domenica 16 settembre 2012

l’Unità 16.9.12
Il pm e l’ex senatore Ds all’incontro organizzato da l’Unità e Left
Ingroia: per cambiare legge serve un altro clima
Unitalia Dialogo tra il pm e Pellegrino a Milano
Le intercettazioni al Colle? Un fascicolo destinato comunque all’archiviazione
di Luigina Venturelli


Dalla stretta attualità del conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo, all’indagine di lungo corso sui rapporti tra mafia e politica. Dallo scontro sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche, alla polemica, altrettanto accesa, sulla riorganizzazione della magistratura. Nel confronto tra Antonio Ingroia e Giovanni Pellegrino alla festa democratica di Milano moderato dai direttori dell’Unità Claudio Sardo e di Left Giommaria Monti, quarta iniziativa di Unitalia venerdì sera al Carroponte di Sesto San Giovanni si è parlato di temi ben noti alle cronache italiane. Eppure, circostanza non scontata, lo si è fatto con toni inusuali per il dibattito politico nazionale che «dal ’93 parla di giustizia solo per tifoserie contrapposte».
Invece il sostituto procuratore di Palermo e l’ex presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi e il terrorismo che più volte hanno polemizzato apertamente sulle pagine del nostro quotidiano hanno dimostrato che «se si supera questo clima di gelo, è possibile ricostruire un equilibrio tra i poteri che in questi anni è venuto meno».
Vale, innanzitutto, per le intercettazioni incidentali a Giorgio Napolitano, «un incidente di percorso» le ha definite Ingroia, che hanno «un contenuto assai poco interessante» rispetto al resto dell’inchiesta in corso sulla trattativa tra Stato e mafia. Il magistrato ha detto di «non nutrire molti dubbi» sulla sentenza della Corte costituzionale. E ha aggiunto che «l’inevitabile epilogo sarà la distruzione delle intercettazioni. Peraltro, avevamo noi stessi già collocato quelle intercettazioni incidentali in un fascicolo destinato all’archiviazione». «Forse sarebbe stato meglio dichiarare subito che si trattava di un fascicolo destinato all’archiviazione ha rintuzzato Pellegrino. Si sarebbe evitato questo clamore mediatico che non fa bene né alle istituzioni né all’inchiesta». «Ma nessuno ce l’ha chiesto» è stata la replica di Ingroia.
Il confronto si è poi spostato sul rapporto conflittuale tra politica e giustizia, e in particolare sulla progressiva crescita dei poteri neutri (a cui spettano funzioni di equilibrio e di limitazione degli altri poteri attivi). Sia il procuratore aggiunto di Palermo che l’ex senatore diessino si sono dichiarati favorevoli a modifiche legislative sull’organizzazione della magistratura, «non per limitarla, ma per farla funzionare meglio». Anche trovando un nuovo equilibrio per il ruolo dei pm, oggi molto forti nella fase dell’inchiesta, ma deboli in quella processuale.
La stessa disciplina legislativa delle intercettazioni può essere modificata. «Cambiamenti da fare ce ne sono» ha sottolineato Antonio Ingroia. «Malgrado gli interventi legislativi finora tentati siano stati dei veri e propri assalti alla diligenza per neutralizzare lo strumento delle intercettazioni, dei disegni Mastella e Alfano salverei la parte relativa alle ulteriori cautele da introdurre per una più efficiente tenuta del segreto investigativo». Interventi di questo tipo, tuttavia, richiedono per Ingroia una precondizione indispensabile: «Un clima di fiducia reciproca tra le diverse istituzioni».
FIDUCIA ISTITUZIONALE
Un clima difficile da riscontrare in un Paese dove si respira una «sorta di diffidenza nei confronti della magistratura». Dove, ha ricordato Giovanni Pellegrino, «o si pensa, a destra, che i magistrati siano politicizzati, o si ritiene, a sinistra, che qualsiasi critica all’operato della magistratura sia una delegittimazione e una ferita alla legalità». Pellegrino è da sempre un garantista. E ritiene che la ferita alla cultura della sinistra sia stata inferta negli anni di Tangentopoli. Anzi, a suo giudizio, la sinistra ha commesso un errore ancora più grave: ha evitato di affrontare il tema dell’accresciuto potere giudiziario con riforme di sistema, e ha poi compensato questa invadenza con una limitazione dei poteri del pm nel processo. «Commettendo così un doppio errore».
«Se in Italia ha sostenuto Ingroia la politica, invece di provare a ricacciare indietro la magistratura, avesse fatto dei passi avanti sui temi della responsabilità e della verità, probabilmente la magistratura avrebbe continuato a svolgere il suo ruolo nella sua sede appropriata, senza doversi caricare sulle spalle ruoli e funzioni improprie». Certo, ha aggiunto Ingroia, «nel mondo c’è un sempre maggiore protagonismo giudiziario, ma non c’è dubbio che l’Italia è un Paese più all’avanguardia di altri da questo punto di vista. Ma la domanda è: la supplenza giudiziaria è soltanto responsabilità di una magistratura invadente o di una politica assente, che lascia dei vuoti che inevitabilmente vengono riempiti?».
Proprio per iniziare a colmare questi vuoti «sarebbe bene che il Parlamento arrivasse ad una conclusione sul testo in discussione in tema di corruzione», dimostrando così «un maggior impegno etico da parte della stessa politica a fare pulizia al proprio interno».

l’Unità 16.9.12
Il Pd rifletta sui limiti dei governi dell’Ulivo
di Matteo Orfini
Responsabile Cultura del Pd


L’INTERVENTO CON CUI LIVIA TURCO HA ELENCATO MOLTE BUONE ragioni per negare la subalternità al liberismo dei governi di centrosinistra aiuta a fare un passo avanti nella nostra discussione. Livia Turco rivendica la bontà di quelle stagioni di governo e spiega le ragioni delle sconfitte che seguirono con la categoria del riformismo senza popolo. Non c’è dubbio che la mancanza di un soggetto politico che desse forza a quei governi fu parte del problema.
Ma a un quindicennio di distanza possiamo forse guardare con maggior serenità alla qualità del riformismo che quei governi espressero, curiosamente mai messa in discussione. L’incapacità prima culturale che politica di reagire all’offensiva della destra economica europea rese largamente condivisa l’idea che Stato minimo, svuotamento del ruolo delle assemblee elettive e riduzione della funzione della politica fossero le precondizioni di una modernizzazione competitiva del Paese. Furono davvero quei governi immuni da questa visione? A me pare di no. Basti pensare ad alcune scelte strategiche che li caratterizzarono. Il principale risultato di quei governi fu il raggiungimento dell’euro, ma esso ne fu anche il maggior limite: l’Europa è ancora oggi poco più che una moneta, nonostante nel momento del processo di unificazione essa fosse governata quasi esclusivamente da forze di centrosinistra.
Oggi ci scopriamo inermi di fronte alla crisi, privi di quegli strumenti necessari ad arginare lo strapotere della finanza e invochiamo la necessità di«più Europa».Ma lo strapotere della finanza e i limiti nell’integrazione furono il frutto di scelte politiche, che noi subimmo, accettando l’idea che per ridurre gli squilibri interni all’area euro sarebbe stato sufficiente il dispiegarsi del mercato unico.
Gli effetti di quella visione sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma c’è di più: il filo rosso che legò le scelte dei governi dell’Ulivo fu la tesi, mutuata dal manifesto della Terza Via, della centralità dell’impresa. Un impianto in evidente discontinuità con quello costituzionale, che pur garantendo la libertà d’impresa la subordina all’interesse generale. La Repubblica è fondata sul lavoro, non sull’impresa. Quella visione portò con sè un bouquet di politiche, dalle privatizzazioni all’arretramento dello Stato, dalla flessibilità alle riforme del settore del sapere che oggi mostrano i propri limiti. Erano tutte scelte sbagliate? No. Ma come non vedere i guasti prodotti? Chi oggi ha 35 anni, veniva allora da noi non da Berlusconi invitato a non preoccuparsi per il proprio futuro, confidando nel mercato e nelle magnifiche sorti che la globalizzazione avrebbe dischiuso per tutti e per ciascuno: «Studiate -si dicevae sarete insider della globalizzazione. Grazie al vostro elevato capitale umano non avrete bisogno di sindacati, perché contratterete da soli i vostri diritti con le imprese, che faranno a gara per assumervi».
Una profezia negata dalla realtà di oggi, fatta di precarizzazione non solo della condizione lavorativa, ma del destino di milioni di persone.
Flessibilizzare un mercato del lavoro troppo rigido era indispensabile, ma occorreva contestualmente adeguare il Welfare per consentire a quei lavoratori flessibili di avere un affitto che non assorbisse interamente il loro salario o di essere sostenuti nei periodi di non lavoro. E occorreva aiutare il sistema di piccole e medie imprese del nostro Paese ad avere bisogno di quei lavoratori flessibili, ma di qualità. Quindi politiche industriali, attivazione della domanda di innovazione, incentivi al superamento del nanismo industriale, alla internazionalizzazione.
Nulla di tutto ciò, o almeno troppo poco, è stato fatto e la ragione di questo ritardo sta in quella dannata convinzione che alla politica spettasse solo liberare le energie del mercato, il resto sarebbe venuto da sé. Se oggi vogliamo provare a riconquistare la fiducia di quella parte del Paese a cui -anche noi abbiamo contribuito a rendere impossibile la vita, non possiamo non affrontare questa dolorosa discussione. Ma in quale Paese del mondo i leader progressisti, di fronte al dramma della crisi, risponderebbero rivendicando l’avanzo primario raggiunto durante le proprie esperienze di governo? Ma di cosa stiamo parlando?
Possiamo noi oggi rivolgerci a quel precario dicendo «Abbiamo capito: abbiamo sbagliato. Ora torna ad occuparsi di te la stessa classe dirigente di quindici anni fa o un giovane che vuol fare esattamente le stesse cose di allora, ma raccontandole con accento fiorentino»?
Io credo di no e che affrontare questa discussione seriamente sia un modo utile per dare un senso politico anche al tema del rinnovamento. E di attrezzare un credibile progetto di cambiamento del Paese. Porci all’altezza della sfida di ricostruire la nostra democrazia, come ci chiede Alfredo Reichlin, non è certo facile. Ma farlo senza indagare le cause per cui oggi essa appare così fragile, senza cogliere il nesso tra esclusione di milioni di persone dai processi produttivi e dunque dalla cittadinanza e inaridimento della sua base di legittimazione non ci porterebbe da nessuno parte. E quelle cause, purtroppo, affondano le radici anche nella nostra storia.

l’Unità 16.9.12
Il ruolo dei cattolici non è ricostruire l’unità politica
di Michele Ciliberto


Pensare di costruire in Italia un «partito cattolico» appare una prospettiva senza futuro, come risulta chiaro anche dall'esaurirsi della «spinta propulsiva» del convegno di Todi. Ma proprio questa situazione spinge a farsi alcune domande: quale può essere oggi il ruolo dei cattolici e quale contributo, e in che forme, essi possono dare al superamento della crisi italiana? Sgombriamo subito il campo da un equivoco: come sempre, non serve avere «nostalgia del passato». La Democrazia cristiana poggiava su una forte e complessa cultura politica, che veniva da molto lontano e andava oltre i confini del Partito Popolare di don Sturzo e De Gasperi. Essa era stata elaborata anzitutto in due luoghi: l’Università cattolica del Sacro Cuore e la Fuci di monsignor Giovanni Battista Montini. È lì che si forma il nucleo principale della classe dirigente che governerà l'Italia nella prima Repubblica, da Fanfani a Moro a Andreotti. Accanto a questo c'è però un altro elemento, forse il più importante, che contribuisce a spiegare il ruolo della Dc nella storia della Repubblica. Da noi non è mai esistita una forte tradizione liberale, neppure negli anni successivi all’Unità. In Italia, disse Gramsci in un memorabile discorso alla Camera, il partito della borghesia era stato la massoneria. Ma questo non aveva comportato lo sviluppo e l'imporsi, a livello di massa, di una forte presenza laica di ascendenza liberale. In Italia la corrente laica e liberale è sempre stata minoritaria e questo ebbe conseguenze decisive sul ruolo e la funzione storica della Dc nel dopoguerra. Diviso il mondo in sfere di influenza, e diventata l'Italia una marca di frontiera, il partito di De Gasperi prima e di Fanfani poi divenne il perno, a livello di massa, della contrapposizione al comunismo, cioè al Pci. Di questo c'è la verifica storica: la Dc finì dopo l'89, quando venne meno la divisione del mondo in blocchi contrapposti.
Ora, se si guarda alla situazione attuale dell'Italia non esiste più una forte cultura politica di matrice cattolica; né esiste una classe dirigente cattolica paragonabile a quella che si impose nel dopoguerra (e di questo il primo ad essere consapevole è il cardinale Bagnasco). Infine è venuto meno il ruolo svolto dalla Dc come perno, sia sul piano politico che su quello strettamente ideologico, della contrapposizione al comunismo: rispetto al '45 la situazione dell'Italia è totalmente cambiata e la sua funzione sul piano internazionale è stata drasticamente ridimensionata. Ma per capire la crisi della cultura politica cattolica e l'esaurirsi dei cattolici come classe dirigente nazionale occorre tenere presenti anche altri fenomeni. Ne elenco solo alcuni: la diffusione dei paradigmi culturali e antropologici della «secolarizzazione»; l’affermarsi, per un ventennio, del berlusconismo, con cui la Chiesa, ai livelli più alti, ha intrattenuto rapporti ambigui e spesso subalterni; la crisi generale della rappresentanza democratica e delle forme della politica di massa che ha coinvolto profondamente anche il cattolicesimo politico. Ne sono derivati sul piano individuale: la contrazione del valore della religione come fondamentale esperienza personale, interiore; sul piano generale, una netta riduzione dell'autonomia culturale e della funzione politica dei cattolici italiani.
In questa situazione, il ruolo dei cattolici è radicalmente cambiato. Né potrebbe apparire oggi credibile un progetto che mirasse a ricostruire l'«unità» dei cattolici e un nuovo partito cattolico di massa, capace di svolgere una funzione paragonabile a quella della Dc. Ne mancherebbero le condizioni sia sul piano interno che su quello internazionale, e anche su quello culturale. In Italia negli ultimi decenni è venuta meno proprio la funzione svolta per alcuni secoli dal cattolicesimo come perno della formazione della coscienza e della «struttura» della personalità degli italiani. Come sapeva il cardinale Martini, i cattolici (in senso militante, non quelli di complemento) oggi stanno diventando una minoranza, insidiata anche dal crescere impetuoso di altre religioni. Ma queste trasformazioni non comportano in alcun modo un ridimensionamento del ruolo che i cattolici possono svolgere oggi nella crisi della società italiana,tantomeno implicano che essi non siano in grado di arricchire e potenziare l'agire politico. Quella che si è esaurita in modo definitivo è una forma storica del cattolicesimo politico; non la «fonte» originaria di una presenza anche di una testimonianza che supera e oltrepassa tutte le forme in cui si è incarnata. Significa solo che oggi è necessario assai più che nel passato distinguere con precisione i due campi. Anzi, è precisamente per questa distinzione che i cattolici, proprio in quanto credenti, possono entrare oggi con piena coerenza nella sfera politica senza «corrompere» la religione distinguendo, anche meglio di altri, ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. Infatti, quanto più è profondo il «sentimento religioso» tanto più diventa forte e meditata la consapevolezza della funzione (e anche dei limiti ) dello Stato e della politica. Allo stesso modo, quanto più l'esperienza religiosa è vissuta autenticamente, tanto più è sbagliato contrapporre Stato e Chiesa, fede e laicità. Sono entrambe antitesi ideologiche senza alcun fondamento.
Come il chicco di grano della parabola, i cattolici italiani (quelli militanti, non di complemento) oggi possono dare un forte contributo al progresso della nostra società e al superamento della crisi. Ma possono, e debbono, farlo in forme nuove rispetto al tradizionale e ormai esaurito cattolicesimo politico; uscendo dai vecchi
confini e prendendo atto di ciò che è finito e di quello che oggi avviene in Italia e nel mondo dischiudendo, agli occhi di tutti, nuovi e più complessi orizzonti. Del resto, hanno già cominciato a farlo.

Repubblica 16.9.12
Bersani: “L’Italia va fuori strada se sceglie ancora Berlusconi solo noi possiamo cambiare il Paese”
E sigla la pace con Casini. L’Udc: alleanze chiare
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Tiene il punto, Pier Luigi Bersani. La strada scelta dal Pd non è in discussione. L’alleanza possibile tra progressisti e moderati non sarà mandata in fumo dalle liti sulla legge elettorale, dalla foto del Palazzaccio con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro, dalla corsa alle primarie di Matteo Renzi. Perché poi, non bisogna dimenticare la cosa più importante: «Serve una vera guida per il Paese, altrimenti, nel caso volessimo andare ancora fuori strada, c’è sempre Berlusconi».
Al mattino, il segretario pd è insieme a Casini a un convegno organizzato dalle Acli ad Orvieto: «Tutti i giorni si parlerà una volta di matrimonio, una volta di rissa. Ma io sto fermo a un dato di fondo e il fatto che ci siamo trovati d’accordo per mandare a casa Berlusconi, e che il primo passo positivo in Europa del governo Monti sia stato il risultato dell’intesa con Hollande, dimostrano, a chiare lettere, che i progressisti possono parlare con formazioni liberali e moderate». Il leader udc è lì ad ascoltarlo. I due ricevono la “benedizione” del presidente delle Acli, Andrea Olivero, convinto che questa possa essere la strada. E però, le differenze restano, e Casini non manca di sottolinearle. Prima di tutto sulla legge elettorale. «Occorre farla subito, entro un mese. Per combattere il grillismo gli elettori devono poter tornare a scegliere i loro rappresentanti con le preferenze». Mentre Bersani ricorda a tutti che il Pd ha avanzato una proposta, il maggioritario a doppio turno, e un compromesso, il proporzionale, ma con i collegi e un premio di maggioranza al 15 per cento. Non ci sta, a sentirsi dire che non vuole scegliere. «Quello che non sceglie è Berlusconi perché non ha ancora deciso cosa fare». In più, c’è il rischio alleanze invivibili: «L’eterogeneità del governo era il germe, il cancro che impediva alle vecchie coalizioni di governare», ricorda l’ex presidente della Camera. Mentre Bersani è certo che quelle esperienze non possano ripetersi perché alla base del nuovo esecutivo ci sarà un patto chiaro, un programma da seguire e l’obbligo di fare le scelte dirimenti a maggioranza.
Poco importa se nelle stesse ore, a piazza della Pilotta a Roma, Beppe Fioroni stia tirando fuori tutti i suoi dubbi sull’impostazione delle primarie. Che con una legge elettorale proporzionale non sarebbero altro che un congresso. Che confondono la rotta: «Ogni candidato non può avere le sue alleanze, i suoi veti o la furbizia di dire dopo».
Poco importa perché quella partita, ormai, Bersani ha deciso di giocarsela fino in fondo. Per questo ieri sera era proprio a Firenze, a sfidare in casa il principale avversario. Giro tra gli stand, boccale di birra con i giovani, più di 3mila persone ad ascoltarlo, mentre il sindaco Renzi era a un’iniziativa a Lucca. Cori di «C’è solo un segretario» e «Bella ciao», t-shirt antirottamatori. Insomma, la situazione ideale per galvanizzare le truppe: «Qui mi sento a casa», risponde a chi gli chiede del campo difficile. Poi, messaggi chiari: «La vera battaglia è contro la destra». «Ho voluto che le primarie fossero aperte perché spero che le idee prevalgano. La classifica delle cose che contano è la seguente: al primo posto l'Italia, al secondo il Pd e il suo progetto e al terzo le ambizioni e i percorsi personali». E ancor più diretto a Renzi: «Anche se qualcuno va in giro a raccontare che bisogna abolire i vitalizi dei parlamentari, quel qualcuno è bene che sappia che per iniziativa del Pd sono stati aboliti». Infine: «Chi va al governo non governerà da solo. Del resto, io non me la sentirei di guidare il Paese da solo. Bisogna avere una squadra capace di collegare il governo con un sentimento popolare. Quello che adesso manca».

Corriere 16.9.12
Il sondaggio. Il Pdl appare chiuso in una riflessione interna, il Pd diviso sulle linee programmatiche

E Renzi guadagna terreno per le primarie
Astensione e voto di protesta le tentazioni per due italiani su tre
Solo il 36% dichiara di voler appoggiare un partito tradizionale
Il vantaggio. Il consenso per Bersani supera di poco il 50% tra gli elettori pd,
ma non conquista la maggioranza nel centrosinistra. E il sindaco di Firenze è al 25-30%
di Renato Mannheimer

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Repubblica 16.9.12
Quei ministri usciti da un libro di Calvino
di Luciano Gallino


SENTITE le dichiarazioni di Marchionne, Passera ha detto che vuole «capirne le implicazioni». Dunque, per lui, un dirigente che ha promesso 20 miliardi di investimento, ne ha effettuato uno, e poi dichiara che degli altri 19 non se ne parla proprio, è stato poco chiaro.
Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto. Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze – Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza – oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.

Repubblica 16.9.12
Ricchi contro ricchi, con meno soldi il capitalismo va in tilt
Così cambia la mappa del potere economico
di Ettore Livini


MICROSPIE e registrazioni clandestine. Documenti riservatissimi che, come in un film di 007, finiscono dritti dritti su Indymedia, il sito dell’antagonismo tricolore. Più insulti a gogò — «arzilli vecchietti», «furbetti cosmopoliti» e «livorosa controfigura di Sgarbi» le ultime perle — e regolamenti di conti da Far West tra manager e imprenditori legati fino a poco tempo fa da sodalizi decennali.
Le stanze ovattate del “salotto buono” dove per anni i Paperoni tricolori hanno scritto nel massimo riserbo (e a loro uso e consumo) la storia della finanza nazionale non esistono più. Tra i miliardari — o presunti tali — d’Italia volano gli stracci come in un’assemblea di condominio. Ricchi contro ricchi. Tutti contro tutti. In una partita destinata a ridisegnare nei prossimi mesi la mappa del potere economico (e in parte anche politico) del nostro paese.
Questi scontri, intendiamoci, non sono una novità. La storia del capitalismo tricolore è stata segnata da battaglie cruente in cui non si sono fatti prigionieri. Ma in silenzio e senza titoli sui giornali se non a partita chiusa. Cesare Romiti, sostenuto da Enrico Cuccia, il templare del riservatissimo e ormai defunto sistema di relazioni italiano, è stato protagonista di un lungo e cruento braccio di ferro (vinto) con Umberto Agnelli per il vertice della Fiat. E nemmeno l’Avvocato, con tutto il suo charme e il suo carisma, è riuscito allora a salvare il fratello.
Scontri tra giganti. Come l’interminabile partita a scacchi tra Cuccia e Romano Prodi negli anni ’90 per il controllo di Comit e Credito Italiano, le due ex-Bin. Consumata a corrente alternata tra silenziose coltellate alle spalle, arrocchi, presunti tradimenti (come quelli dei Bragiotti, con il giovane Gerardo licenziato in tronco da Mediobanca mentre stava per partire per i Caraibi) e, alla fine, la vittoria ai punti per l’ex presidente del consiglio.
Altri tempi e altro stile. Niente urla. I panni sporchi lavati tra le mura di casa in un mondo dove i soldi (spesso quelli delle banche, appunto) non mancavano. Con rare eccezioni come lo scontro tra Carlo De Benedetti (editore de La Repubblica) e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. O l’agguato teso dalla Fiat alla Mediobanca di Vincenzo Maranghi poco dopo la morte di Cuccia sulla Edison.
Oggi è cambiato tutto. Senza telecamere, taccuino e riflettori non si muove nessuno. Lo stesso Romiti, perso l’aplomb d’antan, consuma in un libro di ricordi e davanti alle telecamere di “Che tempo che fa” le sue vendette personali («Montezemolo? Bugiardo come Berlusconi, l’unica differenza è che uno ha i capelli e l’altro no»). E il Maradona di questa partita, non a caso, è Diego Della Valle, il più mediatico e istintivo degli imprenditori di casa nostra. Il suo attacco a John Elkann e Sergio Marchionne – i “furbetti cosmpoliti” di cui sopra – è solo la punta dell’iceberg. Senza Cuccia a tener assieme il sistema e senza i soldi delle banche per cementare scatole cinesi e patti di sindacato, il capitalismo senza soldi (o con quelli degli altri) che ha spadroneggiato per anni a Piazza Affari è andato in tilt, scatenando una guerra dove i conti non si fanno più con il fioretto ma con la spada.
L’elenco dei sanguinosi “derby” del salotto buono in corso sulla pubblica piazza e senza esclusione di colpi è da brividi. «Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto», diceva Cuccia. La regola vale anche oggi nella guerra tra miliardari. Della Valle - lo “scarparo” come l’hanno poco affettuosamente soprannominato i suoi molti nemici – ha ammucchiato una fortuna grazie a giacche e scarpe a pallini. E cavalcando questo arsenale ha guidato a suon di dichiarazioni al vetriolo il blitz in Generali contro Cesare Geronzi, l’ex onnipotente numero uno della Banca di Roma da lui degradato al ruolo di «arzillo vecchietto».
Lo stesso vale per Leonardo Del Vecchio, seduto su un immenso patrimonio grazie alla sua Luxottica. E’ stato lui, non a caso, a liquidare con un’intervista alla vigilia dell’assemblea delle Generali l’ad Giovanni Perissinotto, costringendo il numero uno di Mediobanca Alberto Nagel, da sempre vicinissimo al manager del Leone, a dargli il benservito.
Il passato, quando il gioco si fa duro, non conta più. I Ligresti - sperperati i loro risparmi
(purtroppo anche quelli dei loro soci) in cavalli, villaggi in Sardegna, borsette e investimenti sbagliati – sono stati scaricati senza troppi complimenti dopo quarant’anni di affinità elettive proprio da Mediobanca. Un divorzio dalle tinte forti di un duello rusticano, condito dalle lacrime del capofamiglia Salvatore («minacciava il suicidio», assicura Nagel) e dalle manovre alla Tom Ponzi di Jonnella, figlia dell’ingegnere di Paternò, cablata come il cruscotto dello Shuttle per registrare di nascosto i suoi colloqui in Piazzetta Cuccia. Scene da melodramma, non fosse che in ballo c’era la Fonsai, seconda compagnia d’assicurazione italiana. Il miglio quadrato attorno a Piazza Affari, del resto, si è trasformato in una specie di giungla dove (forse per la prima volta) vale la legge del più forte e non quella delle relazioni. I Salini, outsider romani nel mondo delle grandi opere, hanno sfilato dopo una feroce battaglia a colpi di esposti e denunce l’Impregilo ai Gavio, ritenuti fino a ieri un’intoccabile “specie protetta” nello Zoosafari della Galassia del Nord. Un po’ come vedere il Sassuolo che batte la Juventus.
Questo clima da fine del mondo, o almeno di quel mondo, scatena del resto appetiti impensabili solo un anno fa. I liquidissimi Malacalza, parvenu (nell’ottica del salotto buono) di Bobbio, provincia di Piacenza, stanno provando a sfilare con due lire e metodi un po’ garibaldini la Pirelli a Marco Tronchetti Provera, ritenuto una volta per fascino e carisma l’erede naturale dell’avvocato Agnelli. E anche in questo caso il bon ton è andato a farsi benedire, con i verbali di cda e le lettere riservate tra le parti passate sottobanco a Indymedia e la tradizionale raffica di denunce incrociate in Procura.
Grande è la confusione sotto il cielo, direbbe Mao Tze Tung. In questa Italia un po’ fluida dell’era dei debiti sovrani, economia e politica stanno cambiando pelle allo stesso momento. Forse non a caso al centro del grande risiko della finanza tricolore, oggi come sempre, c’è il Corriere della Sera.
Della Valle vorrebbe usare i suoi soldi per crescere in via Solferino e, guarda caso, Fiat e Mediobanca si sono messe di traverso in una sfida dove recitano come primattori pure Fonsai, Pirelli e i Gavio. I suoi attacchi al Lingotto hanno fatto scricchiolare persino lo storico legame d’amicizia con Luca Cordero di Montezemolo che, di suo, è indeciso tra Ferrari e Palazzi romani e per questo ha finito per litigare con il potenziale alleato Pierferdinando Casini. La guerra dei Paperoni italiani per ridisegnare il potere tricolore, insomma, è solo al primo tempo e promette ancora scintille. Sperando che a vincere, alla fine, non sia qualche Paperone straniero.

il Fatto 16.9.12
La finanza modello al Qaeda
di Furio Colombo


Il modello è al Qaeda. Niente volto, niente luogo, niente Stato, un patrimonio fluido e portatile, continua guerra di propaganda, molta potenza che può colpire dovunque, ma che puoi raggiungere solo inventando un nemico vicario, ovvero qualcuno a caso. Al Qaeda non ha e non vuole avere una cittadinanza o un territorio, esige una bandiera grande e visibile, che possa scatenare masse grandissime, ma ha punti di comando ignoti e remoti per mantenere segreto e potere intatti. Il suo vertice è leggero e mobile, destinato a restare introvabile. Se lo trovi, non sei mai sicuro che sia quello vero, o se hai raggiunto un avamposto o un personaggio abbandonato. Il potere della finanza, che riesce a governare, spostare, sottomettere il mondo, che ha devastato e trasformato le esistenze di tutti (e costruito ricchezze enormi per pochi, spesso del tutto ignoti) ha reso in pochi anni irriconoscibile il paesaggio sociale del mondo, e cancellato la precedente epoca industriale, è organizzato allo stesso modo.
NON HA UNA patria, non ha uno Stato con cui coincidere, non condivide ideali, storia o interessi, comanda dovunque e non lo puoi trovare. Esige da Stati, persone, governi potenti e gruppi in rovina, somme immense che vengono restituite in minima parte, detraendo di volta in volta una parte della ricchezza comune. Si tratta dunque, come per al Qaeda, di un potere grande ed eccentrico, senza Stato e senza popolo, ma con la forza di decidere quali e quanti popoli devono di volta in volta obbedire. È chiaro – spero – che non sto parlando di questo o di quel governo e neppure di organismi internazionali. Parlo, con la stessa incertezza di chi non fa il finto esperto e la stessa paura di ogni cittadino, del cielo sopra i governi. È un cielo gravido di nuvole impenetrabili sopra tutto ciò che sappiamo, un cielo in cui occasionali schiarite non sono mai una promessa. Non è più capitalismo, nel senso di Weber, Smith, Stuart Mills. La prova: non è il mercato. Il mercato, infatti, è una delle due strutture nel mondo connesso della produzione e dello scambio, che è stato tolto di mezzo, annullando merito del lavoro e valore del prodotto, sostituito dai versamenti rapidi e obbligati continuamente in corso, detti rating o spread arbitrari in cui vaste ricchezze passano di mano in mano, verso l'alto, fino a far perdere le tracce. L'altra è l’improvvisa e brutale aggressione al welfare, visto come una intollerabile sottrazione di risorse al versamento globale, che è la nuova regola imposta senza elezioni e senza Parlamenti, e che tutti i governi hanno dovuto accettare. Il trapasso quasi violento degli Stati Uniti da più grande Paese manifatturiero al più grande Paese di banca, Borsa e finanza, fa pensare, con mentalità del passato, che si tratti di una invasione americana sul benessere degli altri Paesi. Ma non è vero. Certo, è americano lo storico momento di transizione, quando, durante la presidenza Reagan, è stata abolita ogni regolamentazione di funzioni e settori, di banca, finanza e controllo di imprese, permettendo libertà senza limiti e senza controlli nella formazione e nella gestione della ricchezza che è diventato modello per tutti gli altri Paesi. Il grande simbolo è il dominio delle compagnie di assicurazione americane sulla salute dei cittadini statunitensi, che persino un presidente come Barack Obama forse non riuscirà ad abbattere o a diminuire. È la bandiera della civiltà finanziaria che ha iniziato l'invasione (prima di tutto negli Usa), spingendo ai margini la civiltà industriale. E non si può dire che sia americano il dominio o il profitto, misterioso e immenso, della nuova epoca, perché, come per al Qaeda, la cittadinanza dei vari operatori non coincide con gli interessi di uno Stato o della politica di un governo.
È COMINCIATA una nuova internazionalità del capitalismo che non ha più come centro un Paese e neppure una cultura (come quando si parlava con fondamento di disegni e politiche di multinazionali e di imperialismo), ma è una struttura schermata e indipendente che provvede, con espedienti sempre diversi, a un continuo, esorbitante prelievo globale, senza riguardi e senza privilegi. La nuova situazione, anzi, colpisce in pieno l'America proprio in quanto prima potenza del mondo. Dimostra che non è l'America a decidere, dimostra che il suo presidente "socialista" si muove nel passato. Colpisce gli Usa anche attraverso le connessioni internazionali di grandi banche, americane e non americane, impegnate, attraverso il continuo imbroglio del "libor" (regolamentazione spontanea e concordata dei costo del danaro negli scambi tra banche) a rastrellare vasti profitti in ogni Paese, tra cui l'America, a vantaggio della galassia finanziaria che grava, senza nazione e senza Stato, sul mondo, con agenzie operative dislocate nei diversi Paesi, fra banche, Borse e agenzie mutanti gruppi politici. I governi, con sempre meno potere, subiscono imposizioni pesanti, pena multe gravissime ai rispettivi Paesi, senza badare alle spinte di rivolta che creano. Quelle rivolte riguardano territori e governi, non il cielo del grande passaggio di ricchezza in corso. Non sto dicendo che un nuovo fantasma si aggira per il mondo. Dico che si è messa in moto la grande rivoluzione della ricchezza che esige sempre più ricchezza, prelevandola ovunque, non intende rendere conto, sa come dare ordini e sa come punire. Mantiene, soprattutto, una incertezza infinita. Un fatto è evidente: il punto o i punti di ogni decisione sulla vita dei popoli e degli Stati sono stati del tutto sottratti al controllo della democrazia, benché la democrazia sia, in apparenza, intatta. È un fenomeno nuovo, vasto, sconosciuto.

Repubblica 16.9.12
Chi guiderà tra sette mesi il governo e il Quirinale?
di Eugenio Scalfari


I MERCATI europei festeggiano gli ultimi eventi favorevoli alla tenuta dell’euro che pongono le premesse per un rilancio dell’economia reale, mentre sull’opposta sponda del Mediterraneo si è scatenata una vera e propria ondata di antiamericanismo quale non si vedeva da molto tempo.
Per ora assistiamo a due fenomeni che sembrano svolgersi su due diversi livelli, ma non è questa la realtà; i due livelli sono strettamente intrecciati l’uno con l’altro. Se l’ondata antiamericana non sarà al più presto contenuta il rischio è la sconfitta di Obama nelle presidenziali americane. Per l’economia europea sarebbe un colpo temibilissimo; mancano 50 giorni a quel voto che anche l’Europa attende col fiato sospeso.
Intanto i mercati privilegiano il bicchiere mezzo pieno e le ragioni non mancano: la Corte di Karlsruhe ha definito il fondo “salva-Stati” compatibile con la Costituzione tedesca; la Merkel ha dato a Draghi l’ok definitivo allo scudo anti-spread se sarà richiesto dalla Spagna e dall’Italia; le elezioni olandesi sono state vinte dai partiti europeisti; infine la Fed di Bernanke ha deciso di iniettare nell’economia Usa una marea di liquidità al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese per un periodo di almeno due anni.
Le condizioni d’un rilancio generale contro la recessione e a favore di nuova e maggiore occupazione ci sono dunque tutte e il buon andamento delle aste italiane di questi ultimi giorni ne sono la più visibile manifestazione.
Gli effetti sull’economia reale tuttavia non saranno immediati ma dovrebbero manifestarsi fin dall’autunno del 2013.
C’è tuttavia un problema tutt’altro che marginale che ha fatto la sua comparsa in modo imprevisto: che ne sarà della politica di Monti e della sua posizione personale dopo le elezioni del 2013? I governi europei vorrebbero che restasse alla guida d’un nuovo governo ma quest’ipotesi si scontra ora con un quadro politico italiano a dir poco confuso nel quale tutte le prospettive che fino a poco tempo fa sembravano plausibili sono invece saltate, le alleanze previste si sono rotte, la polemica tra i partiti e anche all’interno di essi si è trasformata in una lotta di tutti contro tutti. Infine la nuova legge elettorale il cui varo era stato dato per imminente, è diventato una “araba fenice”.
Dicevamo che i mercati festeggiano ed hanno buone ragioni per farlo, ma sulla politica italiana batte invece la campana a martello. Gli italiani voteranno per l’Europa o contro di essa? Questo è il punto al quale le forze politiche non hanno ancora risposto e che anzi, a guardarle da come si stanno comportando, sembrano ignorare o addirittura non capire.
* * *
Il governo Monti adottò un anno fa una politica di rigore che, pur con molti errori ed eccessivi annunci non sempre seguiti dai fatti, evitò che il paese precipitasse nel baratro del default.
Contemporaneamente ha guadagnato all’estero e in particolare in Europa una credibilità che da tempo i nostri governi avevano perduto. Questa credibilità ci consente di riprendere il nostro posto al tavolo europeo e di esercitare un ruolo non marginale nella costruzione di un’Europa politica e federata. Ma non sono solo queste le novità introdotte dalla svolta “montiana”. Ce n’è un’altra che potrebbe produrre un mutamento addirittura rivoluzionario nella storia dell’Italia repubblicana ed è il ruolo delle istituzioni nel quadro costituzionale e politico.
Noi ci siamo abituati a considerare le istituzioni come altrettanti snodi delle attività dei partiti. Non è così, o meglio non dovrebbe essere così poiché non è questo il ruolo delle istituzioni in uno Stato di diritto nella sua versione di democrazia parlamentare.
Le istituzioni sono titolari dell’interesse generale, ciascuna nell’ambito della propria competenza, e rappresentano lo Stato. Il governo istituzione rappresenta il potere esecutivo dello Stato, il Parlamento ne rappresenta il potere legislativo e quello di controllo sull’operato dell’esecutivo e della pubblica amministrazione; la magistratura rappresenta il potere giudiziario che è un potere diffuso e non gerarchicamente organizzato e per questo motivo i suoi membri necessitano di rigorosi comportamenti e di organi di autocontrollo poiché ogni magistrato è titolare del potere di giurisdizione nell’ambito del suo ruolo e dalle regole previste per quel ruolo non può discostarsi.
Anche le “autorità” sono istituzioni che esercitano le proprie competenze in nome dello Stato e con spirito di “terzietà” che è lo strumento caratterizzante dell’interesse generale.
I partiti non sono titolari dell’interesse generale e non possono ovviamente aver caratteristiche di terzietà proprio perché sono “parti”. Sono invece (o dovrebbero essere) portatori di una loro visione del bene comune. In libere elezioni le varie visioni si confrontano e, secondo le decisioni del popolo sovrano, ne emerge una maggioranza e un’opposizione. In Parlamento vengono discusse e approvate le leggi e ogni intervento del potere esecutivo che abbia valore erga omnes.
È molto delicato il rapporto tra Parlamento e governo: sono due istituzioni e rappresentano poteri distinti, ma la prima è formata da persone alle quali il popolo ha affidato il compito di realizzare la visione del pubblico bene che ha ottenuto la maggioranza dei consensi. Il governo deve dunque operare nel quadro di quella visione per ottenere l’approvazione dei delegati del popolo ma il governo deve anche aver ben presente la totalità dei cittadini e quindi deve inquadrare la visione del bene comune della maggioranza nel quadro dell’interesse generale. Quando queste due diverse angolazioni non trovassero una sintesi il governo va in crisi oppure il Parlamento viene sciolto e si torna dinanzi al popolo sovrano.
All’indomani della fondazione dello Stato unitario centocinquanta anni fa questa delicatissima questione del rapporto tra i partiti e le istituzioni rappresentò uno dei problemi principali dei governi chiamati ad amministrare lo Stato. Uomini come Minghetti, Spaventa, Bonghi, Lanza, Zanardelli, ne discussero a lungo; magistrature speciali furono create a tutela della terzietà della pubblica amministrazione.
A guardar bene, la storia politica dell’Italia è stata scandita principalmente dal rapporto tra le istituzioni e la politica, tra l’interesse generale rappresentato dallo Stato e quello dei partiti e delle associazioni che ne rappresentano varie visioni e interpretazioni. Entrambe queste realtà costituiscono elementi essenziali della politica; compito dei partiti è di imprimere dinamismo allo Stato attraverso riforme che ne modernizzino il funzionamento e ne aggiornino gli obiettivi; compito delle istituzioni è di impedire che le leggi siano violate e che la distinzione dei poteri si indebolisca favorendo così interessi particolari a detrimento della generalità.
La novità che ha avuto Napolitano come autore e Monti come strumento di attuazione è stata esattamente questa: recuperare la terzietà delle istituzioni e ricondurre i partiti al loro compito che è quello di mettere le istituzioni a contatto con il popolo.
Non è stato e non è un compito facile; la crisi economica in corso e il quadro globale dell’economia hanno accelerato e drammatizzato questo percorso introducendovi un tema ulteriore: la necessaria costruzione di un’Europa federata con cessioni di sovranità dai governi nazionali a quello europeo. In prospettiva dovrà nascere uno Stato europeo con istituzioni europee e popolo europeo. Questo è l’obiettivo del prossimo futuro. Susciterà incomprensioni e resistenze che già sono all’opera. La strada è lunga, la crisi economica ne rende il percorso al tempo stesso più accidentato e più necessario. Tra sette mesi il governo Monti cesserà le sue attività e la legislatura sarà conclusa; negli stessi giorni il Capo dello Stato avrà concluso il suo settennato. Si tratta purtroppo di una coincidenza che rende molto visibile il vuoto al vertice delle istituzioni. Come sarà colmato quel vuoto? Chi ci rappresenterà in Europa? Chi troverà la sintesi tra il rigore economico e il rilancio dello sviluppo e dell’occupazione? Chi risolverà quella questione morale che non è soltanto la lotta alla corruzione e all’evasione ma anche il recupero dell’autonomia delle istituzioni dal predominio dei partiti?
Manderemo Grillo a rappresentarci in Europa? Di Pietro o Diliberto a tutelare la salute degli abitanti di Taranto che respirano da mezzo secolo polvere di carbone e contemporaneamente a mantenere al lavoro i 18mila operai dell’Ilva? Manderemo Renzi a discutere con Draghi e con la Merkel sul futuro dell’euro? Oppure riaffideremo ai vecchi partiti e alle vecchie oligarchie, che hanno fallito l’obiettivo di rinnovarsi e adeguarsi alle nuove mappe del futuro, il compito di riprendere i loro posti dopo una parentesi solo dall’emergenza (che peraltro dura tuttora)?
* * *
I cittadini chiamati a votare nell’aprile dell’anno prossimo avranno dunque molte questioni da risolvere con il loro voto. Le seguenti: 1 - Vogliono una nuova Europa capace di avere un suo ruolo nel mondo globale dove si confrontano i continenti, le loro economie, le loro monete, le loro politiche? Oppure rifiutano queste prospettive e preferiscono invece tornare alla lira e all’Italietta dei Montecchi e Capuleti?
2 - Vogliono che la nuova Europa – e l’Italia che ne fa parte – abbiano una visione politica dominata dal liberismo economico oppure da un socialismo dirigista oppure da un liberalsocialismo riformista che unisca insieme la libertà di impresa e di mercato con l’equità sociale e la lotta contro le diseguaglianze?
3 - Vogliono che l’interesse generale prevalga sulle lobby e le clientele oppure lo considerano una parola vuota di fronte alla concretezza degli interessi particolari che antepongono il presente alla costruzione del futuro?
Il nuovo Parlamento rispecchierà le risposte che gli elettori avranno dato a queste domande sempre che la legge elettorale registri gli orientamenti degli elettori tutelando la libertà e la governabilità. Il tira e molla sulla predetta legge ha ormai raggiunto un livello non più oltre tollerabile e il Capo dello Stato ha ben ragione di elevare contro questo modo di procedere la sua più indignata protesta.
Spetterà comunque al presidente della Repubblica eletto dal nuovo Parlamento di nominare il nuovo governo tenendo ovviamente conto che esso dovrà ottenere la fiducia delle Camere.
Non vorremmo più vedere il nome dei leader sulle schede elettorali e neppure vorremmo vedere delegazioni di partiti nei governi. Tutto questo appartiene ad un passato che non deve più ritornare. Non si tratta di giovani o vecchi secondo l’anagrafe ma di giovani o vecchi secondo le idee, il talento, la preparazione e l’umanità. Il resto è fuffa demagogica, purtroppo in Italia ce n’è in abbondanza.

il Fatto 16.9.12
Il bilancio democratico
Cene e programmi tv: così il Pd spende 2 milioni
di Nello Trocchia


Lo scandalo dell'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito, le spese del partito a uso e consumo dei consiglieri scuote la maggioranza che sostiene la governatrice Renata Polverini. Nel Partito democratico la musica è diversa con un bilancio pubblico. Anche se a guardare i conti, emerge che i democratici hanno investito una parte dei soldi dei cittadini per pagare servizi tv, giornali e cene elettorali. Pochi giorni fa è partita l'operazione trasparenza, il Pd ha pubblicato on line la relazione sull'impiego dei fondi eroga-ti al gruppo consiliare nel 2011. Un tesoretto di 2 milioni di euro per il principale partito di opposizione. Spulciando il documento spuntano voci che fanno discutere. In Emilia Romagna le comparsate in tv dei politici hanno provocato dibattito e polemiche, per il Pd sembra la norma. Il Partito democratico paga per servizi televisivi, approfondimenti giornalisti, coperture di eventi. Nel 2011, il Pd ha speso oltre 110mila euro saldando questo patto ‘anomalo’ tra politica e informazione.
Nel rendiconto, firmato dal tesoriere Mario Perilli e dal capogruppo Esterino Montino, si parte dai 16mila euro a Teleuniverso per ‘servizi televisivi gruppo Pd nella provincia di Frosinone’, per la stessa emittente altri 25mila euro per ‘realizzazione e messa in onda di numero 10 servizi e numero 13 trasmissioni de il Nodo’. Ma Montino non si scompone e parla di una sorta di finanziamento indiretto a realtà giornalistiche, falcidiate dai tagli all'editoria.
“IL CASO CITATO – spiega il capogruppo Pd – riguarda una provincia colpita dai provvedimenti della politica sanitaria della giunta Polverini”, ma il punto non riguarda questo o quel tema, quanto piuttosto la necessità di pagare le emittenti. “Sosteniamo tv e giornali in modo che si possa differenziare il panorama informativo a livello locale”. Insomma, il Pd sceglie discrezionalmente gli organi di informazione, li sostiene per migliorare la presenza in tv del partito e dare visibilità alle questioni politiche avanzate. Non solo la Ciocia-ria, soldi anche a Tele Rieti per diversi servizi tv e coperture di convegni, ad esempio 480 euro per ‘Riforma dei consultori si apra un confronto’, altri 720 euro per la ‘conferenza stampa presentazione piano casa’.
Quasi 8mila euro all'A. g.t. i, agenzia giornalistica televisiva italiana per “riprese televisive anno 2010”, altri 12mila euro alla stessa agenzia per “riprese e servizi televisivi messa in onda su rete oro e canale 926 Sky”. Altri 25mila euro sono andati a Nuovo Paese sera per ‘pubblicazione e diffusione materiale informativo gruppo Pd Lazio, politiche sociali e sanitarie’. Oltre sette mila euro vanno a Omar Sarubbo per ‘strategie comunicazioni per la provincia di Latina’ prima che lo stesso diventi, dopo lunga militanza, consigliere comunale per il Pd.
Altro capitolo è quello delle cene. Il rendiconto riporta altri 23 mila euro con la dicitura “spese per alberghi, ristoranti e bar” ai quali vanno aggiunti altri 80 mila euro impiegati nell'organizzazione di eventi presso strutture ricettive come hotel rinomati e ristoranti, a volte, senza badare a spese.
COME AL RISTORANTE il Pinzimonio, a Fiumicino, dove per un incontro e un dibattito del gruppo Pd, come riportato in rendiconto, si sono spesi 8 mi-la euro. Anche se nel piccolo ristorante le chiacchiere si possono fare solo al tavolo e per pochi intimi. All'agriturismo Il Borghetto 5 mila euro tondi tondi per 'un incontro con i cittadini di Fara Sabina’, al ristorante La Foresta quasi 9 mila euro per ‘convegno gruppo Pd’ più altri 9.800 euro per un catering in occasione di un altro incontro. “Ricordo questa occasione – spiega Montino – abbiamo affittato le sale per un numero elevato di persone e poi bisogna considerare anche il rinfresco, una decina di euro a partecipante”. C'è un'altra voce che spunta nel bilancio. Il Pd, nel gennaio 2011, paga 18mila euro all'agenzia Key research per valutare il “sentimento politico cittadini territorio di Frosinone verso la giunta regionale”. Al momento il Pd, assieme ai radicali, è l'unico partito ad avere messo on line il proprio bilancio. “ Noi – conclude Montino – nonostante le velate accuse del Pdl, non abbiamo nulla da temere altrimenti non avremmo pubblicato con questa dovizia di particolari il nostro rendiconto”.

il Fatto 16.9.12
Il Tesoro rottama Renzi: ha buttato sei milioni
Nuova ispezione chiesta sui soldi a Florence Multimedia concessi dall’allora presidente della Provincia di Firenze
di Giampiero Calapà


Sei milioni di euro. Su questa cifra incassata da Florence Multimedia mentre Matteo Renzi era presidente della Provincia di Firenze, la Corte dei conti e il ministero del Tesoro vogliono vederci più chiaro.
A Florence Multimedia – accusa il dicastero dell’Economia e delle Finanze in una contestazione inviata a maggio – la Provincia di Firenze, presieduta da Matteo Renzi dal 2004 al 2009, ha concesso un “irregolare affidamento di servizi per un importo superiore a quello previsto dai relativi contratti di servizio”, con una spesa complessiva di oltre nove milioni di euro; dei quali sei adesso sono sotto l’attenzione dei giudici contabili, che invieranno un ispettore a Firenze e, per evitare eventuali prescrizioni, hanno messo in mora tutti i dirigenti di quel periodo.
Senza, quindi, la procedura prevista dalla legge e senza mai farne parola in Consiglio provinciale, sostiene il Ministero, Florence Multimedia, tra il 2006 e il 2009, incassò 9.213.644 euro. Attraverso “contratti, convenzioni, disciplinari di servizio, affidamenti al lordo (...) il cui importo triplica quello dei contratti di servizio di base”. Già un anno fa il Tesoro aveva, in seguito a un’ispezione, prefigurato un danno erariale alla Provincia proprio nel periodo di presidenza Renzi. E dalla difesa della Provincia a quelle contestazioni è nata la nuova indagine, con tanto di documento, di cui riportiamo le accuse nei virgolettati, inviato lo scorso maggio all’ente locale, sul cui trono nel frattempo non siede più Renzi, diventato sindaco e lanciato proprio in questi giorni nella corsa a Palazzo Chigi.
La società e le accuse di Lusi
FLORENCE Multimedia Srl (“società in house della Provincia di Firenze”, come si legge nel sito internet) è nata nel 2005 per volere di Renzi che lì trasferì l’ufficio stampa, liquidandolo ed esternalizzandolo; con una situazione pessima alla fine dell’avventura dello stesso Renzi in Provincia: buco “superiore al terzo del capitale sociale. (...) Emerge una perdita stimata di 358.865 euro originatasi nel secondo semestre 2009”, c’è scritto nella relazione di quel dicembre degli amministratori della stessa società. Florence Multimedia veicolò, nello stesso anno, campagne promozionali per la Dotmedia, retta da quel Davide Bancarella, in precedenza in forze alla Web & Press edizioni (dal 2007 al 2009). Quest’ultima società è quelladelle fatture, datate proprio 2009, sequestrate dalla Guardia di finanza (una da 36 mila e l’altra da 45660 euro: soldi con cui Renzi ha sempre negato di aver avuto a che fare) dopo le accuse dell’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, in carcere da luglio. Insomma basterebbe questo quadro per creare qualche grattacapo a chi, il sindaco di Firenze Matteo Renzi, si propone, ormai da anni, come il nuovo che avanza.
Quelle scelte non meritocratiche
EPPURE c’è un’altra accusa mossa dal Ministero dell’Economia e che sarà passata al vaglio dell’ispettore della Corte dei conti nei prossimi giorni. Riguarda il direttore unico della Provincia, sostituito da Renzi con un collegio di direzione generale composto da quattro membri “con evidenti e rilevantissimi profili di illegittimità”. Due di quei quattro, segnala Via Venti Settembre, erano dipendenti messi in aspettativa e poi riassunti con un contratto a tempo determinato che portò a un aumento di spesa di ben un milione e 34 mila euro. L’organo monocratico, come ricorda il Ministero nel documento di maggio, “è previsto dall’ordinamento degli enti locali”. Quindi “non si riesce a reperire nessuna ragione logica, prima ancora che giuridica, in forza alla quale soggetti già investiti della qualifica dirigenziale possano essere collocati in aspettativa per essere investiti di un nuovo incarico dirigenziale, questa volta a tempo determinato, molto più oneroso del precedente”. L’accusa è grave e precisa, si tratterebbe di “illegittima attribuzione di quattro incarichi di direzione generale”. I rilievi del Ministero sul Renzi-che-fu non sono ancora finiti. Rispetto a dipendenti e dirigenti di quella Provincia il boy scout di Rignano sul-l’Arno avrebbe agito con “mancato rispetto dei principi di selettività meritocratica” con “gravi illegittimità nell’attribuzione di alcuni compensi a carattere indennitario”. Il sindaco se ne lava le mani, “furono scelte degli uffici”, hanno comunicato i suoi alla stampa fiorentina. Ma dopo la condanna in primo grado dell’agosto 2011, per 50mila euro di danno erariale, si profilano altri guai dalle indagini della Corte dei conti, mentre la Provincia è solo un lontano ricordo e, adesso, Renzi sogna Palazzo Chigi.

il Fatto e The Independent 16.9.12
Sabra e Chatila
Entrai in quel campo, ecco ciò che vidi
Puzza di morte: è l’orrore della Storia
di Robert Fisk


Quei ricordi, ovviamente, non si cancellano. Lo sa bene l’uomo che aveva perso la sua famiglia in un precedente massacro e poi vide, impotente, i giovani di Chatila costretti a mettersi in fila e a marciare verso la morte. Ma il tanfo dell’ingiustizia soffoca ancora i campi profughi nei quali esattamente 30 anni fa furono massacrati 1700 palestinesi. Nessuno è stato processato e tanto meno condannato per quel massacro, che persino uno scrittore israeliano paragonò all’assassinio dei partigiani jugoslavi ad opera dei simpatizzanti nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Sabra e Chatila sono un monumento eretto ai criminali che l’hanno fatta franca.
KHAKED ABU Noor era un adolescente, un futuro miliziano ed era partito per le montagne poco prima che i falangisti alleati di Israele facessero irruzione. Si sente in colpa per non aver potuto combattere contro i violentatori e gli assassini? “Il sentimento che ci accomuna è la depressione”, mi risponde. “Abbiamo chiesto giustizia, abbiamo invocato processi internazionali, ma nulla è accaduto. Nemmeno una sola persona è stata ritenuta colpevole di quell’orrore. Nessuno è finito dinanzi ad un tribunale. Forse per questo abbiamo dovuto soffrire ancora nella guerra del 1986 (per mano dei libanesi sciiti) e forse per questo gli israeliani hanno potuto massacrare moltissimi palestinesi nel 2008-2009 durante l’invasione di Gaza. Se i responsabili del massacro di trenta anni fa fossero stati processati, non ci sarebbero stati i morti di Gaza”. Ha le sue ragioni per pensarla a questo modo. L’11 settembre a Manhattan decine di presidenti e primi ministri hanno fatto la fila per commemorare le vittime dell’attentato criminale al World Trade Center, ma nemmeno un leader occidentale ha avuto il coraggio di far visita alle fosse comuni sudice e spoglie di Sabra e Chatila. Ad onor del vero, va detto che in trenta anni nemmeno un solo leader arabo si è preso la briga di visitare il luogo in cui riposano almeno 600 delle 1700 vittime. I potenti del mondo arabo piangono, a parole, per la sorte dei palestinesi massacrati nei campi, ma nessuno ha voluto affrontare un breve volo per rendere omaggio a questi morti dimenticati.
E poi chi se la sente di offendere gli israeliani o gli americani? Per ironia – ma significativa – del destino, il solo Paese che ha svolto una seria indagine ufficiale, pur finita in un nulla di fatto, è stato Israele. L’esercito israeliano lasciò entrare gli assassini nei campi e rimase a guardare senza intervenire mentre le atrocità si consumavano.
La testimonianza più significativa è quella fornita dal sottotenente israeliano Avi Grabowsky. La Commissione Kahan ritenne l’allora ministro della Difesa di Israele, Ariel Sharon, personalmente responsabile per aver consentito ai sanguinari falangisti anti-palestinesi di fare irruzione nei campi “per ripulirli dai terroristi” – rivelatisi inesistenti come le armi di distruzione di massa dell’Iraq 21 anni dopo. Sharon fu costretto a dimettersi, ma in seguito divenne primo ministro fin quando fu colpito da un ictus. Elie Hobeika, il leader della milizia cristiana libanese che guidò gli uomini nei campi – dopo che Sharon aveva detto ai falangisti che i palestinesi avevano appena assassinato il loro capo Bashir Gemayel – fu assassinato qualche anno dopo nella zona est di Beirut. I suoi nemici dissero che era stato ucciso dai siriani, i suoi amici incolparono gli israeliani. Hobeika, che aveva stretto una alleanza con i siriani, aveva appena annunciato che avrebbe “detto tutto” sulle atrocità di Sabra e Chatila dinanzi ad un tribunale belga che voleva processare Sharon.
Naturalmente quanti di noi entrarono nei campi il terzo e ultimo giorno del massacro – il 18 settembre 1982 – hanno i loro ricordi. Io ricordo il vecchio in pigiama disteso a terra supino nella strada principale del campo con accanto il suo innocente bastone da passeggio, le due donne e il bambino uccisi accanto a un cavallo morto, la casa privata nella quale mi nascosi dagli assassini insieme al collega del Washington Post, Loren Jenkins. Nel cortile della casa trovammo il cadavere di una giovane. Alcune donne erano state stuprate prima di essere uccise. Ricordo anche la nuvola di mosche, l’odore penetrante della decomposizione. Queste cose le ricordo bene.
ABU MAHER ha 65 anni. La sua famiglia era fuggita da Safad, oggi Israele, e abitava nel campo profughi nei giorni del massacro. Sulle prime non voleva credere alle donne e ai bambini che gli dicevano di scappare. “Una vicina di casa cominciò ad urlare, guardai fuori e vidi mentre la uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. La figlia tentò di fuggire; gli assassini la inseguirono gridando ‘Ammazziamola, ammazziamola, non ce la lasciamo sfuggire!’. Lanciò un grido verso di me, ma io non potevo fare nulla. Ma riuscì a salvarsi”. Le ripetute visite ai campi, anno dopo anno, hanno creato una sorta di narrazione ricca di stupefacenti particolari. Le indagini condotte da Karsten Tveit della Radio norvegese e da me hanno provato che molti uomini, proprio quelli che Abu Maher vide marciare ancora vivi dopo il massacro iniziale, in seguito furono consegnati dagli israeliani agli assassini falangisti che li tennero prigionieri e Beirut est per diversi giorni e, quando si resero conto che non potevano servirsene per scambiarli con ostaggi cristiani, li giustiziarono e li seppellirono in fosse comuni.
Altrettanto atroci e crudeli le argomentazioni a favore del perdono. Perché ricordare alcune centinaia di palestinesi massacrati quando in 19 mesi in Siria furono uccise 25.000 persone? I sostenitori di Israele e i critici del mondo musulmano negli ultimi due anni mi hanno scritto insultandomi per aver più volte raccontato il massacro di Sabra e Chatila, come se il mio resoconto di testimone di quelle atrocità fosse soggetto alla prescrizione. Sulla base dei miei interventi su Sabra e Chatila raffrontati con miei articoli sull’oppressione turca, un lettore mi ha scritto che “sono portato a concludere che nel caso di Sabra e Chatila, lei mostra un pregiudizio contro Israele. Giungo a questa conclusione per il numero sproporzionato di citazioni di questa atrocità…”. Ma è possibile esagerare nel ricordare un massacro? La dottoressa Bayan al-Hout, vedova dell’ex ambasciatore a Beirut dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha scritto la più autorevole e dettagliata ricostruzione dei crimini di guerra di Sabra e Chatila – perché di questo si è trattato – ed è giunta alla conclusione che negli anni seguenti la gente aveva paura a ricordare.
“POI ALCUNI gruppi internazionali hanno cominciato a parlarne. Dobbiamo ricordare: le vittime portano ancora le cicatrici di quei fatti e ne saranno segnati anche coloro che debbono ancora nascere”. Alla fine del libro, al-Hout pone alcuni interrogativi difficili e pericolosi: “Gli assassini sono stati i soli responsabili? Possiamo definire criminali solo gli autori del massacro? Solo chi diede gli ordini può essere considerato responsabile? ”. In altre parole, non è forse vero che il Libano aveva un parte di responsabilità a causa dei falangisti, Israele un’altra parte a causa del comportamento del suo esercito, l’Occidente un’altra parte per avere Israele come alleato e gli arabi un’altra parte per avere gli americani come alleati? Al-Hout chiude citando le parole con le quali il rabbino Abraham Heschel si scagliò contro la guerra del Vietnam: “In una società libera alcuni sono colpevoli, ma tutti sono responsabili”.
© The Independent, Traduzione di Carlo Biscotto

il Fatto 16.9.12
I morti e i vivi, una strage lunga 40 ore
Il libano e la rimozione della grande vergogna
di Roberta Zunini


Beirut Un cane randagio dorme accanto al piccolo massetto di marmo su cui appassiscono due solitarie corone di fiori, ignaro di essere accucciato sulla terra che ricopre dal settembre del 1982, i corpi di bambini, donne e anziani soprattutto palestinesi, ma anche libanesi, trucidati, smembrati, sgozzati e sventrati, nel vicino campo profughi di Sabra e Chatila dai falangisti cristiani. Dopo aver schivato paccottiglie varie, pile di ciabatte di plastica e computer di contrabbando, allineati senz'ordine sul marciapiede fino al cancello d'ingresso di questo spiazzo vuoto, grande non più di 500 metri quadrati, la sensazione che si prova è di squallore e desolazione. Sopra la fossa comune solo terra riarsa, qualche bottiglietta d'acqua vuota buttata qua e là, un pacchetto di sigarette accartocciato e quattro bandierine palestinesi ammosciate dietro una povera sfera di alluminio.
I cartelloni con le foto dei corpi ammassati sono sbiaditi e ricoperti di polvere. Questo indegno cimitero è la prova che gli uomini – gli autori del massacro quanto la comunità internazionale – non intendano, ancor oggi, assumersi la responsabilità di quanto accaduto. Come leggere altrimenti questa incuria? Osservando come vengono trattati i familiari dei morti, i sopravvissuti e, in generale, tutti i profughi palestinesi che oggi vivono nel campo, si ha un'ulteriore prova della totale indifferenza del mondo nei confronti di quanto accadde 30 anni fa.
BASTA SPOSTARSI di poche centinaia di metri dal cimitero e si incrocia Sabra, che è la via d'accesso al campo di Chatila. Un odore di pollame e fogna a cielo aperto dà il benvenuto. Da lì in poi solo vicoli stretti, bui, grondanti di fili elettrici scoperti che sfiorano le teste dei 12mila abitanti registrati dall'ente Onu che dovrebbe provvedere alla pulizia, all'istruzione, al rifornimento di medicinali. In uno dei tanti cubi di cemento che arrivano fino a 5 piani lavora Nasser Saleh. “Idee tante per migliorare la vita dei profughi ma pochissimi soldi”, dice mentre bussano alla porta. Portare a termine un discorso è quasi impossibile: il pellegrinaggio di derelitti che vengono a implorare questo giovane libano-palestinese di trovare loro un lavoro, di dar loro un po’ di soldi per le loro case, di mandare i genitori nell'ospedale di un altro campo, è infinito. La disoccupazione è altissima anche perché dal 1997 i rifugiati palestinesi non possono fare lavori fuori dal campo. Nemmeno gli spazzini. Ma è proibito soprattutto svolgere professioni che richiedono l'iscrizione agli albi professionali: medici, ingegneri, avvocati che sono riusciti a laurearsi, possono lavorare solo dentro questa prigione a cielo aperto. Così i loro padri, sono costretti a cercare altre fonti di guadagno. O prendere la tessera di Hamas o Fatah, i partiti palestinesi che hanno una rappresentanza nel campo e offrono cibo e denaro da mettere da parte per cercare di andare illlegalmente in Europa o negli Usa.
Ogni anno dal campo scappano centinaia di persone. “Vorremmo andarcene legalmente ma ottenere un permesso di studio o di lavoro è quasi impossibile. Bisogna che un cittadino del paese dove decidiamo di andare presenti al proprio ministero un invito che serve da garanzia. Funziona così anche se vogliamo andare a fare un viaggio”, ci spiega in inglese Lara, una bellissima 17enne, figlia di Maria, una sopravvissuta palestinese di religione cristiana e Ahmed, scampato al massacro di Tel al-Zaatar. Maria aveva 7 anni la notte in cui iniziò la strage, durata 40 ore. Passiamo con Ahmed davanti a un garage trasformato in cimitero: sotto una colata di cemento ci sono 700 corpi. Ma si tratta dei morti della rivolta dei campi del 1985. “Meglio la morte che una vita senza diritti, emarginati e allontanati da tutti”, dice con le lacrime agli occhi.

il Fatto 16.9.12
La vita nelle tendopoli trent’anni dopo
I profughi infiniti tra i lussi di Beirut
di Francesca Borri


Beirut Caffè e cornetto sono 10 dollari, la mattina, nella Beirut che veste Prada e ancora parla francese. A cinque minuti di distanza, è quanto un palestinese riceve ogni tre mesi dalle Nazioni Unite.
Trent'anni dopo, Sabra e Chatila è un groviglio di cavi, in inverno con la pioggia sembrano stelle filanti. Rubano corrente alla rete libanese, la prima causa di morte, qui, è la folgorazione, tra case che all'interno sono topi, un televisore una lampada a pile, nient'altro, nell'angolo materassi e coperte. Una donna sbuca all'improvviso, urla che gli israeliani sono alle porte, urla di correre via: fa così dal 18 settembre 1982, è l'unica sopravvissuta, della sua famiglia. La trovarono sotto i fratelli, i corpi squarciati, aveva 11 anni. Il padre collassò di infarto mentre un falangista la stuprava. Catene di altalene cigolano nel vento, sono i resti di un luna park, il carretto del gelataio, una piccola ruota panoramica – dal mozzicone di un edificio bruciato un ragazzino sniffa benzina. Sono tutti negozi di usato, vecchie scarpe, vecchi elettrodomestici, quei negozi che neppure capisci cosa vendono, perché vendono tutto quello che capita a tiro. E questi bambini che sembra sempre abbiano otto anni, poi chiedi e ne hanno quindici, è l'effetto della malnutrizione, uomini senza denti a quarant'anni, la pelle arata dalla rughe. Fadi Abdelrahim abita un interrato assieme a moglie e tre figli. Gli hanno amputato una gamba. L'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi, non aveva 200 dollari per le medicine. Anche se ne ha 9mila al mese per lo stipendio del suo direttore. Quella che gli israeliani chiamano guerra di indipendenza, era il 1948, è per i palestinesi la nakbah, la catastrofe. Oltre 750mila profughi, lievitati oggi a 5 milioni. Sono l'11 percento della popolazione, in Libano: 450mila rifugiati diluiti in 12 campi, in media 40 metri quadri per 5 persone e per metà niente acqua, né elettricità né fognature. Il 65% è sotto la soglia di povertà, il 30% all'ergastolo di una malattia cronica.
Con la sua Assomoud, Kassem Aina tenta di fare tutto quello che dovrebbe fare l'Unrwa. “Perché se avessimo casa e lavoro, si dice, una vita normale, perderemmo ogni interesse a tornare in Palestina, e opporci a Israele. E quindi non è questione di violazione, qui, ma di eliminazione di ogni nostro più basilare diritto”. A cominciare dal diritto al lavoro. Per molte professioni, medici, tassisti, ingegneri, la regola è la reciprocità: il trattamento è analogo a quello che il proprio paese riserva ai libanesi. “Un non-senso per noi che non abbiamo uno stato”. Per le altre, è necessario un permesso di lavoro: e nell'ultimo anno, i palestinesi hanno ottenuto 99 permessi su un totale di 145.684. “L'obiettivo è non dimenticare la nakbah. Ma il risultato intanto è continuarla”.
Perché quella di Sabra e Chatila è la più nota delle stragi: ma non è stata la sola, qui, né la più feroce. Nel 1976 estremisti cristiani assediarono il campo di Tal al-Zaatar. Alla resa, dopo due mesi e 4mila vittime, spararono su quanti si trascinavano fuori in cerca di acqua e cibo. Nel 1985, dal campo di Burj el-Barajneh chiesero agli ulama se il Corano autorizzasse a mangiare carne umana: sono finiti anche i gatti, spiegarono. Erano gli anni in cui i palestinesi, sunniti, venivano falcidiati degli sciiti di Amal. 5mila vittime. Oggi gli sciiti sono quelli di Hezbollah, icona della resistenza a Israele. E sono al potere: ma la condizione dei palestinesi non è cambiata. “Diciamo così: sono gli unici a non averci mai ucciso”, sintetizza Kassem.
Nel 2001 il Parlamento, all'unanimità, ha vietato ai palestinesi di essere intestatari di beni immobili. Né possono lasciare in eredità quelli di cui già sono proprietari: un'espropriazione collettiva. “Come quelle di Israele nei Territori”.
Sabra e Chatila è il campo più frequentato da cooperanti, giornalisti, pacifisti. Eppure il più significativo è a sud di Saida, si chiama Ein el-Hilweh e ha 70mila abitanti. È completamente sigillato da check-point e filo spinato. Perché è un po' la Scampia dei rifugiati: sparatorie, faide. Cecchini sui tetti. Ma questa volta, non dipende da Israele. Tutti i partiti hanno qui i loro uffici principali e tutte le milizie. Perché l'esercito libanese controlla solo gli accessi: all'interno, governano i comitati popolari. Ma inutile domandare come funzionano, nessuno sa niente. “Tutto si risolve tra famiglie”, spiega Jaber Suleiman. “E cioè prevale il più forte”. Presiede la Coalizione per il ritorno, che riunisce tutte le ong. Ma su strategia e progetti risponde vago: informazione, sensibilizzazione. Suona kafkiano: ma come difendere diritti che non esistono? Ramallah è affollata di avvocati. Qui sono tutti assistenti sociali – non è che un reciproco medicarsi le proprie ferite. Lo strumento per la battaglia, in realtà, esiste: è l'Olp. Ma da quando il processo di Oslo ha istituito l'Autorità Palestinese, funziona sempre meno. A gennaio 2011, Wikileaks ha tranciato ogni illusione: per i negoziatori di Mahmoud Abbas, “la soluzione della questione dei rifugiati non sarà basata su un'interpretazione rigorosa del diritto internazionale”. E cioè sul ritorno, imposto dalla risoluzione Onu 194. “Ma posso capirli”, dice Hanan Masri, portavoce di Assomoud. “Non esiste più un unico popolo palestinese. Gaza con l'assedio, la Cisgiordania con l'occupazione... Gerusalemme con le demolizioni di case: ognuno ha i suoi problemi”. Ha due sorelle in Egitto, Hanan, una in Brasile, due negli Usa, un fratello in Arabia Saudita. Dei suoi due figli, uno è in Brasile.
Perché l'altro Perché l'altro campo di cui nessuno ama parlare è Wavell, vicino Baalbek. Ribattezzato “il campo danese”: dei 436mila rifugiati registrati, uno studio dell'American University di Beirut ha stimato ne rimangano in Libano circa 280mila. “Un tempo l'eroe era il ragazzo in kefiah e fionda dell'intifada”, spiega Mohammed Khazaal. “Oggi è il ragazzo che attraverso una ong straniera ha un invito in Europa, e lì fa perdere le sue tracce”. Perché partire, provare a realizzare se stessi, è considerato tradire. “Ma sopravvivere non è resistere. Un solo Edward Said è stato più utile di decine di migliaia di noi inchiodati qui analfabeti a sprecare le nostre vite”. Ha 28 anni, Mohammed. Ha provato a entrare in Europa quattro volte. Siria, Turchia, Grecia. Il Cie di Bari. “Sono tutti con Assad, adesso. Perché dicono che è l'ultimo baluardo contro Israele. Ma la verità è che con il pretesto di Israele si giustifica ogni oppressione, qui, ogni crimine. Sono trent'anni anche dalla strage di Hama, in questi giorni, 30mila morti per mano di suo padre Hafez: ma quanti conoscono la storia di Hama?
Tutti che si proclamano paladini della mia libertà: e io intanto neppure ho l'elettricità. Ricordare Sabra e Chatila, per me, essere palestinese, oggi, significa non dimenticare la Siria”.

l’Unità 16.9.12
Mosca torna in piazza. Contro Putin e il carovita


Migliaia di russi sono scesi in strada ieri a Mosca per la «Marcia dei milioni», la manifestazione che ha aperto la nuova stagione di proteste anti-Putin e ha testato le forze dell’opposizione a quattro mesi dal ritorno di Vladimir Vladimirovich al Cremlino. Sotto il comune slogan «Contro la repressione» e «Per elezioni anticipate», si sono riuniti per la prima volta liberali, comunisti, nazionalisti, ecologisti e una miriade di gruppi e movimenti nati negli ultimi mesi: il neonato partito del 5 dicembre; gli ex osservatori alle presidenziali di maggio; ex marinai; attivisti per i diritti degli omosessuali; insegnanti e sostenitori delle Pussy Riot, che hanno marciato con tre palloni giganti colorati con scritto «Free Pussy Riot».
Per il ministero dell'Interno, i partecipanti sono stati 14.000, 100.000 per gli organizzatori. Ma dietro le quinte della manifestazione si parlava di un più realistico 60.000, numero al di sopra delle aspettative, ma inferiore ai primi grandi cortei che a dicembre avevano portato in piazza fino a 100.000 persone contro i brogli elettorali nelle parlamentari. Più dei 25.000 autorizzati dalle autorità, che però si sono guardate bene dal contestare agli organizzatori un eccesso di presenze.
«Siamo tanti e diversi, come nel nostro Paese ha commentato Evghenia Chirikova, leader ecologista e candidata sindaco a Khimki, periferia di Mosca è la prova del risveglio della società civile e ora dobbiamo andare avanti con tutti i mezzi legali per ottenere un reale cambiamento del sistema dal basso». Tra i manifestanti pochi nastri bianchi (iniziale simbolo della protesta) e alcune caricature di Putin (ispirate al suo ormai famigerato viaggio con le gru in deltaplano, quando ha scortato in volo la migrazione degli uccelli nati in cattività.
Rispetto al passato, molti più slogan che ponevano l’accento sulla giustizia sociale come, «il potere ai milioni e non ai milionari» che non contro il leader russo. Tra le richieste della piazza, oltre alla liberazione dei prigionieri politici e alle elezioni anticipate, anche il congelamento delle tariffe, il cui aumento è entrato in vigore il primo luglio; la tutela del sistema pensionistico e garanzie per il diritto allo sciopero.
Dopo un percorso di tre chilometri, snodatosi tra piazza Pushkin e Prospettiva Sakharov e sotto il controllo di 7.000 agenti, il corteo si è radunato ad ascoltare alcuni degli esponenti del movimento intervenuti dal palco. Il più acclamato è stato l'ex deputato Gennady Gudkov, a cui la Duma venerdì scorso ha revocato il mandato, perchè accusato dalla magistratura di svolgere attività commerciali incompatibili con l’attività parlamentare. «Non c’è più una Costituzione e non c’è più un Parlamento da rispettare in Russia», ha gridato al microfono tra gli applausi.
Putin continua a definire gli oppositori come una minoranza che non ha il sostegno del resto del Paese. La protesta si è svolta in numerose altre regioni, senza però raggiungere i numeri della capitale: 2.000 persone a San Pietroburgo e solo poche decine ad Arkhangelsk, Vladivostok, Barnaul, Briansk, Volgograd, Ekaterinburg, Samara, Ufa e Tomsk.
Serghei Udaltsov, leader del Fronte di sinistra, ha convocato la prossima manifestazione per il 20 ottobre. «Preparatevi a scendere in piazza come se andaste a lavoro ha esortato il famoso blogger Alexei Navalny sfidare Putin sarà un cammino lungo».

Corriere 16.9.12
Radiografia di un leader cinese Il ritorno di Xi scatena la Rete
Giacca, pettinatura, mimica facciale: le sue foto studiate in dettaglio
di Marco Del Corona


PECHINO — Xi Jinping è tornato. Ieri mattina l'agenzia Xinhua ha fotografato il numero uno in pectore della Cina mentre visitava l'Università di Agricoltura di Pechino, salutando studenti e bambini. Le immagini che sono state fatte circolare hanno mostrato Xi sorridente. Giacca scura con la zip sopra una camicia bianca senza cravatta, com'è appropriato per un leader durante una sorta d'ispezione. Il cinquantanovenne Xi non appariva in pubblico dal 1° settembre, sostituito da una massa di voci inverificabili: un infortunio alla schiena ricavato nuotando o giocando a calcio, un tumore operato nelle sue primissime fasi, una drastica cura dimagrante, un tentativo di omicidio a cui sarebbe sfuggito, un attacco cardiaco, un ictus o problemi politici in vista del congresso del Partito comunista previsto nelle prossime settimane.
Il silenzio ermetico che le autorità cinesi hanno mantenuto sulle ragioni della sparizione di Xi ieri non è svanito. Il breve dispaccio dell'agenzia di stampa di Stato non ha fatto menzione ad alcunché mentre sui microblog i commenti dei cittadini continuano ad aggirare le parole vietate (da «Xi» in poi) utilizzando formule come «principe della corona» o scherzando con espressioni tipo «How is she?», («she» che suona quasi come Xi). La pubblicazione di un suo discorso alla Scuola del Partito e, in settimana, di un necrologio a nome di Xi per un veterano non aveva frenato i pettegolezzi.
«Il cibo è il bisogno primo del popolo. La sicurezza alimentare è un tema importante per la vita delle persone»: le parole che Xi avrebbe pronunciato nel campus hanno sì menzionato un argomento al quale l'opinione pubblica è sensibilissima (i casi di intossicazioni sono continui) e si sono sì riallacciate alle antiche competenze tecnico-accademiche dello stesso Xi, tuttavia non hanno chiarito nulla del misterioso blackout di due settimane. Durante il quale Xi, squassando un protocollo abitualmente minuzioso, aveva disertato incontri con Hillary Clinton e con i premier di Singapore e Danimarca.
Le immagini di Xi sono state studiate come le riprese del processo a Gu Kailai, la moglie dell'esponente «neomaoista» Bo Xilai condannata per l'omicidio del britannico Neil Heywood. Se nel caso di Gu il sospetto è che nel tribunale di Hefei non sia comparsa lei ma una sosia, stavolta sono state osservate la vivacità degli occhi, l'espressione della bocca, la pettinatura. Testimoni hanno riferito di applausi e di un gesto come per dire: «Eccomi, sono io e sto bene».
Al netto della ricomparsa di Xi e dunque di un relativo rasserenarsi del clima prima del congresso (ancora senza data) che ridefinirà la leadership, restano gli interrogativi. Anche quelli — decisivi — su modalità di comunicazione che si rivelano ferme al passato. Un'ossessione per la segretezza da Partito comunista clandestino che stride con il ruolo globale della seconda potenza economica che tuttavia tende a proporre all'esterno la stessa scarsissima trasparenza che riserva alla propria opinione pubblica. Conta il segreto di Stato, più che la tutela della privacy. La gestione dell'assenza di Xi, sommata alle ramificazioni del caso Bo Xilai (il suo ex capo della polizia dovrebbe essere processato dopodomani per diserzione e corruzione), ha agitato il pre-congresso. E nella giornata in cui decine di città della Cina hanno assistito a violente manifestazioni anti giapponesi per le isole contese Diaoyu/Senkaku, lo stato della leadership di Pechino non può essere solo una questione di igiene.

Repubblica 16.9.12
Occupy Wall Street
Quel che resta del 99 per cento
di Adriano Sofri


Non si tratta di abolire la disuguaglianza, ma di taglirle le unghie senza abolire il capitalismo, sempre che l’arraffa-arraffa di oggi possa ancora vantarsi capitalismo

C’è una clessidra. I movimenti cresciuti spontaneamente dal basso sono destinati a declinare e consumarsi, e lasciare di nuovo il posto alla politica verticale e ai poteri costituiti. È vero? È vero. Ma la politica verticale e i poteri costituiti sono destinati a logorarsi e strafare, aprendo la strada ai movimenti cresciuti spontaneamente dal basso. Non è vero? A volte, una ventata più forte rovescia la clessidra. Dunque, a che punto siamo? Nel luglio di un anno fa una rivista canadese legata a una fondazione ambientalista e anticonsumista, convocò per il 17 settembre una occupazione pacifica di Wall Street. Non so se pensassero davvero che succedesse: successe. Il loro proposito era di ripetere a New York l’occupazione di piazza Tahrir al Cairo e di Puerta del Sol a Madrid.
Esperti com’erano di malizie pubblicitarie, produssero un manifesto meraviglioso: una ballerina che esegue la sua figura di danza su un piede solo, sul dorso dello scalpitante toro di bronzo (siciliano) che è diventato il simbolo della Borsa. Per qualche mese quel rodeo visse il suo stato di grazia. «Dove andrà a finire questa armata Brancaleone?» si chiedeva già con piena simpatia Riccardo Staglianò nel suo libro-reportage da Occupy Wall Street. A guardarlo dalla Piazza Tahrir di oggi, dove le donne hanno paura di passare, dal Cairo nel quale i manifestanti strappano la bandiera sull’ambasciata americana, il bilancio è quasi irridente. E lo è altrettanto a guardarlo dalla campagna elettorale di Mitt Romney e del suo sincero disgusto per i poveri. Ma la lena dei movimenti non si misura su un anniversario. Che Occupy Wall Street, e Zuccotti Park, non potesse durare quanto proclamava — «per sempre» — era nel conto. Sulla democrazia diretta piove, e le polizie sono manesche e quando trovano migliaia di libri prima chiedono sbigottite: «Ma li avete letti tutti?», poi li squinternano, e la divisione fra chi ha una doccia a portata di piedi e chi no si fa sentire e così via. Anzi, Ows ha avuto il pregio di fornire dei resoconti così sensati e istruttivi dei problemi che incontrava, gabinetti e docce compresi, da far rimpiangere che non si facesse altrettanto ai tempi andati, quando la politica era tutto.
Del resto il capitale finanziario è storia antica, ma ancora nel famoso Sessantotto il colmo del cedimento umano, come dicevano le canzoni, era di diventare bancario, e il banchiere era ancora una figura astratta. Ora, il desiderio di mettere in galera i banchieri è diventato vasto e pressoché irresistibile, e intanto i banchieri menano le danze internazionali, aggrappati mani e piedi alla groppa del toro furente, e vanno a presiedere i governi dei paesi col debito in emergenza. I bancari: licenziati. A leggere quelle belle cronache sulla vita quotidiana e la democrazia diretta di Occupy — a New York e nelle centinaia di altre città in cui si è tentata — viene voglia di accostarla a quello che succede in una tendopoli di terremotati emiliani, non so, a distanza di qualche mese: dove chi poteva è andato altrove, e rimane chi non poteva, i vecchi soli, i barboni, gli stranieri poveri, e si radunano e si separano per tribù. Era bella, la stagione originale del movimento, con le frasi degli oratori ripetute senza microfono da un ascoltatore all’altro, come in un gioco del telefono di cui si potessero controllare equivoci e distorsioni: e del resto il Discorso della Montagna fu tenuto senza microfono, ed ebbe una risonanza forte.
Che cosa è restato? Be’, la Robin Tax, per esempio. Non è un errore di stampa, come conferma il cartello: «Robin Hood aveva ragione». È restata l’idea che una colossale disuguaglianza è insopportabile, e che è una buona ragione per proporre un cambiamento a quasi tutti. Non “ai delusi di Obama”, e nemmeno “ai delusi di Berlusconi”: a quasi tutti, al 99 per cento. Intendiamoci: anche di quel «siamo il 99 per cento» si sapeva che semplificava un po’ le cose, e oltretutto nelle specificazioni l’Uno per cento deteneva di volta in volta un quinto, o il 40 per cento, o il 75 per cento della ricchezza, e tuttavia era comunque un’enormità. Il 99 per cento di Stiglitz era una metafora leggera e spericolata come la ballerina sul toro alla carica, ed era facile obiettare: diciamo che il 99 per cento controlla il 60 per cento, l’1 per cento di quel 99 quanto controlla? E così via — come Achille e la tartaruga: si arriverà mai al proletario in fondo — all’1 per cento che tiene sulle spalle, come Atlante, il restante 99?
È un fatto che una netta maggioranza di americani aveva simpatizzato per Ows, e l’idea è chiara: non si tratta di abolire la disuguaglianza, ma di tagliarle le unghie. Che poi questo possa avvenire senza abolire il capitalismo, è altra questione: come quella se l’arraffa- arraffa contemporaneo possa ancora vantarsi capitalismo. E quella della criminalità: Roberto Saviano (il suo ricordo di Ows uscirà su D di Repubblica) andò a Zuccotti Park a parlare da italiano di mafia e finanza al tempo della crisi, e di come combatterla.
Intanto, Ows è restata pacifica e gli aeroplanini di carta lanciati contro le banche d’affari nella città dell’11 settembre sono un’altra bella metafora. L’onda di Ows non si è mutata in risacca, e nemmeno le primavere arabe hanno rovesciato per intero le loro promesse. Agli oltranzisti della finanza rapace seccherebbe molto, immagino, di essere paragonati ai salafiti delle primavere arabe, ma giocano anche loro col fuoco. Domani Ows si commemorerà, o inaugurerà il suo secondo autunno, e le elezioni presidenziali sono lì alla porta. Il miliardario Buffett dichiarò di voler pagare di tasse almeno quanto la propria segretaria, e Obama trovò, un po’ in lui, un po’ nella gente di Occupy, il coraggio di rivendicare che «un miliardario versasse almeno le stesse tasse della sua segretaria». È, in un compendio eufemistico, la posta delle elezioni, benché non la posta del movimento.
Un mio amico in gamba che ha studiato alla Bocconi mi ha detto di aver imparato una cosa soprattutto: che la cosa più insopportabile per le persone è di essere costrette a vivere peggio di come erano abituate a fare. Nella nostra parte di mondo la povertà esiste eccome, ma è l’impoverimento a segnare l’epoca, ed è l’altra faccia dell’arricchimento sfrenato e oltraggioso. Leggo che «da gennaio ad aprile 2012, il patrimonio delle quaranta persone più ricche del mondo si è accresciuto di 95 miliardi di dollari». Se è insopportabile per le persone, figurarsi per le generazioni intere. Alle quali oggi le autorità competenti illustrano la loro lezione: «Staremo peggio per poter stare meglio». È la ricetta universale, governo Monti compreso. Ma persone e generazioni la capiscono così, che staremo peggio, e basta. L’1 per cento si sbriga a rimettersi in sella, anche dopo le batoste: le fa pagare agli altri. Si fa vedere meno: è la differenza fra il mercato finanziario e la piazza del mercato, la Borsa e il giardinetto di Zuccotti, o della Libertà. Gli affari del mondo non possono regolarsi nella piazza del mercato, nell’agorà della democrazia diretta: però il mondo è pieno di piazze. Alcune, come a Pechino, o a Pyongyang, sembrano fatte apposta per riempirsi di ragazzi coi bonghi.

Repubblica 16.9.12
“Di chi è il Parco? Nostro!”. Ultima marcia a Zuccotti Park
di Angelo Aquaro


Occupy & disoccupy. Quel che resta di Occupy Wall Street saranno pure gli slogan che infiammano Internet, la piazza virtuale che un anno dopo si accende ancora a ogni sfrucolio della protesta, lo sciopero degli insegnanti di Chicago, Mike Bloomberg, il sindaco miliardario che dice che gli homeless a New York nei rifugi cittadini stanno meglio che al Plaza. Quel che resta di Occupy Wall Street sarà pure l’anonimo blogger che richiama alla lotta citando mica Marx o Marcuse o Marcantonio: ma i Beatles —. Sì, il denaro non potrà comprare il loro amore per la rivoluzione. Però quando domattina rimarceranno ancora — e il lunedì 17 rischierà di trasformarsi in un nuovo lunedì nero di Wall Street — non dite che non ve l’avevano detto.
Non dite che non ve l’avevano detto quando li sgombravano da qui, una notte di dicembre di un anno fa, non dite che non l’avevano detto quando urlavano «Whose Park? Our Park!», «Di chi è il parco? Nostro!», inteso naturalmente come Zuccotti, che più che parco — lo vedete, adesso che è cordonato di nuovo dalla polizia? — è più che altro uno stradone con quattro alberi intorno, trasformato in accampamento quando la pazza idea di occupare davvero Wall Street si era scontrata contro il muro dei lacrimogeni. Ecco, vedete, qui all’angolo verso Broadway c’era la libreria sociale, più di cinquemila volumi donati da tutta America, c’erano John Steinbeck e per carità Angela Davis ma mica sproloqui che ai nostri tempi sarebbero stati catalogati alla voce Cgdct: Come Giustamente Diceva il Compagno Togliatti.
Dennis Laumann, che è professore dell’Università di Memphis e comunista vero, iscritto al partito ufficiale d’America, anche lui era salito fin qui dalla città che aveva assassinato il sogno di Martin Luther King: sapendo bene di trovarsi accanto non solo ai delusi di Barack Obama ma anche ai meno arrabbiati dei Tea Party. «Due movimenti nati entrambi dalla frustrazione», spiega adesso Kalle Lasn, il fondatore di Adbusters, la rivista canadese fino ad allora incubo delle multinazionali per aver lanciato il “No Buy Day”, lo sciopero dei consumi. Adesso Lasn annuncia a Repubblica che quel che resta di Occupy potrebbe ritrovarsi in un partito. Ma chi glielo dice a Fernando, Vicente, Angel, Begona, cioè i professorini che qui tutti conoscono solo per nome, i trapiantati spagnoli nelle università Usa che in America hanno portato il seme degli Indignados — chi glielo dice che i ragazzi di Puerta del Sol dovrebbero transoceanicamente unirsi coi nipotini di Sarah Palin?
Ecco, questa qui è invece Trinity Church, la chiesa simbolo all’ombra delle Twin Towers che diventò il tempio dell’11 settembre: anche qui hanno provato a spostarsi i ragazzi di Occupy, cacciati da Zuccotti, da Foley Park e da Thompson Square, dove tutto era davvero iniziato intorno alle birre e ai proclami degli spagnoli. Anche la chiesa alla fine li ha sloggiati. Tutti quei sacchi a pelo allontanavano gli immobiliaristi che coi monsignori di ogni confessione da sempre fanno affari divini: e qui, estrema Downtown, tra Ground Zero e le prime boutique dei quartieri fighetti, da Tribeca in su, c’è ancora tanto spazio per elevare al cielo tante belle torri di Babele. Non sono del resto le costruzioni, come dice il sindaco Bloomberg — accanto alla fabbrica di carta di Wall Street naturalmente — il cuore dell’industria di New York? E allora che cosa vogliono questi ragazzi che parafrasando il nobel Joe Stiglitz denunciano la società dove l’1 per cento possiede tutto e il 99 per cento paga per tutti?
Alla biondina disoccupata che veniva da Worcester, e a Zuccotti ha dormito più di un mese, salgono i brividi quando ricorda la delicatezza con cui Newt Gingrich, l’ex speaker della Camera ai tempi di Bill Clinton e fino a pochi mesi fa pretendente alla nomination di Mitt Romney, ha riassunto la filosofia del movimento: «Vogliono un lavoro? Prima si facciano una doccia». Chissà se lo ricorderanno i ragazzi che proveranno a marciare ancora, a New York, un anno dopo. E chissà se anche la polizia di Mike Bloomberg, un anno dopo, mostrerà la stessa (diciamo così) durezza degli sgomberi che hanno restituito la piazza a John Zuccotti, l’italoamericano alla cui chiara fama imprenditoriale era stato appunto dedicato quello spazio che in origine aveva il destino già nel nome, Liberty Street — finché si scoprì che il Zuccotti doveva al comune la bellezza di 140mila dollari di tasse arretrate. Ai giornalisti scesi a Tampa per la Convention di Romney, Brendan Hunt, neppure trent’anni, uno dei leader di questo movimento senza leader, ha detto che a New York avrebbero dovuto imparare dai modi gentili di Chief Jane, la signora Castor alla guida della polizia della Florida che davanti ai ragazzi che assediavano la kermesse, invece che coi manganelli, s’è presentata con un megafono: per discutere. Occupy & disoccupy: la storia, dicono, non si ripete. Un’altra storia è possibile?

Repubblica 16.9.12
Michelangelo Antonioni. I film che non ho girato
di Mario Serenellini


«Un film non impresso su pellicola non esiste — era solito ripetere — E le sceneggiature son funzioni del film: non hanno autonomia, sono pagine morte». Michelangelo Antonioni aveva sperimentato fin troppo bene la tormentosa inesistenza d’un film soltanto pensato o «scritto», la doppia beffa d’un’opera che c’è e non c’è, che c’è senza esserci. Il suo è per la maggior parte un cinema fantasma. A fronte dei pochi titoli realizzati in una vita quasi centenaria — sedici lungometraggi, una ventina di corti — una valanga di progetti, tra il 1945 e il 1985, rimasti sulla carta: almeno venti lungometraggi e, tra corti e lunghi, venti documentari in soli cinque anni (1945’50). Senza contare i soggetti divenuti film di altri (Caro Ivan, del 1949, sui miraggi dei fotoromanzi, «che Carlo Ponti mi comprò per due soldi dandolo a Fellini, che ne fece
Lo sceicco bianco»), la collaborazione a vari titoli di Visconti (Furore e Il processo di Maria Tarnovska) e quel mare di «pagine morte» che sono le sue idee e ipotesi di cinema.
La sua esistenza è stata scandita da un cinema in stand by: talora realizzato, ma il più delle volte rimasto un abbaglio, una visione illusa, di cui solo il suo sguardo ha trattenuto la traccia, sempre viva e interrogativa. Come se Blow-Up, dove un clic capta il segreto che la realtà cancella, fosse non un suo film ma la sua vita. E chissà se una rassegna del suo cinema «invisibile» — immagini suggerite da parole, dattiloscritti, correzioni — non sarebbe stata più «antonioniana», nonché rivelatrice, della retrospettiva che, per il centenario della nascita (29 settembre 1912), si svolgerà dal 27 alla Cineteca di Bologna. Fatalmente, nel suo cinema, sia realizzato che irrealizzato (al cui viavai dedica un denso saggio l’amico e collaboratore storico Carlo di Carlo, nel volume di Cinecittà International del ’92, in occasione dell’omaggio al Louvre), la sparizione è ricorrente: oltre al black out, in Blow-Up, del cadavere (e del rullino), lo svanire nel nulla dell’amante in L’avventura, la sostituzione d’identità in Professione: reporter, l’appuntamento lasciato morire nel vuoto in L’eclisse (che è già un astronomico sparire e riapparire). Ma è nella filmografia parallela, nel limbo del suo cinema senza ciak, che il leit motiv si fa più tagliente. In Stanotte hanno sparato (1949) — che sarebbe dovuto essere il lungo d’esordio, prima di Cronaca di un amore— nelle righe iniziali del dattiloscritto il cadavere, alla seconda occhiata della giovane alla finestra, è già scomparso. In un progetto tra i più rimpianti, Tecnicamente dolce (1966), «ambientato nella foresta vergine dell’Amazzonia, la più terrificante e meno fotogenica al mondo», nell’intrico impermeabile alla luce del sole «i personaggi rischieranno l’invisibilità». E quel che affascina Antonioni nel conradiano La ciurma, annunciato fin dal 1977, a favore del quale s’era battuto anche Martin Scorsese, è il mistero mai risolto del fatto di cronaca cui s’ispira il soggetto, scritto con Mark Peploe: uno yacht alla deriva nelle acque australiane, tre uomini rinchiusi per giorni nella stiva dallo skipper che, una volta risaliti sul ponte, non troveranno più.
La gran matassa di film irrealizzati ribadisce i temi di predilezione del regista: prima di tutto, l’universo femminile, esplorato in ogni suo aspetto. Tra i documentari mancati: Modelle, Entraîneuses, Indossatrici, Balletto, Le donne di tutti, Conventi di clausura, da cui svilupperà con Tonino Guerra nel 1981 Questo corpo di fango, divenuto nel 1995 il quarto episodio di Al di là delle nuvole. Tra i progetti di fiction: Liliana ha fatto poker (1952), scritto con Suso Cecchi d’Amico, Il bacio di Lesbia (1954), con Ennio Flaiano, Emanuela (1965), con Calvino, Furio Colombo e Guerra, Sotto il vestito niente (1984), dal bestseller di Marco Praga, che la produzione, per l’unanime «vade retro» degli stilisti milanesi al cineasta, si affrettò a dirottare sui Vanzina, con i noti risultati. Ma l’Antonioni sconosciuto riserva anche gustose sorprese: un’inattesa indulgenza per la comicità più popolare (il soggetto scritto per un film di Totò, Totò e il cadavere, di cui ha poi sempre taciuto) e l’inclinazione a uno humour mentale, aritmetico, di marca anglosassone, quando si fa tentare («in un momento di disperazione») dall’adattamento di poesie di Ray McNiece o dei capitoli iniziali della Introduzione alla filosofia matematica di Bertrand Russell. Del primo gli frullano in testa da tempo versi che «potrebbero divenire il nocciolo d’un film comico, orientandone già lo stile: “Pensate a un numero/, raddoppiatelo/, triplicatelo/, elevatelo al quadrato/ e cancellatelo”». (Di nuovo, la sparizione...). Del testo di Russell, «molto serio, ma ricco di trovate comiche», l’attirano passaggi del tipo: «Il rapporto uomo-donna è l’inverso del rapporto donna-uomo». Al regista «pare già di vederle, quelle due coppie a rovescio e gli amici e le situazioni con cui avrebbero a che fare». La parte sommersa dell’iceberg Antonioni rivela infine la lucidità silenziosa, solitaria d’una coscienza cinematografica che in più casi ha anticipato i tempi, a partire da Gente del Po, girato nel 1943 — negli stessi giorni e non lontano dal set di Ossessione di Visconti — che sarebbe stato il suo primo film e il primo film neorealista, se la pellicola, deterioratasi in quegli anni di guerra, non fosse risultata in gran parte inservibile, consentendo solo il montaggio, nel ’47, d’un corto di nove minuti. Perso il primato neorealista, il regista avrebbe potuto tenerne a battesimo la filiazione rosa se gli avessero lasciato girare Pane e fantasiadel ’51 sul milieu del cinema romano, che, con l’aggiunta di amoree della Lollobrigida, avrebbe inaugurato il filone due anni dopo. Oltre a movimenti e mode, la sua libertà d’indagine e l’occhio rapace gli han fatto cogliere umori esplosi poi in almeno due film d’autore.
Le allegre ragazze del ’24, sul fascismo vissuto in provincia dai giovani ignari come una piacevole mascherata, poteva esser già, vent’anni prima di Fellini, un Amarcord ferrarese. Mentre Lolita di Kubrick nel ’62 fece pentire Ponti di non averne prodotto il prototipo italiano, Ida e i porci, su una contadinella che si prostituisce, scritto con De Concini e Sonego nel ’56. Parlando dei suoi protagonisti, sempre frenati, galleggianti in un’eterna sospensione, Antonioni evocava Freud: ognuno di noi, limitato da mille condizionamenti, oppresso da quel che si definisce normale, «non è che un’ombra di quel che potrebbe essere». È la spiegazione del suo cinema dimezzato, d’una produzione debordante diminuita dalle «regole» in un’umiliante impotenza: quel che s’è salvato è l’ombra d’un maestoso naufragio. O il suo occultamento, la sua eclisse.

Corriere 16.9.12
Se Camus divide (ancora) la Francia
di S. Mon.


PARIGI — Dopo lo storico Benjamin Stora, anche il filosofo Michel Onfray non sarà il commissario della grande mostra su Albert Camus prevista ad Aix-en-Provence per l'anno prossimo, 100° compleanno dello scrittore morto nel 1960. Stora era stato messo da parte, ad agosto, proprio per far posto a Onfray, che adesso però rinuncia all'incarico. Ma che cos'ha di tanto sensibile, complicato, un'esposizione su uno dei più grandi autori della Francia del Novecento? A dividere non è tanto la figura letteraria di Camus, quanto la condanna che l'autore dello Straniero pronunciò più volte contro il colonialismo francese in Algeria. «Stora è in ritardo nella presentazione del programma, meglio cambiare», aveva provato a minimizzare Catherine Camus, la figlia dello scrittore. Ma adesso che anche Onfray annuncia il passo indietro, è evidente che sono le polemiche ideologiche in corso da mesi a travolgere il progetto. Stora avrebbe voluto valorizzare l'opposizione di Camus alla guerra, la sua denuncia della tortura e della pena di morte comminata a centinaia di indipendentisti algerini con l'accordo dell'allora ministro dell'Interno e Guardasigilli François Mitterrand. Vicende che a 50 anni dalla fine del conflitto continuano a suscitare forti emozioni in Francia, soprattutto in quel Sud dove è forte la comunità dei pieds-noirs, i rifugiati dell'Algeria francese. Così Stora è stato liquidato; e allora Onfray, il suo successore, è stato automaticamente accusato di essere «l'uomo dell'estrema destra, dell'Oas, del colonialismo, dell'Algeria francese», come egli stesso protesta sul Nouvel Observateur. Non basta a Onfray di avere scritto, mesi fa, un voluminoso saggio biografico su Camus di grande successo: a pochi mesi dall'apertura l'esposizione non ha ancora un curatore. In Francia è ancora difficile mettersi d'accordo su chi è stato Camus, e soprattutto su che cosa è stata la guerra d'Algeria.

l’Unità 16.9.12
Edoardo Amaldi
La vita del fisico una lezione di politica
Negli anni Quaranta in un Paese povero e con scarsa fiducia nella scienza, elaborò il suo progetto di ricostruzione dell’Italia
di Pietro Greco


IL REGISTA DI UN FILM FAREBBE INIZIARE QUESTO RACCONTO ALLA STAZIONE TERMINI DI ROMA. È una sera d’inizio dicembre dell’anno 1938. La cinepresa inquadra due giovani alla soglia dei trent’anni, Edoardo e la moglie Ginestra, mentre agitano le mani in segno di saluto. Una lacrima, appena accennata sul volto di Edoardo. Ginestra invece piange più schietto. Stacco. La cinepresa ora inquadra un treno che parte, accelerando. Dal finestrino un’altra coppia solo di qualche anno più anziana risponde al saluto agitando candidi fazzoletti. La signora si chiama Laura, Laura Capon: è ebrea di nascita. Il giovane marito, appena stempiato, si chiama Enrico. Enrico Fermi, Accademico d’Italia, noto dalle parti di via Panisperna come il papa: sta lasciando, per sempre, l’Italia alla volta di Stoccolma, per ritirare il Premio Nobel per la Fisica che gli è stato appena assegnato. Poi si imbarcherà alla volta degli Stati Uniti d’America.
Nuovo stacco. Sul marciapiede deserto Edoardo indugia, pensoso. Ora è solo, con l’adorata Ginestra. Unico dei «ragazzi di via Panisperna» rimasto in Italia. Ora, pensa, non sono più solamente un fisico, sia pure di primissimo livello. Ora sono chiamato ad assolvere a una nuova funzione. Quella mano con la quale Enrico Fermi continua a salutarlo dal finestrino del treno sempre più lontano gli consegna, idealmente, il testimone della fisica italiana e il compito, davvero improbo, di restituirle la grandezza che sta plasticamente perdendo.
Ma perché Fermi – il riverito Accademico d’Italia e neo premio Nobel – se ne va, per sempre, dall’Italia? Il treno scompare, infine, all’orizzonte. Ancora un attimo, come in sospensione. Poi Edoardo si volta, con decisione, quasi avesse trovato risposta alla sua domanda. Il braccio si stringe introno alle spalle di Ginestra. La cinepresa inquadra la coppia di spalle, mentre esce dalla stazione e si dirige verso casa.
Si riparte. Per qualche tempo – nei mesi successivi – Amaldi riesce a portare avanti, sia pure in condizioni di estremo disagio, l’attività di ricerca alla guida di un piccolissimo gruppo di «giovani romani». Poi è la guerra. E con lei si consuma il definitivo disastro della fisica italiana.
E sì che era stata grande fisica quella svolta in Italia negli anni ’30. Grazie, in particolare a due gruppi. Quello romano di Enrico Fermi – noto come il gruppo dei «ragazzi di via Panisperna» – che ha acquistato la leadership mondiale della fisica nucleare. L’altro, pavano, che con Bruno Rossi è diventato uno dei poli più avanzati al mondo – se non il più avanzato in assoluto – nella fisica dei raggi cosmici.
Il combinato disposto delle leggi razziali del 1938 e della guerra ha consumato, tra l’altro, quello che Edoardo chiama il «disastro» della fisica italiana. I due gruppi non esistono più. Non sono rimaste che poche macerie. È su queste macerie, pensa Edoardo, che occorre ricostruire.
È a partire da questo momento che la vita di Amaldi si trasforma in una limpida lezione di politica. In primo luogo occorre analizzare le cause che hanno portato in pochi anni, addirittura in pochi mesi, la fisica italiana al disastro, partendo da una condizione di leadership assoluta in due campi: quello nucleare e quello dei raggi cosmici. Tra le condizioni al contorno ci sono, determinanti: il fascismo, le leggi razziali, la guerra. Ma il disastro della fisica si è consumato anche per cause specifiche. Fermi è partito anche e soprattutto perché il regime che pure lo aveva nominato, giovanissimo, Accademico d’Italia non ha «creduto» nella sua fisica. Forse neppure si è accorto di ospitare a Roma il meglio della fisica nucleare e a Padova il meglio della fisica dei raggi cosmici. Finché la fisica di alto livello poteva essere realizzata con molto genio e pochi mezzi, anche l’Italia poteva dire la sua. Ma ora che per stare alla frontiera occorrono nuovi e costosi strumenti, occorre che il paese «creda» e investa nella scienza. A precisa richiesta, Mussolini e il suo governo hanno lesinato le risorse. È anche e soprattutto per questo che Fermi se n’è andato.
Ecco, dunque, il contesto in cui ci troviamo a metà degli anni ’40: gli altri paesi investono nella ricerca. Noi no. È in questo contesto da nozze coi fichi secchi che dobbiamo operare.
Poi il giovane analizza lo stato della fisica del tempo e individua le piste di ricerca dove la ormai poverissima povera Italia può realisticamente aspirare a svolgere ancora una funzione di primo piano: la fisica poco costosa dei raggi cosmici. Non è più possibile – come a via Panisperna – fare fisica nucleare di assoluta eccellenza con pochi giovani di genio e pochissime risorse. Occorrono grandi gruppi e moltissimi fondi per condurre con i nuovi acceleratori ricerche nell’ambito della fisica nucleare e della nuova fisica delle alte energie. Solo la fisica dei raggi cosmici, per qualche anno, potrà ambire a dare risultati di primaria importanza con risorse limitate.
Infine Amaldi analizza lo stato delle forze disponibili in Italia. Sono poche e disperse per l’Italia. Ma quel poco che c’è è di altissimo valore. Non a caso tre dei suoi giovani – Oreste Piccioni, Marcello Conversi ed Ettore Pancini – hanno realizzato a Roma, con pochi mezzi e molto genio, un esperimento che ha inaugurato una nuova fisica, la «fisica delle particelle». Ecco, dunque, che sulla base di questa analisi – pochi fisici ma buoni in un paese povero e con scarsa fiducia nella scienza – Amaldi elabora il suo progetto di ricostruzione.
Primo: concentrare le forze. Creare pochi centri su cui puntare per realizzare ricerca di punta in fisica di base (Roma, Padova) e in fisica applicata (Milano). L’idea riesce. In queste e in altre città italiane tra la fine degli ’40 e l’inizio degli anni ’50 si creano gruppi di fisici forti, coesi e in rapporto di collaborazione tra loro.
Secondo: rendersi indipendenti dalla contingenza. Creare un’istituzione nazionale, forte e autonoma, che consenta ai fisici di avere un rapporto stabile e non subalterno con la politica. Sulla base di questa impostazione, Edoardo Amaldi con il contributo di Gilberto Bernardini, crea l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che riunisce in rete tutti i fisici italiani delle alte energie attraverso un modello che non ha pari al mondo. Anche grazie a questa organizzazione, la fisica italiana delle alte energia inaugura una via originale che oggi è dominante nel mondo.
Terzo: formare i giovani. Alla ricerca scientifica e allo sviluppo tecnologico. Creare scuole che, in ogni ambito, formino giovani capaci di assicurare al paese l’indipendenza dal know-how altrui.
Quarto: pensare europeo. Inquadrare la ricostruzione italiana in un più generale progetto a scala continentale che miri a stabilizzare la pace e a consentire all’Europa di competere con le potenza emergenti, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Sulla base di questa idea che passa nonostante l’opposizione dei più grandi fisici americani ed europei, a Ginevra nasce il Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari, il primo nucleo su cui inizia a condensarsi l’Europa unita e che giustamente Piero Angela ha definito il «più grande monumento a Edoardo Amaldi». Dopo il Cern il fisco italiano fornisce un contributo decisivo alla nascita dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea.
Quinto: pensare la pace. Amaldi è il punto di riferimento del movimento di scienziati raccolti intorno ad Albert Einstein e Bertrand Russell e crea in Italia l’Unione scienziati per il disarmo (Uspid), sapendo che è compito prioritario e ineludibile degli scienziati contribuire a rimuovere la minaccia delle armi nucleari e a creare le condizioni nel mondo per una pace duratura.
Edoardo Amaldi ha compreso prima e meglio di altri che, con la guerra, i rapporti tra scienza e società sono cambiati. E che il cambiamento, lo si voglia o no, riguarda anche l’Italia. Non solo e non tanto perché alla ricerca fisica è richiesto di contribuire alla ricostruzione del paese. Ma anche e soprattutto perché l’Italia deve perseguire un modello di sviluppo economico fondato sulla produzione industriale di beni ad alto valore di conoscenza aggiunto.
Comprende che questo grande progetto italiano va organicamente inserito in uno spazio europeo. E, infatti, lavora perché la fisica costituisca un collante di pace nel continente emerso dalla guerra fratricida e l’Europa riconquisti, almeno in parte, la leadership scientifica perduta: negli anni ’30 con la persecuzione degli ebrei in Germania l’asse della fisica e, più in generale, della scienza mondiale si è spostato dall’Europa centrale per la prima volta in trecento anni oltre l’Atlantico, negli Stati Uniti d’America.
Eccola, dunque, la grande lezione politica del fisico Edoardo Amaldi. Una lezione di stringente attualità. Per due motivi.
Il primo ce lo regala la cronaca. Proprio nei mesi scorsi a Ginevra presso il Cern, mediante esperimenti diretti anche e soprattutto da italiani, il Large Hadron Collider, il più potente acceleratore mai costruito dall’uomo, è stata realizzata una delle più importanti scoperte degli ultimi decenni in fisica: la scoperta del bosone di Higgs.
Lhc ha restituito all’Europa la leadership nella fisica delle alte energie. Ma il Cern, che ospita Lhc, costituisce, per dirla con Piero Angela, il monumento più grande all’intuizione e all’opera di Edoardo Amaldi, quel centenario non poteva essere meglio celebrato. Tanto più che Lhc non è altro che l’ultimo venuto di una filiera di acceleratori, nota come «la via italiana alla fisica delle alte energie» perché nata da un’idea partorita e inaugurata a Frascati, presso il Laboratorio nazionale, da Bruno Touschek e dai giovani dall’Infn voluto da Amaldi.
Il secondo motivo non riguarda tanto la cronaca, quanto l’analisi del periodo storico in cui viviamo. L’Italia, infatti, è di nuovo in gravi difficoltà. In una condizione che non è certo il disastro in cui il paese si ritrovò appena dopo la seconda guerra mondiale, ma che molti definiscono senza mezzi termini di stabile declino. Gli indicatori economici, sociali ed ecologici ci dicono che il paese stenta a tenere il passo dell’Europa e del mondo. Se vuole uscire da questo stato di difficoltà – che deriva da oltre mezzo secolo di sviluppo economico senza ricerca – l’Italia deve: analizzare senza infingimenti la sua condizione attuale; modificare la sua specializzazione produttiva e puntare sulla produzione di beni ad alto valore di conoscenza; individuare i settori scientifici strategici (curiosity driven, di scienza applicata e di sviluppo tecnologico) su cui far leva; rafforzare la sua capacità nel settore dell’alta formazione; contribuire a ricreare l’idea di Europa e integrarsi nello spazio europeo della ricerca e della tecnologia. Deve, in altri termini, seguire la grande lezione politica di un fisico, Edoardo Amaldi.

Repubblica 16.9.12
L’ora del silenzio
Conventi ed eremi vengono aperti a manager, professori e a tutti quelli che sognano di abbassare il volume. Ma troppo spesso si tratta solo di una dieta ipofonica
Spesso temiamo quando la vita arriva sull’orlo del limite: stare senza additivi sonori ci permette di conoscere questa soglia che non è sempre facile da sopportare
di Franco Cassano


Il nostro mondo ha condannato da tempo il silenzio all’esilio, emarginandolo fisicamente, ma anche sottraendogli senso. Esso viene bollato come un’assenza di suoni e di vita, una privazione di facoltà, talvolta addirittura come un segno di viltà. Certo, è vero che la vita è un rincorrersi di suoni, dal “lieto romore” dei fanciulli che si rincorrono all’urlo di fronte alle paure. Ma questo classico argomento a favore del rumore oggi non tiene più, perché ci troviamo di fronte a qualcosa di più delle semplici vibrazioni sonore prodotte dalla vita, ad un fenomeno strutturato e programmato, ad un’invasione capillare prodotta su scala di massa.
Ogni nostra giornata, infatti, è costellata dalla presenza continua di suoni, da un controcanto che ci insegue ovunque. Siamo costantemente accompagnati dalla voce di qualcuno che ci intrattiene e ci offre il conforto di una colonna sonora che non avevamo richiesto. Quando si entra in un bar, è sempre più difficile essere accolti dal silenzio o dalle voci degli avventori: anche qui domina lo schermo sempre acceso della televisione, che offre canzoni, notizie, anzi news, previsioni del tempo e del traffico, informazioni commerciali, opinioni non richieste di opinionisti d’occasione. E quest’alluvione di suoni ed immagini non la s’incontra solo nei bar e nei pub, ma in qualsiasi locale pubblico; essa è già arrivata da tempo negli ipermercati, nelle stazioni e negli aeroporti, e aspettiamo il momento in cui entrerà nelle scuole. Sono nate nuove professioni il cui scopo fondamentale è quello di intrattenerci, di suscitare o re-suscitare emozioni, di evitarci il pericolo di rimanere soli con i nostri pensieri. E quella grande creazione umana che è la musica penetra in tutti gli anfratti, si offre in mille forme fino a miniaturizzarsi nelle cuffie degli ipod, che, offrendo migliaia di canzoni, ci fanno camminare con lo stesso sguardo robotico che hanno i calciatori quando scendono dai pullman prima delle partite. Questa produzione continua di rumore e di suoni ha una matrice strutturale molto precisa: è necessario intrattenere l’uomo, riempire tutti i pori del suo tempo, evitare che si allontani dal continuo vortice di emozioni prodotte da un apparato produttivo sempre più vasto. Questa infiltrazione capillare dell’intrattenimento ha il proprio avversario nella pausa, nella sosta, nella riflessione silenziosa e personale o in qualsiasi cosa le somigli o la ricordi. Anche il libro, il simbolo di quell’esperienza che nasce da un rapporto intimo e rallentato tra autore e lettore, oggi viene promosso inserendolo in un diluvio di eventi culturali. La lettura non è più un esercizio solitario, un rapporto silenzioso e privato con il libro, ma la premessa di kermesse affollate culminanti nell’incontro con il piccolo divismo dell’autore. E questo movimento non parte solo dall’alto: il rumore si fa sempre più fitto perché tutti parlano e scrivono, mentre il numero di coloro che ascoltano o leggono è sempre più esiguo.
Rimane poco da inventare da soli, perché la grande chiacchiera, anche quella dei nuovi media, invade tutto l’orizzonte e non possiamo sottrarci: siamo irrimediabilmente connessi, parte di un metabolismo che ci sorpassa. Una volta potevi decidere di “staccare”, di lasciare il mondo senza preavviso e raggiungere un luogo raccolto e silenzioso. Oggi però siamo tutti “connessi viaggiatori”, e il cellulare ci raggiunge ovunque. Chi lo spegne non innesca mai negli altri il sospetto della libertà, ma solo preoccupazione e fastidio per la sua diserzione: che gli sarà successo? Chi crede di essere? Per far sparire le tue tracce devi staccare la batteria, come fanno i ricercati nei film americani.
Certo, ci sono anche quelli che hanno scoperto il valore del silenzio e del raccoglimento e hanno deciso di cercarlo in luoghi da secoli deputati ad esso. Conventi ed eremi vengono così aperti a manager, professori, politici e a tutti coloro che avvertono l’esigenza di staccare ed abbassare il volume. Alcuni hanno preteso subito, facendolo sapere, i monasteri del monte Athos. Ma non è mai male che costoro assaggino il silenzio. Dopo tanto horror vacui finalmente un po’ di amor vacui: riconquistare confidenza con chi conosce e pratica il silenzio può essere salutare. Ma troppo spesso si tratta di una breve stagione, di una dieta ipofonica estiva a cui ci si sottopone per poi tornare a fare quello che si faceva prima. Il silenzio diventa una località esotica che si visita solo in vacanza ( vacuum).
E’ per superare questo limite che stanno prendendo piede delle esperienze che il silenzio invece non lo vanno solo a cercare nei luoghi in cui sopravvive, ma mirano a trapiantarlo nel mondo della nostra esperienza quotidiana. Un compito importante ed impegnativo, visti i rapporti di forza esistenti tra chi cerca di insegnare il valore delle soglie e degli intervalli e l’horror vacui che governa la macchina produttiva che ci avvolge e modella le nostre abitudini. La paura del silenzio nasce da questo horror vacui.
In una società fondata sul dogma della espansione continua e sulla organizzazione capillare della distrazione, ogni silenzio appare sospetto, il sintomo di una malattia nascosta, che richiede l’immediata apertura di una pratica terapeutica e la proiezione in quell’universo profilattico nel quale ogni difformità dall’euforia d’ordinanza viene chiamata depressione, un buco nero che ovviamente va colmato al più presto. Tutto può essere curato, ogni soglia può essere spostata in avanti: nulla è più estraneo alla nostra società dell’affacciarsi sul limite, del sostare e riflettere sul fatto che per vivere bisogna misurarsi con ciò che non è manipolabile a nostro piacimento, che la vita conosce sconfitte e apprendimenti dolorosi, ma anche splendidi e indicibili intervalli, momenti in cui il silenzio è l’unico suono giusto. L’euforia d’ordinanza teme il momento in cui la vita arriva sull’orlo del limite, quando scopriamo che tutto può essere perfetto anche senza additivi sonori o quando dobbiamo prendere atto che bisogna salutare il mondo, rinunciando ad accanirci per trovare ad ogni costo un colpevole di ciò che ci accade. Il silenzio è soprattutto questo momento, quello in cui ci confrontiamo con questa soglia, quell’esperienza che permette di vedere che, per quanto grandiosi, i risultati del progresso rimangono una piccola cosa in confronto al mistero che ci circonda. E’ anche per questo che gli applausi ai funerali hanno qualcosa di osceno. Certo, come ci ricordano Pascal e Leopardi, il vuoto e il silenzio di un universo disabitato da Dio fanno paura ed è forse questa la ragione per cui da allora l’uomo ha deciso di aumentare la velocità ed alzare il volume.
L’inestimabile valore del silenzio sta proprio in questo suo stare sul confine: esso ripropone domande che pensavamo superate e chiede al vociare della vita di fermarsi un attimo per confrontarsi con tutto quello che la circonda e che non è riducibile al glorioso, ma spaventosamente piccolo titanismo dell’uomo. Noi ci assordiamo dilatando a dismisura la vita, cerchiamo continuamente di espanderci e di distrarci, ma la verità più grande è là fuori. Non è un caso che la parola silenzio sia l’ultima che viene pronunziata da Amleto, ma anche quella con cui si conclude il Tractatus di Wittgenstein, e non è un caso che John Cage ritenesse che 4’33” di silenzio potessero insegnarci ad ascoltare. Far tornare il silenzio dall’esilio vuol dire soprattutto restituire onore al limite, farlo rientrare nella nostra esperienza quotidiana, ridare a quest’ultima confidenza con il valore dei piccoli e grandi vuoti che incontriamo. Edgar Lee Masters si chiedeva: “per le cose profonde a che serve il linguaggio? ”.

Repubblica 16.9.12
Se il valore dell’ascolto è quello di sentire le pause
di Massimo Cacciari


Per evitare la retorica della chiacchiera su questo tema bisogna capire dove sta davvero l’esperienza dell’indicibile. Retoriche lodi del pregio del silenzio non sarebbero, alla fine, che l’altra faccia della universale chiacchiera, che da ogni lato ci assedia. Il silenzio, di per sé, “vale” altrettanto degli cyberutopismi da ex-hippies sul carattere liberatorio della pseudo- comunicazione tipo facebook. Tantomeno il silenzio può essere ridotto a “vacanza”, a un intervallo che ci “dis-verte” e ristora dalle dure fatiche del lavorare-e-parlare. Come la pausa in musica, così il valore autentico del silenzio può mostrarsi soltanto come elemento essenziale del senso complessivo della frase, immanente in essa. Di più, come ciò che rende la frase pienamente cosciente di sé, responsabile nei confronti di se stessa e dell’altro a cui si rivolge.
Nel silenzio la parola si fa cosciente che essa non è nell’inizio. All’inizio la parola non è che in potenza. Prima sta il silenzioso ascolto – presupposto e condizione dell’atto del parlare. L’animale razionale ( atioreor- Rede: ragione, calcolo, discorso in uno), che affermiamo di essere, è all’inizio obbediente ( ob-audire) memoria, non potrà mai veramente tacere per ascoltare, non potrà mai entrare davvero in dia-logo. Soltanto riconoscendo di aver parlato grazie all’ascolto, ascolteremo ancora per continuare a dire, per provare a dire ciò che non possiamo semplicemente tacere.
Insieme, nel rammemorare il suo “primo” silenzio, la parola scopre l’abisso che la sua forma in sé custodisce. La radice ultima, l’etimo, di ogni parola sfugge, manca sempre per definizione. Per quanto scendiamo nel suo pozzo, il fondo non è mai raggiunto. Da quale senso primo provengono queste voci con le quali cerchiamo ora di costruire immagini del mondo? Tutto artificiale, allora, tutto convenzionale? Tutto, cioè, un mero prodotto del nostro ragionare- calcolare? O nel silenzio, invece, si cela una relazione tra la nostra voce, i suoi suoni e le cose, inattingibile al discorso, e che pure esso deve presupporre, se non nostalgicamente indicare? Forse solo il poeta sa risvegliare il senso di questo abisso, che si spalanca nel corpo stesso della parola.
Ma come silenzio è il fondo della parola, così in silentio sta il suo fine. Il nostro stesso dire lo significa.
Signun facere: noi ci facciamo segni del silenzio, proprio mentre diciamo, definiamo, esprimiamo. Non solo perché – come ricordava un grande scienziato del Novecento, Niels Bohr – cerchiamo ogni volta di dire ciò che non sappiamo dire. Ma perché, proprio nel definire e determinare, si mostra, mostra sé, ciò che rimane indicibile. Possiamo dirlo inesprimibilità del senso della vita. Possiamo indicarlo come Divino sovra-essenziale. Ma, forse, più concretamente e più profondamente, possiamo pensarlo come l’irripetibile singolarità di ogni cosa, quella presenza propria di ogni ente, che eccede in quanto tale la rete di connessioni, che costituisce il discorso. In ogni caso, per definire i confini e i limiti del dire, sarà sempre necessario mostrarlo, quell’indicibile, che esso si mostri. Questo mostrarsi, il suo silenzio non possono tacere. È ciò che avvolge la parola e vi sta al cuore. Nulla di misterioso o occulto, nulla di irrivelabile al volgo. Esperienza vivente di chiunque si faccia cosciente della complessità del suo dire – della potenza e povertà, in uno, dell’eloquio nostro.

Repubblica 16.9.12
Il capolavoro di T. S. Eliot ci descrive la crisi di oggi
di Antonio Gnoli


Novant’anni fa apparve La terra desolata: un’esperienza poetica vertiginosa e spaesante, dove ritmo e artificio si intrecciavano con il mito e la modernità. T. S. Eliot la pubblicò sulla rivista The Criterion nell’ottobre del 1922. Nella forma, The Waste Land ricordava una tela cubista: uno spazio scomposto ai cui angoli si vedevano apparire alcuni illustri personaggi: Dante e Sant’Agostino, Baudelaire e Verlaine, Buddha e Nietzsche.
Raramente, o forse mai, si è assistito a una parata altrettanto densa di nomi e citazioni letterarie.
Era come se, ai piedi del poemetto, Eliot convocasse l’intera letteratura. Eppure, la circostanza temporale in cui l’opera apparve non è secondaria. L’Europa era uscita da una guerra devastante e stava per entrare in esperimenti politici che ne avrebbero per lungo tempo modificato il volto.
Le antenne della poesia sono più sensibili di altri generi. Ma anche meno dirette nel dire la parola “mondo”. Eliot parlava a una generazione di reduci e di colti, consapevole che gli uni e gli altri erano destinati a sparire. Di qui lo spiazzamento, l’ironia, la ferma incoerenza di una struttura che richiedeva “memoria e desiderio” per essere compresa. Ezra Pound ne alleggerì il peso con tagli che rallegrarono Eliot. Ma cos’era alla fine la desolata terra che aveva in mente il poeta? I cannoni a Occidente avevano fatto meno danni della scomparsa dello spirito. E il futuro si trovava nelle mani di chiaroveggenti famosi.
Da allora cominciò la lunga stagione a vivere il “presente” come orizzonte della crisi. Lo stesso nel quale ancora oggi ci dibattiamo.

l’Unità 16.9.12
Tutta la vita in 140 caratteri
Twitter fa discutere. Ma basta saper scegliere chi frequentare
Piaccia o no, il social network fondato da Jack Dorsey è al momento il mezzo di comunicazione più libero, rapido ed efficace che ci sia
di Maddalena Loy


«CONDANNO FERMAMENTE IL VILE ATTACCO AL CONSOLATO USA E L’ASSASSINIO DI CHRIS STEVENS E DEGLI ALTRI DIPLOMATICI». CON QUESTO TWEET, POSTATO IL 12 SETTEMBRE ALLE 11.23 ORA ITALIANA, il primo ministro libico Mustafa AbuShagur ha dato due notizie: la conferma ufficiale dell’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia – conferma che i media di tutto il mondo aspettavano sin dalle prime ore del mattino – e la condanna dell’attacco. Sono bastati, insomma, 140 caratteri lanciati in rete per inquadrare lo scenario geopolitico su cui si sta dispiegando la nuova offensiva del Jihad di Al Qaeda.
Abbiamo parlato a lungo di Twitter: sul sito Unita.it, che ha dedicato al social network la rubrica “Tweetstar” (tutte le puntate su youtube.com/unita); e anche sul giornale cartaceo. Proprio pochi giorni fa, sul social fondato nel 2006 da Jack Dorsey, abbiamo ospitato un’analisi di Giancarlo Liviano D’Arcangelo. Lo scrittore, partendo dal presupposto che Twitter è il social network più “à la page” del mondo dello spettacolo e della politica, scomoda il filosofo Feuerbach per arrivare alla conclusione che i 140 caratteri servono solo a trasmettere pensieri e parole di trascurabile significato e sono una “fogna del senso comune”.
Che Twitter, come Facebook, possa diventare una piazza virtuale mal frequentata, è un rischio di cui sono consapevoli tutti, a cominciare dai “tweep” più assidui: quelli che sul social network hanno rafforzato, tweet dopo tweet, la propria credibilità professionale, quelli che su Twitter hanno trovato lavoro e quelli che sono riusciti, grazie ai 140 caratteri, a far sentire in tutto il mondo la voce di chi non ha voce.
Non sono “vip” ma persone reali: cittadini come Claudia Vago (@tigella), impiegata della Regione Emilia Romagna, che dalla propria casetta di Busana, piccolo paese dell'Appennino reggiano, ha raccontato il movimento Occupy Wall Street ricevendo offerte di collaborazione (respinte al mittente) da parte delle maggiori testate italiane. O Marina Petrillo (@AlaskaRP), giornalista di Radio Popolare che via Twitter ha diffuso informazioni cruciali durante gli scontri della Primavera araba o i London riots.
Su Twitter i terremotati emiliani hanno pubblicato informazioni che hanno salvato la vita a decine di persone. Ma già due anni prima, nel 2010, la popolazione di Haiti aveva chiesto aiuto servendosi proprio del popolare social network per localizzare i villaggi sperduti. Grazie ai 140 caratteri il deputato Pd Andrea Sarubbi (@andreasarubbi) ha tentato la mission (im)possible di rendere trasparenti e aperti a tutti i lavori del Parlamento italiano, categorizzati con l’hashtag #opencamera.
Il gruppo d’aiuto Underheard in Ny (@underheardinNY) ha fornito un account Twitter e un cellulare prepagato a quattro senzatetto newyorchesi e, grazie a loro, fa circolare informazioni essenziali (dove trovare un pasto caldo, dove poter dormire la notte) tra gli homeless della Grande Mela. L’utilizzo di Twitter nei paesi dove c’è la censura consente inoltre agli oppositori politici dei regimi di far filtrare anche fuori dai confini dati e notizie cruciali: è accaduto nel 2009 in Iran e nelle ultime settimane in Siria.
Il social network è stato adottato perfino da una delle massime autorità vaticane, il cardinale Gianfranco Ravasi (@CardRavasi), che sta sperimentando mattina e sera citazioni religiose ma anche laiche: “Voglio portare la Chiesa nel cortile di Twitter”, ha dichiarato.
Twitter, insomma, è attualmente il mezzo di comunicazione più rapido, libero ed efficace che ci sia. E’ un mezzo, e grazie alle sue performances tecnologiche è anche un posto, ma non è corretto identificare Twitter con il contenuto che esso diffonde. Twitter è una piazza democratica mondiale e, in quanto tale, aperta a tutti. Come la tv, non va né demonizzato né tantomeno divinizzato ma semplicemente va saputo usare. Raccontare un social network, che vanta 500 milioni d’iscritti in tutto il mondo, attraverso i tweet di Emilio Fede, Elisabetta Canalis e Jovanotti non può bastare per spiegare il fenomeno: bisogna sforzarsi di comprenderne i meccanismi, la logica e i vincoli. E forse, scegliere i “following” giusti...

Corriere Salute 16.9.12
Se il medico è empatico il paziente si ammala meno


Medici, siate empatici. Ne va della salute vostra e, soprattutto dei vostri pazienti. Lo dice anche un studio, secondo il quale i pazienti seguiti da operatori più «in sintonia» hanno risultati migliori e meno complicanze. La ricerca, condotta da un team di medici della Thomas Jefferson University (Usa) e dell'Asl di Parma, ha valutato le relazioni tra empatia del medico ed esiti clinici in ben 20.961 pazienti diabetici, seguiti da 242 camici bianchi italiani. Lo studio è pubblicato su Academic Medicine. «È la conferma che una relazione medico-paziente empatica è un fattore importante per ottenere risultati positivi nella clinica», spiega Mohammadreza Hojat dell'ateneo Usa, che firma la ricerca insieme a Stefano Del Canale dell'Asl di Parma. Per misurare quanto la capacità di «immedesimarsi» del dottore avesse influenzato gli esiti del trattamento, i ricercatori hanno misurato le complicanze metaboliche acute, con successivo ricovero (in tutto sono stati 123), tra i diabetici nel 2009. I pazienti dei medici del gruppo più empatico hanno avuto un tasso inferiore sia di complicanze che di ricoveri.

Corriere La Lettura 16.9.12
Il senso del Nuovo Realismo
Altro che Nietzsche, il nucleo sfugge se non si riscopre il pensiero di Gentile
Una prospettiva filosofica largamente diffusa in Italia e ancor più all’estero
ha alimentato un vivace dibattito. Con una grave lacuna
di Emanuele Severino


A proposito del «nuovo realismo», una prospettiva filosofica oggi largamente diffusa, sono stati recentemente pubblicati vari scritti. Mi limiterò qui a due di essi, con l'intento di mostrare come persista il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea.
Ho altre volte richiamato quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica — destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all'agire dell'uomo, cioè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace.
Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c'è sicuramente Nietzsche. Ma anche Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All'estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi — come ho incominciato a dire — al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni.
Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer eccetera), e cioè «antirealista», la critica alla «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti, 2012). Si tratta della critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza tra intellectus e res», tra «l'intelletto» e «la cosa». In tutto il libro Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l'idealismo hegeliano) l'insostenibilità di quella definizione. In sostanza — egli argomentava — per sapere se l'intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l'intelletto ne ha, è necessario che il pensiero confronti la rappresentazione dell'intelletto con la cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene ad essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è «interna».
Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna».
Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da un appunto di Nietzsche in cui si annota — probabilmente per studiarne il senso — che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e che «anche questa è un'interpretazione», ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa «sentenza» di Nietzsche, dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità è un'interpretazione, ossia qualcosa di revocabile. Capisco quindi che egli consideri anche la propria filosofia soltanto come un'«interpretazione rischiosa», una «scelta», una «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico-politiche (pagina 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell'esistenza» (pagina 122, corsivo mio).
In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure — chiedo a lui e a tanti altri — anche l'affermazione che la libertà è «costitutiva» dell'esistenza è solo un'interpretazione revocabile?
En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l'intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pagina 164 e seguente), e pertanto rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l'Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente).
Comunque, già l'idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell'impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione dell'intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l'idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toglie di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per mostrare l'impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all'agire dell'uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del nostro tempo.
Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è inconsapevolmente d'accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel sostiene ora un «nuovo realismo» (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d'accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d'accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel Il senso dell'esistenza (Carocci, 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che conduce alla tesi seguente: «C'è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità» (pagina 21). L'«argomento» è che, una volta ammesso che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il «fatto» consistente nell'esser produttori di qualcosa — il «fatto» che dunque è indipendente da «noi», Gabriel lascia indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l'idealismo tedesco). Ma l'idealista e quell'idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o quell'individuo non producono il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero.
«Io propongo di definire l'esistenza come l'apparizione-in-un-mondo», scrive Gabriel (pagina 46). Intendo: l'apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione». Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l'importanza. L'apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c'è apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o quell'individuo empirico, allora, su questo punto, sono d'accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l'apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l'«apparizione»?
Per lui ciò che esiste, esiste necessariamente «all'interno di un campo di senso», cioè all'interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono d'accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione — ossia il differire dal proprio «altro» — al rango di assoluto principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l'esistente abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere se stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pagina 52 e seguenti).
Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l'«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene se stessa proprio perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente. Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete all'affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il quale — come per Gabriel e l'intera cultura del nostro tempo — tutto è contingente, neghi a un certo punto — pagina 60 — l'annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro contingenza e storicità).
L'idealismo assoluto di Gentile è poi un assoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in se stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neo-realisti a studiare Gentile. E a studiare lo sfruttamento in senso realistico che di Gentile è stato dato da Gustavo Bontadini (del cui pensiero è uscita recentemente una puntuale ricostruzione, Gustavo Bontadini, di Luca Grion, edita dalla Lateran University Press nella collana dedicata ai «Filosofi italiani del Novecento», che la Chiesa non ritiene quindi opportuno passare sotto silenzio).
Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all'idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L'«al di là» di ogni pensiero, l'«assolutamente Altro», l'«Ignoto», gli infiniti tempi in cui l'uomo non c'era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità.
L'idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall'accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più ampia possibile è d'accordo. Anche Vattimo sostiene questo concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo esseri storici e "la massima evidenza disponibile qui e ora" si costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (pagina 109).
Ma, daccapo, questa sua affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d'accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell'Essere) finisca col valere, nel suo discorso, come un'evidenza oggettiva e indiscutibile.

Corriere La Lettura 16.9.12
La nuova oligarchia delle tre sfere: politica, scienza ed economia
di Marc Augé


La crisi attuale non è semplicemente finanziaria. Né semplicemente economica, politica o sociale. È al tempo stesso una crisi di coscienza planetaria, del rapporto sociale e dei fini. La crisi di coscienza planetaria riguarda il nostro posto nell'universo: sappiamo che viviamo su un pianeta piccolo in un universo infinitamente grande; un pianeta fragile, e che trattiamo male. Questa coscienza ecologica è un fatto radicalmente nuovo nella storia dell'umanità. Ed è accentuata dalla constatazione che il divario fra i più ricchi e i più poveri continua ad aumentare nei Paesi sviluppati come nei Paesi «emergenti» e nei Paesi sottosviluppati.
La crisi del rapporto sociale non è estranea all'ampliarsi di tale divario, che può farci temere a termine un'esplosione di violenza. La violenza è al centro di ogni crisi di dimensione sociale poiché, se io non esisto senza gli altri, senza di me essi spariscono: il suicidio è anche un modo di uccidere gli altri, non solo quando è commesso da un kamikaze. L'immagine uniformatrice del pianeta diffusa dai media e le possibilità offerte dalle tecnologie dell'informazione alimentano l'illusione eccitante dell'evidenza e della trasparenza. Ci abituiamo a vivere in un mondo dove crediamo di conoscere gli altri perché li riconosciamo ogni giorno sui nostri schermi, un mondo che ci aliena con le sue immagini come le religioni alienano i fedeli con i loro idoli. Quando l'illusione si dissolve, la tentazione della violenza appare: violenza contro di sé, contro gli altri, razzismi d'ogni genere.
La crisi dei fini si riassume in un paradosso. Mentre la scienza progredisce a velocità esponenziale, tanto dal punto di vista fondamentale che da quello delle sue ricadute pratiche, il divario fra i protagonisti della scienza e la massa di chi non ha alcuna idea delle sfide che essa comporta aumenta ancor più velocemente di quello dei redditi. Lo scarto fra i Paesi implicati nella scienza e quelli che ne sono lontani, e fra l'élite scientifica e i più svantaggiati nel campo del sapere, si amplifica più rapidamente di quello delle ricchezze. Se nei Paesi emergenti appaiono poli di sviluppo scientifico, al loro interno le ineguaglianze in materia di istruzione e conoscenza sono più rilevanti che nei Paesi sviluppati, dove tuttavia continuano a crescere.
Possiamo ipotizzare che il rifiuto di pensare insieme i problemi dell'economia e dell'educazione sia la causa profonda dei nostri fallimenti nei due campi. Dissociarli significa cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità. Nelle situazioni di penuria attuali, è fatale che la priorità sia data ai fini a breve termine e ai mezzi di realizzarli. Ma, al tempo stesso, il fatto di sapere per quale fine si lavora o si studia è passato sotto silenzio. È considerato una sorta di lusso, un sogno da intellettuale idealista destinato ad altri sognatori, un sogno che bisogna presto dimenticare per ripiegare alla svelta su sfide a breve termine. Come in altri ambiti, la questione dei fini ultimi è abbandonata ai deliri talvolta cruenti dei fanatici e dei folli.
La conseguenza non è di poco conto. Nel momento in cui si invocano esigenze di produttività per giustificare riduzioni di effettivi che comportano una diminuzione del potere d'acquisto, le politiche educative sono sempre meno orientate verso l'acquisizione del sapere per il sapere. L'orientamento avviene sempre prima e, negli ambienti «economicamente svantaggiati», i ragazzi hanno una possibilità molto bassa, se non nulla, di accedere a certi tipi di insegnamento.
Forse un giorno ricorderemo che l'unica finalità degli esseri umani è imparare a conoscersi e a conoscere l'universo che li circonda. La conoscenza è l'unico mezzo di riconciliare le tre dimensioni di ogni uomo: simultaneamente individuale, culturale e generica.
Come si delinea oggi l'avvenire? La crisi segna forse l'atto di decesso dell'ultima «grande narrazione», secondo l'espressione di Jean-François Lyotard. L'ultima grande narrazione è la grande narrazione liberale che Fukuyama si azzardò a chiamare «fine della storia». La fine della storia era la constatazione dell'accordo ritenuto unanime sulla forma compiuta del governo degli uomini, che si riassumeva nel combinare democrazia rappresentativa e mercato liberale. Non è vero che ci dirigevamo verso la democrazia universale così concepita. Nel mondo globalizzato in rete, competenza scientifica, potere economico e potenza politica si concentrano in alcuni punti nodali. Quella che apparirà, che è già apparsa, all'orizzonte delle nostre aspettative, non è una democrazia generalizzata alla terra intera, ma una oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che si collegano, in un modo o in un altro, alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuta e riprodotta dalla massa di utilizzatori passivi che sono i consumatori costretti a consumare, ma anche dalla massa immensa di tutti gli esclusi dal sapere e dal consumo. L'esistenza di tre sfere sociali, con le loro tensioni e contraddizioni interne, e l'enorme divario fra di esse in un universo socio-economico in espansione che contrasta con la piccolezza del pianeta: è ciò che la crisi ci ha rivelato o confermato in maniera clamorosa.
A forza di ignorare il tempo, di chiuderci nell'illusione del presente perpetuo, rischiamo di scoprire che la confusione attuale era solo la premessa di uno sconvolgimento più radicale. Ho parlato di tre sfere sociali, ma il termine «classe», nel linguaggio del secolo scorso, o quello di «stato», nel linguaggio del XVIII secolo, sarebbero più appropriati. Questi termini hanno comunque il vantaggio di ricordarci che viviamo innanzitutto un cambiamento di proporzioni al quale il nostro sguardo non è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze.
L'utopia di domani ha almeno trovato il proprio luogo: il pianeta in quanto tale. Non possiamo ancora sapere se sarà nel bene o nel male, se l'utopia nera dell'oligarchia planetaria si compirà o se, dopo un capovolgimento storico imprevisto, grazie forse a qualche scoperta scientifica di rilievo, si delineeranno nuove convergenze fra pensiero dell'universale e azione politica.
(Traduzione di Daniela Maggioni)

il Fatto 16.9.12
La fede nel cinema
risponde Furio Colombo


Vedo tante ipotesi sul fatto che il film di Bellocchio “La bella addormentata” sia stato lasciato passare in silenzio, dal dibattito sulla qualità del film al “provincialismo” del nostro cinema. Ma perché non accettare l'unica ragione? Non si può premiare in Italia un film che smentisce il Vaticano.
Vincenzo

DIRANNO CHE l'affermazione è faziosa e anticlericale. Legittimo. Però leggo e rileggo l’infinita polemica e la trovo tutta chiusa nel mondo del cinema e nelle ragioni di questo o di quell'autore. Anche a me sembra che sia impossibile far finta che non sia successa una cosa semplice: se fai un film sulla vera storia di chi vive e muore come Eluana Englaro, non ti puoi aspettare un premio in un Paese che vive dentro le mura vaticane, persone perbene incluse. È talmente di rigore l'abito da chiesa, se volete fare qualsiasi tipo di carriera, dal premio cinematografico a quello politico, che vale la pena di ricordare gli esordi del vivace e ambizioso Matteo Renzi. Per prima cosa si è opposto con vigore all'idea della giunta di centrosinistra di Firenze che voleva offrire la cittadinanza onoraria a Beppino Englaro. È a quella sortita che Renzi deve la sua prima notorietà. Come vedete il ragazzo sapeva che un lungo cammino non solo si comincia con un passo, ma con il passo giusto. Dirò che sono un po’ stupito di non avere sentito neppure Bellocchio, autore del non dimenticato “L’ora di religione”, accettare la piena normalità del fatto. Se tocchi il fine vita sei fuori. Come si nasce e come si muore lo decidono loro, e se questa legge inflessibile intacca un poco il libero arbitrio, pazienza. Decidono loro lo stesso. Decidono per la scienza che non si esaminano gli embrioni, decidono per le donne che la fecondazione assistita è comunque fuori posto perché nega un segno della natura (non puoi avere figli? fattene una ragione) e peccato mortale quando è eterologa. Se pensate che si arriva a dire che il legame fra due omosessuali minaccia il legame fra due eterosessuali, e non viene raccolta l'assurdità logica della frase (che invece ripetono con enfasi) vi rendete conto che Bellocchio, con il suo film ispirato al caso di Eluana Englaro non aveva alcuna speranza di vincere neppure un premio per il montaggio. Dunque il problema non è la fede nel cinema, che è così fervidamente in discussione, ma la fede, potente e immensamente diffusa, di chi crede con tutte le forze (e le opportune convenienze) nella burocrazia vaticana.

Oppure, a Venezia, si dice che al posto di Bellocchio ha vinto un film coreano, come se «coreano» fosse un giudizio negativo
Corriere La Lettura 16.9.12
L’amarezza di Bellocchio dopo il festival di Venezia, l’ira che accompagna gli sconfitti dello Strega
L’arte di non saper perdere
di Francesco Piccolo


La gara leggendaria dell'Olimpiade sono stati gli 800 metri, per come Rudisha ha corso e demolito il record del mondo. Ma era un keniano, e per questo ho rischiato di non vederlo in diretta: perché c'era la semifinale di taekwondo o non so cos'altro; e tutti volevano veder lottare l'italiano e fare il tifo. Il motivo principale era il medagliere. Tutti si occupavano del medagliere come se fosse la questione decisiva. Se l'italiano avesse vinto un bronzo, avremmo superato il Kazakistan o la Svezia. Gli atleti italiani, quando poi perdevano, erano più delusi di noi, e dicevano al microfono: sono quattro anni che preparo questa gara. Ma anche quello che è arrivato primo erano quattro anni che preparava questa gara! E anche quello che è arrivato dodicesimo, quinto, sessantesimo.
Noi italiani teniamo alle vittorie e alle sconfitte in modo sconsiderato. Per questo non sappiamo perdere. Teniamo a tutto; teniamo ai premi cinematografici o letterari, come teniamo al medagliere dell'Olimpiade. Ci presentiamo a ogni festival di cinema con la domanda: vinceremo qualcosa quest'anno? Come se fosse questa la domanda più importante riguardo a un film o un libro (come se fosse il medagliere il motivo per cui si fanno le Olimpiadi). E se poi non vinciamo, siamo molto delusi e vogliamo spiegazioni, immaginiamo complotti, ne chiediamo conto allo sconfitto. E non solo sopportiamo, ma desideriamo che un grande regista come Bellocchio venga costretto a confessare quanto ci sia rimasto male, e soprattutto sia costretto a dire che il suo film è stato invitato a tanti festival, come un ragazzino qualsiasi. Dimenticandoci tutti, per un momento, che si sta parlando di Bellocchio e di un bel film; ma, poiché ha perso, anche lui dimentica di essere Bellocchio e dimentica di aver fatto un bel film. Per questo dice che il film è stato invitato ad altri festival: perché teme che non pensiamo più che sia un bel film, visto che non ha vinto il Leone d'oro.
Non esistono film coreani
Nel nostro Paese, la differenza tra una vittoria e una sconfitta è gigantesca (tutti i lettori ricordano da anni una bruciante sconfitta di Calasso al premio Strega, una vittoria per un voto di La Capria, decenni fa); e condiziona perfino la qualità: un libro e un film sono più belli se vincono un premio, sono più brutti se lo perdono. Se Scarpa batte di un voto Scurati allo Strega, il libro di Scarpa diventa automaticamente più bello di quello di Scurati, quello di Piperno più bello di quello di Trevi — e subito scattano i complotti e le dietrologie, e un editor arriva a dire che tutti i libri, tranne quello del suo autore, erano orribili. Oppure, a Venezia, si dice che al posto di Bellocchio ha vinto un film coreano, come se «coreano» fosse un giudizio negativo. Ma nessun film è coreano, è solo bello o brutto, riuscito o no. E questo riguarda perfino i film italiani. Bisogna dire che a questo antagonismo, più che all'agonismo, contribuiscono tutti, ma più di ogni altro quei giornalisti che alzano di continuo la posta emotiva, e vogliono sapere i motivi per cui non è stato vinto un premio, come se fossero da trovare dentro il film. Perché abbiamo deciso che i favoriti sono i film che piacciono a noi, dimenticando che esiste una giuria di persone indipendenti (di altri Paesi) che non può appassionarsi alle stelle di Mereghetti come ci appassioniamo noi.
Una volta, un allenatore di calcio, Luigi Cagni, disse che non era contento quando i suoi giocatori esultavano in modo eccessivo dopo aver segnato un gol, perché erano gli stessi che si abbattevano dopo averlo subito. Voleva dire che per imparare a perdere in modo meno tragico, dobbiamo imparare prima a vincere in modo meno euforico. I premi letterari o i festival andrebbero presi esattamente così: con una felicità temperata se si vince, con una delusione temperata se si perde.
Per ora, invece, la sconfitta è sempre una tragedia. E quindi siamo incapaci di accettarla. Non vogliamo sapere cosa andare a vedere, cosa leggere, o se c'è una canzone bella a Sanremo. Noi vogliamo sapere chi ha vinto, e soprattutto vogliamo intervistare chi ha perso, perché vogliamo che confessi che sta soffrendo. E chi ha perso soffre davvero, perché non siamo bravi a perdere. È una cosa che non sappiamo fare, nemmeno alle elezioni. Per questo il giorno dopo tutti dicono che le hanno vinte.
Negli Stati Uniti, per esempio, le nomination all'Oscar sono un valore assoluto, quasi quanto vincerlo; e anche arrivare nelle prime quattro posizioni in classifica di qualsiasi sport significa aver fatto una stagione straordinaria. Qui da noi, se sei nominato ai David di Donatello o sei finalista al Campiello, e perdi, sei uno sfigato, per sempre. E quando perdi, pensi che sono stati molto più fortunati quelli che al Campiello o al festival di Venezia non hanno nemmeno partecipato, beati loro.

Corriere La Lettura 16.9.12
L'astuzia evolutiva di un bimbo che piange
di Chiara Lalli


Siamo andati sulla Luna, abbiamo inventato il computer e analizzato il nostro stesso processo evolutivo. Ma abbiamo anche dei comportamenti considerati ben meno eroici e degni di attenzione: sudiamo, abbiamo il singhiozzo, starnutiamo, sbadigliamo.
Proprio su questi comportamenti, abbastanza trascurati dagli scienziati, si concentra Robert Provine nel suo ultimo libro Curious Behavior: Yawning, Laughing, Hiccupping, and Beyond (Belknap Press, pagine 288, $ 24,95). Provine, psicologo e neuroscienziato dell'Università del Maryland, li considera interessanti mezzi per comprendere come funziona il nostro cervello e come ci siamo evoluti e differenziati dalle specie a noi affini. Accusa anche di pedanteria quelli che non vogliono saperne di scoregge e pruriti — la cosiddetta small science non è affatto banale o meno importante delle auliche cugine. E poi avete mai provato a trattenere uno starnuto o a resistere dal grattarvi?
Non solo: spesso le più importanti scoperte scientifiche sono possibili grazie allo studio delle componenti elementari, dei più piccoli segmenti di quel sistema i cui meccanismi cerchiamo di illuminare.
Ogni sbadiglio e ogni risata sono permessi da una serie di azioni complesse e costituiscono ottimi indizi per capire la nostra peculiarità. Alcuni di questi comportamenti, infatti, sono esclusivamente umani, come piangere. Dietro alla semplicità del pianto — o meglio alla familiarità che abbiamo con il pianto — si nascondono importanti passaggi evolutivi e complessi meccanismi fisiologici.
Ci siamo mai soffermati a chiederci perché piangiamo? O perché piangiamo meno crescendo, e più sommessamente di come lo facevamo da bambini?
Da bambini siamo mini-tiranni interessati a essere nutriti e il pianto è uno strumento perfetto: non dobbiamo apprenderlo, sappiamo farlo da subito, anzi alla nascita e in seguito un pianto vigoroso è un segnale di buona salute. Ma piangere non serve solo a ottenere nutrimento o a manifestare che qualcosa non va, e soprattutto dopo il primo anno di vita acquisisce molte sfumature: esprime frustrazione, nostalgia, emozioni.
Il pianto, come il riso, ha un carattere di autopreservazione: è più facile riuscire a non cominciare a piangere (o a ridere) che smettere una volta cominciato. È contagioso — ecco perché in molte sitcom ci sono delle risate preregistrate o i comici amano farsi scaldare il pubblico da altri performers.
Provine indaga le ragioni e l'origine di questi nostri buffi comportamenti, descrivendo un percorso affascinante e divertente. Perché ridere è contagioso e, soprattutto, non è in contrasto con una seria indagine scientifica.

Corriere La Lettura 16.9.12
Nella narrativa non c'è una risposta sull’eutanasia
di Demetrio Paolin


Sì, ma la letteratura come racconta l'eutanasia? Il fine vita? Il film di Bellocchio, Bella addormentata, ha il merito di far riflettere sul tema del fine vita, ma il modo in cui lo fa, usando un punto di vista parziale — la riduzione della vicenda Englaro a scontro tra poteri — conferma appieno la miopia, la mancanza di messa a fuoco, di cui sembrano soffrire anche i romanzi che hanno raccontato questo tema, in anni recenti, da diverse e molteplici angolazioni, siano esse morali, etiche, giuridiche o filosofiche. Il più delle volte evidenziando una attenzione non tanto sull'eutanasia nel suo insieme, ma su chi procura la dolce morte. Dal punto di vista narrativo sembra essere più interessante raccontare il percorso degli esecutori, rispetto a chi l'eutanasia la subisce o la desidera. I romanzi italiani che parlano di eutanasia eludono una domanda: l'eutanasia è un bene o un male?
Un esempio calzante di elusione è Accabadora di Michela Murgia, che narra in una Sardegna arcaica le vicende di Maria e Tzia Bonaria. Quest'ultima è la sarta del paese: lei conosce i segreti, i sortilegi e le fatture e sa quando è necessario entrare nella casa per portare la «pietosa» morte. La Murgia mette in scena i sentimenti ambivalenti che suscita questa donna. Il suo sguardo di narratrice sofferma l'attenzione nei confronti di chi porta il gesto, descrivendolo all'interno di un rito che lo addomestica e lo rende sopportabile. La Murgia non prende una posizione in merito all'eutanasia, ma dona a questo suo personaggio un alone di sacralità e di mistero, che lo pone al di sopra di qualsiasi condanna morale.
Diverso per tono e ambientazione, ma non per intenti, è Vi perdono pubblicato da Mauro Covacich con lo pseudonimo di Angela Del Fabbro. Lontano dagli slanci poetici della Murgia, il romanzo narra la storia di Miele, una giovane donna che si guadagna da vivere comprando i farmaci per donare la dolce morte ai malati. Anche in questo caso l'occhio dell'autore indugia su le motivazioni che hanno spinto Miele a farsi dispensatrice di morte, ma rimane sullo sfondo, silente e muto, il corpo sfinito di chi questa morte la chiede. È comunque un passo avanti.
Ma non si sa rispondere alla domanda «l'eutanasia è un bene o un male?». Forse perché viene posta al personaggio sbagliato. Se provassimo a chiederlo a chi l'eutanasia la porta su di sé? È il paradosso di Eluana Englaro, evidenziato da Giulio Mozzi che in Corpo morto corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi squaderna davanti ai lettori la questione senza indugi: bisogna santificare — dice lo scrittore padovano — la giovane donna in coma. La sua proposta paradossale, condivisibile o meno, vuole mettere al centro del dibattito le ragioni di chi sceglie di non voler continuare a vivere. La santificazione della ragazza in coma è uno schiaffo dato a coloro che da una parte come dall'altra credevano di sapere cosa fosse bene per lei. Mozzi con il suo continuo evocare il corpo steso nel lettino della giovane donna fa in modo che Eluana Englaro smetta di essere un «caso», ma torni a essere ciò che è. Una creatura. E non una semplice vita biologica, che ha amato e vissuto, che ha scelto di che morte morire. Forse Eluana Englaro nel suo infinito silenzio conosce la risposta alla domanda «l'eutanasia è un bene o un male?», ma è destino dei sapienti e delle sfingi conoscere il segreto e celarlo. Ma di questo silenzio nelle pagine che abbiamo letto e nei film che abbiamo visto non v'è alcuna traccia.

D di Repubblica 15.9.12
Meno punizione più educazione
Molti crimini avvengono per carenze culturali. E la prigione non è un rimedio
Umberto Galimberti risponde a Paolo Izzo

qui, segnalazione di Dina Battioni

il Fatto Lettere 16.9.12
Quando l’eretico è in vacanza


Questa estate, mentre noi eretici eravamo in vacanza, anche il Papa se ne è stato piuttosto tranquillo. Sebbene non siano mancati eventi che potessero risvegliarlo dal suo torpore castelgandolfiano, interrotto soltanto dall'inaspettata quanto (per noi) inspiegabile visita del prof. Mario Monti: la Corte europea dei Diritti dell'Uomo che boccia sonoramente la legge italiana n. 40 sulla fecondazione assistita; i Radicali romani che, con un’afa insopportabile e in un gelido silenzio stampa, raccolgono le firme per otto referendum cittadini con cui si chiedono, tra l'altro, pari diritti per le coppie di fatto e l'istituzione di un registro dei testamenti biologici; e infine, su quest'ultimo tema, Marco Bellocchio che se ne esce con il suo splendido film “Bella addormentata” e quasi negli stessi giorni Piergiorgio Welby, ah no era il cardinale Carlo Maria Martini, che decide di porre fine alle proprie sofferenze, d'accordo con i suoi medici. Dal Papa, un silenzio sospetto (che forse è il segnale che egli approfitta un po' troppo della genuflessione preventiva delle istituzioni italiane). Poi, finalmente, Joseph Ratzinger ha ricominciato a lavorare e da Beirut afferma che in Siria dovrebbe cessare l'importazione di armi, “perché senza importazione di armi la guerra non potrebbe continuare”; così noi possiamo subito ribattere alla sua ingenuità, che piuttosto sarebbe da auspicare la fine della “produzione” e della “esportazione” delle armi, no? Ma è ancora robetta da poco: la verità è che quando il Papa è in vacanza, noi eretici ci sentiamo un po' disoccupati e un po' preoccupati.
Paolo Izzo, scrittore - Roma