mercoledì 12 settembre 2012

l’Unità 12.9.12
Roma, aggressione fascista a una festa di studenti
di Pino Stoppon


ROMA Un gruppo di ragazzi che avevano partecipato a una festa nel Parco di Aguzzano, nel IV Municipio di Roma, ha denunciato di aver subito un’aggressione nella notte fra lunedì e martedì da una ventina di persone a volto coperto. Quattro giovani sono rimasti feriti, secondo un comunicato a firma Antifascisti e Antifasciste di Roma, in cui si accusa del pestaggio l’organizzazione di estrema destra CasaPound. «La scorsa notte nel Parco di Aguzzano si stava tenendo una festa organizzata da ragazzi e ragazze del IV municipio che in questi anni hanno condiviso all’interno delle scuole del territorio percorsi di movimenti e di aggregazione sociale e culturale si legge nella nota Verso le due e mezzo del mattino, a festa ormai finita, una ventina di neofascisti appartenenti a Casa Pound e Blocco Studentesco hanno aggredito i partecipanti alla festa con caschi e bastoni. Il risultato? Quattro ragazzi hanno dovuto ricorrere alle cure mediche in ospedale con lesioni alla testa e in altre parti del corpo e molti altri sono rimasti contusi». Ma le due organizzazioni di estrema destra negano di essere all’origine dell’aggressione: «CasaPound Italia e il Blocco Studentesco sono totalmente estranei alla presunta aggressione avvenuta durante una festa al parco di Aguzzano. Chi vuole tirarci in mezzo lo fa con il solo intento di gettare discredito sul nostro movimento». Il consigliere privinciale del Pd Marco Palumbo denuncia: «Non si contano più ormai le aggressioni e i pestaggi i cui responsabili, vengono indicati come appartenenti a Casapound. Ricordiamo che il dirigente di Casapound Italia è stato di recente condannato a due anni e 8 mesi proprio per l’aggressione di militanti del Pd a Prati Fiscali».
Anche Marco Miccoli, segretario del Pd Roma e Paolo Marchionne, capogruppo del IV Municipio definiscono «l’aggressione squadrista» come «l’ennesimo atto di violenza gratuita cui siamo costretti ad assistere. È intollerabile che gruppi organizzati con mazze e catene vogliano tentare di ristabilire limiti invalicabili nei quartieri della città, arrivando a picchiare come accadeva negli anni 70 e 80». L’Anpi «esprime tutta la sua solidarietà ai ragazzi aggrediti nel parco di Aguzzano e alle loro famiglie, e richiama le istituzioni e l’amministrazione a fare di più per prevenire le violenze squadriste».
Solidarietà ai ragazzi aggrediti è stata espressa dal presidente della Provincia Nicola Zingaretti: «Roma deve uscire da questo incubo della violenza che la sta avvelenando. Deve voltare pagina e tornare ad essere quella città aperta e solidale che conoscevamo». Aggiunge Zingaretti: «Voglio esprimere a solidarietà mia personale e dell’amministrazione provinciale alle giovani vittime dell’aggressione fascista del Parco Aguzzano. Un gesto ottuso, violento e ingiustificato che merita la più ferma e dura condanna da parte di tutte le istituzioni. Mi auguro che i responsabili possano essere individuati e consegnati alla giustizia al più presto». Luigi Nieri, capogruppo di Sel alla Regione Lazio: «L’ennesimo episodio di violenza politica conferma che movimenti come Casapound rappresentano una minaccia per questa città e per la normale convivenza democratica. Ci chiediamo cosa altro bisogna attendere prima di intervenire con iniziative concrete di contrasto a queste realtà, che si pongono il solo obiettivo di seminare odio e intolleranza».

l’Unità 12.9.12
Venerdì a Milano «Unitalia» mette a confronto Ingroia-Pellegrino
L’Unità e Left


TOCCA A L’UNITÀ INAUGURARE CON UN IMPORTANTE DIBATTITO la festa democratica metrolitana di Milano che, da quest’anno, si svolge al Carroponte di Sesto San Giovanni.
Venerdì 14, alle ore 21,30, Antonio Ingroia, Giovanni Pellegrino si confronteranno sul tema «Corruzione, legalità e diritti», argomento centrale nel dibattito politico e istituzionale di questi giorni. A guidare il confronto il direttore de l’Unità Claudio Sardo e quello di Left Giommaria Monti. Con questo dibattito continuano le iniziative di Unitalia, all’interno delle feste democratiche, che hanno già raccolto una forte partecipazione di pubblico.
Il programma della festa è stato presentato ieri da Roberto Cornelli, Francesco Laforgia ed Ettore Martinelli. Tra i partecipanti alla festa, che inizia il 13 e finirà il 24 settembre, ci sarà il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e molti esponenti del mondo politico e dell’amministrazione di Milano. Tra gli eventi in calendario, oltre a concerti e spettacoli teatrali, la presentazione del libro «Italia dei democratici» con Giulio Tremonti e «Diritti... verso la città metropolitana» con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il presidente della Provincia Guido Podestà. Prevista anche la partecipazione del ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda, che sarà fra gli ospiti di un dibattito sul rapporto tra spending review ed enti locali. In programma interventi di Massimo D’Alema, sul tema dei «diritti civili e diritti umani nel Mediterraneo», e del leader di Sel Nichi Vendola «Diritti per l’Italià».
Una serata sarà dedicata alla figura del cardinale Carlo Maria Martini e alla sua «Vita civile e politica», con l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini e don Virginio Colmegna.

l’Unità 12.9.12
Rapporto Ocse
Allarme giovani: il 25% non lavora e non studia
Generazione tradita: non fa nulla un giovane su 4
Abbiamo i docenti più anziani d’Europa: il 58% ha oltre 50 anni
Italia penultima tra i paesi Ocse: alla scuola solo il 9% della spesa pubblica totale
Il personale docente è primo per anzianità: il 58% ha più di 50 anni, il 10% meno di 40
di Luigina Venturelli


MILANO Un Paese avaro nei confronti della scuola è un Paese avaro nei confronti dei propri giovani. Ed è un Paese destinato a pagarne pesantemente le conseguenze, in termini di istruzione, di occupazione e, in fin dei conti, di benessere economico e sociale.
La fotografia dell’Italia, penultima tra le nazioni più industrializzate del mondo per spesa pubblica destinata al sistema scolastico quella scattata dall’ultimo rapporto Ocse «Education at a glance» è la diretta proiezione di una crisi che affonda le sue radici in anni di continui tagli alle risorse il colpo di grazia assestato dal recente governo Berlusconi e che, di questo passo, rischia di condannare al declino la penisola. Ai primi posti, infatti, tra i paesi più sviluppati per tasso d’inattività tra i giovani che né studiano né lavorano, 23% contro una media del 16%.
FANALINO DI CODA
Ad oggi l’Italia spende per l’istruzione dei suoi cittadini più giovani solo il 9% del totale della spesa pubblica, piazzandosi al 31esimo posto in una classifica di 32 paesi che vede solo il lontano Giappone in posizione peggiore, contro una media Ocse del 13%. Uno scivolone inevitabile, dopo il calo dal pur modesto 9,8% registrato nel 2000, confermato anche dai ridotti margini di spesa in rapporto al prodotto interno lordo, il 4,9% del Pil contro una media generale del 6,2%.
In termini assoluti, la spesa media per studente in Italia non si discosta molto dai livelli Ocse 9.055 dollari rispetto ai 9.249 dollari medi ma è distribuita in modo molto diverso tra i vari gradi di istruzione.
Si conferma l’eccellenza nelle prime fasce scolastiche, dall’asilo alle elementari, che ci vede addirittura sopra la media Ocse pari al 93% e al 97% contro rispettivamente il 66% e l’81% e si confermano le criticità progressive in quelle superiori, tanto che all’università il differenziale con le altre nazioni industrializzate sfiora i 4mila dollari 9.562 euro a fronte dei 13.179 medi.
UNIVERSITÀ AL PALO
Una distanza che si ripercuote immediatamente sui risultati dell’istruzione universitaria, sia in termini di giovani laureati, sia in termini di sbocchi nel mondo del lavoro. La percentuale di persone che hanno conseguito una laurea in Italia resta tra le più basse dell’area Ocse, pur essendo cresciuta nell’arco degli ultimi trenta anni: il 15% delle persone tra i 25 e i 64 anni contro il 31% delle nazioni più industrializzate e il 28% della media Ue (in Francia la quota è del 28%, in Gran Bretagna del 38% e in Germania del 27%). La percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34, inoltre, è superiore di soli dieci punti a quella registrata nella fascia 55-64, 21% contro 11%, sintomo della fatica con cui i cambiamenti globali in tema di istruzione collettiva hanno preso piede nel paese.
Di più: ormai avere in tasca una laurea non rende più facile trovare un lavoro, visto che il tasso di occupazione è sceso tra il 2002 e il 2010 dall’82,2% al 78,3% per i laureati, mentre è rimasto stabile per i diplomati (72,3% nel 2002 e 72,6% nel 2010).
E i dati sulle retribuzioni indicano le notevoli difficoltà dei giovani laureati a trovare un lavoro adeguato alla propria preparazione: i lavoratori italiani con una laurea tra i 25 e i 34 anniguadagnano soltanto il 9% in più dei loro colleghi diplomati (la media Ocse è del 37%), mentre i laureati tra i 55 e i 64 anni guadagnano il 96% in più dei coetanei diplomati (la media Ocse è del 69%).
PERSONALE DOCENTE ANZIANO
Non stupisce, dunque, l’estrema difficoltà registrata anche nel ricambio del personale docente: l’Italia infatti ha i professori più anziani dell’area Ocse, il 58% di quelli della scuola secondaria hapiùdi50anni,esoloil10%neha meno di 40.
Un dato che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo protagonista di una rovente polemica con i precari del mondo della scuola per l’intenzione annunciata dal governo Monti di eliminare le graduatorie per passare ai concorsi come modalità d’ingresso nel sistema pubblico d’istruzione si è affrettato a commentare come «elemento di stimolo affinchè le azioni che sono state intraprese siano rafforzate». Insomma: «Sul concorso che abbiamo annunciato, ci dice che la strada intrapresa non è così sbagliata». Ma restano «punti deboli» del sistema che necessitano una strategia di medio-lungo periodo per avere risultati convincenti e stabili: «Li stiamo analizzando per poter intervenire e allocare meglio le risorse» ha assicurato Profumo.

Corriere 12.9.12
Il no di Camusso peserà sui rapporti tra il Pd e il premier
di Massimo Franco


L' inizio non è dei più confortanti. La sensazione netta è che Mario Monti e una parte consistente del sindacato, Cgil in testa, siano sintonizzati su lunghezze d'onda diverse; e che i contrasti fra l'organizzazione di Susanna Camusso e la Cisl di Raffaele Bonanni non facilitino le cose. Il problema, dunque, non è tanto su che cosa trattare, ma se esistano le premesse di una trattativa. E c'è da chiedersi quanto peserà questa incomprensione nei rapporti fra il premier e un Pd costretto a tenere conto delle posizioni della Cgil; e fra Pd e Udc, schierata con Monti. Le ironie di ieri del segretario, Pier Luigi Bersani, verso chi sostiene la tesi di un miglioramento della situazione, sembravano indirizzate a palazzo Chigi. «Che termometro si usa?» si è chiesto. «I termometri che uso io sono il lavoro, i consumi della gente normale, gli investimenti. E questi termometri segnano febbre alta».
Si tratta di un malessere che anche Monti vede. Il contrasto riguarda il modo per farlo passare. Il capo del governo addita non una riduzione dei salari ma un cambio di mentalità delle parti sociali; e chiede loro di trovare un'intesa in grado di aumentare la produttività. La replica è che il governo non può scaricare su imprenditori e sindacati il compito di aiutare la crescita: serve il ruolo attivo di palazzo Chigi. Sono assaggi di un dialogo apparentemente senza sbocco. Né basta a farlo decollare la disponibilità del ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, a mettere a disposizione «le poche risorse che ha» se ci sarà un accordo. Offrire «le poche risorse» significa infatti confermare che l'esecutivo si ritaglia spazi di intervento volutamente limitati.
E fa rotolare di nuovo sugli interlocutori l'esigenza di trovare un compromesso. «Il ministro Passera ci ha detto che non ci sono soldi pubblici e che il governo non può chiedere altri sacrifici alle imprese», hanno riferito fonti sindacali alla fine dei colloqui di ieri. Il presidente del Consiglio avverte che «entro un mese servono segnali concreti»: prima della riunione dell'Eurogruppo e del vertice europeo di ottobre. Fa notare che la produttività della Grecia è tornata a crescere, al contrario di quella italiana. Eppure, ricordare ai sindacati che l'Ue «ci guarda» non sembra sufficiente a sbloccare la situazione. Palazzo Chigi fotografa una situazione «carica di tensioni e di preoccupazioni». E assicura che ci sarà «massima attenzione» verso le crisi industriali. Ma riesce ad aprire una breccia solo nella Cisl, per ora.
«Quando il cavallo beve, beve. Quando non vuol bere hai voglia a fischiare. Secondo me in un mese ce la possiamo fare», azzarda Bonanni, «per dimostrare all'Europa che l'Italia sa reagire». Ma la Camusso chiede politiche energetiche, nuove norme sulla legalità e la corruzione: sostiene che si tratta di fattori che incidono altrettanto sulla produttività. Insomma, rovescia l'impostazione del premier, ma anche della Cisl, lasciando capire che delegare a industriali e confederazioni la via d'uscita è un modo per rinunciare ad agire. È il segno che la Cgil ha deciso di andare allo scontro con Monti, accettato inizialmente perché soppiantava Silvio Berlusconi. E si prepara a tirare la volata ad una coalizione di centrosinistra.

l’Unità 12.9.12
I referendum di Vendola e Di Pietro
Presentati i quesiti per l’abrogazione del nuovo articolo 18 e del decreto che deroga i contratti nazionali
Tra i democratici le adesioni di Cofferati e Vita. Bindi critica: è un grave errore
di Andrea Carugati


ROMA Vendola e Di Pietro, ma anche Ferrero, Diliberto, Bonelli. Oltre a l’ex leader Fiom Gianni Rinaldini e all’ex Cgil Gian Paolo Patta. Tutti uniti, ieri mattina, per presentare in Cassazione i due nuovi quesiti referendari, che puntano a smontare la riforma Fornero dell’articolo 18 e l’articolo 8 del decreto varato dal governo Berlusconi nel 2011 che introduce pesanti deroghe ai contratti nazionali di lavoro tramite accordi aziendali.
L’Italia dei Valori aveva già presentato questi referendum in luglio, assieme a quello per abrogare completamente il finanziamento pubblico ai partiti e a quello per cancellare la diaria dei parlamentari: il partito di Di Pietro, però, ha deciso di ritirare i quesiti in materia di lavoro per far sì che fosse possibile ripresentarli, come è accaduto ieri, con un gruppo più nutrito di promotori. «Le alleanze si fanno sui programmi e presentare questi referendum ha spiegato Tonino è una proposta di programma per un’alternativa alla destra berlusconiana e per mettere di fronte alle proprie responsabilità anche chi appoggia il governo Monti».
Insiste il leader Idv: «Se andremo al governo noi cambieremo la riforma Fornero, Casini dice che la appoggerà, il Pd deve decidere cosa fare. Io spero che sia responsabile e si impegni con noi su questi referendum». I due quesiti, ha aggiunto Vendola, «cercano di restaurare la civiltà del lavoro, fondata sul diritto di non essere licenziato senza giusta causa e vogliono abolire la deroga al contratto nazionale di lavoro che rende il lavoratore solo e ricattabile. Non penso vi sia un’agenda di cambiamento se non si mette al centro il dramma del lavoro e della precarietà».
Quanto ai sindacati, la Fiom non fa parte del comitato promotore, ma ha già messo la sua organizzazione a disposizione della raccolta firme. Quanto alla Cgil, si segnala l’adesione solo della componente «Lavoro e società», guidata dal segretario confederale Nicola Nicolosi, che definisce la campagna referendaria «una battaglia di civiltà a favore dei lavoratori». Neppure il Pd, salvo un paio di eccezioni individuali, aderisce al comitato promotore, avendo per altro votato la riforma Fornero in Parlamento, dopo aver chiesto e ottenuto dei miglioramenti sul tema dei licenziamenti. Un problema, per Vendola, che ha scommesso sull’alleanza col Pd, a differenza di Di Pietro e delle forze comuniste. «Il Pd, come altre volte, non appoggia i referendum ma poi li fa vincere. Ci ritroveremo tutti nel voto», taglia corto Vendola.
Tra i democratici, hanno aderito «con convinzione» solo Sergio Cofferati e Vincenzo Vita. Mentre Rosy Bindi definisce i referendum «un errore grave». E il gauchista Stefano Fassina parla dell’iniziativa come di «una deriva populista. «Non firmerei i quesiti spiega la presidente Pd perché questa riforma è frutto di una sintesi a cui abbiamo contribuito anche noi in maniera determinante». Ancora più esplicita Marina Sereni: «Sentiamo la responsabilità di non fare false promesse da qui alle elezioni del 2013: le riforme approvate in questo periodo di crisi con il governo Monti potranno essere corrette e migliorate dopo il voto, ma non cancellate». Secondo il segretario del Prc Paolo Ferrero, al contrario, i due referendum hanno il compito di «difendere i lavoratori dai disastri fatti dalla Bindi e dal Pd. Senza il voto decisivo dei democratici Monti non sarebbe mai riuscito a demolire l’articolo 18: lo avremmo fermato come abbiamo fermato Berlusconi nel 2002».
Nel merito, il primo quesito punta a abrogare le novità introdotte dal governo Monti in tema di articolo 18, a partire dal risarcimento economico introdotto al posto della riassunzione per chi viene licenziato senza giusta causa. Tra i promotori (in particolare Idv e Prc) in un primo momento l’obiettivo era quello di estendere l’articolo 18 anche oltre la situazione pre-Fornero, dunque anche ai dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti. Ma gli uomini di Sel, memori del flop del referendum del 2003 promosso da Rifondazione, hanno messo in guardia i compagni sul rischio di ripetere l’errore. E alla fine ha invece prevalso l’idea di limitarsi a chiedere il ripristino dello status quo. L’altro quesito punta invece ad abrogare le deroghe al contratto nazionale introdotte da Berlusconi nel 2011 per decreto.
La raccolta delle firme partirà a metà ottobre e andrà di pari passo con quella per gli altri quesiti dipietristi sul finanziamento ai partiti e sulla diaria dei parlamentari.

Corriere 12.9.12
Così Nichi svela le contraddizioni democrat
La crociata del governatore pugliese contro la legge votata dal centrosinistra
di Maria Teresa Meli


La politica in Italia è l'arte dell'impossibile. Si spiega così la decisione di Pier Luigi Bersani di allearsi con Nichi Vendola, senza nemmeno attendere di sapere quale sarà la riforma elettorale che vedrà la luce in Parlamento.
Il gioioso tandem da guerra Pd-Sel non ha ancora cominciato la sua corsa, che già gli ostacoli si manifestano ai nastri di partenza. Colpa del referendum anti Fornero che il governatore della Puglia ha presentato ieri in Cassazione in compagnia di Antonio Di Pietro, Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero. I quattro vogliono cancellare una norma del ddl sul mercato del lavoro varato dal ministro del Welfare. Peccato che quella legge sia stata votata in Parlamento dal massimo — e probabilmente unico — partito alleato di Sel, ossia il Pd. Il quale, per inciso, appoggia l'attuale governo, mentre Vendola gli spara contro quasi quotidianamente.
E ora? I firmatari dell'agenda Monti — ma non solo loro — chiedono a Bersani di prendere pubblicamente le distanze dal leader di Sel, magari rinunciando anche a un cartello elettorale che ricorda troppo il fu Pci. Mentre la sinistra interna medita di appoggiare quel referendum (Sergio Cofferati ha già annunciato il suo «sì»). Morale della favola, il Partito democratico rischia di dividersi per l'ennesima volta.
Ma non è solo questo il problema. La questione che pone questa alleanza va al di là delle beghe domestiche di una singola forza politica. Non più tardi di un paio di mesi fa Bersani aveva assicurato: «Non farò il bis dell'Unione». Come a dire: non preoccupatevi, se andrò io a Palazzo Chigi non metterò in piedi un governo in perenne fibrillazione come quello presieduto da Romano Prodi dal 2006 al 2008. E per dimostrare la serietà delle sue intenzioni — su cui, va detto, non c'è da dubitare perché l'uomo è responsabile e attendibile — il segretario del Pd ha stilato una Carta d'intenti che gli alleati dovranno sottoscrivere. Lì sopra c'è scritto, nero su bianco, che sulle questioni controverse i gruppi parlamentari della coalizione, in seduta congiunta, decideranno a maggioranza qualificata la linea da assumere. Presentando il referendum anti Fornero, Vendola ha aggirato quella regola. Il che non fa presagire niente di buono per il futuro, nel caso in cui il Partito democratico andasse al governo con Sel. Anche perché, come rileva giustamente il senatore Marco Follini, il progetto di Bersani e quello di Vendola «fanno a pugni».
Non è però solo nella legislatura che verrà che questa alleanza potrebbe comportare dei problemi. I prossimi saranno mesi difficili, la crisi non è alle nostre spalle, come ha spiegato bene il presidente del Consiglio, e come ha ribadito ieri lo stesso Bersani: che cosa farà il Pd? Da una parte appoggerà Monti e dall'altra andrà a braccetto con Sel? Ma così facendo rischierà di allontanarsi dall'attuale premier, proprio mentre Silvio Berlusconi gli sta inviando dei segnali di pace (peraltro ricambiati), lasciando intendere che punta su Monti anche per il futuro. Di qui alle elezioni, quindi, il Partito democratico dovrà destreggiarsi tra due fuochi. Sarà un'ardua impresa. Anche perché è facile prevedere che Nichi Vendola non si fermerà al referendum anti Fornero. Il presidente della regione Puglia, infatti, ha bisogno di visibilità per risollevare le sorti del suo partito che nei sondaggi non spicca certamente il volo. Non solo. Vendola deve convincere anche quella fetta di Sel che è renitente all'accordo con il Pd e che preferirebbe non avere niente a che vedere con il governo. Si tratta di una minoranza, è vero, ma molto agguerrita, che ha in Fausto Bertinotti una sorta di nume tutelare. Per questi motivi il governatore della Puglia sarà costretto ad altri «strappi», rincorrendo quello che per lui rischia di diventare un insidioso concorrente, cioè Antonio Di Pietro. Bersani è un politico pragmatico ed abile. Ma sarà difficile tenere a bada l'alleato ribelle. E come se non bastasse, adesso anche il rapporto con Pier Ferdinando Casini non appare più saldo come un tempo.
Un ultimo problema, che riguarda le primarie del Partito democratico. Nella campagna per queste consultazioni il referendum anti Fornero promosso da Vendola e compagni diventerà inevitabilmente tema del dibattito, se non altro per un'improvvida coincidenza temporale: è proprio in quel periodo, infatti, che verranno raccolte le firme per il quesito referendario. Bersani, che punta al secondo turno delle primarie, per surclassare Matteo Renzi, dovrà decidere: buttarsi a sinistra per prendere i voti dei vendoliani, facendo fibrillare il partito e la maggioranza di governo, o rinunciare a quei consensi, rischiando però una vittoria di misura o, addirittura, una sconfitta.

Corriere 12.6.12
«Referendum? Non si può nell'anno delle elezioni»
Bersani e i quesiti sul lavoro depositati da Vendola e Idv

di M. Gu.

ROMA — «Dopo le primarie, ecco il referendum. Il centrosinistra prepara le elezioni...». Il lapidario tweet dell'onorevole Antonello Giacomelli, braccio destro di Dario Franceschini, fotografa il nuovo fronte interno che rischia di complicare a Pier Luigi Bersani il già accidentato cammino verso Palazzo Chigi.
L'alleato Nichi Vendola e l'ex alleato Antonio Di Pietro hanno depositato in Cassazione — assieme a Paolo Ferrero (Rifondazione comunista), Oliviero Diliberto (Pdci), Angelo Bonelli (Verdi), Gianni Rinaldini (Fiom) e Gian Paolo Patta (Cgil) — due quesiti referendari sul delicatissimo tema del lavoro. Obiettivo dichiarato: raccogliere le firme (a partire dal 12 ottobre) per abrogare le modifiche all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sulla libertà di licenziamento e ripristinare i «diritti minimi e universali» previsti dal Contratto nazionale, cancellando l'articolo 8 del decreto varato da Berlusconi un anno fa. Il problema, per il segretario del Pd, è che esponenti anche importanti del partito, come Sergio Cofferati, si sono schierati a favore. E che l'ala filo-montiana è tornata a tuonare contro la scelta del leader di allearsi con Vendola. «Il referendum è scriteriato e rischia di lacerare la possibile coalizione», dichiara il senatore veltroniano Stefano Ceccanti.
È una partita delicatissima, l'ennesima buccia di banana gettata tra i piedi di Bersani, che ha già il problema non piccolo di Matteo Renzi in partenza col camper per le primarie. Il responsabile economico, Stefano Fassina, rivela gli umori della segreteria: «Noi diciamo no, intanto per una questione di metodo. Sulla regolazione del mercato del lavoro non possono esistere scelte unilaterali imposte a colpi di maggioranza». Poi, alle 9 di sera, da Padova, dopo una giornata di polemiche, il leader del Pd prova a sbrogliare la matassa: «La nostra non è una posizione antitetica. Abbiamo difeso la posizione di chi non voleva che si arrivasse a monetizzare il posto di lavoro e garantito che ci fosse un presidio della magistratura a proposito della giusta causa. Ma tutti sanno che nell'anno delle elezioni i referendum non si possono fare». Quindi conclude: «Mi vedo premier. Non mi ci vedo da solo, ma so quanta forza abbiamo nel Paese».
Sergio Cofferati (come Vincenzo Vita) si è schierato da subito con il comitato referendario, il che complica ancora le cose. Lo fa capire lui stesso, con una nota in cui risponde a Enrico Letta e Francesco Boccia, che invitano chi sostiene i quesiti a votare per Vendola alle primarie. L'ex sindaco di Bologna, già leader della Cigl, si dice sorpreso e conferma la sua lealtà al segretario del Pd: «Non capisco il loro ragionamento, ma ho provato ugualmente un forte brivido pensando a Bersani. Voglio confermare a Pier Luigi che, nonostante l'istigazione di Boccia e Letta, per quel poco che vale il mio volo non gli mancherà di certo».
Il nodo è politico e programmatico e mette a nudo le contraddizioni sulle linea aperte dalle primarie. Con Bersani o con Renzi? Con Monti o contro? Per Rosy Bindi un Bersani «troppo rosso» rischia di spostare il baricentro del Pd verso una «superata impostazione socialdemocratica» ed è per questo che la presidente del partito sta riflettendo se presentarsi alle primarie: «Dio non voglia... La candidatura è una subordinata». Mentre Bindi rimugina, Renzi domani apre la sua campagna in camper da Verona. Lo slogan? «Adesso», lo stesso che scelse Franceschini quando sfidò Bersani nel 2010. «Se vuole gli regalo i gadget che ho in garage», lo provoca la franceschiniana Pina Picierno. Ma Renzi tira dritto, incassa l'endorsement del sindaco di Vicenza, Achille Variati, e smentisce accordi con Montezemolo in caso di sconfitta: «Non sono pronto a tutto pur di occupare una seggiola. Io, quelli che quando perdono portano via il pallone, non li sopporto». E se dovesse perdere, cosa farà? «Il sindaco, a Firenze».

l’Unità 12.9.12
La crisi incalza, i referendum non ci aiutano
di Guglielmo Epifani


La situazione produttiva del Paese tende al peggio e tutte le previsioni confermano quello che sapevamo da tempo. Una caduta del Pil tra i due e i tre punti a consuntivo dell’anno in corso porta a quasi dieci punti il passo indietro del Paese in questi quattro anni di crisi.
Il risultato, drammatico, è che il lavoro e l’occupazione sono la prima e fondamentale questione aperta di fronte a noi. Si tocca qui con mano l’irresponsabilità con cui il governo di centrodestra ha lasciato andare le cose, negando e minimizzando la portata della crisi in corso, ma anche il limite di fondo della politica che il governo Monti, stretto tra la crisi degli spread e la necessità di recuperare innanzitutto la credibilità del Paese nel consesso europeo e internazionale.
La vertenza dell’Alcoa è l’ennesima tappa di un calvario che è destinato a proseguire, anche quando chiusure e disoccupazione non faranno notizia perché relative a piccole e piccolissime aziende o di settori diversi da quello industriale. E oltre alla responsabilità di anni e anni senza uno straccio di politica industriale e di comportamenti imprenditoriali troppo disinvolti nel giocare col destino delle loro aziende e con l’occupazione dei propri lavoratori il presente e l’immediato futuro tornano e torneranno a chiedere una diversa priorità nelle scelte di politica economica e un necessario riequilibrio tra i vincoli del rigore (che non potranno essere allentati) e quelli della crescita, troppo trascurati in attesa che una riorganizzazione dell’offerta trovi nel tempo una qualche domanda di beni, prodotti e servizi.
Crescita, lavoro, occupazione devono costituire il centro della stagione che si apre e che ci porterà ai programmi elettorali e poi alle elezioni. Non ci potrà essere agenda politica vecchia e nuova che potrà prescindere da quello che appare peraltro il tema più difficile e impegnativo, ancor più delle questioni di bilancio. Come affrontare un persistente calo dei consumi, dei redditi e della domanda, come usare la leva pubblica per i processi di innovazione e sostegno alla produzione, come difendere non in chiave assistenziale settori strategici nella competizione internazionale, come non abbandonare la domanda di credito e di semplificazione da parte delle piccole imprese, e come arrestare la progressiva dequalificazione del lavoro, e dei suoi diritti, compresi quelli delle tutele in una crisi che non dà segno di finire: sono questi i temi da cui nessuno può oggi fuggire.
Proprio per questo la scelta di aprire un fronte referendario da parte di alcune forze politiche e personalità attente ai problemi del lavoro, in questo tempo e in questa condizione, non convince ed è troppo al di sotto del profilo di cambiamento che bisogna tenere. La critica muove da diversi fattori e si può riassumere in tre domande. La prima: se mentre si prepara la fase che porta alle elezioni e al possibile e auspicabile cambio del quadro politico, con le conseguenze che può avere sulle norme o su una parte di esse oggetto dei referendum, che segno dà alla prospettiva del cambiamento una strada referendaria che divide sia per i temi che affronta che per quelli che non tocca (ad esempio tutto il tema della precarietà) e che sarà sottoposta al voto nel 2014, oltre un anno dopo lo svolgimento delle elezioni? Un segno di fiducia o di sfiducia?
In secondo luogo, dove si può cambiare, se non in Parlamento, quella parte della legge del lavoro che, come anche le imprese lamentano, mostra già ora di non reggere la prova dei processi reali dagli ammortizzatori ai lavori stagionali, alla precarietà, come dire il cuore dei problemi delle persone? E a quel punto, come possono essere giustificati i due binari che procedono parallelamente e quali problemi potranno porre a chi vuole cambiare?
Infine: la storia dei referendum sul lavoro dovrebbe suggerire prudenza, misura, attenzione. Nel passato abbiamo avuto referendum che si pensava di vincere e che invece sono stati persi, per di più con il voto operaio. Altri referendum ci hanno consegnato un risultato che ancora oggi ci impedisce di formare rappresentanze democratiche solo in ragione del fatto che non si è firmatari di contratti nazionali. In un’altra occasione si è fatta testimonianza dignitosa di coerenza ma il quorum non è stato raggiunto. Questa è la storia e questi sono i fatti. Naturalmente i lavoratori e i cittadini che firmeranno andranno capiti e rispettati nel nome di un istituto e una scelta assolutamente democratici. Ma chi li ha promossi, al di là delle intenzioni, non aiuta certo né le ragioni dell’unità sociale tra lavoratori, giovani, precari e pensionati, né la speranza e il bisogno del cambiamento.

il Fatto 12.9.12
Articolo 18, il referendum inguaia il Pd
Presentati i quesiti contro le riforme di Fornero e Sacconi
di Salvatore Cannavò


La notizia di giornata sarebbe la presentazione dei quesiti referendari per l'abrograzione dell'articolo 8 della legge 148 voluta dall'ex ministro Maurizio Sacconi e, soprattutto, delle parti più scabrose della legge Fornero che modificano l'articolo 18 sui licenziamenti. Ma la notizia potrebbe anche essere la scelta del Pd di bollare un'iniziativa in difesa dei diritti del lavoro come sbagliata, inopportuna e da contrastare. Una linea che rafforza l’ipotesi di un’alternativa a sinistra del Pd.
I PROMOTORI del referendum, di fronte all'austero palazzo del Tribunale di Roma sede della Cassazione, sorridono contenti. Dopo settimane di lavorìo sottotraccia sono riusciti a compattarsi anche se al momento della foto di rito nasce qualche problema. Molti di loro si conoscono da tempo, erano insieme in Rifondazione comunista: Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto. Poi c'è Antonio Di Pietro, Idv, il soggetto principale dello schieramento soprattutto per la determinazione con cui ha promosso l'iniziativa. C'è anche Francesca Redavid della Fiom – Maurizio Landini, come segretario non può partecipare a norma dello statuto Cgil – giuristi come Piergiorgio Alleva e Umberto Romagnoli, Alberto Lucarelli della lista Alba, nonché assessore napoletano con Luigi De Magistris. C'è anche Angelo Bonelli, dei Verdi, con cui Vendola, però, non vuole farsi fotografare per via delle dure polemiche tarantine che li hanno visti contrapposti sull'Ilva a Taranto. Forse c'è anche il dubbio che, dopo la non fortunata foto di Vasto, Vendola non voglia allestire altri album fotografici destinati prima o poi a svanire. Alla fine, però, i flash dei fotografi scattano.
L'iniziativa di ieri che darà vita alla raccolta delle firme a partire dal 12 ottobre – ci saranno poi tre mesi per raggiungere il quorum delle 500mila sottoscrizioni – punta a rimettere al centro la questione del lavoro e dei suoi diritti in chiaro contrasto con quanto realizzato dal ministro Elsa Fornero. Lo scontro con il Pd, quindi, è scontato, visto che il partito di Bersani ha votato la riforma del lavoro. Qualche voce in controtendenza però c’è. La più importante è quella di Sergio Cofferati, deputato europeo del Pd che, da segretario della Cgil, sull'articolo 18 seppe fare da argine nel 2002. Ieri ha inviato la sua convinta adesione “per riproporre una discussione sui temi del valore sociale del lavoro e dell'importanza vitale dei diritti delle persone”. Quella di Cofferati è certamente un'adesione simbolica, le sue forze nel Pd non sono certo organizzate, ma rischia di creare più di un imbarazzo a Bersani.
SUL PIANO politico l'iniziativa è un primo successo incassato da Di Pietro che, in questo modo, rompe l'accusa di isolamento e si rimette in pista a partire, come dice il leader Idv, dalle “cose concrete e a viso aperto” non nei giochi “di sottoscala o nelle segreterie di partito”. “Questo è il vero centrosinistra – aggiunge Di Pietro - cementato dai fatti concreti e non solo da parole vuote. Il Pd invece ancora non si è deciso a dire che cosa vuole fare e da che parte sta”.
Per Ferrero e Diliberto, naturalmente, l'iniziativa è una boccata d'aria che toglie la loro Federazione della sinistra dall'angolo e li immette dentro un'iniziativa squisitamente sociale. Ma anche Vendola, al momento, si ritrova in una posizione confortevole, nonostante le critiche dal Pd, che permette al suo partito di rimanere ancorato ai contenuti del mondo del lavoro e di discutere con il Pd da una posizione di maggiore identità e di maggior forza. Le varie “fatwa” che giungono dai Democratici dimostrano che il confronto non sarà cosa facile. Il presidente Rosy Bindi dice che il referendum, “è un errore” e poi lamenta che nelle primarie del Pd c’è “troppo rosso”, mentre il responsabile Lavoro del partito Stefano Fassina dice sì nel merito, ma non condivide lo strumento referendum.
ANCHE LA FIOM trova nell'iniziativa una naturale prosecuzione della sua opposizione alla riforma Fornero. Anche se andrà scontato il dissenso con la Cgil. Nel direttivo svoltosi l'altro ieri Susanna Camusso ha preso le distanze dalla battaglia referendaria chiedendo espressamente a Landini di non far parte del comitato promotore. E oggi, sull'Unità, ci sarà un articolo dell'ex segretario Guglielmo Epifani che prende le distanze dall'iniziativa ricordando, tra l'altro, gli insuccessi del passato: nel 1985 sulla scala mobile o nel 2003 ancora sull'articolo 18. Senza contare che il referendum del 1995 sull'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori alla fine ha favorito la Fiat. La Fiom però si impegnerà nella raccolta delle firme e si dice convinta, con i suoi dirigenti, “che alla fine, quando si voterà, la Cgil non potrà che dare indicazione per il sì”.

Repubblica 12.9.12
Referendum, scontro tra Pd e Vendola “Così si mette a rischio l’alleanza”
Sel con Di Pietro sull’articolo 18. Bersani: il problema è creare lavoro
di Giovanna Casadio


ROMA — Alle 10,30, puntuali ma alla spicciolata, i leader della sinistra operaista più Di Pietro, i sindacalisti di Fiom e Cgil arrivano in Cassazione per cancellare la riforma Fornero. Depositano due referendum: uno per ripristinare l’articolo 18 com’era prima che il governo Monti lo cambiasse; l’altro per abrogare un pezzo delle politiche di Berlusconi sulla contrattazione collettiva. Il giorno dopo la rabbia degli operai dell’Alcoa e gli scontri di piazza, ecco insieme davanti al Palazzaccio, Vendola, Di Pietro, Bonelli dei Verdi, Ferrero e Diliberto (Rifondazione e Pdci), Rinaldini della Fiom e Patta della Cgil, accompagnati dai giuristi Alleva e Romagnoli. Contenti di annunciare la raccolta di firme, che partirà il 12 ottobre.
Per il Pd è una tegola tra capo e collo. Lo strappo di Vendola - il leader “rosso” che solo il primo agosto aveva siglato con Bersani il patto per governare sulla base di una “carta degli intenti” (che non prevede l’abrogazione della riforma Fornero) - rischia di mandare
a gambe all’aria l’alleanza prima che nasca. Infiamma - se già non bastasse la sfida con Renzi per le primarie - il clima tra i Democratici. Il partito è diviso tra i montiani e i “gauchisti”: Cofferati, che in difesa dell’articolo 18 portò in piazza 3 milioni di persone quand’era segretario della Cgil nel 2002, aderisce ai referendum. Così Vincenzo Vita. Su facebook, su Twitter si mobilitano i sostenitori dell’Agenda Monti (Ceccanti, Gentiloni, Follini): «È un’azione scriteriata che mina la coalizione». Il partito è in fibrillazione. Non ci sta Enrico Letta, il vice segretario, a subire gli anti-montiani. Bersani sdrammatizza e parla di scelta elettorale di Sel, ricordando che nell’anno delle elezioni non si celebrano referendum, quindi si vedrà. «La nostra non è una posizione antitetica con chi propone il referendum - spiega in serata alla festa Pd a Padova - Abbiamo difeso sull’articolo 18 la posizione di chi non voleva monetizzare il posto di lavoro. Il problema è piuttosto creare lavoro». All’attacco invece va Rosy Bindi, la presidente del partito: «Penso che fare un referendum ora sull’articolo 18 sia un grave errore, io non lo firmerò».
Ma il lavoro è tema centrale, con gli oltre 150 tavoli di crisi aziendale aperti dal ministero dello Sviluppo economico, i 180 mila lavoratori coinvolti, la disoccupazione in crescita. La Fiom potrebbe farsi promotrice di una “lista per il lavoro”. Di Pietro ha accettato di ritirare la corsa solitaria sui referendum-lavoro (che aveva già presentato insieme ad altri due anti casta) per partecipare al “Comitato promotore” aperto.
Il leader Idv rilancia: «Stiamo costruendo un programma per i cittadini sui contenuti». Fa pressing sul Pd perché abbandoni del tutto le politiche del governo Monti (un governo di «asinoni e non di professori», se non riescono a risolvere i nodi Alcoa e Ilva).
Per Bersani il campo è minato. E il segretario democratico stoppa anche le pretese di Casini di una legge elettorale proporzionale da votare magari con il Pdl. «Se qualcuno vuole questo deve vedersela con noi, ci metteremo di traverso, perché la sera delle elezioni
il modo deve vedere che c’è qualcuno che può governare, altrimenti viene uno tsunami». Renzi, lo sfidante “rottamatore” alle primarie del Pd, scalda i motori del camper che parte domani
da Verona.

Repubblica 12.9.12
Vendola difende la sua scelta e spiega: spero che i quesiti siano superati dalle modifiche del nuovo Parlamento
“Io lotto per migliorare la società e il patto con Pier Luigi non è una resa”
di Alessandra Longo


ROMA — Nessun “disagio”, nessun “imbarazzo politico” nei confronti del principale alleato. Nichi Vendola sa benissimo che la compagnia dei referendari dà l’orticaria a molti colleghi del Pd ma tira dritto: «Sto costruendo un’alleanza, non sto praticando una resa». Il leader di Sel è anche fiducioso: «Il Pd non ha raccolto le firme nemmeno per il nucleare e l’acqua ma poi il corpo del partito è stato decisivo nella vittoria referendaria».
Vendola non le sembra una contraddizione appoggiare l’opzione referendaria e, contemporaneamente, praticare l’alleanza con il Pd che quella normativa ha contribuito, sia pur a denti stretti, ad approvare?
«Perché contraddizione? Penso che il centrosinistra si candidi alle elezioni per opporre alla società della paura la società della speranza, della dignità e civiltà del lavoro».
L’ex ministro Treu dice: referendum legittimo ma politicamente improponibile. Le modifiche all’articolo 18 sono in linea con l’Europa. A questo punto servirà un chiarimento con Sel.
«L’Europa di cui parla Treu è quella che si sta suicidando, quella che sta smantellando il welfare. Non si può uscire dal ‘900 per approdare ad un Ottocento in technicolor ».
Ma forse non è opportuno nemmeno andare in ordine sparso se si pensa di governare insieme.
«Non si può monetizzare i diritti, non si può, per un licenziamento senza giusta causa, sostituire il reintegro con l’indennizzo. La Fornero riporta indietro le lancette della storia all’epoca in cui il lavoro era merce povera e il lavoratore era solo. Questo è uno sfregio, una ferita che vanno sanati».
L’iniziativa del referendum non è gradita a tutti in casa Pd.
«Mi scusi, ma se un governo di centrosinistra non si pone come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita, il tema drammatico della precarietà dei giovani, la modifica dell’attuale modello previdenziale, che governo del cambiamento è? Che ci presentiamo a fare? Hollande, che è un riformista pacato, ha già proposto in Francia un altro modello di società».
Che senso ha fare un referendum che, comunque vada, arriverebbe dopo le elezioni? Nel 2013 ci sarà un nuovo Parlamento in grado di legiferare.
«Ovviamente io spero che il nostro referendum sia superato dalle modifiche che saranno introdotte dalla maggioranza di centrosinistra e spero anche che queste modifiche riusciranno a cambiare l’agenda di un’Europa che lavora contro l’Unione Europea. Mi batto per rilanciare il sogno di Spinelli, contro le ricette del club dell’austerity che ci hanno infilato nell’abisso della recessione».
Monti dice: le terapie d’urto aggravano la crisi ma poi arriva il secondo tempo, quello della ripresa.
«Rispetto Monti ma le sue sono diagnosi imprecise e generiche. La crisi sarebbe frutto di decenni di buonismo sociale... Monti non evoca le vere cause, lo strapotere della finanza, il trasferimento della ricchezza dal basso all’alto, la perdita del valore sociale del lavoro. Non si capisce perché mai debba sgorgare all’improvviso la ripresa, dopo aver strozzato il ceto medio e ridotto al minimo il welfare».
Torniamo al referendum. Lei sembrava un po’ a disagio nella foto ricordo con Di Pietro, Diliberto e Ferrero.
«Invece di concentrarci sul Palazzo, concentriamoci sulla vita vera, sulle persone. Non faccio tutto questo per una foto ricordo con i capipartito. Le mie foto sono con gli operai dell’Ilva e di Pomigliano».
Anche il Pd mette in testa al suo programma il lavoro.
«Appunto. Bersani ha messo sulla scena politica italiana un oggetto prezioso: il suo proposito di cambiare l’agenda politica italiana. Il referendum va nella stessa direzione».

Repubblica 12.9.12
Ira del leader per la foto del Palazzaccio “Se vinciamo, Nichi dovrà cambiare”
I democratici: ma il segretario si indebolisce. Dubbi di Casini
di Goffredo De Marchis


ROMA — La “foto del Palazzaccio” che mette insieme l’alleato Vendola con Ferrero, Diliberto, Bonelli, i Cobas e Di Pietro lo ha molto infastidito. «Se vinciamo, Nichi dovrà adeguarsi a un altro stile e a gestire le controversie nella maggioranza in maniera diversa», è stato il commento di Pier Luigi Bersani osservando l’immagine dei leader che ieri hanno presentato in Cassazione (il Palazzaccio) i quesiti contro la riforma del lavoro targata Fornero e votata dal Partito democratico. Davanti agli occhi del segretario si è materializzato l’incubo dell’Unione, dell’armata Brancaleone che non dà garanzie di affidabilità ai cittadini. E adesso nel Pd monta l’onda di una richiesta chiara al leader: fare chiarezza sull’alleanza con Sel. Considerando anche l’ipotesi di cancellarla. I veltroniani sono su questa linea: «Mi aspetto da Bersani almeno un congelamento dell’intesa con Vendola. Vista la compagnia, non escludo che nel gruppo dei promotori ci fosse qualche infiltrato delle Br o delle Farc», dice, senza scherzare, Stefano Ceccanti.
Bersani non la pensa così. È convinto che un «presidente di regione » sappia cosa significhi governare e che lo scarto di Vendola dipenda dalla corsa delle primarie «in cui siamo avversari», «dalla lotta per i voti che ha ingaggiato con Di Pietro ». Ma conosce anche il senso della parola credibilità. Nella sede del Pd vengono monitorati quotidianamente i segnali delle Cancellerie europee che chiedono garanzie per il dopo Monti e spesso individuano nell’attuale premier l’unico possibile successore di se stesso. Da tempo il segretario del Pd è impegnato a rassicurare ambasciate e circoli internazionali sulla sua capacità di governo. Nei suoi incontri gioca la carta dell’amicizia con François Hollande e, meno conosciuto, un filo diretto con il capo della Bundesbank Jens Weidmann, che quando era giovane consigliere di Angela Merkel fu spedito a Roma per studiare le lenzuolate del Bersani ministro dello Sviluppo economico e passò molto tempo con il futuro segretario del Pd.
Quella “foto”, adesso, rischia seriamente di rovinare il lavoro sviluppato sottotraccia per accreditare il profilo di un leader tranquillo, rigorista, affidabile. «Allearsi con Vendola che firma i referendum non vuol dire andare oltre l’agenda Monti, come ripete Bersani. Vuol dire tornare indietro, lasciare campo aperto ad altri partiti nell’elettorato moderato», avverte il sostenitore dei tecnici Paolo Gentiloni. Per non parlare di quanto sia oggi realizzabile una maggioranza da Nichi a Pier Ferdinando Casini di cui il Pd sia l’architrave. «Un pezzo della nostra coalizione, l’Udc, rischia di lasciarci a spasso», dice Ceccanti. E se il segretario «è più vicino a Vendola che al leader centrista», come ha detto alla festa democratica, allora il pericolo è molto concreto.
Casini è rimasto colpito dalla “foto” di ieri. «Non è possibile alcuna alleanza con quel carrozzone, con chi si candida a varare solo controriforme», ha ammonito il capo dell’Udc. Ieri si è sentito con Bersani, col quale ha instaurato un rapporto strettissimo. Gli ha segnalato i dubbi sulle mosse di Vendola e spiegato la strategia centrista sulla legge elettorale. «A maggior ragione, serve un proporzionale con il premio di maggioranza al primo partito. Conviene anche a te, ti liberi di compagnie scomode ». Casini sa bene che nel Partito democratico questa strada è minoritaria ma attraversa le correnti e può allargarsi. La sponsorizzano i filo Monti come Enrico Letta per non bruciare l’ipotesi del bis, la caldeggiano da sinistra i giovani turchi sicuri di ritrovarsi con Sel a Palazzo Chigi e la sostiene D’Alema che immagina un governo fatto dopo il voto non prima. Senza contare che molti sperano nella svolta proporzionale per sterilizzare le primarie: diventerebbero inutili e dannose. Così i rottamandi tirerebbero un sospiro di sollievo. La linea ufficiale è un’altra. Ma l’Udc non si ferma, tanto più dopo aver visto le immagini della Cassazione. «Possiamo votarla al Senato anche se alla Camera non passerà mai. Però sarà Bersani ad assumersi la responsabilità di salvare il Porcellum », spiegano i collaboratori di Casini.
Silvio Berlusconi, con un occhio guarda i tormenti di quell’alleanza che doveva mandarlo a casa definitivamente, con l’altro scruta i sondaggi. «Siamo bassi, ma cresciamo di poco ogni giorno. Perché? Dall’altra parte ci fanno regali enormi, discutendo e spaccandosi. Noi dobbiamo solo continuare a stare zitti». Lui compreso, s’intende. Questa è la strategia del Pdl, almeno fino a gennaio. Quando il Cavaliere tirerà le somme delle intenzioni di voto. E scioglierà la riserva sulla sua candidatura.

La Stampa 12.9.12
Un doppio intoppo incrina l’asse centro - sinistra
di Marcello Sorgi


E’ inutile nasconderlo: l’asse tra Casini e Bersani, che fino al giorno prima sembrava solido, ha subito un colpo dopo le conclusioni di domenica del convegno dei centristi a Chianciano. Il doppio annuncio dell’Udc, a favore di un Monti-bis dopo il voto e di una legge elettorale riformata a colpi di votazioni parlamentari, anche in mancanza di un accordo preventivo, ha molto raffreddato i rapporti tra i due partiti. Oltre al «no» di Bersani, la prospettiva di far proseguire Monti dopo le elezioni del 2013 almeno fino a quando la crisi non potrà dirsi veramente superata, ha trovato la netta opposizione del Pdl. I due maggiori partiti si preparano a una campagna elettorale bipolare e di dura contrapposizione, per mobilitare fino in fondo i rispettivi elettorati, in cui si annidano forti strati di opposizione al governo dei tecnici e alla formula della larga coalizione. Di qui la loro parallela contrarietà alla proposta Casini, che tuttavia non si potrà escludere in caso di un risultato elettorale che non assegni una vittoria chiara ad uno degli schieramenti.
Ma è sulla legge elettorale che le conclusioni di Chianciano potrebbero riservare le maggiori sorprese. Berlusconi al suo rientro dal Kenya avrebbe intenzione di cercare di rimettere insieme la vecchia maggioranza di centrodestra sull’ipotesi di una riforma proporzionale, con le preferenze, che potrebbe risultare interessante anche per l’Udc. Bersani lo ha capito e già ieri ha messo le mani avanti, non per chiudere alla trattativa, ma per invocare una legge che «garantisca la governabilità». Il modello del Pd prevede un forte premio di maggioranza alla coalizione o al partito vincente (cosa che né Pdl, nè Lega e Udc vorrebbero concedere) e un meccanismo che consenta di conoscere le alleanze e i candidati alla guida del governo prima e non dopo il voto. E’ chiaro che se Berlusconi, Maroni e Casini vanno insieme in direzione di un sistema tedesco, più proporzionale e meno maggioritario, trovare un accordo per riformare il Porcellum sarebbe molto difficile. Per Bersani crescerebbe il rischio di isolamento e di rottura con il quasi alleato Casini. Il quale, a sua volta, difficilmente potrebbe schierarsi a fianco del Pdl che sta per rimettere in corsa Berlusconi. Così sarà da vedere, al di là degli spostamenti tattici degli ultimi giorni, fino a che punto ognuno dei giocatori in campo è disposto a forzare: una riforma elettorale approvata a dispetto di uno dei tre partiti dell’attuale larga maggioranza terremotorerebbe infatti il fragile equilibrio su cui si regge il governo.

Repubblica 12.9.12
Viaggio nel Pd sulla giostra delle primarie
Lo scontro generazionale nel Pd le quattro correnti dei giovani divisi dal sostegno a Renzi
“La base parla solo di rinnovamento”
di Concita de Gregorio


MILANO LA DISTANZA fra la politica delle parole e i fatti della vita Stefano Fassina l’ha misurata col centimetro sulla sua pelle nell’arco di tre giorni. Il giorno 8, sabato, era al tavolo dei relatori del magnifico auditorium Loris Malaguzzi di Reggio Emilia a spiegare ad una platea di trenta- quaratenni che Bersani farà meglio di Monti, platea del resto a priori convintissima, perché non si fanno riforme senza consenso e se c’è un posto dove il Pd deve stare è quello di chi lavora: Carbosulcis, Mirafiori, Almaviva. Avanti, a sinistra. Il giorno 10, lunedì, era appunto lì, tra i lavoratori dell’Alcoa in protesta, ed è lì che è stato contestato: una spinta, vattene, andatevene, non sappiamo che farcene delle vostre promesse, ci avete abbandonati, ora è tardi.

SE ORA sia davvero tardi, questo è il punto. Se sia troppo tardi per colmare il vuoto che separa le parole dei convegni e degli articoli di giornale dai fatti che, lontano dalle sale insonorizzate, colorano di rabbia, di stanchezza, di fragilità e infine di disperazione le reali vite delle persone alle quali il Partito democratico guarda come al suo elettorato ma che sempre meno, invece, da quel partito si sentono rappresentate. Un bacino enorme di delusi che ingrossano le fila del ribellismo politico, della disillusione incapace di distinguere.
Questa è la sfida. Questa la posta in gioco della campagna elettorale appena cominciata, le primarie del Pd in vista delle elezioni di primavera. Restituire credibilità alla politica, che in concreto significa: proporre come candidate a colmare quel vuoto persone credibili. Va sotto il nome di rinnovamento, questa sfida. Di niente altro ormai si parla nelle feste democratiche, nei circoli, nelle città e nei paesi percorsi in camper o in bicicletta dai candidati. Il rinnovamento, il ricambio.
Su Renzi, che del tema si è impadronito per tempo, raccontano a Ravenna questo aneddoto. Ravenna, Romagna, terra di Bersani. Alberto Pagani, segretario provinciale del Pd: «Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta con chi.
Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad, quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello di mia suocera, che fa l’imprenditore e che quando vuol sapere di politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E lui: ma sì, è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani faccia il segretario, Renzi il presidente del consiglio». È così, annuisce il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci, ex Pci, 55 anni: «Se chiedi ai quadri di partito è un conto, se parli con la nostra gente, anche coi vecchi, è un altro: in tanti pensano che sia venuta ora di rinnovare e io credo che in fondo in Renzi ci vedano i loro figli, i loro nipoti. Anche se non li convince fino in fondo ci vedono la generazione dei ragazzi che hanno a casa e pensano che possa dar loro una chance».
Certo che non può essere solo una questione di età: messa nei termini dello scontro generazionale «è stupida e stucchevole, sono d’accordo con Alfredo Reichlin», dice Alessandra Moretti, vicesindaco di Vicenza: «Noi non vogliamo uccidere i nostri padri. Abbiamo quarant’anni: noi “siamo” padri e madri». E tuttavia è in questi termini che la pongono tutti, ormai, a partire da Bersani: che sgombra il palco della festa di Reggio per salirci da solo, che invita i suoi trenta-quarantenni, la generazione T/Q, i giovani turchi, a farsi avanti. Tra gli autoconvocati di Reggio Emilia, al centro Malaguzzi, ci sono al completo gli uomini dello staff del segretario, uffici stampa passati e presenti, bracci destri e portavoce. C’è Aurelio Mancuso, ex Arcigay ora Equality: «Qui ci si prepara allo scontro, ci si mette in luce per una eventuale compagine di governo, ci si segnala. Troverà anche molti della corrente ex Marino, perché sui temi dei diritti civili queste sono le posizioni più a sinistra. Poi qualche ex franceschiniano, qualche lettiano. Il grosso però è formato dalla componente organica agli ex Ds: se Renzi le mette sullo scontro generazionale bisogna opporgli la stessa carta, no?». Organici, partitici, keynesiani in economia, vicinissimi alla Cgil, camussiani osservanti. Parlano uno dopo l’altro dal palco di “Rifare l’Italia” e tutti somigliano a qualcuno dei padri.
Fassina a Bersani, Alessandra Moretti ad Anna Finocchiaro, Andrea Orlando a Violante, Matteo Orfini a D’Alema persino nelle pause e nel tono di voce, nelle battute sarcastiche, nella qualità del silenzio di chi ascolta. Nessuno somiglia a Veltroni «perché il vero erede di Veltroni è Renzi», sorride una giovane volontaria della Festa venuta qui, dice, solo a «dare un’occhiata: difatti Renzi in questa platea è il nemico».
Con Renzi, che si prepara a partire da Verona vento in poppa, si sono schierati finora tutti quelli che hanno molto da guadagnare e poco da perdere. Giovani dirigenti e amministratori come Matteo Richetti, Davide Faraone, Roberto Reggi. Nessun dirigente
con una posizione consolidata, nessuno che abbia messo a rischio una rendita nè una promessa. Le grandi manovre si sono chiuse un paio di mesi fa, quando il gruppo che un tempo si chiamava dei “piombini” — Civati, Serracchiani, Scalfarotto, lo stesso Renzi — ha provato a puntare su Debora Serracchiani. L’ipotesi era più che concreta, dicono: Renzi diceva «dobbiamo vincere, se Debora ha più possibilità di me rinuncio, ma dev’essere una cosa ben fatta e sicura». Non è stata ben fatta né sicura, evidentemente. Serracchiani oggi corre per la presidenza del Friuli Venezia Giulia e sulle primarie si dice perplessa.
Parla dal palco della festa di Reggio seduta accanto a Martina, Sandro Gozi, Nico Stumpo.
«Dico che rischiamo di essere quelli che mentre il palazzo crolla si fermano a scegliere le tendine del bagno», applausi tiepidi di una platea di età avanzata, bersaniana senza se e senza ma, incerta sul cognome di Gozi. «Non ho capito bene come si chiama? Cozzi?”, domanda un vecchio volontario.
Di martedì, ieri, Pippo Civati presentava a Milano con Stefano Boeri il libro di interviste a esponenti pd “Ma questa è la mia gente” di Ivan Scalfarotto, quarantenne vicepresidente del partito. «La questione del rinnovamento generazionale nasconde quella, più seria, della contendibilità del potere — dice Scalfarotto — questo è un partito in cui cambia il contentitore, anche il nome, ma mai il contenuto». Al contrario dei grandi partiti democratici dove il contenitore è sempre lo stesso, l’identità del partito più forte di quella di chi lo abita, e cambiano i protagonisti. «Il problema delle nuove generazioni è che sono fatte a loro volta di persone cooptate al potere. Non è colpa loro, funziona così: se non sei in quota a nessuno non entri in Parlamento. Si sa da dove vieni, chi ti porta. La conseguenza è che per emanciparti devi personalizzare lo scontro, fare le tue piccole battaglie in diretta tv. Battute, battibecchi, e pazienza per la credibilità del partito che è di tutti. Quando la gente da casa vede scontrarsi Boccia e Orfini, un giovane lettiano e un giovane bersaniano, e sente che poi alle primarie sono sullo stesso fronte, contro Renzi: ecco, la gente cosa capisce? E il lavoro, i diritti, l’Europa, il futuro della conoscenza e il web: non è su questo che si dovrebbe piuttosto chiedere il ricambio in nome di una coesione generazionale?».
Nessuna coesione generazionale, in effetti. Pippo Civati conduce una nuova battaglia interna buona e giusta: sostiene i “6 quesiti referendari al Pd” su questioni come il reddito minimo, la riforma fiscale, il consumo del suolo, i matrimoni gay, l’ineleggibilità di chi ha carichi pendenti, le alleanze. Non proprio dettagli, come si vede, per quanto il ricorso allo strumento del referendum (pure previsto dallo statuto) segnala che da sole, le sei grandi questioni, non si muovono. Tendono anzi a ristagnare, ad essere continuamente accantonate come incomode. Di grandissima attualità quella sulle allean-
ze, di questi tempi. La quale, scrive Civati sul suo blog, porta con se l’eterno rovello del sistema elettorale. Che tanto si voleva cambiare ma sinora non si cambiò, «purtroppo ancora nulla si sa del nuovo sistema elettorale ma si teme che dal Porcellum si passi al Prosciuttum, si sente parlare di liste bloccate per quote significative». Un’aggiustatina, insomma. Sarebbe proprio un peccato che finisse così: persino tra i giovani bersaniani di Rifare l’Italia c’è chi — Piero Lacorazza, presidente della provincia di Potenza — si azzarda a dire che sarebbe davvero meglio rinunciare alle garanzie e lasciare la possibilità di far scegliere gli elettori.
I giovani di Letta si riuniscono a Dro, in Trentino e parlano — Alessia Mosca, Guglielmo Vaccaro, Francesco Boccia — di quote rosa, cervelli in fuga. Propongono leggi, elaborano piattaforme: sono l’ala liberal con forte venatura cattolica, sulla carta potrebbero dialogare con Renzi ma si segnalano fedeli alla linea Bersani, invece. La fassiniana Francesca Puglisi lavora con Marco Rossi Doria, sostenitore di Ignazio Marino ora al Governo, al futuro della scuola. Ciascuno porta un pezzo e sarebbe anche interessante provare a tessere una tela comune ma è tempo di serrare le fila, ormai. Chi sta con Renzi e chi sta contro, questo ora è il punto. “Adesso”, come dice perentorio lo slogan del sindaco. I sondaggi fanno paura, sottovoce si parla di altri candidati possibili. Una donna, magari. Un terzo incomodo che riapra i giochi. Chissà. Molti volevano Barca, ma Barca fa il ministro e non può. «Ragazzi, io Grillo non lo voto ma se non tirate fuori uno diverso da Renzi guardate che ci tocca votare lui», si alza dal pubblico della libreria di Milano una signora di mezza età. Applausi, sguardi di smarrimento, sorrisi. La signora, del resto, ha detto: ragazzi.
(1 — continua)

Corriere 12.9.12
«Se Renzi vince le primarie non lo votiamo»
La paura della dissidente: «I suoi sono organizzati e cattivi: è capace di fare il colpo». E il vecchio militante ex Pci lo chiama «il bugia»
A Firenze tra i (giovani) dirigenti del partito che vorrebbero rottamare il sindaco
di Marco Imarisio

qui

l’Unità 12.9.12
Bindi: così si torna a Ds e Margherita
di Maria Zegarelli


Troppe sfumature di rosso. È questo il problema secondo la presidente del Pd Rosy Bindi. E non si tratta di citazioni editoriali, niente affatto. Bisogna andare indietro, al simbolico comunista, pidiessino e diessino. Chi ci ha parlato a lungo racconta che la preoccupazione della presidente nasce da qui, dal fatto che vede prendere forma una «spaccatura verticale» che si sta creando dentro il partito, un vertiginoso ritorno indietro ai tempi di Ds e Margherita, appunto, dove il bianco si sta tratteggiando tutto di là, dalle parti di Matteo Renzi. «Molti esponenti, soprattutto con incarichi amministrativi che hanno una storia diversa da quella del Pci-Pds-Ds, si stanno schierando con Renzi non perché siano convinti dalla sua proposta, anzi alcuni di loro sono antropologicamente opposti a lui e alle sue problematiche, ma perché interpretano tutto questo come una sorta di bilanciamento e rottura. Tutto questo dice Bindi parlando a Omnibus, su La7 sposta il segretario del Pd come candidato alle primarie verso posizioni più progressiste». Secondo la presidente del Pd, che non avrebbe voluto un cambio delle regole per permettere altre candidature interne, «non è detto quindi che questa competizione faccia benealPd,losaràseilPdchevaagovernare è quello che mantiene la sua ambizione di una nuova sintesi tra i riformismi italiani, altrimenti se c'è il rischio di rientrare dentro una superata impostazione socialdemocratica progressista, vinceremo ugualmente le elezioni, ma non è detto che saremo capaci di tenere insieme una coalizione così ampia o che saremo capaci di portare in Europa e in Italia quella sintesi che fino ad ora non c'è stata». E nasce da qui, raccontano i suoi più fidati supporter, l’intenzione di candidarsi alle primarie se dal segretario non arrivano segnali concreti prima del 22 settembre quando Bindi darà il via alla sua tradizionale due giorni di studio e riflessione politica a Milano Marittima. Non «è un fatto cromatico né un fatto di dettagli dicema io penso che un po’ di più di tricolore e di variazione cromatica renderebbe meglio l'idea che questa battaglia la stiamo facendo come Pd. Temo invece che ci sia un rafforzamento di quell'identità dell'originario partito della sinistra italiana Pc-Pds-Ds». Aggiunge anche che vuole «rafforzare le motivazioni per le quali sostenere Bersani candidato premier» e per ora preferisce ragionare sulla «principale», lasciando le subordinate, che «potrebbero essere tantissime» come estrema ratio. Perché «prima di arrivare, Dio non voglia, a una candidatura della Bindi, e lo dico con convinzione perché non è questa la mia aspirazione, possono esserci tanti altri percorsi e strade». Altro problema: i giovani turchi. «Credo che il ricambio generazionale ci voglia in questo Paese, ragiona ma io non mi accontento del rispetto come Bersani, perché il rispetto si dà all’anziano che va in casa di riposo». Debole, in sostanza, la difesa che, secondo Bindi, Bersani avrebbe fatto della classe dirigente che sia Renzi, sia i giovani turchi, vogliono rottamare. Si aspettava di più dal discorso del segretario a Reggio Emilia. Soprattutto lei che alle primarie del 2009 è stata tra le prime a schierarsi in sostegno di Bersani.

Repubblica 12.9.12
l’Unità 12.9.12
Ma nel partito senza confini sono tutti stranieri
di Francesco Cundari


FRANCESCO RUTELLI ASSICURA DI NON AVERE CAMBIATO IDEA, PERCHÉ IL PD HA SCELTO LA STRADA «SOCIALDEMOCRATICA», motivo della sua uscita dal partito. «All’ordine del giorno» ci sarebbe però «un’alleanza con il Pd imperniata sulla candidatura di Bruno Tabacci alle primarie».
In altre parole, dopo essere uscito dal Pd per fondare l’Api giusto all’indomani delle ultime primarie che hanno eletto Pier Luigi Bersani segretario, Rutelli annuncia un’alleanza col Pd sulla base della candidatura alle primarie del centrosinistra di un esponente dell’Api: partito che fino a ieri al centrosinistra nemmeno apparteneva, perché apparteneva al Terzo Polo, con l’Udc di Pier Ferdinando Casini e i futuristi di Gianfranco Fini. L’auto-alleanza attraverso le primarie annunciata da Rutelli è solo l’ultimo di una serie di effetti collaterali generati non tanto dalle primarie come tali, quanto dall’idea, lungamente coltivata e mai rinnegata, che il Partito democratico e in qualche misura l’intero centrosinistra potesse essere «fondato» sulle primarie. E cioè su un meccanismo di competizione interna per la leadership a tutti i livelli (con le primarie si è arrivati a eleggere persino i direttivi delle sezioni, con gli esiti che è facile immaginare). Il risultato finale è un partito (e un centrosinistra) che somiglia sempre di più a un campo di battaglia permanente, in cui le ragioni della sfida interna prevalgono quasi sempre su ogni minimo sentimento di solidarietà, appartenenza, comunità.
In questione è il rispetto di sé che un’organizzazione dimostra di avere, condizione minima per poter aspirare al rispetto degli altri, prima ancora che al loro voto. Una condizione che appare drammaticamente assente quando, al primo lancio di agenzia che dà la scarna notizia dell’aggressione a un dirigente nazionale del proprio partito durante una manifestazione, l’irresistibile impulso di un dirigente locale è di correre su Twitter a dichiarare pubblicamente che ben gli sta. O quando i continui attacchi di un candidato ai vertici del proprio partito vengano censurati da autorevoli dirigenti e parlamentari solo nel momento in cui sfiorano l’esponente cui sono personalmente più legati. Perché è proprio la strutturazione verticale indotta dalle primarie in nome dell’apertura alla società civile ad aver prodotto di fatto il massimo del correntismo. Lanciate in nome del partito senza correnti, le primarie hanno lasciato sul campo le correnti senza il partito. Non è solo una questione organizzativa. Basta vedere come si esprimono, ormai da anni, buona parte dei giovani dirigenti più in vista, di tutte le correnti e di tutti gli orientamenti. Leggere cosa dicono sui loro profili facebook o twitter, sui loro blog, nei loro interventi a talk show, convegni e assemblee. È sempre più difficile trovarne uno che si sogni non diciamo di difendere, ma nemmeno di rispondere per il partito di cui fa parte, che dirige, nelle cui liste viene eletto al Comune, in Regione, al Parlamento. Sempre più spesso l’argomento prevalente della loro produzione pubblicistica e telematica è l’inadeguatezza del loro partito e di chi lo guida. All’esterno, con buona pace delle molte eccezioni che pure ci sono, l’effetto non somiglia a una fisiologica dialettica democratica, ma a un chiacchiericcio costante, ai limiti del pettegolezzo. Anche dove la critica ha per oggetto scelte politiche e non questioni personali, si avverte sempre una tendenza a generalizzare e radicalizzare il conflitto fino al limite della rottura.
L’impressione è che le primarie abbiano occupato tutti gli spazi del dibattito interno, surrogandolo impropriamente. E producendo così una comunuità di persone che non ha altro modo di discutere e confrontarsi che non sia lo scontro frontale per la leadership. E questa è una responsabilità che non può essere attribuita né a Matteo Renzi né a nessun altro dei giovani e meno giovani protagonisti di questa fase convulsa e movimentata, ma a tutto intero quel gruppo dirigente che in questi anni ha voluto (o lasciato) che così si organizzasse la vita democratica interna al principale partito del centrosinistra. Un partito senza confini in cui tutti possono uscire sbattendo la porta e rientrare da candidati alla leadership, restare a inveire contro i vertici o candidarsi direttamente da un altro partito e persino da un’altra coalizione. Un partito senza confini, in cui di conseguenza, e necessariamente, sono tutti stranieri.

Repubblica 12.9.12
La replica del leader Api: non è in questione un rientro nel partito ma una coalizione. L’ironia su Twitter
Ed è gelo sul ritorno di Rutelli “Faccia una pausa di riflessione”
di A. Cuz.


ROMA — Non è proprio un bentornato, quello che accoglie Francesco Rutelli. Dopo l’intervista a Repubblica in cui il leader Api annuncia il suo riavvicinamento al Pd, nei corridoi di Montecitorio - anche tra i dirigenti democratici - il commento più diffuso è un sonoro: «Mah». Qualcuno si chiede se sia una boutade, qualcun altro fa notare come non si possa dire che il Terzo polo sarà il primo polo, per poi tornare a casa e chiedere un seggio al Pd. I dubbi, li svela tutti la presidente dei senatori Anna Finocchiaro a Porta a Porta: «Prima di fare scelte di ritorno, come avviene in quelle storie d’amore complicate e sofferte, gli consiglierei una pausa di riflessione». Il leader Api risponde a stretto giro. «Voglio bene ad Anna Finocchiaro e immagino che abbia risposto a una domanda mal posta, poiché non è in questione un mio rientro nel Pd, ma la possibilità di una coalizione di centrosinistra da presentare alle elezioni». La differenza tra alleanza o rientro è una sottigliezza che il popolo democratico non coglie. Il punto è sostanziale: si può andar via in polemica e poi tornare senza neanche saltare un giro?
Matteo Orfini, responsabile cultura del partito, risponde di no: «La politica è una cosa seria. E anche i partiti, almeno quelli veri. Non si cancellano anni di scelte con un’intervista». Anna Paola Concia dice a Pubblico, l’edizione online del nascente giornale di Luca Telese, che Rutelli dovrebbe lasciare il posto a un giovane. E Pasquale Laurito, storico estensore della parlamentare “Velina rossa”, chiede: «Il senatore Rutelli crede proprio che il Pd sia diventato una porta girevole dalla quale si esce e si entra? ». E aggiunge: «La storia del Pd è completamente estranea alla personalità politica dell’onorevole Tabacci. Rutelli non lo strumentalizzi ». La polemica, ovviamente, infuria anche su Twitter. Con commenti del tipo: «Rutelli ma ‘ndo vai? ». Oppure, «Il trasloco sarà facile, può portare tutti in scooter». Anche Ivan Scalfarotto twitta un no grazie. E spiega: «L’Api non ha un gran seguito elettorale. Un buon motivo per lui per voler tornare, e per noi per declinare la lusinghiera offerta».(a.cuz.)

La Stampa 12.9.12
Democratici assediati sulla legge elettorale
Tentativi d’intesa trasversale su proporzionale e preferenze
di Ugo Magri


ROMA Nella speranza di spaventare Bersani, e di fargli trangugiare una riforma elettorale per effetto della quale lui vincerebbe solo a metà, tutti gli altri stanno facendo finta di mettersi d’accordo tra di loro. D’accordo su cosa? Su qualche trappola che, per ritorsione, possa fare molto danno al Pd. Ad esempio, un ritorno alle preferenze, che tempo un paio d’anni trasformerebbe i democratici in un partito di spifferi e di correnti, una «vera jattura» secondo Ceccanti. Oppure un bel sistema alla tedesca, che obbligherebbe il futuro premier a mediare senza un attimo di tregua... Nei giorni scorsi c’erano stati contatti, erano circolate voci di patti segreti per tirare lo sgambetto a Bersani quando la legge arriverà in Aula, prima al Senato e poi alla Camera. Lì potrebbero formarsi maggioranze trasversali, dall’Udc alla Lega di Maroni (che manda segnali) passando per il Pdl e, forse, per lo stesso Di Pietro. In pentola qualcosa sta bollendo.
Ma Bersani resiste. A ragione o a torto, lui calcola che questa «santa alleanza» non sarebbe una cosa seria, sulla carta avrebbe i numeri per imporsi però al dunque si sfalderà. Gli sembra tutt’al più un gioco di specchi, un rincorrersi di fantasmi. Come nei vecchi western, possiamo immaginare la carovana di Bersani accerchiata da pellerossa ululanti, ma lui fermo sulle sue posizioni. «E’ fondamentale», dichiara, «che la sera delle elezioni il mondo veda che in Italia qualcuno può governare». Il segretario Pd accetterebbe solo una riforma dove chi vince si prende l’intero piatto, senza doverlo spartire. Quindi «premio» alla coalizione vittoriosa, diciamo un 15 per cento di seggi come «bonus». Gli altri non ci stanno? Pazienza, sarà colpa loro se tra qualche mese torneremo a votare con l’obbrobrio del «Porcellum», che tra parentesi conferisce un premio di maggioranza ancora più generoso. In base ai sondaggi, Pd più Sel sarebbero in grado di governare da soli senza doversi nemmeno appoggiare a Di Pietro o a Casini...
Inutile aggiungere che Tonino e (soprattutto) Pier Ferdinando non la vedono allo stesso modo. Su questo i centristi si trovano a pensarla esattamente come il centrodestra e la Lega, a loro volta atterriti dalla prospettiva di restare 5 lunghi anni fuori della porta. Però Casini non vuole nemmeno incrinare i rapporti con Bersani, tra loro c’è buona amicizia, dunque alla resa dei conti in Aula preferirebbe non si arrivasse mai, «noi cerchiamo di unire non di dividere» tende la mano conciliante. Se dichiara guerra al segretario Pd, poi gli tocca andare fino in fondo e ritrovarsi magari anche lui un domani all’opposizione. Per cui il «patto proporzionale» è nell’aria, però ancora non nasce. Aleggia. Carlo Vizzini, presidente della Commissione affari costituzionali in Senato, è andato a indagare, e di siffatti progetti non ha trovato conferme sufficientemente autorevoli. Nè gli sembra che tra i maggiori partiti siano maturate nelle ultime ore delle intese per superare lo stallo.
E se per caso invece Bersani avesse sbagliato i suoi conti? Che accadrebbe qualora l’agguato in Aula scattasse davvero? Nel Pd c’è chi, come Anna Finocchiaro, sostiene a spada tratta la linea del segretario, che poi trova concorde l’ala prodiana e ultra-maggioritaria. Ma ci sono pure quanti nutrono dubbi. Per esempio, si dice, il vasto fronte ostile potrebbe convergere su un mini-premio del 5 per cento, magari grazie a un semplice emendamento, e così di fatto saremmo tornati al proporzionale... Guai a fidarsi. Di certo i giochi non sono fatti. Con onestà Bondi lo riconosce, a costo di dar ragione a Grillo: «Ogni partito persegue i propri interessi particolari, al di fuori di ogni logica che non sia di pura conquista del potere».

l’Unità 12.9.12
L’analisi
Ricostruire dopo la crisi? Sì, dalla cultura politica
di Luca Baccelli

Docente di filosofia del diritto, Università di Camerino e Firenze

DOPO IL TORMENTONE ESTIVO SULLE ALLEANZE, AL DI LÀ DELLE ASPIRAZIONE GENERAZIONALI E DEI PROTAGONISMI, SI TRATTA DI SCEGLIERE: si vuole proseguire una politica recessiva, con tutte le conseguenze che comporta in termini sociali o, oltre il rigore, «metterci dentro più lavoro, più uguaglianza, più diritti», per dirla con Bersani? Variabile dipendente: la politica, cioè la democrazia, cioè i cittadini, devono continuare a cedere spazi di potere e ambiti di decisione all’economia e alla finanza o tentare di proporre, in Italia e in Europa, un progetto di governo e di cambiamento?
I grandi gruppi finanziari (e i grandi gruppi editoriali) la scelta sembrano averla fatta: Berlusconi era impresentabile e dannoso ma ciò che viene presentato come «l’agenda Monti» va eternato. Pazienza se le disuguaglianze continuano ad aumentare, se una generazione di giovani andrà perduta, se il conflitto sociale esploderà, se i consumi continueranno ad essere depressi. Verrebbe da chiedersi quanto nell’atteggiamento della grande borghesia italiana ci sia di calcolo razionale, e quanto l’ideologia liberista-monetarista renda incapaci di vedere il rischio di avvitarsi nella recessione. Ma forse è più interessante interrogarsi sull’alternativa che può essere proposta.
E qui c’è un problema. La cultura democratica, progressista e riformatrice, dopo la sconfitta del compromesso keynesiano e l’affermazione egemonica del «pensiero unico» è come se fosse stata investita da un diluvio. In questi anni le narrazioni hanno a volte preso il posto delle analisi, eludendo le questioni più spinose: quali sono i soggetti della trasformazione? Quali interessi sono in campo, quali rapporti di forza si dispiegano? La parola d’ordine della ricostruzione, che ricorre nel messaggio politico del Pd, andrebbe estesa alla cultura politica. A cominciare dall’economia: il main stream liberista-monetarista che ha dominato in questi anni lascia un deficit, forse più pericoloso di quello dei bilanci statali, di pensiero economico critico e innovatore. Ovviamente c’è l’eredità keynesiana, ma occorre ricordare che è stata elaborata in un altro mondo, il mondo della sovranità statale, dello sfruttamento impunito dei paesi poveri, dell’ignoranza per i rischi ecologici. E apporti innovativi come quelli di Amartya Sen, che declinano in modo originale i rapporti fra etica ed economia, sono importantissimi. Ma anch’essi non bastano.
Forse occorre anche un po’ di autocritica. Fra gli anni 80 e 90 anche i partiti e i pensatori riformisti, da Blair e Giddens in giù, nella ricerca di una «terza via» hanno di fatto accettato gli assiomi della globalizzazione liberista. E la cultura riformista porta qualche responsabilità per la solitudine dei lavoratori, abbandonati alla colossale redistribuzione negativa di reddito e di potere a vantaggio dei profitti e delle rendite. Va ripresa la riflessione sul nesso fra accesso al lavoro, condizione lavorativa, diritti dei lavoratori, cittadinanza, esperienza esistenziale, al di là delle illusioni di qualche anno fa sul valore liberatorio della flessibilità e della «fine del lavoro». Soprattutto va preso sul serio, anche nell’elaborazione teorica, il carico di sofferenza che grava sulla generazione del precariato.
L’orizzonte è l’Europa, con le disavventure del suo processo costituzionale e la spada di Damocle degli imperativi monetaristi e mercatisti. Nella consapevolezza che il suo patrimonio costituzionale parte integrante dell’identità comune è a rischio. Le concrete politiche economiche dell’Ue mettono a repentaglio il modello sociale europeo e i testi normativi fondamentali attribuiscono rango costituzionale al principio della concorrenza, ma sono assai timidi sui diritti sociali. Non c’è dunque alternativa alla ripresa di un’iniziativa politica delle forze progressiste che colmi quel deficit democratico che si traduce in deficit sociale. Un’iniziativa che, a sua volta, ha bisogno di elaborazione teorica.
Sono solo alcuni esempi, che interrogano l’insieme delle forze progressiste del nostro continente. Per l’Italia e per il Pd forse c’è un problema in più. In passato il passaggio dal Pci al Pds ha coinciso con la massiccia importazione in Italia della filosofia politica normativa liberal. È probabile che il liberalismo progressista nordamericano fosse insufficiente già allora, e che mostri a maggior ragione i suoi limiti nel contesto della globalizzazione. Tuttavia c’è stato un tentativo di cercare dei riferimenti teorici che viceversa è sembrato mancare all’epoca della costituzione del Pd. Un po’ sbrigativamente, si è pensato che la collaborazione parlamentare e l’esperienza dell’Ulivo fossero sufficienti, e una certa idea di partito liquido si è affermata proprio quando si trattava di superare i passaggi più delicati. Far dialogare, anzi integrare, il personalismo cristiano, il liberalismo progressista, l’ecologismo con la tradizione socialista entro un pensiero democratico è stata, e rimane, una sfida affascinante. Occorre prenderla sul serio. Magari riconoscendo che se si pretende di includere anche l’ortodossia monetarista-liberista e il conservatorismo cattolico è un po’ arduo vincerla.

l’Unità 12.9.12
Il loro naufragio i nostri silenzi
La guerra agli scafisti non basta, dall’Europa soluzioni concrete
di Laura Boldrini

*portavoce Unhcr

Le morti in mare dei migranti sono una delle più gravi tragedie dei nostri tempi. E meritano una risposta ampia e articolata che coinvolga tutta l’Europa. Invece il dibattito politico su questi argomenti è sempre stato miope e di corto respiro.

LE MORTI IN MARE DI INTERE FAMIGLIE, DI GIOVANI E così come per chi vuole dare al proprio figlio un futuro migliore è come morire due volte.
Questi lutti non sono una questione di fatalità o un fatto ineluttabile. Si muore perché le imbarcazioni sono fatiscenti, perché i soccorsi tardano oppure perché ci sono persone che si girano dall’altra parte ignorando l’urlo di disperazione. Certo, un maggior coordinamento tra chi opera in mare servirebbe a ridurre i rischi. Ma, volendo allargare doverosamente la lente, si muore anche perché non si cercano soluzioni concrete per limitare il ripetersi di tali eventi. I governi non pongono questo tema tra quelli prioritari e di conseguenza viene a mancare quell’impegno necessario per mettere in campo misure alternative.
Il dibattito pubblico su questo tema è stato spesso miope e di corto respiro. Anni fa ci dissero che i respingimenti indiscriminati in alto mare messi in atto dall’Italia salvavano vite umane, omettendo di aggiungere cosa accadeva a quelle centinaia di persone riportate in Libia. Anche le ricette che circolano oggi continuano a focalizzarsi sulle misure di contrasto come unico antidoto ai naufragi, perdendo di vista il contesto globale in cui le migrazioni si sviluppano e le cause che sono alla base dello spostamento: guerre, violazioni dei diritti umani, insicurezza, mancanza di sviluppo, povertà.
Basta arrestare le bande criminali che organizzano il traffico dei migranti per evitare che migliaia di persone finiscano negli abissi? La risposta purtroppo è no, poiché non è questa la radice del problema. I trafficanti, che pure hanno enormi responsabilità e vanno perseguiti, esistono perché c’è una forte domanda di persone che spesso non hanno scelta. Se un migrante in cerca di lavoro potesse fare domanda per accedere a quote messe a disposizione dai vari paesi europei non giocherebbe alla roulette russa nel Mediterraneo. Se un rifugiato eritreo o somalo che arriva in Libia sapesse di poter essere trasferito in Italia, Francia o qualsiasi altro paese sicuro attraverso vie legali non si affiderebbe ai trafficanti indebitandosi e rischiando la vita. Aspetterebbe il suo turno.
E invece nonostante le sollecitazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati agli Stati membri dell’Unione europea, lo scorso anno sono stati principalmente Stati Uniti, Canada e Australia a dare la possibilità a 80mila rifugiati di essere trasferiti regolarmente sui loro territori attraverso il programma specifico di reinsediamento.
E non è vero che l’Europa è la destinazione ambita da tutti, come spesso si sente dire da politici e giornalisti inclini alla suggestione dell’invasione. Com’è noto molti migranti stanno lasciando il vecchio continente verso i nuovi mercati dei Paesi emergenti. Allo stesso tempo, per i rifugiati sono le cifre a parlare: oltre l’ottanta per cento di loro si sposta nei paesi confinanti, nel sud del mondo. Nel solo campo di Dadaab in Kenya vivono da oltre venti anni circa 500mila rifugiati somali. Nei ventisette paesi dell’Unione Europea lo scorso anno hanno fatto domanda d’asilo 277mila persone. E basta guardare a quanto sta accadendo in Siria per avere l’ennesima conferma: oltre 250mila siriani sono scappati in Turchia, Giordania, Libano e Iraq mentre nei primi sei mesi del 2012 nei paesi dell’Unione Europea sono stati settemila i siriani a inoltrare una domande d’asilo. Molti di loro avranno dovuto rischiare la vita su una carretta del mare.
Limitare le morti nel Mediterraneo dunque è una questione di ampia portata che merita una risposta articolata che vada ben oltre l’arresto dei presunti scafisti e i confini nazionali italiani. E che non può più attendere.

l’Unità 12.9.12
Donald Sassoon: «I populismi all’attacco di una Europa solidale»
Lo storico inglese: «Un fenomeno che cresce anche per il venir meno della diversità progettuale tra conservatori e progressisti»
di Umberto De Giovannangeli


«Quando l’Europa è attraversata, come oggi, da una crisi profonda politica e non solo economica i partiti populisti tendono a crescere, a radicarsi». A rilevarlo è uno dei più autorevoli storici inglesi: Donald Sassoon. Allievo di Eric Hobsbawm, Sassoon è ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra. Il professor Sassoon è autore di diversi saggi sulla storia d’Italia, fra cui «Togliatti e la via italiana al socialismo (Einaudi 1980) e Cento anni di socialismo (Editori Riuniti 1997). Con Rizzoli ha pubblicato inoltre «Il mistero della Gioconda (2006) e «Come nasce un dittatore» (2010).
«La forza dei populismi sottolinea Sassoon cresce quanto più si “annacquano” le differenze, di idee, di visioni, di progetti, tra progressisti e conservatori. I populismi si avvantaggiano del “pensiero unico” per cui le uniche differenze percepibili, tra la destra tradizionale e la sinistra tradizionale, sembra ridursi alla graduazione delle politiche rigoriste e di austerità: più dure per la destra, più “soft” per la sinistra».
Nei giorni scorsi, il presidente del Consiglio italiano, Mario Monti, ha denunciato il rischio che l’Europa naufraghi sugli scogli dei populismi. Condivide questo grido d’allarme?
«La domanda da porsi non è se questo grido d’allarme è giustificato e a mio avviso lo è ma perché venga lanciato solo oggi. I partiti populisti in Europa sono diventati relativamente forti almeno da vent’anni: basti pensare al Fronte Nazionale di Le Pen in Francia, ad Haider in Austria, per non parlare della Lega Nord in Italia. Dire che il populismo è frutto dell’attuale crisi mi sembra quanto meno riduttivo. Naturalmente è vero che quando c’è una crisi come quella a cui stiamo cercando di far fronte, i partiti populisti, che cavalcano paure e insicurezze, tendono a giovarsene».
È possibile individuare il collante culturale, politico e ideologico, dei populismi? «I partiti populisti hanno almeno quattro elementi unificanti. Il primo, è quello della xenofobia, della lotta contro gli immigrati già insediati e quelli che potrebbero “contaminare” le società europee e “rubare il lavoro” agli autoctoni... Un altro tratto unificante è la polemica che porta questi partiti sulle sponde del neoliberismo: sulla questione fiscale, ad esempio, si schierano contro qualsiasi imposizione. C’è poi un terzo elemento che invece li sposta a “sinistra”...».
Qual è questo elemento, professor Sassoon?
«La difesa del Welfare State...».
Cosa in sé niente affatto negativa.
«Se non fosse che i partiti populisti lo fanno in nome dei “veri cittadini”, e cioè dei francesi, degli inglesi, degli italiani, dei greci... “autentici”. Il quarto tratto unificante, è che questi populismi sono radicalmente contrari all’integrazione europea. Questi elementi esistono in tutti i partiti populisti, modulati a seconda del Paese e del periodo storico».
Vecchie idee veicolate attraverso strumenti innovativi: i populismi viaggiano in Internet.
«È vero. Una scelta per certi versi obbligata: i partiti populisti affermano, non a torto, di non avere accesso ai media in proporzione alla loro forza elettorale: ciò, ad esempio, è vero in Francia con il Fn dei Le Pen, padre e figlia, il cui accesso alle tv pubbliche non è pari al loro peso elettorale. A allora non c’è da stupirsi che utilizzino il web, la rete: una necessità che è stata poi affinata nel corso del tempo. D’altro canto, il web è uno spazio aperto a tutti. C’è chi, penso a Barack Obama, lo ha usato in maniera efficace nel corso della sua prima campagna presidenziale. Il punto è
non confondere il contenuto con lo strumento. E sui contenuti c’è qualcosa di importante da aggiungere». Cosa?
«Quando le distanze tra la destra tradizionale e la sinistra tradizionale, conservatori e socialdemocratici si attenuano e soprattutto si accentrano sull’austerità, invece che sulle grandi visioni, a quel punto i partiti che si distinguono nettamente dai due fronti, si rafforzano. Ciò è molto visibile in Grecia, il Paese più fortemente segnato dalla crisi, dove emerge quasi dal nulla un partito di estrema destra, “Alba Dorata”, che stando agli ultimi sondaggi avrebbe tra il 12 e il 15% dei consensi elettorali. Si tratta di un partito che comunemente viene definito neo-nazista. Ma l’annacquamento delle differenze tra destra e sinistra tradizionali, porta sul versante della sinistra, a un tracollo del Pasok e alla crescita esponenziale della sinistra radicale di Alexis Tsipras. Questa tendenza per il momento si è manifestata in Grecia, ma ciò non significa che non possa estendersi ad altri Paesi, a partire da quelli più esposti alla crisi, come Italia e Spagna. E se così fosse sarebbe una sciagura per tutti. Perché se la Grecia affonda e occorre agire con intelligenza e prontezza per evitarlo l’Europa forse potrebbe salvarsi. Ma se affondano Italia e Spagna, cioè due grandi economie, l’Europa è perduta».

l’Unità 12.9.12
La Cina è diventata imperialista
di Gianni Sofri


Leggiamo decine di articoli sulla straordinaria crescita cinese e sui suoi exploit anche internazionali. Tuttavia, malgrado la Cina sia sempre più onnipresente all’estero, è assai raro che nei suoi confronti venga usato il termine «imperialismo». Anche per questo fa un certo effetto vedere un titolo come «La Cina è imperialista?» sulla prima pagina dell’ultimo numero di «Le Monde Diplomatique», glorioso mensile che è rimasto nel corso degli anni uno degli ultimi baluardi dell’anti-americanismo e del terzo-mondismo o, se si preferisce, dell’alter-mondialismo. L’articolo di cui stiamo parlando è opera di Michael T. Klare, economista di scuola «Monthly Review», che scrive da decenni su varie riviste sulla politica estera americana, e di recente soprattutto sulla geopolitica del petrolio.
Com’è noto, il concetto di imperialismo si diffuse e conobbe le sue maggiori fortune negli ultimi decenni dell’800 nell’ambito della Seconda Internazionale (ma non solo), e fu allora e dopo oggetto di una discussione molto vivace, il cui frutto più noto è il testo «popolare» di Lenin del 1916, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Il concetto venne applicato per decenni soprattutto all’interno della sinistra mondiale per interpretare sia la storia delle conquiste coloniali europee sia gli sviluppi successivi, nell’epoca della decolonizzazione e della guerra fredda. In quest’ultimo periodo, più che dei declinanti imperialismi inglese, francese ecc., si parlò di quello americano, che per qualche tempo dopo il 1989 venne addirittura considerato l’unico e ultimo imperialismo sopravvissuto (il termine era stato applicato per qualche tempo anche all’Urss, solo esempio di un paese non capitalista).
Ma non si vuole fare qui la storia, assai complessa del concetto. Diciamo solo che con l’andare del tempo il termine era stato poco per volta sostituito da molti altri, che si sforzavano di rendere la crescente complicazione del mondo reale: lo strapotere delle multinazionali, la geopolitica, Nord e Sud e così via. Le ragioni di questo declino furono probabilmente più d’una. Innanzitutto prevaleva la consapevolezza che il termine diventava sempre più uno slogan e sempre meno una categoria utile all’analisi della politica internazionale. Inoltre, di quest’ultima si veniva progressivamente scoprendo che a muoverla non era più solo l’economia, come era parso, e con buone ragioni, ai tempi di Lenin, ma anche una serie di altri fattori non meno importanti come quelli religiosi ed etnici, linguistici e geografici (o geopolitici). Basti pensare al ruolo svolto nelle trasformazioni mondiali degli ultimi decenni da due fenomeni storici molto diversi fra loro come l’avvento di un papa polacco e l’ascesa dell’islam politico.
FAME DI ENERGIA
Ma veniamo alle argomentazioni di Klare. L’autore parte da una serie di dati che mostrano come la vertiginosa crescita economica della Cina abbia bisogno di essere sostenuta da altrettanto vertiginosi aumenti delle forniture di energia e di materie prime in genere. Per esempio, il consumo di petrolio è salito in dieci anni (2000-2010) da 4,8 milioni a 9,1 milioni di barili al giorno; le importazioni, da 1,5 milioni a 5 milioni di barili al giorno. Passando al gas naturale, nel 2000 la Cina ne esportava 3,3 miliardi di metri cubi; nel 2010 ne ha importati 12,2 miliardi. Dati analoghi si possono trovare se ci rivolgiamo a minerali (ferro, ramo, cobalto, cromo, ecc.), indispensabili sia all’elettronica sia alla fabbricazione di leghe ad alta resistenza. Da questo bisogno crescente di nutrire una produzione sempre più affamata di energia e materie prime nasce l’espansione cinese. Attraverso contratti di compartecipazione di società statali o private con i maggiori produttori mondiali di petrolio, investimenti nello sfruttamento di miniere, costruzioni di infrastrutture, ecc. i cinesi sono sempre più presenti in ogni parte della terra, ma soprattutto nei paesi africani. A spingerne l’attività non sono soltanto i bisogni attuali, già noti, ma quelli prevedibili per un futuro di medio e lungo periodo.
Comprensibilmente i Paesi più interessanti per la Cina sono quelli più poveri (ma ricchi di potenzialità nel settore delle materie prime) del Sud del mondo. Paesi, quindi, che un po’ eufemisticamente vengono chiamati «in via di sviluppo», come la stessa Cina ama chiamare se stessa, sottolineando, non senza contraddizioni, la compresenza di elementi di arretratezza con il suo affermarsi come grande potenza mondiale. Ufficialmente, la Cina continua a seguire (e a darle particolare rilievo, soprattutto nei rapporti con i paesi africani, asiatici e latino-americani) la politica che venne elaborata già ai tempi di Bandung, e che consisteva essenzialmente nell’«uguaglianza e rispetto reciproco», nella «non ingerenza» negli affari interni degli altri Paesi e nella volontà di contribuire allo sviluppo dei paesi arretrati.
In realtà, quando i cinesi firmano un contratto di cooperazione con un paese africano, e su questa base si mettono a costruire raffinerie, porti, strade e ponti, oleodotti, ferrovie o altre infrastrutture, nella maggior parte dei casi si portano dietro l’intera manodopera (in molti casi carcerati cui si promette una liberazione anticipata), che viene ospitata in villaggi chiusi. Quasi mai ci sono rapporti fra i cinesi e la gente del luogo. Quando invece la manodopera è costituita da africani, i rapporti fra gli operai e i loro dirigenti cinesi diventano spesso molto difficili: si è assistito in molti casi a proteste violente, rapimenti, anche uccisioni. E soprattutto, molti leader africani hanno cominciato ad esprimere la propria delusione per un rapporto che è paritario, e utile a entrambi, solo sulla carta. Klare riporta un giudizio recente del Presidente sudafricano Jacob Zuma secondo cui l’impegno della Cina per lo sviluppo dell’Africa è consistito soprattutto nel «rifornirsi di materie prime»: una situazione da lui giudicata «insostenibile nel lungo termine».
LA «NON-INGERENZA»
Zuma non è il solo leader africano a esprimere questo disagio, che smentisce una delle linee-guida ufficiali della politica estera cinese. Ma c’è dell’altro. Là dove funziona, la non ingerenza e il rispetto dell’autonomia interna dei singoli paesi fa sì che, in nome dei propri interessi economici, i cinesi si facciano campioni dei più efferati governi e regimi africani, dal Sudan allo Zimbabwe, così come proteggono i governi di Iran e Siria all’Onu. Ora, si chiede Klare, se mettiamo insieme tutti questi fenomeni (e molti altri se ne potrebbero aggiungere), non ci troviamo di fronte a una replica delle caratteristiche di quello che venne a lungo chiamato (e lo è spesso tuttora) l’imperialismo americano? Sempre Klare racconta che il presidente F. D. Roosevelt (1933-1945) era profondamente avverso a imperialismo e feudalesimo, e quindi anche alla cultura e al regime politico dell’Arabia Saudita. Ma quando gli dissero, verso la fine della seconda guerra mondiale, che il futuro degli Stati Uniti sarebbe dipeso dalle importazioni di petrolio da quel paese, non esitò a stringere un accordo con il suo sovrano. Da allora, Washington divenne il protettore di regimi di destra, reazionari e autoritari, che però, oltre ad essere buoni fornitori di materie prime, erano anche fedeli alleati dell’occidente nella guerra fredda.
Klare è piuttosto prudente nella risposta alla domanda da cui era partito. Ricorre a una sorta di understatement: i cinesi sarebbero ben felici (lo sarebbero stati, ai loro tempi, anche gli americani) se riuscissero a conciliare le proprie esigenze economiche con quelle dello sviluppo dei loro partner arretrati. Klare auspica che questo avvenga quanto prima, ma così non è, per ora.
Il discorso sulla applicabilità alla Cina del termine «imperialismo» avrebbe bisogno di molti altri sviluppi, per esempio sul piano culturale, dove l’estendersi a macchia d’olio degli Istituti Confucio (oggi più di 350 in più di 100 paesi) sembra presentare aspetti non troppo diversi da quelli dell’Usis, e dove l’impegno pubblicitario, propagandistico, giornalistico della Cina nel mondo si è fatto negli ultimi anni sempre più insistente. Resta comunque, a quanto pare, un certo pudore da parte delle sinistre (ma non solo: business is business...) a usare il termine imperialismo per un Paese che si proclama tuttora marxista-leninista (però anche confuciano, a economia di mercato e molte altre cose ancora). Può darsi che si tratti di un problema puramente nominalistico, ma forse vale la pena ugualmente di pensarci, superando i tabù. È bene essere grati a Michael T. Klare per avercelo ricordato.

il Fatto 12.9.12
Crisi greca, Atene agli sgoccioli tenta la carta dei danni (tedeschi) di guerra
Secondo il Financial Times Deutschland il vice ministro dell’economia avrebbe istituito un gruppo di lavoro per valutare i documenti ufficiali presenti negli archivi storici. Nel 2011 i conteggi dell'economista francese Jacques Delpla, stimavano che la Germania dovrebbe corrispondere alla Grecia 575 miliardi
Berlino non ha mai pagato la sua parte che oggi varrebbe 575 miliardi, 200 in più del debito ellenico
di Francesco De Paolo

qui

Corriere 12.9.12
Tensione Casa Bianca-Israele sull'ultimatum a Teheran
di Cecilia Zecchinelli


GERUSALEMME — Il premier dello Stato ebraico Benjamin Netanyahu «non sarà ricevuto dal presidente americano Barack Obama nella sua imminente visita a New York per l'assemblea generale dell'Onu», ha rivelato ieri sera il quotidiano Jerusalem Post. Prime smentite dalla Casa Bianca, poi la sostanziale conferma: «Neghiamo che il presidente Obama abbia rifiutato la richiesta di un incontro. Questo non avverrà per problemi di agenda. Il presidente Obama non si troverà in città quando sarà presente il premier israeliano, che sarà ricevuto dal segretario di Stato Hillary Clinton». Punto e a capo.
Che i rapporti tra i due grandi alleati fossero ormai tesi, a dir poco, è cosa nota. E il motivo è la volontà di Israele di colpire l'Iran o almeno fissare a livello internazionale, America in testa, limiti invalicabili per Teheran, oltre i quali la risposta militare sarebbe inevitabile. Ma il «no» dell'amministrazione Obama (e non solo) negli ultimi giorni aveva esacerbato il contrasto. Solo ieri mattina, Netanyahu aveva tuonato che «chi non vuole fissare linee rosse per l'Iran non ha il diritto morale di imporne a Israele». Nei giorni precedenti la stessa Clinton aveva ribadito che la via con Teheran restava la diplomazia. Le reazioni di Israele erano state, già allora, durissime, anche se dal governo erano continuate a trapelare voci di «colloqui in corso con Washington per fissare insieme un ultimatum» agli iraniani. Ieri sera però è apparso improbabile che una simile cooperazione esista, o sia mai esistita. Nella notte il ministro della Difesa Ehud Barak ha confermato la spaccatura: «Solo Israele ha il diritto di decidere in merito della sua sicurezza».
La crisi diplomatica tra Stati Uniti e Israele non è il solo problema che Netanyahu sta affrontando in questi giorni. Una crescente preoccupazione riguarda la possibilità che nel Paese stia per esplodere una «terza intifada». Da una settimana migliaia di manifestanti palestinesi sono scesi in piazza in tutta la Cisgiordania, da Ramallah a Betlemme, da Hebron a Nablus. Ovunque scontri e feriti, assalti a edifici pubblici, scioperi e blocchi stradali, scuole e negozi chiusi. Questa volta, almeno per ora, oggetto della furia non è Israele ma l'Autorità nazionale palestinese, soprattutto il premier Salam Fayyad. L'accusa è di essere responsabile della terribile crisi economica, o comunque incapace ad affrontarla. In una situazione già fortemente precaria e in cui Israele controlla di fatto economia e commercio dei Territori, il recente aumento della benzina, il taglio degli stipendi dei 153 mila dipendenti dell'Anp, l'impennata dei prezzi (un caffè a Ramallah può costare 4 euro) stanno causando la più grave sfida interna mai rivolta al governo palestinese dalla sua nascita nel 1994.
Ieri Fayyad ha tentato di placare il dissenso: l'aumento della benzina e della tasse sarà cancellato, gli stipendi dei dirigenti politici tagliati e quelli dei dipendenti pagati. «È il massimo che possiamo fare», ha detto il premier economista, appoggiato dall'Occidente e ora accusato, tra l'altro, di essere «collaboratore degli Usa». Il presidente Abu Mazen all'inizio delle proteste aveva parlato di «primavera araba» arrivata anche in Palestina. Per molti era stata una stoccata al premier, con cui i rapporti sono deteriorati. Poi, con l'ampliarsi delle proteste, Abu Mazen aveva fatto marcia indietro, consapevole che l'intera Anp è minacciata.

La Stampa 12.9.12
Una necropoli micenea scoperta dagli archeologi italiani


Una necropoli micenea utilizzata a partire dal XV secolo a.C. è stata scoperta da un gruppo di archeologi dell’Università di Udine nei pressi della città greca di Eghion, nel Peloponneso Nord-occidentale. Finora sono state portate alla luce due sepolture del tipo «a camera» del XII-XI secolo a.C., molto diffuse in ambito miceneo. Queste tombe, scavate nei pendii di colline, sono costituite da un corridoio di accesso e da una camera funeraria scavata nella roccia. La scoperta della necropoli ha consentito inoltre di recuperare un corredo di vasi di ceramica, finemente decorati e conservati, pressoché integri, nella posizione in cui erano stati deposti. Dagli studi archeologici è stato possibile ricostruire l’origine del culto celebrato sulla sommità dell’altura, un pianoro piatto e regolare, per questo chiamato Trapeza (tavola). «Sapevamo dell’esistenza della necropoli micenea - ha spiegato Elisabetta Borgna, che guida l’équipe archeologica da una serie di corredi funerari frutto di precedenti scoperte casuali e da alcune segnalazioni presenti nella bibliografia archeologica. Le ceramiche ritrovate testimoniano la presenza nell’area di un ceto sociale di livello elevato alla fine del periodo miceneo, databile al XII-XI sec. a.C. circa».

La Stampa 12.9.12
L’eugenetica maledetta dal tabù nazista
La disciplina è figlia del darwinismo, ha influenzato scrittori, antropologi e politiche di welfare. Un saggio ne ripercorre la storia
di Oddone Camerana


Fin dal titolo il nuovo libro di Carlo Alberto Defanti Eugenetica: un tabù contemporaneo. Storia di un’idea controversa (Codice edizioni Torino 2012, 23 euro), evoca l’emarginazione cui è stata sottoposta l’eugenetica storica sul piano conoscitivo. Purgatorio dovuto al fatto di aver identificato riduttivamente quest’idea con la sua manifestazione più clamorosa, il razzismo nazista della prima metà del Novecento. Identificazione che le è costato il prolungato silenzio critico e storico da cui detta idea ha cominciato a uscire solo di recente.
L’aver rinchiuso l’eugenetica nel baule delle vergogne, dimenticando le manifestazioni più problematiche di quell’idea, ha rischiato di favorire chi ha cercato in seguito di seguirne le tracce sotto le mentite spoglie della genetica. Fenomeno, questo, evidente nei titoli di alcuni testi citati da Defanti: quello del sociologo americano Tony Duster Backdoor to Eugenics («La porta posteriore dell’eugenetica») 1990 e un articolo di Diane Paul Is Human Genetics Disguised Eugenetics («la genetica sugli umani è eugenetica camuffata? »). Ma al di là del pericolo descritto, rischio che riguarda l’attualità, sta di fatto che da un punto di vista più generale la lettura della cultura dell’Ottocento e del primo Novecento da cui l’idea eugenetica è stata rimossa perché indegna è una lettura purtroppo impoverita. Per sbagliata e perversa che sia stata, l’idea eugenetica ha comunque mosso una cospicua parte del pensiero otto-novecentesco uscito dal cappotto di Darwin. Lo sconvolgimento prodotto dal naturalista inglese è stato, per ciò che riguarda la perduta centralità dell’uomo rispetto alla natura, pari allo shock prodotto da Copernico per ciò che ha riguardato a suo tempo la perduta centralità del pianeta terra rispetto all’universo. In soccorso dell’uomo privato del suo ruolo tradizionale, smarrito a seguito del fatto di essere stato gettato nel coacervo dell’evoluzione naturale che lo riguardava insieme al resto del creato animale e vegetale, si sono espressi i più celebri nomi dell’eugenetica storica.
In questa luce i testi di scienziati, antropologi, filosofi come A. B. Morel e O. Spengler per limitarci ai pessimisti, o quelli di F. Galton, H. Spencer e G. Vacher de Lapouge e financo i romanzi di E. Zola e H. G. Wells, acquistano peso per la visione eugenetica in cui sono immersi. Il sospetto suscitato dalla teoria evoluzionistica darwiniana che la fase della selezione naturale si fosse conclusa, unito al timore che i meccanismi di protezione dei più deboli potessero sostituirsi alla selezione stessa, inceppando così il motore evolutivo, furono sufficienti ad attivare il darwinismo sociale, potente motore dell’eugenetica. Tra il ricovero in istituti come La Piccola Casa della Divina Provvidenza del Cottolengo dei disabili e il programma eugenetico delle «vite indegne di essere vissute» da eliminare, occorreva trovare una mediazione che facesse dimenticare il patto faustiano tra scienza medica e regime totalitario, la prima bisognosa di autorità e potere per affermarsi, il secondo pronto a offrirlo in cambio di legittimità scientifica.
Ciò detto per quanto riguarda il ruolo determinante dell’eugenetica storica, resta da far presente come non vadano dimenticati i campi di azione in cui quest’ultima fece sentire la sua influenza sebbene in maniera indiretta o in tono minore di quanto non avvenne per il razzismo. Senza il contributo dell’eugenetica storica, infatti, l’intervento dello Stato nell’igiene pubblica, nella sanità e nel welfare non avrebbero preso la dimensione assunta nel corso del tempo. Lo stesso dicasi per ciò che riguarda l’impulso dato alla biologia, alla scienza e alla tecnica, in genere al progresso di cui l’industria e la proletarizzazione delle masse urbanizzate non tardarono a mostrare i volti della degenerazione e della decadenza, gli incubi rappresentati dagli scrittori naturalisti come Zola e Dickens per fare due nomi tra i più noti. Di qui la nostalgia per la perduta purezza delle razze sentita da Gobineau, il senso del tramonto dell’Occidente descritto da Spengler, l’auspicata riforma della Giustizia per fronteggiare l’emersione degli atavismi criminali delineati da Lombroso, il sorgere del bisogno di separare la sessualità dalla procreazione, la voluttà e il piacere dalla riproduzione, come richiesto da Vacher de Lapouge e l’accanirsi del confronto tra natura e cultura, tra qualità innate (ereditate) e ambiente in senso lato.
Se il pericolo di rimuovere l’idea eugenetica vale per il passato nei modi sopra descritti, in diversa misura vale anche per oggi sebbene in presenza di un contesto sociale, scientifico e culturale completamente mutato. Se infatti l’affermarsi dei diritti individuali, umani, soggettivi dei disabili e delle garanzie come quella del consenso medico informato da una parte e la realtà dei passi da giganti compiuti dalla biomedicina, dalla genetica dall’altra, sono insieme una rassicurazione che gli orrori razziali trascorsi prodotti dall’eugenetica sono solo un ricordo, questo non toglie che l’idea eugenetica sia del tutto sconfitta. La pratica del counseling genetico, per fare un esempio, può nascondere forme di imposizione demografiche legate alla concessione di licenze matrimoniali vantaggiose. La possibilità della manipolazione della vita resta pertanto una minaccia che il business procreativo è in grado di coprire dietro promesse di qualità della vita. La massima confuciana secondo la quale la vita non inizia prima della nascita lascia molte strade aperte alla biopolitica.

La Stampa 12.9.12
Katyn, gli Usa sapevano ma coprirono Stalin
Nel ’39 i sovietici massacrarono 22 mila polacchi attribuendo poi la responsabilità dell’eccidio ai tedeschi, con il beneplacito di Washington
di Paolo Mastrolilli


Gli Stati Uniti sapevano cosa era successo nella foresta di Katyn, ma tennero il segreto sul massacro compiuto dai sovietici contro i polacchi, per non compromettere l’alleanza con Mosca che era fondamentale allo scopo di sconfiggere i nazisti. Varsavia sospettava da sempre che questa fosse la verità, ma adesso non ci sono più dubbi, dopo la pubblicazione di mille pagine di documenti custodite finora nei National Archives di Washington.
I tedeschi avevano invaso la Polonia il primo settembre del 1939. Due settimane dopo i sovietici, che avevano firmato con Berlino il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop, entrarono nel territorio di Varsavia per occupare le sue regioni orientali. Durante questa avanzata catturarono migliaia di prigionieri polacchi, che furono affidati alla polizia segreta del Nkvd. Nel marzo del 1940 Lavrentiy Beria propose di eliminare tutti i militari detenuti, per impedire che Varsavia potesse mai ricostruire un esercito forte, in grado di impensierire l’Armata Rossa. Il Politburo, guidato da Stalin, approvò questo piano, e tra l’aprile e il maggio del 1940 circa 22 mila persone furono uccise e sepolte dentro fosse comuni scavate nella foresta di Katyn. Si trattava in maggioranza di soldati e poliziotti, ma anche intellettuali civili.
I nazisti poi attaccarono l’Urss e occuparono questa regione, e Mosca scaricò su di loro la responsabilità del massacro. Washington sostenne questa versione, perché aveva bisogno di conservare l’alleanza con i sovietici allo scopo di piegare Berlino, ma sapeva esattamente cosa era successo. Infatti i tedeschi, nel maggio del 1943, avevano portato a Katyn un gruppo di prigionieri anglo-americani, per testimoniare la situazione. Tra di essi c’erano il capitano Donald Stewart e il tenente colonnello John Van Vliet, che dopo la visita mandarono un messaggio in codice ai servizi Usa, con cui confermavano la colpa sovietica: «La versione tedesca - scrissero - è sostanzialmente corretta». Gli Stati Uniti però nascosero la verità, fino a quando Mosca alzò la cortina di ferro in Europa, e fino a ieri hanno negato di saperla. In questo modo non hanno fatto solo un torto ai polacchi e alla storia, ma hanno ritardato la presa di coscienza della vera natura dello stalinismo.

La Stampa 12.9.12
Gli analitici lo fanno meglio
Le ragioni di un successo crescente anche tra i filosofi europei e italiani cresciuti nella tradizione continentale
di Franca D’Agostini


Il filosofo, logico e matematico gallese Bertrand Russell (1872-1970), padre nobile dell’indirizzo analitico

Il Convegno della Sifa, la Società Italiana di Filosofia Analitica, giunta al suo ventesimo anno, può essere una buona occasione per riflettere sul significato in largo senso «storico» della fortuna della filosofia analitica in Europa, e in particolare in Italia.
Perché la filosofia analitica? Perché molti europei, formatisi alla filosofia «continentale» (in particolare francese, tedesca) hanno scelto di fare riferimento alla tradizione filosofica sorta ufficialmente con Bertrand Russell e George E. Moore nei primi anni del Novecento, e che verso la metà del secolo era diffusa quasi esclusivamente nei paesi di lingua inglese e in Scandinavia?
Alcuni tra i padri della filosofia analitica italiana come Andrea Bonomi, Diego Marconi, Carlo Penco e altri iniziavano il loro percorso filosofico su Hegel, o Merleau-Ponty, ma lasciavano presto la filosofia europea per abbracciare una tecnica filosofica che certo allora (negli anni Settanta-Ottanta) non era di gran moda in Italia. Ma soprattutto negli ultimi vent’anni l’esodo dalla filosofia continentale verso la filosofia analitica è diventato se non una prassi consolidata, certo una tendenza chiaramente avvertibile.
Sulla natura e le ragioni di questo shift le congetture sono molte. Imperialismo angloamericano? Kripke e Quine (filosofi analitici) come i McDonald’s? In realtà c’è almeno una questione da considerare, ed è che la filosofia analitica in linea di massima è «più seria». Sosteneva Michael Dummett (in Pensieri, De Ferrari,
2004) che un filosofo analitico si riconosce per due requisiti: l’uso, in modo più o meno ortodosso, dell’apparato basilare della logica moderna, fissato da Frege, e l’idea che la filosofia sia una seria impresa di soluzione di problemi. Se il primo requisito è la differenza specifica, il secondo è il genere prossimo, la condizione necessaria: non è filosofia analitica quel tipo di lavoro vago, leggero e autoironico, che era di gran voga negli anni Ottanta europei, al seguito di Derrida. Non è neppure filosofia analitica, avvertiva Dummett, quella sorta di antifilosofia minimalista, praticata a volte da Wittgenstein, o da certi filosofi del linguaggio ordinario.
Si può forse discutere questa definizione. Hans Glock, in What Is Analytical Philosophy? (Cambridge University Press, 2008), offre un’ampia gamma di definizioni alternative. Certo è che quel modo «poco serio» di lavorare in filosofia, producendo slogan, o presentando tesi suggestive mal argomentate, che ha fatto la fortuna dei maîtres-à-penser francesi, sembra piuttosto lontano dallo spirito della filosofia analitica più certamente tale. D’altra parte il serissimo lavoro degli eredi di Kant e dell’idealismo tedesco, quando lascia da parte gli scopi puramente storiografici e ha ambizioni di innovazione teorica, spesso manca la presa con il presente proprio per la tradizionale estraneità della filosofia classica tedesca alla logica moderna.
Dunque: meglio la filosofia analitica. È più seria, e - per il suo legame storico e naturale con la logica - più efficace e precisa.
Ma bastano questi requisiti, per giustificare e anzi decidere la scelta a favore della filosofia analitica? Forse no, non bastano realmente. Il dibattito su «la filosofia analitica è davvero meglio? » percorre, serpeggiante, i social media. Come scrive sulla sua pagina di Facebook Francesco Berto, giovane e brillante filosofo analitico italiano (che ovviamente non lavora in Italia, bensì in Scozia), la filosofia analitica lascia a volte una vaga insoddisfazione, perché «manca la Weltanschauung, la visione d’insieme». Qualcuno potrebbe obiettare che, in un certo senso dell’espressione «visione d’insieme», forse non è del tutto vero. David Chalmers, per esempio, uno dei filosofi analitici che oggi vanno per la maggiore, sta per pubblicare Constructing the World, testo delle sue discusse e provocatorie lezioni tenute a Oxford nel 2010, in cui effettivamente «ricostruisce» il mondo intero.
Ma direi che Berto non ha torto. L’eccesso di specialismo e il rigore «tagliuzzante» dell’argomentazione analitica (il famoso hairsplitting: tagliare il capello in quattro) lasciano a volte il lettore che cerca risposte a disagio, e come in sospeso. E non basta la scusante: «questa non è filosofia popolare, bensì professionismo», perché il sospetto che un simile giocare con i dettagli a volte non sia neppure professionismo (e meno che mai filosofia) resta in azione.
Naturalmente, non tutta la filosofia «non analitica» non è seria, o non è argomentativamente rigorosa, e forse solo un po’ di impegno antisofistico e di competenza logica potrebbero bastare. Perché probabilmente ciò che Michael Dummett descriveva nella sua ricostruzione è solo la buona filosofia: quella che cerca di dire qualcosa di nuovo, e di utile, sulle questioni di fondo che riguardano la vita individuale e collettiva.

Repubblica 12.9.12
“L’amore è vicino alla mistica. Continuiamo a crederci nonostante tutto"
Cunningham: “Vi racconto perché madame Bovary vive e ama insieme a noi
Il premio Pulitzer spiega come spesso non ci sia molta differenza tra quel che leggiamo e quel che proviamo nel campo delle passioni
di Antonio Monda

NEW YORK Forse agli scrittori capita spesso. Di certo succede a lui, Michael Cunningham. Che, parlando di sentimenti, tiene insieme esperienze reali ed esperienze letterarie: «Davvero esiste qualche differenza tra l’amore che viviamo e quello che ci appassiona leggendolo nei libri? ». Così l’autore, che con The Hoursha vinto il Pulitzer, compila una sorta di biblioteca esistenziale: «È difficile citare un grande libro che non parli d’amore: Madame Bovary, AnnaKarenina, Morte a Venezia, Il Grande Gatsby, Ulisse, Cent’anni di solitudine.
Ogni libro importante che ho letto non solo ha influenzato la mia scrittura e la mia vita, ma ha allargato i miei orizzonti sull’amore». Nel modo in cui racconta i propri gusti emerge a volte un elemento dolorosamente intimo, che aiuta a chiarire le scelte letterarie: «Spesso ho regalato libri che parlano d’amore: letteratura e cinema sono mediazioni e visioni insieme e ci servono perché sono convinto che l’amore sia un’esperienza che ci fa intuire l’eternità ».
Chi ha scritto le pagine migliori sul tema?
«Tolstoj con Anna Karenina e Thomas Mann con Morte a Venezia. E nonostante non sia uno dei miei libri preferiti, Schiavo d’amore di Somerset Maugham è una delle storie d’amore più appassionate che siano mai state scritte».
Quali sono le scene d’amore più belle?
«Inizierei con la scena di Ritratto di Signoradi Henry James, quando Edward Rosier vende la propria collezione d’arte nel vano tentativo di sposare Pansy, la figlia di Gilbert Osmond. Poi nel Grande Gatsby: Nick Carraway vede Jay Gatsby che rimane a fissare la luce verde della casa di Daisy Buchanan, nell’altro capo della baia, tutta la notte. Aggiungerei la confessione di Gretta al marito Gabriel nel finale dei Morti di James Joyce, nel punto in cui gli parla del ragazzo che molti anni prima rimase davanti alla sua finestra sotto la pioggia e poi morì di polmonite».
E nel cinema?
«La prima che mi viene in mente è il tango tra Dominique Sanda e Stefania Sandrelli nel Conformista di Bernardo Bertolucci. Ma non ho paura a citare anche una scena dalla serie televisiva Buffy l’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer), nella quale la battaglia mortale tra Buffy ed il vampiro ed arci-nemico Spike si trasforma in una selvaggia scena erotica».
Come è cambiata, negli anni, la rappresentazione dell’amore?
«Non credo che scrittori e registi abbiano oggi una percezione diversa dal passato. Ma oggi gli artisti hanno più libertà e più possibilità: affrontano dettagli che erano proibiti alle generazioni precedenti. Due esempi tra i tanti: sospetto che Flaubert avrebbe voluto mostrare al lettore più di quanto traspiri dalle storie sentimentali di Emma Bovary. E mi chiedo cosa avrebbe fatto oggi Tolstoj riguardo all’attrazione di Anna Karenina per Vronsky, distruttiva e schiavizzante ».
E come è cambiato il linguaggio dell’amore?
«Il linguaggio dell’amore cambia continuamente. Un tempo c’era lo scambio di gioie e pelli animali, poi sono arrivati i sonetti. Oggi, con gli sms, può essere espresso in frasi brevi che appaiono su schermi grandi come francobolli. In futuro, sarà forse trasmesso attraverso chip nei nostri cervelli, ma nulla di questo importa perché, la cosa vera, è che invece i sentimenti sono sempre gli stessi. Noi proviamo le stesse emozioni di ignoti egiziani, di Abelardo ed Eloisa, dei servi della gleba, di Percy e Mary Shelley, di Zelda e Scott Fitzgerald. La forma è diversa - e a questo servono i libri a trovare modi, personaggi e parole - la sostanza no».
Cosa ricorda del suo primo amore?
«Ho sentito che la mia vita stava cambiando profondamente e per sempre. Non perché immaginassi di passare il resto della mia vita con la persona che amavo ma perché stavo provando un’emozione insondabile. Sapevo che questo strano sentimento non mi avrebbe mai abbandonato. Ed avevo ragione».
Oscar Wilde diceva che “amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore lunga tutta la vita”.
«Gli aforismi di Wilde sono tutti perfetti. Essere d’accordo o meno è irrilevante: è come essere d’accordo o in disaccordo con un grande poema».
L’amore è un sentimento, un’emozione o uno stato mentale?
«È un sentimento, un’emozione e anche uno stato mentale. Proprio perché è anche l’esperienza più vicina al divino e alla mistica. Tanto e vero che spesso ci crediamo senza ragioni: amiamo una persona nonostante i suoi difetti, nonostante ci tratti male. È paradossale, appunto».
È possibile amare due persone allo stesso tempo?
«È possibile amare una dozzina di persone allo stesso tempo. Una delle sorprese dell’amore è che le nostre riserve sono quasi inesauribili».
Crede nella fedeltà?
«Totalmente. Tuttavia il conpensare di “fedeltà” è un accordo preso dagli amanti reciprocamente. Quello che loro chiamano “fedeltà” non è affare di nessun altro, qualunque cosa suggeriscano le apparenze».
La gelosia è una forma di amore?
«La gelosia è l’opposto dell’amore. O, meglio, è il figlio degenere dell’amore. La gelosia è la forma più romantica d’imprigionamento. Nasce dall’insicurezza, dalla paura, dal desiderio dell’altra persona. È ingenuo che un amante non possa essere attratto da qualcun altro, e questo rappresenta sempre una fonte di dolore. Il dolore è una risposta pura, e naturalmente umana alla perdita dell’amore. La gelosia è l’avida, infantile, egoistica versione del dolore. Ciò non significa che essendo umani non la sentiamo. In fin dei conti è una debolezza, ma non è un peccato. Gli uomini sono deboli, e non possiamo farci nulla».
Lei è geloso?
«Sì. Non è una cosa che mi piaccia, ma non posso negarlo».
Jane Austen ha scritto: “Se potessi conoscere il suo cuore, tutto sarebbe semplice”.
«Io direi: se potessi conoscere il suo cuore tutto diventerebbe più difficile e interessante».
Rilke invece sosteneva: “Questo è il paradosso dell’amore tra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare”.
«Rilke non ha mai avuto torto. Su nulla».
Ha mai odiato persone che ha amato?
«Certo. L’odio e l’amore sono strettamente collegati. Ma non credo di essere mai stato indifferente nei confronti di persone che ho amato. Perché l’opposto dell’amore è, come sappiamo tutti, l’indifferenza».

Repubblica 12.9.12
Le proteste di Militia Christi
Bellocchio: “I cattolici facciano un film su Eluana”

«Perché i cattolici non fanno un loro film su Eluana Englaro?». Marco Bellocchio, regista di Bella addormentata, ha risposto ieri a Roma a attivisti di Militia Christi nello spazio Fandango.