sabato 15 settembre 2012

l’Unità 15.9.12
Bersani: chiedo il voto a tutti gli italiani
Il leader del Pd alla Festa socialista a Perugia annuncia che «le primarie saranno senza barriere»
A Monti: «Lo Statuto dei lavoratori simbolo epocale di civiltà»
di Simone Collini


«Quanti tremebondi abbiamo. Bisogna avere fiducia nella gente. Ma si è capito, se tutto si svolgerà per bene, il giorno dopo che punto di vantaggio abbiamo? Lovoriamoci tutti insieme con convinzione». Qualcuno gli ha consigliato di farle saltare, qualcun altro di mettere a punto delle regole restrittive che giochino a suo vantaggio. Ma Pier Luigi Bersani, il giorno dopo che Matteo Renzi si è ufficialmente candidato, è ancora più convinto che le primarie si debbano fare, e senza rete.
Niente albo degli elettori, ha detto a chi per suo conto sta discutendo con i collaboratori degli altri candidati. Sì al doppio turno, perché il candidato premier dovrà godere di un’investitura ampia, sì a un tetto alle spese della campagna in vista del voto del 25 novembre (250 mila euro è la cifra data al momento per più probabile) e sì a un collegio dei garanti (tre personalità dall’autorevolezza indiscussa) che vigili sul rispetto delle regole e sulla correttezza del confronto. Ma come spiega andando a Perugia per partecipare insieme a Riccardo Nencini a un dibattito alla Festa socialista, Bersani non vuole «barriere alla partecipazione» (ci si potrà iscrivere il giorno stesso del voto «dichiarandosi elettori di centrosinistra senza preoccuparsi della privacy»), e per vincere la sfida ai gazebo il leader del Pd punterà su una campagna giocata sul «cambiamento» e su una squadra, che presenterà a metà della prossima settimana, che guiderà i «comitati per Bersani» aperti ai non iscritti al Pd e che sarà composta da personalità del partito ma anche chiamate dal mondo dell’associazionismo.
Il giorno dopo che Renzi ha fatto partire la sua corsa in camper, Bersani insiste nel non voler commentare, salvo un laconico «le cose che ho sentito meritano qualche approfondimento». Il motivo? «Preferisco dire quel che voglio fare io, non quel che non va di ciò che dice qualcun altro». E se il sindaco di Firenze non ha nascosto di puntare al voto dei delusi dal centrodestra e da Berlusconi, il leader del Pd non vuole neanche prendere in considerazione l’ipotesi che fosse un invito a inquinare il risultato delle primarie: «Non lo penso e non lo credo che ci sia un appello ad altre forze». Però è innegabile l’occhio strizzato da Renzi in direzione dell’altro campo, e poi sull’omaggio iniziale a Margaret Thatcher e a Ronald Reagan c’è poco da interpretare. Dice Bersani: «Il voto va chiesto a tutti gli italiani. Ma io chiedo un voto per il cambiamento rispetto a dieci anni di berlusconismo. Io propongo di voltare pagina rispetto a dieci anni di disastro sotto il profilo economico, sociale, civile, democratico». Il punto non è insomma la delusione per quanto promesso e non mantenuto. Il punto è che Pd e centrodestra sono alternativi. E che chi vincerà le primarie dovrà occuparsi di «organizzare il campo dei progressisti», lavorando poi per siglare un «patto di legislatura» col fronte moderato.
Qui a Perugia, dove oggi si chiude la Festa socialista, si sarebbe dovuta scattare la foto che doveva sostituire l’ormai morta e sepolta foto di Vasto. O così almeno sembrava, quando un mese fa Bersani, Casini e Vendola avevano accettato l’invito di Nencini a partecipare all’appuntamento. Ora tutto invece sembra essere stato rimesso in discussione, col leader Udc che invoca un Monti bis e quello di Sel che fa rinascere la sinistra arcobaleno attorno al referendum contro la riforma Fornero. Non disperano però né Nencini («il campo è tracciato») né Bersani, accolto al parco dell’Arringatore di Pila da quattro contestatori (bandiera dei Cobas, intonazione di «Bandiera rossa» e «ma quale sinistra, sei solo liberista») e da molti applausi. Soprattutto quando il leader del Pd confessa che questa cosa voleva dirla da ventiquatt’ore, ma ha aspettato per poterla dire qui: «È venuta fuori credo casualmente una discussione sullo Statuto dei lavoratori. Tutte le norme fondamentali possono essere aggiustate. Ma lo Statuto è stato un fatto epocale di civilizzazione e cittadinanza. Sinceramente dico che i socialisti hanno il diritto di mettersi la coccarda per questa realizzazione e una figura come Gino Giugni non può essere dimenticata». Non è una polemica con Monti, precisa Bersani, che anzi giudica il premier una persona preziosa: «Il suo rigore e la sua credibilità sono un punto di non ritorno». Però un punto fermo, sullo Statuto, l’ha voluto mettere.
AUTUNNO PREOCCUPANTE
È un altro l’appunto che fa al governo, soprattutto ora che siamo alla vigilia di un autunno che sarà «preoccupante»: non essere ancora riuscito a promuovere “una sintesi” fra le parti sociali per favorire un accordo sulla competitività e lo sviluppo, e non aver ancora convocato Marchionne per discutere della situazione in cui versa la Fiat, soprattutto dopo le decisioni su «Fabbrica Italia».
Le ultime battute, dal palco, sono dedicate al rinnovamento interno al partito, al fatto che “la ruota girerà”, che al prossimo congresso prenderà la guida del partito qualcuno con “energie nuove”, anche se il “passaggio di generazione” verrà fatto “secondo qualità e merito, non guardando a chi scalcia di più”. Le ultime battute lontane dal palco, prima di lasciare Perugia, sono invece dedicate alla legge elettorale. Bersani prende una birra con Nencini e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Carlo Vizzini. Il leader del Pd non crede a un accordo tra Pdl e Udc per un blitz in Aula. E Vizzini garantisce: “Al Senato non ci saranno colpi di mano. Manterrò contatti continui con il senatore Zanda”.

l’Unità 15.9.12
Maurizio Landini: «Il governo si muova, non possiamo perdere la Fiat»
Dobbiamo cercare altri produttori, non possiamo restare legati solo alla Fiat Se Marchionne non cambia linea, il Lingotto scompare dall’Italia e dall’Europa
di Massimo Franchi


Maurizio Landini, segretario della Fiom, la Fiat certifica la rottamazione di Fabbrica Italia. Come ci si sente ad aver avuto ragione quasi da soli?
«Non siamo per nulla contenti, anzi. Siamo preoccupati. E deve essere chiaro che non siamo disponibili ad accettare chiusure di stabilimenti e ridimensionamenti della capacità produttiva, come non abbiamo accettato la chiusura degli stabilimenti della Cnh di Imola, dell’Irisbus e di Termini Imerese. Credo che oggi serva chiedere al governo di fare una discussione finalmente seria con la Fiat. Finora questa possibilità non c’è mai stata».
ll comunicato del Lingotto suona però come un mettere le mani avanti, prepara il terreno per l’annuncio del 30 ottobre... «Il nostro Paese non si può permettere che Fiat lasci l’Italia. Purtroppo sono passati degli anni a dare credito alle promesse di Marchionne. In questi anni si sono perse quote di mercato e ora la situazione è più difficile. L’errore della Fiat è stato pensare di ritardare gli investimenti facendo affidamento sul fatto che nel frattempo qualche concorrente saltasse. Invece è successo esattamente il contrario: gli altri hanno investito, prodotto nuovi modelli e hanno guadagnato rispetto a Fiat. Se Marchionne non decide in fretta di cambiare strada esce dal mercato italiano e da quello europeo».
Non pensa invece che sia una scelta ponderata? Non crede che Marchionne non cambierà idea e che l’unica possibilità sia che la famiglia Agnelli lo sostituisca? «Non mi sono mai messo a discutere su con chi debbo fare una trattativa, anche perché invece c’è successo il contrario e cioè che la Fiat abbia scelto di escluderci. La famiglia Agnelli, se ha ancora la forza, decide a chi affidare la sua azienda e io discuto con chi c’è. L’importante è che ci sia una trattativa. E finora non c’è stata». Voi sareste disponibili a fare marcia indietro sulla cosiddetta via giudiziaria, le cause contro Fiat, in cambio di un mantenimento dei livelli occupazionali?
«La via giudiziaria l’abbiamo scelta per garantire i diritti delle persone, non per strategia: marce indietro da fare non ce sono. Noi però siamo disponibili, come abbiamo fatto in questi mesi con grandi gruppi come Electrolux, Indesit, Whirpool, a firmare accordi con processi di riorganizzazione anche imponenti. E rivendichiamo di essere un sindacato responsabile. Solo la Fiat non se n’è accorta».
Da un anno chiedete che intervenga il governo e l’unica volta che Monti ha parlato con Marchionne ha poi spiegato che «un’azienda globale può investire dove vuole». Passera ieri ha parlato di «richiesta di chiarimenti». È fiducioso?
«Mi auguro che finalmente il governo convochi al più presto l’azienda. Credo che se è vero che il Paese non può fare a meno della Fiat, il governo non può permettersi di fare a meno di un intero settore industriale. Chiudere stabilimenti significa, oltre a cancellare altri posti di lavoro, perdere competenze straordinarie nel saper costruire auto e nella componentistica. Oltre a chiedere conto alla Fiat, chiediamo al governo di discutere un piano della mobilità nazionale che rilanci tutto il settore dei trasporti, come fanno in tutti i Paesi avanzati. In più facciamo notare che nessun Paese avanzato (Francia, Germania, Giappone) ha un solo produttore: bisogna cercarne altri».
Noi de l’Unità abbiamo scritto che Volkswagen ha visitato ed è interessata a produrre a Pomigliano e non fa mistero di essere interessata al marchio Alfa Romeo. Non crede che il governo dovrebbe convocare anche i tedeschi? «Questo non dipende da noi, ma di sicuro il governo ha il dovere di ricercare tutte le possibili soluzioni per impedire le chiusure e deve creare le condizioni perché in Italia entrino altri produttori».
Intanto Fim Cisl e Uilm iniziano a scricchiolare: chiedono interventi del governo e parlano di aprire le porte a nuove aziende...
«Negli accordi che hanno subìto e hanno accettato di firmare non c’era una riga di certezze sugli investimenti, mentre c’era la sostanziale cancellazione del contratto nazionale. Queste organizzazioni dovrebbero riflettere sul fatto che subire ricatti non significa fare sindacato. Per questo noi abbiamo rivolto a loro e a Fermeccanica l’invito a confrontarsi su un Accordo per il lavoro che per tutto il 2013 eviti un nuovo contratto separato e punti alla riduzione di orario per mantenere i livelli occupazionali e una detassazione di una parte del salario. Finora non abbiamo avuto risposte».
Ma intanto Monti attacca lo Statuto dei lavoratori...
«Non è una novità. Ma assume significato perché è un tentativo di condizionare il prossimo governo per continuare nel suo solco. Dimostra che Monti non è un tecnico. Anche perché anche modificando l’articolo 18 in modo per cui abbiamo avuto 7 licenziamenti di cui sei iscritti Fiom, non mi pare che la mossa abbia portato orde di investitori stranieri come c’era stato promesso. Una ragione in più per firmare il referendum per cancellare l’articolo 8 chiesto da Marchionne a Berlusconi e la modifica all’articolo 18 che fa licenziare i lavoratori sgraditi alle aziende».

Repubblica 15.9.12
Ma a Pomigliano e all’Alcoa primarie lontane anni luce “Alle parole non crediamo più”
I lavoratori a rischio tra delusione e rabbia
di Concita De Gregorio


CHIUNQUE si candidi alle primarie, racconta questa storia, continuerà a far girare a vuoto la ruota finché non guarderà diritto negli occhi persone come Emanuela, Giacomo, Luisa, Antonella. La classe operaia, si diceva una volta. I lavoratori chiamati a scegliere fra Vendola e Bersani, Puppato, Tabacci, Renzi. Ammesso che abbiano voglia di scegliere. Emanuela Massaro aveva 23 anni quando suo padre, operaio di Pomigliano, votò sì al referendum. Scrisse una lettera a Marchionne, allora, e la indirizzò ai giornali. “Eccola, vede. Non è stata mai pubblicata, Marchionne non mi ha mai risposto ma io l’ho conservata. Avevo visto mio padre piangere, a tavola, quel giorno, perché aveva paura di perdere il lavoro e allora come avrebbe mantenuto noi tre, mia madre che non cammina bene e non può andare a servizio, me e mio fratello che studiamo. Io però non volevo che lui piangesse, che perdesse la sua dignità. Andiamo a lavorare noi, papà. Gli ho detto così.
Poi ho scritto a Marchionne: se mio padre deve essere costretto a chinare la testa per me io preferisco rinunciare al mio futuro. Ora che Fabbrica Italia si rivela per quello che era, un inganno, un bluff per convincere la povera gente, ora vorrei che qualcuno ci dicesse almeno: avevate ragione. Perché Marchionne lo capisco, in fondo. Fa il suo mestiere. Ma i partiti politici della sinistra, quelli che allora stavano con la Fiat per il sì al referendum: ecco, quelli, che mestiere fanno?”. Emanuela non ha smesso di studiare, suo padre non le ha dato ascolto ed è ancora lui che le paga la retta. “Non parlatemi di politica. Chi diceva “con Marchionne senza se e senza ma” non ha vergogna, oggi, e allora sono io che mi vergogno per loro”.
Pomigliano, Mirafiori, Carbosulcis, Alcoa, Almaviva. Delle “primarie dei progressisti” a chi è in procinto di perdere il posto interessa relativamente poco. Ad ascoltarli si capisce molto bene perché. La distanza che separa la politica dai fatti della vita è diventata un baratro colmo di cinismo, disincanto, risentimento. Sedute attorno al tavolo di un bar di Cinecittà Est, Roma, un gruppo di donne di Almaviva, uno dei più grandi call center d’Italia. Una inizia la frase, l’altra la finisce. “Io capisco che abbiano fischiato Fassina, che poveraccio neppure se lo merita”, comincia Barbara. “Se si presentava D’Alema, tra i lavoratori dell’Alcoa, gli andava peggio”, continua Antonella. “Arrivano ora, ma arrivano tardi. Troppo tardi, alle parole non ci crede più nessuno”, conclude Luisa. Almaviva ha annunciato la chiusura della sede di via Lamaro, 630 dipendenti, per aprire in Calabria dove ci sono incentivi e sgravi fiscali. Dal punto di vista dell’azienda non fa una piega: la regione Lazio paga la cassa integrazione, la regione Calabria paga gli incentivi. Restano a casa i dipendenti, soprattutto donne, moltissime madri sole di figli ancora piccoli. Luisa Scognamiglio, 39 anni, laureata in Lettere all’Orsola Benincasa di Napoli, separata, due figli di 9 e 6 anni. Assunta al call center dieci anni fa, guadagna 9 mila euro all’anno. Più o meno quanto prendeva, in lire, all’inizio. “Non mi sento rappresentata da nessun partito politico, no. Non hanno la minima idea di cosa voglia dire prendere 600 euro, avere due figli e non sapere a chi lasciarli quando si ammalano e non vanno a scuola. Poi ci accusano di assenteismo. Io faccio i salti mortali, ma quando parlo con le colleghe le capisco: se una è da sola dove lo mette suo figlio con la febbre il giorno che ha il turno a mezzanotte? Dove sono le politiche per il sostegno al lavoro, la rete di assistenza alle donne e ai bambini, una scuola che funzioni? Parole, parole, ma nei fatti ci arrangiamo. No, io non voglio fare politica, perché dovrei? Sono una persona onesta, la politica non fa per me”.
Sono una persona onesta. “Sa quanta gente alla quale chiedo di impegnarsi in politica mi risponde così”, ride di amarezza Piero Coco, Rsu Cgil, iscritto Pd. Con lui Barbara Cosimi. Anche lei Rsu Cgil, anche lei iscritta Pd. Alle primarie voteranno Bersani. “E’ diventato difficilissimo fare politica e sindacato nei luoghi di lavoro — dice Coco — i lavoratori pensano che siano un modo per far carriera, diffidano. Sei connivente col padrone, questo pensano”. Barbara Cosimi: “Non è vero che i lavoratori dei call center siano la nuova classe operaia. Come numeri, forse. Ma la coscienza politica non c’è più. Vent’anni di incultura hanno lasciato il segno. Non è paura di perdere il posto, è anche questo ma è di più: è il qualunquismo di fondo, l’idea che la corruzione sia la norma, che ciascuno agisca solo per convenienza. Siete tutti uguali: è questa la frase che uccide”. Poi racconta: “Stamani in assemblea parlavo di una lavoratrice che ha rinunciato al contratto di apprendistato perché era per lei troppo oneroso. Una dipendente si è alzata e ha detto: allora non bisogna darle più il sussidio di disoccupazione. Capisce? Si è fatta piazza pulita di vent’anni di battaglie operaie per i diritti, siamo come dopo come uno tsunami. E’ tutto da ricostruire”.
Antonella Liberati, 57 anni, monoreddito, una figlia di 18. Diecimila euro all’anno. “Da ragazza facevo politica a sinistra del Pci. Lotta continua, Potere operaio. Poi nel Pci, per molti anni. Poi nel Pd, turandomi il naso”. Ha la tessera? “No. Anzi sì, sì, ce l’ho. Scusi, me lo ero dimenticata. Presi la tessera del Pd-Atesia quando nel 2008 si aprì un circolo in azienda ma poi non so nemmeno com’è andato a finire, quel circolo. Ci andavano 8 persone, è morto d’inedia come un bimbo abbandonato sul ciglio di una strada. Agli scioperi sui diritti venivano in 20. Poi ora che rischiano il posto arrivano tutti… Primarie? No, grazie. Dopo la stagione del governo Prodi, Damiano ministro, non c’è stato più nulla. Tornano ora, ma è tardi. Si è persa quell’idea di politica, la dignità del lavoro. C’è un’ignoranza terribile. Io sto in cuffia da dieci anni: sento parlare la gente. Sento ragazzi di venti, trent’anni che non sanno mettere in croce due parole. Li ho sentiti peggiorare un anno dopo l’altro. Non hanno proprio il lessico, come fanno ad avere le idee? E c’è qualcuno che metta la scuola al centro della politica? Perché prima della difesa del posto di lavoro deve venire la cultura del lavoro. E questo è la scuola che lo insegna”.
Un’ignoranza terribile. Racconta Coco che i lavoratori minacciati di essere messi in Cig il 22 settembre vanno da lui a fargli domande così: ma lo sciopero è retribuito? Ma mi possono licenziare? Se entro e faccio due ore di straordinario e poi faccio sciopero va bene? Devo avvisare, se sciopero? “E come si fa a fare le battaglie sull’articolo 18, sul diritto di sciopero se si parte da qui? Persino a Mirafiori e a Pomigliano, che hanno la storia che hanno, è andata come sappiamo”. Su Mirafiori e Pomigliano Giorgio Airaudo, Fiom di Torino, ha un’idea nitida: “I lavoratori sono stati lasciati soli dalla politica. Gente che guadagna 1200 euro al mese. I referendum non erano liberi. Noi del sindacato non vogliamo entrare in politica benché in questa logica malata, binaria, non ci creda nessuno. Siamo stati costretti a fare da supplenti ai partiti che stanno sempre dalla parte del più forte. La vicenda Fiat è la prova della debolezza dei partiti: Marchionne ha esercitato il suo ruolo ma chi doveva chiedergli conto per il bene del paese e non solo di quello dell’azienda che ruolo ha esercitato? Renzi, che diceva “con Marchionne senza se e senza ma” e che vuole che si lavori la domenica e il primo maggio, che ruolo esercita? La politica deve dire, deve scegliere: se si lasciano soli i lavoratori diventa una prateria. E non è vero quello che pensa chi è cresciuto nel Pci, che tanto alla fine resteranno tutti qui. No, non restano”. Nelle assemblee, dice Airaudo, le voci si dividono fra quelli che non credono più a niente — e che non votano più — e quelli che dicono ‘mandiamoli via tutti’, e vanno ingrossare le fila della rabbia. “Quella che altri chiamano antipolitica non è che questo, vista dalla fabbrica: disillusione assai ben motivata. Terra bruciata. Per ricoltivarla ci vorrebbero impegno, coerenza, perseveranza e molto tempo”. Chi si è fidato ed è caduto non si fida più.
Giacomo Firinu ha 27 anni, lavora alla Carbosulcis. Suo padre lavorava all’Alcoa. “Se la sono svenduta per un piatto di lenticchie, l’Alcoa. Lo sapevano che stavano solo rinviando il problema. Era che non volevano fare brutta figura loro, hanno detto chiuderà fra tre anni e chi se ne frega. Così tre anni dopo hanno mandato a casa la gente che si era fidata di loro e li aveva votati. Mio padre è andato in depressione, ha cominciato a soffrire di cuore, è morto d’infarto a 55 anni. L’ho visto morire coi miei occhi. Io sono tornato in miniera, come mio nonno. Ho occupato, sì, la Carbosulcis. Ma anche qui: lo sanno bene che il nostro carbone è pieno di zolfo, e allora? Basterebbe applicare delle tecnologie che esistono, investire. Non lo fanno, rinviano. Chiedono aiuti pubblici, e poi dopo un anno siamo da capo”. La politica ci ha lasciati orfani, dice Giacomo. “Da ragazzo m’impegnavo molto, mi sono presentato in una lista civica, sono stato militante del Pd. Poi ho visto che uno come me, al partito, non serviva a niente. Altre logiche, altri progetti. Vanno avanti quelli di città, portati dalle segreterie. Allora sono andato a sentire Grillo, che quando faceva il comico non mi potevo mai pagare il biglietto. Ora che fa comizi gratis, ho detto, vado. Sì, spiega le cose, s’incazza: ma non so dire, non mi ha convinto. Non mi fido, mi sembra uno di loro anche lui. Mi dispiace, a votare non ci vado più, non mi importa delle primarie e lo so che è una cosa brutta. A volte penso che sia colpa mia, come pensano i bambini quando i genitori se ne vanno da casa. Ma invece no. E’ la politica che ha abbandonato noi. Se n’è andata per gli affari suoi. Noi non abbiamo colpa, mi dico, e non ci possiamo fare niente”. (3. continua)

il Fatto 15.9.12
L’Api cerca posto nel Pd. Che dice no
I resti del partito di Rutelli chiedono asilo per restare in Parlamento
di Caterina Perniconi


L’assistente storica dai tempi del ministero di Francesco Rutelli, Ilaria Podda, da lunedì comincerà a lavorare per il Partito democratico a fianco di Matteo Orfini. Luciano Nobili, giovane organizzatore di tante battaglie, prima per la Margherita, poi con l’Api, giovedì era seduto in prima fila alla convention veronese di Matteo Renzi. Lo staff del leader dell’Api ha già cominciato le grandi manovre di riavvicinamento al Pd (che assicura contratti e stipendi dopo la liquidazione della Margherita) e ora anche lui prova a giocarsi l’ultima carta.
IERI A MARATEA, circondato da ex socialisti ed ex democristiani, Rutelli ha lanciato la candidatura ufficiale alle primarie del centrosinistra di Bruno Tabacci. Una strategia per provare a catalizzare voti al di fuori del suo partito e giocarseli al momento delle decisioni. “Non è l'ultima mossa possibile, è l'unica” spiega l'onorevole Luigi Fabbri, già socialista, già Forza Italia, eletto “ma mai iscritto” nelle file del Pdl, soprannominato da Silvio Berlusconi “il grillo parlante”. “L'ex premier? Mi lasciava parlare, parlare, e poi faceva come voleva - spiega il deputato oggi nell'Api – qui invece c'è molta più democrazia. Grazie al Terzo polo oggi quel governo non c'è più”.
Che gran rammarico, la fine del Terzo Polo. A Maratea si sentono tutti orfani di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Il presidente della Camera a un certo punto arriva, parla 50 minuti, sottotono. “Anche lui è in un angolo” dicono i delegati, e si vede. É altrettanto orfano “di una terza opzione, perché l'Italia non merita di restare in una logica bipolare”. Il dito di ognuno è puntato contro il leader Udc, che a Maratea non ha messo piede. Doveva arrivare Lorenzo Cesa al suo posto ma anche lui alla fine ha declinato. Sono gli “sfasciafamiglie” del polo centrista secondo l'Api. Artefici dell'impossibilità di rifondare la “Balena bianca”. Rutelli è il primo a non nascondere l'amarezza per il progetto naufragato, e lo mette nero su bianco in un documento: “Quest'anno di iniziativa non ha, portato, come avremmo voluto, alla nascita di un soggetto politico, né alla presentazione di una candidatura alla guida del Paese”. E allora l'ultima chance passa dal Partito democratico e dalle primarie del centrosinistra. Anche se al Nazareno non hanno nessuna intenzione di imbarcare la compagnia Rutelli-Boselli-Tabacci. In serata a Maratea arriva il responsabile Giustizia dei democratici, Andrea Orlando, e non è messaggero di pace: “Stiamo parlando di coalizione, non di candidature nel Pd. Non si deve fare il gioco delle tre carte, serve coerenza”. Ma loro ci sperano ancora.
“Abbiamo nostalgia per quel che lasciamo ma grande entusiasmo per la nuova sfida” dice dal palco dell'assemblea il deputato Donato Mosella, da sempre capo della segretaria di Rutelli, che ha il compito di annunciare l'arrivo di Tabacci. L'assessore al bilancio del Comune di Milano, che annuncia qui le sue dimissioni contro "i conflitti d'interesse", entra nella sala circondato da ragazzi. Alcuni di loro hanno una maglietta col suo nome e la scelta cromatica è bipartisan, che non si sa mai: Bruno in arancio, Tabacci in blu. Non ce l'ha la calabrese Laura Venneri, responsabile dei giovani che parla di un “naturale riavvicinamento alle nostre origini” ma della “necessità di mantenere un'identità”, né il responsabile della Basilicata, Carmine Nigro, che racconta come tutti i suoi conoscenti del Pd chiedono se è tornato con loro. “Ci strumentalizzano” dice, ma sembra più un grido di dolore che una speranza di poter fermare il treno in corsa. “Guardate che con i voti della sola Api neanche mi presenterei – confessa, non molto elegantemente, Tabacci – conto su tutto un mondo democristiano e cattolico che ancora esiste e conosco come le mie tasche”.
CI CONTA anche Rutelli. Non mollano, restano attaccati. Condannano il populismo generazionale di Renzi, sapendo che con lui non avrebbero più prospettive. “Con Berlusconi ancora in campo (e l'Udc che li ha messi al palo, ndr), il Pd è l'unico nostro interlocutore”, spiega il senatore Franco Bruno, “ma la situazione è così fluida che lo scenario potrebbe cambiare ancora”. L’ultima speranza, oltre Bersani.

Repubblica 15.9.12
“Legge elettorale al bivio non faccio tranelli al Pd ma Bersani decida presto”
Casini: veto assoluto al super premio
intervista di Francesco Bei


ROMA — «Sono d’accordo con Fini. Qui non si tratta di fare forzature ma di avere rispetto reciproco. E questo significa due cose: stanare chi vuole continuare a giocare a rimpiattino e assumersi la responsabilità di una scelta davanti agli italiani». Pier Ferdinando Casini ne è convinto: stavolta ci siamo, la legge elettorale che archivierà il Porcellum e disegnerà i contorni della “terza repubblica” è in arrivo. A patto che il Pd si decida e abbandoni convenienze eccessive su un super-premio di maggioranza.
Napolitano è dovuto intervenire per l’ennesima volta vista l’impasse dei partiti, ha chiamato al Quirinale Fini e Schifani. Si muove qualcosa?
«A patto che la si smetta di dire: o così o niente. In teoria le posizioni ufficiali restano molto distanti. Noi siamo per il proporzionale, il Pd per il doppio turno e il Pdl oscilla fra varie opzioni. Ma se tutti noi mostriamo intolleranza verso le idee degli altri significa che ci siamo rassegnati a tenere il Porcellum».
L’impressione è che tre settimane fa si fosse a un passo dall’accordo, poi è intervenuto un blocco che ha fatto saltare tutto. Cosa è successo?
«Anche io in effetti avevo avuto l’impressione che le distanze non fossero siderali. E che gli incontri tra Denis Verdini (Pdl) e Maurizio Migliavacca (Pd), ai quali noi non partecipavamo, avessero prodotto una mezza intesa. Ma lasciamo perdere quello che è stato, il gossip, concentriamoci sul futuro».
Quali sono i problemi ancora da sciogliere?
«Io ne vedo tre. Il problema di fondo è che gli italiani devono scegliere i propri rappresentanti. C’è una rabbia crescente verso la politica anche perché gli elettori non sanno nemmeno più con chi prendersela, non conoscono i parlamentari che hanno eletto. Il secondo problema è la rappresentanza delle donne, ma qui siamo tutti d’accordo. Il terzo è se dare un premio alla coalizione o alla singola lista e quanto deve essere grande».
Non è un problema da poco, significa disegnare le alleanze per vincere le elezioni...
«Me ne rendo conto. Ma vogliamo tornare alle coalizioni del passato? Faremmo un errore».
Dicono: la sera delle elezioni si deve sapere chi ha vinto e quale governo ci sarà. Vuole tornare indietro?
«Alle ultime elezioni la sera abbiamo capito soprattutto chi non ha vinto, perché sia Prodi che Berlusconi non sono poi riusciti a governare. Ma io dico, discutiamo pure di questo punto. Più di così...».
Lei sembra disponibile, ma in realtà nel Pd temono che stia organizzando un blitz al Senato per far passare una legge iper-proporzionale con i voti di Pdl e Lega. È così?
«Questo accordo segreto non esiste, non ci sono furbizie. Anche perché poi alla Camera salterebbe tutto. Ma a condizione che non si resti in mezzo al guado».
Imputa la paralisi al Pd, impegnato nello scontro per le primarie?
«Io non voglio interferire in questo processo, mantengo le mie riserve su un sistema in cui non si capisce bene chi vota, ma rispetto questa dinamica democratica. Tuttavia i tempi delle primarie di un partito non possono influenzare la legge elettorale».
C’è una cosa che lei proprio non può accettare?
«Si, in effetti c’è. Solo in Italia c’è sia la soglia di sbarramento sia il premio di maggioranza. Berlusconi nel 2008 ha preso il 55% dei seggi con il 46,8% dei voti. Di fatto ha ottenuto un premio dell’8% che mi sembra già alto. Ma ora l’idea è quella di premiare una coalizione che ha il 30% con il 55% dei seggi: ecco, questa sì che sarebbe una forzatura inaccettabile. Di tutto il resto si può discutere».
Fino a questa estate tutti davano per fatta un’alleanza tra voi e un polo progressista costituito da Pd e Sel. Poi il clima è peggiorato fino a far apparire questa ipotesi sempre più lontana. La rottura tra voi e Vendola è vera?
«Stiamo ai fatti. In Sicilia la nuova Udc guidata dal nostro D’Alia aveva i titoli e per avanzare una candidatura alla presidenza della Regione. Invece noi appoggiamo il candidato del Pd, Rosario Crocetta, e naturalmente Sel e l’Idv lavorano con la candidatura Fava per farci perdere le elezioni».
Vuol dire che la Sicilia dovrebbe aprire gli occhi al Pd?
«Non è passato giorno che Vendola non abbia evidenziato delle posizioni antitetiche a quelle del Pd. Visto che l’emergenza economica è tutt’altro che alle nostre spalle, oggi per noi la vera discriminante è costruire un’alleanza con chi si sente di rivendicare l’esperienza fatta con Monti. Ricordo agli amici del Pd che non sono io tra i promotori del referendum sull’articolo 18».
Vendola è incompatibile con voi?
«Le posizioni di Sel sono difficilmente conciliabili anche con quelle del Pd. Io a Chianciano ho illustrato un programma di governo chiaro, in continuità con l’esperienza Monti. Che a questi sforzi Sel sia antitetico non lo dico io, è lo stesso Vendola a rivendicarlo ».
Con il Pd la porta è chiusa?
«Ma no, io e Bersani domani (oggi, ndr) discuteremo insieme al convegno delle Acli. Tuttavia noi restiamo convinti che i problemi del paese siano tali da richiedere un’alleanza di governo omogenea. Per questo seguirò con interesse le primarie del Pd, per vedere se emergerà una linea politica omogenea e coerente».

Corriere 15.9.12
Piccoli faraoni in nota spese
di Sergio Rizzo


Negli altri Paesi funziona in questo modo: davanti a un fatto che mette in discussione la credibilità delle istituzioni se ne traggono le conseguenze. Quando lo scandalo delle note spese gonfiate ha scosso il prestigio del Parlamento britannico, lo speaker della House of Commons, Michael Martin, figura corrispondente al nostro presidente della Camera, si è dimesso. Nonostante nei suoi confronti non esistesse alcun addebito specifico, ha ugualmente ritenuto di assumersi la responsabilità oggettiva. Ha pagato per tutti. E nessuno l'ha trattenuto.
In sedicesimi, la squallida vicenda che ha investito il consiglio regionale del Lazio, con la rivelazione che i faraonici fondi destinati ai gruppi politici venivano dirottati su conti personali o utilizzati per pagare cene a base di ostriche e champagne o book fotografici, ricorda quella storia. Quanto però a trarne le conseguenze, siamo ancora ben lontani. Dodici ore non sono bastate ai vertici del Popolo della libertà per indurre il loro capogruppo Franco Fiorito, indagato per peculato dopo la scoperta di 109 bonifici bancari fatti a se stesso dal conto del partito sul quale affluivano i soldi dei contribuenti, a sollevare dall'imbarazzo l'istituzione di cui fa ancora parte (e vedremo come si comporteranno gli altri partiti, compreso il Pd). Tanto basta per rafforzare la convinzione che non soltanto non verrà imitato l'esempio britannico, ma nemmeno quello tedesco.
Il ministro della Difesa Karl-Theodor Zu Guttenberg, astro nascente del partito della cancelliera Angela Merkel, si è dimesso per aver copiato parte della tesi di dottorato. Il presidente della Repubblica federale tedesca, Christian Wulff, ha rimesso il mandato dopo le polemiche su un prestito di favore avuto da un suo amico banchiere. E anni prima il ministro dell'Economia del Land di Berlino, Gregor Gysi, aveva gettato la spugna insieme ad altri suoi colleghi del Bundestag per aver utilizzato per biglietti aerei personali i punti mille miglia accumulati con i voli istituzionali. Perché in Germania, e non solo, le conclusioni si traggono anche a livello individuale, e per molto meno rispetto a quello che è successo al consiglio regionale del Lazio. Da noi, invece, non si arrossisce neppure.
Principio sconosciuto, a certi nostri politici, quello secondo il quale l'istituto delle dimissioni fa parte della democrazia, e la rafforza: chi sbaglia paga, è la regola universale, Italia esclusa. Sconosciuto soprattutto a chi interpreta la politica come un mestiere nel quale l'obiettivo principale è il denaro, da raggiungere con qualunque mezzo. Ce ne sono tanti, di personaggi così, purtroppo, nelle Regioni, nelle Province, perfino nei Comuni. Lontano dai riflettori, puntati sempre sui costi e i privilegi del Parlamento, sono proliferate piccole Caste locali. Spregiudicate e fameliche, hanno responsabilità gravi: quella di aver ridotto la politica, nel punto in cui dovrebbe essere più vicina ai cittadini e ai loro problemi concreti, alla gestione di interessi personali quando non di veri e propri comitati d'affari.
Ma ancora più pesanti sono le colpe dei partiti, che hanno assecondato per pure convenienze elettorali la formazione di una classe politica locale spesso indecente, girandosi dall'altra parte per non vedere. Tanto la situazione è compromessa che servirebbe ora un repulisti radicale. Il fatto è che dovrebbero farlo gli stessi partiti. Non resta che augurarci buona fortuna.

Corriere 15.9.12
Regione Lazio
Nel rendiconto dell’opposizione, pubblicato online, fatture per alberghi di lusso ed enoteche
Cene e soldi alle tv, le spese del Pd
di Fulvio Fiano e Ernesto Menicucci

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Corriere 15.9.12
Rachida Dati: «Non lasciamo soli gli arabi. O vinceranno i fanatici»
di Stefano Montefiori

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l’Unità 15.9.12
Samir Frangieh: «Gli integralisti non uccideranno le Primavere arabe»
Protagonista della «Primavera di Beirut», esponente di una delle famiglie storiche
del Libano, è stato membro del Parlamento
di Umberto De Giovannangeli


«Il Libano è il laboratorio politico di una convivenza possibile anse se fragile. La visita di Benedetto XVI aiuta a rafforzare un dialogo che va anche oltre la sfera religiosa, divenendo il fondamento di una politica che guarda al futuro e pone al suo centro i diritti di cittadinanza che non accettano di restare imprigionati dentro le appartenenze etnico-religiose». A sostenerlo è l’ideologo della «Primavera di Beirut», Samir Frangieh. Tra i più autorevoli intellettuali libanesi, già membro del Parlamento, leader del movimento «Marada», Samir Frangieh appartiene ad una importante famiglia maronita, tra le più influenti nella storia del Libano: lo zio, Sleiman Frgieh Kabalan, è stato presidente del Libano tra il 1970 e il 1976».
Al suo arrivo a Beirut, Benedetto XVI ha ribadito di essere «messaggero di pace e di dialogo».
«Un messaggio tanto più significativo per la fase in cui cade, in un Medio Oriente segnato da conflitti, come quello in atto da 18 mesi nella vicina Siria, che rischiano di incendiare l’intera Regione. Il Papa parla di pace nella giustizia, e in Medio Oriente la giustizia è ancora un bene raro».
Mentre il Papa parla di pace e invita al dialogo, le ambasciate americane sono sotto assedio in tutto il Medio Oriente. C’è chi sostiene che la «Primavera araba» rischia di trasformarsi nell’«Inverno jihadista».
«Innanzitutto credo che sia più corretto coniugare al plurale quella “Primavera”, nel senso che assieme agli elementi unificanti vanno colte le differenze tra Paese e Paese. È una sottolineatura importante per evitare cattive traduzioni politiche».
Lei è considerato l’«ideologo» della Primavera libanese. C’è chi ha affermato che quelle Primavere sono andate oltre alle rivoluzioni che hanno cambiato l’Europa nel ‘700.
«Direi che le Primavere arabe sono andate oltre a quelle rivoluzioni, perché se da un lato hanno restituito autonomia all’individuo arabo, che è diventato artefice della Storia, dall’altro hanno fatto scoprire le diversità di società complesse che solo nel concetto di cittadinanza
possono vedere garantiti i diritti di tutti. La sfida posta dalle “Primavere arabe” è quella di passare dalla coesistenza al vivere insieme. La coesistenza tra comunità penso ad esempio all’esperienza libanese si basa sulla divisione, divisione del potere nel quadro di uno Stato unitario, o divisione del territorio in uno Stato federale. Il vivere insieme non si fonda sulla divisione, ma sul legame, il legame che ogni individuo è chiamato a stabilire tra la sua articolata identità e quello che è chiamato a creare con gli altri. Realizzare questa idea di vivere insieme sancirebbe un vero passaggio d’epoca nel mondo arabo».
Dal futuro al presente. C’è una minaccia Al Qaeda nel mondo arabo?
«Il colpo più duro inferto ad Al qaeda non è stata l’uccisione di Osama bin Laden rivendicata come un successo della sua amministrazione, da Barack Obama. Il colpo più duro al jihadismo l’hanno dato i ragazzi di Piazza Tahrir, i giovani protagonisti della “rivoluzione jasmine” in Tunisia: sono loro ad aver trasformato non solo l’agenda politica, ma anche quella culturale del mondo arabo. Così facendo hanno spiazzato
l’Islam radicale, emarginandolo. Ora questi gruppi provano a riemergere, cavalcando un malessere che le complesse transizioni arabe non ha risolto, né sul piano sociale né su quello dell’affermazione piena dei diritti. Ma non siamo tornati all’“anno zero”».
C’è chi vede negli assalti alle Ambasciate la riprova che Islam è sinonimo di integralismo.
«È questo il modo migliore per rafforzare gli integralisti. Questa lettura demonizzante è l’esatto contrario di quella propugnata da Benedetto XVI. Piutto le cancellerie occidentali dovrebbero interrogarsi sui tanti errori commessi. Un discorso che riguarda soprattutto l’America e il suo presidente».
Cosa si sente di imputare a Obama?
«Non essere stato all’altezza delle grandi aspettative che lui stesso aveva generato all’inizio della sua presidenza. Penso al discorso sul “Nuovo Inizio”, un discorso storico, che Obama fece all’Università di al Azhar al Cairo. Allora, Obama aveva parlato a del diritto dei palestinesi ad uno Stato. È solo un esempio di un “Nuovo inizio” che non è mai iniziato».

Repubblica 15.9.12
Le rivoluzioni tradite
L’autunno dello scontento nelle piazze che non vedono i frutti delle rivoluzioni
di Gilles Kepel


IL SANGUINOSO attentato di Bengasi, avvenuto la notte dell’undicesimo anniversario dell’11 settembre, ricorda al mondo che il terrorismo d’ispirazione islamica non è scomparso dopo le rivoluzioni arabe. Al di là della fascinazione tradizionale di Al Qaeda per i numeri simbolici, bisogna soprattutto notare che l’uccisione di quattro diplomatici americani, fra cui l’ambasciatore in Libia, avviene in un paese in cui la dittatura di Gheddafi è stata abbattuta grazie all’aiuto eccezionale degli eserciti occidentali, fra cui quello degli Usa.
E CHE l’attacco ha avuto luogo a Bengasi, città simbolo dell’alleanza fra i paesi occidentali e i rivoluzionari arabi, poiché proprio lì, il 19 marzo 2011, l’aviazione francese ha bombardato i carri armati di Gheddafi, salvando la città e la rivoluzione.
Questo simbolo è naturalmente disastroso per l’avvenire della Libia e interviene proprio mentre molti, in Occidente, s’interrogano sul futuro delle rivoluzioni arabe, si chiedono se non abbiano lasciato uscire, come la bottiglia di Sinbad il marinaio, il cattivo genio dell’islamismo radicale.
In Tunisia ci si pongono molte domande sullo sviluppo del movimento salafita, di cui ho potuto misurare la presenza in un luogo molto simbolico: la città di Sidi Bouzid, dove sono cominciate le rivoluzioni arabe con l’immolazione di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010. Di sabato, a Sidi Bouzid, i salafiti svolgono il ruolo della polizia nel suk e sono loro a controllare la più importante moschea della città. Un ex di Al Qaeda è il
maitre à penser di Ansar al Sharia, organizzazione che porta lo stesso nome di quella libica che ha rivendicato l’attentato contro il consolato americano.
E’ importante anche sottolineare quali armi sono state utilizzate, armi da guerra. Sono stato a Bengasi ai primi di luglio e sono stato impressionato dall’arsenale militare eccezionale di cui dispongono le milizie e i “rivoluzionari” sul posto. La Cirenaica, di cui Bengasi è la metropoli, è la regione in cui c’è stata una forte resistenza islamica sotto il regime di Gheddafi. Non lontano da Bengasi, la città di Derna ha avuto proporzionalmente il più gran numero di combattenti in Afghanistan e di prigionieri a Guantanamo. Ciò nonostante, alle elezioni del Parlamento libico, il 7 luglio scorso, i movimenti islamici, contrariamente all’Egitto e alla Tunisia, non hanno conquistato la maggioranza. Il movimento islamista libico è profondamente diviso e frammentato in una miriade di partitini. La principale figura dell’islamismo libico, Abdel Hakim Belhadj, non è riuscito a essere eletto deputato, malgrado si sia sforzato di presentarsi come rappresentante di un partito democratico. La maggior parte dei suoi adepti, a causa del mancato successo salafita, ha ritrovato la strada della clandestinità e della lotta armata, resa più facile dalla debolezza dello Stato centrale e dagli impressionanti armamenti ancora in mano alle diverse fazioni rivoluzionarie. A Bengasi molti pensano che Tripoli abbia spoliato la città del suo ruolo pioniere nella rivoluzione e recuperato tutti i poteri: l’insieme di queste circostanze spiega perché proprio li è stato possibile l’attentato anti-americano.
Certo, si tratta di un colpo durissimo per la ricostruzione della Libia, poiché il pretesto di questo attentato è stata la diffusione su internet di un film accusato di oltraggiare il Profeta dell’islam, un po’ come le caricature apparse nel 2005 sul giornale danese
Jyllands-Posten.
Nel mondo arabo ci sono manifestazioni sanguinose non per condannare l’attentato, ma per protestare contro un nuovo affronto che sarebbe stato fatto all’islam. Le voci di piazza dicono che il film è stato finanziato da un copto e da un israeliano-americano, il che rende più acute le tensioni in Egitto, dove la comunità copta resta traumatizzata dalla vittoria di Mohamed Morsi. Anche in Tunisia, dove i salafiti hanno denunciato il film, un partito laico ha emesso un comunicato per denunciare l’oltraggio al sacro e al Profeta.
Tutto ciò mostra come l’opinione pubblica araba possa essere mobilitata da agitatori politici attorno alle questioni del sacro e come Al Qaeda, che si pensava oscurata dalla primavera araba, sia capace, insieme ai salafiti, di tornare alla ribalta, forse temporaneamente. Lo fa approfittando delle frustrazioni e dello scontento di popolazioni che un anno e mezzo dopo la caduta dei tiranni hanno l’impressione di non aver ricevuto nessun frutto della rivoluzione: la disoccupazione e la miseria aumentano, la più grande libertà non impedisce fatti tragici come il naufragio, pochi giorni fa, di 50 clandestini tunisini al largo di Lampedusa.
E’ d’altronde significativo che il primo cadavere recuperato dai soccorritori italiani sia stato quello di un ragazzo proveniente da Sidi Bouzid, la città simbolo della rivoluzione. In arabo fuggire verso l’Europa si dice harragache, vuol dire letteralmente bruciarsi: è lo stesso termine utilizzato per descrivere l’immolazione di Mohamed Bouazizi.

Repubblica 15.9.12
Quell’incontenibile impulso a lavare nel sangue gli oltraggi al Profeta
di Tahar Ben Jelloun


LA PRIMA domanda che viene in mente è: ma l’Islam è così vulnerabile che la minima caricatura provoca violenze eccessive e fanatiche? Tornano in mente le caricature del profeta Maometto e le tensioni che avevano suscitato nel mondo. Oggi è la volta di un promotore immobiliare californiano, un israelo-americano, Sam Bacile, che ha girato un film, pessimo sotto il profilo tecnico, allo scopo di ferire i musulmani nelle loro credenze e nella loro dignità. Ho visto quel film. È così malfatto che non avrebbe mai dovuto essere pubblicato. Ma di fatto è stato diffuso su internet e fa reagire con rara violenza le popolazioni musulmane un po’ ovunque nel mondo.
L’origine di quelle reazioni spontanee e sproporzionate risale al 1988, con la fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie che aveva pubblicato “I versi satanici”. Tutte le sciagure del mondo musulmano trovarono giustificazione in quella fatwa, che ha reso alcuni musulmani ipersensibili a tutto ciò che colpisce la loro religione. La stragrande maggioranza dei paesi musulmani non vive in democrazia. Appena la gente trova un motivo per uscire a manifestare, lo fa. Nessun governo, né in Libia, né in Sudan o in Egitto, è in grado di impedire una manifestazione contro «un’umiliazione inflitta da un israeloamericano ». Si prendono due piccioni con una fava: si denuncia l’America uccidendo uno dei suoi ambasciatori o incendiando una delle sue ambasciate e al tempo stesso si grida il proprio odio contro Israele e la sua politica d’occupazione.
Una folla che si scatena perché l’immagine della religione musulmana mostrata da Sam Bacile è orribile, ingiusta, falsa e semplicemente scandalosa, non può essere ammansita con il ragionamento. È una questione di fede, di credenze e di convinzioni. Una questione di passione. Colpire tutta una comunità nelle sue credenze è una provocazione che non può che finir male.
Il fraintendimento è totale: dei musulmani pensano che dietro Sam Bacile ci sia lo Stato di Israele o addirittura il Pentagono. Forse non sanno che il governo non interviene nella produzione di un film, nella fabbricazione di un giornale o nelle scelte editoriali delle caricature. Pensano che tutto ciò sia fatto dagli Stati per colpire i musulmani in quello che hanno di più caro. Ma, se nei paesi musulmani lo Stato interviene spesso sulla stampa o nella cultura, in Occidente non è così.
Ci sono però delle teorie secondo le quali l’America e Israele prendono di mira l’islam e i musulmani come “nemico potenziale”. Se prima il cinema americano presentava il comunismo come il principale pericolo che minacciava l’America, oggi è la volta di Al Qaeda. E, se anche riconoscono che non tutti i musulmani sono terroristi, affermano che ogni terrorista è necessariamente musulmano!
Il rapporto tra l’Occidente e l’islam è in tensione permanente. I discorsi dei politici sono rassicuranti e benevoli, ma la mentalità della gente è condizionata dall’ideologia della paura e dall’odio per tutto ciò che non è occidentale. Inoltre la vittoria dei fondamentalisti dopo la rivoluzione di quella che è stata chiamata la “primavera araba” incoraggia la popolazione a manifestare e a dichiarare il suo rifiuto dell’Occidente.
Nonostante le dichiarazioni di Hillary Clinton, le violenze continuano: Obama deve intervenire per lanciare un segnale forte ai musulmani nel mondo condannando l’impresa viziosa e abbietta di un promotore immobiliare il cui passatempo favorito è diffondere l’odio per l’islam.
(traduzione di Elda Volterrani)

il Fatto 15.9.12
Gli Usa scaricano la crisi sull’euro
di Superbonus

Gli Stati Uniti hanno deciso di uscire dalla crisi del debito con l’inflazione. Per abbattere il debito accumulato con gli stimoli all’economia e il soccorso alle banche le possibilità erano due: imboccare una strada di estrema austerità per molti anni a venire, oppure stampare denaro all’infinito riducendo il valore reale del debito e sperando che l’economia riparta prima dell’inflazione. Con la decisione del presidente Ben Bernanke – l’annuncio di acquisto di debito per 40 miliardi al mese – la Federal Reserve si è sostituita al Congresso e ha scelto la seconda strada giustificandola con l’“eccessiva e perdurante disoccupazione”, una motivazione populista e pre-elettorale per coprire un ragionamento ben più cinico che porterà a una svalutazione del dollaro, una diminuzione delle importazioni e un aumento del tasso d’inflazione.
UNA MOSSA azzardata perché fatta in un momento in cui l’economia americana già cresce al 3 per cento annuo e la massa monetaria circolante è ai massimi di sempre. Una mossa ancora più azzardata se si pensa che la Federal Re-serve comprerà mutui erogati alle famiglie dalle banche commerciali riducendo così ulteriormente i già bassi tassi dei mutui e tentando di stimolare una nuova bolla nel settore immobiliare. Al contrario delle misure annunciate dalla Bce, che prevedono interventi in caso di eccessivi ribassi dei titoli di Stato e li subordinano a un preciso piano di rientro dal debito, la Banca centrale americana sta stimolando proprio il debito, sta facilitando l’emissione di titoli governativi e incentivando l’erogazione di mutui alle famiglie.
Il timore è di star assistendo all’inizio della seconda bolla finanziaria della storia stimolata da una Banca centrale, il primo esperimento di questo tipo fu fatto in Francia nel 1717 dal banchiere scozzese John Law che, diventato ministro delle finanze del Re, iniziò a emettere carta moneta in quantità illimitate. Il risultato fu un disastro inflativo senza precedenti che portò al collasso dello Stato francese e aprì la strada alla Rivoluzione. Bernanke si avventura ora sulla stessa strada con la sicurezza che “this time is different”, questa volta è diverso, con la sicurezza che le Banche centrali hanno gli strumenti e le conoscenze per governare l’inflazione e le crisi monetarie. Si potrebbe anche credergli se non fosse che Bernanke è lo stesso uomo che poco prima della crisi dei mutui subprime, nel 2007, affermava con sicurezza: “Siamo in un periodo di Grande Moderazione grazie alle politiche monetarie che condizionano il ciclo economico”. Si sbagliava.
LA VERITÀ È CHE, purtroppo, gli Stati Uniti hanno deciso di scaricare la propria crisi sul resto del mondo sfruttando la posizione di supremazia del dollaro negli scambi internazionali. Stanno elevando una barriera commerciale invisibile utilizzando il tasso di cambio e uno stimolo fittizio all’economia attraverso la creazione di denaro dal niente. E quindi l’inflazione. I mercati hanno capito subito, tutti gli operatori sono corsi a convertire i dollari in attività reali portando le Borse sui massimi e spingendo in alto il prezzo delle materie prime. Qualcuno dirà che il prezzo del petrolio è schizzato verso l’alto anche a causa della crisi in medio oriente, e allora rame, cacao, mais, zucchero e cotone perché salgono a rotta di collo? La mossa di Bernanke non è un atto di politica monetaria, ma anche e soprattutto, di politica estera che è stato subito accolto dal ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, come la conferma che la “guerra dei cambi è ancora in atto” e con la promessa che la Banca centrale del Brasile vigilerà sul cambio. Lo stesso farà la Cina che non ci pensa neanche a rivalutare la propria moneta – cosa che danneggerebbe le esportazioni – e la terrà ben ancorata al dollaro con il risultato di aumentare ancora di più le spinte inflative sulle materie prime.
E L’EUROPA? L’Europa è il vaso di coccio. L’euro guadagna terreno sul dollaro e le nostre esportazioni e la nostra competitività ne perdono sempre di più. Chi, come la Germania, ha differenziato per tempo la base produttiva delle proprie industrie regge il colpo. Ma chi, come l’Italia, ha una struttura di piccole e medie imprese locali o di grandi imprese in crisi e con pochi nuovi prodotti su cui puntare, pagherà il prezzo della svalutazione americana. Non sappiamo se Bernanke avrà successo nel suo azzardo e riuscirà a far rientrare l’inflazione al momento opportuno, di certo possiamo dire che giovedì la Federal Reserve ha dichiarato una guerra valutaria. E che le prime vittime rischiano di essere i paesi periferici dell’area euro.

Repubblica 15.9.12
L’intervista
“Io Pussy Riot dalla cella vi dico: la mia Russia si ribellerà”
La sfida della Pussy Riot Nadia “Non si può tacere con i prepotenti Putin è l’incarnazione del sopruso”
Intervista dal carcere: “Noi non siamo pentite”
di Nicola Lombardozzi


Il 21 febbraio il gruppo punk femminista Pussy Riot inscena un canto anti-Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca
Nonostante le mobilitazioni internazionali per chiederne la liberazione, il 17 agosto tre Pussy Riot sono condannate a due anni di carcere
Le risposte dal carcere di Nadezhda Tolokonnikova inviate a Repubblica

MOSCA «NON si può più stare zitti». Nadia lo scrive due volte per essere più chiara. Ha fretta, scruta lo sguardo del custode del parlatorio. Sembra bonario ma non si sa mai. Ha pochi minuti per rispondere alle domande che le abbiamo mandato. Non può riportarsele in cella e studiarle con calma: è proibito. Ma le piace scrivere. È fiera di essere la leader naturale delle Pussy Riot. Qui nel “carcere circondariale femminile numero 6” nel quartiere Peciatnikij sulla riva nord della Moscova, lei e le sue due compagne aspettano il primo ottobre. L'apertura del processo d'appello contro la condanna a due anni per aver cantato in cattedrale «Oh Madonna, liberaci da Putin ». In caso di conferma saranno trasferite in un campo di lavoro molto lontano da Mosca. Finisce in tempo. Completa l'intestazione: “A Repubblica da Tolokko”. Nome d'arte di Nadezhda Tolokonnikova, Nadia per gli amici, 22 anni, studentessa di filosofia, definita dalla Chiesa di Russia “cantante blasfema”.

DICA la verità, si aspettava tutto questo clamore internazionale su di voi?
«Veramente non ci aspettavamo una reazione così spropositata dallo Stato. È stata questa a scatenare tutto il resto. A noi non è rimasto altro che farci idealmente una bella scorta di pop corn e assistere a questo film surreale: “Come il sistema russo si seppellisce da solo sotto gli occhi di tutto il mondo”. Grazie comunque a tutti quelli che hanno appoggiato le Pussy Riot. Avete fatto un miracolo ».
Come vi trattano in prigione?
«Sono meravigliati di non vederci piangere tutto il giorno. Qualcuno ci consiglia di mostrarci più pentite. Ma il vero problema è che non ci lasciano inviare fuori le cose che scriviamo in cella. Gli altri disagi non mi preoccupano. Sono pronta a lavarmi per tutta la vita sopra al water a patto che non mi tolgano i miei scritti».
Riuscite a comunicare tra voi tre?
«No, siamo totalmente isolate»
Siete pentite o orgogliose di quello che avete fatto?
«Abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Non si può più stare zitti mentre si tolgono tutti i diritti all'intero Paese. Non si può più stare zitti!».
Vi siete scusate con i fedeli. Mossa processuale o pentimento sincero?
«Ci siamo scusate tante volte, anche prima del processo. Proprio perché non avevamo intenzione di offendere chicchessia. Siamo state male interpretate. E a creare gli equivoci ci hanno pensato tutti i mass media putiniani».
Crede in Dio?
«Credo nel Destino».
La Chiesa è stata prima durissima, poi ha chiesto clemenza. Come lo spiega?
«Hanno chiesto clemenza due ore dopo la condanna. Ma dov'erano prima? Questa non è clemenza ma una perversa presa in giro».
Adesso vi accusano di provocare un'ondata anticlericale in tutto il Paese.
«L'ondata anticlericale è stata provocata dallo Stato e non da noi. Adesso basta, questo regime è da buttare nella spazzatura».
Le pressioni internazionali potranno portare una riduzione della pena?
«No. Ormai il sistema ha deciso di screditare e distruggere le attività civili di tutti i russi. Non ascolta le idee degli altri».
Ha detto “Amo la Russia ma odio Putin”. Ma Putin è il solo problema della Russia?
«Putin è l'incarnazione del sopruso e della prepotenza. Non è solo un uomo ma un terminale che ci mostra tutto il marcio del potere statale».
Gli altri oppositori all'inizio vi hanno snobbato. Navalnyj vi ha accusato di aver fatto una stupidaggine. Potrete un giorno lavorare assieme?
«Già lavoriamo assieme. Navalnyj ci ha capito, ne sono sicura».
La accusano di essersi montata la testa. Ha citato Solgenitsyn, Dostoevskij, Che Guevara. Si paragona davvero a questi personaggi?
«Non mi riferivo al valore di questi personaggi. Semmai alla reazione dell'apparato alle nostre azioni. E poi ho citato anche Gesù Cristo ma non mi paragono certo a lui».
Sua figlia continua a disegnare “sistemi per liberare la mamma”. Pensa che sia corretto coinvolgere in questo modo una bimba di 4 anni?
«Sì, certo. Deve essere trattata alla pari. Le si deve spiegare sempre tutto. Farla partecipare. Già prima del mio arresto le parlavo di politica».
Madonna, Sting, Peter Gabriel e artisti di livello mondiale vi considerano eroine. Una bella soddisfazione per delle dilettanti. Le fa piacere?
«A livello personale non mi interessa molto. Non mi sento una musicista ma una militante civile. E da militante anti Putin, questo appoggio dei grandi artisti mi fa molto piacere ma solo perché è utile alla nostra causa».
Pur essendo la più giovane lei è considerata la leader delle Pussy Riot. Perché è molto intelligente ma anche perché è molto bella. Si dice che sarebbe pronta a posare nuda per Playboy. E' vero?
«Il gruppo non ha mai avuto e non avrà leader. Grazie per il complimento ma non intendo posare per Playboy per motivi ideologici. È vero che mi hanno fatto una proposta ma ho subito rifiutato».
Ci racconta in breve come sono nate le Pussy Riot, chi le ha inventate, quante sono, che cosa vogliono?
«Sono nate a ottobre come reazione all'annuncio che Putin sarebbe ridiventato Presidente in marzo. Siamo andate su tutte le furie. All'inizio eravamo cinque. Da un concerto all'altro il collettivo cresceva. Al momento del nostro arresto facevano parte del gruppo dieci ragazze e dieci tecnici volontari. Tutte noi vogliamo aprire una breccia nel muro dell'indifferenza imposta ai cittadini dal sistema Putin. Quando i russi saranno pronti a combattere per i loro diritti, seguirà il recupero di tutti i settori della società: l'economia (le piccole aziende in particolare), la scuola, la sanità, la giustizia...»
Cosa sa delle altre ragazze? Quelle che erano quella mattina in cattedrale, quelle che sono fuggite all'estero, quelle che restano a Mosca e sono ricercate?
“Se sai di meno dormi meglio (proverbio russo ndr)”
Parlate spesso di Rivoluzione. Ma crede veramente che la gente di Russia sia pronta per una rivolta vera e propria?
«Il regime sta facendo di tutto per spingerci alla ribellione. Forse non subito, ma prima o poi la pazienza della gente finirà».
Ammettiamo che possiate uscire presto dal carcere. Pensa a un futuro di successi musicali e nuove provocazioni?
«I concerti punk non sono una provocazione. Nessuno, fino a ora, ci ha offerto di uscire dal carcere. Dunque i progetti per il futuro li faremo più tardi. Non voglio aiutare lo spionaggio politico raccontando in anticipo i nostri progetti».
Qualcuno dice che la fortuna di Putin sia di avere contro solo “oppositori dilettanti e ragazzette in minigonna”. Cosa risponde?
«Non è per niente così. Ho visto con i miei occhi migliaia di persone rispettabili che intervengono sempre più contro Putin e il suo sistema». Tempo scaduto. Nadia torna in cella.

l’Unità 15.9.12
Picasso mon amour
Dario Fo: uno spettacolo dedicato al grande pittore
Andrà in scena nei giorni della mostra milanese
a Palazzo Reale. E sarà l’ultima volta che Parigi presterà all’estero le opere di questo gigante del Novecento
di Maria Grazia Gregori


SARÀ L’ULTIMA VOLTA CHE IL MUSEO PICASSO DI PARIGI PRESTERÀ LE OPERE DI QUESTO GIGANTE DEL NOVECENTO ALL’ESTERO. Per vederle dunque bisognerà venire al Palazzo Reale di Milano a partire dal 20 di settembre. Ma l’occasione è tale che l’assessore alla cultura Stefano Boeri ha pensato di arricchirla di occasioni e di incontri (ci sarà il poeta russo Evtušenko che racconterà il suo incontro con l’artista) e con una sorta di inaspettata «anteprima», al Teatro Dal Verme, lunedì 17 e mercoledì 19 alle 21, che avrà come protagonista Dario Fo: non solo il Nobel, non solo il grande teatrante che tutti conosciamo ma anche un pittore di vaglia che ha i suoi maestri in Caravaggio e Picasso e al quale Milano ha appena dedicato una grande mostra.
«Quando l’assessore mi ha chiesto di fare qualcosa per l’avvenimento racconta Dario ero così felice che avrei fatto un salto mortale su di una gamba sola. Picasso è un uomo che ha buttato all’aria le consuetudini, un immenso artista che ho studiato fin dai tempi dell’Accademia di Brera per imparare le tecniche formidabili di cui si serviva. Un uomo, anche spietato sul piano personale, che non si è fermato di fronte a nulla, che ha adoperato per dipingere tutto, anticipando tutti». Risultato di questo grande amore uno spettacolo, Picasso desnudo, in scena Fo e Franca Rame. Un titolo a più facce che l’attore –autore spiega così: «non sarà una lezione ma proprio uno spettacolo nel quale metteremo a nudo non solo alcuni lati poco conosciuti della sua personalità, ma anche il suo amore profondo per l’arte italiana del Rinascimento e per la Commedia dell’arte e le sue maschere. I suoi meravigliosi Arlecchini ne sono un esempio. E poi se guardiamo certi suoi atteggiamenti, certe di suoi gesti, il suo modo d’amare, di rifiutare, di mentire ci pare proprio di vedere citata la Commedia dell’arte. Ma l’aggettivo “desnudo” ricorda anche il celebre quadro di Goya La maya desnuda, che lui amava moltissimo e al quale si è ispirato più volte, riproducendolo alla sua maniera, dunque tradendolo».
UNA BEFFA COLOSSALE
La passione di Fo per Picasso nasce anche da una beffa colossale combinata nel 1951 con amici pittori e allievi dell’Accademia. Nasce dalla delusione che proprio in quell’anno il pittore spagnolo, per la sua venuta in Italia, sceglie all’ultimo di scendere a Roma e di non fermarsi a Milano. Il gruppo milanese non si perde d’animo. In quegli anni lavora a Brera untecnico esperto di colate di gesso, tale Otello, un sosia di Picasso. «Cosìracconta Fo abbiamo organizzato tutto a partire dall’arrivo del falso artista: fotografi impazziti, ammiratori, giornalisti. Otello che non conosce il francese e parla solo in milanese si dilegua. Timidezza, si dice. Intanto però in suo onore viene organizzata una gran serata con il tout Milan con musiche, pezzi teatrali. Fino a quando appare lui, Otello-Picasso, ma, improvvisamente, un riflettore gli cade addosso e lui si mette a imprecare in milanese rivelando con grande divertimento di tutti la beffa. Che divertì anche Picasso quando lo venne a sapere. E nel 1953, in occasione della sua grande mostra a Palazzo Reale, vista la foto della Sala delle Cariatidi bombardata e in rovina decise che lì e solo lì potesse e dovesse essere esposta Guernica».
Picasso desnudo (entrata libera per informazioni www. ipomeriggi.it ) nasce, con l’aiuto di Felice Cappa, come una festa di teatro, che guarda alle vicende dell’uomo Picasso, alle sue donne (che Franca interpreta) come un testo «a togliere»: dall’enorme raccolta di fatti e vicende presi in esame, alla fine si è giunti a uno spettacolo in due tempi di due ore o poco più.
FALSI D’AUTORE
«Ma il ritmo – dice sornione Dario lo dà sempre e solo il pubblico. In scena poi verranno proiettati parecchi “falsi d’autore” che con i collaboratori della mia Bottega ho dipinto partendo dalle opere di Picasso. Per rendere vive non solo la sua visionarietà e teatralità, ma anche il rigore di un uomo che non è mai tornato in Spagna che alla fine totale del franchismo».

Repubblica 15.9.12
Carisma e marketing, ecco a voi Chomsky
Mentre esce un suo saggio politico, il celebre linguista è in Italia per una serie di conferenze
di Raffaele Simone


È molto onorevole che Noam Chomsky, linguista e intellettuale tra più noti del secolo passato e di questo anche per le sue prese di posizione radical in politica, venga in Italia. La sua immensa reputazione (il suo nome in Google richiama diciotto milioni di siti) spiega perché ogni sua visita sia accolta con la trepidazione che si riserva a un capo carismatico. Insieme a Freud, Chomsky ha infatti un primato tra i leader intellettuali moderni: ha creato con fulminea velocità una scuola planetaria, ne ha conservato l’indiscussa leadership esercitando sugli ambiti limitrofi un influsso ininterrotto, corroborato dallo stupore dei catecumeni e dei media. A ciò si aggiungono altre affinità: dalla sovrana indifferenza a ogni critica alla gestione severamente carismatica degli scolari, tra i quali si distinguono una prima e tutt’al più una seconda fila, il resto essendo una massa che non ha speranza di accedere al leader. Le differenze non mancano: la finissima prosa di Freud contrasta con quella piatta e legnosa di Chomsky.
La sua attività si è esplicata in una intensa serie di fasi; ogni fase è in parte assorbita, in parte rinnegata dalla successiva. L’intera parabola del suo lavoro è però indicata dal fortunato aggettivo generativo.
Le fasi della linguistica generativa sono incentrate essenzialmente sulla sintassi e sempre ricche di sfide alla filosofia, alla psicologia e alla teoria dell’acquisizione del linguaggio. La prima (opera-faro Syntactic Structures 1957; l’autore, classe 1928, non aveva trent’anni), che parte dal rifiuto dello strutturalismo, è quella “generativo-trasformazionale”. Le infinite frasi di una lingua provengono, attraverso un numero ristretto di regole rappresentabili con simboli (le trasformazioni), da poche strutture nucleari formate da frasi dichiarative attive. Il passivo il libro è stato venduto dal libraio deriva per trasformazione da un attivo di base (il libraio ha venduto il libro).
Quindi una frase (rappresentata da quegli “alberi” che hanno contribuito alla fama pop del generativismo) può esser convertita in un’altra attraverso regole. Su quest’idea (sia pur tecnicamente insostenibile: in molte lingue il passivo non corrisponde a nessun attivo!), per quanto possa parere terra terra, si formò in pochi anni una scuola planetaria, bellicosa e poco disposta a mettersi in discussione. La seconda fase (la “teoria standard estesa”: opera faro Aspects of the theory of syntax 1965) introdusse tra l’altro la distinzione tra struttura superficiale e struttura profonda: il corteo fu deviato dalla polizia e il corteo fu deviato dalla piazzahanno uguale struttura superficiale ma diversa struttura profonda, dato che dalla polizia ha ruolo di agente, dalla piazza ruolo di locativo. L’ultima e più durevole fase è rappresentata dalla teoria dei principi e parametri (opera principale: The Minimalist Program1995).
Ogni lingua incorpora un insieme finito di “principi” determinati geneticamente: per esempio, ogni frase deve avere un soggetto. Ciascun principio deve optare per uno o l’altro di alcuni “parametri”, paragonabili alle posizioni di un interruttore: per esempio, il soggetto è obbligatorio (come in inglese) o no (come in italiano). L’insieme dei principi e dei parametri forma la Grammatica Universale, supposta comune a tutte le lingue. A queste idee hanno risposto osannanti apprezzamenti non meno che pesantissime critiche, a cui il movimento ha dato poca retta. Già nel 1972, per esempio, John Searle notava che Chomsky ignora che, siccome il linguaggio serve a comunicare, le strutture delle sintassi non si fanno da sole ma sono modellate dalle necessità della comunicazione. A questi nuclei di teoria linguistica si aggiunge la costante presenza di Chomsky nel dibattito politico (come in Siamo il 99%, uscito da Nottetempo) e filosofico, dove ha lanciato una varietà di proposte in una chiave che si direbbe analitica. Tra cui il recupero dell’idea di innatismo (la facoltà di linguaggio non si impara, ma è nella dotazione genetica dell’uomo) e di creatività linguistica; poi l’idea della sostanziale unità delle lingue a dispetto della diversità delle apparenze, da cui la nozione di Grammatica Universale.
Le idee di Chomsky hanno innescato un’enorme varietà di ricerche anche in altri campi e portato per la prima volta nella storia la linguistica (scienza “povera”) al bordo della big science e agli onori dei media. Psicologi, neuroscienziati, informatici, biologi, logici, filosofi (questi particolarmente numerosi) e altri in vari ambiti hanno adottato le idee di Chomsky nelle diverse fasi, sia pur assumendo che il generativismo fosse la linguistica tout court e ignorando l’arcipelago che forma questa disciplina. Al generativismo va attribuito senz’altro il merito di aver scatenato un movimento internazionale di lunga durata (da molti considerato una “rivoluzione”) e additato una gran quantità di fatti non osservati prima e di costrutti teorici. Questi, battezzati con un fittissimo vocabolario tecnico, non possono essere illustrati qui; ma si può dire che queste scoperte, sebbene tutt’altro che universalmente condivise, sono un contributo cruciale.
Resta però poco decifrabile la compattezza rocciosa (al netto degli abbandoni) del movimento, l’atteggiamento esclusivo e adorante di molti appartenenti, il verticismo. Ogni fase di quel pensiero ha avuto in tutto il mondo pronta traduzione in manuali, esemplificazioni, sintesi, eserciziari, soffietti, con un effetto di diffusione che non ha pari al mondo. Non può esser taciuto inoltre che la facoltà di innovare è riconosciuta quasi solo al capo: ogni nuova “fase” della teoria si trasferisce per li rami producendo veloci riposizionamenti, riformulazioni e correzioni di rotta. Non si può neanche trascurare che l’espansione del generativismo si è giovata di circostanze fortunate. Già le prime ricerche godettero del fastoso sostegno della Ford Foundation, che spedì nelle università di tutto il mondo specialisti per diffonderla. E sì che la linguistica trasformazionale (così si chiamava allora) era il prodotto di un ragazzo poco più che trentenne! La natura di quella dottrina, la sua tendenza alle rappresentazioni matematizzanti e all’uso di simbolismi (non di rado esornativi) ne favorì l’incontro con la scienza dei calcolatori e dette a molti l’impressione di aver a che fare con qualcosa di implementabile, dimostrabile, rigoroso.
A nulla sono valsi i rilievi di chi (come il grande Charles F. Hockett in The State of the Art 1968 o Elisabeth Bates e Michael Tomasello a proposito dell’acquisizione, per non parlare degli italiani, da Franco Lo Piparo a Tullio De Mauro) ha ricordato che il linguaggio non è un’entità «formale, ben definita e stabile» come il generativismo vorrebbe, ma incorpora la storia, la variazione sociale, le incertezze dell’uso e la stratificazione dei livelli. Di supporti ugualmente poderosi non hanno goduto linguisti dalle idee non meno dense di quelle Chomsky, come Roman Jakobson, Otto Jespersen, Emile Benveniste o M. A. K. Halliday… In altre parole, se la vitalità di molti aspetti del pensiero di Noam è straordinaria e merita gran rispetto, una parte cruciale della sua diffusione si deve a un formidabile dispositivo di marketing culturale.

Repubblica 15.9.12
I nostri miti
La studiosa Luisa Passerini, che nei suoi saggi di storia culturale si è occupata del tema, racconta la nascita dei modelli sentimentali
Anche nei classici indiani e cinesi ci si innamora ma questo non è così rilevante per la costruzione dell’identità
Provenzali e romantici, così abbiamo idealizzato il soggetto amoroso
di Simonetta Fiori


In che modo sentimenti, passioni, emozioni, affetti entrano nel recinto nobile della disciplina storiografica? L’amore, in sostanza, si può storicizzare? «Non solo si può, ma si deve», risponde Luisa Passerini, studiosa dalla fisionomia singolare, una delle poche ad essersi avventurata in un territorio impervio, tra molti riconoscimenti internazionali e non altrettanti nazionali. Classe 1941, una lunga esperienza tra l’Istituto Europeo di Firenze e l’Università di Torino, un nome importante per la cultura femminista, è ora in partenza per New York dove tra qualche settimana comincerà alla Columbia University un corso sull’amore. «Sì, in Italia ci sono difficoltà maggiori. La storia culturale ha da noi poca cittadinanza ». I suoi libri – come Storie d’amore e d’Europa, L’Europa e l’amore – intrecciano immaginario amoroso e identità culturali nel corso del Novecento, con radici che risalgono alla tradizione cortese e all’amor romantico, su cui Passerini ha molte cose da dire. Fuori dai sentieri più conosciuti.
Come fa uno storico a studiare l’amore?
«Noi non possiamo osservare l’amore come istinto “naturale”, il sentimento in sé, ma vediamo sempre delle costruzioni culturali, ossia i discorsi sull’amore. Sono fondamentali due prospettive: quella di lunga durata e quella comparativa».
E cosa ha scoperto?
«Che sull’amore ci sono molti pregiudizi. Prendiamone uno, quello che mi sta più a cuore: la pretesa esclusività europea di un certo tipo di relazione, che è quello rappresentato dalla coppia uomo-donna unita da un rapporto paritario. Per un lungo periodo si è ritenuto che questa concezione dell’amore distinguesse il nostro continente dal resto del mondo, segnato nell’Oriente asiatico da una marcata subalternità femminile. Questo preteso primato si traduceva – talvolta ancora si traduce – in una pretesa superiorità. Se però guardo le cose in una prospettiva comparativa, cambia completamente il quadro».
In che modo?
«Gli studi antropologici mostrano che sul piano del sentimento d’amore c’è una forte differenza tra l’Eurasia e l’Africa nera, dove il discorso amoroso è molto meno sviluppato».
Che cosa intende? C’è poca letteratura?
«Esiste un rapporto molto stretto tra amore, discorso amoroso e alfabetizzazione, intendendo con questo termine la cultura scritta. Gli studiosi hanno rilevato che nelle culture africane esclusivamente orali c’erano poche canzoni d’amore, quasi non esistevano».
Quindi la scrittura alimenta l’amore. Allora aveva ragione La Rochefoucauld...
«Sì, disse che ci si innamorerebbe molto meno se non si fosse mai sentito parlare d’amore. In parte è vero. Se io leggo molti romanzi sentimentali è più facile che mi innamori, perché riconosco le mie emozioni e mi sento legittimato a coltivarle. Però non è vero che in un’altra cultura, sprovvista di una letteratura scritta, nessuno s’innamori: si esprimerà attraverso il disegno o la musica, oppure con un dono».
La letteratura produce sentimento. Ma anche il sentimento amoroso può innescare cambiamenti linguistici.
«Il caso dell’antica Provenza è interessante, perché è cultura di transizione tra l’orale e la scritta. Un grande antropologo, Jack Goody, ha detto che l’amore è una potenzialità psicologica universale, ma questa non s’è espressa ovunque allo stesso modo. Dipende da tante circostanze».
Lei ha fatto riferimento all’Eurasia, come a una estesa geografia unita da una concezione simile dell’amore. Questo implica la rottura dello stereotipo secondo cui l’idea che fonda l’amor cortese sarebbe stata un’invenzione esclusivamente europea.
«Sì, dalla metà del XVIII alla metà del XX secolo molti intellettuali hanno ritenuto che la poesia provenzale rappresentasse l’origine non solo della poesia europea, ma anche di un modo specifico di amare e di definire l’individualità e la coscienza. Questo è stato poi corretto da chi ha mostrato le diverse influenze. Prendiamo i poemi d’amore prodotti dai beduini della penisola arabica tra il VII e il VI secolo a.C.: anche questi sono fondati sulla irraggiungibilità della persona desiderata. Non si può escludere che in un periodo successivo – attraverso la Spagna musulmana – gli stessi motivi si siano diffusi fino a innestarsi nella produzione trobadorica».
In sostanza il modello ritenuto fondante del sentimento amoroso europeo – ossia la tradizione dell’amor cortese – sarebbe nato in Arabia?
«Non lo sappiamo con certezza, ma le influenze e le corrispondenze sono state diverse. Potrei fare anche l’esempio della Storia di Genji, il romanzo giapponese scritto da una dama di corte nell’XI secolo. Anche qui affiora il motivo dell’inaccessibilità dell’amore».
La distanza dell’amata è un tema fondamentale dell’amor cortese.
«Sì, là nascono i termini che permarranno nella tradizione del dialogo amoroso. I provenzali lo chiamavano amor de lohn, amore da lontano, e questa lontananza può essere sociale o geografica. Un motivo che ritroviamo nel romanzo romantico, con l’idealizzazione dell’oggetto amoroso. Ma c’è una fondamentale differenza tra l’amor cortese e quello romantico, inteso come lo intendiamo noi oggi».
Cosa vuol dire?
«Amore romantico è diventato un’espressione che non fa riferimento specifico all’epoca romantica, ma a un atteggiamento che si pretende universale e che si collega al matrimonio eterosessuale. L’amore cortese non è eterosessuale, un termine che allora non significava niente. La parola omosessuale acquisterà un significato a partire dall’Ottocento. Nella poesia trobadorica non c’era ancora il legame tra identità e scelta sessuale».
C’erano anche trovatrici donne che cantavano per l’amata.
«Non solo. L’amore cortese non esclude la pratica amorosa tra uomini né tra donne. Ma da un certo momento in poi è prevalsa un’interpretazione rigida che ha fatto di questa tradizione letteraria l’epitome delle relazioni eterosessuali. Questo spostamento è corrisposto all’irrigidimento dell’identità europea».
In che modo?
«A partire dalla fine del Settecento il soggetto sia dell’identità europea sia del discorso amoroso diventa un soggetto maschio, bianco e cristiano. E dobbiamo aspettare i movimenti femministi e quelli di liberazione culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento per dire che il soggetto può essere una donna, un ebreo, un nero o un musulmano. Io riconduco questo irrigidimento al fatto che perdiamo di vista i grandi scambi culturali».
Ma lei poi riconosce una specificità alla cultura europea.
«Sì, in nessuna cultura come la nostra è stata usata l’idea dell’amore per rappresentare la propria identità. Anche nella cultura classica indiana o cinese ci si innamora, ma questo non è così rilevante per la costruzione della propria immagine».
Dai suoi libri si ricava anche l’ostilità degli europei verso il “flirt”, liquidato come una pratica americana.
«Dopo l’approvazione del divorzio negli Stati Uniti, li si accusava di aver distorto l’amore di coppia. E la passione di ascendenza romantica rischiava di essere ridotta a un flirt, ossia a una giocosità che contrastava con lo spirito originario dell’amore».
Questo tratto veniva ricondotto da Denis de Rougemont, l’autore di L’amour et l’Occident, al rapporto con la morte.
«Qui ritorna sotto altre vesti il tema dell’irraggiungibilità. Rougemont faceva riferimento al mito di Tristano e Isotta, che si ricongiungono solo nella morte. La fusione si può realizzare solo nell’aldilà, perché non si diventa mai uno, si resta sempre due. Anche nell’estremo sforzo di identificazione, l’individuo rimane un’altra persona, perché in caso contrario si perderebbe la stessa idea di amore».
Lei perché ha scelto di studiare questo tema?
«Oggi alcuni stereotipi sono venuti meno, ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Mi piace pensare che le mie storie possano contribuire a stemperare molte rigidità».

Repubblica 15.9.12
Storia e idee in 16 dvd con “Repubblica” e “l’Espresso”
Psicologia
La scienza dell’anima e i suoi maestri
di Umberto Galimberti


Tutti i mali sono psichici, o perché nascono dalla psiche o perché si riverberano sulla psiche. Ma anche l’entusiasmo è psichico, anche la gioia, anche l’amore. Infatti, come dice Aristotele: «L’anima è in un certo senso tutto. Perciò deve esserci una scienza che si occupi dell’anima » (De anima, 402 a).
A questa conoscenza sono dedicati i 16 dvd che l’Espresso e Repubblica offrono in edicola, dove i grandi interpreti della psicologia contemporanea espongono la loro lettura dell’anima. Da loro apprendiamo che la nostra psiche è in gran parte inconscia (Freud) e con l’inconscio dobbiamo avere un rapporto perché la vita non trascorra a nostra insaputa (Jung). Apprendiamo da Watson che la nostra interiorità si manifesta nel nostro comportamento e da Lacan che si esprime nel linguaggio, perché l’inconscio può rivelare più della coscienza. Con Piaget scopriamo come si struttura la nostra intelligenza, mentre le neuroscienze individuano nel cervello le funzioni della mente, il supporto organico dei processi mentali. Con Jaspers e con Basaglia entriamo in quella notte buia che è la nostra follia, tratto che non è solo dei folli, ma che riguarda tutti. Ma oltre alla psiche individuale si dà anche una psiche collettiva in cui si spiegano le dinamiche della nostra società, dove l’avere, come ci ricorda Fromm, sembra aver più rilevanza del nostro essere. Il lavoro, tessuto connettivo del vivere sociale, ha riverberi psichici importantissimi, sia per chi ne ha uno gratificante che, come ci ricorda la psicologia del lavoro, rischia di risolvere l’identità nel ruolo, sia per chi non ce l’ha o l’ha perso e, nella disidentità in cui viene a trovarsi, più non reperisce il senso dell’esistenza, che si muove ai confini della depressione.
C’è poi la sessualità che ha subito trasformazioni così grandi e rapide che la nostra psiche fatica a interiorizzarle, restando incerta tra gesti sessuali senza alcun riscontro psichico e vissuti psichici così romantici da sentire inadeguato ogni contatto fisico. Anche la famiglia ha subito profonde trasformazioni, con aumento di separazioni e divorzi, perché la libertà oggi è intesa come revocabilità di tutte le scelte. Oltre alle famiglie tradizionali, abbiamo famiglie allargate, famiglie con un solo genitore, famiglie conflittuali o asettiche e senza dialogo, dove non circola sentimento. La psicologia delle relazioni familiari indica la via da percorrere tra le pareti di casa, dove spesso la violenza, anche psicologica, avvelena la convivenza. Infine la psicologia della religione che, oltre ai temi della protezione e della speranza a cui la religione ha sempre fornito risposte che oggi naufragano in un clima agnostico e nichilista, indaga sul senso di colpa che è un vissuto psichico, sul senso di appartenenza che supplisce a un deficit di identità, innescando atteggiamenti intransigenti o intolleranti. Questo offrono le scienze psicologiche, che val la pena di conoscere per sapere di più di noi e non trascorrere, ciechi ed errabondi, una vita senz’anima.

Repubblica 15.9.12
I fascicoli in edicola ogni venerdì

Le tappe fondamentali della psicologia raccontate dai più grandi esperti della materia. È la nuova iniziativa lanciata da Repubblica e l’Espresso, in collaborazione con Mente&cervello: si chiama La psicologia ed è una collana di 16 dvd, curata da Umberto Galimberti, che ha inaugurato la serie con “Psiche e la nascita della coscienza occidentale”. Nel secondo dvd, lo psichiatra e psicoterapeuta Stefano Mistura racconterà “Freud e la nascita della psicoanalisi”, spiegando il metodo che ha rivoluzionato la cura della mente umana (in edicola da venerdì 21). I successivi dvd, da Luigi Zoja su Jung a Massimo Recalcati su Lacan, fino a quelli su sessualità, famiglia e religione, saranno in edicola con Repubblica e l’Espresso ogni venerdì a 7 euro in più

Repubblica 15.9.12
Oscar. I dieci italiani in corsa per il film straniero

ROMA — Sono dieci i film italiani iscritti a partecipare alla selezione del candidato che concorrerà nella categoria di miglior film in lingua straniera per l’85ª edizione del Premio Oscar: Bella addormentata di Marco Bellocchio, Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani; Il cuore grande delle ragazze di Pupi Avati; Diaz di Daniele Vicari; È stato il figlio di Daniele Ciprì; Gli equilibristi di Ivano De Matteo; La-Bas, Educazione criminale, Di Guido Lombardi; Magnifica presenza di Ferzan Ozpetek; Posti in piedi in paradiso di Carlo Verdone e Reality di Matteo Garrone.

Repubblica 15.9.12
Lo sceneggiatore Rulli presidente del Centro sperimentale

Lo sceneggiatore Stefano Rulli è il nuovo presidente del Centro sperimentale di cinematografia indicato dal ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi.

venerdì 14 settembre 2012

l’Unità 14.9.12
Confronto Ingroia-Pellegrino stasera a Milano con «Unitalia»
L’incontro pubblico organizzato da l’Unità e Left
Appuntamento alla festa democratica di Sesto San Giovanni
Su unita.it, in streaming questa sera a partire dalle 21
di R.V.


Continua il viaggio di Unitalia che oggi arriva a Milano ospite della Festa democratica metropolitana al Carroponte di Sesto San Giovanni (appuntamento alle ore 21.30). Questa a volta, al centro del dibattito, il tema «Corruzione, legalità e diritti», argomento centrale nel dibattito politico e istituzionale di questi giorni.
Ne discuteranno Antonio Ingroia e Giovanni Pellegrino. A guidare il confronto il direttore de l’Unità Claudio Sardo e quello di Left Giommaria Monti, la rivista che ogni sabato trovate allegata al nostro quotidiano e con cui abbiamo stabilito, già da tempo, un percorso di idee e collaborazione in comune.
L’incontro sarà visibile sul nostro sito, unita.it, in streaming a partire dalle 21. Con questo dibattito continuano le iniziative di Unitalia, all’interno delle feste democratiche, che hanno già raccolto una forte partecipazione di pubblico. Il 31 agosto abbiamo trattato il tema del lavoro a Piombino con Stefano Fassina, Susanna Camusso e Vincenzo Boccia. A Pisa, lo scorso 6 settembre, abbiamo discusso di un tema scottante per migliaia e migliaia di giovani: «Come fermare il sapere in fuga». Con Sardo e Monti sono intervenuti Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e Paolo Valente, fisico, rappresentante nazionale ricercatori Infn.
Una fuga che si paga anche in termini economici, quella dei nostri migliori cervelli. E se il calcolo non è facile, il danno prodotto da questa emorragia negli ultimi 20 anni è stato stimato in 4 miliardi di euro, una cifra pari all’ultima finanziaria. Un argomento scottante in un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e dove le migliori forze, il futuro della nostra Italia, sono costrette a guardare, cercare altrove. Con una perdita di intelligenze che ormai non riguarda più soltanto i ricercatori, ma anche gli studenti.
Infine, l’8 settembre a Bologna, è stata la volta dell «Costo della politica», dibattito alla presenza di Antonio Misiani, deputato e tesoriere Pd e Mario Staderini, segretario Radicali italiani

l’Unità 14.9.12
Elezioni americane e razzismo su Left di domani


Il razzismo gioca ancora un ruolo determinante nelle elezioni americane. E’ il tema della copertina del numero di left in edicola domani con l’Unità. Alla vigilia della sfida tra Obama e Romney, negli Stati Uniti ci sono ancora bianchi che non si fidano di un leader nero e che voteranno repubblicano per sbarrare la strada a «quel musulmano di Obama». Succede tra i proletari dell’Alabama, Mississippi e Louisiana, dove i democratici non fanno nemmeno campagna elettorale, dando per scontata la sconfitta. Ma succede anche alla convention repubblicana, dove il fronte razzista si espande: contro i neri definiti «scioperati e nullafacenti» si scagliano anche gli asiatici, una comunità in crescita che sostiene sempre più le tesi dei Tea parties. Left racconta storie di razzismo in America con un reportage da Birmingham, Alabama, dove i più esaltati si dicono pronti a imbracciare le armi per impedire un secondo mandato a Obama. Mentre da Tampa, dove si è tenuta la convention repubblicana, gli attacchi ai neri arrivano persino da un pastore afroamericano. E il politologo della New York University Charlton McIlwain spiega: «Romney deve convincere a votare per lui gli indecisi, che sono soprattutto bianchi e maschi. Lo fa attaccando le riforme di Obama nel settore del welfare. E siccome afroamericani e latinos sono quelli che ricorrono di più all’assistenza sociale, sono loro i parassiti da colpire». Nel numero in edicola anche un’intervista al Ministro Balduzzi sulla riforma della Sanità e la Legge 40.

l’Unità 14.9.12
Bersani al sindaco rottamatore «Il Pd è alternativo alla destra»
«Sondaggio Swg: col segretario il 55% degli elettori
D’Alema: «Mi riconosco nel sentimento di più»
di Simone Collini


«Il Pd è alternativo alla destra». Dovrebbe essere un’osservazione scontata, ma evidentemente così non è se Matteo Renzi si è candidato a guidare il Paese strizzando l’occhio ai delusi dal centrodestra e da Berlusconi.
Ieri Pier Luigi Bersani è stato praticamente tutta la giornata chiuso al terzo piano della sede de Pd ad ascoltare le relazioni di un centinaio di economisti chiamati a raccolta da tutt’Italia (o collegati via Skype da Washington e altri paesi stranieri). Dieci ore a parlare della crisi e a definire i pilastri della proposta di politica economica con cui il Pd si candiderà a governare.
In estrema sintesi, il messaggio consegnato dagli economisti nell’incontro a porte chiuse è che bisognerà puntare su crescita e sviluppo e contribuire a cambiare rotta nell’area Euro per spezzare la spirale tra austerità, recessione e aumento del debito pubblico. Una discussione che ha fatto emergere, qualora ce ne fosse bisogno, il fallimento delle politiche neoliberiste e la necessità di mettere in campo un modello alternativo a quello perseguito dalla destra a livello nazionale e non solo.
Così, anche se ieri Bersani ha evitato qualunque commento circa la prima uscita di Renzi col camper («questo è il suo giorno») anche la discussione sulle politiche economiche è servita al leader Pd per ribadire quello che dovrebbe essere scontato e che invece per qualcuno scontato non è: «Noi siamo alternativi alla destra». Il punto insomma non è recuperare i delusi da Berlusconi, come se il problema fosse solo l’ex premier. E anche la scelta di Renzi far anticipare il suo discorso da un filmato in cui comparivano anche Margaret Thatcher e di Ronald Reagan ha fatto storcere la bocca. Il Pd, nel ragionamento di Bersani, si deve candidare a governare l’Italia proponendo un modello di sviluppo diverso da quello della destra, centrato su lavoro e diritti, redistribuzione sociale, riequilibrio fiscale, senza rincorrere ricette che hanno una responsabilità determinante nello scoppio della crisi attuale.
Le stesse iniziative che il leader del Pd ha messo in agenda per i prossimi giorni vanno in questa direzione. A cominciare dagli incontri per discutere della «carta d’intenti» con sindacati, imprenditori, amministratori locali e dalla stessa decisione presa ieri di dare un seguito all’appuntamento con i cento economisti con incontri tematici, e di dar vita a un network economico che accompagni la definizione delle proposte programmatiche per il 2013.
LE FIRME PER LE CANDIDATURE
Bersani insomma non si sposta dal registro seguito fin qui. Ovvero «le primarie servono a parlare del Paese, non del Pd», anche se tra poco bisognerà affrontare anche una questione tutta interna, cioè le regole per la sfida ai gazebo. Il 6 ottobre si svolgerà l’Assemblea nazionale che voterà la norma transitoria che potenzialmente permetterà a ogni iscritto al Pd di partecipare alla sfida per scegliere il candidato premier. Lo statuto del partito prevede infatti che possa correre soltanto il segretario, ma Bersani ha chiesto e ottenuto di far votare una deroga ad hoc. Le candidature, in casa democratica, fioccano, perché oltre al leader del partito e al sindaco di Firenze si sono fatti avanti Stefano Boeri e Laura Puppato (che ieri era a Roma a spiegare a Bersani il perché della sua candidatura), mentre ancora Rosy Bindi e Pippo Civati non hanno rinunciato all’idea di correre.
Candidature che difficilmente vedranno veramente la luce se all’Assemblea del 6 ottobre verranno approvate regole simili a quelle che valgono a livello territoriale. Lo statuto del Pd prevede infatti che per candidarsi a sindaco sia necessario raccogliere il 35% delle firme dei delegati dell’assemblea comunale o il 20% degli iscritti di quel territorio. Il che significa, se trasposto a livello nazionale, che gli aspiranti concorrenti alle primarie dovrebbero raccogliere 350 firme tra i membri dell’Assemblea nazionale o circa 120 mila firme tra i tesserati (gli iscritti al Pd sono attualmente più di 600 mila). Bisognerà vedere quanti riusciranno nell’impresa. E comunque, visto che ogni delegato all’Assemblea nazionale può sottoscrivere al massimo una candidatura, sarà difficile che il 25 novembre si sfidino ai gazebo più di tre esponenti del Pd.
SWG: IL SEGRETARIO TRA 55 E 61%
Come che sia, è evidente che la sfida sarà tra Bersani e Renzi. Un sondaggio Swg pubblicato ieri da Affaritaliani.it dà il segretario al 55% fra gli elettori del partito e addirittura il 61% fra quanti dichiarano un’alta probabilità di partecipare alle primarie. Il sindaco di Firenze si attesta, invece, rispettivamente, sul 27 e 26%. Più staccati Nichi Vendola (7% e 5%) e Bruno Tabacci (1% e 2%). Dice Massimo D’Alema arrivando a Firenze poco dopo che viene reso noto il sondaggio: «Questa è la tendenza, io mi riconosco nel sentimento dei più». E Dario Franceschini (che da un mesetto si è fatto crescere la barba) ironizzando sul fatto che Renzi gli ha copiato non solo lo slogan delle primarie del 2009, «Adesso», ma anche la mise camicia bianca e cravatta senza giacca: «Matteo, prossima tappa la barba?».

il Fatto 14.9.12
L’Altrapolitica può vincere
di Paolo Flores d’Arcais


I partiti del fronte unico conformista di Napolitano e Monti sono in grande ambascia, i sondaggi dei diversi istituti demoscopici annunciano unanimi che alle prossime elezioni il primo “partito” sarà quello che l’establishment esorcizza e insulta come “antipolitica”, ma in realtà è solo buona volontà di Altrapolitica in contrapposizione ai disastri della Casta. Le intenzioni di voto per Grillo e Di Pietro, sommate, superano infatti ormai quelle del Pd, da un anno vincitore “in pectore”, che con l’attuale legge elettorale si prenderebbe il 55% dei seggi alla Camera. In realtà i voti per l’Altrapolitica sono già molti di più, poiché nel conteggio non compaiono quelli di una eventuale lista di società civile legata alle lotte degli ultimi 15 anni e promossa dalla Fiom, voti che in buona misura stentano a convergere su M5S e Idv, ma che rifiutano ormai Sel, Pcd’I e altre Rifondazioni.
Nel paese il mood anti-Casta e il bisogno di Altrapolitica, benché non perfettamente coincidenti, sono del resto maggioranza schiacciante, visto che l’insieme dei partiti ha da mesi nei sondaggi il gradimento stabile di un miserando 5%. Per questo il fronte unico conformista di NapolitanoeMontivuoleatamburbattenteunalegge elettorale peggiore del Porcellum: per impedire che il prossimo Parlamento rispecchi questa travolgente volontà di svolta. Ma i marchingegni di leggi truffa non basteranno più. Il peso del “partito” dell’Altrapolitica alle urne non può che aumentare. L’esasperazione e la collera di decine di milioni di italiani contro tutte le nomenklature partitocratiche, è tale che ormai si esprimerà nel voto anche se Grillo e Di Pietro non si emendassero dai difetti macroscopici qui più volte segnalati. Ed è giusto così. La Casta tenta di correre ai ripari scimmiottando l’Altrapolitica, cercando di ricucirsi una verginità di società civile e di “nuovo” a forza di retorica e di “rottamazioni”. Ma che credibilità possono avere i Montezemolo e i Renzi, o i Passera e i Bonanni unti dal cardinal Bagnasco? La potenza di fuoco del monopolio mediatico sarà dispiegata oltre ogni indecenza, ma l’organicità di questi signori alla Casta, di cui vogliono semplicemente scalzare i vertici per prenderne il posto, è troppo smaccata perché l’equivoco possa durare. Il fronte unico conformista può vincere solo se l’Altrapolitica (dal M5S all’Idv, dai movimenti alla Fiom, dalle testate libere agli intellettuali pubblici) nei prossimi mesi peccherà ancora più “fortiter”, per atti e/o omissioni, piccinerie di bottega in primis.

Corriere 14.9.12
Pressing su Bersani: disinneschi le primarie
Tra i big del partito prevale il sarcasmo Ma i veltroniani: «Così ci sono troppi rischi»
di Monica Guerzoni


ROMA — Rinchiuso per ore ai piani alti del Nazareno con un centinaio di economisti, Pier Luigi Bersani ha scelto di non commentare la partenza del camper di Matteo Renzi. E anche ai suoi ha suggerito (non imposto) una sorta di consegna del silenzio. Ma a sera, dalla festa del Pd di Firenze, Massimo D'Alema prende il toro per le corna. Fa gli auguri a Renzi («uno dei nostri») e a Laura Puppato, fresca di autocandidatura alle primarie. Poi dice di aver letto un sondaggio in cui «il 55% degli eletti del Pd» voterebbe Bersani e solo il 22-23% Renzi. E lui, l'ex premier? «Io mi riconosco nel sentimento dei più».
All'una, quando il sindaco di Firenze chiude l'intervento, i cellulari dei capicorrente squillano a vuoto. Rosy Bindi sceglie il «no comment» e, a caldo, solo Dario Franceschini accetta di parlare di una diretta video che, «forse per snobismo», non ha seguito. Il capogruppo mostra sul palmare una foto che lo ritrae sul palco durante le primarie 2009, quella in cui a correre contro Bersani era lui e non Renzi: «Non siamo identici? Stessa camicia bianca, stesso taglio di capelli, stesso slogan...». A sera l'ironia di Franceschini, riapparso con folta barba alla fine dell'estate, approda su Twitter: «Matteo, prossima tappa la barba?». La rottamazione per Franceschini è un «tema sacrosanto, ma è da primarie di partito e non di coalizione». E Beppe Fioroni si dice «felice» per non essere stato rottamato: «Nel '68 avevo poco più di nove anni e Matteo mi ha graziato. Ma speriamo che non mi venga a prendere, come ha detto di voler fare con gli elettori del Pdl».
Il registro sarcastico intonato dai dirigenti, tra ironie e silenzi ostentati, rivela il fastidio e la preoccupazione per la corsa del primo cittadino, 37 anni e molto fiato nei polmoni. Il vicesegretario Enrico Letta, che pure nel merito condivide molte delle posizioni di Renzi, non ha apprezzato il passaggio sulla presunta «debolezza» del Pd nei giorni della caduta di Berlusconi: «La nascita del governo Monti è stato il segno della nostra forza».
Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione, rende a Renzi il merito di aver allestito un evento «ben fatto, senza nascondere le cose spigolose», ma sui contenuti ci va giù duro: «Dov'è la novità? La continuità con la terza via di Tony Blair è la proposta più antica. Con queste idee vintage, vecchie di vent'anni, Renzi mi fa meno paura di ieri. Sono le cose che diceva D'Alema negli anni 90...». E la patrimoniale? E la difesa dei più deboli dagli effetti del capitalismo?
Bersani «è tranquillo», assicurano i fedelissimi. Per tutto il giorno si è concentrato sulla stesura di un programma di «europeismo progressista», che Stefano Fassina sintetizza con il leitmotiv «cambiare rotta nell'area euro per lo sviluppo, il lavoro e la riduzione del debito». Ma le primarie nascondono insidie e Bersani lo sa. Il pressing su di lui perché le depotenzi è forte e il 6 ottobre il segretario ha convocato l'assemblea nazionale, per discutere di regole e della Carta d'intenti. Tra i veltroniani il giudizio negativo è diffuso. «Fatte così — teme Walter Verini — le primarie sono molto rischiose. Vedo uno sferragliar di truppe che non promette nulla di buono». Veltroni non ha dimenticato come la road map promessa da Bersani fosse diversa: legge elettorale, programma, coalizione, regole e, solo alla fine, primarie. E di certo non gli è sfuggito quel «non siete la meglio gioventù» che Renzi ha scagliato contro la generazione del '68. Chi era nello staff del Lingotto di Veltroni, racconta di provare uno sgradevole senso di «sovrapposizione» con la scenografia e le parole d'ordine di allora. Quando a invocare gli Stati Uniti d'Europa o a declamare «noi non siamo contro la ricchezza, ma contro la povertà», non era Renzi, ma l'ex sindaco di Roma.

Repubblica 14.9.12
Ma tra i democratici ora sono in diversi a pensare di “correre” per “pesarsi”.
La tentazione della Bindi, le paure degli ex Ppi
Il segretario: quel discorso è un autogol


ROMA — Il discorso di Renzi Pier Luigi Bersani lo guarda alla tv tra una riunione e l’altra. Sceglie di non commentare, di non invadere la giornata del suo principale rivale. Quel che trapela, però, è che il segretario considera l’appello del sindaco al centrodestra un autogol. Un’affermazione che servirà a ricompattare il centrosinistra attorno a lui. Che lo rafforza, piuttosto che indebolirlo. Il sondaggio di Swg - con Bersani al 55 e Renzi al 27 per cento - è un altro dato positivo. Anche se, tutte le altre rilevazioni che i democratici hanno fra le mani parlano di un rottamatore indietro di 10-11 punti, ma in crescita, con il segretario che non va mai oltre il 43 per cento. Quel che preoccupa, ora, è la tenuta del partito. La candidatura di Laura Puppato può aprire un valzer inaspettato. Gli ex popolari, ad esempio, non si sentono rappresentati, e potrebbero decidere di candidare qualcuno per pesarsi, e pesare, di più. Dario Franceschini nega: «Non si torna indietro. Ho scelto la strada del rimescolamento e da lì non mi muovo». Ma Beppe Fioroni, che prepara per domani un significativo incontro con il presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai, il segretario Cisl Raffaele Bonanni, il presidente delle Acli Andrea Olivero - dice invece: «Il problema non è solo se candidarsi o meno alle primarie. Il problema è se restare. Avevamo promesso agli elettori di non rifare l’Unione, che non è un’alleanza, è una metodologia di governo. E invece». Poi c’è Rosy Bindi, la più tentata a correre. Ha subìto troppi attacchi, sia sul fronte laicità che su quello anagrafico, e non si è sentita per niente difesa da Bersani. Anche il 7 o l’8 per cento - con primarie che, con più candidati, arriveranno senz’altro al doppio turno - potrebbero garantirle una rivincita contro giovani turchi e rottamatori.
(a.cuz.)

Repubblica 14.9.12
Il pressing di Napolitano: legge elettorale da cambiare
E Bersani riapre la trattativa: “Ma non si modifica per peggiorarla”
di Giovanna Casadio


ROMA —Torna alla carica Napolitano. L’ultimo pressing del capo dello Stato per cambiare la legge elettorale - e restituire ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere rappresentati in Parlamento - arriva ieri in un colloquio riservato con Bersani. Poche parole chiare, quelle che il presidente ripete da mesi, e cioè che il Porcellum è una vergogna; che nessuno si senta esonerato dalla responsabilità di cambiarlo.
Non hanno apprezzato al Quirinale lo scontro degli ultimi giorni tra i partiti, che ha fatto piombare di nuovo la riforma elettorale nella palude. Meno ancora è piaciuto l’irrigidimento delle posizioni: Casini, che non esclude un blitz con il Pdl; Bersani, che dice di non accettare «ricatti ». Se non ci fosse una schiarita, il presidente della Repubblica sarebbe pronto a inviare un messaggio. Nessun leader pensi di nascondersi dietro ragioni o, peggio, convenienze di parte: è il
ragionamento del Colle. Un compromesso, una mediazione quindi va trovata a tutti i costi. Il colloquio con Bersani precede l’incontro di Napolitano con Schifani, che poi dichiara: «Questo nodo deve essere sciolto pubblicamente e in tempi brevi». Ma Napolitano insiste con il segretario del Pd.
Bersani ha ribadito, in questi giorni: «Noi stiamo lavorando per cambiare il Porcellum, ma non si può cambiarlo a tutti i costi ». Insomma, il leader democratico ha avuto la tentazione di tenersi la legge attuale, piuttosto che cedere su una questione che, a questo punto, diventa politicamente dirimente: il premio di maggioranza. Sulle preferenze infatti il Pd può anche trattare: lo hanno detto Enrico Letta e Rosy Bindi, lo ribadisce Anna Finocchiaro.
Una trattativa si fa cedendo una cosa importante per non rinunciare a un’altra, che si ritiene ancora più indispensabile. E sul principio che «la sera delle elezioni il paese deve sapere chi governa», il leader democratico non è disposto a transigere. Anche perché qui si gioca la partita politica vera e propria. Un modello proporzionale con un premio al partito (non più alla coalizione), e per giunta basso, significa assegnare un sicuro vantaggio a chi rema per un Monti bis. Piace anche a Berlusconi che, se sconfitto, può sempre pensare di rientrare in gioco. Il Pd finora ha puntato su un premio ampio, almeno del 15%.
Solo del resto, in un sistema che mantiene il bipolarismo, le primarie del Pd hanno un senso. Se il premier lo si decidesse post
voto, anche in caso di vittoria nella competizione per la premiership del centrosinistra Bersani avrebbe assai poche possibilità di guidare il futuro governo. Ne ha parlato con Prodi, il segretario, nell’incontro a Bologna. Il Professore è un bipolarista convinto: per gli stessi prodiani (che danno sempre un occhio all’elezione
in primavera del prossimo presidente della Repubblica) sarebbe meglio giocare con queste bocce, con la legge elettorale attuale, piuttosto che passare dalla padella alla brace. E se il problema è risalire la china della sfiducia dei cittadini nei confronti di un Parlamento di nominati, allora si può pensare piuttosto a «primarie per scegliere i parlamentari» del Pd, tenendosi il Porcellum. Però nell’incontro al Colle, Bersani ha garantito che la trattativa per cancellare il Porcellum non sarà abbandonata.
La linea della segreteria e dei bersaniani la riassume Maurizio Migliavacca: «L’attuale legge porcata non va bene. Ma tra tenersi questa e andare verso una super porcata c’è di mezzo il buonsenso». Rimanda la palla nell’altra metà campo, nel centrodestra:
«Noi abbiamo presentato la nostra proposta, si dibatta pubblicamente, senza colpi di mano. Se c’è la garanzia per la stabilità del paese ne discuteremo, altrimenti sarà scontro». I montiani del Pd premono nell’altra direzione: cambiare a tutti i costi la legge porcata. Stefano Ceccanti, uno dei supporter dell’Agenda Monti (per la continuità tra le politiche dell’attuale governo e di quello che sarà eletto), avverte: «Non si può neppure pensare che gli altri partiti accettino una posizione che li penalizzerebbe. E comunque, se ci fosse la tentazione di tenersi il Porcellum, sarebbero l’Udc e il Pdl a coalizzarsi per giocare all’attacco e portare a casa quello che vogliono».
Alfano torna con un altolà sul premio di maggioranza: «Vorremmo che chi vince abbia un premio, ma che sia ragionevole». Stando ai sondaggi che danno il primo partito tra il 26 e il 27%, un premio del 15% «è troppo». Perciò preferenze e premio di governabilità basso sono i “paletti” del Pdl. La preoccupazione di Casini, che tifa per un Monti bis e per il proporzionale, è che «qualcuno alzi l’asticella per tenersi il Porcellum». Concretamente. Martedì la conferenza dei capigruppo fisserà quando la riforma va in aula a Palazzo Madama. Siamo davvero allo showdown.

Repubblica 14.9.12
Il bersaniano Fassina: “In bocca al lupo, ma non convince”
“Sotto gli slogan niente idee e la smetta di sparare sul Pd”


«Vengo da una settimana di incontri, anche difficili, con i lavoratori di Alcoa e Carbosulcis, con i precari dei call center in bilico, con i piccoli imprenditori assediati in Val di Susa. Nessuno mi ha chiesto quanti dirigenti del Pd rottamiamo. Mi hanno chiesto cosa facciamo per il loro lavoro e le loro imprese». Stefano Fassina risponde così al lancio della candidatura di Matteo Renzi. Ne apprezza l’energia, gli augura innanzi tutto «in bocca a lupo», ma il bersaniano responsabile economico del Pd pensa che i bersagli del sindaco di Firenze siano sbagliati. Che manchi un’analisi adeguata della crisi. Che vincere sia uno strumento, non il fine.
«Ho visto tanti slogan, effetti speciali, fuochi d’artificio. Poche idee. Veniamo da una stagione lunga e piuttosto infelice di slogan ed effetti speciali».
Entrare col diserbante dentro la pubblica amministrazione, abbassare le tasse, far sì che questo non sia più il Paese dei capi di gabinetto, non sono idee condivisibili?
«Sì, ma sono punti acquisiti da tempo nel nostro programma. Mi colpisce invece che non ci siano state indicazioni di prospettiva rispetto all’Europa. Dobbiamo continuare su una rotta che fa morire migliaia di imprese, determina centinaia di migliaia di disoccupati, aumenta il debito pubblico? O dobbiamo cambiarla attraverso l’unione fiscale, l’allentamento concordato dell’austerità autodistruttiva?».
Le lenzuolate di Bersani avevano come obiettivo fondamentale la valorizzazione del merito e dei talenti. Da uno che disse “Sto con Marchionne senza se e senza ma”, ci si aspetterebbe qualche parola sui diritti dei lavoratori, soprattutto nel giorno in cui il suo eroe accantona il mitico programma Fabbrica Italia».
E però, quando attacca i dinosauri del partito, giù applausi.
«Per un candidato progressista il bersaglio principale non dovrebbe essere il proprio partito. Dovrebbe misurarsi con la destra, con i danni che la destra berlusconiana ha fatto all’Italia. Renzi è stato ingeneroso sulla nascita del governo Monti. Abbiamo il merito storico di aver contribuito a chiudere una stagione che portava il Paese alla deriva. Se fossimo anche noi andati ad Arcore, probabilmente Berlusconi
Per vincere bisogna pescare nel centrodestra, oppure no?
«Bisogna stare attenti, che per raccogliere i voti del centrodestra non si finisca nell’altro campo. La priorità è oggi riportare a votare in modo convinto i nostri, raccogliere le domande di cambiamento che arrivano dal vasto mondo del centrosinistra».
Se fossimo andati ad Arcore come lui, probabilmente Berlusconi sarebbe ancora a palazzo Chigi

Corriere 14.9.12
I 740 mila euro per i manifesti del Pd Le follie del Lazio
di Sergio Rizzo


ROMA — La targa sopra il portone dice: «Carlo Goldoni, padre immortale della italiana commedia, dimorò in questa casa». Se avesse saputo cosa sarebbe accaduto fra quelle mura due secoli e mezzo dopo, il celebre drammaturgo veneziano vi avrebbe magari ambientato un atto unico. Protagonista: il solito Pantalone. Perché chi paga la ristrutturazione di un appartamento signorile della Regione Lazio nello stabile di largo Goldoni 47 all'angolo con via dei Condotti, a Roma, è sempre lui. Cioè noi. I condomini, dopo aver sventato il tentativo di piazzare tappeto rosso e palmizi stile Sanremo all'ingresso dopo l'avvenuta trasformazione in elegante «ufficio del centro» dell'ex ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo di un secondo alloggio regionale nel palazzo, paventano che i lavori siano il preludio per l'apertura di un'altra sede di rappresentanza ancora. Stavolta, della governatrice Renata Polverini.
Fosse così, saremmo davvero alla commedia. Non soltanto perché quell'appartamento proviene da un antico lascito per opere di bene al Santo Spirito. Soprattutto perché a poca distanza, in via Poli, c'era già un ufficio «di rappresentanza» del consiglio regionale. Era stato affittato da Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato, al tempo della giunta di Francesco Storace e due anni fa si era deciso di rescindere il contratto: 320 mila euro l'anno. Una spesa demenziale, visto che il consiglio regionale del Lazio, come del resto la giunta, ha una più che confortevole sede a Roma. Chiudere quell'ufficio era il minimo. Peccato soltanto, lamenta Scarpellini nella causa civile intentata contro la decisione, che la rescissione sia avvenuta oltre i termini. E se il tribunale dovesse accogliere la tesi sarebbero dolori: 700 mila euro. Più la parcella del legale. Un avvocato esterno, ovvio.
Ma ce ne fossero di rogne così, con l'aria che tira oggi dalle parti della Pisana. La storia incredibile dei finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari innescata dai Radicali con la meritoria pubblicazione sul loro sito internet del bilancio 2011, è ormai una palla sempre più grossa che rotola a valle. Inarrestabile e minacciosa, come dimostra l'inchiesta per peculato che si è abbattuta sull'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito. Ma non servivano certo le cravatte di Marinella, le cene a base di ostriche, le bottiglie di champagne, i servizi fotografici, i Suv, né le altre spese sfrontate che hanno inghiottito i lauti contributi al partito di Silvio Berlusconi e sulle quali ora indaga la magistratura, per capire che si era passato il segno. E non era nemmeno necessario guardare, come molti fanno oggi con ipocrita stupore, quella cifra rivelata dai radicali, il cui gruppo composto da due persone, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha incassato nel solo 2011 ben 422 mila euro. Il quadruplo, in proporzione, dei soldi che la Camera dei deputati stanzia per i gruppi parlamentari.
Era sufficiente, diciamo la verità, controllare i bonifici che arrivavano di volta in volta sul conto corrente. Per questo fanno sorridere oggi tanto il decalogo sui tagli dei costi della politica proposto dal consigliere udc Rodolfo Gigli quanto dichiarazioni come quelle del capogruppo del Pd Esterino Montino, che annuncia un tour de force per «ridurre le spese della giunta e del consiglio». Mentre alcune misure che avrebbero introdotto l'unico antidoto valido alla dissipazione di denaro pubblico, vale a dire la trasparenza, sono finite su un binario morto. È il caso della legge sull'anagrafe degli eletti e dei nominati, proposta sempre dai Radicali nel 2010 e arenata in qualche cassetto di qualche commissione.
Ai gruppi finiscono cifre inimmaginabili. Tanti soldi che non si sa nemmeno come spenderli. Basta dare un'occhiata ai due bilanci dei gruppi finora resi noti: oltre a quello dei Radicali, quello del Partito democratico. Il gruppo del Pd ha incassato nel 2011 la bellezza di 2 milioni 17.946 euro. Che divisi per i 14 componenti fa oltre 144 mila euro pro capite: quasi il triplo dei contribuiti erogati da Montecitorio. Inutile allora stupirsi che i democratici spendano 210.207 euro (!) per «riunioni, convegni, conferenze, incontri», 622.083 euro (!!) per i collaboratori e 738.863 euro (!!!) per «diffusione attività del gruppo, stampa manifesti». E nonostante questo ci sono ancora in cassa 304 mila euro. Invece ai Radicali, che con i contributi al gruppo ci hanno pagato anche un convegno sui diritti civili a Tirana oltre ai congressi del partito a Chianciano e a Roma, sono avanzati 270 mila euro. Così da pensare che si possa ripetere la scena del ferragosto 1997, quando Marco Pannella in piazza del Campidoglio restituì i denari del finanziamento pubblico regalando 50 mila lire a chi mostrava un documento.
Tanti soldi, che contribuiscono ad alimentare una macchina completamente impazzita. Basta dire che nessuno sa dire con esattezza quanta gente gira intorno al consiglio regionale. Lo scorso anno i dipendenti ufficialmente presenti in quella struttura erano 786. I collaboratori dei gruppi, 180. Le persone addette alle segreterie dell'ufficio di presidenza, 87. Quelle delle segreterie delle commissioni, 71. Ma è niente in confronto alle poltrone che danno diritto a chi le occupa di incassare un'indennità aggiuntiva rispetto a una retribuzione base minima di 7.211 euro netti al mese. Sono un'ottantina, decisamente più numerose dei 70 consiglieri. Ci sono 17 gruppi consiliari, otto dei quali composti da una sola persona. Fra commissioni e giunte se ne contano 21. Le sole commissioni permanenti sono sedici: due più della Camera, che ha però 630 deputati. Alcune, a dir poco stravaganti. C'è per esempio la commissione Affari comunitari e internazionali, presieduta da Gilberto Casciani della Lista Polverini: nel 2012 si è riunita quattro volte. E poi la commissione Piccola impresa che fa il paio con la commissione Sviluppo economico. Oppure la commissione Lavori pubblici, più la commissione Urbanistica, più la commissione Ambiente. Quest'ultima, però, si occupa pure, chissà in base a quale criterio, della «cooperazione tra i popoli». Avete letto bene: «cooperazione tra i popoli».
Non rammentiamo più quante volte hanno promesso che le avrebbero ridotte. Ricordiamo invece bene le affermazioni rese dal presidente del consiglio Mario Abbruzzese il 22 dicembre 2011: «Quest'anno chiudiamo il bilancio con circa sei milioni di risparmi rispetto al 2010. Dà il senso della strada che abbiamo intrapreso». Il consuntivo dell'anno scorso, ancora non approvato, parla di impegni di spesa per 103 milioni 529.311 euro. Mezzo milione oltre le previsioni iniziali e ben sei milioni 772.701 euro in più nei confronti del 2010. L'aumento è del 7 per cento. Se questa è la strada...

Corriere 14.9.12
Immigrati senza rappresentanza: quel deficit politico da superare
di Stefano Jesurum


Un futuro segretario del Partito socialista al potere, un presidente che siede alla Casa Bianca, e un formidabile attaccante della Nazionale di calcio. Francia, Stati Uniti, Italia. Le differenze (di modernità, di civiltà, di cultura) si misurano anche così, mettendo in fila i nomi di Harlem Désir, Barack Obama e Mario Balotelli. Di Obama e Balotelli sappiamo ciò che ci basta, del 52enne Désir è sufficiente dire che ha un padre originario della Martinica, una madre alsaziana, che è eurodeputato e che è stato presidente di Sos Racisme.
Il risultato del confronto è presto detto: manca ancora davvero parecchio prima che gli stranieri e soprattutto i figli di stranieri entrino a pieno titolo nell'immaginario della politica italiana, senza eccezione di schieramenti. Insomma, non esiste alcuna cultura della rappresentanza che tenga conto del multiculturalismo. La stragrande maggioranza dei «nostri» immigrati non vota anche se, per esempio, è proprio da quel mondo che arrivano migliaia di titolari di nuove aziende. È vero che negli anni qualche nome esotico è stato infilato qua e là nelle liste di quasi tutti i partiti, è vero che qualcuno è perfino stato eletto (salvo poi, come l'ex Pd Khaled Fouad Allam, non essere ricandidato tra mille polemiche), però la realtà è che da noi — diciamolo — l'idea di affrontare il tema dell'integrazione e dell'immigrazione, in particolare quella islamica, è considerata dai politici un grave atto di autolesionismo elettorale dal momento che «la gente» è o viene considerata provinciale e un pochino razzista. Il che, a studiare analisi e sondaggi, magari un po' vero lo è. Alcuni volonterosi, in qualche amministrazione locale, si sono inventati i «consiglieri aggiunti immigrati», ovviamente senza diritto di voto. E il nodo è proprio questo: finché gli «extracomunitari» non possono votare come si pensa possano essere «candidati» ad alcunché?
Altro che rappresentanza. Secondo i dati Istat, nel 2009 in Italia si sono celebrati circa 32 mila matrimoni con almeno uno straniero, il 14% del totale. Quelle spose e quegli sposi, almeno, alle urne ci potranno andare. Bella consolazione.

Repubblica 14.9.12
Stasera su RaiUno si parla di pedofilia in famiglia
Conduce Cecilia Dazzi: “Sono le storie di chi ha affrontato l’uomo nero”
“La vita contro”, piccole vittime si raccontano
di Alessandra Vitali


ROMA «Mio padre aveva rapporti sessuali con me e con mia sorella. Poi lasciava una monetina sul comodino». Andrea Coffari era bambino nel 1969, in Sicilia. Di quell’esperienza mai cancellata ha fatto una missione: «Difendere i ragazzini dall’indifferenza e dall’egoismo degli adulti». Maria Halilovic ha 29 anni. Figlia di genitori bosniaci, nata a Torino, tredici tra fratelli e sorelle, la vita in un campo rom, un padre alcolista che «picchiava tutta la famiglia e violentava noi ragazzine». Andrea e Maria si raccontano a La vita contro, la docufiction che debutta questa sera su RaiUno, in seconda serata, condotta da Cecilia Dazzi. Un progetto coraggioso per l’ammiraglia Rai, quello di affrontare un tema di forte impatto emotivo: la pedofilia in famiglia, con le testimonianze delle vittime che hanno lottato per risanare la ferita. Racconti senza filtro, lucidi. Dettagli che restituiscono la portata del dramma. Interviste alternate alla fiction che ricostruisce le vicende. Una produzione Vela-Film, la regia è di Tommaso Agnese, l’autrice è Carlotta Ercolino.
«Il filo conduttore è il coraggio di vivere — spiega Cecilia Dazzi — persone normali che hanno affrontato l’uomo nero e sono diventate uomini e donne liberi e più forti».
Andrea deve molto a sua madre. «Ha avuto il coraggio di denunciare mio padre, si è messa contro un tabù millenario. Ne è uscita con le ossa rotte. Si rifugiò dalle suore di clausura, non a pregare ma a litigare con Dio». «Una madre — dice Cecilia Dazzi — lo sente che dietro ai silenzi dei suoi figli c’è un’ombra. A volte il male dorme al tuo fianco».
La prima volta Maria aveva tre anni. La fuga a otto anni, l’incontro con un poliziotto, la denuncia, «ma nessuno è mai intervenuto». Il collegio a Napoli, la casa famiglia alle porte di Roma, gestita da suore. Lì Maria frequenta la scuola fino alla terza media. Un giorno ci riprova: «Ho saputo dove vivevano i miei, ci sono andata, mia madre mi ha cacciata, ha detto che non mi volevano più. Li ho cancellati. Spero che mio padre muoia, e con dolore». Dice che l’ha aiutata Il piccolo principe: «Le suore, per punizione, me lo fecero copiare tutto. Ricordo una frase, “i grandi non capiscono mai niente da soli, e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta”. Mi ha insegnato tanto».

l’Unità 14.9.12
Troppi nomi per un regista I misteri del video-trash
La prima volta di Morsi in Europa «Il Profeta è una linea rossa»
di Marina Mastroluca


Il generale Dempsey ha provato a convincere il reverendo Terry Jones che non è il caso di insistere. E che continuare a far circolare il film in cui Maometto è un donnaiolo, truffatore e anche pedofilo non rientra nell’interesse nazionale. Il pastore anti-islamico della Florida, divenuto celebre per i suoi ripetuti roghi del Corano, si è preso del tempo per pensarci, in nome della libertà di parola. Jones in queste ore era stato indicato come co-produttore del film che sta infiammando l’islam. Lui si ritaglia una parte minore in commedia, sarebbe stato contattato solo qualche giorno fa e martedì scorso, l’11 settembre, avrebbe postato il trailer di «Innocence of muslims». Regista, produttore e sceneggiatore sarebbe un Sam Bacile, che si è lasciato intervistare dal Wall Street Journal al telefono, ma che richiamato al numero è risultato inesistente: ha risposto un giovane, da poco insediato nell’appartamento, dove precedentemente viveva un tal Nakoula Basseley. Sam Basseley e Nakoula sono anche i nomi usati per il casting del film (60 attori, tre mesi di riprese, costo 5 milioni di dollari).
Negli Usa non risulta nessuna persona con il nome di Sam Bacile, mentre un Nakoula sembra sia stato in carcere fino al giugno del 2011 per truffa. Singolarmente, per i suoi affari, il tipo in questione usava nomi come Mark Basseley Youssef e Youssef Basseley.
Sam Bacile (un cognome che suona nella pronuncia americana assai simile a Basseley) ha tutta l’aria di uno pseudonimo. Più difficile dire chi nasconda. Un piccolo truffatore, un Nakoula che la stampa Usa indica come cristiano copto di origini egiziane? Non è chiaro che ruolo abbia avuto, se sia solo una facciata. Dietro in ogni caso, stando ai giornali del Cairo, sembra che ci siano almeno i soldi di Morris Sadek, americano di origine egiziane, anche lui copto, notoriamente anti-islamico. Al Wall Street Journal, Nakoula-Sam si era descritto invece come un ebreo israeliano, di professione promotore immobiliare, che si era prestato per fare un film «politico» grazie ai finanziamenti ottenuti ha detto da un centinaio di donatori «ebrei».
Sam o Nakoula che sia, al momento preferisce far perdere le proprie tracce per ragioni di sicurezza. Preoccupati anche gli attori, che hanno detto di aver recitato un’altra storia, dal titolo «Desert warriors». Maometto non figurava tra i personaggi. Il protagonista era un certo dr Matthews, leader di un gruppo di guerrieri. «Siamo scioccati», dicono gli attori. Le loro voci sono state doppiate. E adesso hanno paura.

Repubblica 14.9.12
Hillary: “Ripugnante quel film su Maometto”
Il regista avrebbe ingannato la troupe e gli attori. Giallo sui suoi finanziatori
di Angelo Aquaro


NEW YORK — Il regista anti-Islam che diceva di essere l’ebreo Sam Bacile in realtà è un cristiano di tradizione copta, Nakoula Basseley Nakoula, 55 anni, che adesso si nasconde con moglie e tre figli nella casetta a due piani di Cerritos, Los Angeles, vigilata giorno e notte da sei auto della polizia nel timore della vendetta dei fanatici musulmani, la porta protetta da una statua di mezzo metro della Vergine col Bambino.
È il suo film «ripugnante e riprovevole » ad aver provocato le proteste e le violenze in tutto il mondo arabo: lo dice Hillary Clinton nel disperato tentativo di placare la rabbia che ha ucciso a Bengasi e forse anche a Sana’a e che da tre giorni assedia l’ambasciata americana al Cairo. Il Medio Oriente brucia e invitando alla calma i paesi arabi il segretario di Stato ripetere quelle “scuse” che Mitt Romney rimprovera all’amministrazione. «Gli Stati Uniti non hanno nulla a che fare col video» dice Hillary. Ma è difficile far capire al resto del mondo — aggiunge — che non l’avremmo bloccato anche se avessimo potuto: noi non impediamo l’espressione delle opinioni «per quanto ripugnanti».
Quelle idee ripugnanti, il cristiano Nakoula le ha condensate in “L’Innocenza dei Musulmani”, il film prodotto con il figlio, Abanob Basseley, 21 anni, e girato in 12 giorni in una chiesa di Los Angeles proiettando sui teloni lo sfondo del Medio Oriente. Aveva reclutato la troupe per un film che, diceva, doveva chiamarsi “Il Guerriero del Deserto”. «Ci hanno ingannati e adesso ho paura» piange con la Cnn una delle attrici, Cindy Lee Garcia, che turbata dai morti e dalle proteste teme per le ritorsioni e mostra sconsolata la sceneggiatura nel quale il personaggio che nel doppiaggio sarebbe diventato Maometto era indicato con l’insospettabile nome di George.
Nakoula alias Bacile ha alle spalle una lunga storia di truffe finanziarie, è finito nei guai anche per contraffazione di medicinali e oltre al rimborso di 790mila dollari è stato condannato a 21 mesi di prigione a Lompoc, dove ha concepito e scritto il film per denunciare “il cancro dell’Islam”. Con quali soldi? Invece dei 5 milioni di finanziamento di “sostenitori ebraici” — come fin qui aveva sbandierato — il film sarebbe costato tra i 50 e 60 mila dollari: che l’improvvido regista ora dice di essersi procurato grazie alla famiglia egiziana della moglie.
Il suo socio sarebbe Steve Klein, un agente assicurativo di Hemet, California, autoproclamatosi “consulente del film”, che vanta di essersi “insanguinato le mani” in Vietnam durante la guerra ma oggi è noto alla polizia per la frequentazione di gruppi estremisti cristiani e anti-islamici come i Christian Guardians e i Courageous Christians United. È lui che avrebbe appunto consigliato a Nakoula di arruolare Terry Jones: chi meglio del reverendo del rogo del Corano per incendiare ancora il mondo arabo?

Sette del Corsera 14.9.12
Israele «Non siamo mai stati così pronti»
Bomba o non bomba soffiano venti di guerra
di Francesco Battistini

qui
Repubblica 14.9.12
Il tempo lungo delle primavere
di Bernado Valli


ASTRA (SIRIA) ERO in una valle della Siria del Nord, chiamata Astra, frequentata da contrabbandieri e da ribelli, e trascurata dalle carte geografiche. È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale», uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.
Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ». Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati. Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere, non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano. Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi. L’interrogativo li ha lasciati perplessi.
Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra, ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti. Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così, a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia, non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il sangue a Bengasi e ad Aleppo.
Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo. Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.
Insomma l’impegno iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini. E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.
A poche settimane dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le condoglianze di un alleato.

Repubblica 14.9.12
“Via chi ha difeso la strage di Breivik” Gallimard punisce l’editor xenofobo
Parigi, la casa editrice lo ha allontanato dal vertice
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Richard Millet abbandona il comitato di lettura di Gallimard, continuerà a seguire come editor i suoi autori, ma è invitato a defilarsi, a tenersi a distanza. Non è stato licenziato, la soluzione trovata sembra un compromesso tra l’autore dell’elogio di Anders Breivik e Antoine Gallimard. Quest’ultimo, dopo le proteste di decine e decine di scrittori, fra cui il Nobel J. M. G. Le Clézio, non poteva far altro che abbandonare al proprio destino il sostenitore di tesi razziste. Ha solo cercato di evitare lo scontro diretto e magari un conflitto legale: l’editor non è stato cacciato, ma è stato costretto ad allontanarsi «volontariamente ». Lunedì scorso, il colloquio tra Millet e Antoine Gallimard, a quel che si dice, era stato tempestoso. E l’autodifesa pubblicata da Millet su L’Express — che conteneva ancora bordate contro la minaccia alla cultura europea, incarnata, secondo lui, dall’immigrazione extracomunitaria — non ha fatto altro che aggravare la sua posizione.
Tutto era cominciato a fine agosto con la pubblicazione di un “Elogio letterario di Anders Breivik” dall’editore Pierre — Guillaume de Roux. Appena arrivano le prime anticipazioni, le tesi di Millet suscitano una valanga di proteste, anche perché l’autore è stato l’editor di Jonathan Littel e di Alexis Jenni, vincitori del Goncourt nel 2006 e 2011. Ma se Millet ha fiuto letterario, le sue posizioni politiche sono vicine alle tesi dell’estrema destra: «Breivik è senza dubbio quel che meritava la Norvegia. È figlio della rovina familiare come della frattura ideologico-razziale che l’immigrazione extracomunitaria ha introdotto in Europa da una ventina d’anni». La decadenza del Vecchio Continente, in particolare quella culturale, sostiene Millet, sarebbe insomma dovuta all’immigrazione e al trionfo del multiculturalismo. Poteva restare il libro di uno scrittore che flirta con le idee di un Jean-Marie Le Pen, ma Millet non è un personaggio qualunque, è membro del comitato di lettura di Gallimard, cioè della più blasonata casa editrice francese. Non è in discussione la libertà di espressione, gli ha scritto Antoine Gallimard, ma il suo nome coinvolge inevitabilmente anche le edizioni per cui lavora: «Appartenere alla casa implica una forma di solidarietà, un membro del comitato di lettura la rappresenta. Non posso approvare nessuna delle sue tesi politiche. Questa non è la mia posizione personale, ma è da sempre quella della casa editrice».
La coabitazione, insomma, non era più possibile. Invitandolo ad abbandonare «volontariamente » il comitato di lettura, Antoine Gallimard dovrebbe aver messo fine alle polemiche che agitavano la sua azienda e scongiurato il rischio di vedere qualche autore di primissimo piano sbattere la porta. Certo, Millet continuerà a seguire i “suoi” autori, ma è evidente che il passo di ieri è una rottura. Del resto, l’editor non ha intenzione di rimangiarsi le sue tesi. Continuerà a sostenerle e a considerarsi anche lui, come la letteratura europea, una vittima del multiculturalismo: «Perché mi uccidete?» era il titolo della sua autodifesa uscita appena due giorni fa su L’Express.

Corriere 14.9.12
Il mistero di Alessandro Magno: un santo o il re del male?
La sua leggenda, ponte tra Occidente e Oriente
di Pietro Citati


Alcuni grandi libri di storia furono dedicati alla figura di Alessandro. Ricordo in special modo la soave e delicata Vita di Plutarco (Bur, a cura di Domenico Magnino), le grandiosamente romanzesche Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo (Fondazione Lorenzo Valla, a cura di John E. Atkinson e Tristano Gargiulo), la precisa eleganza dell'Anabasi di Alessandro di Arriano (Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, a cura di Francesco Sisti e Andrea Zambrini). Sono tutte opere scritte tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, che si propongono, in modi diversi, e secondo tradizioni diverse, di rappresentare le vere vicende storiche di Alessandro.
I testi di Plutarco, di Curzio Rufo e di Arriano non sono le prime opere su Alessandro. Tre o quattro secoli prima, autori di cui non conosciamo il nome scrissero una serie di storie fantastiche intorno a lui. La cosa straordinaria è appunto questa: mentre i libri scritti nel I e nel II secolo dopo Cristo cercano di possedere un carattere storico, i testi composti, o iniziati, pochi decenni dopo la morte di Alessandro, in un'epoca prossima alla sua esistenza, sono liberamente fantastici, chimerici, inverosimili: segno che il fantastico faceva parte della natura stessa di Alessandro, e dell'alone che lo avvolgeva.
Si tratta del cosiddetto Romanzo di Alessandro, di cui Richard Stoneman e Tristano Gargiulo hanno curato una scelta eccellente (il primo volume è uscito nel 2007; il secondo arriva in libreria il 18 settembre; un terzo seguirà; Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori). I due curatori hanno pubblicato tre redazioni greche e una latina, che costituiscono una parte delle molte versioni, scritte in siriaco, in armeno, in etiopico, in malese, in islandese, e numerose altre lingue. Questi testi hanno avuto, nel Medioevo, un'immensa fortuna: l'immagine di Alessandro, e le sue molteplici interpretazioni, hanno toccato talmente i cuori e le fantasie, che soltanto i Vangeli hanno conosciuto un numero maggiore di lettori. Alle edizioni del Romanzo di Alessandro vanno aggiunti i rifacimenti e le variazioni, che anch'essi hanno percorso l'Occidente e il mondo mediorientale. Una vasta scelta di questi testo occidentali è compresa in Alessandro nel Medioevo occidentale, con introduzione di Peter Dronke e cura di Mariantonia Liborio (Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori).
Nei libri storici, sia Plutarco, sia Curzio Rufo sia Arriano, il carattere di Alessandro è segnato dal desiderio dell'insaziabile: egli vuole conquistare il mondo, andare oltre i limiti, raggiungere l'immortalità, sfiorare l'impossibile. Nel Romanzo, il carattere di Alessandro è molto diverso, e addirittura si rovescia nel suo opposto. Il grandioso eroe della storia diventa spesso una specie di Ulisse: una figura astuta ed ingegnosa, che inventa macchinazioni e si maschera in ogni forma. Oppure diventa una figura patetica: Dario gli muore tra le braccia, e lui lo bacia, lo conforta, lo carezza, lo consola, lo copre col suo mantello. Infine, incarna il desiderio del sacro. Lasciandosi dietro le spalle gli dèi greci ed egiziani, esalta il Dio degli ebrei: «Spregiò tutti gli dèi della terra, e proclamò solamente unico vero Dio quello inintelligibile, invisibile, inattingibile, portato dai Serafini e glorificato con l'attributo di tre volte santo». Nessuno di noi potrà dire quale sia stato il vero Alessandro: ma certo i grandi storici, da Plutarco ad Arriano, devono aver visto con una specie di ribrezzo l'eroe ulissiaco o religioso, che il Romanzo offriva ai suoi lettori.
Il Romanzo è una strepitosa enciclopedia del fantastico, di cui il primo eroe è Alessandro. La terra non gli basta mai. Scende nelle profondità del mare, per mezzo di una gabbia di ferro e di una campana di vetro; sale negli abissi del cielo, legandosi a due uccelli affamati che volano verso l'alto; raggiunge luoghi senza sole, in fondo alla terra della tenebra, dove c'è una sorgente limpidissima, con l'acqua che brilla come un lampo. E poi vede tutto il possibile e l'impossibile: immensi granchi marini, che contengono sette perle; uomini che misurano ventiquattro cubiti, con mani e gomiti simili a seghe; uomini senza testa, che parlano con voce umana; uomini con sei mani e sei piedi; uomini con la testa di cane e voce umano-canina; uccelli con occhi umani, che gracchiano in lingua greca; pietre nere che colmano i fiumi, e tingono di nero chi le tocca; alberi che col sorgere del sole crescono fino all'ora sesta, e dalla settima deperiscono sino a scomparire, secernendo stille simili alla mirra persiana.
La parte più bella del Romanzo è strappata dal bellissimo testo di uno scrittore del terzo - quarto secolo dopo Cristo: La Vita dei Brahmani di Palladio. Nei Brahmani culmina la vena utopica del Romanzo. Vivono ascoltando il canto degli uccelli e il grido delle aquile; dormono su letti di foglie e all'aria aperta; mangiano frutti e bevono acqua; cantano inni agli dèì; non amano l'oro né temono la morte. Quando incontrano Alessandro, gli dicono: «Perché, se sei mortale, fai tante guerre, per prendere tutto? E dove lo porterai? Non lo dovrai lasciare anche tu, a tua volta, ad altri?... Quello che cerchi, noi non l'abbiamo; quello che abbiamo, tu non lo desideri. Noi onoriamo dio, amiamo gli uomini, ci disinteressiamo dell'oro, disprezziamo la morte, non ci curiamo dei piaceri; tu temi la morte, ami l'oro, agogni i piaceri, odi gli uomini, disprezzi dio…». In apparenza, Alessandro prova profonda ammirazione per il maestro dei Brahmani. In realtà, qui il libro si capovolge: l'esaltazione del sommo tra i condottieri diventa una feroce polemica contro di lui, sovrano del male.

Corriere 14.9.12
Michele Ciliberto è il direttore scientifico
Il pensiero d’Italia in 80 medaglioni
di Arturo Colombo


Come titolo, Il contributo italiano alla storia del pensiero, è molto impegnativo; spicca sul frontespizio di un volume (oltre 800 pagine, più illustrazioni) pubblicato dall'Istituto dell'Enciclopedia Treccani. Giuliano Amato nella presentazione spiega che intende offrire «uno sguardo lungo sulla relazione della cultura e della scienza fiorite in Italia, sguardo lungo che muove da un punto di partenza fissato in un'Europa che era ancora una, latina e cristiana, ma in eccezionale, per quanto non di rado aspro e turbolento, confronto con ebraismo e islam, e con l'Oriente greco».
Michele Ciliberto è il direttore scientifico di questa iniziativa meritoria dedicata alla filosofia (seguiranno altri cinque volumi su altrettanti settori specifici), e non esita a spiegare che «è la vocazione "civile" il tratto specifico dell'Italia, sul piano filosofico». Anzi, precisa che «il nesso tra filosofia, storiografia e politica è un tratto strutturale della tradizione italiana», portando esempi assai significativi, poi ripresi e approfonditi attraverso «medaglioni» affidati a specialisti: ecco Machiavelli, su cui si sofferma Giulio Ferroni, ecco Giordano Bruno, che ambisce farsi «capitano di popoli» (secondo lo stesso Ciliberto), ecco Botero, riproposto da Robertino Ghiringhelli...
Tentare, attraverso un articolo giornalistico, di offrire una sintesi della vasta panoramica di questo libro a più voci, non è difficile; è semplicemente impossibile, appena si prende atto che sono più di un'ottantina i personaggi, che animano queste pagine, partendo dal «medioevo plurale» (l'immagine è ancora di Ciliberto), dove accanto a Tommaso d'Aquino e a Marsilio da Padova, spicca, soprattutto per il suo progetto di utopia sociale, Dante, ben delineato da Cesare Vasoli, che attraverso l'opera «Monarchia» auspicava l'affermarsi di un'autorità sovrana «unica e universale» in grado di unificare il mondo «nel riposo e nella tranquillità della pace».
I collaboratori, coinvolti nel riproporre le figure leader, riescono così a comporre un simbolico mosaico in grado di coprire addirittura un millennio di storia — anzi, «di storia del pensiero italiano» — anche soffermandosi su personaggi che, almeno a prima vista, sembrerebbero meglio qualificati in altri spazi: penso a Leonardo da Vinci e all'importanza della sua «opera intellettuale testimoniata esclusivamente dai suoi manoscritti», su cui si soffermano Fabio Frosini e Carlo Vecce; oppure a Galileo, che Mariano Giaquinta descrive non solo come scienziato ma altresì per i suoi contributi in filosofia della natura.
Naturalmente, in base agli interessi e alle curiosità di ciascuno, ci soffermeremo su periodi diversi, scegliendo il contributo di singole personalità. Così il XX secolo, che tanti, troppi pretendono di esaurire sbrigativamente con la «dittatura del neoidealismo» (un «mito storiografico senza fondamento», taglia corto Ciliberto), non esclude certo l'opera di Croce e di Gentile, su cui intervengono Michele Maggi e Biagio De Giovanni. Ma lascia emergere, attraverso appositi profili, scienziati come Federico Enriques, o sociologi e politologi come Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca (che è stato anche una firma del nostro «Corriere»), oppure delinea il ruolo «fra divulgazione filosofica e giornalismo culturale» di Giuseppe Prezzolini (ben descritto da Emma Giammattei).
Né basta. Perché l'ultima parte — dalla seconda metà del '900 a oggi — riserva, oltre a specifici approfondimenti (è il caso del marxismo), non poche sorprese, che chiamano in causa il neoilluminismo italiano (di cui scrive Massimo Mori), le «filosofie cristiane» (affidate a Michele Lenoci) e perfino il «pensiero debole» (preso in esame da Costantino Esposito). Insomma, un'ottima bussola di orientamento, da tenere a portata di mano.

Corriere 14.9.12
Pound, il dissenso vale anche quando si ha torto
di Giulio Giorello


Amo ergo sum, ovvero «amo, dunque sono». Parlando d'amore invece che di pensiero, così il poeta Ezra Pound nel 1942 rovesciava il razionalismo di Cartesio. Vale anche l'inverso: chi non ha sentimenti forti non sa amare e forse «nemmeno esiste».
Nel suo Guida alla cultura (1938) aveva scritto: «Nessun uomo decente tortura i prigionieri, nessun uomo pulito tollererebbe le atrocità pubblicitarie che si vedono tra qui e Genova. Nessun uomo libero da parassiti mentali tollererebbe la camorra delle banche o del sistema fiscale». Quattro anni dopo, dava voce direttamente in italiano a questi sentimenti in Carta da Visita, presso Edizioni di Lettere d'Oggi. Ripubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1974, questo testo viene ora ripresentato a cura e con un saggio introduttivo da Luca Gallesi che sottolinea l'impegno del poeta come patriota americano, pur «innamorato» della vecchia Europa. Si era battuto perché gli Stati Uniti non entrassero in guerra; era stato incriminato per alto tradimento, e nel 1945 era finito in un campo di prigionia presso Pisa e poi in un manicomio criminale a Washington (sempre senza processo). Liberato nel 1958, fino alla morte (1962) resterà privo della personalità giuridica. Sarebbe ora che gli Stati Uniti rimediassero a questa ingiustizia.
Carta da visita è un impasto di aforismi graffianti, battute sarcastiche, tirate polemiche in una lingua che riecheggia Dante e Cavalcanti. Che si tratti della critica letteraria, del destino della poesia, dei labirinti della filosofia o della stessa astrazione scientifica, il filo rosso è l'ossessione di Pound per l'economia. I grandi finanzieri abitualmente praticano «il trucco di far aumentare il valore dell'unità monetaria manovrandolo per mezzo del monopolio d'una sostanza qualunque, e quindi facendo pagare dai debitori l'equivalente di due volte la merce e i beni avuti al tempo d'un prestito». Per quanto possa suonare semplicistica, è difficile non sentire vicina l'invettiva di Pound. Le bolle finanziarie a livello globale non sono che l'altra faccia dell'oppressione fiscale, della violenza repressiva e del saccheggio dell'ambiente (e non solo tra Rapallo e Genova!). Sono l'amore per la natura, l'arte e la scienza a scatenare l'indignazione di Pound il libertario. Gallesi non nasconde il vizio dell'antisemitismo poundiano, di cui il poeta fece ammenda fin dal 1945, e ne sottolinea le simpatie per il fascismo. «Mille candele insieme fanno splendore. La luce di nessuna candela danneggia la luce di un'altra». È l'inizio di Carta da Visita. Pound aggiunge: «Così è la libertà dell'individuo nello Stato ideale e fascista». Proporrei di rovesciare la battuta: tale dovrebbe essere la libertà dell'individuo in ogni democrazia che non tema, ma ami, i propri dissenzienti.
Il libro: Ezra Pound, «Carta da Visita», a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 103, 14

Sette del Corsera 14.9.12
Come Picasso fece di se stesso un monumento
di Francesco Pini

qui
il Fatto 14.9.12
Aspettando la mostra milanese
Fo: Ve lo do io Picasso
Un recital scritto dal premio Nobel per raccontare il genio simbolo del ’900
di Antonio Armano


Tutto iniziò con “Otello il bidello”. Racconta Da-rio Fo che a Brera c'era un tale che faceva i calchi di gesso ed era lui stesso un calco di Picasso, gli assomigliava come una goccia d'acqua: “Noi studenti dell'accademia – ricorda il premio Nobel – mettemmo in giro la voce che Picasso sarebbe venuto a Milano. Organizzammo una festa al teatro dei Filodrammatici col falso Picasso come ospite per prendere per i fondelli l'ambiente culturale, gli snob... La festa degenerò e finì quando buttammo dei petardi tra le gambe di Otello che si mise a imprecare in milanese... ”.
Si parla di “grande ritorno” in occasione della mostra milanese di Palazzo Reale dal 20 settembre al 13 febbraio ( mo  strapicasso.it  ), dove saranno esposte 250 opere del Musée National Picasso di Parigi: molte mai uscite da quelle sale. Otello il bidello, il finto Picasso, non c'è più ma ci saranno i falsi picassiani. Dario Fo definisce “gigantesca” la mostra. In fondo è solo grazie all'avarizia di Picasso (non per niente il bisnonno, Tommaso, era di Sori, Liguria) che dobbiamo questa grande opportunità. “Sono il più grande collezionista di me stesso” diceva. Accumulò una quantità enorme di opere, anche altrui, e dopo la morte, anche per questioni legate alle tasse di successione, sono passate allo Stato francese. Eccezionalmente, per lavori di restauro della sede, usciranno dal museo parigino.
“L'assessore Stefano Boeri – dice Fo – mi ha chiamato chiedendomi se mi andava di fare uno spettacolo per raccontare Picasso, io ho accettato subito. Durante lo spettacolo, Picasso desnudo, che si andrà in scena al Dal Verme, il 17 e il 19 settembre, proiettiamo diverse opere di Picasso. e per evitare che ci chiedano i diritti siamo passati dalle proiezioni degli originali a quelle dei falsi”.
E come ha fatto a realizzare i falsi?
Con la mia équipe, montando e smontando le immagini degli originali, la tecnica è collaudata.
Come si è documentato per fare lo spettacolo?
La vita di Picasso è piena di pochade, commedia, tragico e grottesco, anche perché il grottesco è il contrappunto del tragico. Inoltre Picasso ha lavorato per il teatro.
Fu durante la collaborazione con Djagilev che conobbe la prima moglie, Olga Chochlova...
Ha avuto molte donne, ritratte in molti quadri. La passione per le donne lo ha portato anche a situazioni molto pesanti, come quando si lasciò con la Chochlova e lei gli disse che era senza denaro, lui ripose qualcosa tipo ‘va’ a c... ’, e lei per vendetta cominciò a scrivere le sue memorie, a puntate sui giornali, come feuilleton, lui diventò pazzo... da questo nasce il rifiuto di riconoscere il figlio Paulo.
Tra le opere in mostra, anche il ritratto di Olga del '18.
Non solo quello, ce ne saranno quattro in tutto. E si potrà vedere anche Massacro in Corea, che insieme a Guernica fu esposta nel '53 nella sala delle Cariatidi mezza distrutta dai bombardamenti. Picasso disse che per ricordare quello che era successo la sala andava lasciata così. L'hanno accontentato.
Perché quella volta Picasso venne davvero a Milano...
Era uno che presenziava raramente alle sue mostre ma alla fine venne. Ci piace pensare che abbia sentito del casino che avevamo fatto...
Che Milano trovò?
Restò impressionato. Era una città dove si faceva cinema, c'erano grandi scrittori, il Piccolo Teatro, primo esperi-mento nel suo genere, le fabbriche di automobili che la Fiat ha chiuso.
Una città molto diversa da quella attuale, ma il paragone sarebbe impietoso. Piuttosto, in un anno circa di giunta Pisapia s'è visto qualche cambiamento?
Quello che si sta facendo per la cultura è dieci volte maggiore che in passato, certo il contesto generale è di crisi, l'arte soffre... ma le cose sono cambiate, prima quando parlavi di arte agli amministratori gli veniva da vomitare.
Quanto si sente la spending review?
I tecnici tagliano tutto, e la cultura di più, anche se sono professori, perché vengono dall'area cattolica, Monti è del mio paese, sul Lago Maggiore. È un mondo che conosco bene, sono lombardo anch'io: della cultura non gliene frega niente.

Repubblica 14.9.12
Facciamo economia
Come costruire una nuova società dell’abbondanza
di Serge Latouche


Anticipiamo una parte dell’intervento che Serge Latouche farà al “Festival/Filosofia” Così lo studioso torna sulle sue tesi più celebri come quella della “decrescita felice”

Viviamo in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un’economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l’esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni – e dunque di prodotti superflui e rifiuti – e nell’emissione di scorie e inquinamento (dell’aria, della terra e dell’acqua).
Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema e dall’altra con uno strumento privilegiato della colonizzazione dell’immaginario, la pubblicità. E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio. Per usare una metafora siamo diventati dei «tossicodipendenti » della crescita. Che ha molte forme, visto che alla bulimia dell’acquisto – siamo tutti «turboconsumatori » – corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro.
Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. Senza poter trovare il «significante perduto», si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o l’amore, tutte cose la cui sete non conosce limiti. (...)
Anche per questo ci serve immaginare un nuovo modello. Economico ed esistenziale. Così la ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l’egoismo risultante da un individualismo di massa.
Uscire dalla società del consumo è dunque una necessità, ma il progetto iconoclasta di costruire una società di «frugale abbondanza» non può che suscitare obiezioni e scontrarsi con delle forme di resistenza, qualunque siano i corsi e i percorsi della decrescita. Innanzitutto, ci si chiederà, l’espressione stessa abbondanza frugale non è forse un ossimoro peggiore di quello giustamente denunciato dello
sviluppo sostenibile?
Si può al massimo concepire ed accettare una «prosperità senza crescita», secondo la proposta dell’ex consigliere per l’ambiente del governo laburista, Tim Jackson, ma un’abbondanza nella frugalità è davvero eccessivo! In effetti, fintanto che si rimane chiusi nell’immaginario della crescita, non si può che vedervi un’insopportabile provocazione. Diversamente invece, se usciamo da certe logiche, può risultare evidente che la frugalità è una condizione preliminare rispetto ad ogni forma di abbondanza. L’abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest’ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all’immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all’opposto di questa logica, la società della descrescita si propone di fare la felicità dell’umanità attraverso l’autolimitazione per poter raggiungere l’“abbondanza frugale”.
Come ogni società umana, una società della decrescita dovrà sicuramente organizzare la produzione della sua vita, cioè utilizzare in modo ragionevole le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà un po’ come quelle «società dell’abbondanza » descritte dall’antropologo Marshall Salhins, che ignorano la logica viziosa della rarità, dei bisogni, del calcolo economico. Questi fondamenti immaginari dell’istituzione dell’economia devono essere rimessi in discussione.
Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che «una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una depauperizzazione psicologica », uno stato d’insoddisfazione generalizzata, che definisce, egli afferma, «la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza». La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell’autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: «Essere dipendentisignifica essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi». Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La ritrovata frugalità permette precisamente di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava «sussistenza moderna». Ovvero «il modo di vivere in un’economia post-industriale, all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato, e ci sono arrivate proteggendo – attraverso strumenti politici – un’infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare valori d’uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti di bisogni professionisti ». La crescita del benessere è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio.
Molte di queste opzioni implicano un cambiamento della nostra attitudine anche rispetto alla natura. Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d’estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell’ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile di sviluppare un’attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un’obsolescenza programmata dell’umanità.
(traduzione di Tessa Marzotto Caotorta)

Repubblica 14.9.12
Eugenio Scalfari "Giornali, libri e amori: la mia vita di Narciso consapevole"
Intervista al fondatore di "Repubblica" in occasione dell'uscita del "Meridiano" in cui sono raccolti una serie di articoli e le sue opere più importanti
di Antonio Gnoli

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Repubblica 14.9.12
Dalle pratiche d’ufficio a quelle orientali
di Umberto Galimberti


Dopo che la tecnica ci ha ridotti a semplici funzionari dei suoi apparati e quotidianamente ci misura secondo i suoi criteri che sono la produttività e l’efficienza, ci si accorge che anche la produttività anche l’efficienza si riducono se si eliminano quelle componenti, proprie dell’uomo, che la razionalità della tecnica non contempla.
Si tratta di tutte quelle figure dell’irrazionale che si chiamano sentimento, fantasia, passione, sogno, che fanno dell’uomo, qualcosa di diverso (e se vogliamo anche di più inadeguato) rispetto alla macchina, che per la tecnica è l’ideale a cui anche l’uomo dovrebbe conformarsi. Le macchine infatti non si ammalano, non cadono in depressione, non sono turbate da pensieri negativi o esaltanti, non sono attraversate dal dubbio, e neppure stressate dalla necessità di scegliere e di decidere.
Lo stress, che in ambito lavorativo nasce quando le esigenze delle organizzazioni mettono alla prova le risposte del soggetto, il cui costo, in termini psicologici o somatici, può essere superiore alle sue risorse, deve essere, se non eliminato, almeno ridotto per non abbassare il livello di efficienza e di produttività. Vengono allora introdotte quelle tecniche di rilassamento mentale che vanno dalla meditazione allo yoga, dallo svuotamento della mente alle pratiche riflessive denominate “consulting and coaching”, dove si prendono in considerazione le fonti potenziali di stress rappresentate dalla struttura dell’organizzazione, dalla compatibilità delle forme organizzative con le esigenze di libertà e di autonomia di coloro che vi operano, dal ruolo del soggetto nell’apparato, dagli obbiettivi che deve raggiungere, dalle pressioni che riceve, dalle sue ansie in senso carrieristico.
A parte il “consulting and coaching” che si propone di ricostruire la “persona” a chi è ormai ridotto a “funzionario di apparato”, incapace di vedere altro mondo che non sia il mondo del lavoro, con un’identità appiattita sul proprio ruolo e un’atrofia dei sentimenti frequente soprattutto nelle leadership, le altre forme di rilassamento mentale finalizzate a rendere i soggetti più produttivi ed efficienti, destano in me qualche perplessità. Dubito che la struttura mentale di noi occidentali, che funziona più per concetti che per immagini, e quindi ha una natura prensile e acquisitiva (“concetto”derivada cum-capioche significa“prendere”, così come il corrispondente tedesco Be-griff deriva da greifenche significa “afferrare”), sia in grado di ospitare il modo orientale di pensare che un aforisma del Sutra così descrive: “Il Buddha dice: la mia dottrina sta nel pensare il pensiero del non pensiero, nel parlare il linguaggio del non parlare, nell’esercitare la disciplina dell’indisciplina”.
Come fa la nostra mente organizzata secondo il principio di non contraddizione a “pensare il pensiero del non pensiero”? Ne siamo capaci? O traspare anche qui, sotto sotto, la volontà di potenza che caratterizza il modo di pensare e di agire di noi occidentali, che vogliamo impossessarci anche delle pratiche orientali, pur non avendo la struttura mentale idonea a questa acquisizione?
E ancora, questa acquisizione avviene allo scopo di rispondere meglio alle esigenze di produttività ed efficienza, quando invece le pratiche orientali sono ispirate non dalla “volontà” di fare, produrre, raggiungere obbiettivi, ma dalla “non-volontà”, che Schopenhauer chiamava “noluntas”, la quale è l’esatto contrario della volontà di potenza, tipica di noi occidentali. Un altro aforisma del Sutra recita infatti: “Il mondo va lasciato qual è. Il Buddha lo attraversa senza pensare ad alcuna riforma. Egli insegna a liberarsi del mondo non a trasformarlo”. La tecnica, come universo di mezzi, senz’altro scopo che non sia il suo autopotenziamento, è disposta ad accogliere anche quelle pratiche orientali che sono la sua massima antitesi, purché siano a loro volta un “mezzo” per migliorare efficienza e produttività. E in questo uso “strumentale” della filosofia e della religione orientale io vedo, oltre che una mancanza di rispetto per una cultura davvero “altra” rispetto alla nostra, un semplice fagocitare tutto quello che riteniamo possa “servirci”.