martedì 11 settembre 2012

l’Unità 11.9.12
Camusso: risposte concrete o sarà sciopero generale
Il direttivo Cgil indica una mobilitazione «di lunga durata»
Oggi l’incontro governo-sindacati
di Laura Matteucci


Detassare le tredicesime e incentivare i premi di produttività: saranno le due principali proposte che Cgil, Cisl e Uil avanzeranno al governo, oggi nel corso dell’incontro convocato da Mario Monti. Proposte che partiranno dalla necessità di abbassare l’imposizione fiscale sul lavoro, come ripetuto più volte dai segretari confederali, cui è legata la possibilità dello sciopero generale della Cgil. «Stiamo perdendo mille posti di lavoro al giorno», lancia l’allarme il segretario Uil Luigi Angeletti, parlando di «autunno drammatico». Il leader Cisl Raffaele Bonanni da giorni insiste su un Patto che aumenti la produttività, chiedendo al governo di riportare all’insù i tetti per la detassazione del premio di produttività (al 10% per un massimo di 6mila euro l’anno per redditi sotto i 40mila euro). E la segretaria Cgil, Susanna Camusso, spinge per un abbassamento delle tasse per le tredicesime. «Prima di parlare di riduzione del cuneo fiscale dice credo che si debbano ridurre le tasse sui lavoratori e pensionati. Serve un segnale di discontinuità, per dare un po’ di soldi ai lavoratori e rilanciare i consumi. E questo si può realizzare detassando le tredicesime fino a 150mila euro di reddito». Dall’incontro di oggi con il governo, Camusso conta possano arrivare delle prime risposte nella direzione di equità e crescita, «visto che finora ci sono state solo scelte di rigore, pagate prevalentemente dai dipendenti e dai pensionati».
RUOLO PROPOSITIVO
Camusso ne parla al Direttivo della Cgil, ieri, elencando una piattaforma di obiettivi raggiungibili su redditi e lavoro. Per sostenerli, prospetta una «mobilitazione di lunga durata» fino allo sciopero generale. Nella relazione che ha aperto i lavori in Corso d’Italia, Camusso mette in cantiere lo sciopero dei lavoratori pubblici, già proclamato dalle categorie di Cgil e Uil per il 28 settembre; una grande iniziativa di mobilitazione per il lavoro, che riunifichi le tante vertenze aperte, da tenersi in ottobre; infine lo sciopero generale se nella Legge di stabilità non ci saranno risposte positive su redditi e lavoro. Reddito e lavoro sono i temi al centro della piattaforma. Innanzitutto con la richiesta di una «riforma fiscale, che parta dalla patrimoniale dice Camusso ma è difficile immaginare che possa essere realizzata. Per questo è necessario utilizzare subito le risorse recuperate con la lotta all’evasione fiscale per detassare le tredicesime dei dipendenti e dei pensionati e ridare così un po’ di ossigeno a coloro che in questi ultimi mesi hanno visto aggravare pesantemente le loro condizioni materiali, pagando più di altri il rigore imposto dal governo e salvando il Paese dal baratro». Il lavoro, ribadisce Camusso, necessita di «un intervento pubblico immediato da parte del governo per riunificare le tante vertenze aperte, a cominciare da Alcoa, e trovare soluzioni di tutela delle attività produttive accompagnandole fuori dalla crisi». Tra l’altro, proprio ieri è stato diffuso uno studio dell’Ires Cgil, secondo il quale sono quasi 4 milioni e mezzo le persone nell’area della «sofferenza occupazionale». L’inattività si legge nella ricerca è un fenomeno molto più diffuso in Italia che nel resto d’Europa, dentro al quale si trova una parte rilevante di esclusi dal lavoro (scoraggiati e i cassaintegrati) non formalmente riconosciuti come disoccupati. Inspiegabile, altrimenti, un tasso di disoccupazione nella media e un tasso di occupazione molto più basso di quello europeo. Si arriva alla enorme cifra di 4 milioni e 392mila persone (nel secondo trimestre del 2007, prima della crisi, erano 2 milioni e 475mila, con un aumento del 77%).
«Sono necessarie prosegue Camusso nella sua relazione al Direttivo politiche industriali e per il lavoro da parte del governo, considerando chiusa la stagione del mercato regolatore». Fondamentale definire le direttrici del Paese, stabilendo «in quale direzione dobbiamo andare». La segretaria rileva il ruolo propositivo della confederazione, che sta realizzando un «Piano per il lavoro» che contiene un’idea per il Paese e il suo assetto strategico, aperto anche al contributo di esterni e che il sindacato conta di varare in occasione della prossima Conferenza di programma. Nella relazione Camusso ha parlato anche delle riforme avviate, delle pensioni e del lavoro: «Nella prossima legislatura dice andranno cambiate».

Repubblica 11.9.12
L’iniziativa della Cgil e il referendum appoggiato da Cofferati scuotono il centrosinistra
E sul lavoro il Pd rischia la spaccatura Letta: “Non è il momento delle serrate”
di Goffredo De Marchis


ROMA — La “scomunica” per Sergio Cofferati è netta. «Capisco la sua posizione legata a una battaglia del passato. Ma la logica del Pd è diversa: serietà e tenuta. E se Cofferati vuole il referendum sulla riforma Fornero allora per coerenza voti Vendola alle primarie», dice il vicesegretario Enrico Letta. Il Partito democratico cerca di fermare subito il dibattito sul lavoro che sta nascendo al suo interno. Lo fa con un doppio no: all’ex segretario della Cgil che annuncia il suo sostegno ai quesiti proposti da Idv e Sel contro Elsa Fornero e all’attuale leader della Confederazione Susanna Camusso che ipotizza il ricorso allo sciopero generale. «Gli scioperi li fanno i sindacati. Noi stiamo sostenendo un governo e non gli organizziamo contro una serrata», taglia corto Letta. Ma è evidente che un problema può aprirsi nel Pd se altri seguiranno la linea di Cofferati, figura- simbolo di una certa sinistra e attualmente europarlamentare del Pd. La riforma dell’articolo 18 non piace a molti nel Pd. Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, condanna lo strumento dei quesiti, ma non chiude all’ipotesi di una controriforma una volta che il centrosinistra abbia conquistato Palazzo Chigi. Sulla stessa posizione è l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, impegnato anche nelle modifiche della riforma delle pensioni. Il lavoro è un punto chiave del programma di Pier Luigi Bersani, per le primarie e per le elezioni politiche. Il segretario ne ha parlato a lungo nel discorso finale della festa democratica di Reggio Emilia. «Il problema colpisce tutti, non solo noi. Penso a Hollande in Francia. Appena eletto ha dovuto affrontare il licenziamento di 10 mila persone dalla Peugeot — dice Francesco Boccia —. Per questo alla Camusso dico: sulla detassazione del lavoro siamo con te, sulla patrimoniale siamo stati i primi a proporla e la difendiamo. Ma questo non è il momento di uno sciopero generale». Letta vede le condizioni per evitare divisioni. «Perché il lavoro è una nostra priorità, ci stiamo sopra ogni giorno. Saremo saggi ed eviteremo confusioni, ne sono certo».
Nessun imbarazzo, dunque. Ma a patto che la Cgil non vada avanti nella minaccia di una serrata nazionale. E che Cofferati non faccia proseliti. Per questo l’ex leader sindacale va in qualche modo scomunicato e messo fuori dal Pd, in un senso figurato. «Se Sergio ha sentito le parole di Bersani avrà capito che c’è grande spazio nel centrosinistra per i problemi che denuncia — avverte Boccia —. Ma adesso è il momento di sostenere il governo e il Pd, non di sostenere se stessi e la propria storia». Il referendum è fuori dalla coalizione. «Lo propone l’Idv, un partito che non è più alleato con noi, e lo propone Sel, che è fuori dal Parlamento e non fa parte della maggioranza. Se Cofferati sceglie la sua strada, non potrà stare con Bersani alle primarie e sosterrà Vendola». Ma sul lavoro, ed è sempre più evidente dopo l’intervento di Bersani a Reggio Emilia, il Pd prenderà le distanze dal governo, ne farà il principale elemento di distinzione rispetto a Monti. Cercando di tenere in equilibrio il suo appoggio alla maggioranza e la campagna elettorale.

il Fatto 11.9.12
Alcoa, scontri a Roma. Il governo scherza col fuoco
350 operai e il doppio di agenti: cariche e feriti durante il corteo dei lavoratori sardi
Scontri e feriti in una Roma blindata dalla polizia. Fassina (Pd) cacciato dal presidio
di Salvatore Cannavò


Fumo e petardi. Rabbia e disperazione. Le botte, e poi, la delusione finale. L’ennesima giornata dell'Alcoa a Roma si conclude con una decisione politica lontana anni luce dalle necessità della fabbrica. L'impegno che il governo, dopo nove ore, garantisce è quello di un “rallentamento” dello spegnimento della fabbrica in grado di assicurare un'eventuale, rapida, ripartenza.
L'ALCOA intende spegnere 382 “celle” – finora ne sono state spente 60 – in tre mesi, fino al 31 ottobre. A quella data chiuderà e per gli operai resterà soltanto la cassa integrazione. Nel verbale di ieri “il processo di spegnimento delle celle già avviato procederà in modo più graduale di quanto originariamente programmato”. La fonderia resterà operativa per tutto il mese di novembre. Poi, l'immancabile cassa integrazione, “in deroga, “ per i lavoratori dell'indotto. Accanto al “processo di rallentamento”, la trattativa produce un altro risultato: “Alcoa è uno dei casi aziendali che seguo più da vicino – dichiara il ministro Passera. “Vi garantisco il mio impegno personale diretto a trovare una soluzione”. Quando scendono in strada a raccontare tutto questo, i sindacalisti si trovano di fronte a spintoni e fischi e alla richiesta di “tornare dentro a trattare ancora”. Qualcuno inizia a urlare: noi da qui non ce ne andiamo.
Loro, i circa 350 operai che hanno assediato per un giorno intero il ministero dello Sviluppo economico, guardati a vista da un numero doppio di poliziotti, erano partiti il giorno prima alle 15. Si sono imbarcati a Olbia sulla nave che li ha portati a Civitavecchia dove, super scortati sui loro pullman, “come i tifosi dello stadio”, sono arrivati a piazza della Repubblica. Breve corteo fino al ministero dove però l'assedio della polizia è aumentato, con i primi scontri.
La sproporzione di forze si misura in via Molise: due file di reparti schierati sul lato di via Veneto e poi, su via San Basilio, altre quattro file (due di Carabinieri da un lato e altre due della Guardia di Finanza dall'altro). Vietato uscire, difficile entrare. Addosso a quei cordoni, gli operai andranno a sbattere pesantemente intorno alle 13,30, quando la delegazione trattante è entrata da poco più di un'ora, e scatta lo scontro più duro della giornata. Una carica di alleggerimento da parte di una polizia schierata massicciamente anche se gestita con una certa oculatezza dai suoi dirigenti. I messaggi di solidarietà tra poliziotti e operai si moltiplicano, sorrisi e, a volte, strette di mano. Ma ognuno svolge il suo ruolo e i manganelli ruotano lo stesso. I feriti saranno una ventina.
DAL TAVOLO di trattativa le notizie giungono con il contagocce e sono brutte. E così, quando il responsabile lavoro del Pd, Stefano Fassina, entra nell'angusta via Molise e si fa circondare dagli immancabili microfoni di stampa e tv, subito gli si avvicinano alcuni operai. Qualcuno parla di “delusione”, qualcun altro è un po' più animato e subito attira l'attenzione degli altri. Attimi di confusione, si forma un parapiglia, Fassina è costretto ad andarsene, accompagnato dalla polizia. Gli operai Alcoa più avveduti, capendo che monterà la polemica, accusano alcune persone “estranee alla fabbrica” di aver dato vita alla contestazione. Ma che siano stati anche gli operai è evidente a tutti: due di loro, incuranti delle polemiche, lo dicono ai nostri taccuini: “Hanno rovinato l'Italia, qui non si devono far vedere”. E se venisse Bersani? “Meglio di no”, la risposta secca. Come politici va meglio a Cesare Damiano, sempre del Pd, che passeggia indisturbato prima di infilarsi nel ministero mentre a Paolo Ferrero di Rifondazione comunista vengono scattate foto con il caschetto in testa. La giornata prosegue al ritmo ossessivo dei tamburi e dei caschi sbattuti per terra. E dei petardi. Ne vengono sparati a centinaia. Alle 17,40 arriva la notizia che il ministro Passera è arrivato, sembra una buona cosa. Si ridà credito ai potenziali acquirenti Glencore e Klesh, ma gli operai ancora non si fidano. E a sintetizzare gli animi è Frano Bardi, segretario Fiom del Sulcis, al termine dell'incontro: “Questo governo si è mostra del tutto inconcludente”.

Repubblica 11.9.12
E le tute blu strappano le tessere “Traditi da tutti, anche dalla sinistra”
I lavoratori: se la fabbrica chiude saremo costretti a emigrare
di Maria Novella de Luca


ROMA — «Sono uno degli operai addetti allo spegnimento delle celle.
Questo vuol dire che sto fermando la fabbrica che dà lavoro a me e ai miei compagni. E se rifiuto l’azienda mi licenzia. Potete immaginare come mi sento? A pezzi, tradito, deluso, da tutto e da tutti, ma in testa ai traditori c’è il mio partito, il Pd. Ero un elettore di sinistra, non lo sarò più, la verità è che la politica ci ha abbandonato, siamo rimasti soli, disperati e incazzati». È nel rumore cupo e sincopato dei tamburi e degli elmetti sbattuti sull’asfalto che Antonio, operaio Alcoa addetto all’ingrato compito di spegnere giorno dopo giorno l’impianto di Portovesme, racconta il suo dramma umano e politico insieme. «Bastardi, ci avete deluso». Sono passati pochi minuti dalla contestazione dura e violenta del corteo a Stefano Fassina, responsabile per il lavoro del Pd, e in tanti, spesso padri e figli insieme, tirano fuori le tessere di partiti e sindacati facendo il gesto di romperle in mille pezzi. Sotto le finestre del ministero dello Sviluppo si consuma un
nuovo strappo: di qua la tragedia del Sulcis Iglesiente, di là una politica senza risposte. Arrivano da Carbonia, Iglesias, Portoscuso, Sant’Anna Arresi, elmetti e bandane con i Quattro Mori e sul petto la scritta “disposti a tutto”. «Destra, sinistra, sindacato, siete traditori, ad ogni campagna elettorale ci avete chiesto il voto, per poi allearvi con i padroni».
Andrea Grussu ha 33 anni, da 10 lavora nelle “sale di elettrolisi” e sull’Alcoa ha basato tutto il suo progetto di vita. «Ho comprato una casa, devo pagare il mutuo, andate in cassa integrazione ci dicono, con gli incentivi dell’azienda si arriva quasi allo stipendio pieno, ma sono giovane, voglio lavorare, non è dignitoso vivere di sussidi. Che cosa è venuto a fare qui Fassina? A darci la solidarietà del Pd? E poi? Lo sanno tutti che l’Alcoa è un’azienda produttiva, e invece la faranno chiudere per difendere gli interessi dell’Enel... Tanti di noi si stanno cancellando dal sindacato, gli operai sono diventati apolitici». «Unidos nella lotta — dice lo striscione — Portovesme non si tocca». Già. Perché Portovesme è territorio bruciato, nessuna riconversione è possibile, l’Alcoa ha inquinato tutto, dice amaro Elio Loi, oggi in pensione, «e a lavorare l’alluminio ci si ammala, indagate sui casi di tumore, eppure noi operai siamo così disperati che lottiamo anche per difendere un posto di lavoro pericoloso».
Padri e figli. Antonello Manca nell’impianto ci lavora da 36 anni, dal 1975, e di quell’alluminio «di qualità che anche la Ferrari ci chiede» va tuttora fiero. «Adesso in fabbrica c’è anche mio figlio, se Alcoa chiude la mia famiglia va in rovina, in Sardegna non c’è nient’altro, emigreranno tutti, ragazzi che speravano di costruirsi un futuro, di potersi sposare... L’ho deciso qui, adesso, a votare non ci vado più, né sinistra né destra, anche i sindacati hanno fatto patti e detto bugie. Guardatevi intorno: la politica ha paura di noi, anche questi tecnici, non cercano voti ma proteggono le loro lobby economiche. Mi vergogno: sono un lavoratore, ho 56 anni, pago le tasse fino all’ultimo euro e mi hanno chiuso qui, tra i blindati e i celerini, come fossi un criminale».
Alla fine della giornata le bandiere dei sindacati non sventolano più. I bastoni servono per battere sui tamburi e i simboli sono stracci arrotolati. Antonello Casula, giovane, bruno e arrabbiato è venuto a Roma insieme alla moglie, Marina Ambus, maestra precaria. Antonello porta sulla maglietta la foto delle loro figlie bambine, Noemi e
Giada. «Voglio far vedere a tutti cosa vuol dire chiudere l’Alcoa, chi affameranno domani se ci tolgono la fabbrica. I partiti? Se ne fregano. Che mangeranno le mie figlie se perdo il lavoro, visto che mia moglie spesso la chiamano soltanto per un giorno di supplenza in un mese intero?».
Sabrina, 37 anni, una laurea in Ingegneria è una delle poche donne impiegate nel colosso di Portovesme. «Mio padre era un operaio dell’Alcoa, è andato in pensione e sono stata assunta, come impiegata. Guadagno poco, ma ho scelto di restare per essere vicina alla famiglia. Anche con la mia laurea però se perdo questo impiego in Sardegna potrò fare poco o nulla. E forse dovrò emigrare, come tanti miei amici». E lo strappo con la politica si fa ancora più duro di sera, quando i delegati sindacali annunciano lo slittamento della chiusura soltanto di poche settimane. Amaro il commento di Marco, che ha gli occhi rossi: «L’Alcoa verrà dismessa, e a noi resterà il cadavere del Sulcis, una terra morta, avvelenata, dove non può crescere né nascere più nulla».

l’Unità 11.9.12
Noi siamo e saremo con gli operai
di Stefano Fassina


NOI SIAMO IL PARTITO DEL LAVORO. NOI SAREMO SEMPRE IL PARTITO DEL LAVORO. SIAMO E SAREMO SEMPRE CON IL LAVORO CHE C’È, IN TUTTE LE FORME: con l’operaio e con l’insegnante; con il piccolo imprenditore e con il giovane professionista precario. E siamo e siamo e saremo sempre con il lavoro che non c’è: con le ragazze e i ragazzi smarriti, senza speranza nel Mezzogiorno; con gli «esodati», persone, non un numero della Relazione Tecnica del Decreto «Salva-Italia», traditi dal lavoro, colpiti da un intervento iniquo soltanto in parte corretto.
Ieri, a via Molise, di fronte al ministero dello Sviluppo Economico, in mezzo ai lavoratori dell’Alcoa, le tensioni sono state verso di noi perché noi c’eravamo. Perché noi ci siamo sempre stati.
C’eravamo giovedì scorso, a Portovesme, davanti ai cancelli della multinazionale americana, unico produttore nazionale di alluminio. C’eravamo, per dare solidarietà e per ascoltare la rabbia e la fame di lavoro dei tre operai saliti su un Silos a 70 metri di altezza. Come c’eravamo nei mesi scorsi e ancora prima, nei viaggi della speranza a Roma, sotto Palazzo Chigi.
Noi ci siamo. Con i minatori della Carbosulcis. Con gli operai dell’Ilva di Taranto. Con le 70 donne, coraggiose mamme, figlie, nonne, senza stipendio da mesi chiuse giorno e notte dentro la Icb a Legnaro, nel profondo Nord. Con i “piccoli” assediati nella Val di Susa, “colpevoli” di voler lavorare. Con i “collaboratori” di Almaviva, call-center romano in bilico. Con gli uomini e le donne di Eutelia, derubati del loro futuro da banditi travestiti da imprenditori.
Gli spread della finanza accecano chi guida a Berlino, a Francoforte, a Bruxelles, quindi a Roma. Gli interessi più forti rimuovono le lezioni della storia. Andiamo in testa coda senza vedere il fossato dell’economia reale. La disperazione del lavoro diventa acuta e rianima i populismi.
No, noi non siamo venduti, come mi è stato sputato in faccia ieri. No, non siamo tutti uguali. Noi ci siamo e ci saremo. Quando c’è il sole, purtroppo sempre più raramente. E quando c’è tempesta, come è nella livida stagione in corso.
Noi siamo impegnati, con voi, a cambiare rotta. È una sfida di portata storica per rigenerare da un’Europa oggi matrigna la madre della civiltà del lavoro. Combattiamo, come voi, a mani nude, contro chi vuole riportare indietro la storia. Insieme, soltanto insieme, possiamo farcela.

Corriere 11.9.12
«Le spinte? Resterò tra chi lavora Per le élite le elezioni sono inutili»
«Interessi materiali che usano il velo delle soluzioni tecniche»
Intervista a Stefano Fassina di Fabrizio Roncone


ROMA — Prima telefonata, ore 12.50.
«Mhmm... senta... no, ecco: potremmo risentirci più tardi? Ho avuto un problema e...».
(È incrinata, non tremante, la voce di Stefano Fassina, 46 anni, responsabile del settore Economia e lavoro del Pd: i lavoratori dell'Alcoa, pochi minuti fa, lo hanno aggredito, spintonato, insultato, e ora, mentre parla al cellulare, in auto sta lasciando via Molise, dove ha sede il ministero dello Sviluppo economico).
Seconda telefonata, ore 16.45.
Brutta scena, lì, con gli operai sardi.
«Guardi, io penso che quelle spinte che ho ricevuto siano un segnale preoccupante della sofferenza sociale diffusa nel nostro Paese. Però il Pd ha le sue radici nel mondo del lavoro e io, questo dev'essere chiaro, tra gli operai, tra quegli operai, continuerò certamente a stare».
Ha avuto paura?
«No, paura no: naturalmente non è stato un bel momento».
Sono giorni complicati, faticosi per voi del Pd: a chi si riferiva il segretario Pier Luigi Bersani, sul palco di Reggio Emilia, quando ha detto: «Contro di noi si muovono forze vecchie e nuove»?
«Si tratta di forze che vogliono scaricare i costi dell'aggiustamento economico e sociale di cui l'Italia ha bisogno sulle spalle dei lavoratori, di chi è più debole e...».
Il concetto di forze occulte è grave ma vago: può fare qualche nome?
«Non ci sono nomi. Ci sono interessi».
Prosegua.
«Interessi materiali che qualcuno cerca di difendere, utilizzando il velo delle soluzioni tecniche per coprire scelte che, in realtà, sono profondamente politiche. Dopo un ventennio al riparo del populismo berlusconiano, pura ricerca del consenso senza riforme, ora tentano la via tecnocratica delle riforme senza consenso».
E su questa scena voi del Pd vi sentite come stretti in un...
«Ah no! Per cortesia, la prego di non usare la parola complotto! Qui non c'è alcun complotto, qui siamo dentro una normale dialettica politica».
Che tanto serena, però, non è, se poi Bersani avverte che «a decidere chi governerà sarà il voto degli italiani, e non i banchieri e le agenzie di rating».
«Vede, le parole di Bersani sono state pronunciate il giorno dopo il convegno di Cernobbio dove, con una notevole caduta di stile, un pezzo importante dell'élite economico-finanziaria di questo Paese ha purtroppo dato la netta sensazione di considerare le elezioni un passaggio inutile».
Ecco, così cominciamo a essere meno vaghi, Fassina.
«Eh... lo so. A loro avviso, infatti, non c'è nulla da decidere: l'unica direzione di marcia è quella oggi prevalente in Europa e seguita, con attenzione, anche dal nostro governo. Io invece penso che per ridurre il debito sia necessario cambiare strada: occorre puntare sull'economia reale, cioè sul lavoro e sul rilancio delle imprese, sulla redistribuzione del reddito in primis per via fiscale. Dobbiamo ridurre...».
Lei la cosiddetta agenda Monti vuole cambiarla, giusto?
«Senta, intanto le chiedo: cosa si intende per agenda Monti? No, perché se si intende il rigore, come tratto distintivo, allora le dico subito che il rigore c'è sempre stato anche nell'agenda del centrosinistra... Oppure c'è un riferimento alle liberalizzazioni? No, perché se è così, allora le ricordo che Bersani ne ha fatte a lenzuolate, di liberalizzazioni, e ben più incisive di quelle sbandierate dall'attuale governo negli ultimi mesi...».
A lei l'agenda Monti non piace.
«Io dico che l'agenda Monti va modificata. Anche perché, faccio notare, l'anno prossimo, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, il debito pubblico italiano, come quello di tutta l'area euro, sarà più elevato di quello del 2011, a causa della recessione determinata da un rigore cieco».
Rigore cieco, questa è un'affermazione pesante.
«Aspetti, non ho finito... Aggiungo che mi spiace se Casini predetermina l'esito del passaggio elettorale annunciando che "dopo Monti ci sarà Monti". Mi spiace perché oltre a rappresentare gli interessi dei banchieri con ex banchieri e quelli delle grandi imprese con ex presidenti di Confindustria, è necessario rappresentare anche gli interessi di 17 milioni di lavoratori, di 3 milioni di precari e di 4 milioni di micro e piccoli imprenditori».
Le dò una brutta notizia: l'agenda Monti piace anche a molti suoi colleghi di partito. A cominciare da Enrico Letta.
«Se ben ricordo, a luglio, all'assemblea nazionale, votammo tutti insieme la relazione di Bersani... Per questo suggerisco a tutti di recuperare piena autonomia culturale: smettiamola di parlare delle agende altrui e concentriamoci, piuttosto, su quella di Bersani».

Repubblica 11.9.12
Il responsabile economico dei Democratici: la disperazione sociale è un problema che il governo e il mio partito devono affrontare
“Mi contestano, ma tornerò in piazza con loro”
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Il Pd è il partito del lavoro. Quelle sono le sue radici. Quindi in piazza ci siamo stati, ci siamo e ci saremo ancora». Il responsabile economico dei democratici Stefano Fassina va sempre alle manifestazioni dei lavoratori, anche quando i suoi colleghi del Pd lo contestano. Voleva andare persino al corteo della Fiom dichiaratamente contrario al governo che il suo stesso partito sostiene. Fassina viene descritto come un amico degli operai e di tutti coloro che lottano per il lavoro. Amico anche dei tassisti ed “eletto” da Loreno Bittarelli, grande capo delle vetture pubbliche punto di riferimento della loro battaglia. Stavolta è stato contestato come se fosse un ultrà liberista. A Repubblica.it, a caldo, dice che non è successo niente di che. «C’è stato un momento di tensione. Però sono l’unico, o uno dei pochi, che segue questa vicenda e viene in mezzo ai lavoratori. Tra l’altro mi dicono che chi ha provocato non era un dipendente dell’Alcoa, loro stessi lo hanno allontanato. Questa è una vertenza che va risolta». Più tardi, a testa fredda, avverte tutti di smetterla con gli slogan contro la demagogia. È un messaggio che manda anche al Pd. «Possiamo fare molti seminari sul populismo. Ma poi i problemi reali sono più forti delle parole».
La contestazione l’ha sorpresa?
«Mah... Non voglio generalizzare. Mi ha contestato un gruppetto circoscritto, altri lavoratori apprezzano il nostro impegno a difesa del lavoro e della loro azienda. Giovedì scorso ero ai cancelli dell’Alcoa a Portovesme. Siamo vicini anche ai lavoratori della Carbonsulcis. E non ci sono solo io».
Il centrosinistra può risolvere da solo una crisi tanto profonda?
«La tensione e la disperazione sociale si allargano. È un problema per il Pd, è un problema per il governo che va affrontato. Noi mettiamo al centro il lavoro e non abbiamo cominciato ieri».
Può servire il referendum contro la riforma Fornero promosso da Idv e Sel? Lei lo firmerà?
«No, non lo firmo. Non mi piace lo strumento. Sono d’accordo sulla modifica dell’articolo 18 ma con un disegno di legge perché le leggi sul lavoro vanno scritte con le parti sociali, non combattute a colpi di referendum».
Passera prima ha detto che era impossibile salvare Alcoa, adesso sostiene che bisogna fare di tutto. Vede un governo confuso o peggio distratto?
«Diciamo così: dopo le riforme e l’attenzione allo spread, il governo ora deve dare priorità al tema del lavoro».

Corriere 11.9.12
Il timore che nessuno riesca a controllare le tensioni sociali
di Massimo Franco


Può darsi che i tafferugli di ieri a Roma fra operai dell'Alcoa e polizia siano un inizio di «autunno caldo»: una fase di proteste, cortei, perfino violenze come quelle che percorsero l'Italia quarant'anni fa. Eppure non si capisce che cosa possa unificare un malessere frammentato, provocato da situazione diverse; e affrontato da un sindacato diviso e da un governo che come minimo manca di esperienza politica. La crisi economica rappresenta una realtà dura che colpisce trasversalmente. Ma nessuno sembra in grado di intercettare e incanalare la rabbia, né di darle una risposta. L'insofferenza nei confronti dell'intero sistema partitico accentua una sensazione di impotenza e di rabbia.
Il fatto che alcuni manifestanti abbiano spintonato il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, fra i più critici del governo dei tecnici di Mario Monti, conferma la difficoltà di cavalcare la situazione anche da parte della sinistra. E la scelta di affidare inizialmente la trattativa con la delegazione degli operai soltanto al sottosegretario allo sviluppo economico, Claudio De Vincenzi, si è rivelata a doppio taglio. Gli interlocutori del governo l'hanno considerata la conferma di una sottovalutazione della crisi dell'alluminio in Sardegna. E il Pd ma anche l'Idv, Rc e il Pdl, si sono schierati con gli operai: sebbene la condanna dell'episodio che ha avuto come vittima Fassina sia stata espressa con parole non proprio identiche.
Il partito di Pier Luigi Bersani rivendica la presenza del suo responsabile economico al corteo come prova dell'«attenzione e dell'impegno del Pd verso i lavoratori e l'azienda in crisi»; accusa «un provocatore estraneo alla manifestazione» di avere inveito contro il Pd. Ma soprattutto chiede maggiore incisività al ministro Corrado Passera, inducendolo a precisare la propria posizione e in qualche modo a correggerla. «Non ho mai pensato che fosse un caso impossibile», si sarebbe difeso ieri pomeriggio il ministro dello Sviluppo economico, affiancando il suo sottosegretario nella trattativa con i sindacati. «Quando mi è stato chiesto che cosa ne pensassi, alla festa del Pd, non avevamo uno straccio di manifestazione di interesse da parte di altre aziende».
Al di là dell'esito della vertenza che riguarda la Sardegna, a far riflettere è un quadro di insieme difficile da tenere sotto controllo. Si teme il vuoto fra una miriade di micro-crisi che promettono di avvitarsi verso forme di contestazione esasperata; e l'assenza di organizzazioni e istituzioni in grado di governarle. Al ministero dello Sviluppo economico esistono oltre centocinquanta dossier che riguardano altrettante situazioni difficili, e non solo a livello industriale. La preoccupazione palpabile è che nell'incapacità o nell'impossibilità delle forze sindacali e dell'esecutivo di risolverle, possano degenerare fino a diventare un problema di ordine pubblico.
Le violenze di ieri nella capitale, con quattordici feriti, costituiscono un'avvisaglia di quanto potrebbe succedere. E la campagna elettorale fa il resto, aggiungendo una dose di demagogia e di strumentalità alle polemiche. Per la sinistra è facile imputare i problemi delle industrie agli anni del governo di Silvio Berlusconi: sebbene il Sel di Nichi Vendola e l'Idv di Antonio Di Pietro non si limitino a quelli, e includano nelle responsabilità anche le mancate risposte di Monti e dei suoi ministri nei dieci mesi trascorsi a Palazzo Chigi. È la conferma che non si sta aprendo un «autunno caldo» ma continua un anno difficile, destinato a proiettare le sue ombre sul 2013. Poi, probabilmente, cominceranno a vedersi i primi barlumi della ripresa: il presidente del Consiglio sembra fiducioso.

Repubblica 11.9.12
I doveri di un governo
di Chiara Saraceno


UN MINISTRO dello Sviluppo che, quando faceva il banchiere, ha contribuito a salvare l’Alitalia (a spese del contribuente) non può limitarsi a dire agli arrabbiatissimi lavoratori dell’Alcoa che non c’è niente da fare. È troppo tardiva la correzione di ieri: ormai il danno è fatto. Ed è sperabile che il ministro del Lavoro non riprenda il refrain che le è caro.
Ovvero che: «Il lavoro non è un diritto. Bisogna meritarselo, anche con il sacrificio». Di sacrifici dei lavoratori, specie manuali, è purtroppo piena la storia anche recente, anche di ieri, con l’operaio di Taranto ustionato gravemente mentre lavorava a mettere a norma uno degli impianti più scandalosamente pericolosi del nostro paese. Di fronte alla crescita inarrestabile della disoccupazione, cui si unisce quella della inattività per scoraggiamento e disperazione, nessuno, tanto meno chi governa, può permettersi di dire alternativamente che non c’è nulla da fare e che se non si ha lavoro è perché non lo si merita abbastanza. Il problema del mercato del lavoro italiano, della disoccupazione giovanile che non rallenta, della disoccupazione dei quaranta-cinquantenni, delle donne che non ce la fanno a tenere insieme il doppio carico di lavoro pagato e non pagato, in una situazione in cui i pochi servizi disponibili vengono ridotti e i datori di lavoro hanno sempre più il coltello per il manico, non dipende certo dal fatto che tutti questi soggetti non si meritano abbastanza un posto di lavoro decente. Non vorrei che, dopo l’ottocentesca distinzione tra poveri meritevoli e immeritevoli, ora se ne inventasse una analoga per i lavoratori, per nascondere così le responsabilità sia della politica che dell’imprenditoria e della finanza per la crisi economica in cui ci troviamo e le crescenti disuguaglianze che sta producendo.
La crisi economica e sociale che stiamo attraversando non è certamente responsabilità principale di questo governo, come ci viene ricordato continuamente con toni da salvatori della patria ora da uno, ora dall’altro ministro e dallo stesso presidente del Consiglio (anche se non pochi di coloro che ora ne fanno parte hanno avuto non irrilevanti responsabilità politiche ed economiche in passato). Sia il caso Taranto sia il caso Alcoa testimoniano di quanta insipienza politica e imprenditoriale sia stata capace la nostra classe dirigente. Tuttavia il governo non può chiamarsi fuori dalle proprie
responsabilità di fronte al destino di migliaia lavoratori e lavoratrici e delle loro famiglie. La politica del rigore non solo non basta, ma può provocare, se non corretta e compensata, danni sociali, oltre che economici, gravissimi e di lungo periodo. I tafferugli, le intemperanze avvenute ieri a Roma nel corso della manifestazione degli operai dell’Alcoa sono la spia di una tensione che sta montando e si incattivisce anche perché non trova una sponda credibile, un orizzonte di azione praticabile. È vero che l’Alcoa era una azienda pesantemente sussidiata, che ha tratto il proprio profitto sia dal lavoro dei suoi operai che dal finanziamento pubblico. È stato probabilmente uno sbaglio spendere così risorse che avrebbero potuto essere meglio investite per produrre occasioni di lavoro più sostenibili. Ma oggi non si possono cambiare le regole senza farsi carico del destino di chi alla fine risulta essere più vittima che beneficiario di quelle scelte. Perché ha lavorato, ha fatto il proprio dovere, in cambio di una paga modesta. Non c’è politica di rigore che tenga. Occorre, per questi operai e per le migliaia di altri lavoratori che rischiano di perdere il lavoro nelle prossime settimane e mesi, o di non trovarlo quando lo cercano, preparare occasioni di lavoro sostenibili, in primis nella produzione di quei beni collettivi di cui il nostro paese ha tanto bisogno: cura dell’ambiente, dei beni culturali, delle persone non autosufficienti. La politica del rigore ad ogni costo non sta dando i risultati sperati. La luce in fondo al tunnel sembra più una chimera che una speranza. E comunque gli individui e le famiglie devono poter vivere ogni giorno ed avere un orizzonte temporale minimo per fare progetti e alimentare speranze.
Invece di ripeterci che il lavoro non èun diritto esigibile e che il governo non può garantire il lavoro a tutti, il governo dovrebbe ricordarsi che l’articolo 4 della Costituzione affida allo stato una grande responsabi-lità, quella di promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Meglio se contestualmente investe e fa investire nella produzione di beni collettivi. Se non
ora, quando?

l’Unità 11.9.12
Bersani, comitati aperti ai non iscritti
Il segretario prepara le primarie
Bindi irritata, non esclude di correre. Anche Civati tentato dalla sfida
di Simone Collini


Comitati elettorali aperti ai non iscritti al Pd. È la carta che Pier Luigi Bersani intende giocarsi in vista delle primarie per la scelta del candidato premier. Per ora il leader democratico ne ha parlato con i segretari regionali e i responsabili nazionali e territoriali per l’Organizzazione. Nessun parallelo col partito, è il ragionamento che si sono sentiti fare, meglio evitare strutture regionali, provinciali, comunali e puntare invece a dar vita a comitati aperti anche ai non tesserati in ogni Comune (anche più d’uno nelle grandi città) e anche sui luoghi di lavoro più simbolici, per la crisi con cui devono fare i conti o per l’eccellenza che rappresentano, perché come ripete in ogni occasione Bersani, «al centro delle primarie c’è l’Italia». Questa sarà ancora una settimana di preparativi, poi la prossima ci sarà il lancio dell’operazione.
PRIMARIE APERTE E DOPPIO TURNO
Un’operazione di apertura che nello spirito rispecchia i desiderata, circa le regole per le primarie, di Bersani, che oggi sarà in Veneto (dove domani arriverà col camper Matteo Renzi per ufficializzare la sua candidatura), dopodomani riunirà una platea di cento economisti per discutere della crisi e di come uscirne, e sabato sarà insieme al leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini al convegno organizzato ad Orvieto dalle Acli col titolo «Cattolici per il bene comune».
Bersani non è tra quanti, che pure nel Pd ci sono, spingono per un albo degli elettori a cui iscriversi prima di andare a votare ai gazebo: sarebbe sì un modo per evitare infiltrazioni da parte di elettori di centrodestra e grillini, però rischierebbe anche di restringere la platea dei partecipanti.
Per ottenere una legittimazione forte in vista della sfida per la conquista di Palazzo Chigi, Bersani vuole primarie «aperte» e il doppio turno, nel caso al primo non venga raggiunta la soglia del 50%. Il modello è quello Francese, che il leader democratico giudica «sensato» ai fini di un’investitura pesante.
Tutto però è ancora formalmente da decidere, e il primo passaggio normativo sarà comunque tutto interno al Pd, visto che alla prossima Assemblea nazionale (che verrà convocata entro trenta giorni) si approverà una norma ad hoc che permetterà a Renzi di sfidare Bersani ai gazebo: in pratica, una deroga transitoria allo Statuto (secondo il quale può essere soltanto il segretario a partecipare a primarie di coalizione per la premiership) che consentirà a ogni iscritto di correre.
L’IRRITAZIONE DI BINDI
Una mossa che non convince Rosy Bindi, che ha chiesto un chiarimento a Bersani. Per la presidente del Pd queste primarie, per come si sta sviluppando il confronto, rischiano di provocare conseguenze devastanti sul partito, di portare frammentazione, di avere ripercussioni sullo stesso profilo identitario dei democratici, anziché essere lo strumento mediante cui rilanciare il programma di governo del Pd. «Mi chiedo per quanto tempo ancora dovremo sopportare questo Stil Novo», dice di fronte agli attacchi di Renzi a Veltroni e D’Alema. Bindi aveva espresso a Bersani le sue perplessità sulla piega presa dalle primarie già nei giorni scorsi, e il discorso che il segretario ha fatto chiudendo la Festa di Reggio Emilia a suo giudizio non è servito a fare chiarezza e dare rassicurazioni.
Ora Bindi sta valutando l’ipotesi di scendere in campo. E bisognerà vedere se un incontro con Bersani, al quale pure aveva chiesto una difesa dagli attacchi dei giovani dirigenti di “Rifare l’Italia” (in sintesi: non sarebbe credibile un governo con gli stessi ministri degli anni 90), basterà per convincerla a rinunciare a correre.
IPOTESI CANDIDATURA CIVATI
Non sarebbe tra l’altro, quella di Bindi, la sola ipotesi di candidatura. Pippo Civati sta prendendo in considerazione la cosa perché è il ragionamento che fa queste primarie più che per scegliere il candidato premier sembrano fatte per decidere chi sarà il leader del centrosinistra. «Ma quale centrosinistra?», è la domanda che pone il consigliere regionale della Lombardia. Che tra l’altro oggi avvia insieme agli altri animatori di «Prossima Italia» una raccolta di firme tra gli iscritti al partito per far svolgere insieme alle primarie un referendum tematico.
Si tratta di uno strumento previsto dallo statuto del Pd, che Civati e soci intendono utilizzare per far emergere quale sia la posizione maggioritaria su matrimoni gay, reddito minimo, incandidabilità dei condannati, ambiente, riforma fiscale e anche alleanze in vista delle prossime politiche. Il quesito, per quest’ultimo tema, chiede se si voglia un’intesa tra forze progressiste e moderate «a patto che dette forze non abbiano sostenuto i precedenti governi Berlusconi e tutt’ora non siano alleate nelle amministrazioni locali con Pdl e Lega». Ogni riferimento all’Udc è tutt’altro che casuale.

Corriere 11.9.12
Bersani e la corsa al governo: non sarà facile
Il segretario: passaggio critico ma dobbiamo provarci
I timori dei democratici su un piano per escluderli
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sono giorni che Pier Luigi Bersani, nei suoi discorsi pubblici e privati, ammonisce: «Attenti che ci vogliono tagliare la strada». L'altro giorno, alla chiusura della Festa del Partito democratico, è stato ancora più esplicito, tanto che l'indomani l'Unità, in prima pagina, riassumeva il comizio del segretario con questo titolo: «Decide l'Italia, non le banche».
Ma veramente il Pd ha paura che nei suoi confronti ci sia una sorta di «conventio ad excludendum»? Qualche timore, effettivamente, c'è. E il convegno di Cernobbio, con la parola d'ordine Monti bis, ha acuito i dubbi. Bersani, con i suoi, ha tracciato più volte l'identikit di coloro che preferirebbero non vedere un esponente del Partito democratico nelle stanze di palazzo Chigi: Silvio Berlusconi, ovviamente, che a largo del Nazareno ritengono ancora pericoloso, Beppe Grillo, ormai diventato un nemico acerrimo del Pd e alcune «élites che temono di non poter più dirigere i giochi se ci siamo noi».
Ma non tutti la pensano come il segretario. «Non credo alla conventio ad excludendum», dice Piero Fassino. E Stefano Ceccanti osserva: «Non c'è nessuno che non ci vuole fare governare, a patto di dimostrare che sappiamo farlo. E una dimostrazione sarebbe quella di porre subito a Nichi Vendola la questione del referendum anti Fornero che il leader di Sel ha sottoscritto».
Non crede ai complotti Paolo Gentiloni: «Molti nel nostro partito — ironizza — denunciano i poteri forti, confondendoli spesso con i giornali. La verità è che alle volte siamo noi a subire l'attrazione fatale per l'opposizione. Mi viene da pensarlo quando sento contrapporre l'agenda Bersani all'agenda Monti o quando ci autolimitiamo a fare alleanze solo a sinistra, lasciando praterie al centro e non intercettando nè la crisi del Pdl nè quella della Lega». Massimo D'Alema, invece, dà ragione al segretario e, intingendo la lingua nel veleno, afferma: «Il Partito democratico è in grado di governare... se i giornali e le banche ce lo consentono».
Bersani, comunque, è ormai convinto che, «conventio ad excludendum» o no, «stavolta tocchi al Pd». Lo ha detto anche nel suo comizio di chiusura alla Festa democratica: se scansiamo questa occasione ci piallano. Insomma, ora o mai più: non si può fallire o restare fermi. Anche se i sondaggi a dire il vero non è che siano poi così entusiasmanti. Le rilevazioni diffuse ieri dal TgLa7 danno al Pd il 26,8 per cento (quindi in calo rispetto ai dati di luglio). E i sondaggi interni non è che siano più confortanti: attribuiscono al Partito democratico il 26,9. Dunque, i «Democrat» si confermano come la prima forza politica italiana, a una notevole distanza dal Pdl, ma restano assai lontani dalle percentuali delle elezioni politiche del 2008, quando con Walter Veltroni superarono quota 33 per cento.
Ma il Pd non ha paura di andare al governo in queste condizioni? Con la crisi e con un partito che dovrà per forza appoggiarsi agli alleati, visto che non supera una certa soglia? Il segretario è sicuro di farcela. «Siamo a un passaggio critico — ripete ai suoi — ma dobbiamo provare a governare. Su questo non sono preoccupato». Già, perché nel Partito democratico ormai si sono andati convincendo che l'operazione messa in piedi dal governatore della Bce Mario Draghi rappresenti «una svolta vera» e che quindi «il picco della crisi finanziaria possa essere superato».
Parlare di ottimismo è eccessivo, però al Partito democratico non vedono più un futuro col buio pesto. «E comunque, noi abbiamo già governato, e non abbiamo certo paura di farlo in questo frangente», spiega il sindaco di Torino Piero Fassino. E un autorevole dirigente di Largo del Nazareno, bersaniano doc, osserva: «Del resto, quando il gioco si fa duro, tocca quasi sempre al centrosinistra sobbarcarsi l'onere del governo». Mentre un entusiasta Matteo Orfini nei giorni scorsi assicurava: «Io penso che Bersani saprebbe fare meglio, ma molto meglio di Monti».
Al Pd, quindi, attendono di essere messi alla prova dei fatti: «Monti ha messo il treno sui binari, ora noi dobbiamo farlo partire», dice il segretario per spiegare ai compagni di partito il lavoro che li aspetta. E poi aggiunge, con una punta di sano realismo: «Dobbiamo però essere consapevoli che non sarà facile».

La Stampa 11.9.12
Franceschini: “No al Monti-bis La governabilità sarà garantita da un premio di maggioranza”
di Carlo Bertini


ROMA Franceschini, siete preoccupati che il Monti bis sia uno sbocco obbligato se dalle urne non uscirà un vincitore certo? O temete che i cosiddetti poteri forti non vi vogliano consegnar le chiavi del Paese, come dite sempre?
«Noi abbiamo voluto e fatto nascere il governo Monti, dicendo fin dal primo giorno in parlamento che l’esperienza indispensabile per salvare il Paese dal baratro in cui l’aveva portato Berlusconi sarebbe durata con il nostro sostegno leale fino all’ultimo giorno della legislatura. Così sarà, ma alle elezioni torneranno a confrontarsi centrodestra e centrosinistra. Chi vincerà farà la maggioranza e chi perderà l’opposizione. Del resto in tutti i Paesi europei i mercati e i poteri forti rispettano l’esito delle elezioni. Quindi non ci sarà alcun Monti bis».
Come fate a sviare il sospetto che non vi convenga tenere il porcellum che più di ogni altro sistema può assicurarvi una maggioranza solida?
«Porteremo tutto in aula alla luce del sole in modo che si capisca chi vuole cambiarlo e chi fa solo finta. Per noi la cosa da modificare assolutamente sono le liste bloccate ed è questo ciò che vogliono gli italiani. Un premio di maggioranza invece può servire ad assicurare la governabilità».
Per rassicurare Bruxelles non vi converrebbe lanciare voi per primi la proposta di Monti al Quirinale senza aspettare oltre?
«Non si è mai visto parlare dell’elezione del Capo dello Stato un anno prima sapendo per altro che sarà il nuovo parlamento ad eleggerlo. Sono convinto che Monti continuerà a servire il Paese e i ruoli per farlo sono tanti».
Anche quello di ministro dell’Economia o la poltrona è già prenotata da Passera?
«Non ci sono poltrone prenotate per nessuno...».
Ma se Casini punta al Monti bis, come farà a stare con Vendola che attacca sempre e solo la macelleria sociale del governo?
«Più i partiti sono piccoli, più hanno bisogno di visibilità e di rassicurare il proprio elettorato. Un grande partito come il Pd continuerà a lavorare perché nella prossima legislatura, che sarà piena di difficoltà e di problemi da risolvere, il Paese sia governato da un’alleanza tra il nostro campo dei progressisti e quelle forze moderate che si sono prima distaccate e poi opposte a Berlusconi e alla Lega».
Anche lei ritiene che dopo l’agenda Monti verrà l’agenda Bersani? Sarà questo il tema su cui si giocheranno le primarie?
«Spero che si giochino proprio su idee diverse per il Paese proprio perché sono per la premiership e non su rottamazione o ricambio dei gruppi dirigenti che sarà invece oggetto del congresso nel 2013».
Le primarie possono essere un boomerang se vincesse Renzi? Si spaccherebbe il Pd e rischiereste di perdere le elezioni?
«Non credo che vincerà Renzi, perché col passar delle settimane i nostri elettori capiranno che si tratta di scegliere una persona in grado di sostituire Monti davanti al mondo e ai mercati e di tenere insieme l’alleanza cui stiamo lavorando. E solo Bersani ha queste caratteristiche».
Lei perché ha deciso di non candidarsi? La Bindi ci sta pensando...
«Ho guidato il Pd in un momento di grande crisi quando tutti me lo hanno chiesto. E dopo aver perso le primarie ho preso l’impegno di lavorare con Bersani come in una squadra. Così ho fatto e così farò, non è il momento di aprire divisioni tra di noi ma di lavorare insieme per vincere le elezioni».

Repubblica 11.9.12
Lasciò il partito tre anni fa per fondare l’Api. “C’è il bipartitismo, bisogna scegliere con chi stare”
Rutelli ci ripensa e torna con i democratici “Basta Terzo polo, ci saremo pure alle primarie”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Francesco Rutelli torna a casa. Certo, la decisione deve prenderla l’assemblea nazionale dell’Api, ma l’ex sindaco di Roma, il cofondatore del Pd fuggito tre anni fa dalla sua stessa creatura, sa già che si alleerà con i democratici alle prossime elezioni. Con Casini non vuole fare polemica, e però: «bisogna scegliere prima con chi stare, non puoi dire agli elettori: lo so io». Su Renzi va di fioretto: «È la prova che ci sono politici che fanno crescere i giovani». Quanto a Monti: «O sceglie prima, e addio governo, o tornerà premier solo se dalle elezioni non viene fuori una maggioranza certa».
Senatore Rutelli, rientra nel Pd?
«Non si tratta di questo. I democratici hanno scelto una strada che rispetto ma non condivido, quella socialdemocratica, il motivo per cui sono andato via. All’ordine del giorno però c’è un’alleanza con il Pd imperniata sulla candidatura di Bruno Tabacci alle primarie e sulla prospettiva di un governo solido che porti avanti le riforme difficili del governo Monti».
Non è d’accordo sulla linea, ma si allea. Un po’ strano.
«Alle elezioni regionali siamo sempre andati con il Pd. In Sicilia sono stato tra i primi che si è dichiarato per Crocetta e per un’alleanza di centrosinistra. Il punto è che non si ripeta l’esperienza dell’Unione condizionata da massimalisti
e populisti».
Fuori ma dentro.
«Le segnalo che non c’è il bipartitismo in Italia. Alle ultime politiche i due maggiori partiti hanno raccolto i tre quarti dei voti. Adesso arriverebbero a fatica al 45 per cento».
Se ci sono proporzionale e premio alla lista, entrerà o no in quella del Pd?
«Dipende da come si vota. Cercheremo di rappresentare nella coalizione di centrosinistra il centro riformatore. Ho appena mandato in stampa un manifesto per la green economy italiana che si conclude con 14 proposte concrete. Un programma di governo, che parte dallo stop al consumo di suolo».
Renzi si vanta di averlo fatto a Firenze. Non c’è già lui, al centro?
«La sua figura testimonia che ci sono politici che si occupano di promuovere le nuove generazioni. Quando ho sostenuto il giovane Renzi credo di aver fatto bene, ne ho colto la qualità e l’ambizione».
Un ingrato?
«No, in politica ognuno cammina con le sue gambe. Ma sui programmi finora non ho visto granché».
È vero che il suo riavvicinamento al Pd nasce da una rottura personale con Casini?
«Non voglio fare polemica, perché credo che il centrosinistra debba alla fine allearsi con l’Udc. Certo, va ancora capito se c’è l’Udc, o se c’è un nuovo soggetto politico che per ora mi pare molto di là da venire. E comunque, le scelte delle alleanze vanno dichiarate prima, poi decide il popolo, se non c’è maggioranza decide il Parlamento».
Si augura un nuovo governo Monti?
«Monti non può certo essere candidato mentre dichiara di non volerlo essere. Secondo me ha tre strade: può essere presidente del consiglio se non c’è una maggioranza chiara alle elezioni. La seconda opzione è il Quirinale. La terza una posizione di vertice in Europa nel 2014. Ho grande stima di lui, e non prevedo che rimanga disoccupato».

Corriere 11.9.12
Il groviglio elettorale
di Giovanni Sartori


Un Paese democratico funziona anche perché si è data una buona legge elettorale, una legge che a sua volta produce un sistema politico che funziona.
Noi siamo decollati, nel 1948, da un normale sistema proporzionale che era esposto a due rischi: approdare a un eccesso di frammentazione (troppi partiti), e anche a troppe crisi di governo (troppi governi troppo brevi: «governicchi», secondo Panebianco). Ma la presenza del Partito comunista moderò questi difetti. Il voto si concentrò sulla Dc, e i cosiddetti governicchi duravano sì poco, ma per trent'anni furono sempre nelle mani delle stesse persone, come prestabilito dal ben noto «manuale Cencelli», che curava la rotazione delle cariche interne della Dc.
I nostri problemi cominciano, paradossalmente, con la fine del comunismo. A quel momento per bloccare la frammentazione sarebbe probabilmente bastata una «soglia di esclusione» del 5%, come insegnava l'esperienza tedesca, che in Germania ha anche prodotto la longevità dei governi. Invece abbiamo inventato il Mattarellum, un sistema per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale. Io mi opposi (si capisce, inutilmente) sin dal primo giorno osservando che il sistema maggioritario avrebbe attribuito, in Italia, un fortissimo potere di ricatto ai partitini, e che quindi avrebbe prodotto una dannosa frammentazione del sistema partitico. Difatti è stato così. Ed era facile, volendo, rimediare. Ma stavano emergendo due nuove «stelle», due imprevisti, che dovevano, per emergere, sparigliare le carte: Berlusconi e Prodi.
La differenza tra i due è che quando Berlusconi si fece avanti nel 1993 aveva già alle spalle una sua televisione a diffusione nazionale (anche con personale dal quale reclutare), mentre Prodi aveva alle spalle un brillante curricolo, a partire dalla presidenza dell'Iri e poi la presidenza della Commissione europea a Bruxelles, ma nessun partito. E così inventò (o lui, o Parisi, o insieme) una strana «primaria» che non era certo il meccanismo inventato dagli americani ma piuttosto uno strumento plebiscitario che stabilì con 4 milioni e passa di votanti che il leader della sinistra era lui. Bravissimo. Ma bravissimo per sé. Come è rivelato dalla intervista di Prodi al Corriere del 3 settembre scorso che merita citare: «A che servirebbe — si chiede — chiamare il popolo di centrosinistra a scegliere il candidato premier se poi la formula di governo, come avviene con la proporzionale, viene delegata alla trattativa tra le forze politiche e solo dopo le elezioni?».
Ma qui si svela che Prodi di costituzionalismo sa poco o anche punto. Il nostro sistema politico è, piaccia o non piaccia, un sistema parlamentare. E finché lo è, è normale che i governi vengano decisi dopo le elezioni, e visti i risultati delle elezioni. Il nome del candidato premier stampato sulla scheda di voto fu un colpo di mano inspiegabilmente avallato dal presidente Ciampi. Infatti quel nome sulla scheda ha consentito al vincitore di dichiararsi eletto direttamente da una maggioranza del popolo (il che non è provato), e perciò stesso di ritenersi inamovibile. Se così, il sistema parlamentare viene snaturato in un sistema pseudo-presidenziale, che è poi un bastardo costituzionale. Almeno questa stortura spero che ci sarà evitata. Ma è ancora tutto in ballo.

Repubblica 11.9.12
Un Paese verso il voto senza idee e senza alleanze
di Guido Crainz


È DIFFICILE negarlo, il Paese si avvia ad elezioni decisive nel peggiore dei modi. Decisive davvero: è in gioco la possibilità di superare realmente una crisi economica senza precedenti e densa di incognite, che chiama in causa il futuro nostro e dell’Europa. È in gioco, più ancora, la possibilità di invertire derive rovinose nel modo di essere del Paese e della politica, avviate già negli anni ottanta e accelerate nella stagione di Berlusconi: la possibilità, in altri termini, di ricostruire quei fondamenti del vivere civile e dell’agire pubblico che sono stati dissipati ed erosi negli ultimi tre decenni.
Eppure questa consapevolezza sembra spesso assente nel dibattito politico, mentre in molti cittadini la sensazione di un’urgenza è soffocata da un diffuso senso di impotenza, da una rassegnazione quasi disperata o da quella rabbiosa reazione che alimenta l’antipolitica. O meglio, che trasforma in antipolitica la fondatissima protesta contro la politica esistente.
A differenza di quel che avvenne nella crisi della “prima repubblica”, è difficile oggi illudersi che una incorrotta società civile possa prepararsi uno splendido futuro semplicemente liberandosi di un ceto politico corrotto e inadeguato. Nel 1994 il risveglio fu amarissimo: il “nuovo” ebbe i volti di Berlusconi e di Bossi, e l’assenza o l’inadeguatezza di proposte di buona politica favorì il loro affermarsi e il loro disastroso permanere. Al tempo stesso molte involuzioni della società civile, o di una parte di essa, non sembrano dissimili da quelle del ceto politico, percorse come sono da inosservanze civiche e dalla carenza di etica pubblica. Per molte ragioni dunque un’inversione di tendenza, assolutamente necessaria, può essere solo l’inizio di una Ricostruzione di lunghissimo periodo: ma per le stesse ragioni essa appare al tempo stesso essenziale e lontanissima, quasi un’utopia.
La divinità acceca coloro che vuol mandare in rovina, non si può commentare in altro modo la sorda resistenza dei partiti alle richieste sempre più diffuse ed esasperate di una radicale trasformazione della politica: di un taglio drastico dei suoi costi, dei suoi sprechi e delle sue impunità; di una limpida trasparenza; di un rinnovamento profondo del suo personale e del suo modo di essere (cosa molto diversa dal “nuovismo”: rimedio forse peggiore del male ma – in assenza d’altro – capace di esercitare una qualche attrazione). Vi è indubbiamente una distanza abissale fra quel che i cittadini si attendevano su questo terreno e quel che i partiti hanno messo in cantiere in questi mesi: e, come se non bastasse, quasi nulla di quel pochissimo che è stato tardivamente promesso è stato poi realizzato. Si arricchisce invece ogni giorno il panorama delle “normali indecenze”: sino ai 18 (diciotto) segretari alle dipendenze del Presidente del Consiglio regionale del Lazio, solo una piccola parte degli indebiti sprechi e abusi del Pdl in quella sede. Si aggiunga, per altri versi, il kafkiano protrarsi del dibattito sulla riforma elettorale: il centrodestra punta esplicitamente ad un nuovo “Porcellum” — è mosso cioè solo dai suoi interessi più immediati e contingenti — mentre il centrosinistra affonda in nebbie incomprensibili (cosa capiscono i cittadini, ad esempio, delle posizioni del Pd sulle preferenze?). «Ecco allora il semipresidenziali-smo temperato, il federalismo depotenziato, il bicameralismo moltiplicato, la legge elettorale ulteriormente complicata»: quindici anni fa Edmondo Berselli sferzava così il mesto affondare della Commissione Bicamerale sulle riforme costituzionali, e il dibattito su questi temi – cioè sulle modalità di funzionamento della democrazia – è oggi ancor più caricaturale. Per ora questa condotta irresponsabile ha fatto le fortune di Beppe Grillo, e c’è solo da sperare che ci si fermi qui. Probabilmente è vero che il centrodestra non può vincere le prossime elezioni ma l’assenza di convincenti proposte alternative, capaci di raccogliere un ampio consenso, porterebbe comunque al protrarsi e all’aggravarsi della paralisi. E al dissolversi di quella ritrovata credibilità internazionale e di quell’avvio di risanamento che sono un merito indiscutibile del governo Monti.
Ancora una volta, come in passato, il centrosinistra sembra seriamente impegnato a dissolvere il vantaggio che si è trovato ad avere, senza suo merito, grazie al tracollo dell’avversario. Il sindaco di Firenze, ad esempio, rovesciando di fatto lo spirito originario dell’Ulivo, punta esplicitamente a trasformare le “primarie” in una resa dei conti interna al Pd ed è ampiamente facilitato dalla irritata reazione di una inamovibile oligarchia di sconfitti. Purtroppo, va aggiunto, non è ancora pienamente comprensibile l’alternativa che Pier Luigi Bersani sta costruendo, o dovrebbe costruire con urgenza. Non è chiarissimo in che modo il Pd intenda far tesoro dell’esperienza del governo Monti: a partire dalla costruzione di una squadra di governo che si candidi a proseguirne gli aspetti più fecondi e a mantenerne gli impegni più cogenti (sia pur andando più a fondo, come Bersani giustamente sottolinea, sul terreno dell’eguaglianza sociale e del lavoro). Eppure la proposta esplicita e chiara di una compagine governativa di alto profilo, di un collettivo di grande capacità e autorevolezza, sarebbe sin d’ora essenziale per l’Italia e per l’Europa e riporterebbe alle giuste dimensioni la discussione stessa sul candidato premier (peraltro destinata a diventare meno rilevante ove il meccanismo del maggioritario venisse intaccato). E la premessa di ogni programma è obbligatoriamente costituita da misure drastiche e indifferibili di riforma della politica.
Nella perdurante assenza di un progetto forte e credibile, di un “colpo d’ala” assolutamente necessario, le spinte divaricanti stanno acquistando un vigore crescente e rischiano di erodere su entrambi i versanti la proposta di un “centrosinistra aperto ai moderati”. Vi è, come è ovvio, la naturale propensione di Pier Ferdinando Casini a giocare in primo luogo una propria partita, ed emergono al tempo stesso vecchi nodi. È possibile rivendicare, come è giusto, il sostegno al governo Monti e al tempo stesso allearsi con chi lo considera responsabile di nefandezze e sta promuovendo anche un referendum – cioè sta costruendo un evento altamente simbolico – contro alcune delle misure che ha attuato? Anche in questo caso Sinistra e Libertà si è affiancata a Di Pietro, ma gli elettori di centrosinistra non meritano di avere nel loro futuro le delusioni già subite ai tempi della Rifondazione di Fausto Bertinotti (e di Nichi Vendola). Né di vedere ancora ministri e leader politici della maggioranza sfilare contro il loro stesso governo, come è accaduto durante il secondo governo Prodi. Senza sciogliere in modo esplicito questi nodi un’alleanza sarebbe fragile e francamente discutibile: il tempo a disposizione è scaduto da tempo ma purtroppo una caldissima estate non ha portato molto consiglio.

Corriere 11.9.12
Dall'Udc alle nozze gay i 6 referendum interni lanciati dai giovani pd


MILANO — Patrimoniale, reddito minimo, incandidabilità dei condannati anche con sentenza non definitiva, consumo del suolo, matrimonio gay e alleanze. Sono i sei delicatissimi temi che potrebbero trasformarsi in altrettanti quesiti per «referendum deliberativi» (e quindi dall'esito vincolante) interni al Pd. L'iniziativa che minaccia di complicare la corsa dei democratici verso le prossime elezioni si chiama «Sei referendum per salvare il Pd» ed è stata lanciata da «Prossima Italia», gruppo che conta tra i suoi animatori il consigliere regionale lombardo Pippo Civati. «Lo statuto Pd, all'articolo 27 prevede, oltre alle primarie, un altro strumento di partecipazione aperto agli iscritti, gli elettori e i simpatizzanti: il referendum», dice il sito che presenta l'iniziativa. La proposta è abbinare il giorno dei referendum a quello delle primarie per il candidato premier e, se possibile, a quello per la scelta dei candidati al Parlamento. In modo da dare la possibilità agli iscritti del Pd, e solo a loro, di scegliere in un weekend candidato premier, parlamentari e programma di governo. Tutti i quesiti riguardano temi caldi per il partito: dalle nozze (non le unioni) gay fino al nodo alleanze. In particolare, quest'ultimo referendum mira a vincolare il Pd a un «patto con le forze progressiste e democratiche del Paese, a partire da quelle con cui già amministra in molti territori, e accogliendo il contributo della società civile, a patto che dette forze non abbiano sostenuto i precedenti governi Berlusconi e tutt'ora non siano alleate nel governo delle amministrazioni locali con Pdl, Lega, e altre formazioni di centrodestra che negli ultimi vent'anni hanno contribuito al declino dell'Italia». Di fatto, una clausola destinata a escludere intese con l'Udc di Casini. Per indire le consultazioni, spiega il sito dei referendari, «bisognerà raccogliere 30.500 firme circa per ogni quesito, pari al 30% dei componenti dell'Assemblea nazionale, cioè il 5% degli iscritti». E Civati annuncia su Twitter: «Dopo questo referendum ci saranno anche altre novità».

Corriere 11.9.12
Vendola con Di Pietro «Articolo 18, ecco le firme»


Ripristinare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, abrogato dalla riforma Fornero, e i diritti minimi e universali previsti dal Contratto nazionale di lavoro, cancellati dal governo Berlusconi. Sono i due quesiti che oggi, alle 10 e 30, un comitato allargato, formato da una delegazione dell'Italia dei Valori, insieme con alcuni rappresentanti delle forze sociali, politiche e giuristi, depositerà in Cassazione. Oltre al presidente dell'Idv Antonio Di Pietro, infatti, saranno presenti, tra gli altri, il leader di Sel, Nichi Vendola, il segretario nazionale di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, il segretario nazionale del Pdci, Oliviero Diliberto, i giuristi Pier Giovanni Alleva e Umberto Romagnoli, Gianni Rinaldini (Fiom), Francesca Re David (Fiom-Cgil) e Gian Paolo Patta (Cgil). La raccolta delle firme, che partirà a ottobre, andrà di pari passo con quella dei due referendum idv per abolire la diaria dei parlamentari e abrogare il finanziamento pubblico ai partiti. E anche con la mobilitazione di Sel in corso dall'estate per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per istituire in Italia il reddito minimo garantito. Una posizione, quella di Nichi Vendola, che negli scorsi giorni non ha mancato di sollevare polemiche nel Pd per il fatto che questo referendum va in contrasto con la riforma promossa dal governo Monti e, in particolare, dal ministro del Lavoro Elsa Fornero. Non a caso, ieri, Sandro Bondi (Pdl) ha fatto notare: «Mi chiedo come sia possibile per Bersani allearsi con un partito come quello di Vendola, che ha presentato, insieme ad Antonio Di Pietro e a Paolo Ferrero, la richiesta di indire un referendum per modificare una legge approvata con il sostegno dello stesso partito di Bersani. Se in Italia la politica non sarà capace di recuperare e testimoniare un minimo di serietà e di coerenza tutto è destinato a peggiorare e a degradare in un lento ma inarrestabile declino».

Repubblica 11.9.12
L’intervista
Ingroia: quando ho detto che per avere la verità sulla mafia ci vuole una nuova classe dirigente mi riferivo alla politica dall’Unità a oggi
“Ho il massimo rispetto per Napolitano ma rivendico il mio diritto a parlare”
di Liana Milella


ROMA — Non colpevole. Tutt’altro. Antonio Ingroia rifarebbe quello che ha fatto domenica sera e a Repubblica spiega perché.
Dice Sabelli: «Chi fa indagini delicate non deve offuscare la sua imparzialità. Perché è andato alla festa del Fatto?
«Rivendico il mio diritto a partecipare ai dibattiti, chiunque sia ad organizzarli, nei quali si discute di temi che non hanno a che fare con la mia attività di magistrato. In questo caso si trattava di un confronto sulla mafia e sullo stragismo in Italia. Saranno vent’anni che partecipo a tavole rotonde del genere, come lo stesso Caselli che era con me, e non vedo che cosa ci sia di strano. Se c’è un anomalia sono alcune reazioni critiche, queste sì polemiche, che rivelano un arretramento politico culturale su un tema cruciale come quello della manifestazione del pensiero anche da parte di un magistrato».
Ma può una toga, senza diventare di parte, dire che «per avere tutta la verità serve un’altra classe dirigente»?
«Si tratta di una frase che, estrapolata dal contesto, non fa capire di cosa stessi parlando. Io spiegavo il fallimento della politica antimafia dello Stato italiano dall’Unità
ai giorni nostri. Una politica che è stata prevalentemente di contenimento del fenomeno, e non di annientamento, perché ispirata a una sorta di spirito di convivenza con la mafia, che ha caratterizzato storicamente parti consistenti della classe dirigente del nostro Paese, politica, imprenditoriale e professionale. Non parlavo della politica di oggi, ma della storia della nostra classe dirigente che ha la responsabilità di aver mantenuto in vita il fenomeno mafioso per più di un secolo. Per questo dicevo: se si vuole cambiare la politica antimafia, bisogna cambiare il modo di essere della classe dirigente del nostro Paese».
Non è un invito a un voto diverso?
«È un invito a essere cittadini partecipi e consapevoli. Ed è di queste persone che la mafia ha paura».
Un pm parla così in pubblico e resta imparziale?
«Ovviamente se è un buon magistrato sì. Se la sua imparzialità viene minata, è un cattivo magistrato, indipendentemente dal luogo in cui manifesta il suo pensiero. E non vorrei tornare a ricordare le tante occasioni in cui Borsellino espresse il proprio sulla mafia e sui rapporti tra mafia e politica in pubblici dibattiti, talvolta anche organizzati
da partiti politici».
Dalla platea domenica sono arrivati dei «vergogna vergogna» per il Quirinale. Per Sabelli lei sarebbe dovuto andar via.
«Premesso che non ho neppure sentito queste parole, ma è impensabile che le eventuali ed isolate intemperanze di una o due persone in mezzo a migliaia di ascoltatori possa turbare il normale svolgimento di un dibattito».
Non significa cercare il consenso popolare farsi consegnare le firme della gente a sostegno di una propria inchiesta?
«Cosa avremmo dovuto fare?
Forse rifiutare la manifestazione di sostegno di quella italiana che si è fatta interprete di un sentimento diffuso tra la gente?».
Ritiene opportuno partecipare a una tavola rotonda in cui è presumibile che ci possa essere una contestazione anche forte nei confronti del capo dello Stato?
«Ribadisco un punto di vista detto tante volte. Non importa dove si dicono le cose, ma è importante quello che si dice. Ho querelato più volte Libero per articoli pubblicati con attacchi fortissimi contro di me. Poi loro mi hanno chiesto un’intervista e l’ho rilasciata. Questa sorta di integralismo per cui si va o si parla solo con una testata, o si va alla festa di un partito e non di un altro è assurdo. Ero appena stato a Padova alla festa del Pd, dove ho detto grosso modo le stesse cose che ho detto domenica e nessuno mi ha criticato».
Nelle ultime settimane lei aveva parlato con rispetto del Quirinale. E ora?
«Ho ricordato che un conto sono gli uomini dello Stato, un conto i giornalisti e i politici. Io, da uomo delle istituzioni, ho ribadito il massimo rispetto che avevo e che ho nei confronti della prima carica dello Stato come istituzione e nei confronti di Napolitano per quello che rappresenta e ha rappresentato in questi anni come punto di tenuta istituzionale contro certi assalti alla Costituzione e allo stato di diritto. Questo stesso atteggiamento ho tenuto nel mio intervento di domenica».
Quindi Napolitano non avrebbe di che risentirsi?
«Nei miei confronti e nei confronti della procura di Palermo direi proprio di no. Dopodiché, ovviamente, com’è normale in un dibattito in cui ognuno parla per sé, ciascuno risponde delle proprie dichiarazioni e non di quelle altrui”.
Nessun ripensamento sull’essere andato lì domenica?
«Ovviamente no».

Repubblica 11.9.12
Il condono e gli immigrati
di Tito Boeri


È in guerra dichiarata contro l’evasione fiscale. Eppure anche il Governo Monti un mini-condono contributivo lo ha varato. È la sanatoria degli immigrati che permetterà ai datori di lavoro che abbiano in questi giorni versato una somma forfettaria di mille euro di regolarizzare lavoratori immigrati assunti irregolarmente. A fronte di questo versamento una tantum, si creerà debito, perché i lavoratori regolarizzati acquisiranno maggiori anzianità contributive, dunque in prospettiva pensioni più alte. Bene sottolinearlo prima che a qualcuno venga in mente di utilizzare le entrate della sanatoria per finanziare spesa corrente anziché per ridurre il debito pubblico.
Vero che la misura vuole recepire una direttiva comunitaria contro lo sfruttamento degli immigrati per troppo tempo ignorata e offrirà per la prima volta ai lavoratori immigrati la possibilità di regolarizzarsi cooperando con la giustizia. Ma l’iniziativa spetta comunque al datore di lavoro ed è molto difficile che i casi di caporalato e sfruttamento degli immigrati vengano alla luce, senza un forte rafforzamento dell’attività ispettiva. Inoltre la procedura di regolarizzazione è preclusa a datori di lavoro a basso reddito, quindi taglia fuori molte delle irregolarità più dure. Tra l’altro il principio della soglia è aberrante: solo i ricchi possono partecipare ai condoni!
Probabile che molti datori di lavoro utilizzino questa opportunità per sanare irregolarità diffuse e prolungate nel versamento dei contributi. Non si tratta di casi isolati. Secondo l’unica indagine rappresentativa degli immigrati irregolari condotta sin qui in Italia (dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti nel 2011 campionando le aree ad alta intensità di immigra-ti), questi sarebbero circa un quinto del totale, quindi più di un milione. Questo spiegherebbe anche perché il Censimento, che andando casa per casa copre anche gli immigrati irregolari, abbia scoperto un milione di immigrati in più di quelli stimati dalle statistiche ufficiali, che campionano la popolazione a partire dall’anagrafe, quindi tra chi ha un regolare permesso di soggiorno. Inoltre potranno beneficiare della sanatoria anche datori di lavoro che abbiano assunto irregolarmente lavoratori regolarmente immigrati.
Come tutte le sanatorie ex-post, anche questa rischia di offrire un messaggio ai datori di lavoro che in questo momento non pare certo opportuno: è possibile farla franca perché tanto, prima o poi, ci sarà un nuovo condono. Anche il più inflessibile dei governi, quello che sin qui si è impegnato di più nella lotta all’evasione, nel mezzo di una crisi del debito pubblico che non consente di abbassare la guardia, vi consente di mettervi in regola. Dunque quando si tornerà alla normalità della politica italiana, sanare irregolarità contributive sarà ancora più facile.
L’unico modo di evitare di offrire questo messaggio, consiste nell’accompagnare il provvedimento con una riforma delle norme sull’immigrazione che le rendano più efficaci nel contenere il fenomeno del lavoro irregolare tra gli immigrati. Ci vuole, in altre parole, un forte segnale di discontinuità rispetto alla normativa esistente. Bisogna dimostrare nei fatti di voler voltare pagina e di usare la sanatoria per ripartire da zero. Ma questo segnale di discontinuità proprio non arriva. La legge Bossi-Fini ha compiuto quest’estate dieci anni, un’eternità se si pensa agli immensi difetti di cui ha fin da subito dato prova, tant’è che la costosissima burocrazia su cui si doveva reggersi non è mai stato creata. È una legge che si basa su di una doppia ipocrisia. La prima è che sia possibile assumere e magari formare la massa dei lavoratori poco qualificati prima ancora che questi arrivino in Italia. La seconda ipocrisia è che l’immigrazione possa essere resa temporanea semplicemente con un tratto di penna: dimezzando la durata del permesso di soggiorno, impedendo che ogni rinnovo allunghi la durata del periodo in cui si è regolari e introducendo un contratto di soggiorno che vincola la presenza regolare al fatto di avere un lavoro, al termine del quale bisogna tornare a casa se non si trova lavoro entro sei mesi. Che si tratti di ipocrisie, lo provano le tre sanatorie (per un totale sin qui di più di un milione di regolarizzazioni) varate da quando è in vigore quella legge. Il fatto è che gli immigrati vengono assunti solo dopo che sono in Italia e rimangono ben oltre la durata del loro permesso di soggiorno. Lo sanno tutti eppure nessuno osa proporre di cambiare la legge. Meglio andare avanti di sanatoria in sanatoria, permettendo in non pochi casi alla politica a livello locale di trattare gli immigrati come persone transitoriamente da noi, cui è possibile precludere l’accesso alle graduatorie per le case popolari, l’accesso all’assistenza sociale o addirittura la possibilità di mandare i figli a scuola, soprattutto in prossimità di elezioni, salvo poi dover far passi indietro di fronte all’azione della magistratura.
Per tornare a crescere abbiamo bisogno di adottare una politica dell’immigrazione diametralmente opposta, che sia selettiva negli ingressi e investa nell’integrazione dei nuovi arrivati, anzichè creare eserciti di irregolari. Si può premiare con la concessione direttamente del permesso di soggiorno chi ha meno problemi di assimilazione e che può fin da subito contribuire a realizzare quelle nuove idee imprenditoriali che sono il motore della crescita. Il nostro Paese in questa crisi sta perdendo moltissimi giovani talenti, peggiorando ulteriormente un saldo migratorio del capitale umano che già prima della Grande Recessione ci faceva perdere circa 6 laureati per ogni persona con istruzione terziaria che riuscivamo ad attrarre da altri paesi. Per far arrivare da noi i cervelli dei paesi emergenti e farli restare il più a lungo possibile bisogna evitare che ci sia discriminazione nelle assunzioni contro gli immigrati permettendo anche a chi non è cittadino italiano di accedere ai concorsi pubblici e di iscriversi agli albi professionali.
Nell’elenco di cose fatte elaborato dal Consiglio dei ministri a fine agosto l’immigrazione figura all’ultimo posto e non a caso. Prevale nell’esecutivo una forma di autocensura che aumenta all’avvicinarsi della scadenza elettorale. Ma non accompagnare il condono contributivo con una riforma delle politiche dell’immigrazione darebbe un segnale di lassismo a chi evade le tasse proprio mentre si sta cercando di contrastare davvero l’evasione. I contributi degli extracomunitari sono troppo importanti per la sostenibilità del nostro sistema di protezione sociale: già oggi versano ogni anno 6 miliardi all’Inps senza peraltro in molti casi maturare (o richiedere successivamente) prestazioni previdenziali. E nella disgrazia della crisi di credibilità dell’Italia, c’è anche il vantaggio di avere gli occhi del mondo puntati addosso. L’annuncio di una svolta nelle nostre politiche dell’immigrazione, di una chiara volontà di voler attrarre lavoro qualificato dall’estero, non passerebbe certo inosservato.

Repubblica 11.9.12
Le interpretazioni postume di Martini
risponde Corrado Augias


Gentile dottor Augias, il cardinale Martini è stato incompreso e strumentalizzato come le ha giustamente fatto notare il signor Sergio Benetti giorni fa in questa rubrica. Certo era un innovatore, denunciava situazioni sclerotizzate all’interno della Chiesa. Ma da questo ad arruolarlo fra i Don Gallo o i teologi della liberazione ce ne vuole! Era un insigne biblista, un teologo che volava alto, a volte un mistico. Tanto che non svolse mai attività pastorale, mai stato parroco né Vescovo in altre diocesi prima di arrivare nell’Arcidiocesi di Milano. Forse per questo non si curava che il suo messaggio assai articolato fosse interpretato a modo loro da certi opinionisti che forse non avevano mai letto i suoi libri ma solo estrapolato parole o qualche frase in un’intervista. In questo modo si può far dire qualunque cosa a chiunque.
Billy Sarti

Vito Mancuso, che di Martini è stato allievo e che conosce benissimo la sua parola, ha scritto domenica scorsa su questo giornale che le alte gerarchie hanno subito avviato “l’operazione anestesia” nei confronti di quanto il cardinale aveva scritto e predicato. Credo che un’operazione analoga si tenterà per il modo in cui Martini ha chiesto di morire: sedato senza ulteriori cure per potersi avviare con tranquilla dignità al passo estremo. Un trattamento che (ritengo) chiunque vorrebbe gli fosse garantito se le circostanze lo rendessero necessario. D’altronde anche per papa Wojtyla, come molti ricordano, era stata seguita una procedura analoga, com’è giusto e umano che sia. L’ultima frase di Giovanni Paolo II, bellissima per un credente, fu: “Lasciatemi tornare alla casa del Padre”. Sarà interessante vedere quale atteggiamento avranno ora i fanatici delle cure ad ogni costo con il loro disegno di legge sul testamento biologico di forte impronta ideologica. Sulla figura di Martini mi ha inviato una lettera molto bella il parroco milanese don Alberto Lesmo dove scrive tra l’altro: «Fa impressione la rincorsa a sminuire la figura del cardinal Martini, soprattutto in una certa area cattolica e su certi giornali conservatori a sproposito. Ricordo che alla domanda di un giornalista sull’essere conservatori o progressisti, l’allora arcivescovo Martini rispose che queste categorie gli sfuggivano [...]. Il Cardinal Scola ha detto che la figura di Martini è “imponente” nel suo magistero e io spero proprio che anche le cose “bisbigliate” nel periodo della sua malattia, che alcuni vorrebbero ridurre nel loro prorompente valore, possano essere custodite come un grande tesoro per la vita della Chiesa e del mondo. Non sprechiamo questa occasione, il vangelo non ammette conservazioni, è il seme che continua a crescere capace di portare molto frutto, per tutti».

Corriere 11.9.12
Cina, mistero al vertice. Sparito il futuro leader
«Xi Jinping ferito in un incidente d'auto»
di Marco Del Corona


Fino a pochi giorni fa il mistero era semplicemente quale fosse la sorte del 18° congresso del Partito comunista: nessuna notizia dell'assise che dovrà plasmare la nuova élite politica della Cina, un appuntamento sì imminente ma sparito dall'orizzonte.
Adesso a sparire è direttamente l'uomo che in quel congresso dovrà ascendere al vertice del partito come segretario generale, dunque numero uno. Xi Jinping è scomparso dai radar pubblici di Pechino. La scorsa settimana due incontri diplomatici di alto profilo — con il segretario di Stato americano Hillary Clinton e con Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore — sono stati cancellati e ieri Xi, che attualmente è vicepresidente della Repubblica e della Commissione militare oltre che membro del comitato permanente del Politburo, non ha ricevuto la premier danese Helle Thorning-Schmidt.
La doppia cancellazione era stata giustificata con un «normale cambio d'itinerario», senza che la spiegazione riuscisse a mostrarsi particolarmente persuasiva. Ieri il ministero degli Esteri si è affannato a spiegare che in realtà Xi non aveva in programma di vedere la responsabile del governo di Copenaghen e il portavoce Hong Lei, normalmente capace di un certo savoir faire, ha tagliato corto ricordando di aver detto che sarebbero stati i «consiglieri di Stato» (di fatto il nucleo che conta dell'esecutivo di Pechino) a vedere la Thorning-Schmidt. Peccato che, come annotava ieri il direttore del South China Morning Post Wang Xiangwei sulla sua rubrica settimanale, proprio per mettere a tacere le speculazioni «Pechino avesse fatto il passo inusuale di annunciare ai giornalisti di Hong Kong che oggi Xi avrebbe salutato la premier danese anche se non era previsto alcun faccia a faccia». Invece niente.
Spazio libero alle speculazioni, dunque. Tanto più che l'avvicinamento al congresso sta avvenendo in modo turbolento. La purga politica e disciplinare (ancora non del tutto consumata) del «neomaoista» Bo Xilai, la condanna per omicidio della moglie Gu Kailai, l'imminente processo all'ex braccio destro di lui Wang Lijun, la semi-epurazione del capo di gabinetto di Hu Jintao, tutto rende leciti sospetti maliziosi. In un sistema di potere e di burocrazia maniacalmente attento al protocollo, le mancate apparizioni di Xi sono state attribuite dai rumours a problemi fisici, come a un infortunio alla schiena ricavato in piscina o persino giocando a calcio. Poco credibile, secondo gli osservatori più coltivati, che Xi abbia evitato di incontrare la Clinton per via dell'irritazione di Pechino per l'«ingerenza» statunitense sulle questioni marittimo-territoriali tra la Cina e i Paesi vicini. Dagli Usa il sito Boxun, accanto alle voci di malattia di Xi, ha ipotizzato con il consueto furore dietrologico che il futuro numero uno sia stato ferito in un incidente stradale provocato nientemeno che dalla fazione di Bo Xilai. La tesi dell'incidente stradale, poi, è stata ventilata anche per spiegare lo svanire dalla scena pubblica di un altro dei nove del comitato permanente del Politburo, He Guoqiang, il più alto garante della lotta alla corruzione, tema caro ai leader uscenti Hu Jintao (segretario) e Wen Jiabao (premier). Più tarda il congresso, più fermentano i pettegolezzi.

Corriere 11.9.12
Luciano Canfora inaugura la collana Laterza che demolisce i luoghi comuni della politica
Destra, sinistra e trionfo della melassa
I diktat europei usati per giustificare il falso mito della «coesione»
di Luciano Canfora

qui

Corriere 11.9.12
Il Festival di filosofia /1
C'è cosa e cosa
Un occhio diverso sulla realtà «Nell'Emilia del terremoto ricostruiamo dal pensiero»
di Marcello Parilli


I n questa fetta di Emilia, colpita al cuore dal terremoto, fa quasi strano tornare a occuparsi di filosofia. Che non vuol dire scrollarsi di dosso la polvere dei calcinacci per dissertare di aria fritta, ma sentire la necessità e l'importanza di una ricostruzione interiore oltre a quella che rimette un mattone sopra l'altro. Sarà per questo che la dodicesima edizione del festivalfilosofia, in programma tra Modena, Carpi e Sassuolo dal 14 al 16 settembre, è dedicata alle «cose», quasi a evocare un legame invisibile tra il «dire» e il «fare».
«Il tema era stato scelto l'anno scorso, in tempi non sospetti — dice Michelina Borsari, direttrice di festivalfilosofia dalla prima edizione —, ma certamente il terremoto ha cambiato tutto, e non solo in negativo. Perché questo si è trasformato nel festival della rinascita, un segnale di speranza per una ricostruzione civile, collettiva e condivisa che non salvi soltanto gli edifici, ma soprattutto la socialità: le iniziative di solidarietà si sono moltiplicate, diversi ospiti parteciperanno gratuitamente e gli stessi dibattiti verranno "sincronizzati" sull'attualità: si discuterà di cosa significhi aver perso la casa ma anche dei modelli in base ai quali case e fabbriche dovranno essere ricostruite. Un'energia che ha coinvolto anche le amministrazioni, che hanno fatto il possibile per riconsegnare al festival piazze ed edifici agibili».
In questi undici anni il festival ha richiamato 1 milione 227 mila visitatori e organizzato quasi 1.800 eventi. Risultati sorprendenti per una materia così ostica. «La nostra sfida? Far uscire la filosofia da un cenacolo per pochi iniziati, rendere fruibile una materia rigorosa e complessa senza banalizzarla — dice Borsari —. Così abbiamo scelto la formula della lezione magistrale: a ogni relatore abbiamo affidato 50 minuti per sviluppare un argomento e 30 di dialogo diretto con il pubblico, con la richiesta di utilizzare un linguaggio chiaro e diretto, senza severità né ascetismi». A guidare le oltre 50 lezioni magistrali che si terranno in piazze, chiese e cortili di Modena, Carpi e Sassuolo ci saranno, tra gli altri, Remo Bodei, Enzo Bianchi, Emanuele Severino e Massimo Cacciari, Andrei Linde e Antonio Masiero, Zygmunt Bauman, Michela Marzano, Carlo Sini, Richard Sennet e Giorgetto Giugiaro, Serge Latouche, Umberto Galimberti, Silvia Vegetti Finzi e Anne Cheng, fino a lectio sui generis come quella linguisticamente pirotecnica di Alessandro Bergonzoni o la tragicommedia «climatica e globale» scritta da Bruno Latour.
Le lezioni magistrali sono però solo il cuore di un'edizione 2012 che si preannuncia ricchissima di eventi (quasi 200, tutti gratuiti) che intendono esercitare una sorta di pedagogia pubblica attraverso la filosofia, codici diversissimi che vanno a costruire quell'intelaiatura di proposte «alte» e «basse» tra le quali ogni visitatore potrà costruire un personalissimo percorso: mostre (una trentina, tra cui Edward Weston, Lucio Riva e Antonio Porta), concerti e spettacoli (Fabio Volo, Giobbe Covatta, Francesco Guccini, Danilo Rea, ma anche le performance teatrali di Stefano Benni e Massimiliano Finazzer Flory o le gag dei Soliti Idioti), letture, giochi per bambini e le cene filosofiche curate da Tullio Gregory in oltre sessanta ristoranti delle tre città.
Una formula che appare funzionale ai tempi che stiamo vivendo: «Ci interessava rimettere la parola filosofica, quella razionale, non profetica, al centro di una scena pubblica caratterizzata dal disorientamento e dalla scarsa qualità della comunicazione — aggiunge Borsari —. Per questo abbiamo voluto creare ponti, passerelle che trasmettessero al nostro pubblico il sapere prezioso della filosofia mostrandone l'importanza per il tempo presente. Un'opera comune ai vari festival italiani, peraltro molto imitati all'estero, ai quali va riconosciuto il rinnovamento dell'offerta culturale nel nostro Paese. Non so se i festival siano la soluzione, ma certamente sono una risposta antropologica importante e di successo».
Un successo che si basa su un' esigenza reale del pubblico: «Secondo l'università di Ferrara, il 40% dei nostri visitatori ha il diploma di terza media. Magari non comprendono tutto — conclude Michelina Borsari —, ma certamente hanno capito che la comprensione del tempo presente passa attraverso l'impegno diretto e quotidiano del soggetto. E il piccolo boom dell'editoria filosofica degli ultimi anni ne è una conferma».

Corriere 11.9.12
Il Festival di filosofia /2
cos’è un oggetto? Dalla Lectio del noto filosofo docente a BerkeleySedie, sassi, molecole Siamo noi a decidere l'inventario del mondo
di John R. Searle


Gli oggetti aleggiano dappertutto nella nostra cultura filosofica e scientifica. Fin da quando Aristotele ha discusso le sostanze primarie — sostanze che non sono predicabili — gli oggetti hanno svolto la funzione di elementi basilari della nostra metafisica. Come noto, Wittgenstein mosse un'obiezione al primato degli oggetti dicendo che il mondo non consisteva di oggetti, bensì di fatti, e che in verità si dovrebbe pensare agli oggetti come costituenti dei fatti.
Non cercherò di risolvere i dibattiti tra le varie concezioni del primato degli oggetti. Ritengo che entrambe le teorie che ho appena citato — quella di Aristotele e quella di Wittgenstein — siano confuse (Aristotele confonde la proprietà semantica della predicabilità con la proprietà ontologica del modo di esistenza: Wittgenstein presenta un contrasto tra fatti e oggetti che è falso, perché, naturalmente, l'esistenza di qualunque oggetto è un fatto). Tuttavia dirò qualcosa riguardo a ciò che sono gli oggetti in generale prima di procedere con il tema degli oggetti sociali.
Si ha la tentazione di pensare al mondo come se esso contenesse un inventario di oggetti: sedie, tavoli, montagne e molecole. Vi sono dibattiti sulla questione se numeri e altre specie di universali debbano avere valore di oggetti o meno. Tuttavia, ad ogni modo, la maggior parte dei filosofi concordano che ci sia un inventario di oggetti precedente al cominciamento della ricerca filosofica. Ritengo che questo sia un errore. Cosa abbia valore di oggetto è relativo al nostro apparato concettuale. Così, per esempio, per me la parte d'albero che emerge dal terreno vale come l'intero albero; ma naturalmente, da un punto di vista biologico, le radici fanno parte dell'albero tanto quanto il tronco. Come scegliere di dividere il mondo e cosa decidere di far valere come un oggetto o due oggetti dipende da noi. Gli oggetti possono sussistere in parti separate: così, per esempio, un mazzo di carte può essere disperso in cinquantadue città diverse e tuttavia rimanere lo stesso singolo oggetto, lo stesso singolo mazzo di carte.
Può il mondo dividersi nel modo in cui noi scegliamo di dividerlo? Esso ci arriva indiviso, e dato il nostro apparato concettuale noi lo dividiamo in un modo o in un altro. Tuttavia, se per caso si pensasse che ci sia qualcosa di inevitabile nel nostro modo di dividerlo, si immagini che noi possediamo una specie di apparato sensoriale, ma che ciascuno di noi abbia le dimensioni di una galassia o quelle di un elettrone. Penso che si converrà che il tipo di cose che ora ci interessano in quanto oggetti — alberi, sedie, tavoli, montagne e case — non susciterebbero l'interesse né di galassie, né di elettroni coscienti.
La concezione che ho appena presentato viene talvolta definita «relativismo concettuale». Essa asserisce che la selezione dei concetti che usiamo per descrivere il mondo è relativa ai nostri interessi, relativa a noi. Ritengo che il relativismo concettuale sia assolutamente valido. Tuttavia esiste un tipo di relativismo metafisico che si suppone sia una conseguenza del relativismo concettuale: e quello è terribilmente sbagliato. Il relativismo metafisico asserisce che non solo i nostri concetti sono relativi a noi, ma che anche la realtà stessa è relativa a noi. Questo è un errore. Ecco perché.
Si ottiene di scegliere dei concetti, ma una volta che si è fatta la scelta di concetti, una volta che si sono poste le condizioni di verità per i propri predicati, non dipende più da noi, ma dalla realtà, se qualcosa sia una montagna, una molecola, un albero o meno. La selezione della parola «albero» per enunciare un determinato concetto e le condizioni di verità per l'applicazione di tale concetto dipendono in effetti da noi ma, una volta che si è compiuta tale selezione, non dipende più da noi se gli oggetti nel giardino davanti casa sono alberi. Che ci siano alberi è un fatto oggettivo indipendente dalla mente, anche se la selezione della parola «albero» e il concetto ad essa associato sono materia di scelta umana e di interessi umani. Questo è un punto assolutamente essenziale e voglio che venga inculcato bene in testa. Il relativismo concettuale non implica il relativismo metafisico. Non implica alcuna relatività riguardo alla realtà, né alcuna relatività riguardo alla verità. Esso unicamente asserisce: come scegliere di dividere il mondo con i propri concetti dipende da noi ma, una volta che si è fatta tale scelta, dipende dal mondo se questo o quel fenomeno nel mondo soddisfano le condizioni date oppure no.
Dipende da noi quali elementi del flusso dell'esperienza decidiamo di trattare come se ci presentassero degli oggetti. Tuttavia gli oggetti, per quanto costruiti, hanno determinate caratteristiche formali in comune. Le due più importanti sono individuazione e identità. Al fine di trattare qualcosa come un oggetto, dobbiamo trattarlo come distinto da altri fenomeni. Dobbiamo essere in grado di individuarlo. Così, per esempio, se ho il concetto di un albero, devo sapere perché qualcosa è un albero e non, ad esempio, una pietra. E anche perché è un albero e non due alberi. Un'ulteriore caratteristica oltre all'individuazione è l'identità. È necessario che io sia in grado di fare valere qualcosa come il medesimo oggetto in occasioni diverse. Pertanto, non solo questo oggetto di fronte a me è un albero, ma è lo stesso albero rispetto all'albero che ho visto in precedenza.

Corriere 11.9.12
Il Festival di filosofia /3
Anne Cheng del Collège de France
«La Cina non è solo pragmatismo L'Occidente ignora i suoi pensatori»
di Marco Del Corona


«Sono nata da genitori cinesi anche se ho ricevuto un' educazione e una formazione intellettuale francesi. Avrei dunque potuto scegliere di focalizzarmi verso interessi europei, ed è quel che ho cominciato a fare, occupandomi di filosofia inglese. Ma per ragioni legate alla mia storia familiare e personale ho deciso di virare verso la cultura dei miei antenati, e più nello specifico verso la storia delle idee». Anne Cheng è, si può dire, figlia d'arte: suo padre è l'accademico di Francia François Cheng. Ha la cattedra di «Storia intellettuale della Cina» e, come spiega in quest'intervista al Corriere, non si definisce solo come una sinologa. Il suo mestiere, piuttosto, è tendere ponti. Autrice di «Storia del pensiero cinese» (Einaudi), a chi le chiede come voglia descriversi, risponde che «a differenza dei miei colleghi sinologi, la Cina per me non è soltanto un oggetto di studio. È', prima di tutto, un'esperienza personale di pensiero e di vita che mi sforzo di far passare attraverso le mie attività di didatta, attualmente al Collège de France a Parigi». Le sue lezioni al Collège possono essere rintracciate e scaricate in tre lingue (francese, inglese e mandarino) sul sito www.college-de-france.fr/site/anne-cheng/.
Le semplificazioni non descrivono la realtà ma, in un certo senso, si potrebbe dire che siano parzialmente vere. Noi occidentali spesso descriviamo i cinesi come «pragmatici» o «pratici», e una frequentazione della Cina e dei Paesi di cultura cinese rischia di corroborare una percezione così. Cosa c'è di vero in questo stereotipo?
«I pregiudizi riducono necessariamente la complessità delle cose e una mezza verità non è una verità. Bisogna sempre ricollocare le cose entro una prospettiva storica e ricordarsi che le rappresentazioni occidentali della Cina sono cambiate spesso, dall'Europa illuminista del Settecento, dove regnava una "sinomania", seguita da un Ottocento "sinofobo", con un ritorno alla sinomania nel Novecento, in epoca maoista. Da che la Cina ha imboccato la via del capitalismo, passa per "pragmatica", ma lo è davvero più dell'America o dell'Europa?».
La Cina contemporanea è stata per decenni influenzata dall'opera e dalle elaborazioni di un pensatore occidentale: Karl Marx. Ma dopo di lui, quali filosofi occidentali hanno conquistato uno spazio autentico e significativo di attenzione e dibattito nell'accademia della Repubblica Popolare?
«Il pensiero di Marx, o piuttosto una certa forma di marxismo, ha esercitato in effetti una grande influenza nella Cina moderna, e persino un monopolio esclusivo nella Cina divenuta comunista nel 1949. Comunque, sono una trentina d'anni che i dibattiti intellettuali, molto vivaci nella sfera pubblica (al contrario di quello che pensa l'Occidente), si sono ampiamente aperti ad altre fonti d'ispirazione, comprese quelle più sorprendenti, come la tradizione liberale angloamericana o addirittura i pensatori neoconservatori come Carl Schmitt».
Fuori dalle facoltà di lingue e culture orientali e dai corsi di studi prettamente sinologici, la filosofia cinese continua a essere poco o pochissimo studiata nelle università dell'Occidente...
«È vero, mentre le élite cinesi sono perfettamente a conoscenza di tutti gli aspetti delle tradizioni filosofiche occidentali, le élite occidentali sono spessissimo totalmente ignoranti sulla Cina in generale e più ancora sulla sua tradizione intellettuale. E questa è un'asimmetria scandalosa».

Corriere 11.9.12
Una patria per gli ebrei, le scelte scartate
risponde Sergio Romano


Ho letto la sua risposta a un lettore che chiedeva ragguagli sul Birobidžan, il territorio ebraico situato sul fiume Amur fondato da Stalin nel 1932. Ho letto un articolo di Marek Halter che parla di un suo viaggio per conoscere una terra promessa per il suo popolo, anche se accolse una piccolissima parte di esso. Gli abitanti non hanno abbandonato lo yiddish, che è ormai una lingua caduta su larga scala in disuso anche se può vantare un premio Nobel per la letteratura, che toccò a Isaac Bashevis Singer nel 1978. Considerando che per Teodoro Herzl non era indispensabile che la popolazione dell'esodo si raccogliesse proprio sulle rive del Giordano, perché non è stato fatto tesoro dell'iniziativa di Stalin evitando di creare una tensione nel Medio Oriente che non pare avere mai fine?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Il Birobidžan sarebbe potuto diventare, in teoria, la patria degli ebrei dell'Urss, ma era pur sempre un territorio sovietico e non avrebbe mai attratto né l'ebraismo polacco né quello dell'Europa centro-occidentale e delle Americhe. È vero tuttavia che il progetto di Herzl era laico, ispirato dai grandi movimenti risorgimentali dell'Ottocento, e poco sensibile alle motivazioni religiose dell'ebraismo orientale. Cercò di ottenere una concessione turca per la Palestina, ma quando si scontrò con il rifiuto del Sultano non esitò a guardarsi attorno per cercare un'altra terra in cui gli ebrei potessero creare il loro Stato.
Il suo principale interlocutore in quella fase (i primi anni del Novecento) fu Joseph Chamberlain, ministro britannico delle Colonie, e la prima ipotesi presa in considerazione fu quella di un insediamento nella zona di El Arish, una città sulla costa settentrionale del Sinai. Ma l'idea non piacque a Lord Cromer, governatore britannico dell'Egitto, e Chamberlain propose allora un territorio più grande, accanto al Lago Vittoria, in una zona che andava genericamente sotto il nome di Uganda e che appartiene ora al Kenya.
L'offerta fu fatta in una fase critica della vita di Herzl. Era stanco, malato (morì nel 1904, all'età di 44 anni), spesso osteggiato dai rappresentanti dell'ebraismo orientale e ansioso di concludere la sua vita con un successo. Sapeva che la terra africana non sarebbe piaciuta a molti fra i suoi seguaci, ma pensò che un insediamento nazionale ebraico nell'Uganda avrebbe affermato un principio e creato un precedente. Volle che il problema venisse discusso in occasione del sesto Congresso del Movimento sionista, nell'agosto del 1903, e la proposta fu bocciata. Ma ottenne che la questione venisse ulteriormente studiata da una commissione. Troppo tardi. Herzl morì pochi mesi dopo e la scelta della Palestina, nonostante altre proposte fra cui il Madagascar, divenne da quel momento, per il sionismo mondiale, definitiva. Le ragioni furono in parte religiose, ma soprattutto politiche e pratiche. La riconquista della Terra Promessa aveva un forte valore simbolico e le colonie ebraiche installate nella regione dagli anni Ottanta del secolo precedente rappresentavano ormai un nucleo importante, un capitale politico che occorreva conservare e sviluppare. Nella sua storia del sionismo (The Tragedy of Zionism, New York 1985), Bernard Avishai segnala che nel partito anti-ugandese vi era anche David Gruen, un giovane ebreo polacco che stava facendo le sue prime armi nel movimento sionista. Due anni dopo la morte di Herzl, Gruen ribadì la sua scelta emigrando in Palestina. Quando vi arrivò promise a se stesso che non avrebbe mai più parlato yiddish e adottò un nuovo nome. Si chiamò da allora David Ben Gurion.

La Stampa 11.9.12
Lettori al tempo dell’ebook Più veloci meno profondi
I neuroscienziati si interrogano su cosa succede nel nostro cervello con il passaggio dal libro, base dell’apprendimento da almeno sei secoli, alle nuove tecnologie digitali
di Marco Belpoliti


Passando da sistemi di scrittura fondati sull’immagine grafica, come l’egizio, al sistema alfabetico, la lettura è diventata più agile, più veloce, e come sostengono alcuni studiosi, l’automatismo ha liberato il pensiero: ha più tempo, prima occupato nell’apprendimento Ma oggi con Kindle, iPad o altro, succede spesso che si fatichi a ricordare quello che si è letto
Cosa cambia nella lettura con le tavolette digitali? Kindle, iPad o altro, succede spesso che si fatichi a ricordare quello che si è letto. Il libro tradizionale è tridimensionale, come noi stessi, la tavoletta invece bidimensionale. Forse in qualche università americana ci sarà uno studioso che si sta già interrogando su i cambiamenti che la rivoluzione informatica degli ultimi vent’anni ha provocato e provocherà nella nostra attività di lettura. Di sicuro l’ha fatto di recente Maryanne Wolf in un libro molto interessante: Proust e il calamaro (Vita e Pensiero). Non siamo nati per leggere, scrive la neuroscienziata cognitivista della Tufts University. Il nostro cervello non è fatto per aiutarci ad apprendere a leggere, e anche a scrivere. Per farlo deve imparare a realizzare nuovi circuiti collegando regioni preesistenti, la cui programmazione e il cui programma genetico ha altri scopi: dal riconoscimento degli oggetti alla denominazione. Solo da poche migliaia di anni l’umanità legge; per farlo ha dovuto riciclare alcune zone del cervello con risultati notevoli. Ma è proprio grazie alla scrittura che il genere umano ha fatto notevoli passi in avanti, nonostante che molti secoli fa Socrate avesse messo in guardia i suoi contemporanei nel passaggio dall’oralità, fondata sulla memoria, alla scrittura sulle conseguenze nefaste di questo cambiamento.
Ora che stiamo per varcare o, meglio, abbiamo già varcato, la soglia verso una cultura sempre più fondata sull’immagine, sulla vista, condizionata da enormi flussi d’informazioni digitali, cosa ne sarà della lettura la cui specificità non è per nulla iscritta nel nostro patrimonio genetico, ma il risultato di un allenamento cominciato coi Sumeri e gli Egizi? Nel passaggio dal libro - la base della nostra cultura e dell’apprendimento da almeno sei secoli - all’ebook, al libro elettronico, cosa succederà? Continueremo a leggere? E come? Maryanne Wolf è una specialista della dislessia. Dislessico è suo figlio Ben, dislessici erano suo bisnonno, commerciante di successo, e probabilmente anche gli antenati del marito, e forse qualche difficoltà deve averla avuta lei stessa, un po’ come Oliver Sacks, che è diventato studioso dei deficit del cervello a causa di suoi problemi, come ha rivelato nell’ultimo libro, L’occhio della mente (Adelphi).
La studiosa americana spiega che, se non esistono specifici «geni della lettura», i dislessici non sarebbero persone con un deficit, bensì individui in cui il cervello propende per altre attività cognitive e di riconoscimento. Dal momento che i dislessici appaiano dotati di altre capacità - ad esempio, abilità di tipo spaziale che s’evidenziano nelle attività artistica -, nella società dell’immagine verso cui stiamo andando, queste persone probabilmente non soffriranno troppo. Un paradosso: prerogative del lato sinistro del cervello, che portano alla dislessia in società alfabetizzate, in altre, in cui prevale invece l’immagine, producono una spiccata superiorità. Ben, molto dotato nel disegno, chiede a sua madre: Sono più creativo perché uso l’emisfero destro più delle altre persone? Per questo i dislessici vengono al mondo con un cervello più creativo? La madre lì per lì non sa rispondergli. Il principio alfabetico, sostiene, consiste nell’intuizione che ogni parola della lingua parlata - appresa presto dai bambini - è composta di un numero finito di singoli suoni rappresentabili con un numero finito di lettere. Normalmente nelle società contemporanee, quelle occidentali, fondate sull’alfabeto latino, s’impara a leggere in 2000 giorni, là dove, nelle scuole dei Sumeri, occorrevano decenni, per via dell’alfabeto logografico.
A metà dello scorso decennio uno studioso di tecnologia Edward Tenner si è chiesto in un articolo sul New York Times se Google non stesse diffondendo una sorta di analfabetismo dell’informazione e il modo di apprendere che ne deriva non possa produrre conseguenze negative. Oggi possiamo rispondere che si legge e si scrive di più, ma in un modo diverso dal passato: per brevi segmenti, in modo rapido, impegnando sempre meno il corpo nell’atto della scrittura, i polpastrelli e non più le dita o la mano. Ciò che si modificato negli ultimi duemila anni è stato il fattore tempo. Passando da sistemi di scrittura fondati sull’immagine grafica, come l’egizio, al sistema alfabetico, la lettura è diventata più agile, più veloce, e come sostengono alcuni studiosi, l’automatismo ha liberato il pensiero: ha più tempo, prima occupato nell’apprendimento. Walter Ong, il gesuita collega di McLuhan sostiene in Oralità e scrittura (il Mulino), che la scrittura induce divisione e alienazione, ma anche una più salda unità, intensifica il senso dell’io e alimenta una interazione più consapevole tra gli individui, perciò alimenta la coscienza. Il contrario di quello che sosteneva Socrate.
Nelle conclusioni del suo studio sulla lettura Wolf si mostra cauta sul futuro. Tavolette o personal, i giovani lettori propendono sempre meno per un’analisi approfondita dei testi e per la ricerca di strati più profondi, come gli insegnanti riscontrano sempre più spesso, in ragione della immediatezza e dell’apparente completezza delle informazioni che appaiono oggi accessibili senza troppo sforzo. Armati di tablet e lavagne elettroniche, i nostri figli saranno destinati a una società di «decodificatori d’informazioni», oltre che di dislessici creativi? Proust e il calamaro non risponde. Settanta anni fa Walter Benjamin faceva la lode del copista, sostenendo che solo chi ricopia un testo scritto riesce ad afferrarne l’intimo significato, un po’ come chi va a piedi lungo una strada rispetto a chi la vede dall’alto da un aeroplano. E ora che viaggiamo su navi spaziali elettroniche cosa capiremo di ciò che leggiamo?

La Stampa 11.9.12
Uomini e macchine, tutti nella stessa infosfera
Dopo Copernico, Darwin e Freud, la quarta rivoluzione annunciata da Turing: un saggio di Luciano Floridi
di Juan Carlos De Martin


Oggi a Torino Luciano Floridi (nella foto sopra) presenta il suo libro La rivoluzione dell’ informazione (Codice edizioni) oggi a Torino, ore 18,30 presso la Feltrinelli di piazza Cln, con Juan Carlos De Martin e Ugo Pagallo

Il 7 giugno 1954 moriva, in circostanze tragiche, Alan Turing, il matematico inglese considerato uno dei padri dell’informatica. Non aveva ancora compiuto quarantadue anni. A lui si devono, oltre al resto, la macchina ideale nota come «macchina di Turing», ovvero il modello concettuale alla base del computer moderno, e il «test di Turing», ovvero la riflessione che diede il via agli studi sull’intelligenza artificiale. Ma Alan Turing, secondo Luciano Floridi, filosofo a Oxford e recentissimo vincitore del premio Weizenbaum, non fu solo un grande scienziato, fu uno di quei rari pensatori capaci di rivoluzionare il modo in cui l’umanità concepisce sé stessa.
Un Turing, insomma, al livello dei grandi rivoluzionari del pensiero dall’Umanesimo in avanti, ossia, nella sequenza proposta da Luciano Floridi nel suo nuovo libro La rivoluzione dell’informazione (Codice Edizioni), Copernico, Darwin e Freud. Tutti e tre autori che hanno cambiato la nostra comprensione del mondo e quindi anche la concezione che abbiamo di noi stessi: con Copernico la Terra (e quindi l’umanità) non è più al centro dell’universo, con Darwin l’uomo non è più al centro del regno animale e con Freud la mente umana viene riconosciuta come niente affatto trasparente a sé stessa, ma piuttosto caratterizzata da inconscio e dal meccanismo di repressione.
A queste rivoluzioni, secondo Floridi, ora si aggiunge la rivoluzione dell’informazione, fondata sul riconoscimento che non siamo entità isolate, ma «inforg», ossia organismi informazionali interconnessi, che condividono con agenti biologici e costrutti tecnici un’ambiente globale in ultima analisi costituito da informazione, ovvero l’infosfera. In altre parole, secondo Floridi - e da questo punto di vista il suo debito (riconosciuto) nei confronti della cibernetica di Norbert Wiener è evidente - stiamo modificando la nostra idea della natura ultima della realtà, passando da una metafisica materialista, incentrata sugli oggetti e sui processi fisici, a una che ruota intorno all’informazione. Una metafisica adatta a un’era in cui il progresso e il benessere umano dipendono sempre di più da una gestione efficiente del ciclo di vita dell’informazione. Una rivoluzione che deve moltissimo, appunto, ad Alan Turing.
La rivoluzione dell’informazione che oltre a essere scientifica è, come sappiamo, anche tecnologica - rende senza dubbio possibili evoluzioni potenzialmente molto positive per l’umanità, ma anche seri rischi e problemi. Il primo rischio è che il cambiamento in atto non venga compreso. L’umanità, infatti, ha sempre reagito con difficoltà ai cambiamenti di prospettiva introdotti dai grandi rivoluzionari del pensiero. Basti pensare alla perdurante esistenza di migliaia di testate nucleari e al consumo forsennato delle risorse del pianeta: non dimostrano che, nonostante Copernico e Darwin, l’umanità continua a considerarsi al centro di tutto? Ora si aggiunge la sfida di iniziare a pensare l’uomo come animale informazionale inserito all’interno dell’infosfera. Non sarà facile. Come rimarca Floridi, infatti, la società dell’informazione sta crescendo molto più rapidamente della capacità dell’uomo di sviluppare solide radici concettuali, etiche e culturali. D’altronde, se ancora non abbiamo fatto davvero i conti con Copernico e Darwin, come potremmo pretendere di aver già fatto nostro Turing?
Eppure è essenziale provarci, e in questo senso il testo di Luciano Floridi è di grande aiuto, proponendo sia un quadro d’insieme sia nozioni chiare e concise su cosa sia l’informazione in vari ambiti del mondo fisico e dell’agire umano. Nozioni indispensabili anche per provare a influenzare gli sviluppi futuri della rivoluzione dell’informazione, che non sono affatto pre-determinati. In particolare la questione cruciale di chi avrà accesso a quali informazioni e a quali condizioni, e di quanto ampia sarà la libertà dell’individuo di possederle, elaborarle e comunicarle determinerà, a seconda degli esiti, infosfere radicalmente diverse tra loro, con potenziali benefici per l’umanità e per il pianeta, ma anche con rischi di segregazione, sfruttamento e oppressione senza precedenti. Le prime scelte importanti in tal senso sono già oggetto di discussione nei parlamenti, sui giornali e nelle piazze, e ancor più lo saranno negli anni a venire.

Repubblica 11.9.12
Così è nato il manifesto per la democrazia globale
Si trova on line ed è firmato da molti intellettuali, tra cui Bauman, Chomsky e Attali
di Roberto Esposito


Si può vedere qualcosa di estremo, e persino di eccessivo, nel Manifesto sulla Democrazia Globale (disponibile online “Global Democracy Manifesto”) che ho firmato insieme alcuni intellettuali di provenienza diversa tra cui Attali, Bauman, Chomsky, Marramao, Iglesias, Saviano. Quando si afferma che «si vuole essere cittadini del mondo e non solo i suoi abitanti» e che dunque si esige «una democrazia non solo a livello locale e nazionale, ma anche una democrazia globale» è come se si fosse superata la soglia che separa il possibile dal reale e anche l’impossibile dal possibile. Ma come, si può ben obiettare, se non si riesce neanche ad unire politicamente l’Europa, se perfino l’Italia rischia di spaccarsi in due zone a diverso tasso di sviluppo, si parla della costruzione di un nuovo ordine democratico mondiale? Con quali strumenti, con quali programmi e soprattutto dentro quali rapporti di forza tra Paesi di ben diverso rilievo politico, economico, militare? È l’obiezione realistica che due secoli fa Hegel rivolgeva al progetto cosmopolitico di Kant con argomenti non troppo dissimili da quelli oggi riproposti da qualche suo connazionale. Perché mai gli Stati più forti dovrebbero lasciarsi condizionare da o trascinarsi dietro i più deboli?
Sono obiezioni di non poco conto – come anche quelle che richiamano la profondità delle radici nazionali, la disomogeneità dei contesti ambientali, il vincolo che per un secolo ha legato la democrazia alla forma dello Stato sovrano. Tutto ciò è vero – ma in un orizzonte politico i cui protagonisti primari erano appunto le istituzioni statali nate all’inizio dell’età moderna. Da allora, e per mezzo millennio, almeno in Europa, la politica è stata praticata dall’alto dei poteri costituiti. Rivolta, certo, prima ai sudditi e poi ai cittadini, ma sempre a partire da una logica che li escludeva dal potere. Tutto ciò è stato l’esito di una civiltà politica basata sul binomio inscindibile tra assolutezza del potere sovrano all’interno e competizione tra gli Stati all’esterno. Fino a qualche decennio fa è stato possibile immaginare che quella fosse qualcosa di più di una lunga stagione del mondo, che fosse il punto estremo cui la civilizzazione potesse portare.
Ma così non è stato. Come già a metà del Novecento Carl Schmitt doveva drammaticamente riconoscere, prima la guerra e poi la potenza congiunta della tecnica e dell’economia hanno rotto gli argini di quell’ordine. Era impossibile estendere al mondo, ormai liberato dalle catene coloniali, quel ius publicum europaeum che fino ad allora lo aveva retto, dividendolo lungo linee tracciate dalla forza e legittimate dal diritto. La risposta alle obiezioni realistiche è dunque questa: la globalizzazione non solo dell’economia, ma del suo tracollo, ha mutato, va mutando di giorno in giorno, il rapporto tra realismo e storia. Il realismo non è una costante. Anzi, se vuol restare tale, deve adeguarsi ai mutamenti della realtà, tenere dietro al movimento delle cose, che spesso è più rapido di quello delle idee. Quello che era realistico negli anni Trenta in Europa non lo era più negli anni Cinquanta e, tantomeno, negli anni Novanta. Oggi, da quando viviamo in un periodo in cui cento punti di spread valgono più dell’egemonia culturale e perfino della forza militare, l’asse del mondo si è spostato ancora. La relazione tra realismo e utopia non è a somma zero – quanto più l’uno, tanto meno l’altra. C’è un pezzo di utopia – cui il Manifesto si richiama – che può divenire più realistico del preteso realismo.
Se c’è qualcosa, del resto, in questo inizio di secolo e di millennio, che ha mostrato la corda è stata proprio l’idea illusoria che si potesse semplicemente tornare all’ordine precedente, limitandosi a riaggiustare le vecchie risposte politiche, sociali, ambientali. Questo tempo è scaduto. Nello stato di emergenza permanente in cui versiamo, in cui ogni giorno ci si chiede quale Paese cederà per primo trascinandosi gli altri, il Manifesto compie il gesto, a suo modo realistico, di porre un punto fermo. Prima ancora di pronunciare nuove parole, esso dice ciò che non è più possibile fare – guardare alla politica, all’economia, alla tecnica come sfere separate, destinate, ciascuna per suo conto, o l’una dopo l’altra, a neutralizzare il conflitto latente che serpeggia in maniera sempre più trasversale.
Naturalmente non si tratta che di un primo passo – qualcosa di più di una provocazione intellettuale, meno di un programma politico. Quello successivo – per dare senso e vita a questa iniziativa – è individuare i passaggi intermedi, gli strumenti operativi, i momenti aggreganti, se non per centrare l’obiettivo, almeno per approssimarsi ad esso. Per toccare terra, le idee devono procedere per gradi. Prima del mondo, almeno per noi, c’è l’Europa. La necessità di darle una struttura federale che la unifichi politicamente, senza soffocarne le differenze storiche e culturali. Dobbiamo abituarci a distinguere tra due tipi di differenza. Quella che taglia il mondo, ed ogni sua parte, con le forbici di una disuguaglianza intollerabile. E quella che traduce il peso della storia e la ricchezza delle sue espressioni. Il futuro si gioca sulla capacità di coniugare realismo e utopia, saggezza e speranza, unità e differenza.

Repubblica 11.9.12
Se un bimbo non riesce a leggere
Dislessia
di Elvira Naselli


Si definisce un disturbo specifico dell’apprendimento, ovvero una difficoltà che non è secondaria a ritardo mentale, deficit o malattia. Dislessici si nasce, e non si tratta di bambini sciatti, svogliati o poco intelligenti: semplicemente, non riescono ad automatizzare la capacità di lettura, tanto che in passato la dislessia veniva chiamata “cecità per le parole”. Il disturbo - riconosciuto come tale soltanto dal 2010, con la legge 170 che obbliga le scuole a mettere in atto facilitazioni per i dislessici - riguarda più i maschi che le femmine, in un rapporto di tre a uno, e il fattore ereditario è significativo. Quasi sempre un bambino dislessico ha infatti un papà con una storia di difficoltà
scolastiche e non diagnosticato, considerato che 30 o 40 anni fa non era facile arrivare alla diagnosi.
«La stima è che oggi in Italia tra il 3 e il 5 per cento della popolazione pediatrica abbia problemi di dislessia - premette Stefano Vicari, responsabile dell’unità di Neuropsichiatria infantile del Bambino Gesù di Roma dunque una cifra che varia dal milione al milione e mezzo di giovani, in ogni classe per capirci ce n’è almeno uno. Purtroppo ancora oggi, nonostante genitori, insegnanti e pediatri siano più sensibili, ci sono casi in cui si arriva troppo tardi alla diagnosi. Capita ancora di individuarla in ragazzi del liceo, bocciati più volte e considerati poco più che dei fannulloni. La tempestività nel riconoscere questi disturbi è invece fondamentale per l’efficacia dell’intervento e le possibilità di recupero: è verosimile ritenere che un 30 per cento dei piccoli dislessici riesca a recuperare, un altro terzo mantiene il disturbo in forma non grave e la parte restante non recupera per niente».
Per individuare precocemente i bambini è importante fare attenzione ad alcuni campanelli d’allarme. Senza dimenticare che la maggior parte dei
piccoli dislessici ha anche problemi di ortografia o di calcolo. «Le situazioni da osservare sono molte - attacca Vicari - e sono tutte indipendenti dalla qualità dell’insegnamento, come erroneamente alcuni genitori credono. Imparare a leggere è una cosa relativamente semplice, tanto che alcuni bambini apprendono addirittura da soli e la maggior parte sa già leggere a Natale della prima elementare. Per questo, se alla fine della prima classe il bambino legge molto lentamente e male, perdendo il senso di quanto letto, con troppi errori, oppure se non riesce ad imparare le tabelline e a fare calcoli rapidi a mente, o ancora ha difficoltà nel tratto grafico, non rispetta il rigo o calca troppo la mano fino a stancarsi, allora bisogna chiedere una valutazione allo specialista neuropsichiatra infantile. Questi bambini nascono con tali disturbi, ma noi ce ne accorgiamo soltanto quando arrivano a scuola, e spesso neanche allora».
Con la diagnosi precoce, inoltre, ci sono più possibilità di recupero. Non esistono interventi di tipo farmacologico, ma di logopedia riabilitativa differenziata a seconda del tipo di difficoltà del bambino e dell’età. Sui bambini più grandicelli, da fine scuola elementare in poi, si lavora più sulla comprensione dei brani, sulle tecniche di studio, sulla costruzione di testi scritti. Trattamenti lunghi mesi, talvolta anni. «La cosa più importante - puntualizza ancora Vicari - è che i bambini non si sentano sconfitti o falliti rispetto agli altri compagni. Non sono bambini incapaci ma con una difficoltà che riguarda un solo ambito e che può essere aggirata: basta un computer che legga per loro, oppure registrare le lezioni, usare la calcolatrice o gli audiolibri, anche se purtroppo non ci sono ancora i libri scolastici. L’errore più comune è farli esercitare molto se leggono male o sbagliano doppie, accenti, apostrofi, parole plurisillabiche o poco utilizzate, l’h del verbo avere: non serve a nulla e non automatizza la funzione, è come avere una gamba rotta e camminarci molto per guarire prima, non solo non funziona ma peggiora
la situazione».

Repubblica 11.9.12
Gli autori Gallimard: “Millet, testo fascista”
Un articolo su Le Monde di Annie Ernaux firmato da 120 colleghi
di Fabio Gambaro


PARIGI Il caso Richard Millet non accenna a placarsi.
L’elogio letterario di Anders Breivik, nelle cui pagine lo scrittore francese elogia la «perfezione formale» del massacro perpetrato l’anno scorso dall’assassino norvegese, continua a suscitare reazioni indignate nel mondo culturale francese. Nei giorni scorsi, Antoine Gallimard, l’editore per cui Millet lavora da molti anni, di fronte al malumore di diversi autori della casa editrice, ha cercato di spegnere le polemiche in nome della libertà d’espressione dei suoi dipendenti. Una posizione che però a molti è sembrata eccessivamente pilatesca. Ad esempio alla scrittrice Annie Ernaux, che oggi gli risponde, pubblicando nelle pagine di Le Monde un lungo testo controfirmato da centoventi scrittori, in cui condanna senza appello le idee di Millet.
Per la scrittrice, da molti anni pubblicata proprio da Gallimard, il libretto di Millet, le cui posizioni sarebbero assimilabili a quelle dell’estrema destra degli anni Trenta, è «un pamphlet fascista che disonora la letteratura», un testo «che trasuda disprezzo dell’umanità e fa l’apologia della violenza». L’autrice di Passione semplice giudica L’elogio di Anders Breivikcome «un atto politico che mira a distruggere i valori su cui si fonda la democrazia francese», un’opera che, sfruttando «una retorica perversa», incita all’odio contro le popolazioni di origine straniera e quindi «arruola di forza la letteratura in una logica d’esclusione e di guerra civile». Motivo per cui, spiega, non si può invocare la libertà di espressione per far tacere chi «osa interrogarsi sulle responsabilità del suo autore all’interno di una casa editrice».
Insomma, per Annie Ernaux, occorre «agire» subito per evitare che le idee di Millet possano diventare realtà. E come lei la pensano i centoventi scrittori che hanno sottoscritto le sue parole. Tra questi - oltre ad autori che nei giorni scorsi avevano già preso posizione, come il premio Nobel JMG Le Clézio o Tahar Ben Jelloun - figurano Amélie Nothomb, Philippe Forest, Mathias Enard, Nancy Huston, Olivier Adam, Delphine De Vigan, Lydie Salvayre, Dan Franck, François Bon, Anne- Marie Garat e Marie Desplechin. Tra i firmatari anche molti autori di Gallimard, come ad esempio Jean Rouaud o Boulaem Sansal, che ora aspettano una risposta della casa editrice, che per il momento però non ha reagito. In compenso, proprio Millet starebbe preparando un nuovo testo intitolato Perché mi uccidete? che dovrebbe essere diffuso tra qualche giorno in rete. Le discussioni, dunque, sono destinate a proseguire.

La Stampa 11.9.12
I film a Venezia. Marco Bellocchio
L’Italia che non sa più raccontare
di Francesco Bonami


Marco Bellocchio non premiato al Festival del Cinema di Venezia dichiara che non possono essere gli americani o gli inglesi a dirci cosa dobbiamo raccontare con il nostro cinema. Ha ragione. Non si può dire ad un artista cosa deve mettere dentro le proprie opere. E’ legittimo però, nel caso di una giuria, far capire che quello che vogliamo raccontare non siamo riusciti a raccontarlo bene o addirittura male. Il Leone d’Oro a Venezia è andato ad un film della Corea del Sud, non ad un film americano. Il cinema coreano ha sicuramente un modo molto diverso di raccontare le sue storie da quello americano, inglese e anche italiano. Eppure vince i premi. Li vince non certo perché il modo del cinema è filo coreano o perché le lobby di quell paese sono potenti. Li vince perché sa come raccontare le proprie storie tutte particolari e molto locali al resto del mondo. Ad un regista che ha saputo creare un film come «I pugni in tasca» non si dovrebbe poter dire nulla. Ci sono artisti ai quali basta un’opera per entrare nella storia.
E’ il caso di Bellocchio. Detto questo Bellocchio non ha poi più veramente saputo raccontare così bene le sue storie. O almeno non le ha sapute raccontare o non le ha volute raccontare al resto del mondo. E’ una scelta ma anche un dato di fatto. Già con «Buongiorno Notte» si lamentò di non aver ricevuto un premio. Ma quel film, con tutto il rispetto ma anche con tutta sincerità, non era un film che meritava un premio, quanto meno un premio internazionale. Non lo meritava non perché fosse brutto, lo era, ma perché non fu in grado di raccontare una storia così forte come quella del sequestro Moro a chi quella storia non conosceva bene. Non è una questione di provincialismo o localismo, ma forse una questione molto semplice di presunzione culturale. Una presunzione che però non possiamo da tempo più permetterci. Nel cinema, come nelle arti visive, ma anche nella musica rock e nella letteratura, noi italiani non siamo più capaci, esclusi casi rari, di creare qualcosa che partendo dal nostro particolare diventi universale. Non sappiamo raccontarci, narrarci. Non è questione, come dice Bellocchio, di sfumature che gli altri più rozzi non comprendono. E’ questione di non saper tradurre dentro di noi le nostre storie in un linguaggio a prova di sfumature e traduzioni.
«L’albero degli Zoccoli» di Ermanno Olmi girato tutto in dialetto bergamasco vinse la Palma D’Oro al Festival di Cannes nel 1978. Questo per dire che non è una questione di lingua ma di capacità narrativa attraverso le immagini, capacità che ci spiace dirlo Bellocchio ha perso da molto tempo. Vedere nella sconfitta qualche complotto culturale «veteroimperialista» è tipico di una certa generazione di artisti italiani che avendo scelto, legittimamente, di rimanere chiusi dentro il proprio linguaggio narrativo o espressivo, rifiutano di ammettere che i loro strumenti per raccontare le storie che hanno in mente non sono più adeguati ad un mondo che cambia. Marco Bellocchio nel 1965 con, appunto, «I pugni in tasca», utilizzò un tipo di narrazione al passo con la cultura di quegli anni. Per questo il film ebbe un grande impatto sul pubblico. Non utilizzò la grammatica di Eisenstein o quella di Charlie Chaplin sapendo bene che non avrebbe funzionato, sapendo che quello che voleva dire non sarebbe stato capito. E’ bizzarro che poi si sia intestardito nel pretendere che la gente debba capire e premiare un modo di far cinema che non riesce più a parlare non solo alle giurie, internazionali, ma al mondo. Alcune giurie italiane continuano a premiarlo, ma lo fanno paradossalmente proprio perché ragionano come lui, con una mentalità complottista.
Il premio diventa una risposta autoreferenziale che ad una ipotetica lobby «imperialista» oppone una lobby familiar-localista. Non ci premiano gli altri? Ci premiamo da soli! I lamenti di Bellocchio però non sono un problema esclusivamente suo. Riflettono uno stato dell’arte in Italia che non riesce a sbloccarsi, che non riesce a capire, come invece chiaramente fanno i coreani, che là fuori c’è un mondo intero interessato alle nostre storie e proprio per questo è nostro dovere scoprire come raccontarle nel modo migliore.

Repubblica 11.9.12
Venezia, l’autogol finale
di Curzio Maltese


Alla fine ha vinto il migliore, il coreano Kim Ki-duk con «Pieta». Un verdetto onesto e coraggioso, com’era lecito attendersi da una giuria presieduta dal grande Michael Mann, che non ha esitato a preferire l’arte poverissima di un poeta visionario abituato a girare con qualche migliaio di euro alla mega produzione hollywoodiana di «The Master». Fra tanta qualità, il cinema italiano è uscito a testa alta. Con i premi alla fotografia magistrale di Daniele Ciprì e al miglior attore emergente, Fabrizio Falco, gli elogi e gli applausi ai film in concorso, «La bella addormentata» di Marco Bellocchio e «È stato il figlio», la rivelazione di Leonardo Di Costanzo. Bravi, bene, bis. Vissero tutti felici e contenti? Neppure per sogno.
Da un minuto dopo la conclusione, sono partite le polemiche, le solite dietrologie e teorie del complotto, la caccia all’untore. Com’è noto, la caratteristica principale per lanciare una polemica in Italia è non conoscere l’oggetto. Infatti la stragrande maggioranza dei polemisti, politici e registi e opinionisti che hanno contestato «l’incredibile verdetto della giuria di Venezia», non ha visto nessuno dei film in concorso. Un po’ come avveniva ogni notte nel salotto dell’ineffabile Gigi Marzullo. Ma che cosa conta? Tutti conoscono la verità: doveva vincere Bellocchio. Perché, scusate? Ma diamine, perché è italiano. E perché non ha vinto? Forse c’erano film più belli in concorso (a mio modesto parere almeno quattro: Malick, Mendoza, Anderson e Bahrani)? Ma no, ti spiegano i dietrologi, non ha vinto sempre perché è italiano. Ce l’hanno tutti con noi. Gli stranieri in quanto stranieri e gli italiani poiché inguaribili esterofili.
In un clima da processo del lunedì del cinema - è destino che da noi tutto finisca a pallonate, dalla politica alla cultura- sul banco degli imputati sono andati nell’ordine l’Arbitro, nemico storico del popolo italiano, nella figura di Michael Mann. Quindi il Traditore, il giurato italiano, il regista Matteo Garrone, la cui colpa sarebbe quella di aver accettato il verdetto degli altri sette, invece di scagliare la stampella contro il nemico come Enrico Toti e abbandonare la giuria cantando l’inno di Mameli.
Nel delirio di vittimismo e luoghi comuni assortiti si sono subito messi a sguazzare i nostri politici più ignoranti e ciarlieri, lamentando che a Venezia non si premiano mai gli italiani «mentre i francesi, loro sì…». Sarà giusto, per quanto vano, ricordare a questi sciagurati che alla mostra di Venezia gli italiani hanno vinto sedici volte, l’ultima volta col non indimenticabile «Così ridevano» di Gianni Amelio. Mentre i francesi a Cannes, nell’ultimo mezzo secolo, hanno vinto appena tre Palme d’Oro e senza mai linciare la giuria. Stiamo diventando noi i veri sciovinisti?
Ma se dai politici già in campagna elettorale c’è da aspettarsi qualsiasi cialtronata, spiace che una polemica puerile, sciocca e autolesionista sia alimentata anche da persone competenti, intelligenti. E soprattutto adulte. Come il regista Giovanni Veronesi, che irride il magnifico film vincitore, s’intende senza averlo visto. Gli stessi Marco Bellocchio e Matteo Garrone che giurano adesso di non voler più partecipare a un festival, l’uno in gara e l’altro da giurato, insomma «non ci gioco più, cattivi!».
Ma cari, perché fate così? Il cinema italiano sta vivendo una stagione di rinascita. È stato appena premiato con merito a Cannes e a Berlino, con Matteo Garrone e i fratelli Taviani. Il film di Bellocchio, che rimane un magnifico cineasta e un orgoglio della cultura italiana, è stato invitato dai festival di mezzo mondo. La mostra di Venezia, che molti davano per morta fino a qualche anno fa, uccisa da Cannes e Toronto e perfino minacciata dalla festa di Roma, è tornata a contare nel panorama internazionale. Il cinema italiano, quando gira film, non è affatto provinciale. Perché quando discute lo diventa, precipitando al livello di un qualsiasi mediocre talk show?

il Fatto 11.9.12
Bellocchio: “Mai più in concorso” /1
Fa bene
Il suo film meritava di più
di Macom Pagani


SE UN DIO LAICO esiste, conservi a lungo Marco Bellocchio. Leone d’Oro della sincerità, criniera a disagio nella morta gora del perbenismo, magnifico vecchio che alla prudenza, agitando i pugni fuori dalle tasche, preferisce la rabbia giovane. A Venezia, dice, non tornerà più. Così a Cannes o a Berlino. Via dai Festival, dalle proiezioni continue che ruminano le riflessioni, dai concorsi a premio, dalle giurie più o meno indifferenti che ancora una volta, quando ogni cosa sembrava illuminata, ne hanno ignorato il tocco. Ha partecipato, ha perso, lo ha ammesso senza difficoltà. Non c’era scritto su nessuna tavola che Bella addormentata dovesse persuadere il presidente scelto da Alberto Barbera, Michael Mann, né che la legge non scritta capace a volte di restituire cortesie per gli ospiti, fosse applicata alla lettera. Se pretendere di vincere alla roulette ha sempre qualcosa di infernale, non meno diabolico è giudicare il valore di un film dall’argomento scelto.
LA COMPLESSA parabola a più dimensioni sull’uscita dall’allucinazione berlusconiana, il confine tra vita e morte, l’amore e la possibilità di esercitarne l’arbitrio dipinta da Bellocchio, nelle segrete stanza presidiate da Mann, non è piaciuta a nessuno. A esclusione di Matteo Garrone, oggi grottesco imputato di un processo proto sciovinista, in plateale secca per mancanza di indizi. Gli altri giudici, dall’argentino Pablo Trapero a Marina Abramovic, non hanno capito di cosa si parlasse e lo hanno accantonato senza il coraggio che consigliò Quentin Tarantino a chiedere l’interruzione di Non credevamo di Mario Martone per un’ora di corso intensivo di Risorgimento italiano o la dialettica feroce di David Lynch impegnato a spiegare a Carlo Verdone e Margherita Buy per quale ragione rifiutasse di considerare Lamerica di Amelio un ipotetico candidato al trionfo: “Il vostro Gianni, a mio parere, è un regista modestissimo”. Così il meccanismo di colpa e vendetta narrato da Kim Ki-duk in Pietà e ambientato in un microcosmo è apparso paradossalmente universale e l’italico sgomento collettivo descritto da Bellocchio nel periplo su Eluana, senza rotta o bussola per orientarsi. A questa pigrizia interpretativa e non al Leone mancato (solo un anno fa, Bellocchio ricevette quello alla carriera) si è diretta la ribellione del regista. Scossa salutare e grido legittimo con tonalità direttamente proporzionali alla violenza dell’accusa. “Il cinema italiano è provinciale e autoreferenziale” avrebbe detto un anonimo giurato e Bellocchio, il cantore della follia familiare e degli abusi del clero, della follia dell’istituzione militare e dei principi disertori capaci di accettare una condanna a morte, vista una lista di giurati che per ragioni di sponsor prevedeva anche Laetitia Casta, si è giustamente incazzato: “Di queste imbecillità ne ho piene le scatole. L’eutanasia, il dramma del fine vita sono forse un tema provinciale? Non ci vengano a dare lezioni su cosa dovrebbero raccontare gli italiani in sala”. Ha perfettamente ragione. Rai cinema, convinta di avere un’opera di valore tra le mani, aveva spinto per andare in gara, Bellocchio forse ne avrebbe fatto a meno, preferendo un’uscita novembrina. Troppo tardi adesso, anche se ridurre lo sfogo del 73enne a travaso di bile per i relativi incassi del primo weekend, offende l’intelligenza di chi formula l’ipotesi.
IN COMPETIZIONE vogliono andare tutti, ma Bellocchio non ha bisogno di altri soprammobili di pregio. La sua poetica è da 50 anni testimonianza, riflessione, immagine, sogno. Un tratto estremamente personale, celebrato in tutto il mondo, meritevole (premio o non premio) di maggior rispetto. Forse la scelta di Mann, l’autore di Miami Vice, lontano ere geologiche dall’idea stessa del nostro cinema d’autore, in un momento di tentata rinascita di un sistema piegato dagli eventi, non era la più opportuna. L’ha fatta, in piena autonomia Alberto Barbera e come ogni decisione sovrana, può essere contestata. L’altra sera, a Udine, in un’atmosfera commossa, Bellocchio consolava nel retropalco una stravolta Alba Rohrwacher: “La cosa davvero importante è la vita”. Si era dimenticato di aggiungere la libertà di espressione. Se sei un artista non puoi esimerti. Annientare le ipocrite liturgie del dopo Festival è già essere altrove. Bellocchio conosce l’indirizzo e sta benissimo da solo.

il Fatto 11.9.12
Bellocchio: “Mai più in concorso” /2
Fa male
Bisogna saper perdere
di Federico Pontiggia


SANREMO ‘67, di Giuseppe Cassia e Ruggero Cini, cantano (Lucio Dalla e) The Rokes: “Bisogna saper perdere / non sempre si può vincere / e allora cosa vuoi? ”. Nel ‘67 a Venezia Marco Bellocchio vinceva il Fipresci dei critici, soprattutto, il Premio speciale della Giuria con La Cina è vicina. Più pesante dell’Osella tecnica a Buongiorno, notte nel 2003, più competitivo del Leone d’Oro alla carriera dell’anno scorso. Buongiorno, notte fu – per alcuni, forse, per i più – scippato da Il ritorno, il penultimo (Faust) russo al Lido capace, seppur con il solito formalismo, di interessarci a una storia. Per alcuni, forse per i più, fu uno scandalo, un reato di lesa maestà, soprattutto nei confronti della nostra Storia, quella più plumbea. Gli stessi, o forse altri, hanno poi visto nel Leone alla carriera del 2011 il risarcimento per quello scippo, senza capire che così facendo non ricompensavano Bellocchio, ma svalutavano la ratio del premio. Insomma, con Venezia ha un conto aperto e riaperto più volte, ma quando al Corriere (10 settembre) dichiara “non parteciperò mai più a un festival. Questo è stato l’ultimo della mia carriera” Bellocchio sbaglia (leggi, crediamo sbagli). Non quando realizza che “ho partecipato alla competizione e sono stato sconfitto”, ma quando cita Aznavour – “La dignità devi salvar malgrado il male che tu senti, devi partir senza tornar…” – per chiudere i propri orizzonti: non ci sarà una prossima volta in competizione per un film di Bellocchio, e non solo a Venezia.
SOPRATTUTTO, Bellocchio sbaglia perché risponde non a virgolettati, ma ai rumors dei soliti ben (dis) informati: a microfoni spenti, un membro della giuria – leggi, Michael Mann – avrebbe detto che i nostri film sarebbero “poco capaci di varcare i confini, troppo autoreferenziali…” (Corriere). Alla catena di Sant’Antonio dei dicunt, Bellocchio risponde in prima persona singolare e sdegnata, ma perché mettersi sullo stesso piano del fetido backstage, che sappiamo popolato da lingue lunghe, arsenico e vecchi merletti? Secondo, dopo aver dichiarato che “vista la mia età, a Venezia sarei andato volentieri fuori concorso, poi ho pensato che un film è un’opera collettiva e sarebbe stato ingiusto penalizzare gli altri” perché rimangiarsi la difesa di quel collettivo in perenne assemblea che è il cinema? Perché, detto che accetta la sconfitta, quel “comunque ho preso una decisione: non parteciperò”.
BELLOCCHIO dice basta perché – non parrebbe – ha perso o perché ha perso male, con i lunghi coltelli – autoreferenzialità, non esportabilità – che l’hanno colpito nel dietro le quinte? Poco importa, in entrambi i casi sbaglia. Perché quel “comunque” non è il comunque vada, ovvero l’olimpionico “l’importante è partecipare”, ma rischia di diventare, sobillato dal copia&incolla del dietro le quinte, “comunque dovevo vincere”. Gli risponderemmo che Vincere, vincere per davvero, l’ha già fatto, nonostante Cannes non abbia contraccambiato alla lettera. Soprattutto, gli rispondiamo con la lectio magistralis del suo Bella addormentata: il franzeniano “se sono libero di scegliere, allora come devo vivere? ” e il bellocchiano “se sono libero di scegliere, allora come devo guardare? ”. Innanzitutto, si guardi le spalle, Bellocchio, perché le pacche sono infide: “Non è credibile che a Cannes e a Berlino veniamo premiati mentre a Venezia siamo addirittura sbeffeggiati e censurati dal presidente di giuria di turno che tappa la bocca ai giurati”.
L’ha detto Francesco Giro, l’ex sottosegretario alla Cultura Pdl, ma di Bella addormentata che dice? “Abbiamo dei direttori della mostra deboli anzi debolissimi, succubi e non carismatici che peraltro selezionano malissimo i film perché a leggere le indiscrezioni e i giudizi riservati dei giurati su Bellocchio sembra di capire che il suo film non valga nulla. Allora abbiamo sbagliato anche lì”. Siamo certi che a Bellocchio girino per la “disamina” di Giro, ma allora perché dare adito, perché ospitare nani vocianti sulle proprie spalle? Nella migliore delle Italie possibili, Bellocchio avrebbe ridetto: “Ho partecipato alla competizione e sono stato sconfitto”. E, a chi gli dava contezza dei rumors di Mann & Co, avrebbe risposto: “Non mi interessa, grazie. Ci vediamo l’anno prossimo”. In Concorso a Venezia, con un se-quel: Rivincere.

Corriere 11.9.12
Napolitano chiama Bellocchio: ho apprezzato il suo film


Dopo i sedici minuti di applausi ricevuti a Venezia, ma soprattutto dopo la bocciatura della giuria, il film di Marco Bellocchio «Bella addormentata», ispirato al caso Englaro, incassa il plauso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A esprimere apprezzamento per la pellicola è stato lo stesso capo dello Stato in una telefonata al regista piacentino. Lo ha rivelato ieri, davanti allo stesso Bellocchio, l'assessore alla Cultura del Comune di Milano, Stefano Boeri, nel corso di un dibattito che ha anticipato la proiezione della pellicola offerta ai milanesi dall'amministrazione comunale. Sulle polemiche scatenate dalla mancata assegnazione di premi al cinema italiano e sul suo «provincialismo», è intervenuto anche Mario Martone. «Non è il mancato premio all'Italia che irrita — ha dichiarato il regista all'agenzia Ansa —, ma la lezione di cinema che a quanto pare è stata espressa dentro la giuria da chi avrebbe definito "provinciali" i nostri film. E questo non è accettabile». Martone, ex giurato a Venezia 2011, ha poi spezzato una lancia a favore di Matteo Garrone, accusato di non aver difeso abbastanza il film di Bellocchio: «Il suo voto è stato uno dei tanti dentro una giuria che ha in genere un orientamento dal presidente».