venerdì 14 settembre 2012

l’Unità 14.9.12
Confronto Ingroia-Pellegrino stasera a Milano con «Unitalia»
L’incontro pubblico organizzato da l’Unità e Left
Appuntamento alla festa democratica di Sesto San Giovanni
Su unita.it, in streaming questa sera a partire dalle 21
di R.V.


Continua il viaggio di Unitalia che oggi arriva a Milano ospite della Festa democratica metropolitana al Carroponte di Sesto San Giovanni (appuntamento alle ore 21.30). Questa a volta, al centro del dibattito, il tema «Corruzione, legalità e diritti», argomento centrale nel dibattito politico e istituzionale di questi giorni.
Ne discuteranno Antonio Ingroia e Giovanni Pellegrino. A guidare il confronto il direttore de l’Unità Claudio Sardo e quello di Left Giommaria Monti, la rivista che ogni sabato trovate allegata al nostro quotidiano e con cui abbiamo stabilito, già da tempo, un percorso di idee e collaborazione in comune.
L’incontro sarà visibile sul nostro sito, unita.it, in streaming a partire dalle 21. Con questo dibattito continuano le iniziative di Unitalia, all’interno delle feste democratiche, che hanno già raccolto una forte partecipazione di pubblico. Il 31 agosto abbiamo trattato il tema del lavoro a Piombino con Stefano Fassina, Susanna Camusso e Vincenzo Boccia. A Pisa, lo scorso 6 settembre, abbiamo discusso di un tema scottante per migliaia e migliaia di giovani: «Come fermare il sapere in fuga». Con Sardo e Monti sono intervenuti Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e Paolo Valente, fisico, rappresentante nazionale ricercatori Infn.
Una fuga che si paga anche in termini economici, quella dei nostri migliori cervelli. E se il calcolo non è facile, il danno prodotto da questa emorragia negli ultimi 20 anni è stato stimato in 4 miliardi di euro, una cifra pari all’ultima finanziaria. Un argomento scottante in un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e dove le migliori forze, il futuro della nostra Italia, sono costrette a guardare, cercare altrove. Con una perdita di intelligenze che ormai non riguarda più soltanto i ricercatori, ma anche gli studenti.
Infine, l’8 settembre a Bologna, è stata la volta dell «Costo della politica», dibattito alla presenza di Antonio Misiani, deputato e tesoriere Pd e Mario Staderini, segretario Radicali italiani

l’Unità 14.9.12
Elezioni americane e razzismo su Left di domani


Il razzismo gioca ancora un ruolo determinante nelle elezioni americane. E’ il tema della copertina del numero di left in edicola domani con l’Unità. Alla vigilia della sfida tra Obama e Romney, negli Stati Uniti ci sono ancora bianchi che non si fidano di un leader nero e che voteranno repubblicano per sbarrare la strada a «quel musulmano di Obama». Succede tra i proletari dell’Alabama, Mississippi e Louisiana, dove i democratici non fanno nemmeno campagna elettorale, dando per scontata la sconfitta. Ma succede anche alla convention repubblicana, dove il fronte razzista si espande: contro i neri definiti «scioperati e nullafacenti» si scagliano anche gli asiatici, una comunità in crescita che sostiene sempre più le tesi dei Tea parties. Left racconta storie di razzismo in America con un reportage da Birmingham, Alabama, dove i più esaltati si dicono pronti a imbracciare le armi per impedire un secondo mandato a Obama. Mentre da Tampa, dove si è tenuta la convention repubblicana, gli attacchi ai neri arrivano persino da un pastore afroamericano. E il politologo della New York University Charlton McIlwain spiega: «Romney deve convincere a votare per lui gli indecisi, che sono soprattutto bianchi e maschi. Lo fa attaccando le riforme di Obama nel settore del welfare. E siccome afroamericani e latinos sono quelli che ricorrono di più all’assistenza sociale, sono loro i parassiti da colpire». Nel numero in edicola anche un’intervista al Ministro Balduzzi sulla riforma della Sanità e la Legge 40.

l’Unità 14.9.12
Bersani al sindaco rottamatore «Il Pd è alternativo alla destra»
«Sondaggio Swg: col segretario il 55% degli elettori
D’Alema: «Mi riconosco nel sentimento di più»
di Simone Collini


«Il Pd è alternativo alla destra». Dovrebbe essere un’osservazione scontata, ma evidentemente così non è se Matteo Renzi si è candidato a guidare il Paese strizzando l’occhio ai delusi dal centrodestra e da Berlusconi.
Ieri Pier Luigi Bersani è stato praticamente tutta la giornata chiuso al terzo piano della sede de Pd ad ascoltare le relazioni di un centinaio di economisti chiamati a raccolta da tutt’Italia (o collegati via Skype da Washington e altri paesi stranieri). Dieci ore a parlare della crisi e a definire i pilastri della proposta di politica economica con cui il Pd si candiderà a governare.
In estrema sintesi, il messaggio consegnato dagli economisti nell’incontro a porte chiuse è che bisognerà puntare su crescita e sviluppo e contribuire a cambiare rotta nell’area Euro per spezzare la spirale tra austerità, recessione e aumento del debito pubblico. Una discussione che ha fatto emergere, qualora ce ne fosse bisogno, il fallimento delle politiche neoliberiste e la necessità di mettere in campo un modello alternativo a quello perseguito dalla destra a livello nazionale e non solo.
Così, anche se ieri Bersani ha evitato qualunque commento circa la prima uscita di Renzi col camper («questo è il suo giorno») anche la discussione sulle politiche economiche è servita al leader Pd per ribadire quello che dovrebbe essere scontato e che invece per qualcuno scontato non è: «Noi siamo alternativi alla destra». Il punto insomma non è recuperare i delusi da Berlusconi, come se il problema fosse solo l’ex premier. E anche la scelta di Renzi far anticipare il suo discorso da un filmato in cui comparivano anche Margaret Thatcher e di Ronald Reagan ha fatto storcere la bocca. Il Pd, nel ragionamento di Bersani, si deve candidare a governare l’Italia proponendo un modello di sviluppo diverso da quello della destra, centrato su lavoro e diritti, redistribuzione sociale, riequilibrio fiscale, senza rincorrere ricette che hanno una responsabilità determinante nello scoppio della crisi attuale.
Le stesse iniziative che il leader del Pd ha messo in agenda per i prossimi giorni vanno in questa direzione. A cominciare dagli incontri per discutere della «carta d’intenti» con sindacati, imprenditori, amministratori locali e dalla stessa decisione presa ieri di dare un seguito all’appuntamento con i cento economisti con incontri tematici, e di dar vita a un network economico che accompagni la definizione delle proposte programmatiche per il 2013.
LE FIRME PER LE CANDIDATURE
Bersani insomma non si sposta dal registro seguito fin qui. Ovvero «le primarie servono a parlare del Paese, non del Pd», anche se tra poco bisognerà affrontare anche una questione tutta interna, cioè le regole per la sfida ai gazebo. Il 6 ottobre si svolgerà l’Assemblea nazionale che voterà la norma transitoria che potenzialmente permetterà a ogni iscritto al Pd di partecipare alla sfida per scegliere il candidato premier. Lo statuto del partito prevede infatti che possa correre soltanto il segretario, ma Bersani ha chiesto e ottenuto di far votare una deroga ad hoc. Le candidature, in casa democratica, fioccano, perché oltre al leader del partito e al sindaco di Firenze si sono fatti avanti Stefano Boeri e Laura Puppato (che ieri era a Roma a spiegare a Bersani il perché della sua candidatura), mentre ancora Rosy Bindi e Pippo Civati non hanno rinunciato all’idea di correre.
Candidature che difficilmente vedranno veramente la luce se all’Assemblea del 6 ottobre verranno approvate regole simili a quelle che valgono a livello territoriale. Lo statuto del Pd prevede infatti che per candidarsi a sindaco sia necessario raccogliere il 35% delle firme dei delegati dell’assemblea comunale o il 20% degli iscritti di quel territorio. Il che significa, se trasposto a livello nazionale, che gli aspiranti concorrenti alle primarie dovrebbero raccogliere 350 firme tra i membri dell’Assemblea nazionale o circa 120 mila firme tra i tesserati (gli iscritti al Pd sono attualmente più di 600 mila). Bisognerà vedere quanti riusciranno nell’impresa. E comunque, visto che ogni delegato all’Assemblea nazionale può sottoscrivere al massimo una candidatura, sarà difficile che il 25 novembre si sfidino ai gazebo più di tre esponenti del Pd.
SWG: IL SEGRETARIO TRA 55 E 61%
Come che sia, è evidente che la sfida sarà tra Bersani e Renzi. Un sondaggio Swg pubblicato ieri da Affaritaliani.it dà il segretario al 55% fra gli elettori del partito e addirittura il 61% fra quanti dichiarano un’alta probabilità di partecipare alle primarie. Il sindaco di Firenze si attesta, invece, rispettivamente, sul 27 e 26%. Più staccati Nichi Vendola (7% e 5%) e Bruno Tabacci (1% e 2%). Dice Massimo D’Alema arrivando a Firenze poco dopo che viene reso noto il sondaggio: «Questa è la tendenza, io mi riconosco nel sentimento dei più». E Dario Franceschini (che da un mesetto si è fatto crescere la barba) ironizzando sul fatto che Renzi gli ha copiato non solo lo slogan delle primarie del 2009, «Adesso», ma anche la mise camicia bianca e cravatta senza giacca: «Matteo, prossima tappa la barba?».

il Fatto 14.9.12
L’Altrapolitica può vincere
di Paolo Flores d’Arcais


I partiti del fronte unico conformista di Napolitano e Monti sono in grande ambascia, i sondaggi dei diversi istituti demoscopici annunciano unanimi che alle prossime elezioni il primo “partito” sarà quello che l’establishment esorcizza e insulta come “antipolitica”, ma in realtà è solo buona volontà di Altrapolitica in contrapposizione ai disastri della Casta. Le intenzioni di voto per Grillo e Di Pietro, sommate, superano infatti ormai quelle del Pd, da un anno vincitore “in pectore”, che con l’attuale legge elettorale si prenderebbe il 55% dei seggi alla Camera. In realtà i voti per l’Altrapolitica sono già molti di più, poiché nel conteggio non compaiono quelli di una eventuale lista di società civile legata alle lotte degli ultimi 15 anni e promossa dalla Fiom, voti che in buona misura stentano a convergere su M5S e Idv, ma che rifiutano ormai Sel, Pcd’I e altre Rifondazioni.
Nel paese il mood anti-Casta e il bisogno di Altrapolitica, benché non perfettamente coincidenti, sono del resto maggioranza schiacciante, visto che l’insieme dei partiti ha da mesi nei sondaggi il gradimento stabile di un miserando 5%. Per questo il fronte unico conformista di NapolitanoeMontivuoleatamburbattenteunalegge elettorale peggiore del Porcellum: per impedire che il prossimo Parlamento rispecchi questa travolgente volontà di svolta. Ma i marchingegni di leggi truffa non basteranno più. Il peso del “partito” dell’Altrapolitica alle urne non può che aumentare. L’esasperazione e la collera di decine di milioni di italiani contro tutte le nomenklature partitocratiche, è tale che ormai si esprimerà nel voto anche se Grillo e Di Pietro non si emendassero dai difetti macroscopici qui più volte segnalati. Ed è giusto così. La Casta tenta di correre ai ripari scimmiottando l’Altrapolitica, cercando di ricucirsi una verginità di società civile e di “nuovo” a forza di retorica e di “rottamazioni”. Ma che credibilità possono avere i Montezemolo e i Renzi, o i Passera e i Bonanni unti dal cardinal Bagnasco? La potenza di fuoco del monopolio mediatico sarà dispiegata oltre ogni indecenza, ma l’organicità di questi signori alla Casta, di cui vogliono semplicemente scalzare i vertici per prenderne il posto, è troppo smaccata perché l’equivoco possa durare. Il fronte unico conformista può vincere solo se l’Altrapolitica (dal M5S all’Idv, dai movimenti alla Fiom, dalle testate libere agli intellettuali pubblici) nei prossimi mesi peccherà ancora più “fortiter”, per atti e/o omissioni, piccinerie di bottega in primis.

Corriere 14.9.12
Pressing su Bersani: disinneschi le primarie
Tra i big del partito prevale il sarcasmo Ma i veltroniani: «Così ci sono troppi rischi»
di Monica Guerzoni


ROMA — Rinchiuso per ore ai piani alti del Nazareno con un centinaio di economisti, Pier Luigi Bersani ha scelto di non commentare la partenza del camper di Matteo Renzi. E anche ai suoi ha suggerito (non imposto) una sorta di consegna del silenzio. Ma a sera, dalla festa del Pd di Firenze, Massimo D'Alema prende il toro per le corna. Fa gli auguri a Renzi («uno dei nostri») e a Laura Puppato, fresca di autocandidatura alle primarie. Poi dice di aver letto un sondaggio in cui «il 55% degli eletti del Pd» voterebbe Bersani e solo il 22-23% Renzi. E lui, l'ex premier? «Io mi riconosco nel sentimento dei più».
All'una, quando il sindaco di Firenze chiude l'intervento, i cellulari dei capicorrente squillano a vuoto. Rosy Bindi sceglie il «no comment» e, a caldo, solo Dario Franceschini accetta di parlare di una diretta video che, «forse per snobismo», non ha seguito. Il capogruppo mostra sul palmare una foto che lo ritrae sul palco durante le primarie 2009, quella in cui a correre contro Bersani era lui e non Renzi: «Non siamo identici? Stessa camicia bianca, stesso taglio di capelli, stesso slogan...». A sera l'ironia di Franceschini, riapparso con folta barba alla fine dell'estate, approda su Twitter: «Matteo, prossima tappa la barba?». La rottamazione per Franceschini è un «tema sacrosanto, ma è da primarie di partito e non di coalizione». E Beppe Fioroni si dice «felice» per non essere stato rottamato: «Nel '68 avevo poco più di nove anni e Matteo mi ha graziato. Ma speriamo che non mi venga a prendere, come ha detto di voler fare con gli elettori del Pdl».
Il registro sarcastico intonato dai dirigenti, tra ironie e silenzi ostentati, rivela il fastidio e la preoccupazione per la corsa del primo cittadino, 37 anni e molto fiato nei polmoni. Il vicesegretario Enrico Letta, che pure nel merito condivide molte delle posizioni di Renzi, non ha apprezzato il passaggio sulla presunta «debolezza» del Pd nei giorni della caduta di Berlusconi: «La nascita del governo Monti è stato il segno della nostra forza».
Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione, rende a Renzi il merito di aver allestito un evento «ben fatto, senza nascondere le cose spigolose», ma sui contenuti ci va giù duro: «Dov'è la novità? La continuità con la terza via di Tony Blair è la proposta più antica. Con queste idee vintage, vecchie di vent'anni, Renzi mi fa meno paura di ieri. Sono le cose che diceva D'Alema negli anni 90...». E la patrimoniale? E la difesa dei più deboli dagli effetti del capitalismo?
Bersani «è tranquillo», assicurano i fedelissimi. Per tutto il giorno si è concentrato sulla stesura di un programma di «europeismo progressista», che Stefano Fassina sintetizza con il leitmotiv «cambiare rotta nell'area euro per lo sviluppo, il lavoro e la riduzione del debito». Ma le primarie nascondono insidie e Bersani lo sa. Il pressing su di lui perché le depotenzi è forte e il 6 ottobre il segretario ha convocato l'assemblea nazionale, per discutere di regole e della Carta d'intenti. Tra i veltroniani il giudizio negativo è diffuso. «Fatte così — teme Walter Verini — le primarie sono molto rischiose. Vedo uno sferragliar di truppe che non promette nulla di buono». Veltroni non ha dimenticato come la road map promessa da Bersani fosse diversa: legge elettorale, programma, coalizione, regole e, solo alla fine, primarie. E di certo non gli è sfuggito quel «non siete la meglio gioventù» che Renzi ha scagliato contro la generazione del '68. Chi era nello staff del Lingotto di Veltroni, racconta di provare uno sgradevole senso di «sovrapposizione» con la scenografia e le parole d'ordine di allora. Quando a invocare gli Stati Uniti d'Europa o a declamare «noi non siamo contro la ricchezza, ma contro la povertà», non era Renzi, ma l'ex sindaco di Roma.

Repubblica 14.9.12
Ma tra i democratici ora sono in diversi a pensare di “correre” per “pesarsi”.
La tentazione della Bindi, le paure degli ex Ppi
Il segretario: quel discorso è un autogol


ROMA — Il discorso di Renzi Pier Luigi Bersani lo guarda alla tv tra una riunione e l’altra. Sceglie di non commentare, di non invadere la giornata del suo principale rivale. Quel che trapela, però, è che il segretario considera l’appello del sindaco al centrodestra un autogol. Un’affermazione che servirà a ricompattare il centrosinistra attorno a lui. Che lo rafforza, piuttosto che indebolirlo. Il sondaggio di Swg - con Bersani al 55 e Renzi al 27 per cento - è un altro dato positivo. Anche se, tutte le altre rilevazioni che i democratici hanno fra le mani parlano di un rottamatore indietro di 10-11 punti, ma in crescita, con il segretario che non va mai oltre il 43 per cento. Quel che preoccupa, ora, è la tenuta del partito. La candidatura di Laura Puppato può aprire un valzer inaspettato. Gli ex popolari, ad esempio, non si sentono rappresentati, e potrebbero decidere di candidare qualcuno per pesarsi, e pesare, di più. Dario Franceschini nega: «Non si torna indietro. Ho scelto la strada del rimescolamento e da lì non mi muovo». Ma Beppe Fioroni, che prepara per domani un significativo incontro con il presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai, il segretario Cisl Raffaele Bonanni, il presidente delle Acli Andrea Olivero - dice invece: «Il problema non è solo se candidarsi o meno alle primarie. Il problema è se restare. Avevamo promesso agli elettori di non rifare l’Unione, che non è un’alleanza, è una metodologia di governo. E invece». Poi c’è Rosy Bindi, la più tentata a correre. Ha subìto troppi attacchi, sia sul fronte laicità che su quello anagrafico, e non si è sentita per niente difesa da Bersani. Anche il 7 o l’8 per cento - con primarie che, con più candidati, arriveranno senz’altro al doppio turno - potrebbero garantirle una rivincita contro giovani turchi e rottamatori.
(a.cuz.)

Repubblica 14.9.12
Il pressing di Napolitano: legge elettorale da cambiare
E Bersani riapre la trattativa: “Ma non si modifica per peggiorarla”
di Giovanna Casadio


ROMA —Torna alla carica Napolitano. L’ultimo pressing del capo dello Stato per cambiare la legge elettorale - e restituire ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere rappresentati in Parlamento - arriva ieri in un colloquio riservato con Bersani. Poche parole chiare, quelle che il presidente ripete da mesi, e cioè che il Porcellum è una vergogna; che nessuno si senta esonerato dalla responsabilità di cambiarlo.
Non hanno apprezzato al Quirinale lo scontro degli ultimi giorni tra i partiti, che ha fatto piombare di nuovo la riforma elettorale nella palude. Meno ancora è piaciuto l’irrigidimento delle posizioni: Casini, che non esclude un blitz con il Pdl; Bersani, che dice di non accettare «ricatti ». Se non ci fosse una schiarita, il presidente della Repubblica sarebbe pronto a inviare un messaggio. Nessun leader pensi di nascondersi dietro ragioni o, peggio, convenienze di parte: è il
ragionamento del Colle. Un compromesso, una mediazione quindi va trovata a tutti i costi. Il colloquio con Bersani precede l’incontro di Napolitano con Schifani, che poi dichiara: «Questo nodo deve essere sciolto pubblicamente e in tempi brevi». Ma Napolitano insiste con il segretario del Pd.
Bersani ha ribadito, in questi giorni: «Noi stiamo lavorando per cambiare il Porcellum, ma non si può cambiarlo a tutti i costi ». Insomma, il leader democratico ha avuto la tentazione di tenersi la legge attuale, piuttosto che cedere su una questione che, a questo punto, diventa politicamente dirimente: il premio di maggioranza. Sulle preferenze infatti il Pd può anche trattare: lo hanno detto Enrico Letta e Rosy Bindi, lo ribadisce Anna Finocchiaro.
Una trattativa si fa cedendo una cosa importante per non rinunciare a un’altra, che si ritiene ancora più indispensabile. E sul principio che «la sera delle elezioni il paese deve sapere chi governa», il leader democratico non è disposto a transigere. Anche perché qui si gioca la partita politica vera e propria. Un modello proporzionale con un premio al partito (non più alla coalizione), e per giunta basso, significa assegnare un sicuro vantaggio a chi rema per un Monti bis. Piace anche a Berlusconi che, se sconfitto, può sempre pensare di rientrare in gioco. Il Pd finora ha puntato su un premio ampio, almeno del 15%.
Solo del resto, in un sistema che mantiene il bipolarismo, le primarie del Pd hanno un senso. Se il premier lo si decidesse post
voto, anche in caso di vittoria nella competizione per la premiership del centrosinistra Bersani avrebbe assai poche possibilità di guidare il futuro governo. Ne ha parlato con Prodi, il segretario, nell’incontro a Bologna. Il Professore è un bipolarista convinto: per gli stessi prodiani (che danno sempre un occhio all’elezione
in primavera del prossimo presidente della Repubblica) sarebbe meglio giocare con queste bocce, con la legge elettorale attuale, piuttosto che passare dalla padella alla brace. E se il problema è risalire la china della sfiducia dei cittadini nei confronti di un Parlamento di nominati, allora si può pensare piuttosto a «primarie per scegliere i parlamentari» del Pd, tenendosi il Porcellum. Però nell’incontro al Colle, Bersani ha garantito che la trattativa per cancellare il Porcellum non sarà abbandonata.
La linea della segreteria e dei bersaniani la riassume Maurizio Migliavacca: «L’attuale legge porcata non va bene. Ma tra tenersi questa e andare verso una super porcata c’è di mezzo il buonsenso». Rimanda la palla nell’altra metà campo, nel centrodestra:
«Noi abbiamo presentato la nostra proposta, si dibatta pubblicamente, senza colpi di mano. Se c’è la garanzia per la stabilità del paese ne discuteremo, altrimenti sarà scontro». I montiani del Pd premono nell’altra direzione: cambiare a tutti i costi la legge porcata. Stefano Ceccanti, uno dei supporter dell’Agenda Monti (per la continuità tra le politiche dell’attuale governo e di quello che sarà eletto), avverte: «Non si può neppure pensare che gli altri partiti accettino una posizione che li penalizzerebbe. E comunque, se ci fosse la tentazione di tenersi il Porcellum, sarebbero l’Udc e il Pdl a coalizzarsi per giocare all’attacco e portare a casa quello che vogliono».
Alfano torna con un altolà sul premio di maggioranza: «Vorremmo che chi vince abbia un premio, ma che sia ragionevole». Stando ai sondaggi che danno il primo partito tra il 26 e il 27%, un premio del 15% «è troppo». Perciò preferenze e premio di governabilità basso sono i “paletti” del Pdl. La preoccupazione di Casini, che tifa per un Monti bis e per il proporzionale, è che «qualcuno alzi l’asticella per tenersi il Porcellum». Concretamente. Martedì la conferenza dei capigruppo fisserà quando la riforma va in aula a Palazzo Madama. Siamo davvero allo showdown.

Repubblica 14.9.12
Il bersaniano Fassina: “In bocca al lupo, ma non convince”
“Sotto gli slogan niente idee e la smetta di sparare sul Pd”


«Vengo da una settimana di incontri, anche difficili, con i lavoratori di Alcoa e Carbosulcis, con i precari dei call center in bilico, con i piccoli imprenditori assediati in Val di Susa. Nessuno mi ha chiesto quanti dirigenti del Pd rottamiamo. Mi hanno chiesto cosa facciamo per il loro lavoro e le loro imprese». Stefano Fassina risponde così al lancio della candidatura di Matteo Renzi. Ne apprezza l’energia, gli augura innanzi tutto «in bocca a lupo», ma il bersaniano responsabile economico del Pd pensa che i bersagli del sindaco di Firenze siano sbagliati. Che manchi un’analisi adeguata della crisi. Che vincere sia uno strumento, non il fine.
«Ho visto tanti slogan, effetti speciali, fuochi d’artificio. Poche idee. Veniamo da una stagione lunga e piuttosto infelice di slogan ed effetti speciali».
Entrare col diserbante dentro la pubblica amministrazione, abbassare le tasse, far sì che questo non sia più il Paese dei capi di gabinetto, non sono idee condivisibili?
«Sì, ma sono punti acquisiti da tempo nel nostro programma. Mi colpisce invece che non ci siano state indicazioni di prospettiva rispetto all’Europa. Dobbiamo continuare su una rotta che fa morire migliaia di imprese, determina centinaia di migliaia di disoccupati, aumenta il debito pubblico? O dobbiamo cambiarla attraverso l’unione fiscale, l’allentamento concordato dell’austerità autodistruttiva?».
Le lenzuolate di Bersani avevano come obiettivo fondamentale la valorizzazione del merito e dei talenti. Da uno che disse “Sto con Marchionne senza se e senza ma”, ci si aspetterebbe qualche parola sui diritti dei lavoratori, soprattutto nel giorno in cui il suo eroe accantona il mitico programma Fabbrica Italia».
E però, quando attacca i dinosauri del partito, giù applausi.
«Per un candidato progressista il bersaglio principale non dovrebbe essere il proprio partito. Dovrebbe misurarsi con la destra, con i danni che la destra berlusconiana ha fatto all’Italia. Renzi è stato ingeneroso sulla nascita del governo Monti. Abbiamo il merito storico di aver contribuito a chiudere una stagione che portava il Paese alla deriva. Se fossimo anche noi andati ad Arcore, probabilmente Berlusconi
Per vincere bisogna pescare nel centrodestra, oppure no?
«Bisogna stare attenti, che per raccogliere i voti del centrodestra non si finisca nell’altro campo. La priorità è oggi riportare a votare in modo convinto i nostri, raccogliere le domande di cambiamento che arrivano dal vasto mondo del centrosinistra».
Se fossimo andati ad Arcore come lui, probabilmente Berlusconi sarebbe ancora a palazzo Chigi

Corriere 14.9.12
I 740 mila euro per i manifesti del Pd Le follie del Lazio
di Sergio Rizzo


ROMA — La targa sopra il portone dice: «Carlo Goldoni, padre immortale della italiana commedia, dimorò in questa casa». Se avesse saputo cosa sarebbe accaduto fra quelle mura due secoli e mezzo dopo, il celebre drammaturgo veneziano vi avrebbe magari ambientato un atto unico. Protagonista: il solito Pantalone. Perché chi paga la ristrutturazione di un appartamento signorile della Regione Lazio nello stabile di largo Goldoni 47 all'angolo con via dei Condotti, a Roma, è sempre lui. Cioè noi. I condomini, dopo aver sventato il tentativo di piazzare tappeto rosso e palmizi stile Sanremo all'ingresso dopo l'avvenuta trasformazione in elegante «ufficio del centro» dell'ex ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo di un secondo alloggio regionale nel palazzo, paventano che i lavori siano il preludio per l'apertura di un'altra sede di rappresentanza ancora. Stavolta, della governatrice Renata Polverini.
Fosse così, saremmo davvero alla commedia. Non soltanto perché quell'appartamento proviene da un antico lascito per opere di bene al Santo Spirito. Soprattutto perché a poca distanza, in via Poli, c'era già un ufficio «di rappresentanza» del consiglio regionale. Era stato affittato da Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato, al tempo della giunta di Francesco Storace e due anni fa si era deciso di rescindere il contratto: 320 mila euro l'anno. Una spesa demenziale, visto che il consiglio regionale del Lazio, come del resto la giunta, ha una più che confortevole sede a Roma. Chiudere quell'ufficio era il minimo. Peccato soltanto, lamenta Scarpellini nella causa civile intentata contro la decisione, che la rescissione sia avvenuta oltre i termini. E se il tribunale dovesse accogliere la tesi sarebbero dolori: 700 mila euro. Più la parcella del legale. Un avvocato esterno, ovvio.
Ma ce ne fossero di rogne così, con l'aria che tira oggi dalle parti della Pisana. La storia incredibile dei finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari innescata dai Radicali con la meritoria pubblicazione sul loro sito internet del bilancio 2011, è ormai una palla sempre più grossa che rotola a valle. Inarrestabile e minacciosa, come dimostra l'inchiesta per peculato che si è abbattuta sull'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito. Ma non servivano certo le cravatte di Marinella, le cene a base di ostriche, le bottiglie di champagne, i servizi fotografici, i Suv, né le altre spese sfrontate che hanno inghiottito i lauti contributi al partito di Silvio Berlusconi e sulle quali ora indaga la magistratura, per capire che si era passato il segno. E non era nemmeno necessario guardare, come molti fanno oggi con ipocrita stupore, quella cifra rivelata dai radicali, il cui gruppo composto da due persone, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha incassato nel solo 2011 ben 422 mila euro. Il quadruplo, in proporzione, dei soldi che la Camera dei deputati stanzia per i gruppi parlamentari.
Era sufficiente, diciamo la verità, controllare i bonifici che arrivavano di volta in volta sul conto corrente. Per questo fanno sorridere oggi tanto il decalogo sui tagli dei costi della politica proposto dal consigliere udc Rodolfo Gigli quanto dichiarazioni come quelle del capogruppo del Pd Esterino Montino, che annuncia un tour de force per «ridurre le spese della giunta e del consiglio». Mentre alcune misure che avrebbero introdotto l'unico antidoto valido alla dissipazione di denaro pubblico, vale a dire la trasparenza, sono finite su un binario morto. È il caso della legge sull'anagrafe degli eletti e dei nominati, proposta sempre dai Radicali nel 2010 e arenata in qualche cassetto di qualche commissione.
Ai gruppi finiscono cifre inimmaginabili. Tanti soldi che non si sa nemmeno come spenderli. Basta dare un'occhiata ai due bilanci dei gruppi finora resi noti: oltre a quello dei Radicali, quello del Partito democratico. Il gruppo del Pd ha incassato nel 2011 la bellezza di 2 milioni 17.946 euro. Che divisi per i 14 componenti fa oltre 144 mila euro pro capite: quasi il triplo dei contribuiti erogati da Montecitorio. Inutile allora stupirsi che i democratici spendano 210.207 euro (!) per «riunioni, convegni, conferenze, incontri», 622.083 euro (!!) per i collaboratori e 738.863 euro (!!!) per «diffusione attività del gruppo, stampa manifesti». E nonostante questo ci sono ancora in cassa 304 mila euro. Invece ai Radicali, che con i contributi al gruppo ci hanno pagato anche un convegno sui diritti civili a Tirana oltre ai congressi del partito a Chianciano e a Roma, sono avanzati 270 mila euro. Così da pensare che si possa ripetere la scena del ferragosto 1997, quando Marco Pannella in piazza del Campidoglio restituì i denari del finanziamento pubblico regalando 50 mila lire a chi mostrava un documento.
Tanti soldi, che contribuiscono ad alimentare una macchina completamente impazzita. Basta dire che nessuno sa dire con esattezza quanta gente gira intorno al consiglio regionale. Lo scorso anno i dipendenti ufficialmente presenti in quella struttura erano 786. I collaboratori dei gruppi, 180. Le persone addette alle segreterie dell'ufficio di presidenza, 87. Quelle delle segreterie delle commissioni, 71. Ma è niente in confronto alle poltrone che danno diritto a chi le occupa di incassare un'indennità aggiuntiva rispetto a una retribuzione base minima di 7.211 euro netti al mese. Sono un'ottantina, decisamente più numerose dei 70 consiglieri. Ci sono 17 gruppi consiliari, otto dei quali composti da una sola persona. Fra commissioni e giunte se ne contano 21. Le sole commissioni permanenti sono sedici: due più della Camera, che ha però 630 deputati. Alcune, a dir poco stravaganti. C'è per esempio la commissione Affari comunitari e internazionali, presieduta da Gilberto Casciani della Lista Polverini: nel 2012 si è riunita quattro volte. E poi la commissione Piccola impresa che fa il paio con la commissione Sviluppo economico. Oppure la commissione Lavori pubblici, più la commissione Urbanistica, più la commissione Ambiente. Quest'ultima, però, si occupa pure, chissà in base a quale criterio, della «cooperazione tra i popoli». Avete letto bene: «cooperazione tra i popoli».
Non rammentiamo più quante volte hanno promesso che le avrebbero ridotte. Ricordiamo invece bene le affermazioni rese dal presidente del consiglio Mario Abbruzzese il 22 dicembre 2011: «Quest'anno chiudiamo il bilancio con circa sei milioni di risparmi rispetto al 2010. Dà il senso della strada che abbiamo intrapreso». Il consuntivo dell'anno scorso, ancora non approvato, parla di impegni di spesa per 103 milioni 529.311 euro. Mezzo milione oltre le previsioni iniziali e ben sei milioni 772.701 euro in più nei confronti del 2010. L'aumento è del 7 per cento. Se questa è la strada...

Corriere 14.9.12
Immigrati senza rappresentanza: quel deficit politico da superare
di Stefano Jesurum


Un futuro segretario del Partito socialista al potere, un presidente che siede alla Casa Bianca, e un formidabile attaccante della Nazionale di calcio. Francia, Stati Uniti, Italia. Le differenze (di modernità, di civiltà, di cultura) si misurano anche così, mettendo in fila i nomi di Harlem Désir, Barack Obama e Mario Balotelli. Di Obama e Balotelli sappiamo ciò che ci basta, del 52enne Désir è sufficiente dire che ha un padre originario della Martinica, una madre alsaziana, che è eurodeputato e che è stato presidente di Sos Racisme.
Il risultato del confronto è presto detto: manca ancora davvero parecchio prima che gli stranieri e soprattutto i figli di stranieri entrino a pieno titolo nell'immaginario della politica italiana, senza eccezione di schieramenti. Insomma, non esiste alcuna cultura della rappresentanza che tenga conto del multiculturalismo. La stragrande maggioranza dei «nostri» immigrati non vota anche se, per esempio, è proprio da quel mondo che arrivano migliaia di titolari di nuove aziende. È vero che negli anni qualche nome esotico è stato infilato qua e là nelle liste di quasi tutti i partiti, è vero che qualcuno è perfino stato eletto (salvo poi, come l'ex Pd Khaled Fouad Allam, non essere ricandidato tra mille polemiche), però la realtà è che da noi — diciamolo — l'idea di affrontare il tema dell'integrazione e dell'immigrazione, in particolare quella islamica, è considerata dai politici un grave atto di autolesionismo elettorale dal momento che «la gente» è o viene considerata provinciale e un pochino razzista. Il che, a studiare analisi e sondaggi, magari un po' vero lo è. Alcuni volonterosi, in qualche amministrazione locale, si sono inventati i «consiglieri aggiunti immigrati», ovviamente senza diritto di voto. E il nodo è proprio questo: finché gli «extracomunitari» non possono votare come si pensa possano essere «candidati» ad alcunché?
Altro che rappresentanza. Secondo i dati Istat, nel 2009 in Italia si sono celebrati circa 32 mila matrimoni con almeno uno straniero, il 14% del totale. Quelle spose e quegli sposi, almeno, alle urne ci potranno andare. Bella consolazione.

Repubblica 14.9.12
Stasera su RaiUno si parla di pedofilia in famiglia
Conduce Cecilia Dazzi: “Sono le storie di chi ha affrontato l’uomo nero”
“La vita contro”, piccole vittime si raccontano
di Alessandra Vitali


ROMA «Mio padre aveva rapporti sessuali con me e con mia sorella. Poi lasciava una monetina sul comodino». Andrea Coffari era bambino nel 1969, in Sicilia. Di quell’esperienza mai cancellata ha fatto una missione: «Difendere i ragazzini dall’indifferenza e dall’egoismo degli adulti». Maria Halilovic ha 29 anni. Figlia di genitori bosniaci, nata a Torino, tredici tra fratelli e sorelle, la vita in un campo rom, un padre alcolista che «picchiava tutta la famiglia e violentava noi ragazzine». Andrea e Maria si raccontano a La vita contro, la docufiction che debutta questa sera su RaiUno, in seconda serata, condotta da Cecilia Dazzi. Un progetto coraggioso per l’ammiraglia Rai, quello di affrontare un tema di forte impatto emotivo: la pedofilia in famiglia, con le testimonianze delle vittime che hanno lottato per risanare la ferita. Racconti senza filtro, lucidi. Dettagli che restituiscono la portata del dramma. Interviste alternate alla fiction che ricostruisce le vicende. Una produzione Vela-Film, la regia è di Tommaso Agnese, l’autrice è Carlotta Ercolino.
«Il filo conduttore è il coraggio di vivere — spiega Cecilia Dazzi — persone normali che hanno affrontato l’uomo nero e sono diventate uomini e donne liberi e più forti».
Andrea deve molto a sua madre. «Ha avuto il coraggio di denunciare mio padre, si è messa contro un tabù millenario. Ne è uscita con le ossa rotte. Si rifugiò dalle suore di clausura, non a pregare ma a litigare con Dio». «Una madre — dice Cecilia Dazzi — lo sente che dietro ai silenzi dei suoi figli c’è un’ombra. A volte il male dorme al tuo fianco».
La prima volta Maria aveva tre anni. La fuga a otto anni, l’incontro con un poliziotto, la denuncia, «ma nessuno è mai intervenuto». Il collegio a Napoli, la casa famiglia alle porte di Roma, gestita da suore. Lì Maria frequenta la scuola fino alla terza media. Un giorno ci riprova: «Ho saputo dove vivevano i miei, ci sono andata, mia madre mi ha cacciata, ha detto che non mi volevano più. Li ho cancellati. Spero che mio padre muoia, e con dolore». Dice che l’ha aiutata Il piccolo principe: «Le suore, per punizione, me lo fecero copiare tutto. Ricordo una frase, “i grandi non capiscono mai niente da soli, e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta”. Mi ha insegnato tanto».

l’Unità 14.9.12
Troppi nomi per un regista I misteri del video-trash
La prima volta di Morsi in Europa «Il Profeta è una linea rossa»
di Marina Mastroluca


Il generale Dempsey ha provato a convincere il reverendo Terry Jones che non è il caso di insistere. E che continuare a far circolare il film in cui Maometto è un donnaiolo, truffatore e anche pedofilo non rientra nell’interesse nazionale. Il pastore anti-islamico della Florida, divenuto celebre per i suoi ripetuti roghi del Corano, si è preso del tempo per pensarci, in nome della libertà di parola. Jones in queste ore era stato indicato come co-produttore del film che sta infiammando l’islam. Lui si ritaglia una parte minore in commedia, sarebbe stato contattato solo qualche giorno fa e martedì scorso, l’11 settembre, avrebbe postato il trailer di «Innocence of muslims». Regista, produttore e sceneggiatore sarebbe un Sam Bacile, che si è lasciato intervistare dal Wall Street Journal al telefono, ma che richiamato al numero è risultato inesistente: ha risposto un giovane, da poco insediato nell’appartamento, dove precedentemente viveva un tal Nakoula Basseley. Sam Basseley e Nakoula sono anche i nomi usati per il casting del film (60 attori, tre mesi di riprese, costo 5 milioni di dollari).
Negli Usa non risulta nessuna persona con il nome di Sam Bacile, mentre un Nakoula sembra sia stato in carcere fino al giugno del 2011 per truffa. Singolarmente, per i suoi affari, il tipo in questione usava nomi come Mark Basseley Youssef e Youssef Basseley.
Sam Bacile (un cognome che suona nella pronuncia americana assai simile a Basseley) ha tutta l’aria di uno pseudonimo. Più difficile dire chi nasconda. Un piccolo truffatore, un Nakoula che la stampa Usa indica come cristiano copto di origini egiziane? Non è chiaro che ruolo abbia avuto, se sia solo una facciata. Dietro in ogni caso, stando ai giornali del Cairo, sembra che ci siano almeno i soldi di Morris Sadek, americano di origine egiziane, anche lui copto, notoriamente anti-islamico. Al Wall Street Journal, Nakoula-Sam si era descritto invece come un ebreo israeliano, di professione promotore immobiliare, che si era prestato per fare un film «politico» grazie ai finanziamenti ottenuti ha detto da un centinaio di donatori «ebrei».
Sam o Nakoula che sia, al momento preferisce far perdere le proprie tracce per ragioni di sicurezza. Preoccupati anche gli attori, che hanno detto di aver recitato un’altra storia, dal titolo «Desert warriors». Maometto non figurava tra i personaggi. Il protagonista era un certo dr Matthews, leader di un gruppo di guerrieri. «Siamo scioccati», dicono gli attori. Le loro voci sono state doppiate. E adesso hanno paura.

Repubblica 14.9.12
Hillary: “Ripugnante quel film su Maometto”
Il regista avrebbe ingannato la troupe e gli attori. Giallo sui suoi finanziatori
di Angelo Aquaro


NEW YORK — Il regista anti-Islam che diceva di essere l’ebreo Sam Bacile in realtà è un cristiano di tradizione copta, Nakoula Basseley Nakoula, 55 anni, che adesso si nasconde con moglie e tre figli nella casetta a due piani di Cerritos, Los Angeles, vigilata giorno e notte da sei auto della polizia nel timore della vendetta dei fanatici musulmani, la porta protetta da una statua di mezzo metro della Vergine col Bambino.
È il suo film «ripugnante e riprovevole » ad aver provocato le proteste e le violenze in tutto il mondo arabo: lo dice Hillary Clinton nel disperato tentativo di placare la rabbia che ha ucciso a Bengasi e forse anche a Sana’a e che da tre giorni assedia l’ambasciata americana al Cairo. Il Medio Oriente brucia e invitando alla calma i paesi arabi il segretario di Stato ripetere quelle “scuse” che Mitt Romney rimprovera all’amministrazione. «Gli Stati Uniti non hanno nulla a che fare col video» dice Hillary. Ma è difficile far capire al resto del mondo — aggiunge — che non l’avremmo bloccato anche se avessimo potuto: noi non impediamo l’espressione delle opinioni «per quanto ripugnanti».
Quelle idee ripugnanti, il cristiano Nakoula le ha condensate in “L’Innocenza dei Musulmani”, il film prodotto con il figlio, Abanob Basseley, 21 anni, e girato in 12 giorni in una chiesa di Los Angeles proiettando sui teloni lo sfondo del Medio Oriente. Aveva reclutato la troupe per un film che, diceva, doveva chiamarsi “Il Guerriero del Deserto”. «Ci hanno ingannati e adesso ho paura» piange con la Cnn una delle attrici, Cindy Lee Garcia, che turbata dai morti e dalle proteste teme per le ritorsioni e mostra sconsolata la sceneggiatura nel quale il personaggio che nel doppiaggio sarebbe diventato Maometto era indicato con l’insospettabile nome di George.
Nakoula alias Bacile ha alle spalle una lunga storia di truffe finanziarie, è finito nei guai anche per contraffazione di medicinali e oltre al rimborso di 790mila dollari è stato condannato a 21 mesi di prigione a Lompoc, dove ha concepito e scritto il film per denunciare “il cancro dell’Islam”. Con quali soldi? Invece dei 5 milioni di finanziamento di “sostenitori ebraici” — come fin qui aveva sbandierato — il film sarebbe costato tra i 50 e 60 mila dollari: che l’improvvido regista ora dice di essersi procurato grazie alla famiglia egiziana della moglie.
Il suo socio sarebbe Steve Klein, un agente assicurativo di Hemet, California, autoproclamatosi “consulente del film”, che vanta di essersi “insanguinato le mani” in Vietnam durante la guerra ma oggi è noto alla polizia per la frequentazione di gruppi estremisti cristiani e anti-islamici come i Christian Guardians e i Courageous Christians United. È lui che avrebbe appunto consigliato a Nakoula di arruolare Terry Jones: chi meglio del reverendo del rogo del Corano per incendiare ancora il mondo arabo?

Sette del Corsera 14.9.12
Israele «Non siamo mai stati così pronti»
Bomba o non bomba soffiano venti di guerra
di Francesco Battistini

qui
Repubblica 14.9.12
Il tempo lungo delle primavere
di Bernado Valli


ASTRA (SIRIA) ERO in una valle della Siria del Nord, chiamata Astra, frequentata da contrabbandieri e da ribelli, e trascurata dalle carte geografiche. È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale», uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.
Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ». Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati. Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere, non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano. Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi. L’interrogativo li ha lasciati perplessi.
Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra, ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti. Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così, a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia, non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il sangue a Bengasi e ad Aleppo.
Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo. Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.
Insomma l’impegno iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini. E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.
A poche settimane dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le condoglianze di un alleato.

Repubblica 14.9.12
“Via chi ha difeso la strage di Breivik” Gallimard punisce l’editor xenofobo
Parigi, la casa editrice lo ha allontanato dal vertice
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Richard Millet abbandona il comitato di lettura di Gallimard, continuerà a seguire come editor i suoi autori, ma è invitato a defilarsi, a tenersi a distanza. Non è stato licenziato, la soluzione trovata sembra un compromesso tra l’autore dell’elogio di Anders Breivik e Antoine Gallimard. Quest’ultimo, dopo le proteste di decine e decine di scrittori, fra cui il Nobel J. M. G. Le Clézio, non poteva far altro che abbandonare al proprio destino il sostenitore di tesi razziste. Ha solo cercato di evitare lo scontro diretto e magari un conflitto legale: l’editor non è stato cacciato, ma è stato costretto ad allontanarsi «volontariamente ». Lunedì scorso, il colloquio tra Millet e Antoine Gallimard, a quel che si dice, era stato tempestoso. E l’autodifesa pubblicata da Millet su L’Express — che conteneva ancora bordate contro la minaccia alla cultura europea, incarnata, secondo lui, dall’immigrazione extracomunitaria — non ha fatto altro che aggravare la sua posizione.
Tutto era cominciato a fine agosto con la pubblicazione di un “Elogio letterario di Anders Breivik” dall’editore Pierre — Guillaume de Roux. Appena arrivano le prime anticipazioni, le tesi di Millet suscitano una valanga di proteste, anche perché l’autore è stato l’editor di Jonathan Littel e di Alexis Jenni, vincitori del Goncourt nel 2006 e 2011. Ma se Millet ha fiuto letterario, le sue posizioni politiche sono vicine alle tesi dell’estrema destra: «Breivik è senza dubbio quel che meritava la Norvegia. È figlio della rovina familiare come della frattura ideologico-razziale che l’immigrazione extracomunitaria ha introdotto in Europa da una ventina d’anni». La decadenza del Vecchio Continente, in particolare quella culturale, sostiene Millet, sarebbe insomma dovuta all’immigrazione e al trionfo del multiculturalismo. Poteva restare il libro di uno scrittore che flirta con le idee di un Jean-Marie Le Pen, ma Millet non è un personaggio qualunque, è membro del comitato di lettura di Gallimard, cioè della più blasonata casa editrice francese. Non è in discussione la libertà di espressione, gli ha scritto Antoine Gallimard, ma il suo nome coinvolge inevitabilmente anche le edizioni per cui lavora: «Appartenere alla casa implica una forma di solidarietà, un membro del comitato di lettura la rappresenta. Non posso approvare nessuna delle sue tesi politiche. Questa non è la mia posizione personale, ma è da sempre quella della casa editrice».
La coabitazione, insomma, non era più possibile. Invitandolo ad abbandonare «volontariamente » il comitato di lettura, Antoine Gallimard dovrebbe aver messo fine alle polemiche che agitavano la sua azienda e scongiurato il rischio di vedere qualche autore di primissimo piano sbattere la porta. Certo, Millet continuerà a seguire i “suoi” autori, ma è evidente che il passo di ieri è una rottura. Del resto, l’editor non ha intenzione di rimangiarsi le sue tesi. Continuerà a sostenerle e a considerarsi anche lui, come la letteratura europea, una vittima del multiculturalismo: «Perché mi uccidete?» era il titolo della sua autodifesa uscita appena due giorni fa su L’Express.

Corriere 14.9.12
Il mistero di Alessandro Magno: un santo o il re del male?
La sua leggenda, ponte tra Occidente e Oriente
di Pietro Citati


Alcuni grandi libri di storia furono dedicati alla figura di Alessandro. Ricordo in special modo la soave e delicata Vita di Plutarco (Bur, a cura di Domenico Magnino), le grandiosamente romanzesche Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo (Fondazione Lorenzo Valla, a cura di John E. Atkinson e Tristano Gargiulo), la precisa eleganza dell'Anabasi di Alessandro di Arriano (Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, a cura di Francesco Sisti e Andrea Zambrini). Sono tutte opere scritte tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, che si propongono, in modi diversi, e secondo tradizioni diverse, di rappresentare le vere vicende storiche di Alessandro.
I testi di Plutarco, di Curzio Rufo e di Arriano non sono le prime opere su Alessandro. Tre o quattro secoli prima, autori di cui non conosciamo il nome scrissero una serie di storie fantastiche intorno a lui. La cosa straordinaria è appunto questa: mentre i libri scritti nel I e nel II secolo dopo Cristo cercano di possedere un carattere storico, i testi composti, o iniziati, pochi decenni dopo la morte di Alessandro, in un'epoca prossima alla sua esistenza, sono liberamente fantastici, chimerici, inverosimili: segno che il fantastico faceva parte della natura stessa di Alessandro, e dell'alone che lo avvolgeva.
Si tratta del cosiddetto Romanzo di Alessandro, di cui Richard Stoneman e Tristano Gargiulo hanno curato una scelta eccellente (il primo volume è uscito nel 2007; il secondo arriva in libreria il 18 settembre; un terzo seguirà; Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori). I due curatori hanno pubblicato tre redazioni greche e una latina, che costituiscono una parte delle molte versioni, scritte in siriaco, in armeno, in etiopico, in malese, in islandese, e numerose altre lingue. Questi testi hanno avuto, nel Medioevo, un'immensa fortuna: l'immagine di Alessandro, e le sue molteplici interpretazioni, hanno toccato talmente i cuori e le fantasie, che soltanto i Vangeli hanno conosciuto un numero maggiore di lettori. Alle edizioni del Romanzo di Alessandro vanno aggiunti i rifacimenti e le variazioni, che anch'essi hanno percorso l'Occidente e il mondo mediorientale. Una vasta scelta di questi testo occidentali è compresa in Alessandro nel Medioevo occidentale, con introduzione di Peter Dronke e cura di Mariantonia Liborio (Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori).
Nei libri storici, sia Plutarco, sia Curzio Rufo sia Arriano, il carattere di Alessandro è segnato dal desiderio dell'insaziabile: egli vuole conquistare il mondo, andare oltre i limiti, raggiungere l'immortalità, sfiorare l'impossibile. Nel Romanzo, il carattere di Alessandro è molto diverso, e addirittura si rovescia nel suo opposto. Il grandioso eroe della storia diventa spesso una specie di Ulisse: una figura astuta ed ingegnosa, che inventa macchinazioni e si maschera in ogni forma. Oppure diventa una figura patetica: Dario gli muore tra le braccia, e lui lo bacia, lo conforta, lo carezza, lo consola, lo copre col suo mantello. Infine, incarna il desiderio del sacro. Lasciandosi dietro le spalle gli dèi greci ed egiziani, esalta il Dio degli ebrei: «Spregiò tutti gli dèi della terra, e proclamò solamente unico vero Dio quello inintelligibile, invisibile, inattingibile, portato dai Serafini e glorificato con l'attributo di tre volte santo». Nessuno di noi potrà dire quale sia stato il vero Alessandro: ma certo i grandi storici, da Plutarco ad Arriano, devono aver visto con una specie di ribrezzo l'eroe ulissiaco o religioso, che il Romanzo offriva ai suoi lettori.
Il Romanzo è una strepitosa enciclopedia del fantastico, di cui il primo eroe è Alessandro. La terra non gli basta mai. Scende nelle profondità del mare, per mezzo di una gabbia di ferro e di una campana di vetro; sale negli abissi del cielo, legandosi a due uccelli affamati che volano verso l'alto; raggiunge luoghi senza sole, in fondo alla terra della tenebra, dove c'è una sorgente limpidissima, con l'acqua che brilla come un lampo. E poi vede tutto il possibile e l'impossibile: immensi granchi marini, che contengono sette perle; uomini che misurano ventiquattro cubiti, con mani e gomiti simili a seghe; uomini senza testa, che parlano con voce umana; uomini con sei mani e sei piedi; uomini con la testa di cane e voce umano-canina; uccelli con occhi umani, che gracchiano in lingua greca; pietre nere che colmano i fiumi, e tingono di nero chi le tocca; alberi che col sorgere del sole crescono fino all'ora sesta, e dalla settima deperiscono sino a scomparire, secernendo stille simili alla mirra persiana.
La parte più bella del Romanzo è strappata dal bellissimo testo di uno scrittore del terzo - quarto secolo dopo Cristo: La Vita dei Brahmani di Palladio. Nei Brahmani culmina la vena utopica del Romanzo. Vivono ascoltando il canto degli uccelli e il grido delle aquile; dormono su letti di foglie e all'aria aperta; mangiano frutti e bevono acqua; cantano inni agli dèì; non amano l'oro né temono la morte. Quando incontrano Alessandro, gli dicono: «Perché, se sei mortale, fai tante guerre, per prendere tutto? E dove lo porterai? Non lo dovrai lasciare anche tu, a tua volta, ad altri?... Quello che cerchi, noi non l'abbiamo; quello che abbiamo, tu non lo desideri. Noi onoriamo dio, amiamo gli uomini, ci disinteressiamo dell'oro, disprezziamo la morte, non ci curiamo dei piaceri; tu temi la morte, ami l'oro, agogni i piaceri, odi gli uomini, disprezzi dio…». In apparenza, Alessandro prova profonda ammirazione per il maestro dei Brahmani. In realtà, qui il libro si capovolge: l'esaltazione del sommo tra i condottieri diventa una feroce polemica contro di lui, sovrano del male.

Corriere 14.9.12
Michele Ciliberto è il direttore scientifico
Il pensiero d’Italia in 80 medaglioni
di Arturo Colombo


Come titolo, Il contributo italiano alla storia del pensiero, è molto impegnativo; spicca sul frontespizio di un volume (oltre 800 pagine, più illustrazioni) pubblicato dall'Istituto dell'Enciclopedia Treccani. Giuliano Amato nella presentazione spiega che intende offrire «uno sguardo lungo sulla relazione della cultura e della scienza fiorite in Italia, sguardo lungo che muove da un punto di partenza fissato in un'Europa che era ancora una, latina e cristiana, ma in eccezionale, per quanto non di rado aspro e turbolento, confronto con ebraismo e islam, e con l'Oriente greco».
Michele Ciliberto è il direttore scientifico di questa iniziativa meritoria dedicata alla filosofia (seguiranno altri cinque volumi su altrettanti settori specifici), e non esita a spiegare che «è la vocazione "civile" il tratto specifico dell'Italia, sul piano filosofico». Anzi, precisa che «il nesso tra filosofia, storiografia e politica è un tratto strutturale della tradizione italiana», portando esempi assai significativi, poi ripresi e approfonditi attraverso «medaglioni» affidati a specialisti: ecco Machiavelli, su cui si sofferma Giulio Ferroni, ecco Giordano Bruno, che ambisce farsi «capitano di popoli» (secondo lo stesso Ciliberto), ecco Botero, riproposto da Robertino Ghiringhelli...
Tentare, attraverso un articolo giornalistico, di offrire una sintesi della vasta panoramica di questo libro a più voci, non è difficile; è semplicemente impossibile, appena si prende atto che sono più di un'ottantina i personaggi, che animano queste pagine, partendo dal «medioevo plurale» (l'immagine è ancora di Ciliberto), dove accanto a Tommaso d'Aquino e a Marsilio da Padova, spicca, soprattutto per il suo progetto di utopia sociale, Dante, ben delineato da Cesare Vasoli, che attraverso l'opera «Monarchia» auspicava l'affermarsi di un'autorità sovrana «unica e universale» in grado di unificare il mondo «nel riposo e nella tranquillità della pace».
I collaboratori, coinvolti nel riproporre le figure leader, riescono così a comporre un simbolico mosaico in grado di coprire addirittura un millennio di storia — anzi, «di storia del pensiero italiano» — anche soffermandosi su personaggi che, almeno a prima vista, sembrerebbero meglio qualificati in altri spazi: penso a Leonardo da Vinci e all'importanza della sua «opera intellettuale testimoniata esclusivamente dai suoi manoscritti», su cui si soffermano Fabio Frosini e Carlo Vecce; oppure a Galileo, che Mariano Giaquinta descrive non solo come scienziato ma altresì per i suoi contributi in filosofia della natura.
Naturalmente, in base agli interessi e alle curiosità di ciascuno, ci soffermeremo su periodi diversi, scegliendo il contributo di singole personalità. Così il XX secolo, che tanti, troppi pretendono di esaurire sbrigativamente con la «dittatura del neoidealismo» (un «mito storiografico senza fondamento», taglia corto Ciliberto), non esclude certo l'opera di Croce e di Gentile, su cui intervengono Michele Maggi e Biagio De Giovanni. Ma lascia emergere, attraverso appositi profili, scienziati come Federico Enriques, o sociologi e politologi come Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca (che è stato anche una firma del nostro «Corriere»), oppure delinea il ruolo «fra divulgazione filosofica e giornalismo culturale» di Giuseppe Prezzolini (ben descritto da Emma Giammattei).
Né basta. Perché l'ultima parte — dalla seconda metà del '900 a oggi — riserva, oltre a specifici approfondimenti (è il caso del marxismo), non poche sorprese, che chiamano in causa il neoilluminismo italiano (di cui scrive Massimo Mori), le «filosofie cristiane» (affidate a Michele Lenoci) e perfino il «pensiero debole» (preso in esame da Costantino Esposito). Insomma, un'ottima bussola di orientamento, da tenere a portata di mano.

Corriere 14.9.12
Pound, il dissenso vale anche quando si ha torto
di Giulio Giorello


Amo ergo sum, ovvero «amo, dunque sono». Parlando d'amore invece che di pensiero, così il poeta Ezra Pound nel 1942 rovesciava il razionalismo di Cartesio. Vale anche l'inverso: chi non ha sentimenti forti non sa amare e forse «nemmeno esiste».
Nel suo Guida alla cultura (1938) aveva scritto: «Nessun uomo decente tortura i prigionieri, nessun uomo pulito tollererebbe le atrocità pubblicitarie che si vedono tra qui e Genova. Nessun uomo libero da parassiti mentali tollererebbe la camorra delle banche o del sistema fiscale». Quattro anni dopo, dava voce direttamente in italiano a questi sentimenti in Carta da Visita, presso Edizioni di Lettere d'Oggi. Ripubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1974, questo testo viene ora ripresentato a cura e con un saggio introduttivo da Luca Gallesi che sottolinea l'impegno del poeta come patriota americano, pur «innamorato» della vecchia Europa. Si era battuto perché gli Stati Uniti non entrassero in guerra; era stato incriminato per alto tradimento, e nel 1945 era finito in un campo di prigionia presso Pisa e poi in un manicomio criminale a Washington (sempre senza processo). Liberato nel 1958, fino alla morte (1962) resterà privo della personalità giuridica. Sarebbe ora che gli Stati Uniti rimediassero a questa ingiustizia.
Carta da visita è un impasto di aforismi graffianti, battute sarcastiche, tirate polemiche in una lingua che riecheggia Dante e Cavalcanti. Che si tratti della critica letteraria, del destino della poesia, dei labirinti della filosofia o della stessa astrazione scientifica, il filo rosso è l'ossessione di Pound per l'economia. I grandi finanzieri abitualmente praticano «il trucco di far aumentare il valore dell'unità monetaria manovrandolo per mezzo del monopolio d'una sostanza qualunque, e quindi facendo pagare dai debitori l'equivalente di due volte la merce e i beni avuti al tempo d'un prestito». Per quanto possa suonare semplicistica, è difficile non sentire vicina l'invettiva di Pound. Le bolle finanziarie a livello globale non sono che l'altra faccia dell'oppressione fiscale, della violenza repressiva e del saccheggio dell'ambiente (e non solo tra Rapallo e Genova!). Sono l'amore per la natura, l'arte e la scienza a scatenare l'indignazione di Pound il libertario. Gallesi non nasconde il vizio dell'antisemitismo poundiano, di cui il poeta fece ammenda fin dal 1945, e ne sottolinea le simpatie per il fascismo. «Mille candele insieme fanno splendore. La luce di nessuna candela danneggia la luce di un'altra». È l'inizio di Carta da Visita. Pound aggiunge: «Così è la libertà dell'individuo nello Stato ideale e fascista». Proporrei di rovesciare la battuta: tale dovrebbe essere la libertà dell'individuo in ogni democrazia che non tema, ma ami, i propri dissenzienti.
Il libro: Ezra Pound, «Carta da Visita», a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 103, 14

Sette del Corsera 14.9.12
Come Picasso fece di se stesso un monumento
di Francesco Pini

qui
il Fatto 14.9.12
Aspettando la mostra milanese
Fo: Ve lo do io Picasso
Un recital scritto dal premio Nobel per raccontare il genio simbolo del ’900
di Antonio Armano


Tutto iniziò con “Otello il bidello”. Racconta Da-rio Fo che a Brera c'era un tale che faceva i calchi di gesso ed era lui stesso un calco di Picasso, gli assomigliava come una goccia d'acqua: “Noi studenti dell'accademia – ricorda il premio Nobel – mettemmo in giro la voce che Picasso sarebbe venuto a Milano. Organizzammo una festa al teatro dei Filodrammatici col falso Picasso come ospite per prendere per i fondelli l'ambiente culturale, gli snob... La festa degenerò e finì quando buttammo dei petardi tra le gambe di Otello che si mise a imprecare in milanese... ”.
Si parla di “grande ritorno” in occasione della mostra milanese di Palazzo Reale dal 20 settembre al 13 febbraio ( mo  strapicasso.it  ), dove saranno esposte 250 opere del Musée National Picasso di Parigi: molte mai uscite da quelle sale. Otello il bidello, il finto Picasso, non c'è più ma ci saranno i falsi picassiani. Dario Fo definisce “gigantesca” la mostra. In fondo è solo grazie all'avarizia di Picasso (non per niente il bisnonno, Tommaso, era di Sori, Liguria) che dobbiamo questa grande opportunità. “Sono il più grande collezionista di me stesso” diceva. Accumulò una quantità enorme di opere, anche altrui, e dopo la morte, anche per questioni legate alle tasse di successione, sono passate allo Stato francese. Eccezionalmente, per lavori di restauro della sede, usciranno dal museo parigino.
“L'assessore Stefano Boeri – dice Fo – mi ha chiamato chiedendomi se mi andava di fare uno spettacolo per raccontare Picasso, io ho accettato subito. Durante lo spettacolo, Picasso desnudo, che si andrà in scena al Dal Verme, il 17 e il 19 settembre, proiettiamo diverse opere di Picasso. e per evitare che ci chiedano i diritti siamo passati dalle proiezioni degli originali a quelle dei falsi”.
E come ha fatto a realizzare i falsi?
Con la mia équipe, montando e smontando le immagini degli originali, la tecnica è collaudata.
Come si è documentato per fare lo spettacolo?
La vita di Picasso è piena di pochade, commedia, tragico e grottesco, anche perché il grottesco è il contrappunto del tragico. Inoltre Picasso ha lavorato per il teatro.
Fu durante la collaborazione con Djagilev che conobbe la prima moglie, Olga Chochlova...
Ha avuto molte donne, ritratte in molti quadri. La passione per le donne lo ha portato anche a situazioni molto pesanti, come quando si lasciò con la Chochlova e lei gli disse che era senza denaro, lui ripose qualcosa tipo ‘va’ a c... ’, e lei per vendetta cominciò a scrivere le sue memorie, a puntate sui giornali, come feuilleton, lui diventò pazzo... da questo nasce il rifiuto di riconoscere il figlio Paulo.
Tra le opere in mostra, anche il ritratto di Olga del '18.
Non solo quello, ce ne saranno quattro in tutto. E si potrà vedere anche Massacro in Corea, che insieme a Guernica fu esposta nel '53 nella sala delle Cariatidi mezza distrutta dai bombardamenti. Picasso disse che per ricordare quello che era successo la sala andava lasciata così. L'hanno accontentato.
Perché quella volta Picasso venne davvero a Milano...
Era uno che presenziava raramente alle sue mostre ma alla fine venne. Ci piace pensare che abbia sentito del casino che avevamo fatto...
Che Milano trovò?
Restò impressionato. Era una città dove si faceva cinema, c'erano grandi scrittori, il Piccolo Teatro, primo esperi-mento nel suo genere, le fabbriche di automobili che la Fiat ha chiuso.
Una città molto diversa da quella attuale, ma il paragone sarebbe impietoso. Piuttosto, in un anno circa di giunta Pisapia s'è visto qualche cambiamento?
Quello che si sta facendo per la cultura è dieci volte maggiore che in passato, certo il contesto generale è di crisi, l'arte soffre... ma le cose sono cambiate, prima quando parlavi di arte agli amministratori gli veniva da vomitare.
Quanto si sente la spending review?
I tecnici tagliano tutto, e la cultura di più, anche se sono professori, perché vengono dall'area cattolica, Monti è del mio paese, sul Lago Maggiore. È un mondo che conosco bene, sono lombardo anch'io: della cultura non gliene frega niente.

Repubblica 14.9.12
Facciamo economia
Come costruire una nuova società dell’abbondanza
di Serge Latouche


Anticipiamo una parte dell’intervento che Serge Latouche farà al “Festival/Filosofia” Così lo studioso torna sulle sue tesi più celebri come quella della “decrescita felice”

Viviamo in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un’economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l’esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni – e dunque di prodotti superflui e rifiuti – e nell’emissione di scorie e inquinamento (dell’aria, della terra e dell’acqua).
Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema e dall’altra con uno strumento privilegiato della colonizzazione dell’immaginario, la pubblicità. E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio. Per usare una metafora siamo diventati dei «tossicodipendenti » della crescita. Che ha molte forme, visto che alla bulimia dell’acquisto – siamo tutti «turboconsumatori » – corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro.
Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. Senza poter trovare il «significante perduto», si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o l’amore, tutte cose la cui sete non conosce limiti. (...)
Anche per questo ci serve immaginare un nuovo modello. Economico ed esistenziale. Così la ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l’egoismo risultante da un individualismo di massa.
Uscire dalla società del consumo è dunque una necessità, ma il progetto iconoclasta di costruire una società di «frugale abbondanza» non può che suscitare obiezioni e scontrarsi con delle forme di resistenza, qualunque siano i corsi e i percorsi della decrescita. Innanzitutto, ci si chiederà, l’espressione stessa abbondanza frugale non è forse un ossimoro peggiore di quello giustamente denunciato dello
sviluppo sostenibile?
Si può al massimo concepire ed accettare una «prosperità senza crescita», secondo la proposta dell’ex consigliere per l’ambiente del governo laburista, Tim Jackson, ma un’abbondanza nella frugalità è davvero eccessivo! In effetti, fintanto che si rimane chiusi nell’immaginario della crescita, non si può che vedervi un’insopportabile provocazione. Diversamente invece, se usciamo da certe logiche, può risultare evidente che la frugalità è una condizione preliminare rispetto ad ogni forma di abbondanza. L’abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest’ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all’immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all’opposto di questa logica, la società della descrescita si propone di fare la felicità dell’umanità attraverso l’autolimitazione per poter raggiungere l’“abbondanza frugale”.
Come ogni società umana, una società della decrescita dovrà sicuramente organizzare la produzione della sua vita, cioè utilizzare in modo ragionevole le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà un po’ come quelle «società dell’abbondanza » descritte dall’antropologo Marshall Salhins, che ignorano la logica viziosa della rarità, dei bisogni, del calcolo economico. Questi fondamenti immaginari dell’istituzione dell’economia devono essere rimessi in discussione.
Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che «una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una depauperizzazione psicologica », uno stato d’insoddisfazione generalizzata, che definisce, egli afferma, «la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza». La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell’autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: «Essere dipendentisignifica essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi». Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La ritrovata frugalità permette precisamente di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava «sussistenza moderna». Ovvero «il modo di vivere in un’economia post-industriale, all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato, e ci sono arrivate proteggendo – attraverso strumenti politici – un’infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare valori d’uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti di bisogni professionisti ». La crescita del benessere è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio.
Molte di queste opzioni implicano un cambiamento della nostra attitudine anche rispetto alla natura. Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d’estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell’ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile di sviluppare un’attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un’obsolescenza programmata dell’umanità.
(traduzione di Tessa Marzotto Caotorta)

Repubblica 14.9.12
Eugenio Scalfari "Giornali, libri e amori: la mia vita di Narciso consapevole"
Intervista al fondatore di "Repubblica" in occasione dell'uscita del "Meridiano" in cui sono raccolti una serie di articoli e le sue opere più importanti
di Antonio Gnoli

qui

Repubblica 14.9.12
Dalle pratiche d’ufficio a quelle orientali
di Umberto Galimberti


Dopo che la tecnica ci ha ridotti a semplici funzionari dei suoi apparati e quotidianamente ci misura secondo i suoi criteri che sono la produttività e l’efficienza, ci si accorge che anche la produttività anche l’efficienza si riducono se si eliminano quelle componenti, proprie dell’uomo, che la razionalità della tecnica non contempla.
Si tratta di tutte quelle figure dell’irrazionale che si chiamano sentimento, fantasia, passione, sogno, che fanno dell’uomo, qualcosa di diverso (e se vogliamo anche di più inadeguato) rispetto alla macchina, che per la tecnica è l’ideale a cui anche l’uomo dovrebbe conformarsi. Le macchine infatti non si ammalano, non cadono in depressione, non sono turbate da pensieri negativi o esaltanti, non sono attraversate dal dubbio, e neppure stressate dalla necessità di scegliere e di decidere.
Lo stress, che in ambito lavorativo nasce quando le esigenze delle organizzazioni mettono alla prova le risposte del soggetto, il cui costo, in termini psicologici o somatici, può essere superiore alle sue risorse, deve essere, se non eliminato, almeno ridotto per non abbassare il livello di efficienza e di produttività. Vengono allora introdotte quelle tecniche di rilassamento mentale che vanno dalla meditazione allo yoga, dallo svuotamento della mente alle pratiche riflessive denominate “consulting and coaching”, dove si prendono in considerazione le fonti potenziali di stress rappresentate dalla struttura dell’organizzazione, dalla compatibilità delle forme organizzative con le esigenze di libertà e di autonomia di coloro che vi operano, dal ruolo del soggetto nell’apparato, dagli obbiettivi che deve raggiungere, dalle pressioni che riceve, dalle sue ansie in senso carrieristico.
A parte il “consulting and coaching” che si propone di ricostruire la “persona” a chi è ormai ridotto a “funzionario di apparato”, incapace di vedere altro mondo che non sia il mondo del lavoro, con un’identità appiattita sul proprio ruolo e un’atrofia dei sentimenti frequente soprattutto nelle leadership, le altre forme di rilassamento mentale finalizzate a rendere i soggetti più produttivi ed efficienti, destano in me qualche perplessità. Dubito che la struttura mentale di noi occidentali, che funziona più per concetti che per immagini, e quindi ha una natura prensile e acquisitiva (“concetto”derivada cum-capioche significa“prendere”, così come il corrispondente tedesco Be-griff deriva da greifenche significa “afferrare”), sia in grado di ospitare il modo orientale di pensare che un aforisma del Sutra così descrive: “Il Buddha dice: la mia dottrina sta nel pensare il pensiero del non pensiero, nel parlare il linguaggio del non parlare, nell’esercitare la disciplina dell’indisciplina”.
Come fa la nostra mente organizzata secondo il principio di non contraddizione a “pensare il pensiero del non pensiero”? Ne siamo capaci? O traspare anche qui, sotto sotto, la volontà di potenza che caratterizza il modo di pensare e di agire di noi occidentali, che vogliamo impossessarci anche delle pratiche orientali, pur non avendo la struttura mentale idonea a questa acquisizione?
E ancora, questa acquisizione avviene allo scopo di rispondere meglio alle esigenze di produttività ed efficienza, quando invece le pratiche orientali sono ispirate non dalla “volontà” di fare, produrre, raggiungere obbiettivi, ma dalla “non-volontà”, che Schopenhauer chiamava “noluntas”, la quale è l’esatto contrario della volontà di potenza, tipica di noi occidentali. Un altro aforisma del Sutra recita infatti: “Il mondo va lasciato qual è. Il Buddha lo attraversa senza pensare ad alcuna riforma. Egli insegna a liberarsi del mondo non a trasformarlo”. La tecnica, come universo di mezzi, senz’altro scopo che non sia il suo autopotenziamento, è disposta ad accogliere anche quelle pratiche orientali che sono la sua massima antitesi, purché siano a loro volta un “mezzo” per migliorare efficienza e produttività. E in questo uso “strumentale” della filosofia e della religione orientale io vedo, oltre che una mancanza di rispetto per una cultura davvero “altra” rispetto alla nostra, un semplice fagocitare tutto quello che riteniamo possa “servirci”.

giovedì 13 settembre 2012

Corriere 13.9.12
L'articolo 18 divide Epifani e Cofferati
Il leader del Circo Massimo: sì ai referendum
Il suo successore: inutili, lavorino le Camere
di Enrico Marro


ROMA — Sono stati entrambi segretari della Cgil, in successione: Sergio Cofferati dal 1994 al 2002, Guglielmo Epifani dalla fine del 2002 al 2010. E sono tutti e due impegnati nel Pd (e prima nei Ds). Cofferati da protagonista, prima come sindaco di Bologna dal 2004 al 2009 e poi come europarlamentare. Epifani in un ruolo più laterale, che non esclude però un coinvolgimento diretto in futuro (magari alle prossime elezioni, senza dimenticare che già in passato il partito gli ha offerto, inutilmente, candidature e incarichi chiave). Ma le affinità terminano qui. E ora i due sono in disaccordo totale sul referendum per l'abrogazione delle modifiche alla disciplina dei licenziamenti decise con le leggi Sacconi e Fornero. Referendum proposto da Nichi Vendola (Sel), Antonio Di Pietro (Idv), Rifondazione comunista e altre sigle dell'estrema sinistra.
In realtà, Cofferati ed Epifani si contrastano da molti anni e, come spesso accade tra ex capi che si sono succeduti sulla stessa poltrona, il passo tra disaccordo e rottura è breve. Sintetizzando, è successo che Cofferati, che dopo il 2002 veniva accreditato come il possibile nuovo leader di una sinistra riformista, si è a sorpresa collocato sulle posizioni della sinistra rifondarola di Fausto Bertinotti, col quale pure si era scontrato quando entrambi stavano in Cgil, e col quale invece ha finito l'anno scorso per dar vita a un'associazione, «Lavoro e Libertà». Stessa cosa con i metalmeccanici della Fiom: ne aveva combattuto il massimalismo quando era alla guida della Cgil, dopo invece si è schierato dalla loro parte. Certo, Cofferati è rimasto in un percorso coerente di difesa dell'articolo 18 come un diritto inviolabile dei lavoratori, battaglia cominciata nel lontano 23 marzo 2002 con l'oceanica manifestazione del Circo Massimo, ma questo oggettivamente lo ha portato ad avere come compagni di strada tutti i leader della sinistra antagonista, da Bertinotti appunto a Vendola, da Gianni Rinaldini a Maurizio Landini. E così, il riformista che veniva dai chimici (categoria quanto mai moderata del sindacalismo) ha finito, tanto per fare un esempio, per sostenere all'ultimo congresso della Cgil (2010) la minoranza di sinistra contrapposta alla maggioranza epifaniana e ora appoggia i referendum per ripristinare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
«I referendum sono condivisibili per ragioni di merito e di opportunità — dice Cofferati —. È giusto chiedere l'abrogazione di quelle norme che hanno cancellato diritti nel lavoro e nella cittadinanza e ridare protezione e dignità a chi lavora, ripristinare alcune elementari forme di democrazia nei luoghi di lavoro». Questo non significa, conclude l'ex leader della Cgil, che lui non sosterrà il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, alle primarie.
Un ragionamento che non convince affatto il successore di Cofferati. Che ieri con un articolo in prima pagina sull'Unità, pur senza chiamarli in causa per nome e cognome, ha bocciato i referendari. Per ragioni più pratiche che di principio. Si chiede retoricamente Epifani: «Mentre si prepara la fase che porta alle elezioni e al possibile e auspicabile cambio del quadro politico, con le conseguenze che può avere sulle norme o su una parte di esse oggetto del referendum, che segno dà alla prospettiva del cambiamento una strada referendaria che divide» e che oltretutto «sarà sottoposta al voto solo nel 2014?». Per questo, conclude, l'iniziativa del referendum «non convince ed è troppo al di sotto del profilo di cambiamento che bisogna tenere». Una mossa controproducente, insomma.
Infine Epifani, che nasce socialista, ha militato nel Psi e che nel 1984 visse la spaccatura della Cgil sul decreto che depotenziava la scala mobile (lui con la minoranza socialista contro il referendum abrogativo del decreto Craxi mentre Cofferati stava con la maggioranza comunista favorevole) ammonisce: «La storia dei referendum sul lavoro dovrebbe suggerire prudenza, misura, attenzione. Nel passato abbiamo avuto referendum che si pensava di vincere e che invece sono stati persi, per di più con il voto operaio». È quello che successe nel 1984 al Pci e alla Cgil. E, come si vede, gli strascichi di quella lacerazione, incredibilmente, non sono ancora esauriti.

Corriere 13.9.12
Dietro la scelta di Nichi il timore di «regalare» i voti Fiom a Di Pietro
Il numero uno di Sel avvisò della sua mossa i democratici
di Maria Teresa Meli


ROMA — La politica degli equivoci: l'ultimo tormentone della sinistra si presenta come una «pochade». C'è l'attor giovane — che poi tanto ragazzino non è — ossia Nichi Vendola, che vorrebbe stipulare l'alleanza con Pier Luigi Bersani. Ci prova, ci riprova, alla fine ci riesce.
Sembra tutto a posto, ma ecco arrivare l'imprevisto. Antonio Di Pietro annuncia di voler presentare un referendum in difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori contro la legge sul mercato del lavoro targata Elsa Fornero. Il presidente della giunta regionale pugliese, che nel frattempo ha stretto un patto — non di ferro — con il leader del Partito democratico, si nega. «È inutile fare un referendum, visto che il prossimo anno ci saranno le elezioni e quindi la consultazione referendaria non si potrà tenere». Passano i giorni, e le vacanze. Trascorre agosto e si arriva a settembre. Il leader di Sel, apparentemente all'improvviso, cambia idea. Sottoscrive quell'iniziativa e si presenta con i compagni d'avventura di un tempo — Di Pietro, Diliberto e Ferrero — in Cassazione.
Che cosa ha fatto mutare opinione a Nichi Vendola? Se lo chiedono in molti nel Partito democratico. Interrogativo sbagliato. Quello giusto è: chi ha fatto cambiare idea a Nichi Vendola? La risposta è semplice: Maurizio Landini, il leader della Fiom. Il sindacalista ha detto chiaro e tondo al governatore della Puglia che lui avrebbe appoggiato quell'iniziativa e che sarebbe stato assai strano se Sel non avesse fatto altrettanto.
Vendola ha cominciato a farsi due conti, ha guardato con apprensione all'evoluzione dei rapporti tra Italia dei valori e la Fiom, dovuta al fatto che ad affiancare Di Pietro ormai c'è un ex rifondarolo come Maurizio Zipponi, responsabile Lavoro e Welfare dell'Idv, e ha capito che non poteva sottrarsi. Perciò ha deciso di appoggiare quell'iniziativa. Ma prima ha provveduto ad avvertire la dirigenza del Partito democratico che era orientato a compiere quello strappo.
Già, perché Vendola è un politico di lungo corso e non poteva non sapere che la sua sortita avrebbe prodotto dei contraccolpi sul Pd. Perciò voleva ridurre i danni. Che, però, puntualmente, si sono verificati. Bersani ha cercato di ridimensionare la portata dell'accaduto. Prima ha scelto la linea del silenzio. Poi l'altro ieri sera ha difeso l'operato del suo partito, che ha votato la legge Fornero in Parlamento, ma ha tenuto a precisare: «Noi non siamo antitetici al referendum». Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte. Che ha infastidito qualcuno nel Pd: «Dopo il "ma anche" di Walter Veltroni, ecco il "non antitetico" di Pier Luigi», ironizzava un gruppo di parlamentari ieri sera in Transatlantico.
Ma c'è anche chi non ha voglia di buttarla sul ridere. Antonello Giacomelli, per esempio, che dice: «Non mi importa quali siano le motivazioni che hanno spinto Vendola a presentare quel referendum in Cassazione: ma è chiaro che ormai lui ha rotto con noi. Bersani non lo potrà dire, ma io lo dico, eccome». E Beppe Fioroni, responsabile Welfare del Partito democratico è sprezzante. «Vendola chi?». Al di là delle battute, dei moti di stizza o di ira, nel Pd la questione Vendola tiene banco. Paolo Gentiloni, nel cortile della Camera dei deputati chiacchiera con qualche collega e, scuotendo la testa, osserva: «Ho sempre sostenuto che auto-rinchiuderci in un campo di sinistra, delegando a Casini la rappresentanza dell'area moderata era un errore. Ora, dopo le dichiarazioni del leader dell'Udc c'è da dire che forse è un miraggio».
Sì, perché il numero uno centrista ieri si è smarcato dal Pd proprio per la storia del referendum anti-Fornero. Bersani ora cerca di minimizzare: «Non confondiamo la tattica con la strategia. In questa fase ognuno cerca di marcare la propria identità: Sel, l'Udc...», spiega il segretario ai compagni di partito per tranquillizzarli. Bersani non ha intenzione di rompere con Sel, anche perché sa che quel referendum non dispiace alla Cgil e una frattura con Susanna Camusso sarebbe per lui assai difficile.
Intanto dalle parti di Sel c'è chi fa sapere che lo stato maggiore del partito incrocia le dita e spera che la Corte costituzionale bocci il referendum, risolvendo così tutti i problemi. Vendola, infatti, non vorrebbe essere costretto a dire addio al Pd e ad allearsi con gli ex compagni di Rifondazione Ferrero e Diliberto, oltre che con Di Pietro.
Nel Pd si attendono le prossime evoluzioni. Può sempre andare peggio. Non a caso Ugo Sposetti, incrociando un rottamatore ante litteram in Transatlantico, alza le braccia e dice: «Stai fermo, non c'è bisogno che cominci a sfasciare tu, che stiamo già sfasciandoci da soli».

il Fatto 13.9.12
Sorpresa, il primo partito è Grillo più Di Pietro. 5 Stelle al 18 per cento, Idv al 7,5
Gli ultimi sondaggi confermano: col Porcellum lo schieramento dei “non allineati” potrebbe vincere le elezioni
L’ex pm: “Hanno paura, cercano una legge elettorale per imbrigliarci”
I non allineati sono i primi: Se si mettono d’accordo salta tutto
di Fabrizio d’Esposito


Mentre B. latita ancora, il Pd si spacca tra Renzi e Bersani (che litiga con Casini e annuncia che non si ricandida a segretario) e l’ex Terzo Polo implode, le accuse di populismo non fermano M5S
Altro che Monti-bis o Grande Coalizione con la benedizione del Quirinale. Movimento 5 Stelle e Italia dei Valori già oggi, insieme, sono il primo partito in Italia. Gli ultimi sondaggi dispensano numeri da brividi per la casta della Seconda Repubblica. Prima puntata di Ballarò, martedì sera. Al programma di Giovanni Floris su Raitre, Nando Pagnoncelli dispensa le nuove cifre dell’Ipsos sulle intenzioni di voto. I grillini, nonostante un leggero calo, sono al 17,9 per cento. Terzi dopo Pd, al 25,4, e Pdl, al 21,9. Ma la sorpresa arriva dall’Italia dei valori di Antonio Di Pietro: 7,5 per cento. In pratica, l’Idv sembra aver frenato l’emorragia di voti verso il M5S. E così le due formazioni, se unite, potrebbero andare diritte al governo dopo le elezioni. Anche con questo sistema elettorale, il Porcellum, che prevede un premio di maggioranza che fa salire al 55 per cento (340 seggi alla Camera) la coalizione vincente. La loro percentuale, secondo l’Ipsos, è del 25,4, la stessa del partito di Pier Luigi Bersani, che tutti danno per favorito. Il primato di Grillo e Di Pietro è uno schiaffo sonoro a quanti, da Giorgio Napolitano in giù, collocano con sdegno e paura M5S e Idv nel recinto dell’antipolitica e del populismo. Addittura il piddino Luciano Violante ha teorizzato la nascita di un nuovo arco costituzionale per escludere questi due movimenti dall’area di governo, come accadde con il Msi di Giorgio Almirante nella Prima Repubblica.
DALL’IPSOS ALLA SWG
di Roberto Weber la somma non cambia ed è ancora vincente, seppur più bassa: grillini al 18,5 per cento e Di Pietro al 4. Totale 24,5, mezzo punto in più del Pd. Ipr Marketing, per La 7, fornisce invece un quadro aggiornato a settembre della composizione del voto al Movimento 5 Stelle. La provenienza è calcolata dalle politiche del 2008 a oggi. Su cento elettori del M5S, 25 sono dell’area del non voto, 24 del Pd, 23 del Pdl, 9 dell’Idv, 9 dei cosiddetti “altri”, 7 della Lega, 3 della Sinistra Arcobaleno (oggi Sel). Sostiene Antonio Di Pietro: “Tutti i giorni, anche oggi (ieri per chi legge, ndr), molti esponenti di Pd, Pdl e Udc in privato mi fanno ossessivamente la stessa domanda”. Questa: “Cosa c’è di vero nella lista dei non allineati che vuoi fare con Grillo? ”. Continua il leader dell’Idv: “Questa prospettiva sta provocando un terrore enorme. Anche per questo non sanno come cambiare il Porcellum. Vogliono imbrigliarci ma non c’è alcuna legge elettorale che li garantisca. Noi vinceremmo lo stesso, anche con il proporzionale”.
L’alleanza tra Grillo e Di Pietro al momento resta però una suggestione forte. Il M5S continua a rifiutare apparentamenti anche se qualche spiraglio si può cogliere nelle ultime parole del comico genovese registrate dal Corriere della Sera sull’ex pm: “Brava persona, onesta. Ma non sapeva usare la Rete. È venuto a parlarmi, gli ho presentato un amico, un esperto, ed è passato dal 4 all’8 per cento ma poi è rimasto all’interno di un sistema marcio e così gli capitano gli Scilipoti, per questo non potremo mai metterci d’accordo. Ma è l’unico che salvo, sarebbe un buon ministro dell’Interno o anche il presidente”. Già un governo Di Pietro. Dice ancora il leader dell’Idv, che ieri ha annunciato di non voler togliere il suo nome dal simbolo: “Mi sento spesso con Grillo e Casaleggio, due persone che stimo tantissimo. Il mio, voglio specificarlo, è un confronto personale e continuo. Ma adesso non voglio tirare nessuno per la giacca, non voglio mettere in imbarazzo nessuno. Non è ancora il momento, vediamo prima quale legge elettorale verrà fuori”.
L’idea di una lista dei non allineati è stata maturata da Di Pietro a luglio: M5S, Idv e anche Sel di Nichi Vendola. Oggi il quadro è un po’ mutato, anche se proprio l’altro giorno Idv, Sel e Fiom hanno presentato il referendum contro la riforma Fornero. Al posto di Vendola, che difficilmente mollerà il Pd di Bersani, potrebbe inserirsi il movimento arancione di Luigi De Magistris. I rapporti tra Grillo e il sindaco di Napoli sono pessimi ma un dialogo nel segno della ragion di governo, senza personalismi, sarebbe possibile, almeno da parte della lista arancione. Perché il punto che muove i ragionamenti a cavallo tra dipietristi e grillini è questo: dopo le amministrative, basta soltanto vincere senza porsi il problema di governare?
NEL FRATTEMPO sia Grillo sia Di Pietro devono risolvere notevoli problemi interni. Per il primo si tratta di sciogliere il nodo della democrazia interna con il caso Favia, il secondo a Vasto il 20 settembre dovrà affrontare i dissidenti filoPd e Napolitano e antigrillini capeggiati da Massimo Donadi, capogruppo dell’Idv a Montecitorio. Anche per questo, ufficialmente, Di Pietro continua a giocare nel campo classico del centrosinistra e insiste sull’area riformista con Pd e Sel ma poi aggiunge: “Pensate che succederebbe se partisse una lista dei non allineati, potrebbe davvero vincere. È solo una battuta perché Grillo andrà da solo”. Una battuta per il momento. Ma i numeri sono lì, sotto gli occhi di tutti.

l’Unità 13.9.12
L’articolo 18 resuscita la Sinistra arcobaleno
Attorno ai quesiti contro la riforma Fornero si raccolgono Idv, Sel, Verdi, Rifondazione e Pdci
Il leader del Pd: «Non è la strategia giusta per affrontare una materia così delicata»
di Simone Collini


Attorno al referendum sulla riforma Fornero si ricostruisce la sinistra arcobaleno. E l’operazione di Bersani per guidare la coalizione dei progressisti e poi siglare nel 2013 un patto di legislatura con Casini si fa ancora più complicata.
Vendola, Ferrero, Diliberto, Bonelli, Di Pietro: la foto di gruppo davanti alla Corte di cassazione, dove martedì sono stati depositati i quesiti sul mercato del lavoro, ha dato fiato non solo a un Pdl assente dalla scena politica da tempo immemore e che invece ora si rifà vivo per esultare di fronte allo «svelamento del grande inganno dell’alleanza Pd-Sel» (Gasparri dixit), ma ha spinto anche Casini ha lanciare un aut-aut a Bersani, della serie o me o Vendola: «Chi, dopo il governo Monti, si vuole assumere la responsabilità di guidare il Paese, non può avere niente a che fare con chi ha presentato i referendum dal contenuto antitetico a ciò che si è fatto in questi mesi», dice il leader dell’Udc in una conferenza stampa convocata appositamente alla Camera.
OGNI GIORNO HA LA SUA PENA
Bersani è distante pochi metri, e ai giornalisti che lo incrociano in Transatlantico a Montecitorio risponde con un laconico «ogni giorno ha la sua pena». Poi allarga le braccia, e abbozzando un sorriso: «Da qui alle elezioni ogni giorno ci sarà magari Casini che ci dà ‘un bacino’ e Sel che ci critica, e il giorno dopo il contrario...». Insomma, il leader del Pd derubrica il movimentismo di Vendola insieme a Idv, Verdi, Pdci e Prc, da un lato, e i moniti lanciati da Casini, dall’altro, a pura tattica preelettorale finalizzata a posizionarsi e fare il pieno di voti nei rispettivi campi. Però Bersani sa bene che sarebbe deleterio dare l’impressione di voler governare con una compagine in stile Unione, composta da partiti eterogenei e perennemente a rischio paralisi a causa di veti incrociati.
Per questo, rispetto al principio generale, il segretario del Pd mette in chiaro che nella «carta d’intenti», che andrà sottoscritta da chi vuole entrare a far parte della coalizione progressista, ci sarà un capitolo dedicato alla «responsabilità» e per il quale si prevede che i gruppi parlamentari decidano a maggioranza come votare, nel caso ci siano posizioni diverse su taluni temi. Mentre sul caso particolare del referendum riguardante la riforma Fornero spiega: «Non si può spaccare il Paese su una materia così delicata, la strategia referendaria non è quella giusta. Inoltre la legge prevede che nessun referendum possa svolgersi nell’anno delle elezioni politiche, mentre già dal 2013 la riforma potrà essere migliorata in Parlamento».
VENDOLA NON RETROCEDE
Il problema è però tenere salda la barra oggi, perché Bersani intende andare avanti nella costruzione della coalizione progressista insieme a Vendola, lasciando fuori Di Pietro e tutti gli altri con cui il leader di Sel si è lanciato nella raccolta di firme (che si estenderà a quesiti referendari sugli stipendi dei parlamentari, il finanziamento pubblico ai partiti e anche la riforma delle pensioni). Il governatore pugliese rivendica la scelta e conferma che non vuole arrivare a un’alleanza di governo con l’Udc: «Insieme a Bersani e al Pd possiamo costruire una coalizione e un programma dice al Tg3 della sera io mi alleo, non è che mi arrendo, non è che cedo il bagaglio di programmi, idee, valori di Sel. Bersani dice prima di tutto il lavoro? Per me prima di tutto il lavoro significa ripristinare il principio che nessuno può essere licenziato senza giusta causa». Quanto alla «carta d’intenti», che verrà presentata nella stesura definitiva a metà novembre, Vendala frena, e fa capire che non necessariamente vedrà la luce così com’è stata scritta da Bersani. «Non ho firmato alcuna carta di intenti del Pd dice il governatore della Puglia ad agosto ho presentato una carta d’intenti “È tempo di cambiare” di Sel».
EFFETTO FORNERO
La battaglia referendariaviene viene guardata con favore da quanti denunciano l’«effetto Fornero» sui posti di lavoro. Ieri si è svolto uno sciopero di protesta di due ore nell’azienda Design, dopo che tre iscritti alla Fiom sono stati licenziati alla Model Master di Moncalieri. In virtù della nuova normativa sui licenziamenti individuali spiega la Fiom l’azienda aveva infatti deciso di lasciare a casa tre lavoratori, giustificando il provvedimento con i cali produttivi, anche se l’azienda non ha mai fatto ricorso alla cassa integrazione o ad altre forme di ammortizzatori sociali. I tre lavoratori licenziati sono tutti iscritti alla Fiom-Cgil, e due di questi sono anche stati delegati. «Quello di Torino dice Edi Lazzi, responsabile Fiom-Cgil della Quinta lega è il primo caso di ricorso ai licenziamenti individuali secondo quanto previsto dalla riforma Fornero».
Il ministro del Lavoro, dal canto suo, annuncia un monitoraggio «serio e scientifico» della sua riforma, che è fatta «di tante norme»: «Magari qualcuna funzionerà bene, qualcuna meno bene, guardiamo con animo sgombro da pregiudizi cosa funziona». Parlando alla festa movimento giovanile del Pdl, Atreju, Fornero dice che ci sarà un monitoraggio per poi giocare il suo pacchetto di norme «in modo neutro, con una valutazione scientifica, senza ascoltare le posizioni ideologiche di chi dice pregiudizialmente questo ci piace e questo no».

l’Unità 13.9.12
Ferrero: «Se il referendum è inutile, tanto meglio»
di S.C.


Dice Paolo Ferrero che se veramente la riforma Fornero dovesse essere cambiata in Parlamento nel 2013, rendendo inutile il referendum, lui ne sarebbe ben felice: «Ma la vedo dura». Dice anche, il segretario di Rifondazione comunista, che «la Cgil sbaglia a non sostenere la raccolta di firme» e che forze di sinistra possono partire da questa operazione sull’articolo 18 per andare alle elezioni con una «lista unitaria».
C’è chi sostiene che questa operazione sia più che altro funzionale ad aprire delle contraddizioni nel centrosinistra e creare problemi al Pd...
«Ma figuriamoci, io faccio politica per tentare di dare una risposta ai problemi del Paese, non per aprire contraddizioni in casa d’altri. La sinistra ha il dovere politico e morale di prospettare un cambiamento radicale, deve smetterla con l’atteggiamento minoritario, magari accettando uno strapuntino pur di stare dentro una coalizione».
È un riferimento a Vendola?
«Vendola lavora per un accordo col Pd e dice che non vuole governare con l’Udc, ma Bersani ha detto molto chiaramente che invece vuole anche Casini, che a sua volta vuole Monti. Mi sembra tutto contro natura, mentre registro che tra Sel, Idv, Federazione della sinistra e il complesso delle forze sociali c’è una convergenza contro il Fiscal compact e le politiche recessive di questo governo che dovrebbe determinare un’unica lista di sinistra che si candidi a governare il Paese su una piattaforma radicalmente diversa da quella che va avanti a livello europeo».
Tornando al referendum: ha senso presentarlo quando il Pd ha già detto che intende modificare la riforma Fornero in Parlamento nel 2013, mentre se tutto va bene i quesiti si voteranno nel 2014? «Guardi, sull’articolo 18, dieci anni fa, ci fu l’iradiddio e riuscimmo a bloccare Berlusconi. Oggi invece le modifiche sono passate con l’appoggio del Pd. Il referendum è uno dei pochi strumenti che permette alla gente di esprimersi liberamente. Se poi veramente il lavoro in Parlamento renderà inutile il referendum, tanto meglio, stapperò una bottiglia di spumante. Però la vedo difficile».
Ma perché presentare un referendum sulle modifiche all’articolo 18 e non sulla riforma delle pensioni?
«Ma infatti nei prossimi giorni presenteremo un referendum anche su quest’altro meccanismo infernale ideato dal governo Monti, che ha determinato un allungamento dei tempi che non ha paragoni in Europa».
Non le è venuto il dubbio che forse state sbagliando qualcosa, se la Cgil non appoggia questa iniziativa?
«Intanto, una bella fetta della Cgil, dalla minoranza di Rinaldini alla componente della maggioranza di “Lavoro e società”, l’apoggia. E comunque penso che la Cgil stia sbagliando non solo a non sostenere questo referendum, ma anche a mantenere un profilo così poco autonomo rispetto al governo».
Ma se si parla di sciopero generale?
«Non è questione di sciopero generale o di dichiarazioni. Serve un impegno sindacale vero, un protagonismo come c’è in Francia, Spagna, Grecia. Con Berlusconi c’era, ora assistiamo a una drammatica perdita di autonomia».

l’Unità 13.9.12
Il rischio dell’autogol
di Michele Prospero


QUESTA STORIA DEI REFERENDUM RISCHIA DI COMBINARE GUAI SERI. LA DESTRA HA LASCIATO IN EREDITÀ LA DECOMPOSIZIONE DELLA POLITICA E LO SFILACCIAMENTO DELLA SOCIETÀ. L’UNICO ARGINE ALLA CADUTA DEL PAESE PASSA ORA attraverso la ricostruzione di una sinistra coesa che tamponi la cecità rovinosa mostrata dalla borghesia italiana. Con i loro media omologati, i poteri economici e finanziari civettano sempre più con l’antipolitica. Anzi, la alimentano per servirsene come un’arma per bloccare il cambiamento e ottenere, in nome dell’emergenza, il commissariamento del governo.
Oltre che dai nemici esterni, che sono ricchi, agguerriti e capaci di costruire con la loro fabbrica della deviazione semantica un senso comune ostile alla politica, la sinistra deve però guardarsi anche dai suoi brutti malanni interiori. Le primarie, così come sono da taluni interpretate, cioè come un duello tra rottamazione e referendum di classe, non mostrano un senso costruttivo e rigonfiano anzi un male oscuro pronto a favorire la perdizione. La ragione sobria della politica, che persegue una sintesi culturale alta per governare una ardua transizione di sistema, è sfidata dal virus dell’antipolitica.
Con il vento maligno delle primarie trionfano uno stile falso della semplificazione e un dialetto della banalizzazione, figli di un tempo degenerato da combattere. Le metafore sulla rottamazione o l’uso della clava referendaria appartengono entrambe a questa deriva populistica che strapazza l’analisi politica e amplifica la ricerca di una visibilità a buon mercato. Dominano perciò il gesto plateale, le scappatoie furbesche che più assicurano la differenziazione su temi simbolici. Il referendum sull’articolo 18 non solo reintroduce i macabri squarci che nel 2008 provocarono la caduta di Prodi (con ministri di piazza e di palazzo) ma manipola il corso reale degli eventi. Mette infatti in sordina i significativi miglioramenti che, dopo un duro braccio di ferro con il governo, portato da Bersani ai limiti della crisi, il Pd riuscì a ottenere, ispirandosi al modello tedesco.
In generale, lo spazio della legge, dell’intervento autoritativo, andrebbe ridimensionato per affidare le relazioni sindacali al libero conflitto tra le parti sociali o alla pratica della concertazione. Certo il referendum sulle materie del lavoro non può essere uno strumento agitato per accaparrarsi qualche manciata di voti ai gazebo. Non si gioca in maniera così spregiudicata sulla pelle del lavoro, che versa in una condizione drammatica. Le classi lavoratrici hanno bisogno di unità, non sanno che farsene di una artificiale linea di rottura tra i partiti e i sindacati.
La sinistra radicale sembra essere caduta nella trappola tesa da Di Pietro. Con il terzo referendum per ora tenuto in ombra, ma che in realtà diventerà presto qualificante per attirare la partecipazione dei cittadini alle urne, quello contro la casta, contro il finanziamento pubblico della politica, la sinistra radicale accetta di tramutarsi in una imbarazzante ruota di scorta del populismo. Che tristezza vedere il nucleo più combattivo della classe operaia italiana, la gloriosa Fiom, arruolato nella banda dell’antipolitica che, con il referendum contro la casta, marcerà di sicuro al fianco di molti imprenditori già ora con l’elmetto pronto!
Di Pietro, si sa, non è di sinistra, e nemmeno di centro o di destra. È solo un populista astuto che sa giocare il suo ruolo di guastatore per sopravvivere ancora un po’ sulla scena. Per questo, mentre in Italia recita le prove tecniche di un biennio rosso alle porte, in Europa fa parte organica del gruppo liberale. A Bruxelles è in compagnia delle formazioni più ultraliberiste e antisolidaristiche del vecchio continente, che sono al governo con la Merkel e con Cameron.
La sinistra non può stare al gioco del populista. La sua leadership più seria deve in gran fretta recuperare il mestiere della grande sintesi, della proposta politica innervata dalla analisi e dal pensiero. Per sconfiggere il populismo che è fuori e che dal governo ha distrutto l’Italia, occorre anche guardarsi dal populismo che cerca di insinuarsi dentro, e che pretende di trasformare le primarie in una grande opera di distruzione nichilista.

Repubblica 13.9.12
Letta: l’iniziativa di Sel sull’articolo 18 azzera un faticoso compromesso
"Nichi fermi i giochetti così farà saltare l’alleanza il referendum spacca tutto"
di Giovanna Casadio


È come nel gioco dell’oca: siamo di nuovo alla casella di partenza. Serve un chiarimento
Pd troppo rosso? Non concordo con Bindi. Bersani fa un discorso equilibrato e di speranza

ROMA - Vendola ha firmato i referendum sul lavoro. Un tradimento del patto con il Pd, onorevole Enrico Letta?
«Sicuramente è una scelta che ci fa tornare indietro. È come nel gioco dell´oca: siamo di nuovo alla casella di partenza. Su questo punto deve esserci un chiarimento di prospettiva».
Sta dicendo che è in discussione l´alleanza con Sel?
«Il rischio c´è. Dobbiamo offrire chiarezza ai cittadini; non possiamo ricominciare con i giochetti del passato. La scelta di Vendola sembra fatta apposta per mettere in difficoltà il Pd e tutti coloro che hanno scelto - a partire da posizione riformiste di centrosinistra - di sostenere Monti e il suo governo. Una mossa che entra a piedi uniti anche dentro le dinamiche e le vicende sindacali e delle relazioni sociali».
In che senso?
«La normativa sull´articolo 18 ha provocato una spaccatura tra la Cgil e la Fiom. L´ultima stesura della riforma Fornero all´articolo 18 è stata oggetto di una mediazione molto faticosa, con una contrarietà netta del Pdl. Alla fine il testo fu accettato dal sindacato confederale, mentre la Fiom è rimasta contraria».
Tornando a Vendola: i referendum pregiudicano quindi l´alleanza?
«C´è un problema serio, perché stiamo pensando di fare le primarie insieme. Nichi deve spiegare come è compatibile la scelta di sottoscrivere i referendum sul lavoro con la costruzione di un´ipotesi di governo con noi; perché ha scelto di mettersi contro quel faticoso, ma avanzato, compromesso che si è riusciti a strappare, e ha scelto la Fiom. Così si riaprono discussioni, veleni; si scopre il vaso di Pandora, come se non si fosse fatto un lavoro prezioso».
Casini, il leader centrista, vi invita a mollare Vendola. Lo ascolterete?
«Non accettiamo imposizioni esterne. In questo momento è fondamentale che tutti facciano bene la loro parte, ad esempio sull´ultimo sforzo per cambiare la legge elettorale. Vedo invece segnali antipatici: non abbiano la tentazione Udc e Pdl di provare blitz, perché vorrei ricordare che quello stesso asse di danni sulla legge elettorale ne ha già fatti parecchi: ha partorito il Porcellum».
Ma lei sulle preferenze è d´accordo?
«Le nostre priorità sono che la sera del voto si sappia chi ha vinto le elezioni; che i cittadini possano scegliere i parlamentari. La strada maestra è il collegio, ma se l´unica via per sbloccare la situazione fossero preferenze, io personalmente direi sì anche alla preferenze».
Nelle tensioni tra Monti e la Cgil, lei da che parte sta?
«Questo autunno di problemi sociali ce ne saranno talmente tanti, che mettere benzina sul fuoco delle tensioni già elevate è un errore. Quindi penso che la Cgil debba essere molto prudente nell´annuncio di scioperi generali contro un esecutivo tecnico che sta per lasciare il posto a un governo politico. Deve considerare il fatto che alla chiusura della legislatura mancano poco più di una decina di settimane. Aggiungo un caldo consiglio al governo: solo con risorse per ridurre il cuneo fiscale il governo può fare un accordo serio sulla produttività. Altrimenti suggerisco di soprassedere».
Troppo "rosso" nel Pd, sostiene Rosy Bindi, che viene dalla tradizione cattolico democratica, come lei. È d´accordo?
«Non sono d´accordo con Bindi su questo. Il discorso di Bersani a Reggio Emilia mi è parso equilibrato e di prospettiva, di chi conferma le ragioni del sostegno a Monti ma con l´impegno di fare un governo politico che aggiunga speranza e tenti di aiutare il ceto medio che oggi soffre».
Dopo Monti non c´è Monti?
«Concordo con quello che Monti ha detto: sarebbe grave se l´Italia non riuscisse a darsi un governo politico eletto dai cittadini. Difendo le primarie volute da Bersani: saranno il vero antidoto all´antipolitica dimostrando che, a partire dal segretario, nessuno di noi ha il sedere al calduccio e tutti ci mettiamo in gioco».

l’Unità 13.9.12
Voto cattolico, centrosinistra in testa e cresce Grillo
di Roberto Monteforte


Lo spirito «grillino» circola allegro tra gli elettori cattolici che, in particolare se «praticanti», sono fortemente tentati dall’astensionismo. Ben il 43% degli intervistati, infatti, avrebbe l’intenzione di disertare i seggi, mentre il 14% mostrerebbe interesse verso il Movimento 5 Stelle.
Parlano chiaro i risultati dell’inchiesta realizzata dall’istituto Ipsos per le Acli in vista del prossimo 45° incontro nazionale di studi che si terrà ad Orvieto il 14 e 15 settembre al quale parteciperanno anche il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini e il segretario Pd, Pier Luigi Bersani.
Nelle intenzioni di voto dei cattolici l’Ipsos segnala la progressiva perdita di consenso del centrodestra (Pdl e Lega): dal 45% del 2006 all’attuale 31%; la tenuta del centrosinistra (nella formula di Vasto: Pd, Idv, Sel): 34%. La crescita del centro (Udc, Fli e altri) al 16%. Ma ciò che più colpisce è il 14% di consensi “cattolici” al Movimento 5 stelle, e soprattutto l’elevato livello di incertezza e astensionismo (43%). La lontananza dei cattolici dalla politica si evince anche dalla scarsa propensione all’impegno diretto (15% contro il 30% del campione).
Una non propensione al voto spiegata più che per disinteresse, per delusione verso i politici, anche quelli cattolici. Dal sondaggio emerge lo scarso interesse per un partito dei cattolici. La domanda, invece, è per una maggiore capacità di incidere e visibilità dei politici cattolici nei diversi partiti. Ben il 56% degli intervistati e il 62% dei cattolici «impegnati» ritiene che gli attuali partiti siano destinati a scomparire, cambiando radicalmente lo scenario come sin qui l’abbiamo conosciuto. Ci si aspettano novità o con la nascita di un nuovo partito (25%) o, soprattutto, con una lista espressione della società civile (32%). L’attesa di un nuovo partito è nettamente più elevata tra i cattolici impegnati (42%), tra i quali si raggiunge il livello più basso di consenso per gli attuali partiti.
Dall’indagine emerge che nell’agenda che motiverebbe l’elettorato cattolico al voto vi sono in testa la lotta agli sprechi e alla corruzione (21%), il rafforzamento dell’economia e la difesa del potere d’acquisto di lavoratori e famiglie (18%). Con buona pace della gerarchia ecclesiastica risultano in coda i temi «etici»: compresa la difesa della vita e il tema delle coppie di fatto (7%).
L’indagine Ipsos rivela come le parole che suscitano sentimenti fortemente positivi, sono quelle che richiamano «comunità e coesione»: famiglia, solidarietà, partecipazione, lavoro e bene comune. Segno che è ancora forte la tensione per una risposta solidale e non individualistica alla crisi. Non vi è neanche rassegnazione, ma domanda di cambiamento. Interrogati dall’Ipsos sul dopo Monti, la preferenza degli intervistati va a «governi competenti e orientati al bene comune»: la riproposizione di un governo tecnico (23%) accompagnato da una grande coalizione (27%). In netto calo sarebbe l’interesse per governi di centrodestra (14%) e di centrosinistra (15%).
Il presidente delle Acli, Andrea Olivero, alla mano i dati del sondaggio, osserva come per l’elettorato cattolico siano una priorità «trasparenza, legalità e buona politica». «Nel nostro mondo sembra esserci spazio e voglia per una sorta di grillismo “bianco”, un grillismo cattolico. Un’attesa di discontinuità, cambiamento e trasparenza della politica osserva che non può essere trascurata se si vuole andare incontro alle richieste e alle attese degli elettori». Sul calo di interesse per i temi etici invita a considerare la necessità che il «ricatto della crisi» che «non faccia perdere di vista l’importanza decisiva delle questioni della vita ma anche dell’ambiente».
«È inimmaginabile – aggiunge il presidente delle Acli – che i partiti non tengano conto di questa esigenza radicale di cambiamento. L’offerta politica attuale è evidentemente insufficiente. Non servono operazioni di maquillage, non bastano cambi di nome. È necessario lanciare segnali concreti di rinnovamento delle classi dirigenti, della modalità stessa di fare politica e di costruire il rapporto con cittadini e società civile, a partire dalla riforma della legge elettorale e dalla trasparenza nel finanziamento dei partiti». Senza segnali visibili e credibili di cambiamento, continua Olivero, qualsiasi alleanza o proposta politica alle prossime elezioni si rivelerà «inutile e velleitaria, allontanando i cittadini dal voto. Serve un salto di qualità nella presenza dei cattolici in politica. Non una cosa bianca, ma una cosa nuova».
Vari i commenti all’indagine Ipsos. Giorgio Merlo (Pd) invita i partiti, la politica e l’area cattolica a riflettere sul quel quasi 15% di cattolici che «solidarizza e condivide l'atteggiamento, il linguaggio violento e un po’ squadrista e la proposta politica di Grillo». È bene chiedersi, osserva, «che cosa sia oggi il mondo cattolico» se segue « questa progressiva deriva qualunquista».

Corriere 13.9.12
Tabacci: alle primarie rappresenterò i cattolici
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Bruno Tabacci annuncerà domani all'assemblea dell'Api la sua candidatura alle primarie del centrosinistra. Una scelta dettata dall'esigenza, afferma, di creare «un punto di riferimento per chi ha una cultura politica cattolico-democratica come la mia».
Perché questa decisione visto che è anche assessore al Bilancio nel Comune di Milano?
«Mi propongo perché in questi mesi si decidono le sorti del Paese. Dopo l'esperienza del governo Monti la politica è chiamata a riprendersi un ruolo, ma dovrà farlo facendo tesoro delle cose buone compiute quest'anno».
Che cosa apprezza di più nell'attività del premier?
«Ha definito meglio il rapporto con le forze sociali dicendo che tutti devono essere consultati ma le decisioni finali spettano al governo. Questo è un esempio di cultura di governo del quale abbiamo bisogno. Il cammino da fare è enorme e ciò che abbiamo fatto in questi mesi è parte dell'agenda che va completata».
Un suo potenziale alleato, Nichi Vendola, raccoglie le firme per un referendum abrogativo della riforma Fornero. Non si trova a disagio?
«L'iniziativa di Vendola è sbagliata sul terreno dei contenuti. È chiaro che certe cose si possano correggere. Ma non credo che il prossimo governo possa avere come obiettivo quello di ribaltare le riforme appena fatte per dare equilibrio alla finanza pubblica e assestare il sistema previdenziale. Sono anche convinto che Vendola abbia lanciato l'iniziativa perché è stato richiamato dai suoi amici che lo accusano di avere ceduto troppo a Bersani. Registro inoltre che sulla vicenda Ilva ha avuto un approccio da uomo responsabile, da uomo di governo».
E allora è possibile la convivenza tra gente come lei e il governatore pugliese?
«Certo è possibile. E lo dico dopo la straordinaria esperienza fatta nella giunta di Milano, guidata da Giuliano Pisapia. Ciò mi induce a sostenere che è possibile realizzare un'intesa di governo anche con forze che, sulla carta, appaiono connotate da un certo estremismo. Pisapia, indicato come un pericoloso sovversivo, in realtà si è rivelato uomo capace di fare sognare i milanesi e lo ha fatto con la misura tipica di un borghese illuminato, di una persona che ha in mente gli interessi generali».
Il nuovo governo avrà l'agenda Monti come programma oppure ne avrà un altro? Bersani ha sostenuto che è finito il tempo dei banchieri al governo.
«Non considero il governo Monti il governo dei banchieri. Guardi, l'Italia ha mostrato una straordinaria forza negli ultimi dieci mesi. Ha un presidente della Repubblica che ha cavato più di una volta dal cilindro il coniglio vincente. E poi ci sono due uomini come Mario Monti e Mario Draghi, i quali dimostrano che la politica non è la prerogativa dei politicanti che si presumono professionisti in quanto tali».
Monti succederà a se stesso?
«Avrà comunque un ruolo decisivo nell'equilibrio futuro, non so se in Europa o alla presidenza della Repubblica o alla guida del governo».
Il centro è molto affollato. Dopo il convegno di Chianciano dell'Udc ItaliaFutura ha polemizzato con Casini sostenendo che da lì siano partiti messaggi confusi.
«L'alternativa di governo va preparata in modo serio. Casini avrebbe dovuto dichiarare sin dall'inizio questa sua disponibilità. E non prendere tempo, dicendo ne parliamo dopo, facendo così credere che si tratti di una mera intesa di potere».
Nicola Rossi ipotizza una candidatura a premier di Montezemolo.
«Stimo Rossi. Ma dopo avere fatto in questi anni l'esperienza di Berlusconi sono un po' restio a prendere in considerazione persone che abbiano attività imprenditoriali e che siano portatori di conflitti di interesse. Montezemolo ha dato lustro al Paese. Deve scegliere: o continua a dedicarsi all'attività di imprenditore oppure decide di occuparsi solo di politica, affidando la gestione del suo patrimonio a un blind trust, come ha fatto Draghi quando ha accettato di diventare governatore della Banca d'Italia».

Corriere 13.9.12
Preferenze e no a Vendola, Casini, doppio affondo sul Pd
Bersani: ricandidarmi segretario? Lascerò girare la ruota
di Monica Guerzoni


ROMA — «Ma che vuole Bersani da noi, il sangue?». Nella battuta di Pier Ferdinando Casini c'è tutta la tensione di queste ore, con l'accordo sulla legge elettorale che non si trova e le alleanze che ballano. Per «dare una svegliata» al leader del Pd l'ex presidente della Camera ha intonato, di proposito, accenti poco diplomatici, ha detto che «l'Udc non deve nulla al Pd» e che tra democratici e centristi «non c'è alcun accordo» elettorale.
Una mossa che rende Bersani ancora più solo, ancora più preoccupato di restare col cerino in mano: «Casini? Non mi sono offeso, ma devono stare attenti. Il Paese va governato. Noi non scherziamo». Nemmeno Casini scherza e lo ha scritto su Twitter, confermando quanto forte sia il pressing su Bersani. Al quale anche Walter Veltroni, in un lungo colloquio alla Camera, ha ricordato che «tornare a votare col Porcellum non si può». Il problema è che Pdl, Lega e Udc hanno ripreso a parlarsi e il timore dei democrat è che riescano ad approvare a colpi di maggioranza un sistema proporzionale di stampo tedesco. «Sono tre mesi che temo un blitz», rivela Anna Finocchiaro. Al momento però l'ipotesi più probabile è che il braccio di ferro si concluda con un rapido ritocco al Porcellum: introduzione delle preferenze e premio di coalizione, anche se meno generoso.
Per Casini le preferenze sono un punto irrinunciabile («non transigiamo!») e poiché Bersani ha avvertito che il Pd si sarebbe messo di traverso, lui ha tatticamente alzato i toni. Ha detto che non accetterà «ultimatum» e non si farà tirare oltre per la giacca. Tanto che un moderato come il senatore Marco Follini consiglia a Casini «misura e prudenza», rammentandogli «con quanta verve» si battè, a suo tempo, per approvare il Porcellum. Ma al cuore dello scontro non c'è tanto il sospetto che il «capo» del Pd voglia tenersi un sistema che lo porterebbe dritto a Palazzo Chigi, quanto la scelta cruciale sulle alleanze. Nichi Vendola sostiene il referendum per «ripristinare l'articolo 18» dello Statuto dei lavoratori, una consultazione che secondo Bersani «spaccherebbe il Paese». Anche per questo Casini ha congelato il già fragile patto col Pd: «Chi vuole governare questo Paese non può avere nulla a che fare con chi ha presentato i referendum, il cui contenuto è antitetico a quanto fatto da Monti». E poi, fuori taccuino: «Bersani non penserà che io mi tengo il Porcellum e lascio a lui e a Vendola il 55 per cento dei voti, vero?».
Casini ricorda di aver fornito a Bersani un «assist» sul premio alla coalizione, ma in realtà il primo a non volerlo è proprio il leader centrista, determinato a marcare in questa fase le distanze da Vendola. Nel Pd sono in tanti a spingere perché Bersani rompa col suo unico alleato, ma il segretario a «Otto e mezzo» conferma la linea. Il Monti bis? «Lasciamo pensare a Monti quel che vuol fare». Se diventasse premier, lo chiamerebbe all'Economia? «In qualche ruolo me lo immagino, penso che non se ne andrà dall'Italia. E credo potrà essere utile alle prospettive del Paese, secondo quello che ha in testa lui». E le primarie? Bersani non molla. Spera si trovi un accordo sul doppio turno, avverte che al tavolo delle liste elettorali non c'è posto per Renzi e chiude sull'ipotesi di un ticket con il sindaco: «Credo non lo voglia nemmeno lui». Ma la notizia è che sfida i concorrenti a confrontarsi in tv. E non esclude, in caso di sconfitta, di non ricandidarsi al congresso del 2013: «Farò il mio mestiere finché devo farlo... Poi lascerò girare la ruota». Davvero pensa di lasciare? «Fatemelo dire agli organismi del mio partito».

La Stampa 13.9.12
Casini incalza Bersani “Niente accordi con Sel”
Il leader del Pd: “Se divento premier, lascio la segreteria”
di Carlo Bertini


ROMA Non bastano Renzi e le primarie a turbare Bersani: lo strappo di Vendola sull’articolo 18 ha lasciato il segno e nel Pd ha innescato un pressing sul segretario a mollare Nichi al suo destino; riaccendendo così i timori sul fatto che una rottura dell’alleanza farebbe il gioco di chi vuole un Monti bis. Così può esser letta la bordata pubblica di Casini, «non si può governare con chi presenta un referendum sull’articolo 18». Costretto a parare colpi da ogni parte, Bersani rintuzza con ironia lo slogan di Renzi («va bene Adesso, ma dopo? ») e lancia un segnale forte alla nomenklatura, facendo capire che se andrà al governo non si ricandiderà segretario al congresso del 2013. «Farò girare la ruota e la mia soddisfazione sarà farlo il rinnovamento, non dirlo», annuncia a Otto e Mezzo. Dove conferma che vuole primarie a doppio turno per andare al governo con almeno il 51% dei voti.
«Monti è stato e sarà una grande risorsa per il paese. Il rigore è un punto di non ritorno che non rinneghiamo», prova a rassicurare il leader Pd. Consiglia a Monti di candidarsi? Certo per lei sarebbe un bell’impaccio, gli chiede la Gruber. «Bisogna vedere dove si mette... ». Lo vorrebbe come ministro dell’economia? «In qualche ruolo me lo immagino, potrà essere utile al paese. Ma se non vogliamo essere figli di un Dio minore, i cittadini devono indicare una maggioranza e dei partiti che possano condurre in modo univoco un governo».
E su Vendola, il leader Pd liquida come sbagliato il metodo di «un referendum che spaccherebbe il paese, mentre si può migliorare la riforma del lavoro e quella delle pensioni», trovando le risorse anche «con un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari».
Insomma, Bersani non ci pensa proprio a rompere il fronte progressista, anche di fronte ai toni volutamente aggressivi di Casini. Che sulla legge elettorale, dice di non accettare «ultimatum da nessuno: il Pd dice no alle preferenze e vuole il premio alle coalizioni, siamo disposti ad andargli incontro, ma non sulle preferenze». «Ma cosa altro vogliono da me - si chiede poi Casini - Il sangue? Vendola fa quello che fa e sulla legge elettorale neanche si può discutere? Il mio è un assist per Bersani. Ma se poi il premio venisse dato alle coalizioni, lui sarebbe costretto a presentarsi insieme a Vendola e a me lascerebbe praterie aperte sul voto dei moderati». «Devono stare attenti - replica duro Bersani - perché l’Italia va governata e noi non scherziamo». «Caro Pierluigi, qui nessuno ha voglia di scherzare», twittava Casini.
Ma queste schermaglie non devono trarre in inganno, se è vero quanto affermava D’Alema qualche giorno fa che il Pd governerà con Vendola e Casini, al di là di ciò che loro dicono per esigenze di pura propaganda. L’ex premier ieri, pur ammettendo che «quello di Vendola sul referendum è un atto grave», faceva notare come la dinamica delle primarie abbia un peso in tutto questo: «Con Renzi che si presenta come il nuovo, Bersani come la sinistra, Vendola che cosa è? capisco che abbia l’esigenza di posizionarsi... ».
Non deve stupire dunque che Vendola al Tg3 tenga il punto, dicendo che con «il Pd io mi alleo, non è che mi arrendo. Bersani dice che prima di tutto viene il lavoro? Per me significa ripristinare il principio che nessuno possa essere licenziato senza giusta causa».
E visto che i nodi delle alleanze e della legge elettorale sono connessi, non sono casuali i colloqui di ieri alla Camera, come quello tra Veltroni e Bersani. Basta sentire i discorsi di un fedelissimo dell’ex leader, Walter Verini. «Se al Pd venisse proposto un sistema con un premio di maggioranza al primo partito, che ha pure il vantaggio di rilanciare la vocazione maggioritaria, con uno sbarramento e i deputati scelti nei collegi, come si fa a votare contro? Direbbero che ci vogliamo tenere il Porcellum... ». E sono in molti ormai a dubitare sulla bontà di un’alleanza forzata con Sel, da Veltroni a Letta a Fioroni, ma anche gli uomini di Franceschini. «Dopo questa mossa e la compagnia di giro che si è scelto- taglia corto Antonello Giacomelli - l’alleanza con Vendola è finita».

Repubblica 13.9.12
La sfida di Laura Puppato terza candidata alle primarie
"Un´anima bella? Eccomi"
Primarie Pd, ecco la donna che sfida Bersani e Renzi
"Né contro Pierluigi, né contro Renzi"
di Concita De Gregorio


Non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così. Quante energie stiamo perdendo?
Quando è che abbiamo cominciato a credere che sia l´anagrafe a decidere se hai buone idee e buoni propositi? A me sembra un trucco per distogliere l´attenzione

Eccolo, l´altro candidato alle primarie del Pd. Eccola, anzi. Laura Puppato è una bellissima donna di 55 anni, giovane alla politica. È stata eletta sindaco la prima volta 10 anni fa. Ha sconfitto la Lega in Veneto, due volte. Ha amministrato un comune strappandolo al centrodestra e rendendolo tra i più virtuosi d´Italia, d´Europa.
Il suo primo partito è stato il Pd. Ha preso la tessera quando Grillo si è fatto insistente: la voleva con sé come testimonial ai comizi «ma io avevo da lavorare, e poi non mi è mai piaciuto quel tono, quel disfattismo apocalittico. Qui in questa terra impariamo da piccoli che è più difficile e importante costruire che distruggere». Pd, dunque. Fuori dalle correnti e dalle appartenenze. Sessantamila preferenze a sorpresa alle europee del 2009, non ci credeva nessuno. Le hanno sempre preferito altri candidati: per la segreteria, per la presidenza della Regione. Questa Puppato, mah. Poi, alle regionali, ha fatto il pieno un´altra volta: quasi la metà dei voti sono andati a lei. Talmente tanti che non poteva non diventare capogruppo Pd in Regione.
Sorride. Sorride sempre e dentro il sorriso dice cose di granito. Che bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, i partiti esistono per questo: darsi un obiettivo, provare a raggiungerlo, se non ci si riesce ritirarsi. Che bisogna pensare a «riparare il mondo», come diceva il suo amico Alex Langer, e non a farci soldi per sé sfruttandolo ora e pazienza per gli altri. Che non è finita la politica, la vecchia politica: è finito il tempo della cattiva politica. Che non siamo in crisi economica, siamo in crisi di un modello economico dal quale nessuno sembra aver voglia di uscire, perché conviene restarci. Poi fa esempi concreti e luminosi: una scuola, un sistema di gestione dei rifiuti, un modo per ridurre il consumo di energia che genera lavoro e felicità. Poi dice, davanti a una parmigiana di melanzane - «chè anche questa storia che la magrezza è bellezza è una bufala» - che «non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così, quante energie stiamo perdendo? Abbiamo tutti la stessa tessera, no? Allora possiamo provare a fare una proposta che si rivolga agli elettori e dica: questi siamo noi. Decidete. Mettiamoci in gioco per il bene comune, per quanto possiamo e sappiamo. Io lo faccio».
Lei lo fa. Laura Puppato si candida. «Ma non contro Bersani o contro Renzi. Per un´idea di futuro possibile. Per i nostri figli. Io ne ho una di trent´anni, sto per diventare nonna. Questa discussione sull´età è davvero curiosa. Quando è che abbiamo cominciato a credere che sia l´anagrafe a decidere se hai buone idee e buoni propositi? A me sembra un trucco per distogliere l´attenzione dalla vera posta in palio».
Qual è la vera posta in palio?
«Un´altra idea di mondo, che altro? Questo è alla fine. Non c´è salute, non c´è lavoro, non ci sono diritti. Impera la corruzione, la convenienza privata, l´interesse. Un partito deve indicare un´altra rotta. Dire qual è il suo obiettivo, nominarlo anche a costo di scontentare qualcuno. Dare contentini a tutti è facile. Bisogna avere coraggio e andare altrove anche quando tutti dicono: impossibile».
Riparare il mondo, diceva. Ha conosciuto Langer?
«Eravamo molto amici. Nel movimento ambientalista insieme. Io vengo da lì e continuo a pensare che l´anima verde sarà la salvezza del paese. Non c´è dubbio che sia così, se poi ha tempo le dico perché. Alex ci ha dato una mano quando andavamo in Jugoslavia a portare camion di viveri, durante la guerra. Abbiamo fatto non so più quanti viaggi al fronte. Mio figlio Francesco, che oggi ha 19 anni, è nato in viaggio. Lo ha battezzato un prete croato. Sono cattolica, si».
Poi è arrivata la politica.
«Mi sono candidata a Montebelluna, ho vinto. Abbiamo iniziato a parlare di salute, cultura, di raccolta differenziata dei rifiuti contro le mafie dei megaimpianti al veleno. Abbiamo mostrato che basta cambiare mentalità per sconfiggere certi interessi. Non è stato mica facile. Risparmio energetico, riciclaggio. Ci sono voluti anni. Abbiamo dato lavoro. Le pratiche virtuose creano lavoro. Se non si mettono in atto è perché ci sono interessi economici contrari. Sa quanti soldi sono a disposizione oggi per cambiare modo di vita?».
No, quanti?
«L´Europa mette 14 miliardi di euro per qprogetti per le smart cities, 180 per l´incremento dell´efficienza energetica. Il futuro è lì, basta tendere la mano. Parchi, mobilità sostenibile, città digitali. In media nel mondo un edificio ha un bisogno energetico di 160 kilowatt per ora. Noi abbiamo fatto un asilo che ne consuma 20, e senza pannelli solari. Solo costruendo con raziocinio. L´energia che costa di meno è quella che non consumi. Ma non parlo di stare a luce spenta, sa? Parlo di sprechi. Certo che l´Enel questo ragionamento non lo vuole sentire, ma il mondo va lì. Deve andare lì, lo dobbiamo a chi verrà dopo. Centinaia di migliaia di persone trovano lavoro nella costruzione di un mondo pulito. Certo servono anche altre riforme: la giustizia, l´amministrazione».
Cosette…
«Noi agli imprenditori dobbiamo dire. La pubblica amministrazione ti deve dare una risposta in 30 giorni. La giustizia deve emettere un giudizio in 180. Noi, partito politico, vogliamo questo: questo è il nostro obiettivo. Se non ci riusciamo avanti un altro».
Le diranno che è un´anima bella.
«Me l´hanno già detto, in effetti. Si vede che loro si sentono brutte, io preferisco stare nel primo gruppo. Li conosco i cinici. Un giorno D´Alema mi ha detto: io non mi sento più un politico, mi considero un intellettuale. Benissimo, c´è posto per tutti. Gli intellettuali sono indispensabili».
Fra Bersani e Renzi chi avrebbe votato?
«No, guardi. Servono l´energia di Renzi, la competenza di Bersani. Ciascuno faccia quello che sa fare e dica quali sono i suoi obiettivi. Mettiamo insieme le forze, non una contro l´altra.. La gente non è interessata alle battaglie di potere. Viviamo un´epoca drammatica, i giovani non hanno lavoro, i loro padri che lo perdono si uccidono. Quale dev´essere lo scopo di un grande partito di sinistra se non indicare un orizzonte di sviluppo possibile? Allora io dico: zero metri quadri. Facciamo una politica urbanistica senza un metro quadro di costruzione in più. Ristrutturiamo, restauriamo. Abbiamo il paese più bello del mondo, proteggiamolo. Creeremo lavoro, cultura, bellezza, felicità. So di cosa parlo, l´ho fatto. Quando Grillo è venuto a premiarmi come primo sindaco a cinque stelle l´ho ascoltato. Le sue denunce sono giuste, quasi tutte. Quello che è sbagliato è la rabbia, il risentimento, l´ansia di abbattere tutto, il disprezzo della politica. La politica è fatta di persone: bisogna affidare il compito nelle mani giuste, avere fiducia in chi la merita, avere coraggio. I partiti, anche il nostro, soffrono di un eccesso di servilismo: i giovani sono scelti dai vecchi non per i loro meriti ma per la fedeltà. Rompiamo questo meccanismo. Andiamo avanti, invece, lontanissimo: rinnoviamo, sì, dando fiducia al merito e al coraggio».
Con questa legge elettorale…
«Appunto. No ai pateracchi. Facciamo le primarie, per far scegliere i candidati ai cittadini. Se si va a votare con la vecchia legge lasciamo l´80 per cento delle liste agli elettori e il 20 per cento, al massimo, per figure tecniche, storiche…».
E le alleanze?
«Quello delle alleanze non può essere il tema della campagna elettorale. Noi dobbiamo essere noi. Dobbiamo crescere, essere credibili, guadagnare la fiducia degli elettori. Questo è un grande partito. Metta da parte i potentati. Abbia il coraggio di rischiare. Dica quello che vuole, e come lo vuole. Sul lavoro, sui diritti civili, sulla salute e sulla scuola, sullo sviluppo. Gli altri verranno da noi, dopo. Se non ci votano è perché non scegliamo. Diciamo parole chiare. Poi sarà su quello, su quel che diciamo che si decideranno le alleanze. Sono stanca, davvero stanca, di vedere invece che il pd che è anche casa mia è diventato l´autobus di cui si serve chi vuole fare la sua personale fortuna per scendere alla prima fermata. Tutti vogliono vendere la loro merce. Io vorrei partecipare a un mercato comune, invece. Vorrei dire: ho questo da offrire, e voi? Vorrei sconfiggere le destre, vorrei che tutti ci ricordassimo i pericoli che abbiamo attraversato e che corriamo ancora, vorrei proporre un´idea che sia utile ai nostri figli e miei nipoti, non a me. Se serve un´anima bella - ride ordinando il dolce - ho deciso: io ci sono».

l’Unità 13.9.12
Senato, ok dopo 28 anni al reato di tortura
di C. Fus.


Anche l’Italia avrà, nel suo codice penale, il reato di tortura. Mancava da sempre e più volte, soprattutto negli ultimi dieci anni, le Nazioni Unite ci hanno richiamato come inadempienti su questo punto. E troppe volte nelle motivazioni delle sentenze le ultime quelle sugli incidenti al G8 di Genova i giudici hanno osservato amaramente l’impossibilità di condanne per via dell’assenza del reato di tortura.
La voragine, in termini di tutela dei diritti, sembra essere finalmente colmata. Ieri la commissione giustizia del Senato ha approvato all’unanimità i disegni di legge sull'introduzione del reato di tortura in Italia e sullo Statuto della Corte penale internazionale. «È un passo importante spiega la senatrice Silvia Della Monica, capogruppo Pd in commissione si tratta di testi che avevamo proposto come Pd e quello sulla Cpi è già stato calendarizzato per l'aula. Potranno così finalmente essere approvate norme di civiltà e che fanno fare un notevole passo in avanti nella tutela dei diritti fondamentali al nostro Paese, che era in ritardo dopo la ratifica Onu sulla tortura». Della Monica sottolinea come il testo, un solo articolo, persegue la tortura «sia fisica che psicologica».
Risale addirittura al 1984 la convenzione Onu che imponeva al nostro Paese l'adeguamento all'ordinamento internazionale. «Ora commenta il senatore Felice Casson anche in Italia si riconoscerà che si tratta di un delitto contro l'umanità. Il provvedimento deve andare in aula il prima possibile».
Il testo approvato ieri era in discussione in Parlamento dal 2009. La lista di disegni di leggi ad personam o di riforme epocali della giustizia l’hanno nei fatti spostato fino a oggi. Patrizio Gonnella di Antigone, l’associazione che più di tutte si batte contro la tortura, si augura che «a questo punto il Parlamento faccia presto e senza modifiche».

il Fatto 13.9.12
Nuove mafie.140 mila persone usate come merce
Lampedusa, gli scafisti lasciano in mare i migranti
di M. Luisa Mastrogiovanni


Continuano a sbarcare quasi ogni giorno sulle coste della Puglia, della Calabria ionica e della Sicilia orientale. Ma non utilizzano più le vecchie carrette del mare usate dagli albanesi. Nessuna Vlora ha più toccato in due decenni le coste italiane. In vent’anni il fenomeno dell’immigrazione clandestina (trafficking e smuggling, cioè traffico di uomini con scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo e “contrabbando” di persone) è mutato, in parallelo con i cambiamenti politici dei Paesi africani, Mediorientali e asiatici, con le leggi sull’immigrazione sempre più restrittive, con le tecnologie di comunicazione sempre più globali, con l’aumento della domanda del mercato europeo di manodopera a basso costo, sia per sesso che per lavoro.
SI STIMA CHE SIANO 55mila i migranti che ogni anno entrano illegalmente in Europa, vittime di smuggling, il “contrabbando di persone, generando un volume d’affari di 150 milioni di dollari. E che il traffico di uomini per lo sfruttamento sessuale o lavorativo, trafficking in human beings, generi un volume annuale d’affari pari a tre miliardi di dollari, trasformando in merce 140mila persone. Il secondo business più lucroso al mondo dopo quello della droga. Per i nuovi trafficanti d’uomini, anche la parola “mafia” è superata.
“Il quadro sta cambiando molto rapidamente – dice Rob Wainwright, direttore dell’Europol, con sede a L’Aia – in passato c’erano le grandi organizzazioni mafiose dall’Italia, dalla Colombia, dalla Turchia che lavoravano solo all’interno delle loro comunità. Oggi invece assistiamo allo sviluppo di un modello di business più dinamico: gruppi criminali più piccoli, più flessibili, più efficienti che operano fra loro in un’atmosfera molto più collaborativa. Non si fanno la guerra, ma creano reti in collegamento con diversi paesi europei, africani e mediorientali”.
ALLA STESSA CONCLUSIONE sono arrivate le indagini del Dipartimento antitrafficking della Polizia greca, diretto da Georgios Vanikiotis: “Si tratta di organizzazioni moderne, di recente costituzione, composte da diversi “nuclei”, sul modello delle organizzazioni terroristiche. Usano gli stessi metodi: non si conoscono l’un l’altro e i membri di rango basso non sanno neanche per chi lavorano”.
“Questo rende il lavoro della polizia ancora più impegnativo – dice Wainwright – e riflette un cambiamento nella società in generale, che ha aperto opportunità di business per le nuove mafie, che rispondono in maniera dinamica alle domande del mercato”. Le nuove mafie agiscono come vere e proprie agenzie di servizi: specializzandosi in differenti “segmenti” e trafficando indifferentemente uomini, armi, droga. “Addirittura – sottolinea Wainwright – per il traffico di uomini, sono previste tariffe differenziate a seconda del tragitto usato e dei mezzi di trasporto. Chi ha 25mi-la dollari da spendere, in anticipo, può riuscire ad arrivare clandestino in Europa su voli charter o di linea, con imbarco ad Istanbul”.
I DISPERATI che continuano ad arrivare sulle coste pugliesi, invece, hanno pagato fino a diecimila dollari. Afghani, pachi-stani, indiani, iraniani, iracheni, turchi, somali, ghanesi, eritrei, tunisini, marocchini, perfino cinesi e georgiani, convergono su un tratto del fiume Evros al confine tra Turchia e Grecia, e da lì raggiungono i principali porti turchi a piedi o in automobile. Da Bodrum, Antalya, Izmir, s’imbarcano su barche a vela, oppure su yacht o sui classici gommoni con due motori fuoribordo da 500 cavalli l’uno; fanno tappa a Patrasso o Lefkada per fare rifornimenti.
La tariffa più bassa prevede invece l’imbarco a Patrasso sui tir in partenza per l’Italia. È la vecchia rotta seguita negli anni Novanta dalla mafia turca di Aksaray per trasportare i curdi in Europa, riaperta dalle nuove mafie nel 2008, all’indomani degli accordi tra Italia e Libia, quando è diventato più arduo (ma non impossibile) sbarcare a Lampedusa.
Vanikiotis, del Dipartimento antitrafficking della Polizia greca, spiega il fenomeno: “Le leggi anti-immigrazione più restrittive, approvate in Italia, Malta e Spagna, hanno spinto un gran numero di persone a spostarsi dal-l’Africa occidentale verso l’Africa orientale e da lì ad arrivare in Europa attraverso la Turchia e la Grecia. Perfino dalla Nigeria, Somalia e Sudan, arrivano in Italia seguendo questa tratta”.
È LA “TEORIA DEI RUBINETTI” di Cataldo Motta, capo della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, che da vent’anni indaga sui fenomeni migratori: “Chiuso un rubinetto – afferma il magistrato riferendosi alla tratta libica – se ne riapre subito un altro. Le popolazioni in fuga dalla guerra e dalla povertà fanno un giro immensamente più lungo, pagando molti più soldi, riuscendo ad arrivare comunque in Italia, perché le mafie transnazionali riescono a organizzarsi velocemente tanto quanto i cambiamenti politici in atto, trovando subito nuovi percorsi”.
I diversi nuclei comunicano tra loro con cellulari satellitari; ed è seguendo le tracce dei gps, così come il flusso del denaro accreditato su alcuni conti delle agenzie di money transfer che la Procura di Lecce, coordinando le indagini sul territorio italiano e in diversi paesi europei, ha smantellato un “nucleo” che faceva base proprio ad Aksaray, Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, ha spiegato che “l’operazione è stata effettuata per la prima volta dalla sezione Antimafia, perché per la prima volta è stato contestato un reato di nuova competenza delle direzioni distrettuali antimafia, quello di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto dal sesto comma dell’articolo 416 del codice penale”.

l’Unità 13.9.12
Harlem Dèsir, un europeista alla guida del Ps francese
L’annuncio del segretario uscente Martine Aubry e del premier Jean-Marc Ayrault
Parlamentare europeo dal ’99 ha militato in Sos Racisme
Guarda con attenzione al nostro Paese e al Pd
di U.D.G.


Un amico dell’Italia. E del Pd. Convinto che la sfida decisiva di un futuro che si fa presente è quella di affermare, nell’agire politico, un punto di vista progressista sull’Europa. È il profilo di Harlem Dèsir, prossimo segretario nazionale del Ps francese. «La nostra scelta va su Harlem Désir come primo segretario», annunciano il segretario uscente, Martine Aubry, e il premier Jean-Marc Ayrault, in un comunicato congiunto diffuso a Parigi. «Se i militanti aderiranno l’11 ottobre, e voteranno per il nostro candidato il 18 ottobre aggiungono i due socialisti Harlem Désir sarà il primo segretario del Ps conformemente alle nostre regole». Il voto dei militanti dovrebbe essere solo una formalità: tutti gli osservatori sono infatti concordi nel dire che cinque mesi dopo l’elezione di Hollande all’Eliseo, i 175.000 aderenti del Ps si pronunceranno per la mozione Aubry-Ayrault, scegliendo Desir. Il congresso di Tolosa (26,27,28 ottobre) sarà poi l’occasione per il passaggio dei poteri. Numero 2 del Ps, Desir, 53 anni, sembra dunque aver avuto la meglio sull’altro sfidante, il deputato Jean-Christophe Cambadèlis.
BIOGRAFIA
Prima di fare carriera con i socialisti, in particolare al Parlamento europeo dove è parlamentare dal 1999 e dove è specializzato di questioni legate alla globalizzazione Desir è stato presidente dell’associazione Sos Racisme negli anni 80. All’europarlamento, è stato membro di diverse commissioni, tra cui quella del commercio internazionale dal 2009. Nel 1998, è stato condannato a 18 mesi con la condizionale e a 30.000 franchi (4.500 euro) di multa per salari fittizi in un’associazione di Lille. Una vicenda che risale al biennio 1986-1987. Désir che si è detto «fiero e onorato» per la sua nomina sostituirà dunque la Aubry. Quest’ultima ha avuto il merito di rinnovare il partito organizzando le primarie dello scorso autunno, prima tappa della vittoriosa campagna presidenziale di Hollande. L’Europa deve essere al centro dell’iniziativa politica dei progressisti. Un concetto che Dèsir ribadito solo una settimana fa, in una intervista concessa a l’Unità: «Non può essere altrimenti. Cercare soluzioni nazionali per uscire dalla crisi non è solo sbagliato, è qualcosa di anacronistico. Vuol dire non fare i conti con i processi di globalizzazione, le cui dimensioni sono tali da non permettere a nessun Paese europeo, da solo, di poter competere. L’Europa è al centro della crisi mondiale, perché la destra non è stata capace di attaccare la speculazione, smantellando così lo stato sociale e aggravando la situazione. Abbiamo una grande responsabilità verso la Grecia, la Spagna e gli altri Paesi attaccati dalla speculazione finanziaria e la risposta a questa crisi deve essere europea, un’Europa differente che discuta di crescita e solidarietà, che disponga di una moneta comune e di una finanza comune, partecipe di un’avventura comune: non vogliamo un’Europa del nord contro un’Europa del Sud», aveva sostenuto il neo segretario «in pectore del Ps».
Una visione e una politica conseguente: «Assieme al Pd e alla Spd aveva ricordato in quell’intervista Dèsir abbiamo messo in campo una proposta relativa alla emissione di project bond e alla mutualizzazione dei prestiti, per finanziare iniziative per la crescita in settori strategici, come è quello, ad esempio della green economy, un campo nel quale l’Europa dovrebbe essere pioniera». Anche per questo suo profilo marcatamente europeista, Harlem Désir è stato scelto da Francois Hollande. L’europarlamentare ha una assidua frequentazione, un rapporto privilegiato, con il Pd, e il suo leader, Pier Luigi Bersani.
«L’Europa deve ricominciare ad essere sinonimo di speranza, di solidarietà, di nuove prospettive in un mondo messo in crisi dal dominio dei mercati finanziari. In questo senso, registro con soddisfazione che l’elezione di Francois Hollande ha permesso di spostare il dibattito in Europa sul tema della crescita. È questo il terreno su cui deve sempre più caratterizzarsi l’iniziativa dei progressisti europei», aveva sostenuto, sempre con l’Unità, nel giugno scorso, Désir, in missione a Roma, dove aveva incontrato Bersani, il presidente del Gruppo Pd alla Camera, Dario Franceschini, e il capogruppo Spd al Bundestag, Frank-Walter Steinmeier. Un patto d’azione che Dèsir intende sviluppare ulteriormente. Da numero uno di Rue de Solférino.

Repubblica 13.9.12
Il segretario del partito sarà Harlem Désir, padre della Martinica e madre alsaziana
Francia, il volto nuovo dei socialisti la scelta "antirazzista" di Hollande
Uomo di apparato ed ex presidente di "Sos Racisme" prenderà il posto di Martine Aubry
di Giampiero Martinotti


PARIGI - Da ieri c´è un volto nuovo nel panorama politico europeo: Harlem Désir è stato designato alla guida del Partito socialista per rimpiazzare Martine Aubry, che lascerà l´incarico al congresso di fine ottobre. Désir è praticamente sconosciuto fuori dei confini nazionali, malgrado una militanza politica ormai trentennale e il suo ruolo di primo presidente di Sos Racisme, l´associazione fondata negli anni ‘80 da giovani militanti vicini al Ps. Padre martinichese e madre alsaziana, il neo-segretario è anche uno dei rari leader europei a rappresentare quella diversità così poco presa in conto nei nostri parlamenti e nei nostri movimenti politici. In Francia, è un fatto passato inosservato, poiché gli antillesi sono francesi da secoli (i primi coloni transalpini arrivarono nel Seicento). Ma gli esempi europei sono scarsi e solo in Germania si trovano due casi di rilievo: Philip R sler, di origini vietnamite, è presidente del Partito liberale (nonché vice-cancelliere), mentre i Verdi sono guidati da Cem Zdemir, ribatezzato «lo svevo dell´Anatolia» per le sue origini turche. Per il resto, il mondo politico del Vecchio Continente è ben poco aperto alle sue minoranze: Oltralpe, solo l´attuale governo ha promosso, più di altri, i figli degli immigrati.
Désir, tuttavia, non è un immigrato, essendo nato a Parigi nel 1959. È un uomo di apparato, cresciuto nell´ombra dopo l´avventura, molto mediatica, di Sos Racisme. La Aubry e il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, avrebbero preferito vedere alla guida del Ps Jean-Christophe Cambadélis, l´ex luogotenente di Dominque Strauss-Kahn. Ma i fedelissimi di Hollande (e a quanto pare anche lo stesso presidente) hanno invece voluto Désir, considerato più malleabile e soprattutto incapace di far ombra ai principali leader del partito. Una scelta che dovrà essere ratificata dai militanti il 18 ottobre in vista del congresso, che si terrà una settimana dopo.
Sconfitta alle primarie dell´anno scorso e scartata da Hollande per la guida del governo, Martine Aubry si farà da parte. È stata leale con il neo-presidente, ma l´abito da leader di partito le sta stretto. Per il momento, si limiterà al suo mandato di sindaco di Lilla, anche se nessuno crede che abbia rinunciato ad ambizioni più alte.

La Stampa 13.9.12
Cosa ha scatenato la rivolta
Quell’ironia su Maometto nel film girato da un israeliano
«L’innocenza dei musulmani» Il film è stato proiettato una sola volta a Hollywood ma su YouTube martedì è stato visto da 40 mila utenti
di Francesca Paci


Bacile si nasconde, dubbi sulla sua identità Il finanziatore è un copto fuggito
Di lui si sa pochissimo, ma di certo il misterioso 56enne israelo-americano Sam Bacile conosceva la portata dell’incendio che avrebbe acceso diffondendo le immagini di «Innocence of Muslims». Steve Klein, consulente del film girato in tre mesi nell’estate 2011, ha raccontato all’agenzia Ap di aver avvertito Bacile che rischiava di diventare «il prossimo Theo van Gogh». Lui però, pur confidando all’amico di essere in ansia per alcuni familiari residenti in Egitto, avrebbe fatto spallucce all’eventualità di finire ammazzato come il regista danese autore del discusso Submission, in virtù di un anti-islamismo più forte della paura. Prova ne sia la dichiarazione rilasciata al «Wall Street Journal» dalla sua casa californiana poco prima di nascondersi in un luogo segreto.
«L’Islam è un cancro e il mio non è un film religioso ma politico» rivendica Bacile al quotidiano americano. Altrettanto politica sembra essere la risposta giunta da Bengasi, dove, verosimilmente, gli aggressori non hanno neppure visto il trailer su YouTube.
Chi c’è dietro il film che è costato quattro vite, tra cui quella dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens, e che lista a lutto l’eredità della primavera araba? Al di là delle teorie dietrologiche all’arrembaggio del web (a chi conviene questo caos? Ai gheddafiani? L’internazionale anti-islamica? Israele? I nemici di Obama?) ci sono le scarne biografie dei protagonisti della pellicola, non tanto i 59 attori amatoriali emuli di Sacha Baron Cohen o i 45 tecnici del rudimentale set, quanto quelli che assai più abilmente li hanno diretti.
Il regista, in primo luogo. Un imprenditore immobiliare prestato al cinema nel cui passato è difficile scavare. La Rete non fornisce indizi e in Israele, sostiene lo studioso irano-americano Reza Aslan, non risulterebbe alcun cittadino di nome Sam Bacile. Anche il giornalista ebreo Jeffrey Goldberg avanza dubbi sull’identità dell’uomo che afferma di aver ricevuto i 5 milioni di dollari necessari a girare da oltre 100 donatori ebrei ma di cui, osserva Goldberg, «nessun ebreo di mia conoscenza ha mai sentito parlare». Altrettanto vago è il percorso del trailer che Bacile dice di aver postato su YouTube all’inizio di luglio e che si sarebbe diffuso nei giorni scorsi grazie all’invettiva di alcuni religiosi egiziani seguita alla traduzione in arabo di un qualcuno ignoto a Bacile ma, per sua ammissione, filologico nella resa del testo (solo martedì pomeriggio il video in arabo ha collezionato 40 mila visioni).
Ci sono poi i promotori del film, tra i quali la stampa americana identifica Terry Jones, il 61enne pastore protestante noto per i provocatori roghi del Corano che già negli anni scorsi avevano acceso l’iper-reattiva rabbia musulmana. Martedì sera, sul suo sito, aveva diffuso un comunicato affermando di voler trasmettere il trailer di 13 minuti nella sua chiesa a Gainesville, Florida.
«Si tratta di una produzione americana pensata non per attaccare i musulmani ma per mostrare l’ideologia distruttiva dell’islam» scriveva Jones, che ora è ricercato dalla procura egiziana per istigazione all’odio insieme ad altre otto persone tra cui alcuni copti. La sua idea era quella d’istituire l’«International Judge Mohammed Day», una giornata dedicata allo smascheramento del Profeta dell’Islam accusato di promuovere «omicidi, stupri, distruzione di persone e di cose attraverso i suoi scritti chiamati Corano». La stessa retorica che nel decimo anniversario dell’11 settembre aveva allarmato l’amministrazione Obama al punto da dare l’altolà al pastore intenzionato a bruciare pubblicamente il Corano.
Infine, dietro le quinte della pellicola, che per l’intera durata di due ore sarebbe stata proiettata una sola volta all’inizio dell’anno in uno studio di Hollywood (almeno così ripete Bacile), si cela Morris Sadek, un copto egiziano residente a Washington fuggito dal paese natale a causa della persecuzione dei cristiani. Nelle ultime ore Sadek, che guida un piccolo gruppo conservatore chiamato National American Coptic Assembly, ha ridimensionato la sua iniziale difesa del video spiegando telefonicamente ai giornalisti statunitensi di essere dispiaciuto per quanto accaduto in Libia e di aver partecipato solamente alla prima parte del film, «quella dedicata alla persecuzione dei copti».
Le domande sono assai di più delle risposte fornite dalle scene di scarsa qualità di «Innocence of Muslims». Specie mentre si ventila l’ipotesi d’una pista qaedista sovrapposta alla facilmente manovrabile disposizione all’ira devastatrice dei più oltranzisti tra gli islamici. Ma la dialettica è talmente sinistra che i copti della diaspora, allarmati dal coinvolgimento di Morris Sadek, si sono affrettati a condannare il film e il suo misterioso regista.

Repubblica 13.9.12
Quella irresponsabile parodia del profeta
“L’innocenza degli islamici" la rozza parodia del Profeta che infiamma le piazze
Autori misteriosi e un budget da 5 milioni di dollari
di Adriano Sofri


Sesso, pedofilia e violenza in un cocktail triviale delle controversie anti-Islam
Un´opera ridicola con l´intento preciso di mancare di rispetto ai fedeli

CHE un film, anche il più grossolano, o un romanzo, o dei disegni satirici, possano scatenare furia di folle e linciaggio (e pretesti di guerre e guerre di pretesti) è solo un segno della durata strenua, e spesso della recrudescenza, dello stato ferino sopra il quale la civiltà è passata come una vernice trasparente. E la smisurata differenza fra i modi di sentire e di sfruttare l´esperienza religiosa non può essere ignorata.
Il cosiddetto reverendo Terry Jones, che si compiace periodicamente di farla grossa bruciando Corani in pubblico e si è precipitato ieri sulla nuova occasione, è un fanatico impostore, e ha una quantità di colleghi e concorrenti nella nostra parte di mondo. Ma nei giorni appena scorsi, quando si giocava il destino della bambina pachistana Rimsha, undicenne cristiana con la sindrome di Down, accusata calunniosamente di aver bruciato alcune pagine del Corano e incarcerata, non ci furono assalti alle ambasciate e nemmeno, salvo che mi siano sfuggiti, più misurate manifestazioni di sdegno di fronte a una simile infamia. Le differenze ci sono, e fanno sì che non si possa cavarsela una volta per tutte, in nome della libertà d´espressione da una parte, o del rispetto per i sentimenti altrui dall´altra.
La reazione che ha improvvisamente incendiato, in un 11 settembre, il Cairo e Bengasi, e contagerà altri paesi, è opera di farabutti professionali e di folle fanatizzate, e nessun pretesto basta a giustificarle. C´è però un cartello all´ingresso del pianeta di oggi, che avvisa del pericolo d´incendio, e avverte di non giocare con le scintille. Dunque guardiamo il film, anzi il trailer del film, che ha fatto da scintilla questa volta. Ha covato a lungo, del resto, poco guardato in un paio di siti YouTube, pochissimo in un cinema di Hollywood. Poi i piromani l´hanno scoperto.
Ad aprire il trailer (quasi 14 minuti sulle due ore del film intero) si ha subito l’impressione di aver sbagliato il filmato, e che qui si tratti di una parodia abborracciata. Invece è proprio lui, costato 5 milioni di dollari e tre mesi di riprese, dice l´autore: soldi e mesi buttati, quanto alla fattura tecnica. Titolo: "L´innocenza dei musulmani", che vuol dire il contrario. Il proposito è di rivelare «la vera vita di Muhammad». Si apre con l´aggressione di un manipolo di islamisti fanatici a una farmacia gestita da cristiani copti, che assassinano una giovane donna e devastano il locale. La polizia egiziana, arrivata in assetto di guerra su una jeep, non interviene: non fino a che avranno completato l´opera, ordina il loro capo. Un vegliardo musulmano ordina a sua volta ai suoi giovani scherani di dare fuoco a tutto ciò che è cristiano. Il farmacista dice ai suoi di casa che la polizia islamica ha arrestato 14 mila cristiani per costringerli a confessare gli omicidi, e formula un´equazione secondo cui l´uomo più un fattore sconosciuto x è uguale al terrorismo islamico; il terrorismo islamico senza quella x è l´uomo. Che cosa è x, sta allo spettatore scoprirlo.
Dopo la premessa contemporanea, si passa alla nascita di Maometto. Sono spezzoni di racconto, com´è del trailer, e questo accentua l´effetto grossolanamente caricaturale. Un uomo giovane intima al padre di prendere il bambino con sé e di allevarlo, magari come uno schiavo. E di chiamarlo Muhammad, nome che significherebbe di padre ignoto - bastardo.
Scena successiva: le visioni del giovane Muhammad sono curate da una fanciulla. «Lo vedi?» «Sì». «Metti la testa fra le mie cosce. Lo vedi ancora?» «No». Segue una scena di investitura di un asino come primo animale musulmano. Un asino parlante, che risponde alle domande, per esempio se gli piacciano le donne: no, non gli piacciono. Ora viene dichiarato il proposito di Muhammad di fare un libro a metà fra la Torah e il Nuovo testamento, per cui si chiede l´aiuto del cugino, morto il quale Muhammad, disperato, vuole andare a buttarsi giù dalla montagna, o trovare un altro espediente.
Poi addestra a catturare donne bambini e animali, e uccidere tutti gli uomini. Dei bambini, usare e abusare. Quanto alla Costituzione, basta e avanza il Corano. Segue una lezione sull´eccezione per cui le donne, anche sposate, devono darsi a lui che è il maestro. Poi l´interpretazione del passo biblico sulla distruzione di Gerico: dunque ora tocca agli ebrei ritirarsi in Palestina o accettare l´estorsione. Chiunque non segua l´Islam del resto ha solo due scelte: pagare o morire. Adesso i suoi, dopo essere andati a procurargli la sposa bambina, si chiedono se non sia anche omosessuale. Un´anziana donna che ne denuncia le malefatte viene legata per le gambe a due cammelli e oscenamente squartata. Un giovane ebreo viene torturato e trucidato davanti a sua moglie, muore pregando che Dio se ne ricordi. Ora sono le sue donne che lo inseguono a colpi di ciabatta nella tenda, perché ha tradito Aisha.
Ho riassunto così dettagliatamente il trailer non perché pensassi che i miei eventuali lettori non l´abbiano guardato - l´avranno fatto, per lo più - ma perché a rileggere la sceneggiatura in compendio, sia pure accanto a trivialità troppo spinte, si scopre che gran parte delle notizie su cui è costruita appartengono da sempre alla controversia storica e alla polemica anti-islamica. Offensivo degli altrui sentimenti è il modo di trattarle. Il «rispetto» - il proposito di non dare scandalo - è parente stretto dell´ipocrisia, ma una dose di ipocrisia è indispensabile ai rapporti umani, quelli privati come quelli fra i popoli e gli Stati. Gli autori di questo ridicolo film sembrano essersi proposti come ideale la mancanza di rispetto e la cialtroneria. Decidendo di essere irresponsabili, se ne sono presi la responsabilità. «Non pensavamo…», diranno loro. Nemmeno l´allora ministro in maglietta di questa Repubblica, Roberto Calderoli, pensava che avrebbero assaltato il consolato italiano a Bengasi, e che negli scontri sarebbero morte 14 persone. Succedeva sei anni fa. Qualche giorno fa hanno revocato la scorta di otto persone che senza interruzione, anche in sua assenza, presidiava una sua villa nel bergamasco. La situazione del mondo è infatti tragicomica.

Corriere 13.9.12
Michael Walzer: «Stiamo perdendo le primavere arabe»
intervista di Ennio Caretto


WASHINGTON — «La cosa più urgente è prevenire altre tragedie come quella di Bengasi. Sono sicuro che Obama farà giustizia dei colpevoli come fece giustizia di Bin Laden. Ma il presidente ha denunciato oltre all'attacco al nostro consolato il video su Maometto. Provocazioni del genere mettono in pericolo le vite degli americani nel mondo islamico». Al telefono dall'Università di Princeton, il filosofo politico Michael Walzer, l'autore di «Guerra giusta e ingiusta», si dice preoccupato che l'America rimanga isolata nell'Islam in seguito a episodi del genere: «E' un mondo in grande fermento con cui bisogna dialogare». Secondo il filosofo, nelle società islamiche c'è uno spazio, sia pure al momento esiguo, per una fioritura «a lunga scadenza», di movimenti democratici.
Che cosa pensa della Libia?
«Che è un Paese in preda a tremende convulsioni, con un governo che forse ha il controllo di Tripoli ma non della maggioranza del Paese, con milizie guidate da signori della guerra, con gruppi terroristici, con formazioni islamiche estremiste. Questa situazione l'abbiamo prodotta noi, bombardando la Libia per rovesciare Gheddafi senza sapere chi ne avrebbe preso il posto e se sarebbe stato in grado di governare. Io mi ero opposto al nostro intervento per queste ragioni. Purtroppo, non sarà possibile rimediarvi in fretta».
Eppure, avete molta influenza sulla Libia.
«Fino a un certo punto. I bombardamenti, anche se bene intenzionati, finiscono per alienare la gente che li subisce. Guardi l'Iraq: lo abbiamo liberato da Saddam come abbiamo liberato la Libia da Gheddafi, ma i nostri rapporti con esso sono tesi. L'Iraq sta aiutando l'Iran a fornire armi e approvvigionamenti alla Siria contro gli insorti».
Di qui il suo timore che l'America resti isolata nel mondo islamico?
«Per ora non siamo isolati. I Paesi sunniti del Golfo Persico e del Medio Oriente ci sono amici, e appoggiano i nostri sforzi per impedire che l'Iran, una repubblica sciita, si procuri l'atomica. Ma l'isolamento diverrà probabile se continueremo a sbagliare politica. In Medio Oriente, con la possibile eccezione della Tunisia, non ci sono democrazie filoamericane, e nel Golfo Persico abbiamo come alleati regimi autoritari, cosa che fa il gioco del radicalismo islamico».
Non puntavate sulla Primavera araba?
«Sì, ma è una scommessa che potremmo ancora perdere. I movimenti "liberal" e democratici sono deboli, e non riescono a riempire il vuoto provocato della caduta dei despoti. Il vuoto lo riempiono o le forze armate o le forze religiose. Avremmo dovuto saperlo ed essere più previdenti. Al momento possiamo solo sperare che le forze armate e quelle religiose si equilibrino a vicenda, come sembra si stia verificando in Egitto tra i Fratelli musulmani e l'esercito. Perché? Perché così lasciano spazio a una terza forza, quella della società civile, per svilupparsi e per emergere in prosieguo di tempo».
Che cosa può fare allora l'Occidente?
«In primo luogo deve prevenire nuove guerre nel mondo islamico e deve mediare nelle rivoluzioni, o la sua instabilità minaccerà la pace mondiale. In secondo luogo deve mantenere i rapporti con i suoi governi, che a mio parere cambieranno con frequenza e non sempre per il meglio. Per ultimo, l'Occidente deve trovare il modo di difendere e di aiutare la società civile emergente nell'Islam. Più regimi moderati sorgeranno e più facile sarà guidare questi Paesi alla democrazia».

l’Unità 13.9.12
Il progresso è fallito. Reagiamo: ora una nuova civiltà
di Edgar Morin e Mauro Ceruti


La nostra crisi è una crisi di civiltà, dei suoi valori e delle sue credenze. Ma è soprattutto una transizione fra un mondo antico e un mondo nuovo.
Le vecchie visioni della politica, dell’economia, della società ci hanno resi ciechi, e oggi dobbiamo costruire nuove visioni. Ogni riforma politica, economica e sociale è indissociabile da una riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma di pensiero, da una rinascita spirituale.
La riuscita materiale della nostra civiltà è stata formidabile, ma ha anche prodotto un drammatico insuccesso morale, nuove povertà, il degrado di antiche solidarietà, il dilagare degli egocentrismi, malesseri psichici diffusi e indefiniti.
Oggi si impone una vigorosa reazione atta a ricercare nuove convivialità, a ricreare uno spirito di solidarietà, a intessere nuovi legami sociali, a fare affiorare dalla nostra e dalle altre civiltà quelle fonti spirituali che sono state soffocate. Questa sfida deve essere integrata nella politica, che deve porsi il compito di rigenerarsi in una politica di civiltà.
Le visioni della politica e dell’economia si sono basate sull’idea, che risale al settecento e all’ottocento, del progresso come legge ineluttabile della Storia. Questa idea è fallita. Soprattutto, è fallita l’idea che il progresso segua automaticamente la locomotiva tecno-economica. È fallita l’idea che il progresso sia assimilabile alla crescita, in una concezione puramente quantitativa delle realtà umane. Negli ultimi decenni la storia non va verso il progresso garantito, ma verso una straordinaria incertezza. Così oggi il progresso ci appare non come un fatto inevitabile, ma come una sfida e una conquista, come un prodotto delle nostre scelte, della nostra volontà e della nostra consapevolezza.
VEDI ALLA VOCE SVILUPPO
Altrettanto discutibile è la nozione tradizionale di sviluppo, definita in una prospettiva unilateralmente tecno-economica, ritenuta quantitativamente misurabile con gli indicatori di crescita e di reddito. Ha assunto come modello universale la condizione dei Paesi detti appunto «sviluppati», in particolare occidentali, alla quale si dovrebbero ispirare tutti gli altri Paesi del mondo (detti perciò «sotto-sviluppati» o «in via di sviluppo»). Così si è arrivati a credere che lo stato attuale delle società occidentali costituisca lo sbocco e la finalità della storia umana stessa, trascurando i tanti problemi drammatici, le tante miserie, i tanti sotto-sviluppi, non solo materiali, provocati dal perseguimento degli obiettivi di una crescita tecno-economica fine a se stessa. Ma le soluzioni che volevamo proporre agli altri sono diventate problemi per noi stessi.
L'iperspecializzazione disciplinare ha frammentato il tessuto complesso dei fenomeni e ha modellato una scienza economica che non riesce a concepire e a comprendere tutto ciò che non è calcolabile e quantificabile: passioni, emozioni, gioie, infelicità, credenze, miserie, paure, speranze, che sono il corpo stesso dell’esperienza e dell’esistenza umana. Oggi siamo chiamati a respingere quello che continua a essere in primo piano: la potenza della quantificazione contro la qualità, la dissoluzione della pluralità di dimensioni dell’esistenza umana a poche variabili, la razionalizzazione che è l’opposto della razionalità critica e che è il tentativo cieco di rifiutare tutto ciò che le sfugge e che non riesce a comprendere a prima vista. Uno dei tratti più nocivi di questi ultimi decenni è l’esasperazione della competitività, che conduce le imprese a sostituire i lavoratori con le macchine e, ove questo non accada, ad aumentare i vincoli sulla loro attività lavorativa. Allo sfruttamento economico, contro il quale hanno sempre lottato i sindacati, oggi si aggiunge un’ulteriore alienazione in nome della produttività e dell’efficienza. Abbiamo urgente bisogno di una politica di umanizzazione di quella che è ormai un’economia disumanizzata.
CAMBIARE STRADA
Se si vogliono seriamente realizzare gli obiettivi di «sostenibilità» e di «umanizzazione», non basta spianare la via con qualche levigatura: bisogna cambiare via. La necessità di cambiare via, naturalmente, non ci impone di ripartire da zero. Anzi, ci spinge a integrare tutti gli aspetti positivi che sono stati acquisiti nel nostro difficile cammino, anche e soprattutto nei Paesi occidentali, a cui dobbiamo i diritti umani, le autonomie individuali, la cultura umanistica, la democrazia. E tuttavia la necessità di cambiare via diventa sempre più urgente, nel momento in cui il dogma della crescita all’infinito viene messo drasticamente in discussione dal perdurare della crisi economica europea e mondiale, dai pericoli prodotti di certo sviluppo tecnico e scientifico, dagli eccessi della civiltà dei consumi che rendono infelici gli individui e la collettività. Certamente, la crescita deve essere
misurata in termini diversi da quelli puramente quantitativi del Pil, mettendo in gioco gli indicatori dello sviluppo umano. Ma la cosa più importante è superare la stessa alternativa crescita/decrescita, che è del tutto sterile. Si deve promuovere la crescita dell’economia verde, dell’economia sociale e solidale. Un imperativo ineludibile dei prossimi decenni è l’accelerazione della transizione dal dominio quasi assoluto delle energie fossili a un sempre maggiore sviluppo delle energie rinnovabili. Anche questa transizione impone di cambiare via, paradigma: dall’attuale paradigma imperniato su un sostanziale monismo energetico (le fonti di energia fossile) a un paradigma imperniato su un pluralismo energetico, nella cui prospettiva si deve sostenere simultaneamente la crescita di molteplici fonti rinnovabili di energia (solare, eolico, biogas, idroelettrico, geotermico...), che possono avere un valore non solo additivo ma moltiplicativo, se messe in rete e se condivise da ambiti internazionali sempre più ampi. In questo senso, la realizzazione di un pluralismo energetico è indissociabile dalla realizzazione di una democrazia energetica: la condivisione energetica risulta un valore fondante delle politiche internazionali, su scala continentale come su scala globale. Nello stesso tempo si deve sostenere la decrescita dei prodotti inutili dagli effetti illusori tanto decantati dalla pubblicità, la decrescita dei prodotti che generano rifiuti ingombranti e non riciclabili, la decrescita dei prodotti di corta durata e a obsolescenza programmata. Si deve promuovere la crescita di un’economia basata sulla filiera corta, e promuovere la decrescita delle predazioni di tutti quegli intermediari che impongono prezzi bassi ai produttori e prezzi alti ai consumatori. E per imboccare una via nuova bisogna concepire una nuova politica economica che possa contrastare l’onnipotenza della finanza speculativa e mantenere nello stesso tempo il carattere concorrenziale del mercato.
Nello stesso tempo, si rivela sterile anche l’alternativa globalizzazione/deglobalizzazione. Dobbiamo globalizzare e deglobalizzare in uno stesso tempo. Dobbiamo valorizzare tutti gli aspetti della globalizzazione che producono cooperazioni, scambi fecondi, intreccio di culture, presa di coscienza di un destino comune. Ma dobbiamo anche salvare le specificità territoriali, salvaguardare le loro conoscenze e i loro prodotti, rivitalizzare i legami fra agricoltura e cultura. Questo andrebbe di pari passo con una nuova politica nei confronti delle aree rurali, volta a contrastare l’agricoltura e l’allevamento iperindustrializzati, ormai divenuti nocivi per i suoli, per le acque, per gli stessi consumatori, e a favorire invece l’agricoltura biologica basata su stretti legami con il territorio. Certo, quando parliamo dell’attuale fase della globalizzazione, non possiamo certo sottovalutare il fatto che Paesi solo poco tempo fa definiti sottosviluppati abbiano decisamente migliorato i loro livelli di vita: sotto questo aspetto le delocalizzazioni della produzione hanno sicuramente svolto un ruolo importante. Ma dinanzi all’eccesso di queste delocalizzazioni, e di conseguenza all’annientamento dell’industria europea, dobbiamo certamente prevedere interventi protettivi.
Per quanto riguarda il destino particolare dell’Europa nell’età della globalizzazione, è decisivo il fatto che tutte le nazioni siano oggi diventate multiculturali. L’Italia stessa è entrata appieno in questo processo, anche se con un certo ritardo rispetto ad altre nazioni storicamente più ricche di legami con il mondo intero: Francia, Gran Bretagna, Olanda, Germania... Le nuove diversità conseguenti alla globalizzazione si sono aggiunte alle diversità etniche e regionali tradizionalmente costitutive dei nostri paesi. Oggi non basta dire che la Repubblica è una e indivisibile, bisogna anche dire che è multiculturale. Concepire insieme unità, indivisibilità e multiculturalità significa far sì che l’unità eviti il ripiegamento delle singole culture su se stesse e nello stesso tempo riconoscere la diversità feconda di tutte le culture. Anche in questo caso dobbiamo superare le alternative rigide. Dobbiamo superare l’alternativa fra l’omologazione che ignora le diversità, che è stata la politica prevalente negli stati nazionali europei degli ultimi due secoli, e una visione del multiculturalismo come semplice giustapposizione delle culture. Per evitare la disgregazione delle nostre società abbiamo bisogno di riconoscere nell’altro sia la sua differenza sia la sua somiglianza con noi stessi. Rendere le diversità interne non un ostacolo, ma una ricchezza per la nazione: questo è un compito essenziale per la ricostruzione civile dell’Italia e di tutte le nazioni europee, nel momento in cui le sfide globali possono essere affrontate solo da società che siano nello stesso tempo aperte e coese.
UN NUOVO PENSIERO
Oggi il pensiero politico deve riformularsi sulla base di una diagnosi pertinente del momento storico dell’era planetaria che stiamo vivendo, deve concepire una via di civiltà, e deve di conseguenza trovare un percorso coerente sul piano nazionale, europeo, mondiale. Attualmente, siamo in una situazione contraddittoria: c’è un mondo che vuole nascere e che non riesce a nascere, e nel contempo questa nascita incipiente è accompagnata da uno scatenamento di forze di distruzione. Questa situazione contradditoria ci impone di superare anche un’altra falsa alternativa classica, basata sulla contrapposizione fra conservazione e rivoluzione. Dobbiamo fare nostra l’idea di metamorfosi, combinando insieme conservazione e rivoluzione. Questa metamorfosi ci appare ancora improbabile, anzi quasi inconcepibile. Ma questa constatazione a prima vista disperante comporta un principio di speranza, motivato dalla consapevolezza che ci viene dalla conoscenza delle grandi soglie della storia e dell’evoluzione umana. Sappiamo che le grandi mutazioni sono invisibili e logicamente impossibili prima della loro attuazione; sappiamo anche che esse compaiono quando i mezzi dei quali un sistema dispone sono divenuti incapaci di risolvere i suoi problemi all’interno del sistema stesso. Così siamo inclini a sperare che, pur ancora improbabile e inconcepibile, la metamorfosi non sia impossibile.

Repubblica 13.9.12
Tzvetan Todorov: “Populisti e messianici quei nemici intimi della civiltà occidentale"
Lo studioso franco-bulgaro racconta il suo ultimo saggio sui problemi e i pericoli interni delle democrazie contemporanee
"Il guaio è quando si cercano soluzioni semplici per problemi complessi vendendo miracoli"
“L’altro rischio è il voler imporre il proprio modello distorcendo l´idea di progresso"
di Fabio Gambaro


«Popolo, libertà e progresso sono fondamenti della democrazia, che però, quando alimentano populismo, ultraliberalismo e messianismo, possono diventare una minaccia per la democrazia stessa». E´ questo il grido d´allarme lanciato da Tzvetan Todorov nel suo nuovo saggio, I nemici intimi della democrazia (Garzanti): alternando prospettiva storica e riflessione teorica, analizza minuziosamente le derive e le contraddizioni che rischiano di minare dall´interno il funzionamento del nostro sistema politico.
Lo studioso francese di origine bulgara parte dalla constatazione che oggi la democrazia non rischia più di essere rimessa in discussione dai suoi tradizionali nemici esterni, vale a dire il fascismo o il comunismo. «Anche se dopo l´11 settembre, c´è chi ha cercato di trasformare l´islam in un nemico globale della democrazia, in realtà per i sistemi democratici le minacce esterne non sono più un pericolo reale», spiega Todorov, che venerdì 21 sarà presente a "Pordenonelegge". «Oggi, i veri pericoli provengono dall´interno della democrazia stessa, da quelli che ho chiamato "nemici intimi", forme di perversione o di stravolgimento di alcuni dei suoi principi di base. Il populismo, l´ultraliberalismo o il messianismo non sono il contrario di ciò cui aspira la democrazia, ma il risultato della dismisura di alcuni elementi - popolo, libertà e progresso - che la costituiscono. Tale dismisura è diventata possibile perché, soprattutto nel XX secolo, sono venute meno le limitazioni reciproche cui questi elementi erano sottoposti».
Nella forma classica della democrazia liberale, interessi collettivi e interessi individuali devono sempre equilibrarsi?
«Il liberalismo classico, da Locke a Montesquieu, ha proclamato la libertà degli individui, ma senza mai immaginarla come una libertà illimitata. Come ricordava Burke, la libertà nello spazio pubblico diventa sempre un potere. Per i pensatori del liberalismo, ogni potere senza limiti è un pericolo. Chi ha un potere cerca di espanderlo e la tentazione della tirannia è inerente al comportamento umano. Di conseguenza, per il buon funzionamento dello Stato, i poteri devono limitarsi e controbilanciarsi a vicenda. Solo così si evita il rischio del dispotismo».
Quest´equilibrio sarebbe il cuore della democrazia?
«Esattamente. La democrazia non è caratterizzata dal dominio di un principio unico, ma dall´equilibrio tra diversi principi. Quando questo viene a mancare, si rischiano derive inquietanti. Il caso più evidente è quello dell´ultraliberalismo, frutto di un´esasperazione smisurata del giusto principio della libertà».
La libertà va limitata?
«Da sempre, gli uomini avanzano rivendicazioni di libertà individuale ma anche di appartenenza collettiva. Bene comune e bene individuale non vanno però sempre nella stessa direzione. La democrazia, grazie alla sua natura mista, si sforza di preservarli entrambi. In passato, le cosiddette democrazie popolari - che ho conosciuto da giovane in Bulgaria - in nome dell´interesse collettivo, non lasciavano alcuna libertà all´individuo. Oggi le democrazie corrono il rischio contrario, vale a dire la tirannia dell´individuo che, in nome di una libertà assoluta e smisurata, sottomette tutta la vita sociale al dominio di un´economica regolata esclusivamente dalle leggi del mercato. In questa prospettiva, si postula l´assenza di ogni controllo della società e della politica sulle forze individuali dell´economia. E talvolta si arriva persino al neoliberalismo di Stato, che è una mostruosa combinazione nella quale la funzione dello Stato diventa quella di smantellare lo Stato stesso e d´impedire qualsiasi controllo della società sull´attività degli individui».
Il primato dell´individuo rifiuta di prendere in considerazione l´interesse collettivo?
«Sì, ma anche quando la società prova a occuparsi del bene comune, la mondializzazione dell´economia spesso le sottrae ogni possibilità d´intervento. Lo si vede oggi in Francia, dove Hollande fa fatica a concretizzare le promesse elettorali, scoprendo di avere un margine di manovra molto limitato. Di fronte al potere dell´economia, il potere politico si ritrova impotente. E le democrazie rischiano di trasformarsi in oligarchie dirette dai pochi che controllano il potere economico».
Il messianismo è il rischio che corre la democrazia quando, considerandosi superiore, pensa di dover intervenire per imporre agli altri i propri principi. E´ così?
«Il messianismo politico è una forma di hubris che si è impossessata degli uomini ai tempi dell´Illuminismo, distorcendo l´esigenza del progresso. Il colonialismo, con la sua pretesa d´imporre ai popoli selvaggi una civiltà considerata superiore nasceva da questa prospettiva. Anche la società ideale del comunismo era una sorta di messianismo. Oggi siamo in una nuova fase, caratterizzata da guerre che intendono portare il bene ad altri popoli. E´ un atteggiamento messianico che ricorda il periodo coloniale. Come allora, crediamo ingenuamente nella superiorità della democrazia, al punto che consideriamo giusto e legittimo imporla anche agli altri attraverso guerre asimmetriche, le cui vittime sono soprattutto le popolazioni civili. Tutto ciò non fa altro che indebolire la democrazia».
Un altro nemico "intimo" della democrazia è il populismo...
«Il populismo non si manifesta solo attraverso la xenofobia e il razzismo. E´ infatti presente ogni volta che si pretende di trovare soluzioni semplici per problemi complessi, proponendo ricette miracolose all´attenzione distratta di chi non ha il tempo di approfondire. Il populismo può essere sia di destra che di sinistra, ma propone sempre soluzioni immediate che non tengono conto delle conseguenze a lungo termine. Il populismo preferisce le semplificazioni e le generalizzazioni, sfrutta la paura e l´insicurezza, fa appello al popolo, cortocircuitando le istituzioni. Ma la democrazia non è un´assemblea permanente né un sondaggio continuo».
Certi comportamenti dei politici non approfondiscono il fosso che li separa dalla società?
«E´ sempre stato così, perché l´uomo di potere non fa più la stessa vita dell´uomo della strada. Dimentica le critiche passate per approfittare della posizione conquistata. A ciò oggi si aggiunge il problema della "spersonalizzazione" del potere. In passato, le forme del potere erano più facilmente identificabili, era quindi possibile rivoltarsi contro un avversario visibile. Con la mondializzazione, il potere economico è diventato un potere diffuso, sfuggente, impersonale. Non si sa più come agire, contro chi rivoltarsi. Ci si sente impotenti. Il che spiega una certa disillusione nei confronti della democrazia».
La condivide?
«Io sono convinto che la democrazia abbia ancora la possibilità d´intervenire almeno in parte sulla realtà. I partiti e i loro programmi non sono tutti uguali, e con il voto è possibile determinare alcune scelte collettive sul piano dell´economia e della società».
I cittadini hanno spesso l´impressione di contare di più attraverso le iniziative di base che attraverso i rituali della democrazia. Che ne pensa?
«La democrazia ha forse perduto una parte del suo potere d´attrazione, ma attraverso i suoi meccanismi conferisce ancora molto potere, anche se i risultati sono meno visibili che in passato. Sebbene indebolito, il potere dello Stato resta importante. E´ un potere che va esercitato, votando, controllando. La democrazia non si esaurisce in una sola forma di partecipazione. Il suffragio universale è certo un principio fondamentale, ma è solo un elemento tra molti altri. Ecco perché la moltiplicazione dei livelli d´impegno nella vita pubblica è un segno della vitalità della democrazia».

Repubblica 13.9.12
Così l’italia è diventata una "peggiocrazia"
di Luigi Zingales


Il libro, uscito prima negli Usa, contiene nell’edizione italiana queste riflessioni sulla condizione del Paese
Anticipiamo un brano dall´ultimo saggio di Luigi Zingales intitolato "Manifesto capitalista"
Se le imprese non crescono, la colpa è anche dell´amoralità sempre più diffusa
Si delega troppo spesso ai propri eredi senza pensare che occorrono criteri meritocratici

Anche se gli Stati Uniti si stanno sempre più avvicinando al capitalismo clientelare di tipo italiano, c´è un aspetto in cui l´Italia è profondamente diversa: l´illegalità diffusa. Se le imprese americane pagano i lobbisti per cercare di modificare la regolamentazione a proprio favore, in Italia le imprese pagano direttamente i funzionari statali per evitare di sottostare alla regolamentazione e per evadere le tasse. È un problema non solo etico, ma anche economico.
Già nel 1981, in un´intervista su Repubblica (fatta da Eugenio Scalfari, n.d.r.), Enrico Berlinguer, allora segretario del Partito comunista, sollevava la "questione morale". La sua era una battaglia politica contro il sistema di potere democristiano. «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela», diceva, «gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi».
Berlinguer rivendicava la superiorità morale del suo partito, ma, come dimostrarono poi i fatti, era la moralità di un partito che non era stato al potere e che, come tale, non aveva avuto l´opportunità di essere corrotto. Sono passati più di trent´anni. La Democrazia cristiana non c´è più, il Partito comunista nemmeno. Ma la questione morale resta, anzi: si è metastatizzata nel settore privato.
Non si tratta più solo di politici che prendono soldi per finanziare illecitamente i propri partiti. Non ci si limita neanche a quanti favoriscono gli amici ricevendone in cambio vacanze, denaro, perfino case. Il cancro ha raggiunto ogni aspetto della società civile. I banchieri sono accusati di prendere mazzette per concedere credito, perfino i calciatori sono accusati di percepire tangenti per perdere le partite.
Da tema solamente politico, la questione morale è diventata economica: la causa ultima del mancato sviluppo dell´ultimo decennio. Se le nostre imprese non crescono la ragione non è tanto il famigerato articolo 18, ma l´amoralità economica diffusa nel nostro Paese. Non è solo la mia opinione: sono i dati a dirlo. Nei Paesi in cui c´è maggiore fiducia nell´onestà dei propri concittadini le imprese sono più grandi.
Il motivo è che un proprietario delega i suoi poteri solo quando si fida del dipendente, perché più delega e più alto è il rischio che un dipendente ne approfitti, rubando o arricchendosi alle sue spalle.
L´impossibilità di delegare dovuta alla mancanza di fiducia forza le imprese a rimanere piccole e familiari. Per questo non si espandono, per questo non vogliono cedere il controllo, che nel nostro Paese vale molto più che negli altri. Per questo il controllo è detenuto da famiglie attraverso complesse piramidi societarie.
Il problema delle imprese familiari non è tanto la presenza della famiglia nell´azionariato, ma il ruolo giocato dagli eredi ai vertici dell´impresa. Le imprese capitanate dal patriarca-fondatore valgono in media più di imprese simili senza alcuna presenza familiare.
Quando il bastone del comando passa a un erede, però, l´impresa familiare ne risente, e il suo valore di mercato scende in media del 10%.
In particolare, il valore di mercato di un´impresa familiare decade quando viene scelto come amministratore delegato un erede. Se invece il successore alla guida dell´azienda è selezionato all´esterno della famiglia, all´annuncio della nomina il valore dell´impresa sale del 2%.
La responsabilità della cattiva performance degli eredi è soprattutto di quei rampolli che non hanno conseguito una laurea "decente". Questo rinforza la tesi per cui il problema dell´impresa a gestione familiare sia il limitato patrimonio di talenti. Se non si ha la fortuna di avere un erede preparato e adatto al ruolo che gli viene affidato, l´azienda ne risente. Le imprese familiari guidate da un discendente del fondatore sono meno produttive e usano pratiche manageriali più inefficienti di quelle dirette da un manager esterno. Questo fenomeno è particolarmente pronunciato quando come discendente viene scelto il figlio primogenito, anteponendo dunque la regola dinastica alla scelta del migliore.
Ancora una volta, il problema non è la presenza della famiglia, ma il suo ruolo al vertice dell´impresa.
La diffusa mancanza di fiducia impedisce anche che si realizzino meccanismi di selezione meritocratica. Se temo che il dirigente sia infedele, scelgo il nipote, il parente, l´amico anche quando costoro sono meno competenti. Per questo la qualità dei manager non è sempre delle migliori: nel Belpaese la fedeltà vince sulla competenza.
In Italia manca una cultura del merito perché non c´è una cultura della legalità. Se io, politico (capo di partito o di governo), voglio ottenere dei benefici o dei favori che non mi competono, nomino non un candidato competente, ma uno a me fedele. Se io imprenditore voglio assicurarmi che le mie tangenti, le mie evasioni fiscali, i miei intrecci col potere politico non vengano rivelati, non scelgo il manager migliore, ma quello più fidato. E non c´è persona più fedele del buono a nulla, di chi non ha alternative. Se l´Italia non cresce, se è a rischio di default, è perché è stata fin qui governata dai peggiori. Non i mediocri: i peggiori. Il clientelismo politico e l´economia sommersa hanno trasformato il nostro Paese in una peggiocrazia.
È per questo che in Italia si trovano le migliori segretarie e i peggiori dirigenti. In un sistema che non premia il merito molte persone, soprattutto donne, che avrebbero tutte le capacità di essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono affidati a chi è ben introdotto, anche se spesso non è all´altezza del compito. Questo clientelismo è il motivo per cui il nostro Paese si trova in una profonda crisi. Nella competizione globale vince il migliore, non il compare, il raccomandato politico o il figlio di papà.
Perché in Italia non ci si può fidare? Perché un sondaggio tra i manager dei principali Paesi europei colloca i dirigenti italiani all´ultimo posto, tra quelli di cui ci si fida di meno?
Perché in Italia prevale la cultura della furbizia invece che quella dell´onestà?
Non esiste fiducia senza cultura della legalità. E questa manca innanzitutto perché in Italia il delitto paga. Una cultura giuridica garantista, associata alla cronica lentezza dei tribunali, permette alla maggior parte dei criminali – o almeno quelli dai colletti bianchi – di farla franca. Con tre gradi di giudizio, ognuno dei quali dura da uno a tre anni, cui se ne sommano due di indagini preliminari, le condanne definitive in Italia non arrivano mai. Nel frattempo, se non è intervenuta la prescrizione è arrivata un´amnistia. E qualora entrambe falliscano, e il condannato non sia nel frattempo morto, esistono sempre gli arresti domiciliari per sopraggiunti limiti d´età e la scarcerazione per buona condotta. I due ex governatori dell´Illinois (lo Stato in cui vivo) sono entrambi in galera, così come vi è stato Daniel Rostenkowski, il deputato che abusò per 30.000 dollari del privilegio postale di cui godeva. Vi ricordate forse di un qualsiasi politico italiano che sia finito nelle patrie galere per una condanna definitiva passata in giudicato? (...)
È possibile che la Nazione che si vanta di essere la patria del diritto sia diventata la tomba del rispetto della legge? Di certo i secoli di dominazioni e soprusi stranieri non hanno aiutato. Siamo il Paese dove i Pinocchi defraudati finiscono in prigione per aver denunciato la frode, mentre i Gatti e le Volpi godono, liberi, del frutto dei loro inganni.
© 2012 / Agenzia Santachiara © 2012 RCS Libri S.p.A.

Repubblica 13.9.12
Dalla società alla politica l’eterno scontro tra generazioni
La sfida all’interno del Pd riapre il dibattito sul ricambio. Che ha origini profonde e coinvolge molti aspetti della vita del nostro Paese
di Filippo Ceccarelli


Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, nell´Italia del 2012 la rivolta generazionale è un´attesa infinita, un equivoco crudele, un´allegra frustrazione e quindi una ridda senza capo né coda.
Giovani pochi e riluttanti, babbioni troppi e scalpitanti. Annunciate rottamazioni e gerontocrazie in via di santificazione; attempati leader come Casini esibiscono vezzosi braccialetti ye-ye, Veltroni e Fassino indossano la cuffia da Dj per dialogare con Diaco, mentre entrantissimi nugoli di T/Q, divenuti ormai professionisti della giovinezza, sottoscrivono patti promettendo che a 60 anni si chiameranno fuori, come una specie di voto di castità.
Strano paese e desolatamente "vecchio", come lo definì Carlo Azeglio Ciampi nel 2005. Non molto è cambiato da allora a oggi. S´invoca il parricidio e dilagano le tinture di capelli. Prodi intigna con la bici – e un po´ si stizzisce anche se nel duello la spunta Squinzi, che qualche annetto pure lui ce l´ha. Berlusconi si rovina appresso alle minorenni, ma con la partecipazione straordinaria e ottuagenaria di Emilio Fede. Mentre Fini mette strane cravatte lucenti, fa le immersioni e poi dispone gli squali sul display del telefonino...
Ma ecco che a un certo punto Matteo Renzi, già da tempo soprannominato "GiocaGiò", impugna l´anagrafe come un randello: «Bersani ha l´età di mio padre – proclama – il Cavaliere quella di mia nonna». Al che Rino Formica, con amaro sarcasmo, diffonde un detto delle sue parti: «Ammazzateli, i vecchi, perché sanno la storia». Grillo inveisce contro "le salme" e i "morti viventi". Bersani rivendica nell´organigramma della eventuale vittoria "un presidio d´esperienza", che è un modo per tenersi buoni i nonnetti del Pd.
E ancora una volta ci si chiede se questa è la volta buona; o se l´ardente chiamata dei rinnovatori, rottamatori, formattatori o resettatori che siano, finirà come l´inutile radio messa su dal ministro Giorgia Meloni, dimenticabile ministro della Gioventù, o come l´organizzazione benefica "Milano young" by Barbara Berlusconi and Geronimo La Russa, o come i convegni intergenerazionali di "Vedrò" che Enrico Letta, anche lui promosso o retrocesso al rango di ex giovane, comunque conclude con una partita di subbuteo.
Difficile, in realtà, è anche solo capire com´è cominciata questa buffa favola o questa drammatica commedia a sfondo biologico. Non che prima sia andato sempre tutto liscio, né si può dire che i giovani trovassero tappeti rossi davanti ai piedi e gli anziani si facessero da parte con facilità. Basti ricordare un Fanfani d´annata che dinanzi all´ennesima richiesta di svecchiamento sbottò: «Se uno è bischero, è bischero anche da giovane»; come pure Andreotti che alla metà degli anni 70, incalzato dalle pressioni americane perché la Dc si arricchisse di «fresh faces», con un lampo neglio occhi e stringendo le sottili sue labbra rispose: «A Roma questa impellente necessità di facce fresche rischia di attirarci un´abbondanza di fresconi».
E ci sarà anche stato, tale pericolo, ma più passa il tempo e più chiaramente si comprende che la Prima Repubblica aveva in sé utili dispositivi di ricambio fisiologico, specie di valvole di sicurezza che consentivano ai processi di giungere a maturazione senza troppi traumi. Vedi i "giovani" di Iniziativa democratica che con qualche energico spintone (affare Montesi) si sostituirono a De Gasperi e alla classe dirigente popolare. Ma vedi anche, dall´altra parte, l´abilità con cui Togliatti, approfittando del caso Seniga-Secchia, riuscì a costruire il "partito nuovo" facendo fuori la vecchia guardia.
Al dunque si potrebbe stabilire una simultanea simmetria storica negli avvicendamenti dei due partiti-chiesa. Per cui se alla fine degli anni 60 il Pci salta la generazione di Amendola, Ingrao e Pajetta per promuovere a predestinato segretario Enrico Berlinguer, nella Dc Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani si danno appuntamento nel teatro di un piccolo centro delle Marche, a San Ginesio, per stringere un accordo generazionale ai danni dell´allora segretario Flaminio Piccoli.
Fra i socialisti, per anni dominati dall´annosa diarchia Mancini-De Martino, il sospirato ringiovanimento arriva più tardi, nel 1976, all´hotel Midas, con una operazione che senza la pur distaccata benedizione del vecchio Nenni saprebbe di congiura. Craxi ha 42 anni, Manca 45, Signorile 39, De Michelis appena 36, ma tra cambio di linea e novità anagrafica si stabilisce un circuito virtuoso che forse allunga di una ventina d´anni la vita del Psi.
Invano cercò di reagire la Dc con Goria. Se Mario Segni e Leoluca Orlando presero altre strade, Mastella, Scotti e altre anime in pena dello scudo crociato lasciarono calare sui loro sogni il dileggio di un "Midas interruptus". L´ultima svolta di quella lunga stagione, anche se la più crudele, può considerarsi il patto stretto nel garage di Botteghe Oscure tra Occhetto e D´Alema per esautorare il segretario Natta, appena colpito da un infarto.
Si avvertì una brezza giovanile nel 1993, con l´elezione a sindaco di Rutelli, Bassolino, Cacciari, Enzo Bianco, Leoluca Orlando: ma a quel punto era già iniziata la Seconda Repubblica. Il guaio, semmai, è che tutto si è poi come paralizzato. Bossi e Berlusconi e Di Pietro e tutti gli altri protagonisti erano sì nuovi, ma non proprio giovani. Né francamente le graziose deputatesse create dal Cavaliere si potevano assimilare alla pregiata categoria.
Cossiga seguitava a dare del "ragazzino" a chiunque avesse meno di 70 anni. I partiti riempivano i palchi di giovani come fosse una specie in via d´estinzione. E così, piano piano, fra trucchi di scena e cliniche della salute, incidenti domestici, forzose gite in discoteca e variazioni prostatiche, la vita pubblica italiana sempre più cominciò, ma anche finì per assomigliare a "Villa Arzilla", l´allegro gerontocomio della tv.

Repubblica 13.9.12
In una lettera a Zaccagnini scritta dal carcere brigatista, lo statista diceva:
"In queste settimane ho riflettuto molto. Se vogliamo che qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi"
Il paradossale destino del leader democristiano
Così Aldo Moro comprese il ’68
di Miguel Gotor


Aldo Moro i giovani li aveva in casa: i suoi quattro figli, nati dal 1946 al 1958, e dunque cresciuti tra il movimento del ´68 e quello del ´77, negli anni della contestazione.
Questo dato personale fece di lui l´uomo politico che forse più di ogni altro si sforzò di capire quel convulso, ma frastagliato decennio culminato con la sua morte per mano brigatista.
I figli, ma non solo, dal momento che Moro insegnò fino all´ultimo per non perdere il contatto con gli studenti. Chi ha avuto modo di vedere i registri delle sue lezioni sa che seguiva i programmi con assiduità ed erano poche le sostituzioni. A Bari era solito tenere gli esami in tarda serata poiché raggiungeva la città dopo aver concluso i suoi impegni di governo. Organizzava ogni anno delle visite extradidattiche presso i carceri minorili e i manicomi giudiziari e delle conferenze di politica estera o interna assai partecipate. La sua era una curiosità intellettuale prima che politica: leggeva Quaderni piacentini, si fermava a discutere con i giovani nei luoghi più impensati, una volta si mise a sbirciare un corteo di Lotta Continua a piazza Navona.
Voleva soprattutto capire cosa stesse accadendo in quell´universo in subbuglio carico di futuro. Era consapevole che il mondo nuovo emerso dalla contestazione del ´68 avrebbe messo in crisi gli equilibri politici, le forme della rappresentanza e il complessivo sistema di valori tradizionali, facendo emergere, come amava dire, una società "più ricca ed esigente", profondamente diversa da quella del ventennio precedente. Per non morire bisognava rinnovarsi, aprirsi alla società civile e anche da questi convincimenti scaturì il sostegno alla segreteria di Benigno Zaccagnini nel luglio 1975.
Nello stesso tempo Moro fu tra i primi politici a denunciare i pericoli di quello che chiamava il "partito armato": in Italia c´era chi faceva politica sparando e nel mondo degli apparati e dei partiti ufficiali c´era chi strumentalizzava quella violenza e giocava di sponda con essa per impedire il rinnovamento democristiano e tenere il Pci sotto schiaffo.
Certo, il rapporto tra la stagione dei movimenti e la violenza terroristica non si pone nei termini di una filiazione diretta anche perché il ´68 è stato un movimento globale. Piuttosto, una specificità italiana sono stati lo stragismo neofascista e la progressiva trasformazione di quei fermenti giovanili in piccole avanguardie partitiche extraparlamentari, dal cui scioglimento, resosi necessario per la crescente conflittualità al proprio interno tra un´area oltranzista favorevole alla lotta armata e un´area più moderata, portò a formare quel bacino di militanza da cui attinsero le Brigate rosse e Prima Linea a partire dal 1976.
È indicativo che proprio chi più aveva compreso rimase vittima della violenza terroristica. In una lettera a Zaccagnini, non spedita dai brigatisti e ritrovata soltanto nell´ottobre 1990, il prigioniero tornava con accenti accorati sul fallimento democristiano: «Ho riflettuto molto in queste settimane. Si riflette guardando facce nuove. La verità è che parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente […] Perché qualche cosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».
Davanti a sé Moro aveva dei giovani incappucciati che avevano l´età dei suoi figli e studenti. «Parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente», nella consapevolezza che dietro ogni "nuovismo" si nascondono sempre i vecchi gattopardi italiani: i brigatisti non lo capirono e in parte lo stiamo ancora scontando.

Repubblica 13.9.12
Se gli anziani si fanno da parte. In Gran Bretagna un passaggio senza conflitti
di John Lloyd


Il ministro della Giustizia Kenneth Clarke, 72 anni lasciando l´incarico al suo successore cinquantenne ha ammesso: "Dopo una certa età non si ha più l´energia che si aveva prima"

La politica britannica non è cosa per vecchi. Il primo ministro, David Cameron, ha 45 anni; il suo collaboratore più giovane, il cancelliere dello scacchiere George Osborne (che sarebbe il ministro dell´Economia), ne ha 41. Fra gli esponenti di primo piano dell´esecutivo di Oltremanica, la più anziana è una donna: Theresa May, 55 anni, a capo del dicastero dell´Interno.
I liberaldemocratici, partner di governo dei conservatori, sono guidati da Nick Clegg, anche lui 45enne. Il principale partito di opposizione, i laburisti, sono guidati dal 42enne Ed Miliband. Il suo collaboratore più importante è il cancelliere ombra Ed Balls, 45 anni. Anche nel governo ombra la più anziana (62 anni) è una donna, Harriet Harman, vicesegretario del Labour.
La giovane età degli esponenti politici più in vista è stata messa in risalto la scorsa settimana, quando Cameron ha proceduto a un rimpasto del suo esecutivo, sostituendo il ministro della Giustizia Kenneth Clarke, 72 anni e già ministro ai tempi della Thatcher, con il cinquantenne Chris Grayling. Quando i giornalisti gli hanno chiesto come si sentisse dopo essere stato sollevato dal suo incarico, Clarke, gioviale come suo solito, ha detto che era felice di passare a un incarico meno impegnativo, perché «dopo una certa età non si ha più l´energia che si aveva prima».
Con questa frase Clarke ha sintetizzato un assunto diffuso nella vita politica britannica, e cioè che lo stress della politica ad alti livelli è talmente forte che solo persone relativamente giovani possono riuscire a reggerlo a lungo. Gran parte di questo stress viene dai media (che in Gran Bretagna si danno da fare senza tregua per mettere in evidenza gli errori pubblici – e qualche volta privati – dei politici di primo piano) sempre smaniosi di costruire uno scandalo sugli errori che portano alla luce. Specialmente per il primo ministro e per i leader di partito gran parte della vita trascorre su un palco; e quando non stai su un palco passi attraverso un´interminabile successione di riunioni, decisioni difficili, viaggi e spostamenti e giornate lavorative di 18 ore. Oggi i politici di massimo livello nel Regno Unito il più delle volte hanno scelto la politica come carriera all´università, e sanno che la loro vita cambierà completamente e che la politica occuperà ogni cosa. La vecchia generazione attribuiva valore alla vita fuori dalla politica (Kenneth Clarke era un appassionato di jazz e ha realizzato una serie radiofonica molto apprezzata sui giganti del jazz, trasmessa dalla Bbc): nessun giovane politico farebbe né potrebbe fare una cosa del genere.
Ma c´è un´eccezione importante a questa sfilata di giovani. Uno degli esponenti di maggior rilievo dell´esecutivo è Vince Cable, ministro dell´Industria. Cable è uno dei rappresentanti liberaldemocratici (i soci di minoranza della coalizione di centro-destra) nel Governo, ed è stato consigliere a Glasgow, economista alla Shell e docente a contratto in Kenya, e per un certo periodo anche membro del Partito laburista. Con la crescente impopolarità dell´attuale leader liberaldemocratico, Nick Clegg, contestato all´interno del partito per i suoi compromessi, Cable, molto popolare presso l´opinione pubblica, è emerso come il candidato più probabile alla sua successione, e addirittura come un nominativo possibile per incarichi più prestigiosi (dice che se la caverebbe bene come Cancelliere dello scacchiere).
Vince Cable ha 69 anni. Per la prima volta nella politica britannica, la gioventù viene sfidata dall´età. Chissà che non diventi una tendenza.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 13.9.12
Il sogno di definire cos'è la «cosa»: opera, mezzo, idolo o strumento
di Pierluigi Panza


È «cose» il tema dell'edizione 2012 del Festival Filosofia che si svolge a Modena, Carpi e Sassuolo da domani a domenica. Quasi 200 appuntamenti, in 40 luoghi, tra lezioni, mostre (domani si inaugura la retrospettiva del fotografo Edward Weston), spettacoli e letture in piazza, giochi per bambini e persino cene filosofiche.
Sono talmente tante le «cose» proposte che la rassegna risulta esorbitante, frutto di uno sforzo organizzativo enorme sostenuto dalla direttrice, Michelina Borsari, e da tutto il Consorzio. Si prevedono appuntamenti rari, come l'arrivo in Italia del logico John Searle e della cinese Anne Cheng; lezioni dei maestri stranieri come Bruno Latour, Serge Latouche, Peter Sloterdijk, Francisco Jarauta, Scott Lash e Krzysztof Pomian; quelle dei filosofi di casa nostra come Tullio Gregory, Remo Bodei, Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Salvatore Natoli, Giovanni Reale, Sergio Givone, Umberto Galimberti, Maurizio Ferraris, Salvatore Settis (ecc. ecc.); un po' di passerella con i presenzialisti Zygmunt Bauman e Marc Augé (se sono in ogni festival, quando studiano?) e anche uno spaccato da fiera Ligabue-style con gli intrattenitori Fabio Volo, Giobbe Covatta, Bergonzoni, poi Guccini e un po' di musica...
«In sé» il problema posto dal festival è il problema di tutta la Metafisica, da Platone a Heidegger: cos'è la cosa? Cos'è l'ente? Bastasse un festival per rispondere, l'avrebbero già organizzato nella stoà di Atene. Il Festival di Modena cerca però di declinare l'interrogazione in molteplici direzioni. In questo è molto omnicomprensivo, anche se emerge una certa tendenza anticapitalistica in coloro che intervengono sulla «cosa sociale». La declinazione del concetto di «cosa», infatti, asseconda sia le tendenze neo-realiste che quelle ermeneutiche, sia l'interrogazione della cosa come mezzo e strumento di lavoro che quella come accadimento e anche bene o patrimonio, idolo e feticcio. Ciascuno può scegliere la «cosa» che vuole e vederla come vuole, dalle «Cose prime» di Severino, alla «Cosa ultima» di Cacciari a quelle intermedie. Tra le quali soffermerei lo sguardo su quelle terrestri legate al terremoto e al recupero del patrimonio (l'archeologo Settis e l'architetto Ciorra), ovvero al recupero di quella «materia signata», come aveva scritto Tommaso D'Aquino, che andrebbe trattata come una reliquia e non trasformata per uffici&residenze (come la Manifattura Tabacchi).
Senza scomodare Kant, Heidegger sarebbe uno snodo del tema scelto: Sentieri interrotti resta infatti una delle raccolte di riflessioni più utili per capire come il passaggio della cosa da mezzo a opera avvenga attraverso varie forme di accrescimento e disvelamento, di messa in opera. Questa è una chiave di lettura del festival. Un'altra è quella proposta dai nuovi realisti o tentata da Remo Bodei (presidente del Comitato scientifico del Consorzio per il festival) che mostrerà «come si possa restituire agli oggetti la loro qualità di "cose", ossia l'insieme degli investimenti affettivi, concettuali e simbolici che individui e società vi ripongono». Un'altra ancora è quella di indagare le connessioni tra cosa e passione con Enzo Bianchi (sul debito d'amore che costituisce la vita umana), Sergio Givone (sulla peculiare forma di dono che è il perdono) e Krzysztof Pomian (sulla logica del collezionismo).
Naturalmente bisognerà attendere le relazioni, anche se appaiono più esplorati i filoni pop-estetici legati a idoli, feticci e ipermerce che quelli teoretici vicini alla fenomenologia (Husserl è comunque trattato da Roberta de Monticelli in apertura) e quindi ai limiti dell'esperienza sensibile in rapporto ai fenomeni naturali, agli oggetti e loro percezione. Pochi sembrano voler riaffrontare il criticismo di Locke e Hume alla base dell'indagine kantiana sull'impossibilità di trovare un fondamento teorico alla conoscenza scientifica e l'interrogazione sulla possibilità di fare affermazioni sulla realtà oltre i limiti dell'esperienza. In fondo si privilegia una certa attenzione pragmatica alla Richard Rorty parlando sulle cose così come si sono affermate oggi (idoli, feticci, patrimonio, merci) piuttosto che cercare di fornire una legge capace di descriverle o coglierne «l'essenza». Bisogna del resto considerare che si tratta di un festival e non un convegno gnostico, che interseca più piani al di fuori di superati steccati disciplinari o di esclusive patenti accademiche nell'età della pluralità dei saperi e degli attori didattici.
Il programma propone anche la sezione «La lezione dei classici» con studiosi che commenteranno i testi di Platone, Aristotele, Adam Smith, Hegel, Marx, fino a Husserl, Heidegger, Benjamin e Arendt.
Il festival, promosso dal «Consorzio per il festivalfilosofia» (ovvero i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena) lo scorso anno ha registrato oltre 176 mila presenze.

Repubblica 13.9.12
Il saggio di Naomi Wolf sta suscitando polemiche negli Usa e a Londra
Il libro sulla vagina che divide le donne
Secondo le accuse l´autrice non ha fatto un testo femminista ma machista


LONDRA Parlare, anzi scrivere, della vagina significa essere femministe o lasciarsi opprimere dal machismo? Sembrerebbe questo il nocciolo della questione, nella polemica scoppiata tra Naomi Wolf, scrittrice americana e femminista militante, e altre autrici, intellettuali, giornaliste, sulle due sponde dell´Atlantico. Al centro del diverbio c´è il libro appena pubblicato dalla Wolf negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: Vagina. A New Biography. La sua fama di capofila di quella che è stata definita la "terza ondata" del femminismo e il titolo volutamente provocatorio hanno assicurato grande pubblicità al volume.
Ma ben presto è arrivata anche la reazione critica. «Un´ode involontariamente comica all´organo genitale femminile», la descrive per esempio Michelle Goldberg su Newsweek, il settimanale diretto dall´icona del nuovo giornalismo Usa Tina Brown. «La vagina non è soltanto un´estensione del cervello femminile, ma anche parte dell´anima della donna, la porta d´ingresso alla conoscenza e al subconscio femminile»: commentando questo estratto dall´introduzione del libro, la giornalista di Newsweek taglia corto, «in altre parole, per la Wolf, una donna è la propria vagina». E nient´altro.
Attacchi del genere hanno spinto ora l´autrice a rispondere. In un articolo pubblicato ieri dal Guardian, Naomi Wolf osserva: «Parlando del corpo, non intendo certo affermare che una donna è soltanto il suo corpo. Né mi pare che, scrivendo con franchezza sul tema del desiderio femminile e sulle connessioni ormai ben stabilite dalla scienza tra cervello e vagina, sto allontanandomi dalla grande tradizione femminista. A me sembra piuttosto di onorarla». La scrittrice continua dichiarando di continuare nel solco tracciato prima di lei da Germaine Greer, la femminista inglese autrice di L´eunuco femmina, e della studiosa americana Shere Hite, fra le prime a «insistere che il modello freudiano di rapporti sessuali non era sufficiente a soddisfare i due terzi delle donne». Conclude la Wolf: «Nel libro mi sono limitata a diffondere nuove scoperte sul corpo e sul piacere femminile, per aumentare la nostra comprensione della sessualità. Vengo da una scuola femminista convinta che la conoscenza sia potere. Conoscenza della vagina compresa, se vogliamo entrare nel mondo moderno».
La ruggine tra i due campi, in realtà, non è limitata soltanto a questo. Molte femministe accusano la Wolf di superficialità, «le basta seguire un corso di una settimana di massaggi tantrici a New York per proclamare che la sessualità orientale è più rispettosa verso i desideri della donna, quando qualunque studioso potrebbe spiegarle che ciò non è esatto», la punzecchia la recensione di Newsweek. Insomma il dibattito è aperto: il suo libro vuole davvero affermare che le donne ragionano con la vagina, come gli uomini con il pene, oppure è soltanto un riassunto di nuove teorie e scoperte al confine tra neurologia e sesso?