caravanserraglio» della vecchia Unione prodiana. Anche per «la responsabilità dei protagonisti». «Conosco Vendola da quando era un ragazzino. Io ero segretario della Fgci e lui mi contestava già allora da sinistra. Lo stimo e c’è una differenza fra le cose che dice e quelle che fa: noi per esempio governiamo insieme a Sel e l’Udc tutta la Puglia. A volte l’Udc sostiene Vendola persino più di quanto lo sosteniamo noi!».
Quanto a Casini «anche lui è una persona ragionevole. Non avremmo cacciato Berlusconi senza la sua collaborazione». In ogni caso la coalizione tra progressisti e moderati per D’Alema è inevitabile. Facendo ridere la platea, il presidente del Copasir ricorda un aneddoto di gioventù: «Anche io preferirei che governassimo da soli, anzi se proprio dovessi scegliere prenderei solo una parte del Pd, ma non si può. Da giovane funzionario a Pisa il Pci mi mandò a spiegare il compromesso storico nella frazione di Stibbio. Dopo lo “spiegone” sulla necessità di unirsi alle masse cattoliche perché “non basta il 51% per cento”, alla fine mi guardavano tutti perplessi e il segretario mi disse: “Compagno D’Alema, noi a Stibbio si ha l’82 per cento. Vi basta o ci dobbiamo compromette’ co’ qualcuno? ” Ma l’Italia di oggi non è Stibbio del ‘76». Ma deve essere una coalizione credibile, «altrimenti altro che tecnici, la prossima volta arriveranno i colonnelli. Di gente che va al governo e poi fa il corteo contro il governo a cui partecipa non ne vogliamo più». (f.bei.)

il Fatto 9.9.12
Rampicanti
Francesco Boccia, vita e miracoli di un tele-gaffeur pidino
di Antonio Massari


Guarda qua, un morto che cammina. In tre anni 12 tweet e solo 7 follower e da oggi si scatena. Fai e fate ridere... Vai, vai a lavorare". È la risposta di Francesco Boccia, su twitter, a @stefanomarty che lo contesta solo con un elenco di dati economici. Ad altri riserva l'epiteto di "coniglio" o, nella migliore delle ipotesi, di seguace del coniglio Marco Travaglio. Eppure, negli studi di Piazzapulita, accusa Beppe Grillo di usare toni aggressivi. E se Roberto D’Agosti-no gli chiede conto dei rapporti tra Massimo D'Alema e Luigi Bisignani – dal tenore politico e non penalmente rilevanti – glissa e lascia scivolare l'argomento. È dura interpretare il “volto nuovo” del sempre più vecchio Pd: Francesco Boccia è negli studi di Bersaglio Mobile, dove discute di trattativa Stato-mafia, sostenendo che le indagini palermitane siano “un'inchiesta sull'inchiesta”. Ma è poi così “nuovo” il volto del 44enne Francesco Boccia, pugliese nativo di Bisceglie, “nominato” parlamentare dopo una serie d'insuccessi elettorali? A ben guardare, l'economista Boccia è ben più abile nel farsi nominare che nel conquistare consensi. Riportiamo il curriculum dal suo sito web: "Laureato in Scienze politiche a Bari, master MBA alla Bocconi, ricercatore per quattro alla London School of Economics, Visiting Professor alla University of Illinois, Chicago, nel 2002. Professore di discipline economiche presso l’Università Carlo Cattaneo di Castellanza. Dal 1998 al 2007, Centro di Ricerca per lo Sviluppo del Territorio. Dal 2008 è in aspettativa per l’attività parlamentare. Dal novembre 2009, componente dell'Ufficio di Presidenza del Gruppo Pd alla Camera e Coordinatore delle Commissioni economiche". Insomma: un'attività frenetica.
Ma quando nel 2004 fu nominato assessore per l'economia, nel comune di Bari, in tanti si chiesero: dov'era Francesco Boccia durante la campagna elettorale del neosindaco Michele Emiliano? Non si ricordano apporti fondamentali, durante la corsa di Emiliano alla poltrona di primo cittadino, ma si rammenta la sua grande vicinanza a Enrico Letta, ad Arturo Parisi, all'ex ministro Giulio Santagata e all'ex premier Romano Prodi.
NON C'È traccia, invece, d'interventi memorabili nella gestione delle casse comunali: per realizzare qualcosa, ci vuole del tempo, ma Boccia – che si vanta di aver cambiato 14 appartamenti in 20 anni di vita in giro per il mondo – è sempre in corsa verso un nuovo obiettivo. Nel municipio barese, ottiene l'assunzione di tre collaboratori – li chiamavano i "Boccia boys" – uno dei quali, Francesco Rana, pochi mesi fa ha traslocato al ministero della Semplificazione normativa: è entrato nello staff dell'ex ministro leghista Roberto Calderoli. Neanche un anno da assessore e si cimenta con la sua prima competizione elettorale: ambisce al posto di governatore. Sfida Nichi Vendola nelle primarie, dovrebbe essere una passeggiata, visto che è appoggiato ufficialmente dall'intero centrosinistra. Invece riesce nell'impresa di perdere: segno che, sebbene amato dai vertici, non risulta gradito alla base. Bocciato dalle primarie pugliesi, nel 2006 lascia il suo ruolo di assessore e vola a Palazzo Chigi, nominato consulente, con chiamata diretta del premier Prodi, nel dipartimento per l'Economia. A nomina segue nomina: nel 2008 viene eletto tra i deputati del Pd e, considerato l'attuale sistema elettorale, non possiamo considerarla una preferenza conquistata sul campo. Nel parlamento più inattivo della storia repubblicana, comunque, vanta un'alta presenza, l'82 per cento delle sedute, e dice di preferire i panini alle linguine della buvette. Per conto del governo si occupa di risanare il dissesto finanziario di Taranto, impresa che definisce come la "più esaltante" della sua carriera, e anche la sua vita sentimentale è strettamente legata alla politica: la sua compagna “storica” è Benedetta Rizzo, organizzatrice di VeDrò, l'associazione targata Enrico Letta, dalla quale ha avuto due figli. Poi nove mesi fa sposa Nunzia De Girolamo, parlamentare del Pdl, dalla quale ha avuto una figlia. E nel 2010 ritenta il brivido del consenso reale: riprova a conquistare la Regione Puglia. Vendola lo lascia al palo, Boccia ottiene il 27 per cento, segno che gli elettori lo snobbano mentre i capi partito, invece, lo stimano. Praticamente: Boccia è il ritratto di un corto circuito. Quindi incarna con naturalezza il "volto nuovo" del vecchio partito. Desertificate le piazze reali, impazza nelle piazze televisive, mentre in quelle virtuali può gestire il suo spazio da sé. La regola è semplice: se non si è “conigli”, bisogna dargli sempre ragione.

Corriere 9.9.12
E Vendola deposita i quesiti sull'articolo 18


Dopo le discussioni sui matrimoni tra omosessuali, un altro tema rischia di mettere alla prova l'alleanza tra il Pd e Nichi Vendola. Il leader di Sel, martedì prossimo, depositerà in Cassazione i quesiti referendari sul lavoro contro «la vergogna dello sfregio dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e dell'articolo 8». Lo ha ribadito ieri il governatore della Puglia a Fermo, dove è intervenuto al «ControCernobbio», il forum promosso dalla campagna «Sbilanciamoci». La revisione dell'articolo 18 è il centro della riforma del ministro Elsa Fornero (l'articolo 8 del contratto nazionale era stato cancellato dall'ultimo governo Berlusconi). La mossa di Vendola, quindi, traccia un solco ancora più profondo tra Sel e il governo Monti. Governo che, invece, è sostenuto da quel Pd che vuole allearsi con Sel alle prossime elezioni. Il primo commento sulla presa di posizione di Nichi Vendola arriva da Matteo Renzi. «È evidente» che vuole fare del lavoro «un tema ideologico», è l'accusa lanciata ieri dal sindaco di Firenze alla festa del Pd nel capoluogo toscano. Partito democratico a parte, dietro i due referendum sul lavoro sembra essersi ricompattata tutta la sinistra italiana. Martedì davanti alla Cassazione si presenteranno anche Antonio Di Pietro, il segretario della Fiom Maurizio Landini (e Stefano Rodotà). L'idea dei due referendum è dell'Idv, che li presentò all'inizio di agosto (assieme ad altri due contro la Casta: abolizione della diaria dei parlamentari e abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti). I due quesiti sul lavoro avevano suscitato l'interesse, per dirla con Di Pietro, di «tanti altri esponenti della politica, della cultura e del mondo sindacale». Tanto che martedì torneranno in Cassazione con un nuovo comitato promotore allargato.

il Fatto 9.9.12
Le primarie Pd si faranno a novembre

Il Pd farà le primarie entro novembre. A confermarlo è stato Nico Stumpo, responsabile organizzazione del partito, nel suo intervento alla festa nazionale di Reggio Emilia. “Le primarie si faranno entro novembre - ha detto - e saranno aperte”. Intanto ieri, i trenta-quarantenni del Pd hanno sfilato a Reggio Emilia per ricordare che il tema del ricambio generazionale non è un’esclusiva di Matteo Renzi. Ma che stanno con Bersani senza se e senza ma. I giovani turchi chiedono di non essere chiamati così e di non essere definiti corrente. Stefano Fassina, Andrea Orlando, Matteo Orfini si sono riuniti a Reggio Emilia (ma non negli spazi della festa) per schierare al fianco del segretario una pattuglia giovane, non rottamatrice e convintamente socialdemocratica: presentano le loro proposte, chiedono spazio nel partito, non si struggono per Monti. Ma stanno dalla parte di Bersani, come sottolinea Stefano Fassina, per motivi “assolutamente politici”. Matteo Renzi, insomma, gode ben poche delle loro simpatie.

l’Unità 9.9.12
Italia. Bene Comune
Per la ricostruzione e il cambiamento
Patto dei democratici e dei progressisti
La Carta di Intenti

qui

La Stampa 9.9.12
Giuseppe De Rita sociologo, presidente del Censis
“L’Italia si nasconde per paura del futuro”
Ottimista «Certo dal ’70 al 2000 il Paese è stato ricco, vivace, sono stati trent’anni particolari, molto favorevoli dice Giuseppe De Rita Comunque non credo che neanche oggi l’Italia sia un Paese in declino»


Giuseppe De Rita, lei da mezzo secolo «misura» l’Italia con il Censis: che Paese è oggi?
 «È un Paese che vive da due o tre anni con troppa paura. Prima o poi ne usciremo, si avvertono dei sintomi. Del resto non si può vivere sempre nella paura nemmeno durante la guerra. Per usare una parola inventata da me circa quarant’anni fa, l’Italia è un Paese sommerso. Si nasconde, si mette nell’ombra, non accetta più le sfide del passato, degli Anni 70. L’italiano sta sotto il pelo dell’acqua, ha perso ambizione. I figli stanno a casa a vivere con i genitori, non hanno lavoro. Si vive sotto il livello, nel bene e nel male».
Siamo diventati un Paese minore?
 «Forse lo siamo sempre stati, ma negli Anni 70 quando c’era circa il 30% di economia sommersa e Craxi ha voluto includerla nell’economia complessiva, siamo entrati al tavolo delle grandi potenze, abbiamo saputo valorizzare il sommerso, poi il made in Italy, poi il design, è stata come una ventata d’aria fresca: adesso siamo meno capaci di tentare nuove avventure appunto perchè abbiamo paura».
Senza accorgercene siamo diventati europei?
 «Guardandomi intorno, per esempio guidando lungo l'autostrada mi sono detto: “Siamo diventati tedeschi”. Il 40, 50 per cento delle auto sono Audi, Bmw, Mercedes che noi compriamo a caro prezzo. Le auto della signora Merkel. Siamo più tedeschi che europei. Si vede che per noi il vero punto di riferimento, nell’emulazione come nel sospetto, sono i tedeschi. La parola europeo è troppo generica».
Siamo ancora un Paese cattolico?
 «L’Italia è ancora un Paese profondamente cattolico: se si va a Messa nei piccoli paesi del Sud come al Nord o in alcune parrocchie cittadine si trova una partecipazione profonda, di fede. È solo il 25% del Paese, il rimanente 75% non partecipa veramente al rito religioso, però secondo me 15 milioni di persone di fede sono una forza non indifferente. È vero che i cattolici non votano lo stesso partito ma hanno una fede forte, rappresentano una minoranza, ma hanno un peso importante».
Il Vaticano ha ancora molta influenza sull’Italia?
 «Il Vaticano è lo Stato del Papa. È lontano dalla vitalità religiosa delle Chiese italiane. Mentre invece la Cei, il cardinale Bagnasco in primo luogo e i circa trecento vescovi sanno bene cosa avviene sul nostro territorio».
Cosa significa per il mondo cattolico la morte del cardinal Martini?
 «Da una parte c’è stato un movimento superelogiativo e dall'altra una presa di distanza. C'è notevole differenza tra i cattolici su che risposta dare alla questione “Da dove viene l'identità”: viene, come sostiene Martini, nel continuo aprirsi, nel discutere, nel misurare se stessi con l'altro oppure no?».
Gran parte della gente vuole un’identità netta, non meticcia?
 «Martini è visto con sospetto. La cultura cattolica italiana non ha ancora digerito i due grandi filosofi di origine ebraica Lévinas e Derrida, i filosofi dell’alterità: sono ancora sconosciuti ai più e poco letti nel mondo cattolico. Lévinas ha scritto “Il volto di Dio comincia dal volto dell'altro”, concetto che una parte dei cattolici italiani sente come un pericolo. “L’altro” fa paura, viene sentito come l’albanese, il lontano, il drogato. Chi esce dal mondo tradizionale e si rivolge agli altri è sospetto; questo vale anche per il Papa che è il titolare dell'identità della Chiesa. Però non vorrei che si fraintendesse, non c’è frattura, Martini ha cercato sempre il dialogo: ma il problema cruciale è se l’identità attuale va difesa o va creata una nuova identità diversa che passa attraverso il volto dell’altro».
Lei da che parte sta?
 «Io sono naturalmente sul versante del rapporto con l’altro, ma non sono né dossettiano né martiniano, non ho particolari simpatie né per gli uni né per gli altri. Fa parte del mio lavoro la curiosità e l’apertura. Sono un osservatore attento dei venti esterni. Certo sono simile a Martini nell’apertura all’altro, ma non abbiamo nessun percorso comune».
Milano ha dimostrato una solidarietà e un affetto enorme verso il cardinale.
 «Martini è sempre stato un grande personaggio, un fisico da atleta, una bella faccia, occhi straordinari e un insieme di qualità che ha imposto a tutta la diocesi. Avendo fatto per 22 anni il vescovo, la sua influenza, il suo potere carismatico sono stati grandi. È un “atleta della fede” come ce ne sono stati tanti a Milano: penso ad esempio a un prete molto simile nel fisico e nello sguardo a Martini, David Maria Turoldo, un prete, un grande poeta e un grande traduttore di salmi. Sembra che in un certo senso Milano ami una fisicità di qualità. Gli uomini di religione mediaticamente potenti hanno saputo parlare con il mondo e il mondo si riconosce in loro».
E la politica in Italia c'è ancora?
 «C’è fino a quando ci sarà un Paese e una democrazia. Se dobbiamo però parlare di alleanze, di legge elettorale non mi diverto».
Come vede la classe dirigente?
 «Lasciamo perdere i politici. La classe dirigente sta cambiando nelle medie aziende, nelle banche intermedie ma anche nelle società quotate in borsa. Arriva gente più giovane, più spregiudicata che vuole comandare e i vecchi nomi scompaiono. Se si facesse il gioco di vedere dove stanno i potenti di quindici anni fa se ne trovano al massimo uno o due. Sono arrivate invece centinaia di persone giovani che occupano tutti gli spazi intermedi ormai e non vengono dalla politica».
Il fenomeno Beppe Grillo?
 «Siccome ne parlano tutti, aspetto di capire, per ora preferisco stare zitto».
In sintesi si può dire che oggi il paese sta peggio?
 «Certo dal 1970 al 2000 il paese era ricco, vivace, quei trent’anni sono stati particolari, molto favorevoli. Comunque non credo che sia un Paese in grande declino».
I problemi di fondo non cambiano però?
 «Il vero grande problema è il debito pubblico che diminuisce la sovranità della politica. Se non c’ la sovranità non si può fare nessun cambiamento strutturale serio. Si fanno piccole cose, ma non si può affrontare la vera riforma».
Come si fa a far scendere il debito pubblico?
 «Dopo che Monti ha salvato l’Italia, in questo ultimo anno, il problema vero è che adesso bisogna mirare almeno per cinque anni soltanto a quello».
Monti è stato bravo secondo lei?
 «Mi sembra che l’abbia dimostrato».
Dovrebbe rimanere lui come premier?
 «Questo riguarda una dialettica politica che nessuno può controllare neppure Monti».
E quali sono le sue riflessioni oggi, le sue preoccupazioni?
 «Le mie preoccupazioni sono da cinquant’anni una sola: far sbarcare il lunario al Censis».

il Fatto 9.9.12
L’onda di ritorno dell’immigrazione
Africani in fuga dall’Europa in crisi
di Carlo Antonio Biscotto


Avvocato, docente di Diritto costituzionale, esperta di problemi legali nel settore dell’editoria, giornalista e scrittrice. Sembrerebbe la classica biografia di una donna in carriera. E lo è. Ma Afua Hirsch, giovane corrispondente dall’Africa del Guardian, in un coraggioso articolo apparso qualche giorno fa sul suo giornale ci ha mostrato senza reticenze l’altra faccia della luna.
Nata e cresciuta a Londra da padre occidentale e madre ghanese, Afua non ha avuto una infanzia facile. Sua madre si vergognava delle sue origini e diceva agli amici di Afua che sua figlia era giamaicana.
A QUEI TEMPI, ricorda con tristezza Afua, non era cool essere africani e la giovane Afua viveva in una sorta di perenne disagio e di dolorosa ricerca di una identità, esperienza questa comune a molti africani costretti a emigrare in Europa e in America dopo la fine del colonialismo.
La famiglia di Afua si era trasferita a Londra nel 1962. Per la famiglia della madre vivere in Inghilterra aveva significato principalmente un lavoro, l’assistenza medica gratuita, un pasto assicurato e buone scuole per i figli.
L’Africa era un ricordo lontano e spiacevole specialmente quando il continente era precipitato in una spirale di dittature, povertà, guerre, carestie. Ancora oggi molti ricordano una copertina dell’Economist del 2000 che definiva l’Africa ‘il continente disperato’.
Afua ricorda le parole di una grande scrittrice africana, Chimamanda Ngozi Adichie, autrice di ‘Metà di un sole giallo’ (Einaudi, 2008) e ‘Ibisco viola’, insignita del premio Nonino nel 2009: “Non fossi cresciuta in Nigeria anche io penserei che l’Africa è una terra di suggestivi paesaggi, stupendi animali e gente incomprensibile che combatte guerre insensate, muore di fame e di Aids, incapace di uno scatto di orgoglio e in passiva attesa di essere salvata da un qualche straniero bianco e buono. Questo hanno fatto all’Africa: l’hanno spogliata della dignità”.
Il dramma è che molti africani hanno interiorizzato l’idea che l’Occidente è più sofisticato e più evoluto e l’hanno trasformata in un complesso di inferiorità. Afua ricorda che quando era bambina persino i suoi parenti ogni volta che dall’Africa facevano ritorno a Londra esclamavano: “Eccoci tornati nella civiltà”. Nel 1995 la madre la portò per la prima volta ad Accra, capitale del Ghana, per farle conoscere la terra dei suoi avi. Di quella prima esperienza africana ricorda il caldo torrido, l’odore di spezie e di pesce affumicato e il fatto – stupefacente per una giovanissina nera che aveva fino ad allora vissuto il colore della sua pelle come una anomalia – che tutti erano neri. Erano neri i funzionari della dogana, i soldati, le autorità di polizia. Per la prima volta si rese conto che anche i neri potevano occupare posizioni di comando. Ne rimase colpita. Quella visita, come ella stessa racconta, cambiò la sua vita.
Da allora Afua, magari inconsciamente, prese tutte le decisioni riguardanti la sua istruzione e il suo lavoro come se il suo vero obiettivo fosse quello di tornare in Africa.
Dieci anni fa trascorse per lavoro un periodo di due anni in Senegal e si rafforzò il suo desiderio di tornare laddove affondavano le sue radici. Lo scorso febbraio la grande, definitiva decisione: il trasferimento ad Accra. Una decisione per nulla sofferta, ma che persino parenti e amici di origine ghanese residenti in Gran Bretagna hanno stentato a capire. Ma Afua non è sola. Il contro-esodo degli emigranti o figli di emigranti africani è iniziato silenziosamente da qualche anno.
LE RAGIONI SONO MOLTE: a crisi economica in Europa, il rinnovato orgoglio degli africani, la primavera araba, la crescita economica di molte nazioni africane. Il Fmi prevede che nei prossimi 5 anni sette tra le economie in più rapida crescita del mondo saranno africane: Etiopia, Mozambico, Tanzania, Congo, Ghana, Zambia e Nigeria dovrebbero far segnare un tasso di crescita di oltre il 6% l’anno fino al 2015. Cinquanta anni fa i genitori di Afua e milioni di africani fuggivano da un continente dove regnavano solo miseria, malattie e disoccupazione. Oggi tornano a casa fuggendo da un’Europa soffocata dai problemi.
E in Africa trovano lavoro, speranza, fiducia nel futuro, entusiasmo. In Ghana sta sbarcando in forze anche la City. I più lussuosi alberghi di Accra pullulano di emissari delle banche di investimento, delle multinazionali, delle società di consulenza finanziaria che fanno la fila per fare affari con le aziende locali. Quello dell’Africa è un rinascimento che ha come motore la tecnologia informatica, i cellulari, Internet, la banda larga che raggiunge già il 7% degli africani, ma che raggiungerà il 99% entro il 2060.
Ma se in Gran Bretagna la sua pelle era troppo scura, in Africa è troppo chiara e Afua a volte viene criticata perché troppo occidentalizzata. Ma le cose stanno cambiando e comincia a farsi strada un neologismo, ’Afropolitano’, che indica l’africano della diaspora o l’africano che si identifica tanto con le origini africane quanto con la cultura occidentale. È una buona notizia.

il Fatto 9.9.12
Lampedusa. Giusi Nicolini
Il sindaco gentile che accoglie umanità
di Nando dalla Chiesa


E ora, ora che il mare le ha consegnato un altro cadavere da sistemare (“ho solo la fossa comune usata dopo il naufragio di marzo”), i buoni cittadini si stringano intorno a lei. E le chiedano scusa per il ritardo. Perché d’estate si dorme e l’informazione ha l’occhio della talpa, ma intanto qualcuno sta da solo in mezzo alla tempesta per avere detto parole di pura umanità. Il campo di battaglia è Lampedusa. Destino di un’isola che la storia sta trasformando in segno di contraddizioni acide e brutali. Destino di chi ha scelto di governarla senza brandire una mazza da baseball.
Si chiama Giuseppina (Giusi) Maria Nicolini la nuova sindaco dell’isola degli sbarchi. Le è bastato prendere il 26 per cento dei voti a maggio. “Un pezzo del Pd e quel che c’è di società civile nell’isola”, uniti intorno a lei, già direttrice per Legambiente della riserva naturale di Lampedusa. Una percentuale fragile per chi si è trovato davanti agli effetti mica tanto collaterali dell’emergenza. “Scempio del territorio, dell’ambiente e della legalità. Quando con la scorsa amministrazione è arrivata in Comune la Guardia di finanza, avevano già fatto sparire le carte. Cantieri aperti senza progetti. Esercizi abusivi anche sulle spiagge, con autorizzazioni illegittime. E oggi imprese, specie agrigentine, che si vedono cambiare film sotto il naso. Consulenze che sfumano”. Il clima perfetto per avvertimenti obliqui, arroganti, “a ottobre incominciano col fuoco”. Per strada (“hai reso la mia vita impossibile” ), al bar, in municipio. E in più la sommossa che le è montata contro dopo avere commesso il peccato mortale di quest’epoca di furori tangheri. È stato il 20 agosto. Quel giorno Giusi, volto incavato e profilo da Magna Grecia, ha rilasciato un’intervista all’AdnKronos per commentare la storia di Samia Yusuf Omar, l'atleta somala che dopo aver partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 ha trovato la morte a bordo di una carretta del mare, partita dalla Libia e diretta in Italia. Una storia che ha commosso chiunque non abbia il cuore di una scarpa. Ha detto quel giorno Giusi: “I dati ufficiali sui naufragi parlano di circa 6mi-la persone morte, ma sappiamo bene, come dimostra la storia di Samia, che le vittime dei viaggi della speranza sono molte di più. […. ] Dico allora che noi ci auguriamo che gli sbarchi ci siano, che queste persone riescano ad approdare sulle nostre coste, che arrivino vivi”. E ha aggiunto: “In questi anni ho parlato con mogli e madri tunisine disperate che cercano i loro congiunti di cui non hanno più notizie. Lampedusa non ha paura degli sbarchi […] Per noi non si tratta di numeri, ma di persone. Li vediamo quando arrivano, entriamo in contatto con loro, con le loro speranze e le loro paure”.
Ecco. Non ha minacciato di cannoneggiarli dal porto, non ha dichiarato, come il predecessore, di tenere la mazza da baseball in ufficio. Ha respinto con orrore l’idea del Mediterraneo cimitero sterminato. Ha detto quello che sente l’Italia non ancora ingaglioffita. Si può pensare una cosa o l’altra sulle politiche migratorie. Ma la reazione che le è arrivata addosso ha il fiato del razzismo da bettola, altro che la poesia da taverna di Lucio Dalla. È finita nella macelleria telematica. Dileggiata per il suo fisico. Se una foto la ritrae elegantemente sportiva, donna neocinquantenne dal tocco sbarazzino, ecco l’accusa: è “una foto ritoccata, dove la nostra indossa accessori tipicamente radical, con cui potrà accompagnare le proprie chiccose dichiarazioni di morte della genia italica e in favore dell'indesiderato (da noi) immigrato sfruttatore”. Così subito arriva in rete la foto più ingenerosa: “Hai fatto bene a mettere in evidenza questa befana mentalmente deviata […] uno scatto più realistico, che risalta certi lineamenti che a me paiono... inquietanti, meglio accordantisi nella loro secca evidenza alla realtà di simili dichiarazioni malsane; un viso di morte”.
Pillole di opinione, avvisaglia di un tam tam che in poco tempo ne fa “la befana di Lampedusa”, con la stessa faccia degli ebrei (ed ecco, associata, la foto di Fiamma Nirenstein), “feccia radical” o “buttanazza veterofemminista”. La frase del peccato – “speriamo che gli sbarchi ci siano” – diventa il tormentone che spiana la strada a minacce e ingiurie senza fine, all’accusa di attentare all’equilibrio etnico e di partecipare al grande gioco di togliere preziosi posti di lavoro agli italiani per darli allo straniero. Alleata degli scafisti, ma anche dei futuri “parassiti e criminali”. E degli stupratori, naturalmente. Lampedusa isola di accoglienza. Lampedusa isola di frontiera. Geografica e culturale.
Giusi è in una tenaglia. “Problemi ovunque, dal cimitero alle fogne a mare. Ora bisogna impedire che si saldino il razzista, lo speculatore, il mafioso, l’abusivo, l’architetto a cui non pagherò i lavori”. Ha preparato una denuncia al Tribunale di Agrigento. Per difendersi. E soprattutto contro l’istigazione all’odio razziale. Ma davvero devono essere le carte dei tribunali a proteggere una donna sindaco che, di fronte ai cadaveri galleggianti o inghiottiti dalle onde, ha detto “speriamo che gli sbarchi ci siano”? Mollare anche lei in mezzo al mare, ai confini estremi della nazione, o adottarla a simbolo di un’Italia più civile?

La Stampa 9.9.12
Oggi alla kermesse di Mantova
Edgar Morin: “Ci manca un pensiero politico”
di M. B.


A 91 anni, Edgar Morin non cessa di progettare mondi. Tra sociologia, filosofia, politica ed economia, l’intellettuale francese teorico dell’ «umanesimo planetario» chiude oggi il Festivaletteratura con un incontro sul questo tema a lui molto caro, che ritorna per esempio nell’ultimo libro tradotto per Cortina, La via. In gioco, ci spiega, è l’avvenire dell’umanità, in un momento in cui gli effetti negativi della mondializzazione sembrano prevalere su quelli positivi, e cioè sulla possibilità di una «comunità planetaria», di una «cittadinanza terrestre».
Morin non è un catastrofista; per lui anche il fatto che un’arte regionale come il flamenco, andaluso e gitano, abbia ora adepti anche in Giappone è un ottimo segno. Ma i pericoli sono tanti.
Gli chiediamo se quanto sta accadendo (crisi, finanza fuori controllo, depredamento dell’ambiente) non metta fuori gioco i concetto novecentesco di democrazia. «No - risponde -. Il problema è semmai che non c’è più un pensiero politico, mentre sarebbe necessario proprio per d e f i n i r e un’idea di cambiamento. Certo, la democrazia rappresentativa non basta più, deve diventare partecipativa su base locale. Ma soprattutto, ci serve una democrazia cognitiva».
Il vuoto della politica appiattita sull’economia ha infatti una radice segreta. «È il sistema educativo, che ha separato le conoscenze e le discipline. È necessaria invece una visione globale per riformare il pensiero, riformare la politica, e cambiare le cose».
Professore, non è pura utopia? «No - risponde Morin -. In questo momento, se ci chiediamo chi potrebbe mettersi alla testa di un cambiamento, dobbiamo rispondere: nessuno. Ma se guardiamo alla storia, vediamo che le grandi trasformazioni sono tutte cominciate con segni piccolissimi e invisibili. Gli inizi parevano irrilevanti, e invece hanno dato luogo a rivolgimenti enormi. Ebbene, io non dico che oggi qualcosa del genere sia probabile. Non lo è. Non c’è nessuna probabilità. Ma resta una possibilità».

l’Unità 9.9.12
Bauman. Mondo iniquo
Parla il sociologo ospite al Festival di Mantova
Pessimismo radicale esprime l’inventore del paradigma della «società liquida»: «Stiamo tornando al proto capitalismo, ai primi dell’800, quando il capitalismo non era ancora stato regolato»
di Maria Serena Palieri


ZYGMUNT BAUMAN, UN FISICO DA FUSCELLO, GIACCA SCURA E CORONA DI CAPELLI GRIGI, FUMATORE INDEFESSO, SI TRATTI DI SIGARETTE COME DI PIPA, A 87 ANNI, A COSPETTO DELLO SCENARIO IN CUI CI MUOVIAMO, ESPONE UN PESSIMISMO RADICALE. Lo stempera quando incontra come ieri qui a Mantova a margine del Festivaletteratura gli alunni delle scuole superiori.
Al festival stesso l’inventore del fortunato paradigma della «società liquida» ha tenuto poi due dialoghi: con Cesare Segre (a coordinare Daniele Giglioli) sul tema «Dove va la cultura europea?» e con Riccardo Mazzeo (coautore di un suo libro uscito in queste stagioni per Erickson) su quello dell’ «educazione umana». Bauman è arrivato venerdì notte fortunosamente causa un incidente sull’autostrada dall’aeroporto di Villafranca da Leeds, la città della cui università è professore emerito (così come lo è a Varsavia, nella natìa Polonia, il paese da cui fuggì ragazzo all’arrivo del nazismo). Al lavoro, racconta, per un libro sulla disuguaglianza che uscirà come la maggioranza dei suoi altri per Laterza, trasforma l’intervista in un’articolata lezione sull’iniquità del mondo in cui viviamo. Animata, sembra, da quella che Le Carré, diagnosticandola a se stesso, chiama «Alterszorn», la rabbia dei vecchi, l’indignazione di chi ha visto molto...
Un anno fa, richiesto di un giudizio sulla presidenza Usa e sulla crisi dell’euro, lei diede un giudizio tranchant su Barack Obama, paragonandolo agli ebrei tedeschi che negli anni Venti si erano «ipertedeschizzati» in cerca di assimilazione e approvazione. Però era speranzoso sull’Europa. Dodici mesi dopo è della stessa idea?
 «La presidenza Obama ha costituito solo un cambio di inquilino alla Casa Bianca. Cosa si può chiedere a un uomo eletto per condurre una potenza mondiale? In questi quattro anni nel suo Paese le disuguaglianze si sono moltiplicate. L’unico compromesso positivo che la sua presidenza ha realizzato è quello sulla riforma sanitaria. Ma resta come regola fondamentale negli Stati Uniti oggi che i guadagni sono di pochissimi, privati, e le perdite di tutti, pubbliche. Nel 1960 le differenze di paga tra un lavoratore e l’amministratore delegato della sua azienda erano da uno a dodici, nel 1974 l’ad guadagnava 35 volte il suo dipendente, nel 1980 42 volte, nel 1990 84 volte, nel 1995 135 volte e nel 2012 531 volte. Joseph Stieglitz, premio Nobel, osserva che l’ineguaglianza è sempre stata giustificata col fatto che il manager deve creare posti di lavoro, cioè benessere per molti. Ma, con la crisi del 2008-2009, commenta Stieglitz, anziché pagare per i disastri combinati questi stessi signori se ne sono andati con buonuscite da centinaia di milioni di dollari in tasca».
La crisi attuale viene sempre più spesso dipinta come una planetaria partita di poker, con «players» dai nomi più o meno noti, prendiamo John Paulson, re degli hedge funds. Insomma, un thriller finanziario alla Robert Harris. Ma non bisognerebbe anche studiarne il nesso con uno spartiacque storico, il crollo del Muro e la fine del «socialismo reale»?
 «Il legame c’è. Con la scomparsa dell’Unione Sovietica è scomparso un protagonista della politica mondiale che incarnava l’alternativa possibile al capitalismo. Poi il capitalismo non ha più avuto una potenza che gli alitasse sul collo... E il neoliberismo si è trovato senza briglie. Da qui l’idea che finisse la Storia, come avrebbe profetizzato poco dopo, nel 1992, Francis Fukuyama. Dal 1990 ha cominciato a peggiorare la condizione del cinquanta per cento della popolazione, appartenente alla fascia più debole. Ed è da allora che si è imposta l’idea che le crisi si fronteggino diminuendo le tasse ai ricchi».
In quel 1989 c’è qualche scommessa che lo stesso Occidente ha perso? Il crollo del Muro mise in libera uscita centinaia di milioni di persone cresciute in un mondo in cui il denaro aveva un peso infinitesimale rispetto a quello che aveva in Occidente, come racconta per esempio lo scrittore tedesco dell’Est, Ingo Schulze. Non era praticabile un’osmosi tra i due sistemi?
 «Il capitalismo non ci ha pensato affatto, felicissimo, com’era, che scomparisse l’unico modello a lui alternativo. E che, così, scomparisse anche il potere dei sindacati nello stesso Occidente. Dopo l’89 i sindacati sono stati polverizzati, la contrattazione collettiva è stata azzerata. Prima c’era una tacita intesa: in fabbrica non potevi fare certe cose, su diritti e salari c’erano dei paletti. Poi la stessa base sociale dei partiti socialdemocratici e comunisti è stata annullata. Tra i lavoratori oggi esiste solo concorrenza. Dal proletariato siamo passati al precariato. Oggi non soffre più solo la classe lavoratrice, ma con essa la classe media. Occupy Wall Street ha ragione: i benefici del neoliberismo vanno all’uno per cento della popolazione, anzi, ormai allo 0,1% e il 99% resta fuori... Stiamo tornando al proto capitalismo, ai primi dell’Ottocento, quando il capitalismo non era ancora stato regolato».
Qual è, professor Bauman, la sua profezia per l’euro e l’Unione Europea?
 «Non ho la palla di vetro. Quello che mi sento di dire è che in Europa non c’è un solo governo libero di agire. I governi sono in una situazione da “double bind”, ciò che in psichiatria si diagnostica come una prigionia da tendenze opposte. I governi possono agire solo all’interno dei propri confini, ma i poteri veri fluttuano liberamente sopra di essi. Così è pure per gli Usa: si fanno elezioni per “un” Paese, ma lo scenario è globale. L’euro oggi mi sembra un’istituzione assurda, comunque mai vista prima: una moneta unica per diciassette paesi con governi, politiche, sistemi fiscali diversi».

l’Unità 9.9.12
Il matematico che disse no
Volterra rifiutò di giurare fedeltà a Mussolini
Fu uno dei dodici cattedratici su 1200 che si ribellò e perse il posto
Oltre che scienziato fu anche un «politico della ricerca»
di Pietro Greco


È ALL’INIZIO DI NOVEMBRE DELL’ANNO 1931 CHE BENITO MUSSOLINI METTE ALLA PROVA L’UNIVERSITÀ ITALIANA E ORDINA A TUTTI I SUOI 1.200 PROFESSORI DI GIURARE FEDELTÀ AL SUO REGIME. Non ne esce bene, l’università. Solo in 12, tra quegli illustri docenti, rifiutano. Tra quei pochi coraggiosi c’è un matematico marchigiano, Vito Volterra. Senatore del Regno, Presidente dell’Accademia dei Lincei. È lui la figura di maggior spicco della scienza italiana. È lui che «salva la faccia» degli scienziati italiani di fronte la mondo.
È davvero impossibile riassumere in poche righe la vita di Vito Volterra. Perché è stato un grande «creatore di scienza», protagonista assoluto di quella «primavera della matematica» che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 fece della povera Italia una delle tre grandi potenze mondiali nella scienza dei numeri. Perché è stato un grande «organizzatore di scienza», fondatore di una quantità di società e istituzioni tra cui spicca, per importanza il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr): il massimo Ente scientifico del nostro Paese. Perché è stato un grande «politico della ricerca», che si è battuto con lucidità e determinazione per trasformare non solo la cultura italiana nella cultura di un Paese moderno, ma anche l’economia italiana nell’economia di un Paese moderno. E, infine, perché è stato un fiero avversario del fascismo, pagando un conto salatissimo alla sua coerenza e alla sua dignità.
Chi lo volesse conoscere più da vicino e in maniera più approfondita in ciascuno di questi aspetti, può consultare il libro Vito Volterra, pubblicato qualche anno fa da Angelo Guerraggio e Gianni Paoloni. L’unica biografia ricca e completa sul grande matematico italiano che sia stata scritta da storici italiani. Noi ci limiteremo a delineare la sua strategia di «politico della ricerca». Perché estremamente moderna allora. E, ahinoi, di estrema attualità anche oggi. Ma per farlo abbiamo bisogno di indicare le principali coordinate della sua ricca e intensa vita.
Vito Volterra nasce ad Ancona, il 3 maggio 1860. I suoi genitori sono ebrei e vivono nell’antico ghetto, edificato nel XVI secolo, del capoluogo marchigiano. Il padre, Abramo, muore che Vito ha appena due anni. Si assume la cure della famiglia orfana Alfonso Almagià, lo zio di Vito fratello della madre, Angelica. Il ragazzo è bravo e lo zio premuroso. In breve: nel 1878, a 18 anni e con il diploma in tasca, Vito si iscrive all’Università di Pisa. L’anno seguente entra alla Scuola Normale, dove ha come docenti due grandi matematici, Enrico Betti e Ulisse Dini. Vito, come farà per la sua intera vita scientifica, ha interessi che spaziano dal campo matematico più stretto, l’analisi, alla fisica-matematica. E, infatti, nel 1882, a soli 22 anni, si laurea proprio in fisica, discutendo una tesi di idrodinamica. L’anno dopo lo troviamo che già insegna, all’università di Pisa, meccanica razionale.
Come matematico puro studia le equazioni differenziali e quelle integrali, di cui sviluppa la teoria. Gli storici dicono che le sue ricerche sulle «funzioni di linea», le funzioni le cui variabili sono altre funzioni, sono di notevole importanza perché consentono i confini di quella che il francese Jacques Hadamard battezzerà «analisi funzionale». Come fisico matematico Volterra ottiene risultati non meno importanti, nel campo della teoria della luce che attraversa i mezzi birifrangenti e nella teoria delle distorsioni elastiche.
Nel 1892 muore Enrico Betti e Volterra è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di meccanica dell’università di Torino. Cinque anni dopo, nel 1897, contribuisce a fondare la Società italiana di fisica (Sif), di cui diventerà presidente. Nell’anno 1900 si trasferisce a Roma, professore di fisica matematica alla Sapienza. Ormai è uno degli scienziati italiani più noti, anche all’estero. Non a caso è lui che i colleghi europei eleggono a Presidente del Consiglio internazionale delle ricerche. Osservatorio oltremodo privilegiato. Perché è da lì che Volterra ha modo di verificare come la scienza non abbia solo un valore culturale in sé; ma sia sempre più un mezzo con cui le nazioni europee più avanzate producono la propria ricchezza.
Nel 1905 è nominato Senatore del Regno e subito dopo ecco la sua prima grande intuizione come «politico della ricerca»: prendendo esempio da analoghe istituzioni presenti da tempo in Europa fonda, infatti, la Società italiana per l’avanzamento delle scienze (Sips), di cui diventa presidente. Volterra vuole la Sips non abbia un carattere accademico ma «che questa società abbia una larga base, che possa stendere le sue radici liberamente in tutto il paese e abbracciare tutti coloro che volenterosi amano la scienza; sia quelli che hanno direttamente portato ad essa un contributo, sia quelli che desiderano solamente impadronirsi di quanto altri hanno scoperto». Lo scopo è chiaro: vuole che la scienza esca dalle università e che la cultura scientifica si diffonda nel Paese. In un Paese, che, spiega: «non apprezza ancora nel suo giusto valore l’importanza della ricerca scientifica né quale forza rappresenti per la prosperità civile ed economica di una nazione».
Vito Volterra sostiene che la scienza ha un valore strategico per il Paese, sia perché ha un valore culturale intrinseco, come spiega in polemica a don Benedetto Croce che lo nega. Sia perché è la leva principale per assicurare «al prosperità civile ed economica di una nazione». La società accademiche, come la Sif, servono per irrobustire dall’interno la comunità scientifica italiana. Ma le società non accademiche, come la Sifs, servono per stabilire i contatti tra la scienza e la società italiana, compresa la sua componente politica. Un dialogo decisivo non solo e non tanto per la comunità scientifica, ma anche e soprattutto per il Paese.
Volterra è un sincero patriota. Cui non difetta il coraggio. Ed è per questo che il Senatore decide di partecipare nella maniera più diretta possibile alla Prima guerra mondiale: arruolandosi, a 55 anni, nel Corpo Militare degli Ingegneri. Malgrado i suoi numerosi impegni pubblici e, persino, militari Volterra non cessa di essere un matematico creativo. Non è certo un caso che proprio in questi anni ottenga uno dei suoi risultati scientifici più noti anche la grande pubblico: l’equazione che spiega il rapporto tra prede e predatori nella dinamica delle popolazioni. L’equazione – passata alla storia come equazione Lotka-Volterra – è la prima applicata in ecologia e inaugura un nuovo campo di studi: l’ecologia matematica.
INCARICO ANCHE A PARIGI
Quando finisce la guerra, Volterra riprende a tessere la sua tela di «politico della ricerca». Se il Paese vuole agganciare il treno dei più ricchi ed evoluti, deve dotarsi delle necessarie strutture. In particolare lo stato deve creare un luogo dove una massa critica di ricercatori possa portare avanti i suoi studi, nell’ambito delle scienze fondamentali e soprattutto applicate, senza distrazioni. Neppure quelle didattiche che sottraggono tempo ai docenti universitari. E così inizia a proporre ai colleghi scienziati e ai colleghi politici la creazione di un Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Non è impresa facile. Ma neppure la determinazione del matematico senatore è cosa banale. Nel 1923 il Consiglio Nazionale delle Ricerche vede finalmente la luce. E lui, Vito Volterra ne è il presidente. Intanto, dal 1921, è presidente anche del Bureau International des Poids et Mesures, l’ufficio internazionale dei pesi e delle misure che ha sede a Parigi. Conserverà questa carica fino alla morte. Nel 1923 diventa presidente anche dell’Accademia dei Lincei.
Non c’è dubbio che Volterra gestisca molto potere, in Italia e all’estero. Ma non c’è dubbio neppure che per il matematico marchigiano il potere è un mezzo, non un fine. Pronto a metterlo in discussione, se sul piatto della bilancia c’è un ideale. Lo ha dimostrato in passato. Lo dimostra quando Mussolini diventa Presidente del Consiglio e inizia a costruire il regime. Vito Volterra non ha dubbi. La sua opposizione al fascismo è immediata e senza tentennamenti. Pronto a pagarne tutte le conseguenze. Nel 1925 non esita a firmare il manifesto intellettuali antifascisti redatto dal suo amico/avversario, don Benedetto: noto come «Manifesto Croce». Mussolini, purtroppo, non è meno determinato. E l’anno dopo, nel 1926, il Duce lo caccia dal Cnr, chiamando a sostituirlo, nel tentativo di salvare la faccia davanti al mondo, il celeberrimo Guglielmo Marconi.
Nel 1930 i fascisti chiudono il Parlamento. Non è più senatore. Nel 1931, come abbiamo detto, Vito Volterra rifiuta di giurare fedeltà al regime: non è più professore. Nel 1934 i fascisti lo cacciano da ogni residua posizione: non è più accademico dei Lincei. Vito Volterra muore l’11 ottobre 1940. Da pochi mesi l’Italia è entrata in guerra. Da molti anni ha perso il treno su cui aveva cercato di farla salire un testardo matematico marchigiano.
(Domenica 19 agosto Pietro Greco ha scritto il ritratto di Bruno Pontecorvo; domenica 26 quello di Giuseppe Levi, maestro di tre Nobel; lunedì 3 settembre quello del chimico Giacomo Ciamician).

Repubblica 9.9.12
Fede e politica un binomio che conquista ancora l’America
di Antonio Gnoli


Uno dei terreni di scontro dell’attuale campagna elettorale per la presidenza americana è la religione. Romney e Obama fanno a gara per chi aderisca in maniera più convincente ai dettami della fede. Non è una novità. Nei due mandati presidenziali George Bush jr ha goduto del largo appoggio delle Chiese cristiane (e fondamentaliste). Il suo proclamato devozionismo politico si è spinto al punto da indire la giornata nazionale della preghiera. Religione e politica (c’è un libretto apparso qualche tempo fa da Donzelli e l’ultimo numero di Rivista politica) è un binomio tanto indissolubile quanto problematico. Può sorprendere l’uso che ne viene fatto dalla più grande democrazia esistente. Una forte base religiosa ricorre nei totalitarismi occidentali. Il bisogno di “inventare una tradizione” li ha spinti a servirsi delle liturgie e dei simboli cristiani. Più oscure appaiono le ragioni della democrazia, il cui portato (complice la modernità) è stato più di demolire i bastioni della fede cristiana che di difenderli. Dopotutto, autoritarismo ed esclusivismo delle Chiese mal si conciliano con i dettami della democrazia. Eppure, le cose sono andate diversamente come intuì, in largo anticipo sui tempi, Alexis de Tocqueville. Fu il pluralismo religioso ad affiancare e in un certo senso a rafforzare l’immagine democratica americana. E nonostante Dio alberghi in numerosi simboli (perfino sulle banconote), netta resta la separazione tra Chiesa e Stato. Ma fino a quando? In società complesse e culturalmente deboli è forte il ricorso della politica alla legittimazione religiosa. Siamo entrati nella religion-politik? Il populismo teologico come ultima frontiera della democrazia.

Corriere 9.9.12
L’opera La «Teoria degli infiniti» di John Banville come il «De Rerum Natura» di Lucrezio. Quando la Fisica è madre dei sentimenti
Le passioni sono fatte di numeri
Atomi come dèi, formule come destino: la scienza è la mitologia contemporanea
di Claudio Magris


Non so se John Banville conosca quei frammenti di Schlegel — geniale inventore del Romanticismo e di una visione dell'arte, della sua produzione e del suo consumo, ancor oggi sostanzialmente imperante — in cui si dice che la mitologia classica era la fisica degli antichi, l'espressione e la forma date alla conoscenza o all'intuizione della natura. Dèi, semidèi, ninfe che sono il mare, il tuono, il ribollire delle viscere della terra, il fiore che muore nel frutto, l'inafferrabile e segreta metamorfosi delle cose. La mitologia moderna ovvero la fisica è andata ben più a fondo nelle parvenze del mondo; conosce divinità e demoni infinitesimali, ben più invisibili degli dèi che si sottraevano dissolvendosi in una nuvola. Se nella spuma del mare si mostrava e si nascondeva la Nereide, per noi ogni realtà e l'individuo stesso sono un aggregato di entità minime, «una forza, un campo... spazi astratti che pulsano per l'interazione di particelle incredibilmente piccole e definitivamente invisibili... frammenti di ogni cosa che si spingono tutti l'una contro l'altra — un reticolo di particelle», come scrive Banville in quell'autentico capolavoro narrativo che è Teoria degli infiniti — titolo che non rende felicemente l'originale, Infinities — tradotto peraltro con notevolissima efficacia poetica da Irene Abigail Piccinini.
I mortali non sanno vedere le cose e nemmeno se stessi nella loro realtà ed è ciò che permette loro di sopravvivere. Oggi gli dèi sono gli infiniti, cui nel romanzo il protagonista — un grande scienziato in coma, di cui la famiglia raccolta insieme per l'occasione attende la morte — ha dedicato studi che hanno rivoluzionato le concezioni e le teorie sull'universo, sulla vita, sul tempo e dunque sull'uomo stesso. Come gli dèi e gli infiniti, pure gli uomini sono e non sono; la loro esistenza è un cozzare di palle da biliardo e dadi che rotolano, un tessuto temporale bucherellato da falle, discrepanze, asincronie, esprimibile con numeri — le equazioni sull'infinito formulate dal protagonista Adam Godley, lo scienziato in coma — piuttosto che con parole, accomodanti e vaghe metafore prive di rigore. Sono i numeri gli dèi, il Fato della mitologia — della cosmologia, della cosmogonia — contemporanea.
Eppure questi campi di energie, questi reticoli di particelle e queste sinapsi di neuroni che sono gli uomini s'innamorano, s'incantano dinanzi a un sorriso o a un prato, compiono azioni dolorose e crudeli, si fraintendono, si distruggono come Dorothy, la prima moglie di Adam. John Banville, grande narratore, è forse l'unico scrittore capace di rappresentare e far vivere la mitologia antica e quella contemporanea, gli dèi, le molecole e gli atomi, la frescura di un albero nella sera e gli infiniti mondi che si compenetrano in ogni foglia e in ogni sua nervatura. È uno dei pochissimi capaci di trasformare quei numeri (e quei rapporti numerici di cui sono fatti il mondo, ed anche il pensiero e il sentimento degli uomini) in carne e sangue, in passioni, in sensuale presenza delle cose, in storie che hanno tutta la corposa realtà e la sottigliezza psicologica del grande romanzo tradizionale e l'inquietante ambivalenza di quello contemporaneo.
La Teoria degli infiniti è una specie di De Rerum Natura, di epos lucreziano di oggi, e si inoltra in un terreno narrativo in genere poco esplorato o orecchiato in facili ricerche di effetto. Sino a un certo momento della storia c'è stata una corrispondenza fra le conoscenze che le scienze della natura davano dell'uomo e del mondo e la possibilità, per l'uomo medio anche digiuno di preparazione scientifica, di venirne influenzato nel suo modo di vedere la realtà e, nel caso dell'artista, di rappresentarla. Gli atomi di Epicureo diventano il modo di sentire la natura e la vita del poema di Lucrezio; dopo Galileo e Copernico si guardano, si percepiscono e si cantano le stelle in un modo nuovo, che pure esprime fondamentali sentimenti umani di fronte alle vaghe stelle dell'Orsa; il tempo assoluto, di cui parla Newton, parla anche a chi non è in grado di capire le formule.
Questo dialogo, ancorché imperfetto e confuso, fra le cosiddette «due culture», è durato forse sino alla teoria della relatività, che — pur in modo pasticciato e scorretto — è entrata vagamente nelle nostre teste e nel senso del nostro rapporto col mondo. Col principio di indeterminazione e con la meccanica quantistica questo pur labile rapporto si è interrotto. Non riusciamo a integrare nella nostra vita, nel mondo così come lo viviamo e percepiamo, ciò che ci viene detto su qualcosa che è ora un corpuscolo ora un onda, sulle stringhe, sul gatto contemporaneamente vivo e morto e su tanti altri aspetti dell'universo e di noi stessi. Si è aperto un baratro tra il mondo — e cioè noi — e noi stessi, fra il mondo vertiginoso in cui viviamo e quello di cui facciamo esperienza con i nostri sensi come se fosse il piccolo mondo antico.
Si è aperta così un'affascinante e devastante crisi per la letteratura, incerta fra la necessità e l'impossibilità di narrare veramente la vita divenuta inaccessibile ai sensi e alla ragione di sempre e la menzogna di continuare a narrarla come se quel baratro non esistesse; menzogna che caratterizza gran parte della produzione letteraria corrente, tranne pochissimi autori — ad esempio, tra gli italiani, Giuseppe O. Longo — che si cimentano creativamente con questa sfinge. È stato Musil, col suo genio assolutamente unico, a porsi per primo la necessità di narrare questa sconvolgente e mai conclusa scoperta del nuovo, del reale volto dell'uomo. Per questo L'uomo senza qualità, iniziato circa centodieci anni fa, è un romanzo del futuro, che parla non della vecchia Austria absburgica bensì dell'oggi e soprattutto dell'inimmaginabile domani.
Banville, specialmente in questo romanzo, è un Musil dei nostri giorni capace di raccontare gli atomi e gli dèi ossia gli uomini. Non a caso si è sempre interessato a questi rapporti — astratti e insieme carnali — fra letteratura e scienza, in romanzi quali ad esempio La notte di Keplero o La lettera di Newton, sui quali aveva attirato l'attenzione già molti anni fa Licia Governatori. Banville è un narratore nato, sanguigno e asciutto, rigoroso e vitale, dotato di un'imprevedibile originalità fantastica.
È pure autore di racconti polizieschi, col nome di Benjamin Black — il suo «gemello nero», ha scritto sul «Corriere» Roberta Scorranese — e a nome proprio, e sta facendo rivivere Marlowe l'eroe di Chandler. Anche nei romanzi precedenti i suoi personaggi, come si dice nella Spiegazione dei fatti, si trovano spesso sulla prua di una nave che affonda; per molti di essi vivere vuol dire cadere, nascondersi, fuggire, perdersi, in modo ora drammatico ora losco e ambiguo. È come se i suoi romanzi fossero narrati da una voce oscura e impersonale, un doppio dell'autore attraverso il quale parla la vita stessa, nel suo incanto e nel suo orrore. Banville è esperto del male, dinanzi al quale gli uomini spesso soccombono, in un dolore opaco e livido ma struggente, in cui tuttavia vive un indistruttibile sentimento di fraternità e di pietas. Non a caso è un possente poeta del mare, paesaggio — nel romanzo omonimo — di pienezza e di vuoto.
Nella Teoria degli infiniti nulla resta astratto; tutto diviene racconto, vita, morte, delusione, incertezza. La famiglia e alcuni amici che si raccolgono intorno a Adam, lo scienziato morente e già entrato in quella specie di morte che si vuol vedere nel coma, è una commedia umana in cui si scende, pur nell'amabile e ironico rispetto delle convenzioni quotidiane, alla radice delle relazioni fondamentali, il rapporto coniugale e quello fra genitori e figli, la sessualità, la lontananza, l'amicizia, le beneducate maschere dell'«io selvaggio». In una pagina memorabile, la voce che abbraccia e narra il tutto — la voce del dio Ermes, una trovata non necessaria nell'atmosfera del libro — cerca, alla foce di un fiume, di cogliere la soluzione di continuità, la linea precisa dell'estuario, che divide il fiume dal mare. Un'ossessione che mi è familiare e ricorrente: ho cercato di cogliere quella linea tra il Danubio e il Mar Nero, fra il Tago e l'Atlantico, fra l'Isonzo e l'Adriatico... Banville fa emergere con bruciante evidenza un albero come un corpo nudo, a far emergere la vita di Adam che continua in quella non-vita che è il suo coma, altra manifestazione della bizzarra combinazione di atomi, di dèi minimi, di cui è fatto l'uomo. Banville, in questo senso, è un Lucrezio o un Musil di oggi, che si tuffa nelle astrazioni con una plastica e musicale concretezza da poeta antico, innamorato dei colori, dell'azzurro «frangibile» del cielo come di un corpo femminile. «Non esistono uomini grandi — dice nel libro Adam — solo uomini che di tanto in tanto fanno qualcosa di grande». Uno di questi è l'autore della Teoria degli infiniti.

Corriere 9.9.12
Telmo Pievani al convegno del centro Biogem
«L’evoluzione del sapere nasce dal dialogo di due mondi distinti»
Umanesimo e scienza devono restare separati
di Giovanni Caprara

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Repubblica 9.9.12
Il caso Henry Miller
Ultimo processo al Tropico
di Walter Siti


Nel 1933 il giudice Woolsey assolve l’Ulisse di Joyce dall’accusa di pornografia, con una motivazione che sembrerebbe attagliarsi anche al caso di Henry Miller: «Joyce», argomenta Woolsey, «è stato leale verso la propria tecnica e non si è tirato indietro di fronte alle sue ineludibili implicazioni», ivi compreso «l’utilizzo di parole che vengono in genere considerate scurrili». Eppure quando l’anno dopo esce a Parigi, in inglese, il il divieto di importazione negli Usa è netto; ancora nel 1953 la pubblicazione in patria è giudicata oscena; bisognerà aspettare il 1961 (sull’onda dell’assoluzione dell’Amante in base alla nuova e liberale legge inglese del 1959) perché la Grove Press, dopo difficoltà iniziali, possa distribuire il libro. In Italia le cose vanno anche peggio: nel 1962 Feltrinelli pubblica il Bellinzona con l’avvertenza «esclusivamente dedicato al mercato estero, vietata l’esportazione e la vendita in Italia».
Evidentemente è un escamotage: stoccato nei magazzini della Gondrand a Basilea, il libro viene trasportato in segreto alla Maison du Livre Italien di Nizza e da lì, avventurosamente nascosto nei doppi fondi di un’automobile, passa clandestinamente in Italia. Venduto sottobanco, con la fama di libro “infernale” e proibito per eccellenza. Solo nel 1967 il libro sarà ufficialmente pubblicato in Italia, e anche allora avrà il privilegio di una patetica denuncia presso il tribunale di Lodi. Letto ora, a cinquant’anni dal coraggioso gesto di Giangiacomo, il libro sorprende per quanto poco sesso c’è dentro, ne ricordavamo molto di più. Con le performance acrobatiche che si leggono in giro, non turberebbe nemmeno una monaca di clausura. Né pare nuovissimo il proposito di verità radicale, la promessa di metterci dentro «tutto quello che negli altri libri è omesso». È un proposito vecchio di secoli, si può risalire a Restif de la Bretonne e a Rousseau, per non parlare di Montaigne. Quanto alla rappresentazione realistica degli organi sessuali, il pene di Dürer nell’autoritratto di Weimar (ricordato da Praz nella prefazione al Tropico del ’62) e la vagina in primo piano nell’Origine del mondo di Courbet avevano già raggiunto un limite insuperabile.
Fino al 1968 la censura ha potuto sbandierare come indicibili i dettagli del sesso, che erano metafora della distinzione tra privato e pubblico; poi (almeno nel mainstream della cultura occidentale) quella distinzione si è andata perdendo in un’unica onda di spettacolarizzazione consumista, e alla censura come divieto si è sostituita la censura come rumore che confonde e toglie senso. Ancora nel ’62 spiriti liberi come Praz vedevano in Miller un tormento «teutonico e gotico» che forse non c’è; traducevano come disperazione d’autore un loro disagio che gli faceva sembrare macabro e insopportabile quel che adesso è monetacorrente: l’assenza totale di prospettive, la riduzione del sesso a dovere meccan ico di prestazione, il sex appeal dell’inorganico.
La nudità del Tropico è semmai di altra specie: è la scommessa di comporre un’autobiografia senza ideali, senza esemplarità, senza introspezione e senza eventi. In tutto il libro a Miller non succede quasi niente; si limita a sbattersi di qua e di là, è un enorme orecchio che ascolta ( «io sono il vuoto in mezzo a voi; se me ne vado, non vi resta più vuoto in cui nuotare»). Non si riesce a ricostruire una precisa cronologia narrativa, la storia si svolge in un eterno presente punteggiato da espressioni vaghe come «era verso la fine dell’estate», «più tardi mi torna in mente», «era febbraio»; l’espediente tecnico ha una corrispondenza tematica: «il mondo intorno a me si dissolve, lasciando qua e là chiazze di tempo». La vera struttura del libro è l’enumerazione caotica, cioè l’insensatezza del mondo in cui il sesso non è che un’acme di fulminante e immotivata affermazione. Le parole che tanto avevano offeso il bigotto accusatore di Lodi ( «c’è l’osso nei miei venti centimetri di cazzo, ti stiro tutte le grinze della fica...») non sono che l’esito complementare dell’elenco che immediatamente le precede ( «sigarette Abdullah, l’adagio della Patetica, amplificatori auricolari, giarrettiere pesanti, che ore sono, fagiani dorati col ripieno di castagne...») ; la posizione esistenziale di base è uno gnosticismo distruttore (simile a quello degli antichi Ofiti): «Voglio che tutto il mondo vada fuori sesto, che tutti si grattino a morte»; l’orgasmo, dice a un certo punto, è come comunicarsi, cioè inghiottire una particella di nulla che anticipi un futuro inimmaginabile. Ma la scrittura si affanna per mantenersi al di sopra delle sue possibilità, il maledettismo si svela troppo programmatico e il demonismo velleitario.
Miller pensa a un libro che azzeri la cultura ( «questo non è un libro, è libello, calunnia, diffamazione... è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all’Arte») ; ma in realtà quello che leggiamo è il libro di un letterato marcio, tra Joyce e Sartre e Dostoevskij e Proust e Mann, e Rabelais e i picareschi e Petronio, e perfino Papini; il lirismo di certe descrizioni ricorda le sue abilità di pittore ( «Ora del crepuscolo. Blu d’India, acqua di vetro, alberi lucenti e liquescenti»). Non basta sentire il richiamo di Nietzsche, invocare l’Oltreuomo che rovesci il vecchio cristianesimo, non basta orecchiare Bataille e Caillois se poi, nel fondo, si rimane un americano puritano, vitalista e ottimista, magari un tantino evangelico ( «straordinario com’è facile campare, per un passero»). Whitman e Nietzsche è difficile metterli d’accordo. In tutto il libro la fedeltà alla moglie americana (che lo manteneva) è fuori discussione. Il tono febbrile non nasconde una solida salute animale. La frase famosa «non ho soldi, né risorse, né speranze, sono l’uomo più felice del mondo» è più buddista che proto- beat.
La contraddizione tra intenzioni e risultati, la confusione tra presupposti culturali inconciliabili, fan sospettare che il libro sia largamente sopravvalutato. Eppure il Tropico è diventato di culto e una ragione ci sarà. Forse perché è il primo libro apertamente post-moderno, o comunque il libro che dichiara chiusa la stagione aurea del modernismo. La «formidabile troia della Martinica, bella come una pantera» non è che una citazione, e di Baudelaire appare lo «spettro prono, avvolto in bende come una mummia». Le rivoluzioni e involuzioni totalitarie sono già accadute, «dalle utopie strangolate è nato un pagliaccio». Più che disumano nel senso di Nietzsche, il Miller protagonista del libro è post-human. Se il primo libro italiano post-moderno è Fratelli d’Italia di Arbasino, il Tropicone è stato certamente una fonte; Arbasino avrà letto Miller in inglese ben prima, ma nel ’62 l’avrà visto di sicuro nella bella traduzione di Bianciardi e la stesura finale del suo chef d’oeuvre sembra risentire di certi finali ( «E Borowski dice: “Partiamo tutti per Bruxelles, domattina”»). I classici diventano tali perché ammettono interpretazioni ambigue: il Tropico è una partitura bollente a sangue freddo, un’ironica presa in giro senza ironia, un surrealismo basic che dà ai lettori l’illusione di poter fare lo stesso.

Repubblica 9.9.12
Lettera al mio giudice
di Henry Miller


Coloro che mi giudicano e mi condannano credono veramente che io sia un malfattore, un «nemico della società», come essi spesso superficialmente asseriscono? Che cos’è che li disturba tanto? È l’esistenza di un comportamento immorale, amorale o asociale, quale è descritto nelle mie opere, oppure è il fatto che questo comportamento venga descritto sulla pagina stampata? La gente si comporta veramente con tanta “viltà”, o tutto questo è solo la farneticazione di una mente “malata”? (È lecito riferirsi a scrittori come Petronio, Rabelais, Rousseau come di «menti malate»?). Di sicuro qualcuno di voi avrà amici o vicini, magari anche d’ottima posizione sociale, che si sono lasciati andare una volta o l’altra a comportarsi nello stesso modo discutibile, e forse anche peggio. Da uomo di mondo, so anche troppo bene che l’appannaggio di una veste talare, di una toga di magistrato, di un’uniforme accademica non danno alcuna garanzia d’immunità dalle tentazioni della carne.
Siamo tutti nella stessa barca, siamo tutti colpevoli o innocenti, a seconda che consideriamo la cosa dal punto di vista della rana o da quello dell’Olimpo. Appunto per questo non mi lascerò andare alla pretesa di soppesare o ripartire la colpa, e dire, per esempio, che un criminale è più, o meno, colpevole di un ipocrita. Il delitto, la guerra, le rivoluzioni, le crociate, le inquisizioni, la persecuzione e l’intolleranza non derivano dal fatto che tra di noi ci sono alcuni che sono deboli, minorati, o tendenzialmente assassini; le cose umane sono in una brutta situazione perché noi, tutti, sia l’uomo giusto, sia l’ignorante, sia il malintenzionato, manchiamo di indulgenza, di compassione vera, di capacità di conoscere e di capire veramente la natura umana.
Per dirla il più brevemente e semplicemente possibile, il mio atteggiamento fondamentale verso la vita o, per dirla in altre parole, la mia preghiera è: «Finiamola di farci la guerra a vicenda, di giudicarci e condannarci l’un l’altro, finiamola di prenderci in giro». Non vi supplico di sospendere o troncare il processo al mio libro. Né io né la mia opera siamo tanto importanti. (Morto un papa se ne fa un altro). Mi preoccupa di più il male che state facendo a voi stessi. Voglio dire, insistendo con questo discorso di colpa e punizione, di condanna e proscrizione, di epurazione e esclusione, con questo sistema di chiudere gli occhi quando vi conviene e quando non c’è altra via d’uscita di cercarvi un capro espiatorio. Vi chiedo: guardiamoci bene in faccia; perseguire sino in fondo la vostra angusta particina vi dà la possibilità di godervi di più la vita? Forse che quando annullate, per così dire, i miei libri, gustate meglio il cibo e il vino, dormite meglio, siete uomini, mariti, madri migliori di prima? Queste sono le cose che contano, quel che accade a voi, non quel che fate a me.
So bene che chi sta sul banco degli imputati non ha diritto a far domande, deve solo rispondere. Ma non riesco proprio a considerarmi imputato. Sono semplicemente un “irregolare”. Eppure resto nella tradizione, per così dire. L’elenco dei miei predecessori riempirebbe un impressionante dossier. Questo processo dura dai tempi di Prometeo. Anzi, da prima. Dai giorni dell’arcangelo Michele. In un passato non troppo lontano ci fu un tale cui fecero bere una tazza di cicuta, perché lo accusavano di essere un «corruttore della gioventù». Oggi lo si considera una delle menti più sane e lucide che siano mai esistite. Noi che siamo sempre portati alla sbarra, non possiamo far di meglio che ricorrere al celebre metodo socratico. La nostra sola risposta è ritorcere la domanda.
E ce ne sono di domande da rivolgere alla Corte, a qualsiasi Corte. Ma se ne otterrebbe mai una risposta? Si possono porre domande a una Corte? Temo proprio di no. Il corpo giudiziario è sacrosanto. Ed è un male, secondo me, perché in casi di estrema gravità il tribunale d’ultima istanza dovrebbe essere il pubblico. Quando è in gioco la giustizia, non si può demandarne la responsabilità a pochi eletti senza che ne risulti un’ingiustizia. Nessuna Corte potrebbe funzionare se non seguisse i ferrei binari dei precedenti, dei tabù e dei pregiudizi.
[...] L’imputato che sta dinanzi alla Corte non viene giudicato dai suoi contemporanei, ma dai suoi defunti antenati. I codici morali, validi solo se in conformità con le leggi naturali o divine, non vengono salvaguardati da questi deboli argini. Al contrario, essi sono esposti come barriere inefficienti e malsicure.
Infine, ecco il punto cruciale della faccenda. Un verdetto avverso pronunciato da questa o da qualsiasi altra Corte potrebbe veramente impedire l’ulteriore diffusione del libro? La storia di casi del genere non convalida una simile supposizione. Anzi, un verdetto sfavorevole aggiungerebbe soltanto esca al fuoco. La proscrizione conduce solo alla resistenza: la lotta continua sotterranea e diviene perciò più insidiosa, più difficile da combattere. [...] Non potete eliminare un’idea sopprimendola. E l’idea legata a questo caso è la libertà di scegliersi le proprie letture. La libertà, in altre parole, di leggere ciò che è male o ciò che è bene per uno, o ciò che semplicemente è innocuo. Insomma, come ci si può guardare dal male, se non lo si conosce?

Repubblica 9.9.12
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
di Vito Mancuso


A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana. Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”. E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico. Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede. Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini. Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di
Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”). Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova. Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.

Repubblica 9.9.12
Le cose sotto la lente del filosofo
di Aurelio Magistà


Venerdì inaugura a Modena, Carpi e Sassuolo l’appuntamento dedicato al pensiero più introspettivo. Tema di quest’anno le cose, affrontate da ogni punto di vista e in diversi luoghi delle tre città, per tre giorni lontani dallo stress del quotidiano

Una bambola tra le macerie del terremoto. Il simbolo della perdita di quelli che non sono più solo degli oggetti ma cose, giocattoli, sedie, piatti, giacche dove si sono depositati e dove ritroviamo i nostri affetti e i nostri ricordi. Questa immagine è la sintesi ideale del Festival della Filosofia, che comincia venerdì tra Modena, Carpi e Sassuolo ferite dal terremoto, e che ha per tema, appunto, “Cose”.
 «Anche se sembra scelto apposta, l’argomento è stato deciso prima del sisma», spiega la direttrice Michelina Borsari, «e quando abbiamo cominciato a lavorarci, praticamente da sfollati, ci siamo chiesti se era opportuno confermarlo». A sciogliere i dubbi, da una parte la volontà dei sindaci delle tre città e delle istituzioni coinvolte, persuasi che il festival sia una prova di volontà e d’orgoglio, un modo per continuare a tenere l’attenzione su queste zone, e un aiuto economico; dall’altra parte, commovente, «la gara di solidarietà che si è aperta tra i protagonisti di questa e delle precedenti edizioni per offrirsi di venire “in solidarietà”, lasciando il compenso per la ricostruzione». Perché il festival è anche questo, «Costa circa novecentomila euro ma ne porta quattro o cinque volte tanto», sintetizza Remo Bodei, presidente del comitato scientifico, Il progetto iniziale ha saputo assimilare anche il terremoto, che non sarà solo negli scenari, ma diverrà protagonista, per esempio con il grande dibattito sulla ricostruzione che chiuderà il festival, mettendo a confronto il “dopo” emiliano con gli altri dei sismi recenti, l’umbro marchigiano a quello dell’Aquila, o con le macerie che diventano un’installazione, o ancora con le tre macchine industriali esibite come simulacri per ricordare le aziende e i settori produttivi colpiti: il tessile, il meccanico e il ceramico. Qui, fra rovine e case pericolanti parlare di cose - perdute, ritrovate, minacciate - assume d’improvviso in significato più intenso e profondo.
Il programma come sempre è ricchissimo, dalle lezioni magistrali alle mostre, dagli spettacoli ai dibattiti fino alla gastronomia. Circa duecento eventi offriranno quasi tutte le prospettive possibili, partendo da una distinzione, «non pignola ma sostanziale», argomenta Bodei, tra «oggetto, che ha essenzialmente un valore di scambio e d’uso, e cosa, dal latino causa, ciò che ci sta a cuore, su cui si stratificano significati di cui spesso si finisce per smarrire il senso».
 «Mai come oggi il mondo è stato saturo di oggetti», nota la Borsari. «e mai come adesso, qui per il terremoto,unpo’ovunqueperlacrisi,èfortelasensazione del rischio della perdita». Tanto più che le cose le perdiamo per mille ragioni, magari perché cresciamo (al festival Silvia Vegetti Finzi parlerà proprio di giocattoli), o perché passa il loro tempo,
e la perdita cristallizza, a volte amplifica le emozioni che ci suscitano. Su questo sarà interessante ascoltare la conversazione di Brunetto Salvarani con Francesco Guccini, che ha scritto un Dizionario delle cose perdute, rievocando oggetti scomparsi o divenuti feticci da collezionisti, come «il pompetto del flit o il telefono di bachelite», spiega lui a Repubblica (il video: http://video.repubblica. it/spettacoli-e-cultura/guccini-ecco-il-miodizionario- delle-cose-perdute/89796/88189), «ricordandole senza nostalgia né malinconia, piuttosto con sorniona ironia». Mostrando che rievocarle significa raccontare le persone, in un “come eravamo” che conferma le parole di Protagora: «L’uomo è misura di tutte le cose»

Corriere 9.9.12
Sintomi che spaventano
Talvolta non sono il segnale di una patologia e neppure di una forma di disagio Allucinazioni possibili anche nei «sani»
In questi casi vengono definite Esperienze soggettive insolite
di Danilo Di Diodoro

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Corriere 9.9.12
Indagine italiana
Un buon numero di individui è convinto che telepatia o comunicazioni tramite medium con l’aldilà siano reali
Paranormale, 14 persone su 100 ci credono
di D. d. D.

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l’Unità 9.9.12
Eluana, dibattito senza umanità
di Massimo Adinolfi


QUANDO SUONANO A MORTO LE CAMPANE DELLE CHIESE DI UDINE, MARIA (ALBA ROHRWACHER) È GIÀ LONTANA, ha già lasciato le amiche e gli altri attivisti riuniti in preghiera dinanzi ai cancelli della clinica «La quiete», dove Eluana Englaro si è spenta.
Perché allora non dovrebbero valere per lei le parole rivolte a Pietro: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte?»
Perché il rintocco delle campane, che invade lo schermo del film di Bellocchio, La bella addormentata, non dovrebbero lacerare la coscienza di Maria quanto il canto del gallo? Ma Maria è lontana per amore. La vita, la passione, la giovane età la portano lontano da dove le sue ragioni e convinzioni l’avevano fin lì condotta, e non importa se sia debolezza o forza, tradimento o buona fede: l’unica cosa che il film dimostra, è che la virtù e il corso del mondo non coincidono mai. Non nell’esistenza di Maria, ma neppure in quella degli altri protagonisti della pellicola, che nel momento decisivo, quando il presidente del Senato della Repubblica Italiana dà in aula la notizia pubblica della morte privata di una ragazza, si trovano tutti un passo prima o un passo dopo l’appuntamento che si erano dati con se stessi, con le loro proprie vite. Bellocchio non ha fatto un film a tesi: ha voluto offrire un grumo di storie che si raddensa negli ultimi giorni della vicenda Englaro intorno a un unico nodo, e all’impossibilità di scioglierlo senza che le esistenze non ne siano toccate, perfino straziate. Nella vita, non nel Parlamento. Nel Parlamento, il decreto legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire con urgenza che «l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese» doveva contenere la soluzione: fermare il padre di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film ripropone.
Rivedendosi sul grande schermo, Quagliariello ha osservato giustamente che le storie raccontate nel film, mentre sullo sfondo si consuma la battaglia politico-parlamentare sul decreto Sacconi, non hanno nulla di simile al caso di Eluana: non si tratta in nessuna di esse del problema, posto da Beppino Englaro ai tribunali italiani, di rispettare la volontà della figlia, ricostruita in base a dichiarazioni e testimonianze. Proprio per questo, però, il film è in grado di consegnare alla nostra memoria la collera di Quagliariello come una delle scene madri della vicenda politica italiana degli ultimi anni. E se anche è vero che il film di Bellocchio contiene come è stato scritto troppe scene madri per considerarsi perfettamente riuscito, almeno dal punto di vista cinematografico, è anche vero che riesce invece a dirci, senza entrare nel dibattito legislativo sul fine vita, che cosa a quel dibattito, culminato nella stizza rabbiosa di Quagliariello, mancasse per davvero: l’umanità.
Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la
morte, per cui non abbiamo da preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, e il film accumula situazioni in cui avviene questo incontro, una faccia del foglio si ripiega e si volta nell’altra, come in uno strano anello di Moebius in cui non si può stabilire qual è il recto e quale il verso. Queste situazioni hanno i nomi e le parole dell’amore, e del dolore, e Bellocchio presta ai suoi personaggi un tono a volte un po’ didascalico, o troppo sentenzioso, per distillarne il senso: ma non è vero che l’amore acceca, dice la giovane Maria. E il padre, il senatore Beffardi (Toni Servillo), che si appresta a votare tra molti tormenti in dissenso dal gruppo contro il decreto Sacconi: «Il dolore non nobilita l’uomo».
Mettendo con materiale d’archivio la politica sullo sfondo, il film suggerisce che di questa umanità non vi fu, in quella vicenda, quasi nessuna traccia. Non è un caso che le uniche riprese televisive proposte nel film (oltre a quelle legate a Eluana) riguardano uno straniante documentario sulla vita che gli ippopotami conducono in acqua: una vita-solo-vita, una vita interamente e sordamente naturale, muta come in una specie di acquario e sempre uguale. Ma non è vero che la vita e la morte rimangono uguali, come cantava Guccini: rimangono tali solo se la vita viene fissata come nuda vita di contro alla morte, e la morte non viene vissuta come un’esperienza umana, di cui è possibile appropriarsi (se si è laici) o in cui (se si è credenti) è possibile affidarsi.
Ma non è vero neppure, ed è l’unico appunto che vorremmo muovere al film, al di là del suo valore estetico, che la politica è solo una commedia macabra e farsesca, e che l’unico politico serio è quello che si dimette e lascia lo scranno di senatore, invece di urlare rancoroso in Parlamento. Anche la politica ha una sua nobiltà. Che può ritrovare, se rinuncia a far coincidere il corso del mondo (magari con la forza di una pretestuosa decretazione d’urgenza) con le nostre esacerbate virtù, e prova invece ad alleviare il peso della loro mancata coincidenza nelle vite di ognuno di noi, mettendolo in un destino comune.

l’Unità 9.9.12
Biotestamento, Pdl avanti tutta Il Pd presenterà una legge


Si riaccende il dibattito politico sul biotestamento. Per il Pdl c’è un «vuoto normativo intollerabile», mentre il Pd annuncia la presentazione martedì di una «legge Martini» sul fine vita.
 «È ora che il Senato affronti il ddl sulle ’Dat’ le dichiarazioni anticipate di trattamento e approvi in via definitiva il provvedimento», affermano Gasparri e D’Alia, capigruppo al Senato di Pdl e Udc. «Dal punto di vista parlamentare sottolinea Gasparri la questione è ampiamente matura. Il ddl è tornato da tempo al Senato dalla Camera, riteniamo perciò che sia tempo di esprimersi. Il mio auspicio è che lo si approvi così come ci è pervenuto con le modifiche introdotte a Montecitorio. Il vuoto normativo è intollerabile». «Individueremo un calendario trimestrale per poter esaminare le Dat prima della fine della legislatura aggiunge D’Alia -. Vogliamo evitare che un tema così delicato entri nella contesa elettorale e che il testo varato venga rimesso in discussione nella prossima legislatura». «Invidiamo coloro che in materia nutrono certezze dogmatiche», è la posizione di Cicchitto, presidente del gruppo Pdl alla Camera.
Una «legge Martini» sul fine vita è quella che invece presenterà martedì prossimo alla Camera Furio Colombo. Il deputato del Pd ha spiegato che saranno «due semplici articoli» e nel preambolo saranno contenute le cose raccontate dalla nipote del cardinale sulle sue disposizioni in punto di morte. «Ritengo dice Colombo che il cardinale non abbia esercitato un privilegio ma un diritto che va esteso all’intera cittadinanza»

Repubblica 9.9.12
Un timido Bellocchio sul caso Englaro


Si sarebbe potuto temere dall’autore de I pugni in tasca e L’ora di religione un eccesso di furia indignata.
A sorpresa invece Bella addormentata ha il difetto di apparire troppo prudente.
Preoccupato di «non offendere nessuno», Bellocchio intreccia storie e personaggi con una strana ansia da par condicio. Ma alla fine i personaggi della finzione appaiono al di sotto della tensione del conflitto reale, che esplode nelle immagini di cronaca splendidamente montate. Lo splendore del cinema di Bellocchio riemerge in scene indimenticabili, come il bagno da basso impero dei senatori, oppure in figure laterali, il capo banda berlusconiano interpretato dal grandioso Roberto Herlitzka. A parte la scrittura, tutto è straordinario, regia, fotografia di Ciprì, montaggio di Francesca Calvelli, il portentoso gruppo di attori.
BELLA ADDORMENTATA Regia di Marco Bellocchio

Repubblica 9.9.12
Delusione Marco Bellocchio il Leone d’oro va a Kim Ki-duk
Gaffe sul palco: scambiati i premi tra Seidl e “The Master”
di Maria Pia Fusco


VENEZIA — A movimentare una cerimonia tutta all’insegna della sobrietà, neanche un fiore sul palco, c’è il premio scambiato. Mancava nella storia della Mostra: Ulrich Seidl stava per portarsi in Austria il Leone d’argento destinato al regista Paul Thomas Anderson per The master, al quale sarebbe arrivata la più modesta targa del premio speciale della giuria assegnato al suo Paradise: Faith. Se ne accorge Laetitia Casta, lo segnala con il suo migliore, luminoso sorriso, Philip Seymour Hoffman, riconquista il palco e s’impossessa del riconoscimento da portare al regista americano (assente), con il quale ha un rapporto di vent’anni di amicizia e cinque film insieme. Ulrich Seidl, che già aveva vivacizzato le cronache del festival con il suo film per il rapporto tutt’altro che mistico e spirituale della protagonista con Gesù, al quale rivolge sospiri e parole d’amore — «Sei un uomo bellissimo, il più bello di tutti» — prende il suo premio, ringrazia, poi si sente in dovere di rassicurare la parte del pubblico delusa e afferma con forza: «Non sono blasfemo».
Oltre per lo scambio di premi, la serata conclusiva della 69ª Mostra sarà ricordata per la delusione italiana: l’esclusione dai premi di un film bello e importante come Bella addormentata, applaudito dal pubblico, apprezzato da tanta critica non solo italiana, è difficile da accettare. E per Bellocchio è quasi uno sberleffo che il suo film sia citato, insieme a È stato il figlio per il premio Mastroianni al giovane Fabrizio Falco, nel cast di entrambi i film. Daniele Ciprì, regista esordiente, conquista però il premio per la sua professione di magnifico direttore della fotografia. Alla soddisfazione per questi premi, l’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco aggiunge il dispiacere per l’esclusione di Bella addormentata, colpito come «un tema così universale e dibattuto non sia stato preso in considerazione dalla giuria». Un italiano soddisfatto c’è. Nanni Moretti che distribuirà con Küf, (Muffa), il film del turco Ali Aydin, premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis, storia di un padre che cerca il figlio scomparso e che evoca la protesta silenziosa delle “madri del sabato” che a metà degli anni 90 sostavano davanti al liceo francese di Istanbul con le foto dei loro cari scomparsi, arrestati e perduti. Moretti ha ricordato il suo anno “particolarmente felice” da distributore, Oscar a Una separazione e la scelta, prima di Berlino di Cesare deve morire dei fratelli Taviani, fiero di aver scelto un autore che sia pura alla sua prima regia «dimostra uno stile e una personalità già ben definiti». Infine, una serata condotta con garbo e semplicità da Kasia Smutniak, sarà ricordata sia per lo straordinario rispetto delle previsioni (del Leone d’oro a Kim Ki-duk per Pieta, si parlava addirittura alla vigilia della manifestazione). Premio per altro meritato. E al regista coreano va anche il merito di un gradito fuori programma in una cerimonia in cui — va bene che c’è la crisi — i toni sono stati dimessi. Tanto dimessi. Dopo i ringraziamenti di rito, Kim Ki-duk canta — per i giornalisti coreani in sala stampa è un momento di gloria — una canzone popolare coreana, Arirat, parla della bellezza della campagna, dei colori, della pace sotto il cielo sereno. Unanime l’applauso a Philip Seymour Hoffman (Coppa Volpi da dividere con Joaquin Phoenix), stropicciato e affannato, perché «sceso da poco dall’aereo, mi sono cambiato adesso nel bagno, non mi giudicate», divertito, simpatico, un premio più che meritato per l’interpretazione magistrale in The master, carismatico e ambiguo nel suo rapporto quasi morboso con il personaggio di Phoenix, del quale loda «l’energia e la forza indomita. Recitare con lui significa cercare di domarlo. Non ci sono riuscito».

Repubblica 9.9.12
L’autore di “È stato il figlio” dal 14 nelle sale
Ciprì: “Sono felice ma meritava anche Bella addormentata”
di Arianna Finos


VENEZIA — «Dedico questo premio a due persone che non ci sono più, mio fratello e il collega Marco Onorato. E a Marco Bellocchio, un regista giovane e moderno cui mi lega una sorta di fratellanza». Daniele Ciprì, debuttante a cinquant’anni, è emozionato come un ragazzino. Alla Mostra l’autore palermitano è arrivato per l’esordio da regista senza Maresco con È stato il figlio (in sala dal 14 settembre) e come direttore della fotografia per Bella addormentata di Marco Bellocchio. Si porta a casa gli unici due premi italiani: quello alla fotografia e il Mastroianni vinto dall’esordiente 24enne Fabrizio Falco. L’Italia ha vinto poco. Soprattutto c’è delusione per il film Bella Addormentata.
 «Io a Marco avrei dato il Leone d’oro. Ha fatto un bellissimo film al quale ho dato
il mio contributo. Con Marco ormai ci lega una sorta di fratellanza».
Come avete vissuto la gara tra voi due?
 «È venuto per il mio film e ha detto “me ne frego del resto, ti faccio in bocca al lupo”. Io non ho potuto accompagnare il suo, perchè ero impegnato altrove. Lavoreremo
ancora insieme».
La coppia Ciprì e Maresco è finita per sempre?
 «Con Franco mi sono separato da tanto tempo, nove anni. Non ci sentiamo più, abbiamo rotto per motivi molto personali. Però artisticamente abbiamo avuto un periodo meraviglioso».
C'è qualcosa di quel periodo in È stato il figlio?
 «Tutto. È qualcosa che ti porti dietro perché era uno stile preciso: nella cifra del testo nelle immagini. Tutto un percorso che si può cogliere. E spero che lo colga anche lui».
Cosa ha convinto la giuria internazionale?
 «Secondo me è l’universalità della storia. L’immagine della disperazione di una famiglia sul fronte economico credo appartenga ai nostri giorni».
Oggi è il momento più felice della sua carriera. Qual è stato il peggiore?
 «La censura al film Totò che visse due volte. Ci tolsero il finanziamento pubblico. Certo, non avevamo fatto un cartoon, ma era un film d’autore che non è stato rispettato e per cui abbiamo pagato prezzi altissimi».

Repubblica 9.9.12
Vince il cinema di qualità, anche se l’Italia digiuna
di Natalia Aspesi


VENEZIA ANCORA una volta un film italiano non ha vinto il Leone d’Oro, che è andato a Pietà di Kim Ki-duk, primo film coreano a ricevere il massimo riconoscimento della mostra. Era una vittoria annunciata da giorni.
PERCHÉ il film era piaciuto al pubblico e a quasi tutta l’informazione, quindi la decisione della giuria non è stata né uno scandalo né una sorpresa. Solo una nuova delusione per il nostro cinema che, con tre film in concorso, non riceve la statuetta dorata dal 1998: ed erano in molti a pensare che finalmente questa volta Marco Bellocchio col suo bel film Bella addormentata, avrebbe conquistato il favore dei nove giurati, tutti stranieri tranne Matteo Garrone. Non è stato così, e si può immaginare il dispiacere del regista, che era a Udine per un incontro pubblico con Peppino Englaro: del resto, qui alla mostra, il suo film era stato il più applaudito, mentre nel mondo è stato invitato a tutti i festival. Sono già cominciati i lamenti e le accuse, e per esempio Del Brocco di Rai Cinema ha espresso il suo risentimento perché «un’opera importante e coraggiosa come quella di Bellocchio, non sia rientrata nella rosa dei premi pur toccando un tema così universale». Più incattivito l’onorevole Giro, Pdl, ex sottosegretario ai Beni culturali: «Anche quest’anno il cinema italiano esce a pezzi da Venezia. Gli altri vengono qui e si premiano tra loro, ma per gli italiani non c’è niente.
Fanno bene Moretti Garrone e Sorrentino a preferire Cannes, dove infatti li premiano». Però a Cannes non premiano da anni un film francese...
Possiamo essere patriotticamente feriti, ma i film in concorso erano 18 e i premiati sono tutti degni. Soprattutto Pieta, ma anche gli altri, in qualche modo percorsi da forme di fede, da sentimenti estremi che intrecciano perdono e vendetta, peccato e assoluzione, dipendenza e protezione. Così il Leone d’Argento è andato a The master, dell’americano Paul Thomas Anderson, uno dei film più amati della Mostra, e la Coppa Volpi ai suoi due bravissimi protagonisti, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman: il reduce di guerra alcolista, violento e disperato cui il geniale organizzatore di una setta nascente, manipolandolo, gli promette normalità e redenzione. Una fanatica cattolica innamorata di Gesù al punto di tenere il crocefisso sotto le coperte, ha fatto vincere il premio speciale della giuria all’austriaco Ulrich Seidl, per Paradise: Faith. Si aspettava uno scandalo, non c’è stato, perché la geniale, insignificante, Maria Hofstätter è un figura dolente, patetica, grottesca, sia quando si fustiga o si mette i cilicio, che quando porta la statua della Madonna nelle case dei peccatori. La deliziosa, giovanissima Hadas Yaron, israeliana, coppa Volpi alla miglior attrice, illumina uno dei film più interessanti della Mostra, Fill the void, regista Rama Bursthein, americana che vive a Tel Aviv e per amore è entrata nella comunità chassidica di quella città, dove la religione domina ogni evento e ogni rapporto. Di un film bello come Après mai del francese Olivier Assayas, sul caos giovanile degli anni 70, si è premiata solo la sceneggiatura; gli italiani hanno ottenuto premi che più di consolazione non si può, tanto per non farli sparire dal cinema internazionale. Daniele Ciprì al suo primo film È stato il figlio, come regista, ha dovuto accontentarsi del premio al contributo tecnico, cioè al suo lavoro di direttore della fotografia, per il suo film e non per Bella addormentata. Mentre l’unico italiano contentissimo è certamente il giovane, e davvero bravo, Fabrizio Falco, premio Mastroianni per l’attore emergente, sia nel ruolo di un ragazzo dimesso e dal destino drammatico nel film di Ciprì, che in quello di un incontrollabile nevrotico con Bellocchio. Il Leone d’Oro Pieta è forse, con la sua carica di violenza fisica e psicologica, il film più spirituale, per qualcuno addirittura più cristiano, della Mostra.
Si racconta che la notte scorsa per cercare di ottenere un premio per Bellocchio, sia stato fatto una specie di assedio alla giuria: inutilmente. Ha commentato uno di loro: «Voi italiani vi guardate sempre l’ombelico, siete chiusi nelle vostre storie, nei vostri eventi, i vostri film sono autoreferenziali, li capite solo voi. Il cinema deve parlare al mondo, deve proporre temi universali, come lo erano quelli della tragedia greca. Tutti i film scelti dalla giuria sono comprensibili ovunque, e sono piaciuti anche al pubblico e ai critici qui alla Mostra».

Corriere 9.9.12
Tensioni in giuria. Lunghissime discussioni. La Casta: il regista di «Gomorra» è stato patriottico
Il presidente zittisce Garrone: su Bellocchio nessuna spiegazione
Mann: criteri di giudizio riservati, mai badato ai singoli Paesi
di Stefania Ulivi

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