lunedì 17 settembre 2012

l’Unità 17.9.12
Un partito con pochi anticorpi
di Francesco Cundari

IL PRIMO PROBLEMA DELLE PRIMARIE ALL’ITALIANA È CHE  RISCHIANO DI FARE APPARIRE SECONDARIE LE ELEZIONI. Il secondo problema è che rischiano di renderle superflue, disintegrando il campo che dovrebbero invece contribuire a definire, consolidare e rilanciare.
Dopo gli elogi di Daniela Santanchè e Angelino Alfano, Libero e Giornale, alla candidatura di Matteo Renzi ieri è arrivata anche la benedizione di Silvio Berlusconi. «Renzi porta avanti le nostre idee, sotto le insegne del Pd», ha detto il Cavaliere. Parole che fanno inorridire i sostenitori di Pier Luigi Bersani, convinti che si tratti di segnali inviati alla base del Pdl affinché si precipiti in massa ai gazebo e regali all’attuale leader del Pd, se non proprio la sconfitta, almeno una vittoria dimezzata. Ma non meno inorriditi si mostrano i sostenitori di Renzi, convinti che le parole di Berlusconi si spieghino, al contrario, con l’intenzione di danneggiare la candidatura del sindaco di Firenze, imprimendogli il marchio del traditore.
Probabilmente, per quanto riguarda la possibilità di influenzare il risultato delle primarie, si tratta in entrambi i casi di preoccupazioni eccessive, se non infondate. Alle primarie del centrosinistra voteranno, come in tutte le precedenti occasioni, milioni di persone. Milioni. E tra questi, come è sempre accaduto, ci saranno certamente anche fior di elettori, militanti e magari anche qualche dirigente di partiti lontani dal centrosinistra. Può non piacere, ma è così. È la logica delle primarie aperte. Una logica che mostra in questi giorni tutti i suoi effetti collaterali, soprattutto in un sistema politico in cui a fare le primarie è solo uno dei contendenti. Uno squilibrio che Berlusconi è sembrato fin qui intenzionato a perpetuare e a sfruttare il più possibile, rinviando continuamente la decisione sulla sua ricandidatura e alternando a lunghi silenzi uscite provocatorie come quella sul sindaco di Firenze. È questa asimmetria di fondo che verosimilmente farà sì che la lunga campagna per la scelta del candidato premier dei progressisti continui a essere il centro di attrazione di tutti i possibili attacchi, polemiche, manovre, da parte di chiunque abbia interesse a incrinare la costruzione di una credibile alternativa di sinistra all’attuale equilibrio politico.
Berlusconi colpisce dove fa più male. Con le sue parole sente di poter seminare il massimo della divisione tra gli avversari, alimentando accuse e sospetti reciproci all’interno del principale partito di una coalizione ancora da costruire. Ma questa possibilità al Cavaliere non viene semplicemente dalla debolezza delle regole, peraltro non ancora fissate, che dovrebbero garantire il funzionamento delle primarie. Dal momento in cui, all’interno di un partito, simili sospetti sono anche solo pensabili, non c’è regolamento che tenga. Perché il problema è a monte. Se anche per il voto si prevedessero i vincoli più stringenti, i sospetti non farebbero che spostarsi altrove. Alla paura dell’inquinamento del voto si sostituirebbe magari il timore di un inquinamento della campagna elettorale. Il fatto che il Pd sia così esposto a questo genere di provocazioni non è un problema che dipende dal regolamento delle primarie. Dipende semmai da come le primarie hanno fin qui regolato la vita del partito, sin dai suoi primissimi giorni di vita. Il modello di un partito aperto, sempre contendibile a tutti i livelli, e quindi sempre in contesa, non ha evidentemente favorito il consolidarsi di un costume, di un’etica, di un sentimento di appartenenza comune. Anticorpi essenziali per qualsiasi organizzazione collettiva, ma soprattutto precondizioni indispensabili per qualsiasi competizione interna non si voglia trasformare in guerra civile.

Corriere 17.9.12
Una nebbia fitta fuori stagione
di Giovanni Sartori

Che il sistema elettorale escogitato dal leghista Calderoli, noto come il Porcellum, fosse un sistema da dimenticare e al più presto seppellire è forse l'unico punto condiviso della riforma elettorale che stiamo oramai discutendo invano da mesi e mesi.
Qual è il problema? Si sa che nessun sistema elettorale è del tutto «neutrale». Ma non esageriamo. I sistemi proporzionali favoriscono la frammentazione e i partitini; ma sappiamo che in genere basta uno sbarramento del 5 per cento come in Germania (con divieto, si intende, di alleanze che lo vanifichino) per correggere questo difetto. I sistemi maggioritari o uninominali sono invece accusati del difetto opposto: di favorire i grandi partiti. Ma talvolta è così, talvolta no. Vedi caso, da noi il Mattarellum — un sistema per tre quarti maggioritario — ha prodotto una frammentazione che né Prodi né i suoi fedeli hanno mai ammesso e tantomeno spiegato. Comunque il sistema maggioritario a doppio turno (come oggi in Francia) eliminerebbe, volendo, questo difetto.
Allora, non è vero che noi siamo bloccati dalla ricerca di un sistema elettorale neutrale. Siamo bloccati, invece, dal fatto che i nostri partiti non sanno più quale sia l'elettorato sul quale puntare, o quale sia l'elettorato «fedele». Vagano, appunto, nella nebbia. A cominciare da Berlusconi.
Il Cavaliere naviga, ma per il resto è fermo. Si supponeva che dopo aver graziosamente lasciato le patate bollenti al «governo dei tecnici» lui sarebbe ridisceso in campo. È vero che il suo partito oramai sta al 22 per cento. Ma contava sull'effetto trainante del suo rientro e sulla sua indubbia bravura di acchiappavoti. Invece la sua sondaggista di fiducia non ha registrato, almeno sinora, nessun effetto trainante, di trascinamento, dalla sua ricomparsa. Così Berlusconi medita e attende. Tanto ha sempre il potere di tutelare i suoi interessi e di bloccare le sue pendenze giudiziarie.
Se Berlusconi è fermo, il suo principale avversario, Bersani, si destreggia tra mille difficoltà. Si libera o non si libera di Vendola? Un giorno sì, e un giorno no. Sostiene lealmente il governo Monti, ma non può dimenticare che ha bisogno del voto di una Cgil che sempre più lo combatte. In questi frangenti, ha l'idea (direi poco azzeccata nel momento nel quale centinaia di milioni di musulmani sono scatenati contro l'Occidente per un filmino che nessuno di loro ha visto) di promettere la cittadinanza ai figli degli immigrati, ivi inclusi gli islamici.
Ma torniamo al problema di fondo, alla nebbia. La nebbia è creata in primo luogo dai grillini, che al momento risultano al 18 per cento dei consensi anche se nessuno capisce cosa saprebbero fare al governo; e ancor più, in secondo luogo, dall'incognita di quasi la metà del nostro elettorato che dichiara nei sondaggi di non voler votare o di non sapere per chi votare. Questo è il vero terrore dei politici minacciati di rottamazione. Quale sarà il loro elettorato? Dove lo dovrebbero cercare? E come fermare il grillismo? Bravo chi lo sa.

La Stampa 17.9.12
“Il Pdl tenta di inquinare il nostro confronto ma alla fine vincerà Bersani”
Fassina: l’Italia pronta per un governo politico
intervista di Roberto Giovannini

ROMA Silvio Berlusconi si augura che Renzi vinca le primarie? «Tenta di inquinare il nostro confronto replica Stefano Fassina, responsabile economico del Pd e bersaniano di ferro - e invita i suoi a contaminare le nostre primarie».
Elettori Pdl che votano per Renzi? Solo una preoccupazione, o vi risulta qualcosa?
«Ci risulta qualcosa. Ci sono consiglieri regionali del Pdl che formano comitati per Renzi, come è successo in Toscana. Ma sono sicuro però che tutti insieme, compreso Matteo Renzi, respingeremo questo tentativo».
L’ex premier poi boccia il «fiscal compact» europeo, dice che impedisce la crescita...
«Berlusconi ancora una volta conferma di essere un irresponsabile e un pericolo per l’Italia. Nel suo attacco al “fiscal compact” dimentica di dire che è stato lui e il suo governo a firmare l’intesa six pack, che del fiscal compact è la matrice fedele. Vero è che il fiscal compact va accompagnato dall’unione fiscale e dalla golden rule per consentire politiche di bilancio antirecessive».
Torniamo a Renzi. Berlusconi dice che porta avanti le idee del Pdl sotto le insegne del Pd.
«È vero che Matteo interpreta uno spartito culturale che lo ha portato a prendere posizioni coincidenti con quelle del governo Berlusconi».
Per esempio?
«Quando disse di essere con Marchionne senza se e senza ma, assunse una posizione identica a quella del governo Berlusconi. E ricordo quando, mentre eravamo impegnati in un difficilissimo braccio di ferro con Monti sui licenziamenti, che Renzi se ne uscì con un ”non me ne può fregare di meno dell’articolo 18”. La stessa posizione di Sacconi».
Molti osservatori però hanno riconosciuto l’importanza dell’appello di Renzi agli elettori del Pdl. Non è questa la via per vincere?
«Il nostro obiettivo primario è quello di rimotivare quelle larghe fasce sociali che, di fronte a comportamenti subalterni dei progressisti negli ultimi anni, sono finite nell’astensionismo e nel grillismo populista. Un conto è conquistare al nostro campo - proponendo la nostra visione di interessi generali - forze provenienti dal campo avverso. Altro è assumere le posizioni liberiste, e proporle con il favore di tanti editorialisti come coraggiose innovazioni. Non funzionerebbe, perché l’originale è sempre preferito alla copia. E diventeremmo politicamente irrilevanti».
Perché Berlusconi si augura la vittoria di Renzi, secondo lei?
«L’obiettivo di Berlusconi - e non solo suo - è quello di indebolire la credibilità del Pd. E favorire così dopo le elezioni la riproposizione di un governo di larghe intese».
Cioè, se vince Renzi il Pd prende meno voti, e si avranno larghe intese con Monti premier?
«Siamo convinti che vincerà Bersani, e che l’Italia avrà un governo politico, come tutti gli altri paesi europei. E sarà un governo di centrosinistra».

l’Unità 17.9.12
Le nuove sfide che attendono il Pd
di Alberto Provantini
Vicepresidente Istituto Gramsci

È PARTITA LA CORSA PER PALAZZO CHIGI. CON CHI PROPONE UN MONTI DOPO MONTI E CHI PROPONE ANCORA BERLUSCONI dopo Berlusconi, che a palazzo Chigi c’è stato da un ventennio. Con Monti che dichiara che per lui l’impegno di governo si esaurisce con la fine di questa legislatura. Con Berlusconi che non annuncia ufficialmente la nuova discesa in campo. Tanti «cantieri» aperti per le alleanze. A destra nulla di nuovo dopo il fallimento del Governo Berlusconi Bossi, con il Pdl che sostiene il governo Monti e la Lega di Maroni alla opposizione. Il cantiere del centro, per cercare le alleanze è appena
cominciato a Chianciano.
Ma non basta sostituire nel simbolo di un Partito il nome di un leader con quello dell’Italia. Anche se questo è un buon segno, sperando che si ponga fine alla idea dell’uomo della provvidenza al quale affidare le sorti del Paese. Ci sono poi gli annunci con relativi sondaggi dei «consensi» di forze oggi non presenti in Parlamento coi relativi tentativi di aggregazione. In molti lavorano per un risultato elettorale che non consenta una scelta politica chiara di governo, tra partiti, alleanze e programmi alternativi. C’è chi evoca scenari da commissariamento dei mercati. Un quadro ancora non solo non definito ma reso più incerto dal mancato accordo tra i partiti sulla legge elettorale. Cosa che è fondamentale. Che condiziona la stessa scelta delle alleanze. Non dimentichiamo che la corsa per Palazzo Chigi è cominciata mentre nel Palazzo del Governo c’è il Governo Monti, sostenuto da questa strana maggioranza che va dal Pd al Pdl all’Udc. Di un Governo che deve ancora governare una situazione di crisi eccezionale. In uno scenario Europeo, dove ci sono stati cambiamenti, come in Francia, successi come le recenti decisioni della Bce e del Consiglio d’Europa. Uno scenario non solo europeo ma mondiale che avrà appuntamenti decisivi con le elezioni, prima negli Usa poi in Germania.
In questo quadro il Pd ha avviato il cantiere per la «ricostruzione ed il cambiamento dell’Italia», come lo definisce con la Carta d’intenti presentata questa settimana per un «patto dei democratici e dei progressisti». Cioè per la l’alleanza delle forze del nuovo centro sinistra di governo che si presenta alle elezioni e che sulla base del risultato elettorale potrà governare l’Italia da sola o con un accordo con le forze moderate che si aggregheranno nel nuovo «centro». Il Pd sta facendo la sua parte. Lo fa con passi responsabili lungo una strada difficile. Direi inedita. Prima battendosi contro il Governo Berlusconi, che aveva una grande maggioranza parlamentare, vincendo una partita che sembrava impossibile. Poi assumendosi la responsabilità di sostenere il governo Monti per salvare l’Italia dalla catastrofe, senza chiedere le elezioni che, secondo i sondaggi, avrebbe vinto. Ora presentando la «Carta di Intenti» che vuole descrivere l’Italia che ce la può fare, ricostruendo le basi etiche e di efficienza economica, con uno sforzo comune in cui chi ha di più da di più. E che sulla base di una «visione dei democratici e dei progressisti» fatta di valori, progetti, programmi, si candida alla guida del Paese.
Nonostante manchi la nuova legge elettorale il Pd sta lavorando alla costruzione di una nuova alleanza di centro sinistra, che va dai socialisti a Sel. Non riproponendo le vecchie «unioni» che hanno portato alla sconfitta il governo Prodi. Tutti questi passi non sono ancora compiuti. E tuttavia il Pd ha annunciato che il candidato del centrosinistra per Palazzo Chigi sarà scelto attraverso le primarie di coalizione. Il Pd insomma ha fatto dei passi e ha indicato quelli da fare all’insegna dell’interesse generale e seguendo una via responsabile, democratica. Non è un caso che tutti i sondaggi danno il Pd al primo posto. Un percorso che condivido. Che dovrebbe avere un largo consenso ed un apprezzamento anche di forze diverse. In questo quadro che ho riassunto, nella corsa per Palazzo Chigi ci sono due passi da compiere sul fronte elettorale:quello delle Primarie e quello delle elezione politiche per il Parlamento che dovrà eleggere il nuovo Governo.
Ogni competizione si svolge secondo delle regole. Questo vale nello sport come nella politica. Ad oggi, ricordo ancora, manca la nuova legge elettorale. In assenza della quale si vota con la «porcata», la legge che impedisce ai cittadini di scegliere i parlamentari ed impone alleanze che non si reggono neppure quando vengono premiate con il massimo dei seggi in Parlamento. Ma non abbiamo neppure le regole per le primarie del centro sinistra. Che essendo fatte per una nuova alleanza, dalla stessa debbono essere condivise e decise. La sola regola certa, in vigore, riguarda il Pd. Lo Statuto del Pd prevede che sia il proprio segretario a rappresentare il partito nella competizione delle primarie di coalizione. Regola questa non solo condivisibile ma naturale. Per tante ragioni. Ma basta ricordarne tre. Il segretario del Pd è il solo segretario di partito eletto dalle primarie. Il segretario viene eletto in base ad una mozione politica, quindi ad un programma.
In primarie dove concorrono altri candidati, espressioni di altre mozioni che vengono discusse in un congresso e votate da milioni di persone, nelle primarie appunto. Nella fase congressuale, le primarie sono l’atto finale che porta ad unità le diversità espresse nelle mozioni. Nelle primarie di coalizione il Pd deve esprimere la sua candidatura unitaria, che come prevede lo Statuto è il segretario espresso dalle primarie di partito. Quando non si è seguita questa procedura, come in alcune primarie di coalizione per la scelta dei candidati sindaci ed il Pd ha presentato più candidati sono stati eletti i candidati di altri partiti. La esperienza delle primarie di coalizione conferma la giustezza della norma statutaria del Pd. Naturalmente si può cambiare. Anche se non si dovrebbe farlo in corsa. Ma peggio non si dovrebbe correre senza regole delle primarie di coalizione e contro la sola regola in vigore, quella dello Statuto del Pd. Questo invece sta avvenendo. Il sindaco di Firenze, che è del Pd, ha cominciato la sua corsa delle primarie. Senza appunto che si sia dato il via alla competizione.
Senza le regole delle primarie di coalizione. Con le quali si stabilisca non solo il criterio per le candidature ma si definisca chi sarà chiamato a votare. Stabilendo regole rigorose non solo per le candidature ma per avere una partecipazione dell’effettivo popolo del centrosinistra, con trasparenza e controlli che rendano davvero possibile una competizione democratica e non inquinata. Che avvenga sulla base di scelte degli organi dirigenti e non di scelte personali. Questo passo, che si sta facendo senza la nuova legge elettorale, senza regole di coalizione, contro la norma statutaria del Pd non va nella direzione fin qui seguita dal Pd. Mi fermo qui. Perché oggi questo è il problema. Non si tratta di pronunciarsi o tantomeno schierarsi su questo o quel candidato. Questo avverrà quando si aprirà la competizione con regole e candidati. Secondo le scelte che saranno fatte dagli organi collegiali del Pd e della coalizione. Non è un problema solo del segretario. Bersani concludendo la festa del Pd ha parlato di «generosità, che vuol dire una cosa semplice. Prima c’è l’Italia, poi c’è il Pd e il suo progetto per l’Italia, poi ci sono le ambizioni personali». Bene. Proprio perché stiamo scegliendo chi proporre alla guida della squadra del governo dell’Italia, ogni partito, a cominciare dal Pd che ne ha la massima responsabilità e forza, e l’insieme della coalizione devono avere la capacità non solo di proporre agli elettori una idea di Paese, un progetto per l’Italia, una coalizione coesa, selezionando rigorosamente e democraticamente la classe dirigente, ma attraverso le primarie proponendo la guida del Governo del Paese.
Stiamo parlando del futuro dell’Italia. Non possiamo fare passi falsi. Non può fare passi sbagliati il primo partito, che è tale per aver fatto passi giusti e che come tale oggi ha la massima responsabilità per il futuro dell’Italia.

La Stampa 17.9.12
Autocandidature Il presidente Pd prova a arginare l’anti-politica
di Carlo Bertini

Provare ad aprire il portone dei Palazzi della politica anche a tutti quei cittadini che vogliano intraprendere il mestiere di parlamentari senza fare anticamera nei partiti o senza passare per il Movimento 5 stelle. Tra i vari stop and go sulla fantomatica nuova legge elettorale, dalla periferia spunta un contributo che assomiglia ad una provocazione, quello del presidente del consiglio regionale delle Marche, Vittoriano Solazzi del Pd. Un «renziano doc» che nello spirito di non lasciare a Grillo l’esclusiva di far entrare in politica cittadini comuni, propone di introdurre un’inedita prassi delle candidature su scala locale, da applicare magari anche su scala nazionale: «candidature di singoli cittadini (o auto candidature) in luogo di quelle tradizionalmente selezionate dai partiti come sfida per restituire alla popolazione fiducia verso la politica, creando nuovi ed inesplorati spazi di rappresentanza». Una proposta che potrebbe fornire qualche spunto a chi conduce le trattative per cambiare il porcellum, perché senza arrivare alla rivoluzione di far scomparire i partiti, se accanto alle liste con i soliti simboli - ragiona Solazzi - gli elettori trovassero una «lista degli autocandidati» indipendenti in ogni collegio, potrebbe essere una bella novità con cui fare i conti. Nella proposta di legge ideata da Solazzi per le elezioni locali, sono quattro le condizioni per potersi candidare: aver raccolto 100 firme autenticate per presentarsi come consigliere regionale (mille per i candidati presidenti o per chi aspiri a fare il deputato), avere un certificato penale immacolato, un curriculum adeguato e la residenza nel territorio in cui ci si candida. «Non si tratta di delegittimare i partiti, ma di prendere atto che esiste una crisi di credibilità - spiega Solazzi - e lo scopo è quello di evitare che la selezione delle candidature in fase elettorale sia affidata solo ai partiti, favorendo invece la partecipazione delle persone comuni». Il candidato potrà dichiarare il proprio collegamento con un partito oppure no: e in quel caso, in ogni collegio ci saranno i candidati proposti dal partito o dalla coalizione sotto un simbolo e i candidati indipendenti.

Corriere 17.9.12
Primarie, un albo pubblico per evitare gli «infiltrati»
di Fabrizio Caccia

ROMA — Come dice Walter Verini, deputato veltroniano del Pd, «di acqua sotto i ponti, da qui ad ottobre, ne passerà», compresa magari la nuova legge elettorale, che potrebbe far cambiare di colpo scenari e strategie. Ma, intanto, in vista delle primarie di coalizione, che dovrebbero svolgersi tra il 25 novembre e il 2 dicembre di quest'anno (non c'è ancora una data precisa), il centrosinistra sta pensando alla creazione di un albo elettorale, «un'anagrafe del centrosinistra», come la chiama Nico Stumpo, responsabile organizzativo del Partito democratico. Lo scopo iniziale è quello di scoraggiare i «furbetti dell'urna», cioè eventuali infiltrati di centrodestra o «truppe cammellate» con funzioni di sabotaggio. I cittadini che andranno a votare alle primarie, cioè, oltre che a sottoscrivere la «carta d'intenti» (il programma) del centrosinistra, saranno chiamati a firmare una liberatoria per acconsentire a rendere pubblico il proprio nominativo (anche online), rinunciando così alla privacy in virtù della propria scelta di campo. Ma in questo modo — prosegue Stumpo — il cittadino sarà anche rintracciabile, via cellulare o email, «per diventare attore, parte attiva, delle nostre campagne future», specie in vista delle elezioni politiche del 2013. Firmare la liberatoria sarà un passaggio obbligato per chiunque vorrà votare al seggio delle primarie.
Due date, comunque, sono già state fissate: il prossimo 6 ottobre a Roma si terrà «l'assemblea dei mille» del Pd, che modificherà lo statuto con una norma (transitoria) che consentirà non solo al segretario nazionale ma a tutti gli iscritti al partito di potersi candidare alle primarie del centrosinistra. Finora l'elenco degli aspiranti premier è questo: Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Laura Puppato e, da ieri, anche Valdo Spini, ma in lizza ci saranno pure Nichi Vendola di Sel e Bruno Tabacci dell'Api. Sarà però il 13 ottobre, una settimana dopo, il giorno in cui le varie componenti decideranno insieme le regole del gioco: dal doppio turno, come vorrebbe per esempio Bersani, al quorum di firme necessario per presentare la candidatura. E ancora: dalla data-termine entro cui ci si potrà candidare fino alla nascita o meno di un comitato di garanti.
Di sicuro, la novità più attesa sarà la creazione di questi veri e propri uffici elettorali, a cui i sostenitori del centrosinistra dovranno registrarsi una settimana prima del voto oppure il giorno stesso delle primarie (i dettagli sono in via di definizione). L'anagrafe, però, sembra destinata a partire. Ma Walter Verini resta «freddo» davanti allo «sferragliare di truppe in giro per l'Italia». Il duello «tra tifoserie», bersaniani o renziani, non l'appassiona. «Vedo un quadro confuso — conclude —. Prima di pensare alle primarie bisognerebbe fare di tutto per varare la nuova legge elettorale, quindi stabilire il programma del centrosinistra e vincolare fermamente a quello le varie componenti della coalizione. Invece la coalizione, con Vendola che ogni giorno si divarica sempre più da un profilo riformista, mi sembra purtroppo di là da venire...».

Corriere 17.9.12
Vendola: «Io in corsa? Solo se sarò immacolato»

«Scioglierò la riserva a fine mese, perché ho qualche problema da affrontare e da superare». Rispondendo alla domanda della giornalista Concita De Gregorio alla festa della Fiom di Torino, che gli chiedeva se parteciperà alle primarie del centrosinistra, ieri sera il governatore pugliese Nichi Vendola ha detto di voler aspettare «nei prossimi giorni la risoluzione di qualche contesa giudiziaria, che spero di poter risolvere positivamente. Chi si vuole candidare non deve avere ombre: devo essere e apparire immacolato».

l’Unità 17.9.12
La linea rigorista non è apprezzata ma il consenso al premier resta alto
La fiducia a Monti Senza Europa non c’è politica
di Carlo Buttaroni
Presidente Techné

Crescita negativa, calo della produzione e dei consumi, aumento della disoccupazione, diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie: questo è lo scenario economico e sociale del Paese. Per il presidente del Consiglio è il prezzo da pagare per uscire dalla crisi. In altre parole, affrontare una crisi con un’altra crisi, resa inoltre più acuta dalle politiche del governo perché, come ha precisato il premier «solo uno stolto può pensare di incidere su elementi strutturali che pesano da decenni senza provocare, almeno nel breve periodo, un rallentamento».
La ricetta di Monti, detta senza giri di parole, prevede che per stare meglio dopo, bisogna stare peggio prima. Il prezzo del risanamento, purtroppo però, non è uguale per tutti. E a pagare, nel nostro Paese, sono soprattutto i giovani, le famiglie e i lavoratori a basso e medio reddito. Tanto che la forbice socio-economica dell’Italia, già particolarmente ampia rispetto ad altri Paesi europei, si è ulteriormente allargata, ed è cresciuta la fascia di povertà, mentre la ricchezza si è concentrata al vertice della piramide sociale. Per molti economisti la ricetta del rigore, che ispira le politiche economiche del governo Monti, è completamente sbagliata. D’altra parte di «sacrifici» il premier aveva parlato da subito. Un programma di risanamento che ha preso corpo nella riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, nei tagli ai servizi pubblici e alla sanità, nella riduzione dei redditi delle famiglie, nella crescita della pressione fiscale, nella riduzione degli investimenti pubblici. Interventi che hanno contribuito ad aggravare gli effetti della crisi e di cui il governo se ne attribuisce i meriti in un’ottica strategica.
IL FALLIMENTO DELLA DESTRA
Nonostante i sacrifici, però, la fiducia nel governo Monti, dopo quasi un anno di politiche restrittive e di sforbiciate ai diritti e alle speranze della stragrande maggioranza degli italiani continua a mantenersi su livelli elevati. I partiti, al contrario, a pochi mesi dalle elezioni politiche, continuano a soffrire di un deficit di fiducia che ha il punto di ricaduta in una costante diminuzione dei consensi, mentre la quota di incerti e potenziali astensionisti è progressivamente cresciuta fino a rappresentare quasi la metà del corpo elettorale. Disillusione, mancanza di credibilità e d’autorevolezza, inaffidabilità, sono i sentimenti prevalenti tra chi sceglie di non scegliere, ma anche tra chi fa propria la critica gridata al sistema politico che ha trovato voce nella grillo-ribellione.
La maggior parte dei cittadini non si culla più nelle ideologie che per decenni li hanno legati a doppio filo a questo o quel partito: ora sono i politici come persone che vengono valutate, per quello che trasmettono e per quello che fanno. Può essere un passo avanti, ma può anche essere una regressione verso il leaderismo e il populismo. Per anni, in questo clima, i partiti hanno promesso molto, osservando ogni lieve movimento e sussulto dell’opinione pubblica, senza il coraggio di affermare e di difendere le idee controcorrente. Fino a quando i sogni sono diventati incubi e la promessa del nuovo miracolo italiano si è trasformato nell’amara scoperta di dover riavvolgere il nastro e di vivere una storia completamente diversa. La fiducia al governo Monti non deriva tanto dal merito delle scelte di politica economica, ma dall’aver messo sul piatto, per la prima volta dopo molti anni, un fatto anziché un sogno. Monti non ha mentito quando ha parlato di sacrifici e piaccia o no ha dato corpo alle sue ricette. Giuste o sbagliate che siano. Per questo risulta credibile. E la distanza con chi, prima di lui, ha promesso un nuovo miracolo italiano, non potrebbe essere più ampia.
La credibilità alimenta il consenso di Monti anche in campo internazionale. E questo gli italiani lo avvertono tra le righe di scelte che probabilmente non approvano. Se Monti dicesse, oggi, che l’Italia deve uscire dall’euro per risolvere la sua crisi, i mercati mondiali crollerebbero. Se la stessa affermazione fosse fatta da un altro leader, la cosa forse non uscirebbe dai nostri confini, perché tutti la interpreterebbero come una boutade per far parlare di sè e conquistare consensi.
I partiti non sono tutti uguali. Non esiste la categoria dei partiti. Anzi, chi lo sostiene ha evidenti finalità progandistiche e demagogiche. Tuttavia il declino della seconda Repubblica rende credibile questa generalizzazione. Del resto, oltre alle promesse tradite e ai sogni svaniti, l’altra parte di eredità della seconda Repubblica è rappresentata dal non essere riusciti a dare compiutamente alla politica nazionale una dimensione europea e internazionale. L’esempio forse fa torto ad alcuni nostri meriti: tuttavia, è possibile che non ci sia un nome che equivalga a ciò che in Europa corrisponde semplicemente a socialisti, popolari, liberali, conservatori e laburisti? Tutti hanno dovuto fare qualche distinzione nell’aderire ai gruppi politici del Parlamento europeo e tutti hanno avuto qualche distinguo da far valere.
Il respiro europeo della politica italiana appare talvolta corto. A destra certamente molto più che a sinistra. Ma questo scarto va colmato perché in Europa si giocheranno le partite vere e il rinnovamento dei partiti nazionali non può che passare per un cambiamento delle relazioni internazionali, per una piena assunzione della dimensione europea della vera politica. In diverse occasioni non aver avuto la capacità di pensare le scelte nella loro complessità ha significato chiamarsi fuori dai tavoli importanti. Altre volte invece è stata proprio la chiave europea a determinare il successo di alcune scelte politiche nazionali.
Gli italiani vivono la consapevolezza che le decisioni più importanti, dalle quali dipende il loro destino, sono emigrate dalle istituzioni nazionali, che un tempo i partiti presidiavano, verso un livello extranazionale, dove ora il nostro Paese deve giocarsi la nuova, decisiva partita. Ma questo aggrava oggi la crisi di consenso verso la politica: è certamente un fenomeno mondiale la progressiva emarginazione delle istituzioni democratiche nazionali dalle decisioni che contano e che incidono sulla vita reale dei cittadini. Tuttavia, nella crisi acuta del nostro Paese, che ha conosciuto durante il decennio dei governi di centrodestra un declino-record rispetto all’intero Occidente, la paura del futuro alimenta e moltiplica il senso di sfiducia.
CHI SCOMMETTE SUL MONTI-BIS
Mario Monti, a modo suo, ha dato una risposta a questo tema, dopo che Berlusconi aveva azzerato la nostra credibilità all’estero e per pressioni esterne era stato costretto alle dimissioni: Monti ha l’autorevolezza e le competenze per giocare la partita in campo internazionale. Questa autorevolezza, insieme alle le sue competenze, gli sono riconosciute non solo fuori dai nostri confini ma anche dagli italiani. Anche perché il suo score segna i migliori risultati proprio in campo europeo e internazionale.
L’idea di un Monti-bis fa leva su questo. Sembra molto, tuttavia si può sostenere che sia troppo poco rispetto a ciò di cui ha veramente bisogno il Paese. Perché i problemi che sono sul tavolo non riguardano soltanto il riordino dei conti pubblici e il contenimento dei tassi d’interesse ma quale modello economico, sociale, politico si vuole dare al nostro paese e quale indirizzo segnerà lo sviluppo. Questi temi non competono alla tecnica ma alla politica. E quindi ai partiti. Partiti diversi tra loro, dunque competitivi e alternativi. Ma per poter compiere queste scelte, per presentare i loro progetti agli elettori devono recuperare credibilità e autorevolezza, uscendo dalla dimensione nazionale in cui si sono confinati e respirando a pieni polmoni quella dimensione europea oggi indispensabile per dare corpo a risposte che non siano solo un repertorio di illusioni.
Le opposte visioni di Merkel e di Hollande rispondono a diverse idee dell’Europa e dei rispettivi Paesi. La politica è il luogo delle scelte e della pensabilità. Solo così potremo evitare di «offrire» il pensiero del nostro futuro ad altri e trovarci veramente in prima fila nell’Europa che verrà.

l’Unità 17.9.12
I doveri del Lingotto verso il Paese
di Nicola Cacace

LA MINISTRA FORNERO HA REAGITO ALL’ANNUNCIO DELLA FIAT DI CANCELLAZIONE DEL PIANO DI INVESTIMENTI Fabbrica Italia con una buona frase: «La strategia di una grande azienda non interessa solo i suoi azionisti ma anche gli stakeholders». Frase contraddittoria con le posizioni sinora tenute dal governo Monti, che mesi fa ebbe a dire: «Fiat ha ogni diritto di scegliere dove investire». Certo, Fiat ha i diritti di azienda quotata, ma il governo di un paese che in più di cento anni ha difeso ed assistito la Fiat in ogni modo non ha alcun diritto? La mazzata, Fabbrica Italia, è stata anticipata da molte uscite di Marchionne di cui l’ultima: «Se il mercato europeo continuerà ad andar male, c’è uno stabilimento di troppo in Italia, specie se non ci lasciano tranquilli in modo che si possa produrre per l’export»; e da uscite del presidente Elkann: «Per continuare a produrre in Italia ci deve essere la volontà del paese». Difficile capire cosa significhi la “volontà del paese”, per chi si appella al libero mercato. Anche perché in passato la volontà del paese è sempre stata condizionata dalla Fiat, per esempio nel tenere lontano americani e giapponesi dal produrre in Italia. La Fiat ignora completamente tutti i contributi che gli stakeholders, cioè i portatori di interesse oltre gli azionisti, lavoratori, fornitori, governi, le hanno concesso in questi anni. Non ultimo il salvataggio dal fallimento tramite il famoso “prestito convertendo” delle banche italiane sostenute dal governo.
Resta l’amara realtà di oggi. L’Italia è l’unico paese europeo con un solo produttore di auto la Fiat, è il paese più ricco di allori nel settore auto e con marchi ancora prestigiosi, ma con molti primati negativi. Produce meno di 500mila auto, contro i 2-4 milioni di Francia e Germania, i circa 2 milioni di Gran Bretagna e Spagna, ha la più bassa quota di mercato interno, il 30%, detenuto dalla produzione nazionale, produce “in patria” meno del 30% delle auto realizzate da Fiat nel mondo. Se le delocalizzazioni sono un portato della globalizzazione, non tutte sono moralmente accettabili. Ci sono delocalizzazioni “buone” di prodotti poveri che non possono sopportare la concorrenza di costo lavoro dei Paesi emergenti: e non è questo il caso dell’auto. Ci sono delocalizzazioni “cattive”, motivate solo dall’obiettivo di massimizzare i profitti e/o sottrarsi ai doveri verso gli stakeholders, ed è il caso della Fiat che, nella sue strategie di investimento, ha volutamente escluso l’Italia, visto il vuoto di modelli ed investimenti degli ultimi anni.
Sulla linea del capitalismo moderno, od economia sociale di mercato, c’è anche la Chiesa di Benedetto XVI che nell’Enciclica Caritas in Veritate ha condannato le delocalizzazioni «quando sono realizzate solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento». Forse l’Avvocato non avrebbe tollerato la “leggerezza-sfrontatezza” con cui la famiglia Agnelli si sta schierando sulla sponda del vecchio capitalismo, dell’ utile comunque ottenuto, e non di quella del capitalismo moderno, delle aziende a pluralità di fini che hanno sensibilità sociale per gli stakeholder. È infine inaccettabile che un governo appoggiato anche dai progressisti, si possa schierare sulle posizioni economicamente superate e moralmente condannabili della Fiat. Non si perda altro tempo nel convocare la Fiat e richiamarla ai doveri almeno “della verità verso il Paese”, che anche la sua storia le impone.

l’Unità 17.9.12
Stati uniti d’Europa, non semplice federazione di Stati
di Pino Arlacchi
Eurodeputato Pd Membro commissione esteri

«L’UNIONE EUROPEA DEVE EVOLVERSI. NON ABBIAMO PAURA DELLE PAROLE : DOVREMO DIRIGERCI VERSO UNA FEDERAZIONE DI STATI-NAZIONE. Di questo abbiamo bisogno. Non di un super-stato. Una federazione democratica di stati che possa fare fronte ai nostri problemi comuni attraverso la condivisione della sovranità». Così il presidente della Commissione ha rilanciato il progetto europeo fornendo una prima risposta a chi chiedeva un salto di qualità politico nella via di uscita dalla crisi. Anche la delegazione italiana al Parlamento europeo aveva chiesto a Barroso di muoversi in questa direzione, ma con una differenza: l’obiettivo del dopo-crisi non deve essere una semplice federazione di stati, ma gli Stati Uniti d’Europa nel vero senso della parola. Noi pensiamo a un assetto fondato sulla cessione completa della sovranità nei campi strategici dell’azione di governo. Pensiamo a un forte centro comune, e alla presenza di una sovranità subordinata nelle sfere minori. Sulla falsariga della gerarchia tra governo federale e singoli stati dell’unione negli Usa. Nel dibattito seguito al discorso del presidente della Commissione, il leader dei liberali, Guy Verofstadt, ha colto il punto più debole della proposta Barroso. Una semplice federazione di stati che «condivida» solo dei pezzi di sovranità potrebbe essere una soluzione peggiore dell’assetto attuale, basato sul dualismo tra Consiglio e Commissione, dove quest’ultima rappresenta quel polo comunitario e non intergovernativo che è il nucleo dei futuri Stati Uniti d’Europa. La proposta Barroso non prevede la creazione di un governo federale centrale che goda di sovranità in materia di politica estera e di difesa, nonché nella sicurezza interna e in materia fiscale, monetaria e di protezione sociale. La sua è un’Europa dove esiste un maxi-Consiglio degli stati membri senza Commissione e senza Parlamento dotati di poteri effettivi. Un’Europa minata alla radice dall’assenza di una amministrazione comune, e dalla mancanza di un meccanismo di bilanciamento dello squilibrio tra grandi e piccoli stati della federazione.
L’idea che sta prendendo corpo all’interno della delegazione italiana è che si debba andare verso un assetto bicamerale e verso un governo europeo vero e proprio. Il Parlamento eletto a suffragio universale dai cittadini europei c’è già. Il Consiglio europeo andrebbe trasformato in camera degli stati sul modello del Senato americano dove sono presenti due senatori per ciascuno di essi senza riguardo a popolazione e territorio. E la Commissione dovrebbe rappresentare l’organo esecutivo delle due camere con un unico presidente eletto dai cittadini europei. Proponiamo un modello che ricalca quello degli Usa, ma con due differenze: niente presidenzialismo e più potere ai cittadini che eleggono i membri del Parlamento. La tradizione europea di governo con l’eccezione francese si basa sulla distinzione tra un presidente che svolge funzioni di alta rappresentanza e garanzia costituzionale e un primo ministro che governa con ministri che possono o no appartenere al Parlamento. Poiché questa formula si è dimostrata capace di garantire i più alti livelli di democrazia e di benessere del pianeta, non c’è ragione di stravolgerla, copiando integralmente altri assetti.

l’Unità 17.9.12
La vera posta in gioco dei progressisti europei
Dobbiamo sostenere e rilanciare la proposta di Bersani sulla Costituente europea
di Gianni Pittella
Vicepresidente Parlamento europeo

NEL DISCORSO A CHIUSURA DELLA FESTA DEMOCRATICA NAZIONALE A REGGIO EMILIA PIER LUIGI BERSANI HA DATO UNA CHIARA VISIONE delle grandi sfide che attendono il nostro Paese e ha parlato della necessità di un momento costituente per l’Europa che restituisca alla politica e alla volontà popolare il governo dell’Unione e soprattutto sottragga alla finanza «la licenza di uccidere». In una lettera al segretario politico del Partito democratico ho condiviso questa piattaforma politico-programmatica, che mi conferma nella convinzione di sostenere pienamente la sua candidatura alle prossime primarie.
Le parole di Bersani riecheggiano quelle di Francois Hollande nel suo discorso del Bourget: «L’avversario della sinistra ha detto l’allora candidato socialista non ha un nome, non ha un viso, non ha un partito, non si candiderà mai e nonostante tutto governa». Questo avversario è una finanza senza regole. In venti anni il culto del denaro per il denaro, hanno spodestato l’economia reale distrutto lavoro, preso il controllo della società e anche delle nostre vite.
Oggi basta un millesimo di secondo per spostare flussi finanziari immensi che minacciano l’esistenza di Stati democratici. La frattura politica del nuovo millennio non è più quella, novecentesca, fra capitale e lavoro. Oggi la linea di divisione fondamentale è fra finanza e democrazia. La finanza cerca di imporre il suo dominio sulla democrazia. Pensiamo alla politica economica dell’Europa che è sempre meno il risultato di un confronto democratico ma è imposta dai mercati. La finanza sta imponendo a società stremate dalla crisi e dalla disoccupazione massacranti cure di austerità su cui gli elettori non si sono mai pronunciati. Il destino stesso dell’Italia è appeso al filo dei capricci dei mercati finanziari. Tutto ciò non è democratico e noi dobbiamo ribellarci contro questa degenerazione. Vietare i prodotti tossici, regolare in maniera durissima i prodotti derivati, introdurre forme di controllo dei flussi internazionali dei capitali: su questi temi si giocherà la vera battaglia per la democrazia europea nei prossimi mesi.
La battaglia per ristabilire la piena sovranità democratica è durissima perché l’avversario è spietato e potente. L’asprezza di questo confronto ci impone di integrare la dimensione europea all’interno della nostra azione politica come giustamente ha fatto Bersani con la sua proposta per una Costituente europea perché è a Bruxelles che si decidono gli equilibri futuri.
Con le forze socialiste e progressiste europee dobbiamo costruire i presupposti per una svolta rispetto alla linea conservatrice, recessiva seguita dalla Ue sotto l’influenza dei governi di centro-destra. La svolta deve costruirsi attorno alla tutela del modello sociale europeo, al rilancio del lavoro inteso come occupazione ma anche come valore che dà un senso alla vita di tutti noi. La gravità delle sfide che abbiamo di fronte ci impone anche un cambio di passo nel modo di fare politica in Italia: il Pd deve trovare un’unità di fondo ed evitare di disperdere le energie in battaglie provinciali e personalistiche, stonate e inadeguate rispetto al momento. Per questo, è sbagliato demonizzare chi esprime nel nostro partito opinioni diverse.
La dispersione e la divisione, il veleno delle lotte personali, rischiano di lasciare un campo di rovine. La democrazia la si difende facendola vivere quotidianamente, tonificandola attraverso il dibattito e il confronto di idee. Un confronto che deve realizzarsi all'interno del Paese reale, di quell’Italia che si sporca le mani tutti i giorni. Partiti e istituzioni hanno il dovere di aprirsi al mondo del no-profit e dell’associazionismo, ai tanti amministratori locali sconosciuti ma eccellenti.
La classe dirigente deve essere selezionata unicamente su due criteri: la preparazione e il coraggio delle idee. Dalla riscoperta di questa Italia viva, troppo spesso dimenticata, dipende la possibilità di aprire una nuova stagione che smentisca il disincanto e la frustrazione popolari che troppo spesso l'opacità di questa politica ha alimentato.
La posta in gioco, caro Pier Luigi, è immensa. La costruzione di una società umana e non mercantile, democratica e non oligopolistica, trasparente e coraggiosa deve diventare il faro della sinistra di questo decennio.

Corriere 17.9.12
Gran raduno in Senato per difendere gli «scatti» di stipendio
Il meccanismo fa quadruplicare gli stipendi. Guadagnano in media 149.300 euro
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Senato, gran raduno dei dipendenti per difendere gli scatti di stipendio
Il meccanismo fa quadruplicare i salari. Assemblea con 14 sindacati

Non soffrono solo i minatori del Sulcis. Anche i dipendenti del Senato sono sul piede di guerra: temono vengano tolti loro gli scatti automatici in busta paga aboliti per tutti gli altri impiegati pubblici 20 anni fa. Automatismi che ancora oggi consentono a Palazzo Madama, nell'arco della carriera, perfino di quintuplicare lo stipendio al di là del merito. E di guadagnare mediamente 149.300 euro: oltre il quadruplo di uno «statale» medio italiano.
Breve promemoria: la scala mobile che adeguava in automatico le buste paga di tutti i lavoratori fu minata da Craxi nel 1984 e soppressa definitivamente da Amato, dopo il fallimento del referendum voluto dal Pci, nel 1992. Gli scatti automatici che fissavano gli aumenti furono tolti a tutti i dipendenti pubblici col Decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio '93, quasi vent'anni fa. Per capirci: lo scudetto andava al Milan di Capello che aveva come bomber Jean Pierre Papin, la serata degli Oscar era dominata da Gli spietati e Casa Howard, Silvio Berlusconi non era ancora sceso in campo, alla guida del Pds c'era Achille Occhetto e agli esteri Emilio Colombo. Un'altra era geologica.
Da allora, gli unici scatti automatici buoni per gli aumenti in busta paga, nel settore pubblico, sono rimasti quelli della scuola. Ovvio: chi entra come maestra alla scuola materna o professore di matematica alle medie, a fine carriera farà ancora, a meno che non cambi lavoro, la maestra alla scuola materna o il professore di matematica senza alcuna possibilità (una vergogna, ma questo è un altro discorso) di aumenti dovuti alla bravura professionale.
Fino a qualche tempo fa nella scuola c'era un primo scatto dopo due anni seguito da uno ogni sei col risultato che un insegnante poteva aumentare lo stipendio, in 25 anni, del 47%. Contro un parallelo aumento per i colleghi dei Paesi Ocse del 69% e addirittura del 98% dei francesi. Adesso anche il primo scatto dopo due anni è stato abolito. Di conseguenza un insegnante può avere in tutta la carriera un massimo di 6 scatti con un incremento della busta paga che in tutta la carriera può arrivare al 50%. Anche nel settore privato, sia chiaro, è rimasto qualche residuo. Gli stessi giornalisti, pur avendo cambiato le regole in questi anni di magra, hanno conservato degli scatti automatici. Che tuttavia possono portare in totale, nell'arco di una vita professionale, a un aumento massimo dichiarato del 72%.
Nel caso dei dipendenti degli organi istituzionali, dal Senato alla Camera, dal Cnel alla Corte costituzionale, la faccenda è diversa. Prendiamo Palazzo Madama: nel 2010 spendeva per stipendi ed emolumenti vari del personale dipendente, escluso quello a tempo determinato, 137.085.372 euro. Il che significa che, risultando 938 dipendenti, la retribuzione media lorda era di 146.146 euro. Più i contributi.
Tanto per offrire dei confronti: nettamente più di quanto guadagnavano mediamente allora i magistrati (132.642 euro) e gli addetti alla carriera diplomatica (93.755). Ma soprattutto il triplo degli universitari, quasi il quadruplo dei medici e degli infermieri del Servizio sanitario nazionale, quasi il quintuplo degli insegnanti e del personale della scuola, fermi a una media di 30.201 euro.
Bene: il bilancio 2011 dice che il risparmio rispetto al 2010 è stato dell'1,87%, corrispondente a circa 2,6 milioni considerando anche il personale a tempo determinato. Ma la spiegazione del calo è illuminante. Testuale: «Tale dato assume particolare significato se confrontato col successivo capitolo del trattamento del personale in quiescenza che, al contrario, presenta un aumento di 6.753.861,31 euro, pari al 7,33%, a causa, sostanzialmente, dei 37 collocamenti a riposo avvenuti nel 2011».
Traduzione: la sforbiciata è stata ottenuta solo perché in 37 sono andati in pensione. Ma questo, per contraccolpo, ha fatto esplodere la spesa previdenziale, che è sempre a carico di Palazzo Madama: un'impennata del 7% in un solo anno. Prova provata che, con i meccanismi attuali, ridurre il personale non porta affatto automaticamente a una riduzione della spesa generale. È vero che finalmente, dal 1° gennaio, anche nella cittadella della Camera alta è stato introdotto il sistema contributivo «pro rata» anche per quelli assunti prima del 2007, ma per vedere i primi risultati veri ci sarà da attendere degli anni.
Fatto sta che dal 2008 al 2011, vale a dire dopo («dopo») lo scoppio della indignazione dei cittadini per gli eccessi dei costi della politica, la spesa per le pensioni del personale del Senato è salita da 82.584.082 a 98.842.943 euro: un'accelerazione mostruosa, del 19,7%. E nei prossimi anni l'andazzo è previsto sugli stessi ritmi.
Lo dice il bilancio preventivo del 2012 approvato all'inizio di agosto. Mentre la spesa per il personale dipendente (tolto quello a tempo determinato) dovrebbe diminuire di circa 2 milioni 560 mila euro, fermandosi a 131 milioni 970 mila euro, la spesa per le pensioni salirebbe invece a 106 milioni 850 mila euro. Il che significa che negli anni in cui il Pil pro capite degli italiani calava (dati Istat) del 6,5% e la vendita delle auto crollava ai livelli del 1983, la bolla previdenziale di Palazzo Madama si gonfiava del 29%. E continuerà a gonfiarsi fino a 109 milioni nel 2013 e quasi 112 nel 2014.
Colpa dei dipendenti del Senato brutti, cattivi e viziati? Ma per carità! Non ci permetteremmo mai di dirlo. Si tratta in larga misura di persone di prim'ordine, di professionisti bravissimi, di esperti che riescono spesso a supplire con la loro preparazione ai limiti di una classe politica che, dati alla mano, è drammaticamente inferiore perfino sotto il profilo scolastico a quella degli altri Paesi avanzati.
Ma i meccanismi che hanno portato alla situazione attuale sono diventati palesemente insostenibili. Basti ricordare che l'automatico rinnovo dei contratti interni, disdettato dalla maggioranza di centrosinistra nell'infuriare delle polemiche sui costi del «Palazzo» e subito ripristinato per quieto vivere dalla destra dopo le elezioni vinte nel 2008, ha fatto lievitare il peso del personale (stipendi e pensioni) fino al 43,31% dei costi del Senato. Assurdo.
Il guaio è, come dicevamo, che sono ancora in vigore, oltre al meccanismo del recupero triennale dell'inflazione, anche gli scatti di progressione automatici biennali. Per avere un'idea dei loro effetti, in quarant'anni lo stipendio annuo lordo di un «assistente parlamentare», il livello più basso, quello dei commessi, può crescere da 38.059 a 159.729 euro moltiplicandosi per 4,2 volte. Quello dei coadiutori da 46.678 a 192.446. Quello dei segretari da 56.766 a 255.549. Quello degli stenografi da 67.390 a 287.422. Ma il top della progressione spetta ai consiglieri parlamentari, la cui retribuzione può passare da 85.415 a 417.037 euro, lievitando di quasi cinque volte. E ci riferiamo alle buste paga del 2008. Che da allora, al netto dei tagli provvisori di Tremonti, sono lievitate ancora.
Sinceramente: è difendibile un meccanismo come questo? Questo pomeriggio, quando si ritroveranno all'assemblea convocata dalla Cgil per denunciare la minaccia che siano toccati quei meccanismi automatici di progressione degli stipendi, sarebbe un peccato se i dipendenti del Senato alzassero le barricate. E guai se lo facesse, per rastrellare consensi, qualcuno dei 14 (quattordici!) sindacati autonomi interni. Credono davvero che se si asserragliassero in cima a una gru o nel pozzo di una miniera per difendere i loro «diritti acquisiti» così gli italiani capirebbero?

Corriere 17.9.12
Sulla censura nessuno ha le carte in regola
di Gian Arturo Ferrari

Se c’è una cosa fastidiosa nel dibattito The Innocence of su Muslims — il misterioso e laido film che ha provocato (consapevolmente?) le violenze di questi giorni — quella è il ditino alzato sui primi principi, sulla libertà d’espressione e sulla civiltà occidentale.
Da che pulpito! L’Italia fino all’altro ieri, cioè fino a tutti gli anni Sessanta ha allegramente censurato il censurabile, infiniti film e numerosi libri, compresa quella (oggi) lettura per L’amante educande che è di lady Chatterley.
Quanto agli Stati Uniti, patria della libertà e del primo emendamento, leggere per favore l'istruttivo Girls lean back everywhere. The law of obscenity and the assault on genius di Edward de Grazia e ricordare, tra gli innumerevoli, il processo per oscenità intentato all'Ulisse di James Joyce.
Quindi giù la cresta, non è proprio il caso di dar lezioni a nessuno e le questioni di principio sarà bene trattarle, ma per ultime, dopo aver affrontato con urgenza quelle di fatto. E in linea di fatto la decisione di Google di oscurare il video in alcuni Paesi islamici, evidentemente sollecitata dal governo americano, è un provvedimento di elementare e doverosa prudenza, anche se tardivo ed esitante, come quasi tutto quel che riguarda il mondo musulmano.
La differenza con il caso Rushdie degli anni 1988-89, cioè di era pre-internet, è nella globalità della visione diretta e nell'esplosività del contagio. Allora ognuno decideva in e per casa propria. Oggi la scelta di uno tocca tutti. Altra questione e ad altro livello è il problema della rete e della sua controllabilità, molto più elevata quest'ultima, sia nei contenuti sia nella velocità di diffusione, di quanto gli utopisti della rete come spazio assoluto di libertà ed eguaglianza fossero disposti ad ammettere. E dunque chi la controllerà? L'azienda colosso? L'azienda colosso riservatamente consigliata dal governo? Il governo? Il partito, come in Cina da cui filtra solo qualche spiffero? Soprattutto, eterna questione, chi controllerà i controllori?
Terzo problema e terzo livello, assai spinoso, quello che potremmo chiamare del diritto al rispetto e al sentirsi offesi, diritto inventato dall'ayatollah Khomeini sempre a proposito del caso Rushdie. Un conto è infatti vietare o censurare ciò che si ritiene inciti direttamente a male fare (qualsiasi cosa si intenda per male). Tutt'altro conto è vietare o censurare ciò che si ritiene possa offendere qualcuno o qualcosa. Siamo qui sul terreno, molto incerto e scivoloso, della sensibilità. E, tolti di mezzo gli insulti veri e propri, come si potrà stabilire che cosa è offensivo? E' offensiva una parodia? Un'imitazione? Una satira? Una sfumatura ironica? Si potrà ancora ridere senza che qualcuno si offenda?
Infine, quarto e ultimo punto, la libertà di espressione. Che ci pone un ultimo gruppo di interrogativi, semplici ma ineludibili. E' un principio universale? Nel 1934 Valentino Bompiani, un grande editore non certo fascista e tantomeno nazista, pubblicò il Mein Kampf di Adolf Hitler. Il cui cospicuo patrimonio personale, sia detto tra parentesi, era fatto tutto di diritti d'autore; così come, del resto, quello del suo avversario Winston Churchill. Ma tornando a Bompiani, fece bene o fece male? E oggi è giusto o non è giusto mettere Mein Kampf in rete? E se lo si mettesse, come si potrebbe poi vietare, così come è vietata, la propaganda nazista, visto che Mein Kampf è stato senza dubbio il suo più formidabile veicolo? La libertà d'espressione non è una norma del codice della strada. E' una conquista delle coscienze. Lunga e faticosa. Per noi recente; per altri futura, in un futuro auspicabilmente, ma non necessariamente, prossimo. Dobbiamo favorire e facilitare questo cammino e dobbiamo farlo in un ambiente che la rete, con la sua globalità e la sua istantaneità — abolendo lo spazio e il tempo —, ha reso in realtà più pericoloso e infido. Dobbiamo anche districarci, trovar risposta a tutti i nostri interrogativi, a tutti i problemi insoluti. Ci accompagna solo la sicurezza non ostentata, senza iattanza, nel valore universale del nostro piccolo credo, la libertà di espressione.

La Stampa 17.9.12
I sogni traditi dei giovani di Tunisi
La rivoluzione ha vinto, ma poi al potere è andato l’Islam più intransigente
di Domenico Quirico

Non riconosco più i ragazzi della rivoluzione, gli intrepidi di Sidi Bouzid, i compagni dei martiri che accesero le rivolte. Erano innocenti e cattivi allo stesso tempo. Sono stanchi, usati, sfatti; e li ricordavo pronti a sorgere e a risorgere, con quel tanto di indomito che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare la vita alle pietre e ai deserti. Li ascolto, li guardo nella piazza dove quel fuoco bruciò e ho l’impressione che qualche cosa di nobile, non soltanto loro, sia avvilito. Sono, ora, semplicemente seri, di quella serietà che i poveri portano nel viso come una maschera immobile, che tradisce una vita piena di triboli e di pene. Davvero ci sono quelli che fanno le rivoluzioni e quelli che ne approfittano.
Sidi Bouzid era così anche un anno fa, campi spogli, niente altro che foglie e gli alberi leggeri e vuoti. Orribili cani con le orecchie da pipistrello continuano a scappare di traverso e spiano col muso appuntito e apprensivo. Rari autobus passano come vecchie diligenze in luoghi deserti. Una città che sembra un mondo in sfacelo, sconnesso sordido: i selciati i muri i legni le moschee gli interni. Nell’aria vaga un fetore acido. I ragazzi (alcuni sono «harraga», hanno viaggiato con me sul mare verso Lampedusa il marzo di un anno fa) distillano come sempre infiniti caffè attorno al governatorato; parlano fitto, eppure non pensi che a un alone di solitudine. Ecco: la vita qui è tornata a essere, dopo una breve fiammata di gioia e speranza, null’altro che un rasentarsi di solitudini. Li ricordavo glabri, ora molti esibiscono l’arruffato tosone della barba dei salafiti. Mi raccontano, quasi vergognandosi, a occhi bassi, che a fine luglio un gruppo di operai che invocavano il pagamento dei salari e una folla di abitanti furiosi contro i nuovi governanti sono sfilati invocando: «Ben Ali, Ben Ali…, il nome di «Zaba», il tiranno che hanno impiegato vent’anni a cacciare.
Una studentessa dell’università, con qualcosa di materno misto alla sua seduzione di donna, che un anno fa mi aveva incantato con i suoi sogni rivoluzionari, guarda sul giornale le foto dell’ambasciata americana a Tunisi in fiamme: «Abbiamo sprecato la nostra libertà…». La prende un rimpianto cocente di aver sciupato qualcosa, e un’ora segreta che non sarebbe più tornata.
La strada, che un anno fa sognava la libertà, oggi è in mano al partito di Dio, distrugge l’ambasciata Usa e vuole la sharia. E i ragazzi, affamati e senza lavoro, si rimettono in mare e fuggono. La nuova tragedia di Lampedusa ha bruscamente richiamato la questione sociale. «Se guardi il profilo dei martiri e la geografia della rivoluzione del 2011, il centro e il sud miserabile, capisci che è nata dalla povertà - mi dice Abderrahmane Hédhili, che guida il Forum per i diritti economici e sociali -. Poi apri la tv, assisti a un dibattito tra i politici di oggi… Che pena! Tutti ci hanno tradito! ». Attorno a lui le madri dei ragazzi spariti nel Mediterraneo nei barconi affondati, duemila in un anno, mi protendono le foto dei figli, mi guardano compassionevolmente come se mi conoscessero.
Non è la primavera araba a svelarsi, come sostiene qualcuno, sconfitta. La rivoluzione ha vinto, lo prova con i suoi martiri. È il dopo rivoluzione filisteo e rancido, qui e altrove, che è stato sconfitto. Bisogna ammetterlo. La mite Tunisia, con la crescita numerica dei salafiti per cui solo i primi 220 anni dell’Islam sono puri e il resto è «bid’a», eresia, si scopre violenta. Mi pare di udire qualcosa che si ridesta, l’intransigentismo, l’odio giubilante di questo jihad nomade, come un allarme che si propaga ai quattro punti cardinali. Puoi sorprenderti dell’assalto all’ambasciata Usa, dei randellamenti quotidiani che il governo finge di non vedere, quando il primo nel pantheon del partito al potere, l’islamico Rached Ghannouchi, a chi gli rammenta tutto questo, risponde affettuosamente: «Ma sono i nostri ragazzi…»?
La miseria all’origine di tutto, come un anno fa, sempre: la disoccupazione al 17%, al 50% per i giovani diplomati, l’inflazione al 7,5%, ci sono riserve per soli cento giorni di importazioni, i prezzi di pomodori e peperoni sono saliti di tre volte in diciotto mesi. Gli imprenditori sono bollati come profittatori dell’antico regime; anche se i turisti in parte sono tornati, l’Europa, stretta dalla crisi, garantisce cicalate e promesse ma non importazioni. Soprattutto, l’abisso economico che separa l’interno dalla costa si è allargato, dilaga un regionalismo astioso e pericoloso.
Il governo, monopolizzato dal partito islamico Ennahda è bollato da tutti di incompetenza. Prevedibile, visto che la maggior parte dei ministri (che sono 78!) arriva dall’esilio e dalla galera. Ma si aggiunge anche il nepotismo che dilaga e torna la corruzione con le figure classiche degli intermediari. Le clientele islamiste ottengono denaro a pioggia, nonostante la crisi. Il governatore della banca centrale, Kamel Nabli, è stato licenziato, appunto per sostituirlo con uno più docile a queste mungiture. Intanto la nuova costituzione che doveva essere pronta per il 21 di ottobre è ferma al dibattito sull’articolo uno! Una lentezza strumentale, sospettano molti: il partito islamico infatti non organizzerà nuove elezioni fino a quando non sarà sicuro di rivincerle.
Allora lo schema è davvero questo nel mondo arabo: le classi medie, pie e conservatrici, contro la gioventù urbana povera? E se la controrivoluzione, il ritorno ai tempi di Ben Ali che qualcuno invoca, in realtà non fosse già realizzata, operante nel dominio del partito islamico?
«Attenti - mi avverte Gamal, politologo e giornalista che scopro pessimista e deluso -. Ennahda sta creando una dittatura, non è un rischio è una realtà! Le prossime elezioni le vincerà chi avrà il controllo dei media e il partito islamista sta nominando uomini fedeli alla guida di tutti i giornali e delle reti tv. Ennahda e Ben Ali sono le due facce della stessa medaglia, i due partiti si assomigliano, la logica è la stessa, con in più il fatto che Ennahda gode di una legittimità religiosa. È la metodologia feudale del mondo arabo, che preferisce il dittatore al democratico, dove quello che conta è l’immagine della forza. Il partito islamico al governo è un partito come gli altri, più vicino a Machiavelli che a Maometto».
Mi accorgo che in Tunisia, sui muri, nei giornali, i riferimenti rivoluzionari rispetto a qualche mese fa sono evaporati; anche come parola, «rivoluzione» comincia a ossidarsi, a perdersi nel discorso. La frattura non sembra più tra rivoluzionari e controrivoluzionari, ma tra chi è per il potere e chi è contro. Parli con la gente e ti accorgi che la si invoca per risolvere un problema personale, spesso minimo. Gli ideali possono corrompere profondamente quanto il cinismo.

Corriere 17.9.12
Uccise dai jet Nato. La strage nel bosco delle donne afghane
Un «errore» che aggrava le tensioni in corso
di Lorenzo Cremonesi

Il CAIRO — Almeno 9 donne morte ieri tra le montagne delle province pashtun dove operano i talebani, altre 8 ferite. Tra loro anche alcune bambine sui dieci anni. È l'ennesimo errore compiuto dai jet americani inquadrati nel contingente Nato-Isaf in Afghanistan. Per ammissione degli stessi portavoce alleati, il blitz aereo era stato lanciato contro una cinquantina di talebani che stavano assediando una base della polizia afghana nella vallata di Noarlam Saib, nel dedalo di montagne coperte di pinete nella provincia nordorientale di Laghman. Sono aree dove la Nato opera ormai solo con l'aviazione. Sul terreno dominano i talebani, che oltretutto hanno facile passaggio verso i rifugi amici nelle confinanti «zone tribali» pachistane. A detta del governatore locale, Sulgar Sangarwal, le donne erano nei boschi a raccogliere legna e pinoli. Facilmente i piloti le hanno confuse con i guerriglieri nelle vicinanze e hanno aperto il fuoco.
Nel linguaggio militare queste nuove vittime sono uno dei tanti «danni collaterali» che insanguinano di cadaveri di civili qualsiasi conflitto, specie quelli dove eserciti convenzionali armati con la tecnologia bellica più devastante sono chiamati a operare contro una guerriglia che si muove tra la popolazione. E tutto sommato l'Alleanza Atlantica da tempo ha cercato di limitare le sue operazioni proprio per evitare massacri di questo genere, che oltretutto danneggiano gravemente i rapporti con le autorità locali e lo spirito dell'intera missione. Nei primi 9 mesi del 2011 si calcola che i civili uccisi involontariamente siano stati circa 400. Durante lo stesso periodo di quest'anno ammonterebbero alla metà. E per giunta i morti tra la popolazione afghana causati dagli attentati talebani sono molti di più.
Pure, il nuovo massacro di innocenti firmato Nato arriva in un momento difficilissimo per gli Stati Uniti e i loro alleati, che complessivamente contano quasi 100.000 soldati nel Paese (l'Italia ha un contingente di circa 4.200 uomini nella provincia occidentale di Herat). Il loro ritiro non è previsto prima della seconda metà del 2014. L'ondata di proteste in tutto il mondo musulmano sollevata dalla vicenda del video anti islamico genera anche qui tensioni e scontri. E nell'Afghanistan dominato da una profonda tradizione religioso conservatrice si somma al risentimento popolare per episodi simili nel passato recente. Solo pochi mesi fa la distruzione di alcune copie del Corano da parte dei soldati Usa nella base di Bagram scatenò violente manifestazioni con morti e feriti. Conseguenza immediata è il crescere dei cosiddetti attacchi «green on blue», come vengono definiti i casi ormai tragicamente continui di uomini delle forze di sicurezza afghane che sparano sui soldati Nato-Isaf loro addestratori. Un fenomeno che rende sempre più problematica la cooperazione alleata con quelle stesse forze che dovrebbero assumere presto il controllo del Paese. Se ne cominciò a parlare come di rischio potenziale nel 2006. Un anno dopo 2 addestratori americani vennero uccisi dai loro allievi afghani. Nel 2011 il numero era salito a 35. Quest'anno supera quota 50. Inclusi 2 soldati inglesi uccisi in una trappola di poliziotti afghani sabato e ieri 4 americani nella provincia meridionale di Zabul.

La Stampa 17.9.12
Anche la stampa di Pechino alimenta le proteste per le isole contese
Tensione Cina-Giappone Gli Usa: si rischia la guerra
Cortei e boicottaggi contro Tokyo in 85 città cinesi
di Ilaria Maria Sala

HONG KONG Continuano le manifestazioni anti-giapponesi in Cina, scatenate dalla questione delle isole contese fra Tokyo e Pechino. Cordoni di forze dell’ordine mantengono le strade libere dal traffico e la polizia interviene solo davanti a episodi di violenza, sia nei pressi dei consolati giapponesi - bombardati da uova, banane, bottiglie d’acqua -, sia nelle strade. Secondo l’agenzia di stampa giapponese Kyodo, le città coinvolte domenica nelle proteste sono 85, e la violenza in alcuni casi è stata considerevole per un Paese dove le manifestazioni sono solitamente illegali, e soffocate al più presto.
Invece, oltre all’appello al boicottaggio dei beni giapponesi (anche quelli prodotti in Cina), si sono avuti attacchi per la strada a cittadini giapponesi, a Qingdao sono stati incendiati un’azienda Panasonic e un rivenditore Toyota, a Changsha uno shopping mall Heiwado è stato bruciato (e pare che la folla sia stata sobillata da un poliziotto in borghese), mentre in diverse città molti supermercati giapponesi sono stati svaligiati, e vari ristoranti presi di mira. A Shenzhen si sono avute manifestazioni particolarmente violente e la polizia ha utilizzato lacrimogeni e manganelli per disperdere la folla, mentre a Guangzhou è stato distrutto un ristorante giapponese vicino al consolato nipponico.
La tensione è esasperata anche dalla stampa, sotto stretto controllo delle autorità, che incita al boicottaggio dei beni giapponesi (pubblicando liste di prodotti da evitare) e in alcuni casi inneggia alla guerra (come quando il Quotidiano della Sera di Pechino chiede che vengano gettate «bombe atomiche sul Giappone»). La televisione, mostrando alcune manifestazioni, si sofferma su slogan incendiari antigiapponesi portati da alcuni dimostranti - insieme al ritratto di Mao. Solo Xinhua, la più ufficiale delle voci ufficiali, ha fatto appello a un’espressione «razionale» dei sentimenti patriottici, scrivendo che questi non devono essere «a scapito dell’ordine sociale».
Da Tokyo (dove l’ambasciatore giapponese in Cina è appena deceduto per un infarto ad appena due giorni dalla nomina) il primo ministro Yoshihiko Noda, ha detto in un talk show che «la questione sta avendo un impatto sulla sicurezza dei nostri cittadini e sta danneggiando beni di proprietà giapponese», e ha chiesto a Pechino di assicurare la loro incolumità. Noda ha però anche ribadito la posizione giapponese: la nazionalizzazione delle isole, acquistate dal cittadino giapponese che le possedeva, è stata fatta per «poterle amministrare in modo stabile».
Nel frattempo, l’esercito cinese ha dato il via a esercitazioni militari che potrebbero esacerbare ulteriormente le tensioni: sette regioni militari sono coinvolte in esercitazioni «navali, aeree e marine», che sembrano essere una dimostrazione di forza nei confronti del Giappone.
Intanto è arrivato in Giappone il Segretario Usa alla Difesa, Leon Panetta. «Preoccupato» che le provocazioni, da una parte o dall’altra, possano risultare in «errori di giudizio che potrebbero portare a un conflitto», ha invitato entrambi i Paesi alla calma. Gli Stati Uniti non prendono posizione sulle dispute territoriali - ma come alleati militari del Giappone, se scoppiasse un conflitto, si troverebbero in acque turbolente. "La polizia lascia fare e interviene solo quando la violenza eccede Consolati presi d’assalto con lancio di uova e banane Liste di merci da evitare"

La Stampa 17.9.12
Iran, le navi americane nello Stretto di Hormuz
Al via le megamanovre militari con gli alleati europei e arabi
di Paolo Mastrolilli

Non ha precedenti, l’esercitazione navale che una trentina di nazioni hanno cominciato ieri intorno allo Stretto di Hormuz. Almeno sul piano dello spiegamento di forze, come non si era mai visto prima nella regione. L’obiettivo dichiarato è preparare la risposta ad una fantomatica organizzazione estremistica, che potrebbe decidere di minare quel tratto di mare, dove passa circa un terzo del petrolio mondiale trasportato via acqua. L’obiettivo reale, secondo gli analisti, è mandare un segnale all’Iran sulle reazioni che subirebbe nel caso lanciasse un’azione militare, e rassicurare Israele sulla determinazione della comunità internazionale a contenere la Repubblica islamica.
L’esercitazione, dal nome International Mine Countermeasures Excercise 2012, o IMCMEX 12, è enorme, perché copre tre fronti: a Nord il Golfo Persico nella zona del Bahrein, a Sud l’accesso allo stretto davanti all’Oman, e ad Ovest il Golfo di Aden che apre la porta del Mar Rosso. Hormuz non viene toccato direttamente, ma è accerchiato. Tra i Paesi partecipanti ci sono tutti i grandi giocatori dello scacchiere: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, ma pure l’Arabia Saudita e gli Emirati. La flotta mobilitata comprende unità per lo sminamento, ma anche portaerei, navi lanciamissili e sottomarini. Tutto quello che potrebbe servire per annientare una nazione. Le manovre sono cominciate ieri e continueranno fino al 27 settembre, il giorno dopo l’intervento di Teheran all’Assemblea Generale dell’Onu, dove il suo programma nucleare sarà al centro del dibattito. Una volta conclusa l’esercitazione, poi, alcune delle unità impiegate resteranno in maniera permanente nella zona, nel caso il loro servizio diventasse realmente necessario. Qualche settimana dopo, infatti, l’Iran risponderà tenendo una propria operazione difensiva nella stessa area, per dimostrare la sua capacità di proteggere le strutture atomiche.
Non ci vuole molto per collegare i puntini, e capire che il gioco è assai più ampio di quanto non si ammetta ufficialmente. Proprio ieri il generale Mohammad Ali Jafari, capo delle Guardie Rivoluzionarie, ha avvertito che se la Repubblica islamica verrà attaccata, risponderà colpendo lo Stretto di Hormuz, Israele, e le basi americane in Bahrein, Kuwait, Emirati e Arabia Saudita: «E’ - ha detto - una politica dichiarata del mio Paese». Teheran, in effetti, ha minacciato di minare lo stretto. Gli analisti dubitano che lo farà, perché sarebbe contro il suo interesse: anche il petrolio iraniano e le importazioni del Paese transitano per questo tratto di mare largo appena 21 miglia, con due canali di navigazione ampi due miglia ciascuno. Se però gli ayatollah venissero messi con le spalle al muro, impediti a vendere qualunque quantità di greggio, e attaccati nel progetto nucleare, potrebbero rispondere bloccando Hormuz.
L’esercitazione serve a chiarire che questa ritorsione sarebbe inutile, perché le forze in campo potrebbero sminare lo stretto e lanciare risposte molto più pesanti, in grado di mettere in ginocchio il Paese. Nello stesso tempo, però, queste manovre rappresentano anche un segnale per Israele: «Gli Usa - ci spiega Charles Kupchan del Council on Foreign Relations - stanno conducendo una delle più grandi esercitazioni navali nella storia della regione, e hanno una collaborazione militare senza precedenti con lo Stato ebraico. Questa è l’unica cosa che conta davvero, nelle relazioni bilaterali». Intende dire che l’impegno di Obama a difendere Israele è fuori discussione, e questa rappresenta la migliore risposta pratica alla richiesta del premier Netanyahu di imporre «linee rosse» a Teheran. Washington vuole proseguire sulla strada delle sanzioni e del negoziato, e non vuole una guerra alla vigilia delle elezioni presidenziali, ma è pronta ad intervenire.

La Stampa 17.9.12
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu non verrà ricevuto da Obama
Netanyahu sprona Obama: più duri con Teheran
Il premier teme che a Washington prevalga la linea dei moderati
di Aldo Baquis

TEL AVIV L’opportunità o meno di tracciare una inequivocabile «linea rossa», nell’intento di bloccare i programmi nucleari dell’Iran, è al centro di un’accesa schermaglia condotta da Usa ed Israele attraverso i media. Imperterrito (e forse infastidito per il rifiuto di Obama di riceverlo a fine mese) il premier israeliano Benyamin Netanyahu insiste invece che la leadership iraniana è lanciata verso la realizzazione dei progetti atomici e che solo la definizione di una «linea rossa» potrebbe indurla ad una dose di prudenza. Se si vuole esorcizzare il rischio di un blitz preventivo israeliano – lascia intendere il premier – occorre mettere sul tavolo una minaccia credibile.
Non essendo finora riuscito a convincere l’amministrazione democratica (né peraltro leader amici di Israele, come Angela Merkel e David Cameron) Netanyahu si è rivolto ieri direttamente all’opinione pubblica statunitense, con interviste alla Cnn e alla Nbc. «Non mi fiderei della razionalità dei leader iraniani, il loro zelo religioso viene prima della sopravvivenza, hanno uomini-bomba ovunque», ha osservato. «L’Iran è guidato da persone di fanatismo incredibile, lo stesso che ha investito in questi giorni le ambasciate Usa... Vorreste disponessero di armi atomiche? ». Ha ricordato Timothy McVeigh, il terrorista della bomba di Oklahoma City: «É come se entrasse in un negozio chiedendo fertilizzanti per il suo giardino. Andiamo, sappiamo che stanno facendo un’arma».
Le antenne del premier devono aver fiutato che nel Dipartimento di Stato spirano anche venti remissivi, di accettazione passiva di un Iran nucleare come «male minore» e come opzione meno catastrofica per la regione che non un blitz di Israele. Netanyahu ha allora messo il dito nella piaga: «C’è perfino chi pensa che un Iran nucleare stabilizzerebbe il Medio Oriente. Significa fissare nuovi standard della stupidità umana».
Ma in Israele i continui appelli di Netanyahu non trovano tutti assenzienti: fra i primi ad opporsi vi è il capo dello Stato Shimon Peres, preoccupato per le condizioni dei rapporti Israele-Usa. Anche un esperto israeliano di questioni strategiche, il dottor Efraim Ascolay, ha ieri espresso perplessità sulla politica suggerita da Netanyahu. Ci sono situazioni (ad esempio, per quanto riguarda l’arricchimento dell’uranio) in cui non è immediatamente chiaro se una «linea rossa» sia stata effettivamente varcata. Le informazioni di intelligence giungono talvolta in ritardo dall’Iran, o in maniera frammentaria. Semmai, suggerisce Ascolay, il gruppo 5 + 1 (i Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e la Germania) dovrebbe stabilire una data precisa entro la quale l’Iran debba adempire alle richieste presentate dalla comunità internazionale. Questo ultimatum dovrebbe essere accompagnato dalla minaccia di un’azione militare. Ma Obama, lo comprende anche Ascolay, non può prendere impegni del genere prima del voto di novembre. Dunque – lascia intendere – Netanyahu sembra trovarsi adesso in un vicolo cieco.

Corriere 17.9.12
Una nuova guerra d'Algeria per il centenario di Camus
La mostra della figlia divide gli intellettuali francesi
di Stefano Montefiori

PARIGI — I fatti, in breve: l'anno prossimo sarà il centenario della nascita di Albert Camus, la figlia Catherine prepara in suo onore una grande esposizione a Aix-en-Provence affidandola prima allo storico Benjamin Stora, che a fine luglio è stato licenziato, e poi al filosofo Michel Onfray, che due giorni fa è scappato a gambe levate parlando di «nave dei folli».
Difficoltà di finanziamento, problemi organizzativi, incompatibilità caratteriali? Sarebbe riduttivo. Ecco quel che pensa Michel Onfray dell'«affare Camus»: «Un bailamme dove si mescolano in modo irragionevole ego sovradimensionati, la volgarità disgustosa dei politici di professione, le patologie mentali, gli intrighi dei clan, le amicizie di ex combattenti di estrema sinistra riconvertiti nell'opportunismo social-democratico, l'arroganza dell'impotenza universitaria, la stupidità di una ministra che confonde uso pubblico dei fondi e punizione ideologica, il velleitarismo delle istituzioni culturali, il doppio linguaggio di quello, la schizofrenia dell'altro, il tutto sullo sfondo di guerre biliose organizzate e orchestrate dal giornalismo parigino. Benedico questa avventura per avermi fatto scoprire una simile nave dei folli, ma non ne posso più. In Francia l'atmosfera intellettuale è sempre di guerra civile», sostiene il filosofo.
La figlia di Camus, Catherine, che pure aveva chiamato Onfray al posto di Stora, reagisce volando più basso: «Non so spiegarmi la decisione di Michel Onfray ma per correttezza avrebbe potuto contattarmi prima di dedicarsi a questo colpo mediatico. L'ho incontrato e ho fatto in modo di mettere il lavoro di Camus a sua disposizione. Forse non sono una grande specialista dell'opera di Camus ma conosco mio padre e quel che mi ha insegnato: lealtà e misura. Sembra che il signor Onfray non abbia colto questi valori nell'opera di mio padre. Peccato». La guerra civile intellettuale evocata da Onfray, autore mesi fa di un ponderoso e fortunato saggio su Camus, si combatte sull'autore dello Straniero e attraverso di lui sulla guerra di Algeria, piaga eternamente aperta che il presidente Hollande vorrebbe chiudere con un viaggio di riconciliazione ad Algeri, nel cinquantenario degli accordi di Evian.
Perché è così difficile organizzare una mostra su Camus? Stora, storico della guerra di Algeria, voleva parlare dello scrittore schierato contro il colonialismo, che denunciava le torture dei paracadutisti francesi e protestava contro le condanne a morte eseguite tra gli oppositori algerini. Stora ha scritto «La guerra d'Algeria», edito in Italia dal Mulino, dove enumera gli eufemismi usati per anni in Francia a proposito di quella guerra: prima «avvenimenti», poi «operazioni di polizia», poi «azioni di mantenimento dell'ordine», infine «opere di pacificazione», mai guerra. E Stora poi ha denunciato il ruolo che in quella tragedia ebbe François Mitterrand, nobile abrogatore della pena di morte appena arrivato all'Eliseo nel 1981, ma controfirmatario di centinaia di esecuzioni di algerini, da ministro dell'Interno e della Giustizia che rifiutò le richieste di grazia.
Aix-en-Provence è la città dei pieds-noirs, i francesi rientrati nella metropoli dopo il 1962, e degli harkis, gli algerini dalla parte della potenza coloniale costretti a lasciare il Paese. Il sindaco di destra, Maryse Joissains, non aveva fatto mistero dei suoi dubbi sull'opportunità di affidare la mostra su Camus a Stora. Così, silurato lo storico anti-colonialista, Onfray che lo ha sostituito è diventato automaticamente, per gli amici di Stora e gran parte dell'ambiente accademico e politico, un intellettuale un tempo di sinistra ma ormai difensore dell'Oas e dell'Algeria francese. E la ministra della Cultura, la socialista Aurélie Filippetti, ha ritirato i fondi alla mostra evocando all'improvviso le note ristrettezze di bilancio. Nessuno considera più Camus, come faceva Jean-Paul Sartre, «un filosofo da liceali», ma parlarne serenamente, in Francia, è ancora impossibile.

l’Unità 17.9.12
Festival di Filosofia: se la finanza e il denaro fanno sparire le «cose»
Chiusa ieri la kermesse modenese dedicata alle «cose», nullificate inflazionate o divenute immagini
di Bruno Gravagnuolo

TANTO PER COMINCIARE ALL’INIZIO LE COSE NONESISTEVANO. Lo dice anche il Vangelo giovanneo: In principio era il Verbo. E quanto al Genesi le «cose» vengono create ex nihilo con un «sia fatto», mentre ad Adamo vien dato il potere poetante di nominarle, animali inclusi. Ma sapete qual è la novita? Che le cose oggi non esistono più, ridotte come sono a flussi immaginali, campi energetici o a catena di rifiuti non riciclabili, natura inclusa. È questa la percezione che ha animato il festival della filosofia di Modena, Carpi, Sassuolo, apertosi sabato e chiusosi ieri (200 incontri e 40 luoghi diversi) con contributi di Bodei, Baumann, Searle, Latour (da noi anticipato), Latouche, Sloterdijk, Cacciari, Severino e gli implacabili «menù filosofici» di Tullio Gregory.
Percezione del senso di sparizione e vuoto che assalgono gli «enti» e le cose. Non solo perché è l’epoca dei simulacri e della distruzione delle risorse non reintegrabili ma anche perché in fondo a ispirare la kermesse modenese è stato un libro di Remo Bodei, presidente del comitato scientifico, di tre anni fa: La vita della cose (Laterza, pp. 135, Euro 149). Tesi: occorre «decosificare» le cose per riscoprire la vitalità relazionale e l’energia umana in esse. Tramite l’arte e una rinnovata percezione d’esperienza emotiva, che ne faccia cosa e cose pubbliche. Stimolo «umanista» quello di Bodei, che non esaurisce la questione, di cui il libro fu un assaggio, a cominciare da un ermeneutica storica del problema. E allora ecco un po’ di storia semantica. Intanto la «cosa» come noi la intendiamo merce, utensile, bene proprietario è relativamente moderna. Trapela in Cartesio come res cogitans e res extensa, soggetto e oggetto, e ha qualche antecedente negli scettici antichi, che reputavano gli enti singoli impenetrabili al conoscere (quasi come Kant). All’inizio si trattava di «enti», del «to-de-ti», il qualcosa, il questo o quello. Oppure in ballo c’era il «to auto pragma», la «cosa stessa», intesa come processo intellettivo che definiva una singolarità, dentro l’universalità della mente e delle «categorie». La res latina poi conserva l’etimo greco di «rein», «parlare» in pubblico. Mentre la Ding germanica viene forse da denken, pensare, deliberare. Insomma, le cose erano fatti relazionali, linguistici. O anche copie e ombre dileguanti di un Eterno, fatto di molteplici essenze. Oppure ancora «feticci»: trasfigurazioni dell’umano in divino e viceversa. Mistero trasparente se si vuole, e non «cosalità» (la «cosa schiavo» come strumento vocale aveva la sacertà naturale di un animale).
Tutto cambia con l’avvento dell’«objectum», e della «cosa» quale «causa» (come da etimo: effetto materiale misurabile). Significa l’oggetto impenetrabile, straniato. Opposto al soggetto. E poi significa il mondo come «immensa raccolta di merci» e utensili interscambiabili: previa esibizione di titolo di credito monetario. Per Marx è il trionfo del valore di scambio e la spettralità delle «forme» allusive e cangianti. E però, è anche accumulo inerte del valore d’uso: arte, collezionismo, musei, estetica del quotidiano, design. La cosa dunque non più «ente» è minacciata da sé stessa: figurazione del valore e del denaro che dilegua, e svilimento e accumulo di valore già usato. Non basta. La fisica moderna ci mette del suo: le cose come campi di energia, cristalli di particelle sfuggenti. E la rivoluzione linguistica da Saussure a Wittgenstein definirà le cose come puri campi semantici. Infine, con la rivoluzione digitale, accade qualcosa di impensato. E l’entropia «auto-nientificante» delle cose conosce un’ulteriore accelerazione: non contano le cose che si hanno. Ma le «funzioni» alle quali si è in grado di accedere, i «dispositivi» di cui si dispone, per ordinare on demand beni e servizi (rimpiazzabili). Sparisce il dominio dell’uomo sull’uomo? No. Sta tutto concentrato in due «cose» ben precise: finanza e tecno-informazione (algoritmi, brevetti, motori di ricerca, new media, know-how per manovrare flussi globali ed assemblare). Certo la pioggia e il degrado delle cose consumate perdura. Ma ancor più che al tempo di Marx, le relazioni umane appaiono stregate, da «cose-figure» che appaiono e scompaiono. E che ci guardano e trapassano. Perciò masse arabe imponenti si fanno stregare da atavici «significanti» religiosi: per annichilare «cose blasfeme» che sfuggono e travolgono destini. Morale: riprendiamoci pure la «vita delle cose», come dice Bodei. Purché siano «cose-relazioni»: cioè conoscenza, natura, comunità, immaginazione, cura e desiderio. Ma per questo ci vorrebbe un’altra economia e un’altro nomos, per un altra terra e altre cose, mai viste.

Corriere 17.9.12
Il pensiero torna critico
I filosofi denunciano lo sfruttamento delle risorse. Serve un nuovo equilibrio che scongiuri i conflitti
di Pierluigi Panza

MODENA — Il successo popolare che sta riscuotendo la filosofia, come si registra dalle presenze (180 mila) nei tre giorni del «festival filosofia» di Modena appena chiuso, dalla diffusione di programmi tv e, ora, anche dalle lezioni in dvd del «Corriere della Sera», rivela il «volto terapeutico» di questa disciplina di fronte alla crisi economica e allo spaesamento dell'individuo. Un volto disciplinare che utilizza anche nuovi strumenti, come video, streaming e, a Modena, distributori automatici di libri: è un marketing che ha coinvolto negozi, ristoranti con menù «filosofici» anche a prezzo politico (4,5 euro per un pasto) e brand persino sui tovagliolini di carta dei bar. Un volto terapeutico ottenuto grazie alla connessione con altre discipline (secondo una logica che solo il ministero dell'Università sembra faticare a riconoscere) e al definirsi della filosofia entro il perimetro della critica della cultura, specie dell'economia e della società.
I filosofi dell'età dei festival e dei dvd organizzano le cosiddette Scienze umane, che scienze non sono (lo diceva già Popper), in un sapere discorsivo, in dispositivi di comprensione sulla base dei quali ordinare le scelte politiche, economiche e sociali. E questi mezzi di diffusione assolvono, nell'età postmoderna e culturalizzata, parte delle funzioni aggregative e di conferimento di senso che erano proprie delle feste popolari e delle predicazioni. I dvd inoltre, come afferma lo storico della cultura Krzystof Pomian, «assolvono la funzione di conservare e trasmettere questi contributi discorsivi». E sono essi stessi parte di quella «economia immateriale, nella quale l'uomo crea oggetti sociali dotati di potere», come afferma il linguista di Berkeley John Searle.
A dire il vero, però, proprio marketing, mercificazione, tecnologie immateriali, nonché il tema della libertà individuale (il primo affrontato nei dvd proposti dal «Corriere»), sono gli argomenti finiti più nel mirino nella tre giorni del «festival filosofia» di Modena-Carpi-Sassuolo (che l'anno prossimo sarà dedicato al tema «amare»). In tempo di crisi e, nel caso di Modena, su un territorio devastato dall'evento sismico, interrogarsi sulle cose reali e virtuali ha significato per diversi pensatori criticare il mondo dei consumi, degli individui ridotti a merce e del saccheggio del patrimonio comune (anche urbano) e delineare un quadro di precarietà, manipolazione e «vetrinizzazione» (termine coniato dal filosofo Vanni Codeluppi) dell'individuo e della società. Ma mentre le analisi — che sono quelle nelle quali un pubblico di professori e studenti «progressisti» trova rassicurazione — appaiono affascinanti, più difficile è indicare opzioni praticabili. Perché, si sa... l'arte, la letteratura, la filosofia ecc. pongono problemi, che dovrebbero risolvere altri (chi, la politica?).
Zygmunt Bauman, una delle star di ogni festival e anche di quello di Modena, è tra i più determinati nella critica alla cultura dei consumi. «Il consumismo ha trasformato il senso degli oggetti, chiamati solo a soddisfare desideri. Abbiamo trapiantato i rapporti consumistici anche tra gli individui. Oggi il fine è sempre la soddisfazione personale senza reciprocità. Ma ciò genera ansia di abbandono, timore di essere sostituibili, che certo non si placa attraverso l'uso di Facebook o Twitter, che sono strumenti senza colpa, ma oggi utilizzati per creare relazioni inaffidabili e prive di aspetto morale». Insomma, siamo (sempre) al tema dell'utilizzo della tecnologia e del marketing...
«Non ci sono salvatori — risponde Bauman alla richiesta di soluzioni — ma non si può continuare a pensare che solo aumentando il Pil si risolvano i problemi. Tra 30 anni il pianeta consumerà 5 volte quello che ha a disposizione. Dove troveremo altri 4 pianeti da saccheggiare? Penso che o ci sarà una guerra globale per la ridistribuzione oppure dobbiamo ribilanciare il rapporto tra potere e politica».
Anche per Remo Bodei il consumismo è stato un modo per soddisfare desideri a lungo repressi nell'epoca della penuria. «Ma oggi, individualismo e iperconsumo hanno ridotto gli oggetti e gli esseri umani a merce, privandoli di valore. I cellulari contengono un minerale radioattivo che ha causato tumori e guerre: la merce è anche sfruttamento». Soluzioni? «Ritrasformare l'oggetto in cosa, ovvero ciò per cui si ha interesse. Dobbiamo riconoscere nelle cose il deposito delle impronte dell'altro, la stratificazione, e impegnarci nell'esaltare valori non economicamente misurabili».
Perché oggi l'uomo e la società, aggiunge Codeluppi, «sono ridotti a vetrina, merce da esporre. La prostituzione è una forma di corpo in vetrina sul marciapiede, la trasformazione delle città in luoghi di shopping, quella dei musei in ottica commerciale sono tutte espressioni di un mondo ridotto a reality».
La tecnologia, dunque, se non ben sfruttata negli scopi, riduce l'esistenza a merce momentanea ed instabile, diventa «mega-macchina» (Latouche) che domina l'esistenza, consuma gli individui e fette di territorio, come ricorda Salvatore Settis: «Tutto si iscrive nel consumo, siamo un Paese sismico dove non si fa prevenzione, dove nel 1996 le sovrintendenze avevano più mezzi a disposizione e dove i continui condoni edilizi mostrano la precarietà dell'applicazione delle leggi». Su cosa fare anche per il territorio offre una risposta il curatore del Maxxi, Pippo Ciorra: «Proporre il riciclo come dispositivo concettuale che impegna la società sia di fronte alle catastrofi che al decremento demografico».
Oggetto, merce, patrimonio, memoria, libertà, tecnologia, divisione e controllo delle risorse sono temi che la filosofia, anche attraverso nuovi strumenti, pone oggi all'attenzione con foucaultiana capacità di organizzare statuti discorsivi che non impegnano più sul piano della Metafisica o della logica della conoscenza e lasciano a terzi la responsabilità delle conseguenze. Salvo quando questi terzi sono filosofi come Massimo Cacciari (presente al festival e anche nella iniziativa del «Corriere») o altri che assumono responsabilità anche sul piano politico e gestionale.

Corriere 17.9.12
I fondamenti spiegati dai maestri contemporanei

Si intitola «Philosophia. Il dibattito delle idee» la nuova iniziativa del «Corriere della Sera» realizzata in collaborazione con Rai e con l'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, una collana ideata e diretta da Renato Parascandolo e con la direzione scientifica dell'Istituto italiano per gli studi filosofici. Ciascuno dei 20 dvd dell'iniziativa, in vendita a 9,90 ciascuno (più il costo del quotidiano) sarà dedicato a una delle grandi idee della filosofia: si comincerà il 20 settembre con «Libertà» (con le interviste a Massimo Cacciari, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori), per continuare il 27 settembre con «Essere», il 4 ottobre con «Scienza», e così via fino al 31 gennaio del 2013. La collana prosegue idealmente la precedente iniziativa dedicata al «Cammino del pensiero», uscita nel 2010, dove studiosi di fama internazionale illustravano la storia della filosofia. Questa nuova collana si occupa invece del pensiero contemporaneo, di cui individua gli argomenti centrali, dalla religione alla democrazia, dall'etica al linguaggio e molto altro. Ciascun dvd contiene due o più video-interviste con maestri del pensiero, grandi nomi italiani e internazionali come Jacques Derrida, Michael Dummett, Fernand Braudel, Ralf Dahrendorf, Gillo Dorfles, Maurizio Ferraris, Tullio De Mauro, i quali, nei loro interventi, spiegano e discutono gli argomenti in modo chiaro e accessibile. (i.b.)

La Stampa 17.9.12
E Shakespeare mise in scena la nuova Inghilterra
Al British Museum mostra sul Bardo e il suo mondo: così la nascente identità dell’isola trovò espressione nei drammi
di Richard Newbury

LONDRA Nel 1570-1572 Francis Drake circumnavigò il mondo, proprio come fa Ariel, lo spirito nato dalla fantasia di Prospero, nella Tempesta. Drake non solo ha cambiato il punto di vista sul mondo del pubblico shakespeariano, ma aveva immaginato un Nuovo Mondo. Tornando con la Golden Hind, unica rimasta della sua flottiglia originale di cinque navi di piccole dimensioni, Drake portò al suo investitore principale, la Regina Vergine, Elisabetta I, un profitto del 4700%. John Maynard Keynes ha calcolato che questo non solo servì a pagare l’agile flotta di navi oceaniche che nel 1588 sconfisse l’Armada spagnola, ma fornì anche il capitale iniziale per la Compagnia delle Indie Orientali, che nel 1612 aveva già infranto l’egemonia portoghese dell’Oceano Indiano. Fu anche per gli investitori di Walter Raleigh la spinta alla colonizzazione della Virginia, bloccando così l’espansione spagnola dalla Florida in su e quella francese dal Quebec in giù, il che significa che questo «nuovo mondo coraggioso» parlava inglese, quindi una lingua così strana che nessun ambasciatore si sarebbe preso la briga di imparare.
Londra non era più «la fine del mondo», ma una città internazionale, un punto d’accesso globale. Nessuna meraviglia che Shakespeare e i suoi compagni investitori chiamassero il loro nuovo teatro The Globe, perché «tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne sono gli attori»: Jacques in Così è se vi pare .
Era sul palco del Globe davanti al rozzo pubblico della platea - i poveri e gli apprendisti che pagavano un penny -, alle classi medie delle gallerie e ai cortigiani che mostravano i polpacci seduti sul bordo del palco, che Shakespeare interrogava queste nuove identità - immaginate, personali, nazionali, commerciali, confessionali, coloniali e razziali - che rimangono al centro del nostro mondo democratico globalizzato e capitalista.
Nell’ambito delle Olimpiadi della Cultura il British Museum ha montato una magica grotta di Prospero, una mostra con cento oggetti e opere d’arte di grande suggestione, insieme con video di scene famose, che idealmente ci mettono in contatto con il mondo di Shakespeare, e in cui riconosciamo le nostre identità nelle loro affinità e differenze («Shakespeare. Staging the World», aperta fino al 25 novembre).
La sete di sangue vista da vicino, e non da un lontano «drone», è una di queste differenze. Il primo oggetto è la testa di un orso segnata da morsi riportata alla luce là dove accanto al Globe c’era un’arena. Henslowe, partner di Shakespeare nell’impresa del Globe, guadagnava due volte tanto dai combattimenti tra cani e orsi oltre che dai bordelli. Quando l’esercito di Malcolm lo accerchia, Macbeth dice cupamente: «Come un orso devo combattere fino alla fine». L’autentico massacro dei traditori infilzati sulle picche sul London Bridge implicava che le viscere e gli occhi degli animali («Via, vile gelatina» in Re Lear) fossero necessari per garantire l’autenticità teatrale. Una spada elisabettiana e un pugnale trovati nei pressi del Tamigi ci ricordano non solo che i giovani Tebaldo (Romeo e Giulietta) venivano uccisi ogni giorno fuori della scena, ma anche che, tra i rivali di Shakespeare, Kit Marlowe fu ucciso con un pugnale e Ben Jonson fu imprigionato per aver ucciso un collega attore con una spada.
Il ritratto secentesco dell’aristocratico ambasciatore moresco della Barberia a Londra solleva interrogativi sull’«altro» nella creazione dell’identità «bianca» e anche sull’identità di Otello: era arabo o nero come i 900 africani che vivevano a quel tempo in una Londra di 200.000 abitanti? Ben inteso, Otello è di sangue reale - come il principe Nelson Mandela, la cui copia di Shakespeare, introdotta di nascosto nella prigione di Robben Island, reca sottolineate e firmate (16.12.79) le parole di Cesare: «I vigliacchi muoiono tante volte prima della loro morte: il coraggioso non assapora la morte che una volta sola. Di tanti prodigi che ho sentito il più singolare a me sembra che un uomo possa averne paura. La morte è una necessaria conclusione: verrà quando verrà» (atto II, seconda scena, 32-7).
La curatrice del British Museum, Dora Thornton, ha impiegato quattro anni per rintracciare gli oggetti, Becky Allen ha costruito il set di una serie di grotte di Prospero, mentre il professor Jonathan Bate di Oxford, il decano degli studiosi di Shakespeare, ha sviluppato il tema molto attuale dell’identità.
In primo luogo c’è la crescente consapevolezza di Londra di essere una città di commerci a livello mondiale come celia Falstaff nelle Allegre comari di Windsor, «esse saranno le mie Indie orientali e occidentali e io commercerò con entrambe». Poi c’è il mondo pastorale della shakespeariana Foresta di Arden, non solo nel Sogno di una notte di mezza estate e in Così è se vi pare, ma anche nella poesia Venere e Adone che rese noto Shakespeare come «il Tasso inglese».
La contea di Warwick era la «campagna» di Shakespeare, dove visse in pensione da gentiluomo. Tuttavia, stava maturando una nuova identità, una nuova idea nazionale di un «paese» come l’«Inghilterra», come si vede nelle opere storiche del Bardo e, soprattutto, nell’ Enrico V. Questo nuovo nazionalismo cerca ispirazione nell’antica Roma, si rivolge a Virgilio e Ovidio, mentre un’Inghilterra appena diventata coloniale guarda al Giulio Cesare. L’ Antonio e Cleopatra di Plutarco era un modo esotico ed erotico di mettere in luce la Regina Vergine attraverso il suo sontuoso opposto: Cleopatra. Anche Venezia era la città commerciale e globale per antonomasia contro la quale la nascente Londra con il suo capitalismo e i suoi immigrati giudei (convertiti) poteva mettere alla prova la propria identità. Shylock nel Mercante di Venezia è rappresentato nel bene e nel male come l’unico capitalista onesto. Venezia confina con il minaccioso Islam e allo stesso modo le sorgenti potenze commerciali atlantiche come l’Inghilterra devono confrontarsi con popoli estranei alla cristianità come con Calibano nella Tempesta .
Nel 1603 l’incoronazione di Giacomo VI di Scozia con il nome di Giacomo I d’Inghilterra, colui che fece della Globe Company di Shakespeare la King’s Company, creò una nuova identità da presentare sul palco: «La Gran Bretagna». Cimbelino eRe Lear esplorano un retaggio pre-anglosassone che è eredità comune britannica. Inoltre, se gli indigeni nudi e tatuati della Virginia erano simili agli antichi inglesi visti dai Romani, col tempo sarebbero potuti diventare come gli spettatori londinesi? Il 5 novembre 1605 il complotto «jihadista» ispirato dai gesuiti per far saltare per aria il Parlamento durante la cerimonia di apertura dei lavori, eliminando così Lord, Comuni, vescovi, giudici e la famiglia reale, tutti riuniti insieme, fu scoperto appena in tempo e saldò in modo irreversibile il protestantesimo all’identità britannica. Macbeth con i temi del regicidio e dell’«equivocità» gesuitica è la risposta immediata di Shakespeare a questo evento che ha sancito l’identità religiosa nazionale.
La tempesta è stata scelta per illustrare il tema dell’identità britannica tanto nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi come in quella delle Paralimpiadi. Per i suoi contemporanei La tempesta, con la sua magica giostra d’identità, fu il più grande capolavoro diShakespeare. Ebbe il posto d’onore nel First Folio delle sue opere stampate raccolte postume dai colleghi scrittori e attori, un onore concesso solo al «cigno di Avon». Era, come scrisse il suo più grande rivale, Ben Jonson, «non di una sola epoca ma per tutti i tempi», anzi «l’anima del mondo» - e la nostra.

La Stampa 17.9.12
Il film della settimana: «Bella addormentata» di Marco Bellocchio
Intorno a Eluana piccole storie per una grande opera collettiva
di Gianni Randolino

Il film di Marco Bellocchio Bella addormentata è stato presentato in concorso, come si sa, alla Mostra di Venezia, ma non ha avuto nessun premio, nonostante molti critici ne abbiano parlato bene. Anzi, forse meritava persino il Leone d’Oro o quello d’Argento. Il fatto è che non è la prima volta che un bel film di Bellocchio sia passato inosservato e non abbia ottenuto i premi che meritava. In questo caso si tratta di un’opera che affronta con grande intensità e con una vera e propria acutezza estetica e culturale un accadimento che ha sconvolto la recente storia italiana. La morte voluta e finalmente ottenuta di Eluana Englaro, che nel 1992 aveva avuto un incidente stradale ed era rimasta in quello che si chiama «stato vegetativo» per ben 17 anni, creò in Italia una vera e propria contrapposizione religiosa e politica. Il film di Bellocchio ne prende spunto per analizzare con attenzione e raccontare alcune situazioni individuali e famigliari che si inseriscono direttamente in quel caso, svoltosi fra il 3 e il 9 febbraio 2009. E sono queste situazioni - una fra un padre e la figlia, l’altra fa una madre e il marito e il figlio, l’altra ancora fra un medico e una donna drogata, senza contare lo scontro politico fra un deputato del Pdl e la scelta del partito - a creare un racconto che si sviluppa mescolando le varie vicende e seguendo un percorso narrativo che possiede un evidente fascino spettacolare. Perché - checché ne dicano alcuni critici - non è affatto vero che Bellocchio non sia più in grado di raccontare bene le sue storie, ovvero non sia riuscito a sviluppare la genialità che aveva dimostrato di possedere nel suo primo film, I pugni in tasca del 1965. Più che in altre sue opere, proprio in Bella addormentata il suo modo di mettere insieme storie diverse l’una dall’altra e di legarle attraverso un uso del montaggio particolarmente dinamico riesce a trasformare le piccole vicende individuali in una grande storia collettiva, grazie anche alla bravura degli attori e delle attrici: in particolare Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Isabelle Huppert. Questa grande storia collettiva significa fornire allo spettatore gli elementi storici, politici, religiosi e soprattutto umani, che gli consentano di poter intervenire personalmente su un tema fondamentale com’è la scelta del vivere e del morire. Una scelta che la famiglia Englaro ha dimostrato di saper fare combattendo per molti anni contro una certa religione e una certa politica. Che Bellocchio sia riuscito a dimostrare questo conflitto attraverso alcune piccole storie è un modo esemplare di saper fare il cinema.

La Stampa 17.9.12
Fabrizio Falco: essere giovani non è un merito
Il premio Mastroianni a Venezia per i film di Ciprì e Bellocchio
“È cruciale come fai le cose, io mi metto al servizio di una storia”
di Fulvia Caprara

ROMA È stato il figlio Nel film di Daniele Ciprì Falco è Tancredi, «la parte angelica della famiglia un ragazzo succube del padre (Toni Servillo) e del contesto sociale in cui vive» che finirà per diventare il capro espiatorio dei peccati di tutti Bella addormentata Nel film di Bellocchio è arrabbiato con se stesso, il mondo, la famiglia che tenta di contenerne gli sbalzi d’umore, e Maria (Alba Rohrwacher), attivista del Movimento per la vita contro l’eutanasia
È il figlio di È stato il figlio, vittima sacrificale nella Palermo di Daniele Ciprì mostrificata dal degrado e dal consumismo. Ed è il fratello in Bella addormentata di Marco Bellocchio, arrabbiato con se stesso, con il mondo, con la famiglia che tenta di contenerne gli sbalzi umorali, e con Maria (Alba Rohrwacher), attivista del Movimento per la vita mobilitata contro l’eutanasia. Due film in concorso all’ultima Mostra di Venezia, due personaggi ombrosi e difficili, un premio prestigioso, intitolato a Marcello Mastroianni, che l’ha promosso talento emergente del nostro cinema e che lui ha dedicato «ai giovani attori che credono in questo mestiere e vogliono farlo con dedizione e pazienza, per raggiungere risultati di qualità».
In quella frase impastata d’emozione, Fabrizio Falco, 24 anni, palermitano, madre insegnante, padre grafico, è riuscito a dire, evento raro, molto di se stesso: «Il concetto di giovane, in sé e per sé, non significa niente, essere giovani non è da considerare un merito, il punto sta nel modo con cui si fanno le cose». Lui, finora, le ha fatte bene, dalla pratica in teatro, nella sua città, iniziata quando aveva solo 14 anni, all’Accademia Silvio d’Amico e all’apprendistato con due super-maestri come Luca Ronconi e Carlo Cecchi: «Per questo lavoro ho mostrato interesse fin da bambino, facevo imitazioni di tutti, sono ancora convinto che, nell’arte dell’attore, imitare sia importante, significa osservare la realtà e re-inventarla».
In casa, dove ha respirato un’aria piena di «interessi culturali», lo hanno sempre sostenuto, dalle prime prove in palcoscenico fino al doppio exploit nel cinema: «Con Ciprì ho fatto tre provini, mi ha dato grandi input ed è stata fondamentale la preparazione con gli altri interpreti, Giselda Volodi che fa mia madre e Toni Servillo, mio padre. Abbiamo provato le scene, e poi ci siamo ritrovati in quella specie di scatola di immagini costruita dal regista. Seguivo le sue indicazioni, come in una lunga fotografia». Nel personaggio di Tancredi, «la parte angelica della famiglia descritta da Ciprì, un ragazzo succube del padre e del contesto sociale in cui vive», Falco ha ritrovato un pezzo della sua Palermo, lasciata cinque anni fa, quando ha iniziato a frequentare l’Accademia: «Si cerca sempre di allontanarsi dalle proprie origini, ma poi l’esigenza di tornare riaffiora. Tancredi vive a Palermo come tanti ragazzi, una linea sottile lo separa dal resto, non è contaminato, ma subisce il cinismo imperante». I fatti di mafia fanno parte del quotidiano, anche di chi non c’entra niente, anche di quello di Fabrizio Falco che è troppo giovane per avere ricordi consapevoli e diretti, ma è comunque vissuto lì: «Abitavamo vicino a via D’Amelio, quando c’è stato l’attentato a Borsellino abbiamo sentito la botta forte. Per un sacco di tempo, mio fratello, che ha 5 anni più di me, ha avuto paura di avvicinarsi alle finestre».
Il film con Bellocchio è arrivato grazie a quello con Ciprì: «Mi aveva visto e mi ha chiamato per Bella addormentata. Con lui è tutto diverso, Bellocchio parla, la videocamera non la vedi neanche, mi ha spiegato il personaggio di Pipino, ed è stato bello ascoltare quello che lui voleva comunicassi attraverso i suoi gesti». Il primo, che resta impresso nel pubblico, è quando Falco aggredisce la cattolica fervente Rohrwacher gettandole un bicchiere d’acqua in faccia: «È stato divertente, anzi, invito tutti a farlo ogni tanto, quando se ne ha voglia. Da quella scena in poi, Alba continua a chiamarmi come nel film, il “lanciatore d’acqua”». Sullo schermo, stavolta, Falco è aggressivo, introverso, capace di sfogare con violenza il suo disagio. Non gli è richiesto, a differenza di quello che spesso accade agli attori, di apparire bello: «Secondo me la cosa più importante è mettersi al servizio di una storia, di volta in volta azzerarsi per diventare un nuovo personaggio, e poi buttarsi, prendendosi dei rischi. Secondo Volontè, l’ho letto nella sua biografia, l’attore «ha» il fisico del ruolo, il suo corpo è materia che deve adattarsi alla parte». Volontè e Nicholson sono due riferimenti dichiarati, ma Falco, oltre a Ronconi e a Cecchi, e alla letteratura russa di cui è grande appassionato, cita spesso la fidanzata Elena, figlia di genitori sordi, impegnata sul fronte degli «spettacoli accessibili, forme teatrali cui ognuno può prendere parte, modi per abbattere le barriere stabilendo connessioni universali».
Ogni tanto partecipa anche lui, con «letture per non udenti, una volta ho letto La teiera di Andersen, un’altra il Simposio di Platone». Che Falco sia sulla buona strada è evidente, non solo per le scelte colte, ma anche, e molto, per il lampo degli occhi blu, che possono essere tutto, belli, brutti, innocenti, inquietanti. Proprio come succede ai grandi interpreti.