martedì 18 settembre 2012

l’Unità 18.9.12
L’intervista «I nostri dubbi erano fondati»
Camusso: «Se Fiat lascia arrivi un altro produttore»
«Il lavoro è la priorità del Paese»
«Con le imprese possiamo fare una pressione comune sul governo per cambiare rotta» «Al Lingotto ora si può ricostruire una unità tra i sindacati»
di Laura Matteucci


Il governo batta un colpo sulla Fiat e sul rilancio dell’economia. Lo dice Susanna Camusso che invita Monti «a difendere l’apparato industriale» e rilancia la sua proposta: detassare le tredicesime
Monti deve decidere di non liquidare pezzi importanti dell’apparato industriale del Paese
Il calo di produttività degli ultimi 20 anni a causa delle infrastrutture e di scarsi investimenti

«La parola convocare preoccupa il governo? Se è un problema di linguaggio credo si possa ovviare facilmente: si cerchi un giorno per un incontro. Al quale dovrebbero essere presenti anche le parti sociali. Di sicuro, la modalità per cui Marchionne arriva, lo si lascia parlare senza porre domande precise e alla fine si esce dall’incontro sostenendo sia stato rassicurante, non funziona, non ci ha portati da nessuna parte». Inevitabilmente, parlando con Susanna Camusso, segretario della Cgil, si parte dalla Fiat. Perché è una crisi che coinvolge migliaia di persone, perché è uno dei simboli del sistema industriale italiano in tutta la sua evoluzione, fino al rischio dell’oggi, che è quello della sua «autocondanna». Ma poi ci sono le altre crisi, qualcosa come 150 tavoli aperti al ministero che riguardano la siderurgia, l’alluminio, il ciclo della chimica, e che danno la misura della precarietà cui è esposto il nostro tessuto manifatturiero.
Il governo che cosa dovrebbe chiedere a Marchionne?
«Se, come tutto fa pensare, Fiat è orientata a ridimensionare la produzione, deve interrogarsi su come attirare un altro produttore. L’Italia ha sempre dato per scontato che le auto le produce la Fiat o nessuno. Invece, è da affermare il concetto che la produzione dei mezzi di trasporto nel Paese non può essere il risultato delle scelte di una singola azienda. Se i piani di Fiat sono cambiati, ci si deve attrezzare per attirare un altro produttore. E, comunque, non ci vengano a dire che Fabbrica Italia svanisce per colpa della crisi, perché quel piano è stato annunciato nel 2010, a crisi scoppiata e consolidata. La situazione si è aggravata, certo, ma nel calo complessivo del mercato è soprattutto Fiat a perdere quote».
Fiat, Ilva, Alcoa, Vinyls, per dire solo le più grandi: non è il momento di un patto imprese-sindacati, per pressare il governo a mettere il tema del lavoro al centro della politica?
«Innanzitutto sarei per abolire il termine patto, che mi sembra abusato, ambiguo e in ultima analisi di scarso significato. Si possono fare documenti e richieste comuni, questo sì. Si può fare un accordo con Confindustria per l’applicazione dell’intesa del 28 giugno, e perché questa venga estesa anche alle altre associazioni d’impresa. Dare soluzione al tema della rappresentanza, avviare un percorso per rinnovare i contratti nazionali, in gran parte ancora aperti. Credo che insieme alle imprese si debba chiedere al governo di dare risposte fiscali, in modo che lavoratori e pensionati abbiano qualche soldo in più, e non si creino ulteriori diseguaglianze. Sarebbe anche utile indicare al governo alcuni temi di indirizzo, dal piano energetico a quello dell’innovazione e della ricerca, che andrebbero definiti una volta per tutte. Certo, se qualcuno si aspetta di trovarci d’accordo nell’abolire gli aumenti contrattuali, o qualche giorno di ferie e festività, è ovvio che sbaglia del tutto strada. Se invece si pensa di mettere in campo un ragionamento serio su come si possano ottenere maggiori produttività ed efficienza, allora le risposte sono già nell’accordo del 28 giugno. Bisogna continuare a lavorare».
Se la produttività è innanzitutto innovazione, è una questione che riguarda innanzitutto le imprese, non è così?
«Al netto della crisi, che ha inciso e parecchio, la ragione del nostro graduale calo di produttività degli ultimi 20 anni è una questione di infrastrutture e di mancati investimenti nel sistema Paese. Questo è il punto di partenza, altrimenti si ragiona solo in termini di riduzione del costo del lavoro, il che non fa crescere affatto la produttività come peraltro ampiamente documentato. Aggiungo che anche la precarietà del lavoro è un fattore depressivo della produttività. Ma è chiaro che a un sistema che non ha investito per 20 anni non si può certo dire fate vobis, piuttosto occorre intervenire con incentivi e sostegni. Anche perché nessuno calcola mai i costi che pagherebbe il Paese se non avesse più produzioni di base. Il problema è l’assenza di investimenti, di politiche industriali, l’incapacità di decidere». Verosimilmente, che cosa dovrebbe portare a casa il governo da qui a dicembre per ridare fiato all’economia?
«I temi sono già sul tavolo: detassare le tredicesime, definire i finanziamenti per la cassa integrazione in deroga, specificare e chiarire il piano energetico. E decidere di non liquidare pezzi importanti dell’apparato produttivo industriale. Suppongo poi che le imprese chiederanno conto della famosa questione dei pagamenti, non ancora risolta. È un governo che è andato avanti a forza di decreti, anche pochi mesi di tempo possono bastare».
Al momento si parla solo di un’altra possibile manovra che il governo non vuole nemmeno chiamare così.
«L’ultimo atto sarà la legge di Stabilità. Sulla manovra perché lo è le notizie informali ripropongono il modello già noto: tagli e liberalizzazione dell’offerta. È chiaro che per noi non sono la strada giusta. Abbiamo avanzato delle richieste, aspettiamo delle risposte». Torniamo a Fiat: che effetto fa sentirsi dare ragione da Cesare Romiti?
«In realtà i suoi elementi di critica nei confronti degli attuali vertici ci erano già noti. Rilevo che per la prima volta in un Paese che aveva beatificato Marchionne si riconosce che il sindacato che l’aveva contrastato non era poi così fuori strada. Ma non provo soddisfazione, piuttosto una grande preoccupazione, cui credo che il sindacato debba rispondere con unità».
Ha parlato di Fiat come dell’occasione per ritrovare l’unità sindacale: ci crede davvero?
«Lo dobbiamo ai lavoratori. Le ragioni per cui è stato loro chiesto di sacrificarsi, e molto, meritano uno sforzo da parte sindacale. Un sindacato forte si comporta così: riprende e ripropone un cammino unitario, proprio a partire da una ferita profonda».

il Fatto 18.9.12
Serbia, salari da fame. La Fiat che piace a Marchionne
Viaggio a Kragujevac, dove il Lingotto si gioca il futuro
di Lorenzo Galeazzi e Vittorio Malagutti


Li vedi sfilare a fine turno sull'unico ponte che collega la fabbrica alla città. Polo bianca, pantaloni grigi, facce serie. Giovani in stragrande maggioranza, tanti ragazzi che dimostrano vent'anni o poco più. Alle loro spalle, sulla parete dello stabilimento, incombe una scritta a caratteri cubitali, visibile a centinaia di metri di distanza: “Mi smo ono sto stvaramo”. Che vuol dire, tradotto dal serbo: “Noi siamo quello che facciamo”. E loro fanno, eccome se fanno. Gli operai dello stabilimento Fiat di Kragujevac, 140 chilometri a sud di Belgrado, stanno in fabbrica dieci ore al giorno, per quattro giorni la settimana. Quaranta ore in tutto, con altre otto di straordinario, che da queste parti, almeno per adesso, è diventato una faticosa consuetudine. Non basta. Perché il caporeparto, spesso e volentieri, chiede di lavorare un giorno in più, giusto qualche ora per fissare un pezzo mal riuscito o per dare una sistemata alle macchine. Un'extra pagato? Magari. Tutto gratis. “Ma come si fa a dire di no al capo, che è anche un amico? ”, taglia corto un operaio, uno dei pochi che accettano di scambiare qualche parola.
È vero, alla Fiat di Kragujevac non si usa dire di no. Perché in Serbia un lavoratore su quattro proprio non riesce a trovare un posto. E allora, con la disoccupazione al 25 per cento, l'inflazione al 10 e le casse dello Stato ormai allo stremo, la scritta sui muri della fabbrica (Noi siamo quello che facciamo) finisce per diventare un monito anche per chi sta fuori. Voi non siete niente perché non fate niente. E chi sta dentro la fabbrica non vuole certo tornare quello che era prima, una nullità, uno dei tanti che si arrangiano con il lavoro nero. Meglio chinare la testa, allora. Ubbidire ai capi e tacere con gli estranei.
VANNO COSÌ le cose a Kragujevac, Serbia profonda, la nuova frontiera della Fiat predicata e realizzata da Sergio Marchionne. Stipendi da 300-350 euro al mese, turni di lavoro massacranti, straordinari pagati solo in parte. Prendere o lasciare. Ma un'alternativa, un'alternativa vera, nessuno sa dove trovarla. E allora bisogna prendere, bisogna accettare l'offerta targata Italia. Anzi, targata Fiat Automobiles Serbia, in sigla Fas, la società controllata al 66,6 per cento da Torino e per il resto dal governo di Belgrado. A Kragujevac lavorano circa 2.000 dipendenti: 1.700 operai, il resto sono dirigenti e amministrativi.
Lo stabilimento funziona a pieno regime solo da qualche settimana, ad oltre quattro anni di distanza dall'accordo che nel 2008 consegnò (gratis) a Marchionne fabbrica e terreni dove sorgeva la Zastava, storica azienda motoristica che fin dal 1954, ai tempi della Jugoslavia di Tito, ha prodotto auto su licenza della casa di Torino. Esce da qui la 500L, l'unico modello davvero nuovo che i manager del Lingotto sono riusciti a mettere sul mercato nel 2012. “Almeno 30 mila vetture entro la fine dell'anno”, questi gli obiettivi di produzione dichiarati dai vertici della Fiat per l'impianto di Kragujevac. Obiettivi quantomeno ambiziosi. Anche perché le auto, dopo averle fabbricate bisognerebbe pure venderle. E di questi tempi, un po' in tutta Europa, le aziende del settore fanno una gran fatica a convincere i potenziali clienti.
Ecco perché non si trova un analista disposto a scommettere sull'immediato mirabolante successo della versione large della 500, una monovolume che dovrà conquistare spazio in un segmento di mercato già presidiato da rivali come la Citroën C3 Picasso, la Opel Meriva e la Hyundai ix20. Anche ai più ottimisti tra i tifosi di Torino sembra improbabile che la 500L sia sufficiente, da sola, a garantire la sopravvivenza del modernissimo stabilimento di Kragujevac. "Siamo in grado di produrre tra 120 mila e 180 mila auto l'anno, tutto dipende dalla domanda di mercato", ha dichiarato il numero uno di Fiat Serbia, Antonio Cesare Ferrara, in una recente intervista all'agenzia di stampa Tanjug. Già, tutto dipende dal mercato. Anche Marchionne se la cavava così quando raccontava dei 20 miliardi di investimenti del fantomatico piano "Fabbrica Italia". Poi s'è visto com'è andata a finire. Parole al vento.
IN SERBIA, invece, fonti del governo di Belgrado e anche del gruppo italiano nei mesi scorsi hanno accreditato l'ipotesi che Kragujevac possa arrivare a produrre oltre 200 mila auto l'anno. Tante, tantissime, se si pensa che quest'anno i quattro impianti italiani della Fiat non arriveranno, messi insieme, a 500 mila vetture, con la storica fabbrica di Mirafiori (quasi) ferma a quota 50 mila, forse anche meno. La domanda, a questo punto, è la seguente. Perché mai Marchionne dovrebbe accontentarsi di far viaggiare a mezzo servizio uno stabilimento nuovo di zecca, moderno ed efficiente a poche centinaia di chilometri dalla frontiera italiana? E per di più con tanto di manodopera qualificata e con un costo del lavoro pari a meno di un quinto rispetto a quello degli operai del Belpaese?
Le possibili risposte sono due. La prima: la 500L si rivela un clamoroso successo planetario, travolge le dirette concorrenti sul mercato e arriva a sfiorare i livelli di vendita delle best seller del gruppo, Punto e Panda. Tutto è possibile, certo, ma al momento un boom di queste dimensioni sembra davvero improbabile. Ipotesi numero due: la 500 in versione large serve giusto per il rodaggio della fabbrica serba. Il bello (si fa per dire) viene dopo. Quando Marchionne, accantonato una volta per tutte il bluff di Fabbrica Italia, annuncerà nuovi tagli negli stabilimenti italiani. Colpa del crollo delle vendite, si dirà, che rende insostenibili i costi di produzione nella Penisola. L'alternativa? Eccola: si chiama Kragujevac. Da queste parti la Fiat ha già accumulato due anni di ritardo rispetto ai piani di partenza e non può più permettersi battute a vuoto. Il governo serbo, da parte sua, ha fatto ponti d'oro all'investitore straniero. Ha regalato terreni e stabilimento (peraltro ridotto quasi in macerie dai bombardamenti della Nato del 1999), ha istituito una zona franca, ha garantito esenzioni fiscali e contributive, ha investito decine di milioni di euro nel progetto promettendo, in aggiunta, nuove strade e ferrovie. Solo che nel frattempo Belgrado ha finito i soldi e pure il governo è cambiato. Con le elezioni del maggio scorso ha perso il posto Boris Tadic, il presidente che insieme al ministro dell'economia Mladjan Dinkic, era stato il principale sponsor di Marchionne. Adesso comandano Tomislav Nikolic (presidente) e Ivica Dacic (primo ministro), due vecchie volpi della politica locale, nazionalisti un tempo vicini a Slobodan Milosevic. Così a Belgrado non si parla quasi più di entrare nella Ue e la stella polare del nuovo governo è Vladimir Putin, che si è affrettato a promettere appoggio politico e, soprattutto, soldi a palate.
ANCHE MARCHIONNE è stato costretto a fare i conti con la coppia Nikolic-Dacic. Il piatto piange. Il capo della Fiat reclamava 90 milioni cash a suo tempo promessi da Belgrado. Nessuno scontro. L'accordo è arrivato a tempo di record. Il governo si impegnato a pagare in due rate. La prima, 50 milioni, entro la fine dell'anno. Il resto nel 2013. Marchionne, che ha incontrato Nikolic a Kragujevac il 4 settembre scorso, a quanto pare si fida. O finge di farlo. Del resto il capo del Lingotto sa bene che i serbi a questo punto non possono tirarsi indietro. La perdita dei posti di lavoro promessi dalla Fiat sarebbe una catastrofe politica per il nuovo esecutivo. Marchionne, grande pokerista, ancora una volta può giocare le carte migliori. E a Belgrado non c'è neppure bisogno di bluffare. Il piano "Fabbrica Serbia" ormai è realtà.

l’Unità 18.9.12
Vendola si smarca: così non mi candido
Il leader di Sel spiega di voler aspettare
la decisione del gup sull’inchiesta di Bari che lo riguarda
Ma le perplessità sono politiche: «È una partita interna al Pd»
di Andrea Carugati


Che succede al candidato Nichi Vendola? Per due anni ha scalpitato chiedendo primarie e ancora primarie. Ma ora che la partita si sta facendo calda lui sembra in un cono d’ombra. Persino tentato da una clamorosa rinuncia.
Di certo c’è che il governatore pugliese sta disseminando di “se” la sua corsa contro Bersani e Renzi. “Se” politici, ma anche giudiziari. Domenica sera, alla festa Fiom di Torino, a sorpresa ha evocato un’ipoteca giudiziaria. «A fine mese ha spiegato scioglierò la riserva vera, ho ancora qualche problema da affrontare e da risolvere». Il riferimento è alla richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in abuso d’ufficio. Sarà l’udienza davanti al gup del 27 settembre a stabilire se accogliere o meno la richieste degli inquirenti. Che vorrebbero portate e a processo il governatore per una vicenda di oltre tre anni fa, che riguarda le presunte pressioni fatte da Vendola a un dirigente della Asl di Bari per riaprire i termini di un concorso da primario in chirurgia e favorire, così dice l’accusa, il professor Paolo Sardelli, che vinse quel concorso.
Una vicenda che però da tempo è uscita dal cono mediatico dell’attenzione. E infatti ha colpito molto che il leader di Sel, ospite in casa Fiom, dunque proprio di quella fetta di popolo di sinistra che dovrebbe costituire la sua base elettorale, abbia fissato questo paletto. «Chi si vuole candidare in una contesa così complessa ha il dovere di presentarsi senza che alcuna ombra lo possa accompagnare. E io non solo devo essere immacolato, devo anche apparire immacolato».
Tutto fermo fino a fine settembre, in attesa del responso giudiziario, dunque? In realtà la macchina del governatore per le primarie si sta scaldando, in programma c’è già una convention per i primi di ottobre, gli uomini-comunicazione si riuniranno già domani per fissare i pilastri della campagna. Gente esperta, molti sono gli stessi che hanno scortato Vendola nelle due vittoriose campagne del 2005 e del 2010 in Puglia. La prima volta con gli slogan che prendevano per le corna i suoi presunti punti deboli («Estremista», «sovversivo», «diverso»), poi con i manifesti con le cose realizzate e la chiosa «La poesia è nei fatti».
La rodata macchina elettorale, dunque, sta scaldando i motori. Ma per ora Vendola non dà semaforo verde. Intanto perché aspetta che si sgonfi la «bolla mediatica» attorno a Renzi. E poi per capire bene che taglio dare alla sua campagna. Un taglio che dovrà essere, giocoforza, molto sbilanciato a sinistra «visto che il terreno della novità è stato saldamente occupato dal sindaco di Firenze», spiega un dirigente di Sel. Dunque martellamento sui marchionnisti del Pd, a partire da Renzi, e sostegno pieno al referendum sull’articolo 18. «Tra Marchionne e la Cgil, Renzi ha scelto l’uomo che ha spinto il governo a devastare le relazioni industriali e a bombardare i diritti dei lavoratori», ha attaccato ieri a Skytg24 . Le parole d’ordine? «Per me il rinnovamento non è un discorso generico, non voglio rottamare la persona Berlusconi, ma un’intera stagione che è stata caratterizzata dalla precarietà, segnare una discontinuità profonda nei contenuti sociali».
L’altro obiettivo del governatore è quello di creare un effetto attesa, per riportare le primarie a un ambito di coalizione e non a una sfida tutta interna ai democratici. «Che primarie sono? Sono quelle del Pd? Io voglio un chiarimento», ha detto. «Non sono iscritto al Pd e non intendo esserlo. E non intendo sostenere nessun candidato del Pd». «Solo se saranno primarie del centrosinistra, allora io intendo partecipare e provare a vincerle...». I colonnelli di Sel lo spingono in questa direzione. A correre “senza se e senza ma”, pena l’irrilevanza di Sel nei prossimi mesi, con il concreto rischio di non superare il quorum per entrare in Parlamento. E a giocare più sporco con Bersani, a rompere quel patto di lealtà che lo ha penalizzato nei sondaggi a favore di Di Pietro, e a far prevalere dunque il suo profilo “di rottura”. Di qui la frase di domenica a Torino: «Non ho firmato nessuna cambiale in bianco con Bersani...».
E tuttavia i rumors su un ritiro, magari per sostenere Bersani (visto che con Renzi vincente un’alleanza Pd-Sel sarebbe molto improbabile), non si fermano. In fondo sono ormai lontani i tempi in cui era Vendola a terremotare i vertici del Pd, con le vittorie a domino dei suoi candidati alle primarie per le grandi città, da Pisapia al genovese Marco Doria. Oggi, a causa del fenomeno Renzi, tutti i sondaggi lo danno terzo, a distanza dai primi due. Sembra proprio che la sua spinta propulsiva sia in esaurimento. E questo giustificherebbe l’evocazione di impedimenti, per costruire una dignitosa exit strategy. Per ora Vendola sta pesando le carte che ha in mano, per giocarsele nel modo migliore. Anche alla luce di quale sarà la legge elettorale. E con la speranza che il 27 il gup di Bari archivi la vicenda giudiziaria.
Nel partito, però, l’ipotesi di ritiro suscita una profonda inquietudine. I continui “se” lanciati dal leader non sono passati inosservati. E l’ipotesi di un forfait rischia di rendere ancora più indigesta l’ipotesi di alleanza col Pd, per non parlare di un’ipotetica intesa di governo con l’Udc. È soprattutto tra i ragazzi delle “Fabbriche di Nichi” che si respira un’aria molto tesa. Molte di queste realtà hanno già tolto il nome del leader dal logo, per segnare una maggiore autonomia. Ed è proprio parlando con alcuni di loro, domenica a Torino, che Vendola per la prima volta ha citato l’ipoteca giudiziaria sulla sua candidatura. I ragazzi chiedevano: «Perché non si parte?». E lui li ha gelati.

l’Unità 18.9.12
La differenza tra primarie e barzellette
di Cristoforo Boni


IL PARTITO DEMOCRATICO VUOLE PRIMARIE APERTE. HA DECISO DI TENERLE APERTE anche se più di una volta, in recenti esperienze, le poche regole hanno provocato qualche disastro. Ha deciso di fare primarie di coalizione per abbattere ogni barriera ai suoi confini anche se le primarie di coalizione non hanno uguali nel mondo finora conosciuto (e sono un’anomalia difficilmente spiegabile,
come del resto il Porcellum). Ha deciso di sospendere una delle regole-chiave del proprio statuto, quella che impone la candidatura esclusiva del segretario (anch’esso scelto con le primarie), anche se nessuno ne ha contestato la ratio e difficilmente lo si potrà fare con argomenti coerenti. In particolare Bersani intende evitare che la partecipazione ai gazebo sia rallentata da procedure e norme non condivise, perché se lo scopo è prendere di petto la sfiducia dei cittadini verso la politica o la crisi di legittimazione che rischia di travolgere le istituzioni, allora tanto vale rischiare tutto senza rete. E comunque il coraggio di affrontare una sfida così decisiva rinunciando ai vantaggi acquisiti potrebbe essere apprezzato dagli elettori.
C’è però un limite a tanta deregulation. Il limite è la percezione del ridicolo. Ed è un problema che riguarda tutto il Pd, non solo il segretario o chi gli sta attorno. Le primarie devono essere aperte, tuttavia deve essere netta anche la differenza tra le primarie e una fiera delle vanità, o una corrida di dilettanti allo sbaraglio. La posta in gioco delle primarie è la candidatura alla guida del Paese. Se al nastro di partenza si presenta una folla improbabile di concorrenti, a caccia dell’1% o poco più, l’effetto non sarà quello di una più democratica competizione, ma di un branco indisciplinato, popolato di tanti egoisti e di narcisi.
La funzione politica e democratica delle primarie è quella di rafforzare la sintesi attorno al vincitore. Già nel 2005 l’allora Unione fece una tragica esperienza: Prodi stravinse, ma i cinque sfidanti cominciarono già nella campagna elettorale delle primarie a delimitare i loro territori e a porre le premesse della disfatta futura.
Sta al Pd e ai suoi alleati dimostrare di aver fatto tesoro della sconfitta dell’Unione. Sta a tutti i partecipanti dimostrare che dalle primarie si può uscire più uniti e credibili: dalla diversità può nascere una unità politica (magari una convergenza nello stesso partito). Ma se accadrà il contrario, i primi a pagarne il prezzo saranno il vincitore e i cittadini che nelle primarie hanno riposto fiducia. Non è una questione di regole, ma di significato della politica. Il Pd ha deciso di rischiare tutto. E ha compiuto un atto coraggioso. Ora non può rischiare che le primarie diventino una barzelletta.

l’Unità 18.9.12
La preoccupazione di Bersani «Nichi deve restare con noi»
Il leader Pd: «Vendola è una persona specchiata, deve essere protagonista di questa avventura»
E sui rischi di intrusioni Pdl: «Fatevi le vostre primarie»
di Maria Zegarelli


Spuntano come funghi dopo la pioggia del primo autunno. E così per tanti che entrano ce n’è uno che minaccia di uscire. Proprio lui, Nichi Vendola. Pier Luigi Bersani non nasconde la preoccupazione per la piega che sta prendendo la partita delle primarie, tanto che ieri sera, arrivando alla festa Pd di Modena, è proprio al candidato di Sel che si rivolge: «Vendola io voglio che ci sia, deve esserci. È una persona specchiata, deve essere un protagonista di questa nuova avventura». Gli riferiscono delle polemiche nel suo partito, dell’affollarsi della scena. «Abbiamo un percorso che sarà scandito da regole precise, quindi si può stare tranquilli spiega chiarezza la faremo insieme, avremo anche noi la nostra assemblea che dovrà decidere, essendo primarie di coalizione». Sarà l’Assemblea Pd, aggiunge, a stabilire le regole d’accesso per i democratici. Cerca di allontanare anche lo spettro degli elettori Pdl ai gazebo, pur sapendo che il rischio è concreto: «La gente vuole partecipare alle nostre primarie, verrà un sacco di gente. Anche la loro gente vuol partecipare, le facciano anche loro: hai visto mai che per decidere qualcosa, siccome lui non fa decidere niente, vengono da noi? Questo non sarebbe simpatico: ognuno si faccia le sue, noi ci facciamo le nostre, e chi non le fa si riposi». Ma la nota dolente è la polemica interna. Ieri di candidati Pd se ne contavano quattro (Matteo Renzi, Pippo Civati, Laura Puppato, Stefano Boeri) che aggiunti a quelli degli altri partiti (Nichi Vendola, Bruno Tabacci, Riccardo Nencini e, ultimo annunciato ma ancora non sicuro, Valdo Spini) fanno otto, oltre al segretario. E la rete si scatena. «Ridicolo», l’aggettivo che più ricorre, non si contano le battute ironiche.
Più che ironiche ancora appese alla legge elettorale (sulla quale Berani è poco fiducioso «siamo ancora a caro amico»): se fosse proporzionale non avrebbero più ragione. Per questo, nel frattempo, bisogna almeno chiarire le regole interne, e questo non si potrà fare che il 6 ottobre, data fissata per l’Assemblea nazionale, e poi di coalizione. E chissà quanti ancora in questo lasso di tempo attraverso annunci-intervista si paleseranno come aspiranti premier. Civati in un’intervista spiega: «Quello che non voglio assolutamente è aggiungere autocanditatura ad autocandidatura, in un effetto formicaio impazzito. La collezione di nani da giardino no. Se si riesce ad esprimere una candidatura unitaria che sia davvero alternativa a Bersani e a Renzi io ci sono». Adesso, aggiunge, bisogna vedere se si creano le condizioni, tempo una settimana e deciderà. Puppato replica: «Sono sempre stata un'adoratrice dei nani da giardino. Fanno squadra e salvano il reame e Biancaneve dalla regina cattiva. Il principe azzurro non è nessuno senza i nanetti ...». Enrico Morando, in un’altra intervista, confermando che preferisce Renzi a Bersani, non esclude, in caso di primarie a doppio turno, di provarci pure lui come espressione del montiani del Pd. E poi c’è Rosy Bindi che scioglierà la riserva nel corso dell’iniziativa che ha in programma il prossimo fine settimana a Milano Marittima.
«Se continua così diventa peggio della torre di Babele» e a questo punto «se Vendola si ritira facciamo il congresso...», commenta Beppe Fioroni. «Sta nascendo una nuova disciplina olimpica: "la valutazione della candidatura”», twitta il deputato Roberto Giachetti. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi suggerisce: «4 candidati del Pd alle primarie, più 2 annunciati, sono troppi! Per dirla in “bersanese”: la ditta ha bisogno di una regolata». Altro post in rete: «Quattro cavalieri per l'apocalisse del Pd».
Unico argine possibile è una soglia di firme per sostenere la candidatura. Proporle tra gli iscritti sarebbe impresa complessa, quindi si sta ragionando sui membri dell’Assemblea nazionale. Se il tetto fosse del 35% come accade per le candidature a sindaco nelle primarie di coalizione la selezione sarebbe drastica. Più realistico pensare ad una soglia intorno al 20-25%. «Speriamo che qualcuno si dia una regolata perché altrimenti si rischia di ridicolizzarle e non farle capire più neanche ai cittadini», commenta il vicepresidente del Senato Vannino Chiti. Primarie per gli scritti, dice, «in un albo, un'anagrafe o un'associazione» che fa riferimento alla coalizione, con ballottaggio tra i primi due. Ma, aggiunge, come possono pensare, «Vendola, Spini o Tabacci», di dirigere «un governo avendo alle spalle un partito che non raggiunge l'1%? Non esiste». Preoccupata Debora Serracchiani: «Se non faremo grande attenzione, il Pd rischia di giocarsi la credibilità», mentre Lia Celi, posta: «Mi hanno consegnato il nuovo elenco telefonico. Ah no, è l'elenco dei candidati alle primarie del Pd». Stefano Ceccanti su Facebook ribadisce: dovevano essere primarie di partito.

Corriere 18.9.12
Le primarie «affollate» agitano il Pd E Vendola minaccia di sfilarsi
di Monica Guerzoni


Bindi: vedrò se sostenere Bersani. Il leader pensa a regole rigide per i candidati
ROMA — Troppi galli nel pollaio, le primarie del Pd rischiano di finire in farsa. Sono una sfida di coalizione per scegliere il candidato a Palazzo Chigi o un congresso di partito? Il dilemma che agita i vertici del centrosinistra è adesso questo. Nichi Vendola ha fatto balenare l'ipotesi di sfilarsi. Rosy Bindi teme la conta interna. E Pier Luigi Bersani sta riflettendo sulle regole del gioco. Il leader si va convincendo che servirà alzare l'asticella delle firme per presentare le candidature. Per le primarie di Prodi (2005) ne bastavano diecimila, ma ora la segreteria medita di raddoppiarle. «Siamo oltre la Torre di Babele — avverte Beppe Fioroni —. Rischiamo di metter su un'armata Brancaleone e perdere le elezioni...».
Bersani, Renzi, Vendola, Tabacci e Laura Puppato. E poi, forse, anche Pippo Civati, Valdo Spini e Riccardo Nencini. Sempre che non arrivi un outsider indicato dai «montiani» (Follini, Tonini, Gentiloni), al momento orientati verso Renzi. E sempre che non decida di gettarsi nella mischia anche la Bindi: «Se le primarie sono aperte lo sono per tutti, non solo per Renzi». Al vertice del Pd l'allarme è alto. Lo fa capire via Facebook il presidente della Toscana Enrico Rossi: «Per dirla in "bersanese", la ditta ha bisogno di una regolata». Nico Stumpo si augura «che non arrivino altri candidati» e anche Massimo D'Alema si schiera contro il proliferare di sfidanti: «Spero non ci siano 500 candidati, altrimenti rischiamo di fare una certa confusione».
A scoperchiare il vaso di Pandora dei tormenti democratici è stato Nichi Vendola: «Io non sono iscritto al Pd, né ci voglio entrare — ha detto a Sky Tg24 —. Se parliamo di primarie del Pd, non sono interessato». Ma poi, al Corriere, il leader di Sel spiega di aver voluto attirare i riflettori su di sé: «Il palcoscenico è troppo sovraccarico di luci, io chiedo a Bersani un punto di verità. Servono regole chiare e certe e dobbiamo discuterle assieme». Non sarà che ha già deciso di ritirarsi? «Macché... Sto prendendo fiato per cominciare la corsa e vincere». Quando scioglierà la riserva? «Se si tratta di primarie di coalizione io ci sarò e il 30 settembre, o il primo ottobre, partirà la mia campagna».
Matteo Renzi è già sul camper, alla rincorsa di Bersani. Il leader può contare sull'appoggio dei segretari regionali, dei presidenti delle regioni amministrate dal Pd e dei sindaci delle principali città, ai quali il 26 settembre presenterà la «Carta di intenti» e proporrà «un patto per il governo del Paese». Ma il primo cittadino di Firenze non molla. E, giorno dopo giorno, strappa al rivale nuovi sostenitori. Sindaci di piccoli Comuni dal forte valore simbolico — come la ex roccaforte leghista Ponte di Legno — o amministratori giovani e controcorrente, che condividono gli ideali della «rottamazione». La sfida è sempre più aspra e ora nello staff di Renzi si fa largo il sospetto che la partita non si giochi ad armi pari. «I sindaci nostri amici stanno subendo pressioni terrificanti dai segretari comunali, provinciali e regionali — denuncia Roberto Reggi, il coordinatore della campagna di Renzi —. È una situazione brutta. Sono arrivati a minacciare che, per chi ci appoggia, possono esserci ripercussioni sulle giunte». La tensione è già oltre il livello di guardia. Renzi chiederà a Bersani «garanzie sulla neutralità degli organi dirigenti» e la promessa che la struttura del partito non lavori tutta per lui. «Il leader deve avere le stesse possibilità degli altri, gli stessi soldi e lo stesso numero di persone — ammonisce Reggi —. Non è possibile che gli esponenti della segreteria siano tutti pancia a terra per Bersani. Non abbiamo mica la sveglia al naso, noi!». Ci saranno altri colpi di scena. Rosy Bindi è tentata e scioglierà la riserva il 30 settembre quando chiuderà la convention dei «Democratici davvero» a Milano Marittima: «Spero ci siano le condizioni per sostenere Bersani, ma se non ci saranno prenderò le mie decisioni». Infine Giuliano Pisapia ricorda a Grillo che non si può candidare al Parlamento, perché «ha una condanna passata in giudicato».

Repubblica 18.9.12
E Vendola pensa al passo indietro “Se diventano il congresso Pd allora non sono il mio posto”
Il leader Sel avverte: la nostra non è la strada di Matteo
di Concita De Gregorio


METALMECCANICI di Mirafiori, sindaci della Val di Susa, studenti dei movimenti universitari. Cinquecento persone ad ascoltare Vendola, domenica notte, sull’argine del Po. Duecento in piedi. Una folla, al parco Michelotti, festa Fiom. Se i numeri contano, e in certi casi contano, sono più del doppio di quelli che alla stessa ora siedono ad ascoltare il sindaco Fassino alla Festa del Pd, qui a Torino. Ci si scambiano foto sui telefoni in diretta, per il confronto. Partita vinta. E però. Nichi, attento: o vinci e vai al ballottaggio, oppure cosa fai il terzo dopo Renzi e Bersani? «Ma quale terzo. Se corro è per vincere». Come se? «Non ho mica deciso. Vediamo. Le prossime due settimane sono decisive. Il 6 ottobre si definiscono le regole della competizione. Certamente non mi sfilo per convergere su Bersani, ci mancherebbe altro. Ma certo che se diventano il congresso del Pd, queste primarie, non sono il mio posto».
Vista da qui, all’una di notte dopo due ore di dibattito serrato e applauditissimo con Maurizio Landini, leader Fiom, la questione sta in questi termini: più la platea delle primarie si affolla di candidati Pd — dopo Renzi e Bersani Puppato, forse Civati, forse Boeri, forse Spini — più Nichi Vendola è tentato di sedersi sull’argine del fiume ad aspettare. Che tanto, eventualmente, il campo della sinistra si definirà dopo: se vince Renzi «sarà chiaro che quello è un progetto di destra sostanziale, e l’area della sinistra ne resterà tutta fuori. Se vince Bersani per governare avrà bisogno di noi e sarà lì che noi porteremo sul tavolo la nostra agenda. Perchè non è di alleanze che è importante parlare, ma di quale progetto di governo. Qual è il soggetto politico che può portare al governo un programma che con chiarezza dica questo: bisogna cambiare la riforma delle pensioni, ripristinare l’articolo 18, cambiare la legge 30 fabbrica di precariato, palude in cui precipita il senso della vita di generazioni intere. L’abrogazione della Bossi-Fini, una legge sulla rappresentanza sindacale, una sul testamento biologico, la riforma della legge 40 sulla fecondazione assistita, il diritto per le coppie di fatto di fare le loro scelte di vita, l’investimento sulla ricerca e sulla scuola come motori di sviluppo e crescita. Ecco, io voglio un soggetto politico che faccia questo. L’alleanza col Pd mi interessa se è la via per arrivare qui. Non ho certezza del risultato, ma non vedo per ora un’altra strada. Mi sono stancato di perdere bene. La stagione del miglior perdente si è chiusa.
Ora voglio vincere e governare. Non ho firmato una cambiale in bianco con Bersani, ma voglio vincere. No, vi sbagliate: non ho detto che è meglio vincere male che perdere bene. Ho detto: vincere, e farlo bene, e portare le nostre ragioni al governo del paese».
Parole che esplodono come bombe nella platea di operai come Luisa Murgia, Fabio Di Gioia, Luigi Russo seduti in prima fila. Vincere, in specie dal referendum di Marchionne in poi, è un verbo caduto in disuso, difficile anche da pensare. «Non possiamo più fare attività sindacale in fabbrica — dice Fabio — non possiamo usare le bacheche dobbiamo riunirci in locali esterni e fuori dall’orario di lavoro. Siamo clandestini ». Luigi, in Fiat dal ‘75, reparto carrozzeria: «Io il Pd l’ho votato sempre, fino al referendum. quella è stata
una ferita grossa. Quando Fassino ha detto se fossi un operaio voterei sì ho capito che era finita. Non lo so, forse hanno scelto un’altra strada, forse non vogliono più rappresentare chi lavora. Marchionne ci ha ricattati tutti quanti, e lì ho capito che era finita. Abbiamo perso». Elisa: «Sono stata iscritta al Pd dalla fondazione. Mi aspettavo che il partito stesse con noi, invece se n’è andato. Allora non so più cosa possiamo fare, dobbiamo arrenderci?».
No, non dovete arrendervi, non dobbiamo. Nichi Vendola si alza in piedi, alza la voce, urla e sembra quasi vicino al pianto. «Io per vincere contro la destra ho dovuto prima vincere due volte contro il centrosinistra. Mi capite? Bisogna battersi su due fronti. Un nemico è il centrodestra, quello è facile da riconoscere. L’altro è più insidioso, mescola persone come Bersani, che possono essere nostre compagne di strada, a elementi che sono il peggio della vecchia Dc, del vecchio stalinismo, del liberismo nemico dei diritti. Noi dobbiamo tenere diritta la barra sul nostro progetto: i partiti politici tradizionali sono soffocati sotto il peso della cooptazione, la formazione dei gruppi dirigenti avvenuta al ribasso sulla base della fedeltà al leader. Due terzi dell’elettorato non si sentono più rappresentati da loro. Ma attenzione, io sono spaventato: questa crisi dei partiti può diventare ripudio della democrazia. Del sistema di rappresentanza rottamato sotto la parola d’ordine della casta in favore del plebiscitarismo. Anche Gesù Cristo fu crocifisso a democrazia diretta. Dobbiamo chiederci chi sono i costruttori di informazioni. Il populismo è manipolazione, il web può inventare un popolo che non c’è attraverso la mistificazione. Il mondo è complesso, non c’è bestemmia che possa liberarci dal male. Per salvare il mondo serve la cultura, non c’è invettiva che basti». Parla di Grillo, Vendola, a una platea molto tentata dal grillismo. Lo stesso Landini racconta del controllore del treno che proprio due ore fa lo ha fermato per chiedergli: mi dica di Grillo, state con lui? «Ma non si può liquidare l’antipolitica come una colpa di chi soffre l’abbandono da parte dei partiti che avrebbero dovuto rappresentarlo. Dobbiamo cambiare schema di gioco, offrire un progetto di modernità nuovo, creare un soggetto politico che torni nel posto che ha abbandonato: che torni a parlare degli interessi veri delle persone e del paese, con rispetto della complessità. Non è vero che si deve scegliere fra il lavoro e i diritti, alla Fiat, non è vero che si deve scegliere fra il lavoro e la salute all’Ilva. Ci possono essere lavoro e salute, lavoro e diritti. È più difficile, ed è per questo che dobbiamo investire nell’innovazione, nella ricerca, nella cultura. Ci serve intelligenza dei fenomeni complessi, non semplificazione. Gli slogan lasciamoli ai rottamatori ». Ce n’è per Renzi, ora, applausi liberatori di entusiasmo. Tra i sindaci della Val di Susa è venuta Carla Mattioli, ex sindaco di Avigliana per due mandati, famiglia cattolica, padre sindaco democristiano, «quando io e mia madre abbiamo votato lo stesso partito, per Prodi, è stato un giorno felice». Poi sono arrivati i giorni bui. Il Pd di Avigliana si è alleato col Pdl, lei si è candidata in una lista civica, è stata espulsa dal partito — espulsa, con altri quattro — hanno vinto da espulsi le elezioni. Aveva un riferimento in Rosy Bindi, nel Pd. Ora che è fuori non sa: Renzi certamente no, è la destra, dice.
Vediamo Vendola. Di Renzi Nichi dice che il tema del rinnovamento è potente, ma da solo non basta: il suo è un progetto sostanzialmente di destra e difatti è appoggiato da Confindustria, piace a Berlusconi, è sostenuto dai grandi investitori finanziari, occhieggia a Montezemolo e Passera. «La foto dei cosiddetti mostri, la foto di gruppo coi sostenitori del referendum contro l’articolo 18, non mi preoccupa perchè non mi interessano le storie di palazzo. Mi interessa il tema del lavoro. Dove sta Renzi sul tema del lavoro? ». Giorgio Gori il king maker di Renzi ha cercato anche me, dice Vendola. «Sono bravi, sanno fare comunicazione, creano reti e convincono che stare con loro conviene. Ma per andare dove? Non è la nostra strada, quella». Con Di Pietro c’è un problema legato all’attacco a Napolitano: un problema serio, ma anche su questo «si deve lavorare. Il Presidente della Repubblica non è certamente una minaccia per questo paese, al contrario è una presenza di grande equilibrio e garanzia. Di Pietro dovrebbe piuttosto guardare al suo partito nel territorio, e renderlo presentabile e trasparente ». Bersani, per completare la foto di Vasto, «è un’ottima persona, leale. È il migliore del suo gruppo dirigente, ha lui stesso interesse al rinnovamento che gli tolga dal collo il fiato della vecchia nomenclatura di partito, ha bisogno di una sponda forte a sinistra». E dunque che fare? Dargli la sponda? Stare con lui o, alle primarie, contro di lui? «Ho bisogno di arrivare a fine mese per decidere. Primo, perchè non voglio che ci siano ombre giudiziarie sul mio conto. Io so di aver agito nel rispetto della legge, ma voglio che sia certificato. Non voglio che nessun elettore abbia imbarazzo, aspetto l’esito della giustizia. Secondo: voglio che siano definite le regole delle primarie, e se possibile capire dove andrà la riforma della legge elettorale perchè se si torna al proporzionale, in sostanza, cambia tutto e le primarie per la leadership implodono. Io piacevo ai salotti della borghesia del centrosinistra quando ero quello con l’orecchino, l’Idrolitina delle acque morte del centrosinistra. Ma di piacere ai salotti non mi interessa. La fatwa contro di me è cominciata il giorno che sono andato ai cancelli di Pomigliano. La battaglia politica riparte da li. Dal lavoro, dalla rappresentanza delle ragioni degli ultimi, dal diritto e dal merito. Coi referendum in cui il Pd non credeva, e poi 27 milioni di persone hanno fatto vincere la sinistra suo malgrado. I sindaci di Milano, di Cagliari, di Genova, le vittorie di cui il centrosinistra si è adornato le abbiamo portate noi. La Cgil diceva: quella per i referendum Fiat è una firma tecnica. Poi abbiamo visto dove ha portato, e abbiamo avuto i governi tecnici. È venuta l’ora di tornare a vincere e di fare politica. Se lo strumento siano queste primarie lo capiremo entro la fine del mese. Però deve essere chiaro: le primarie sono uno strumento, non il fine. Per lo meno: non il mio. Lo spazio a sinistra non ce l’ha mai regalato nessuno, ce lo dobbiamo conquistare. Noi definiamo i nostri obiettivi, e vediamo chi ci sta. Certo non andiamo a mettere il becco nelle diatribe interne al Pd: sono problemi loro. Quando si saranno chiariti e saranno pronti ci facciano un segno e allora cominceremo a discutere. Ci dicano se le primarie sono il loro congresso. In questo caso le osserveremo con rispetto. Un minuto dopo si comincerà a parlare di come e con quali forze governare il paese».
(5. continua)

Repubblica 18.9.12
Primarie, Bindi e veltroniani pronti a correre
Valzer dei nomi a quota dieci, rischio caos. Bersani: siamo seri. Renzi:niente rese dei conti
di Giovanna Casadio


ROMA — Le primarie del centrosinistra somigliano a una porta girevole: dopo il segretario democratico Pier Luigi Bersani e il sindaco “rottamatore” Matteo Renzi, si candidano Laura Puppato e Pippo Civati, invece pensa di uscirne il leader “rosso” Nichi Vendola. Rosy Bindi, la presidente del Pd, farà sapere domenica; i veltroniani forse si buttano nella mischia con Giorgio Tonini, Enrico Morando o Pietro Ichino. Vanno aggiunti il socialista Valdo Spini («Non ho ancora deciso»), che però provoca una lite nel suo partito. Di certo è in gara Bruno Tabacci, assessore della giunta Pisapia e portavoce del partito rutelliano Api. Forse Stefano Boeri. Forse Sandro Gozi. I concorrenti superano quota dieci.
L’affollamento cresce, ma soprattutto nelle file del Pd è una babele. Twitter si scatena agli hashtag primarie e pd. «Quattro candidati del Pd alle primarie, più due annunciati sono troppi! Per dirla in bersanese la ditta ha bisogno di una regolata», avverte Enrico Rossi il “governatore” della Toscana. Ritwittata Chiara Geloni, direttore di Youdem: «Non importa che tu sia un leone o una gazzella, comincia a candidarti». Fioccano le dichiarazioni: «Bene la Puppato, però speriamo non ci siano 500 candidati, senno’ c’è una certa confusione» (D’Alema); «Se ci sono troppi candidati, il rischio è di ridicolizzare le primarie » (Chiti); «Diamoci tutti una regolata» (Debora Serracchiani); «Torni la saggezza, è una babele» (Fioroni); «Siamo al partito etereo » (Giacomelli).
Bersani frena, e in segreteria si studiano “paletti”- da votare nell’Assemblea dei mille del 6 ottobre - per evitare una Armata Brancaleone di Democratici in campo. Rassicura anche, il segretario del Pd: «Le primarie appassioneranno i cittadini, li riconcilieranno almeno un po’ con la politica sempre che le teniamo in un ambito serio. Non sono un bilancino interno». Concetto che rilancia Renzi: «Le primarie non sono un regolamento di conti interno», e a Vendola: «Noi ci crediamo e allora le facciamo sul serio». Il problema quindi, è la serietà. Bindi, che per prima è andata lancia in resta, dice che non è convinta di sostenere Bersani, e che domenica nel convegno di “Democratici davvero”, la sua corrente, deciderà. «Troppi in corsa? Se le primarie sono aperte, a doppio turno, non ci si può lamentare che ci siano tanti candidati - afferma -. Piuttosto mi chiederei com’è che ci sono tanti candidati del Pd. Così rischia di diventare un congresso del partito». Chiede anche un albo dei votanti, perché il pericolo di inquinamento da parte del centrodestra è forte, e a preoccupare ci sono tutte le uscite di Berlusconi su quant’è bravo (e similpidiellino) Renzi.
Un altro possibile candidato, del gruppo dei t/q (trenta-quarantenni), Sandro Gozi si toglie qualche sassolino dalla scarpa: «Il
problema non è che ci siano tanti candidati, è che non si capisce con quali idee. Se c’è una corsa ad avere il proprio quarto d’ora di gloria, allora resettiamo tutto e facciamo un congresso anticipato. A quanto pare abbiamo sbagliato spartito. Io? Se si tratta di portare avanti i temi dell’Europa, dei diritti, con l’appoggio degli ulivisti ci sarei». In campo i veltroniani, dopo molte indicazioni di sostegno a Renzi. «Se Vendola si ritira, cambia lo schema di gioco, allora ragioniamoci», annuncia Stefano Ceccanti. Prima del 29, quando si riunirà il movimento per l’Agenda Monti (ovvero per la continuità delle politiche di Monti dopo il voto), sceglieranno il loro nome. Alla baraonda dovrebbero porre fine regole stringenti.
Ad esempio, i candidati del Pd per scendere in gara dovrebbero avere l’appoggio del 35% dell’Assemblea dei mille (più di 300 sostenitori) o il 20% degli iscritti. Ci saranno poi le regole di coalizione. Nelle primarie per la premiership del 2005, quelle di Prodi, ci volevano 10 mila firme in
10 regioni.

Corriere 18.9.12
«Bersani apra a doppio turno e semipresidenzialismo»
I promotori dell'iniziativa del 20 luglio


La ormai evidente paralisi del negoziato in corso da molti mesi sulla auspicata riforma della legge elettorale ripropone lo scenario inaccettabile di un Parlamento inconcludente e incapace di produrre una qualsiasi concreta iniziativa riformatrice. Se per un verso in questi mesi ha sorretto il governo e, pur fra incertezze e difficoltà, ha prodotto riforme e prospettato soluzioni che hanno aiutato l'Italia a non perdere il suo ruolo di grande Paese fondatore dell'Unione Europea, per l'altro il Parlamento, pur svolgendo l'essenziale e decisivo compito di sostegno all'azione dell'esecutivo, non ha colto finora nessuno degli obiettivi di riforma istituzionale ed elettorale che si era autonomamente assegnato all'atto di nascita del governo Monti. Ora, a pochissimo dalla conclusione della legislatura, siamo giunti a un bivio: è meglio rassegnarsi all'impotenza riformatrice dell'attuale Parlamento e affidare l'elezione del nuovo Parlamento alla vecchia legge elettorale, o promuovere un ulteriore tentativo per produrre il cambiamento che tutti a parole considerano necessario? Si può propendere per la seconda soluzione a condizione che si tenga realisticamente conto delle posizioni in campo e di quanto si è prodotto finora nel voto di prima lettura, al Senato, sulla riforma istituzionale. È all'esame della Camera la riforma della Costituzione, approvata dal Senato, che introduce l'elezione diretta del presidente della Repubblica e prevede, con soluzioni incerte e contraddittorie, un nuovo senato «federale». Come è noto al Senato si è prodotta una profonda divisione nel voto degli emendamenti e del testo finale, tanto da far ritenere molto difficile una definitiva approvazione della riforma, considerati i diversi rapporti di forza fra i gruppi alla Camera e le differenti posizioni espresse. È dunque pressoché certo il definitivo blocco del processo riformatore: nessuna riduzione del numero dei parlamentari (contenuta nel testo approvato dal Senato); nessuna riforma del bicameralismo perfetto; nessuna nuova legge elettorale, che consenta ai cittadini di scegliere al contempo rappresentanti e governo.
Giunti a questo punto, non sarebbe forse necessario un profondo mutamento delle posizioni assunte fino ad oggi? Nella lettura del testo del Senato alla Camera, si potrebbero introdurre le modifiche sufficienti a renderlo coerente e razionale: una seria riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, che preveda il doppio turno per l'elezione del Parlamento, accanto ad un nuovo Senato, che superi l'attuale bicameralismo perfetto e svolga prevalentemente la funzione di Camera delle Autonomie.
La legislatura formalmente ha davanti ancora tempo sufficiente per svolgere questo compito. Servirebbe ciò che finora è mancato: uno sforzo convinto delle forze politiche, a partire da quelle che sostengono il governo Monti. Riprendiamo il dibattito alla Camera sul testo di riforma istituzionale e portiamo da subito al Senato la riforma elettorale a doppio turno. Noi chiediamo al nostro partito, al PD, di farsi protagonista di un'iniziativa in questo senso.
I promotori dell'iniziativa del 20 luglio
«Il Pd e l'Agenda Monti»
Marilena Adamo
Antonello Cabras
Stefano Ceccanti
Marco Follini
Paolo Gentiloni
Paolo Giaretta
Pietro Ichino
Claudia Mancina
Alessandro Maran
Enrico Morando
Magda Negri
Vinicio Peluffo
Umberto Ranieri
Giorgio Tonini
Salvatore Vassallo

Repubblica 18.9.12
I dubbi sul dopo Monti
di Massimo L. Salvadori


Nelle file dei due maggiori partiti sono molte le voci – a partire da quelle di Alfano e di Bersani – di coloro che, superata la parentesi del governo tecnico, invocano in nome della normalità democratica «il ritorno della politica al comando ». A queste voci si affiancano le posizioni critiche di settori dell’opinione pubblica che mostrano insofferenza nei confronti dei leader stranieri europei e americani i quali – arrogandosi l’indebito diritto di esprimere aperta diffidenza nei confronti della capacità dei partiti italiani di formare dopo le elezioni del 2013 un esecutivo stabile e responsabile in materia economica e contrapponendo l’efficacia dei loro sistemi democratici alla scarsa affidabilità del nostro – tifano per “Monti anche domani”.
Giusto in via di principio ribattere che le nostre istituzioni sono democratiche al pari di quelle di chi ci guarda con preoccupazione; poi però dobbiamo andare alla concreta realtà della politica italiana e al dato di fatto che i nostri partiti stanno muovendosi in modo tale da rendere ben giustificate le perplessità verso il dopo Monti. L’Italia è parte di un’Unione (e di un mondo) in cui come mai prima ciò che fa o non fa un paese si ripercuote sugli altri, e quindi il diritto di critica appartiene a tutti. Orbene, è certo vero che la nostra è una democrazia come quella tedesca o francese o americana; sennonché quel che fa la differenza sostanziale è la qualità di funzionamento dell’una e delle altre. Da questo dobbiamo partire e trarne le conseguenze. Il governo dei tecnici è stato il risultato di un cedimento dei partiti di cui questi sono stati le uniche cause. Spetta ora ad essi dare la prova di una capacità di ripresa convincente delle nostre istituzioni, così da portare alla formazione di un governo che non segni un ritorno disastroso alle vecchie minestre.
Gli esponenti dei partiti più forti denunciano a gran voce ogni giorno il pericolo costituito dall’onda montante dell’antipolitica, dichiarano che andare alle ormai vicine elezioni senza una nuova e buona legge elettorale equivarrebbe a una squalifica di loro stessi, ma lasciano passare giorni e settimane facendo credere di essere vicinissimi ad un accordo che però non arriva. Chi semina dunque l’antipolitica? Gli italiani sentono con sempre maggiore frequenza il Capo dello Stato ammonire che il paese ha urgente bisogno sia della riforma elettorale sia di schieramenti credibili in grado di assicurare stabilità di governo, ma nulla prende ancora sostanza: lo spettacolo che i partiti offrono è di soggetti che sembrano non sapere cosa fare di se stessi. Il Pdl è una balena spompata che non si capisce più che cosa sia, con chi voglia andare e che cosa intenda fare e fa pendere sulle nostre teste la ricandidatura grottesca del Cavaliere. Il Pd a sua volta si agita penosamente. Un giorno il suo segretario, rinnegato Di Pietro, dice di preferire Casini a Vendola, il giorno dopo Vendola a Casini e il giorno ancora successivo mette in dubbio che Vendola sia all’altezza dei compiti di governo. Proprio mentre dovrebbe presentarsi con una rassicurante intesa interna, con un candidato condiviso alla guida del governo, con un chiaro programma in termini di schieramento e delle cose da fare una volta al potere, ecco il Pd alla prese con la sfida lanciata a Bersani da Renzi, che dichiara in caso di sua vittoria di essere pronto a offrire a Monti la guida del paese, mentre Bersani, in palese difficoltà, dopo aver sentenziato che il tempo dei governi tecnici è scaduto, mostra disponibilità a nominare il supertecnico Monti, che il suo ipotetico alleato Vendola vede come fumo negli occhi, superministro dell’economia. Di più: Renzi, il quale accusa il segretario di essere ancor sempre circondato dai vecchi notabili che egli vorrebbe definitivamente pensionati, con una credibilità a dir poco dubbia, promette se sconfitto alle primarie di assicurare nondimeno pieno appoggio a un Bersani che ha una linea divergente dalla sua. E arriviamo all’Udc in fase di metamorfosi verso un grande Centro. Casini, dopo aver lasciato pensare fino a poco tempo fa alla possibilità di un accordo organico con il centrosinistra, ambisce ora – proprio mentre il suo concorrente Montezemolo lo boccia senza appello – a fare della sua nuova creatura il decisore primario del futuro politico dell’Italia sotto la leadership forte sempre di Monti. Senza dubbio, a rendere assai poco limpido l’orizzonte politico del nostro paese sono i difetti profondi dei partiti italiani. Ma vi è da aggiungere che, almeno quando sarà scaduto il termine per lo scioglimento delle Camere, spetterà anche all’attuale premier – il quale per parte sua, dopo aver asserito di voler andare in vacanza, da ultimo pare aprire ad un’altra possibilità – chiarire le proprie intenzioni, poiché in caso contrario a confusione si aggiungerà confusione. Bisogna che egli dia, in un senso o nell’altro, la risposta attesa dai suoi fan italiani e stranieri e da quanti invece non lo amano affatto: risposta che, se positiva, è destinata a scompaginare profondamente le carte in gioco. Chi può stupirsi, così stando le cose, che nell’Unione Europea e negli Stati Uniti vi sia un motivato allarme per il futuro politico del-l’Italia?

il Fatto 18.9.12
Legge elettorale, il conto va al Pd
di Arturo Parisi


Come temevamo, ma ancora non riusciamo a credere, l'inizio dell'autunno troverà la legge elettorale più che mai inchiodata all’alternativa tra il mantenimento del Porcellum e il ritorno più o meno camuffato alla legge proporzionale della Prima Repubblica. Facendo finta prima di accordarsi e ora di bisticciarsi i tre partiti della maggioranza non hanno tuttavia perso il tempo invano. Dopo aver rinviato la definizione della legge elettorale con la scusa di voler fare le riforme istituzionali, ora, con la scusa dell’urgenza della legge elettorale, non hanno neppure il bisogno di far finta di essere dispiaciuti per non aver più tempo per fare le riforme. Risultato. 945 erano i parlamentari e 945 restano. E dire che avevano cominciato col dire che era ineludibile ridurli alla metà. 2 erano le Camere e 2 restano. Una perfetta fotocopia dell’altra. A dispetto di tutto il bla bla sulla necessità di un Senato delle autonomie e della comprovata esperienza del raddoppio del tempo necessario a fare una legge, cioè a dire a non farla facendo finta di farla. Confermate così le Camere e le poltrone che loro stessi avevano promesso di tagliare, un bottino trattato come se fosse “cosa loro”, l'obiettivo che la tattica dilatoria di ABC ora si propone è quello di tenere fuori quelli che stanno fuori e mettere sotto quelli che, nonostante tutto, riuscissero a entrare. Invece di coinvolgere e costringere alla verifica del consenso le proposte che vanno moltiplicandosi in nome di qualità e di quantità che solo le elezioni possono misurare. Mentre già mancano meno di cinque mesi alla convocazione dei comizi elettorali e sei al deposito delle liste sappiamo che potremmo disporre di una nuova legge elettorale, se va bene, nel prossimo novembre, cioè a dire a tre mesi dall'inizio dell'iter elettorale.
SAPPIAMO cioè a dire già ora con certezza che, qualora si pensasse di tornare al Mattarellum, non si farebbe più in tempo a ridisegnare collegi elettorali demograficamente equivalenti secondo le modalità e le procedure previste da quella legge. Sappiamo pure che le liste che non godano del privilegio di potersi presentare senza raccogliere le firme non disporrebbero più del tempo finora previsto. E questo dimenticando chi è arrivato a indicare nelle elezioni siciliane della fine di ottobre la vera data di riferimento per valutare le convenienze dei partiti e in particolare la tenuta dell'accordo tra Bersani e Casini. Come se la democrazia fosse “cosa loro”.
Questa è la fine alla quale giorno dopo giorno è stata condotta la Repubblica. Una vergogna per chi ha la responsabilità di averci portato a questo punto. Un disastro per tutti. Il fatto che un costituzionalista autorevole e avvertito come Michele Ainis abbia proposto dal Corriere della Sera come unica via di uscita un decreto del governo è da solo la prova della gravità della situazione in cui Berlusconi, Bersani e Casini ci hanno portato. E giustamente Ainis la definisce una soluzione disperata per uscire dalla disperazione. La stessa disperazione che l'anno scorso ci indusse a lanciare fuori tempo massimo il referendum contro il Porcellum. Se anche le probabilità di ammissione da parte della Consulta fossero state residuali dovevamo provarci. I partiti di allora erano infatti gli stessi di oggi, quelli che il Porcellum avevano voluto e quelli che di esso avevano goduto. E gli stessi erano i leader. Non è un caso che così come all'inizio tutti, e ripeto tutti, espressero la loro avversione al referendum, alla fine nessuno, e ripeto nessuno, si sentì di aggiungere la propria firma al 1.200.000 che consegnammo in Cassazione. Verrà il tempo della ricostruzione delle responsabilità. Di chi ha lavorato troppo da vicino per incoraggiare il clima favorevole al no della Corte ai cittadini fino ad annunciarne in anticipo la sentenza. Di chi, dopo il rigetto del referendum, ha assicurato che, nonostante il No della Corte, i partiti avrebbero corrisposto alla domanda che avevano manifestato aggiungendovi in omaggio, “per rovinarsi” come è uso tra i piazzisti, anche le riforme istituzionali. Di chi, da destra e sinistra, per coprire la comune intenzione di tornare al passato, ha rinfrescato e inventato “doppi turni” e “semipresidenzialismi” giusto per farsi un alibi da lasciare alla Storia. Quello che non possiamo dimenticare è che se la decisione fosse stata lasciata ai cittadini già da quattro mesi il sangue della democrazia avrebbe ripreso a rifluire consentendo e costringendo i partiti a pensare le alternative da proporre al voto dei cittadini, e non invece a continuare a sospendere oggi la democrazia per poter continuare a sospenderla domani. Quello che poi non può non lasciare allibiti è che, dopo che al tavolo ABC tutto è stato preso in considerazione all'infuori della proposta dei cittadini, il ritorno al Mattarellum possa essere oggi ripescato solo dopo che si è assicurati dagli altri il suo rifiuto. Ripescato come una bandiera da sventolare liberi da ogni responsabilità in una calcolata sconfitta. Sembra appunto questa la proposta annunciata all'ultima riunione della Società Italiana di Scienza Politica nientedimeno che a nome delle firme del referendum da Violante, lo stesso Violante che aveva messo la sua competenza al servizio del No al referendum, e la sua penna al servizio della stesura di quella bozza dalla quale è partita questa sciagurata marcia verso il ritorno al passato. Resta tuttavia che a un anno dalla raccolta delle firme e a pochi mesi dalle prossime elezioni, l'alternativa a noi di fronte è restare al Porcellum o tornare al bel tempo della Prima Repubblica attraverso piccole correzioni di esso. Se questo fosse l'esito non è certo a Casini che i cittadini dovranno chieder conto, al Casini che da sette anni persegue in modo trasparente l'obiettivo della Prima Repubblica.
E NEPPURE al Berlusconi di oggi che, consapevole della sua sconfitta, difende come Casini al tavolo della consociazione la sua porzione. E neppure, come ha scritto Europa, “agli astuti manovratori che all'interno del Pd hanno lavorato per consegnare il partito alla pura e semplice geometria delle alleanze su due fronti” perché anche questi perseguono da sempre lo stesso obiettivo, anche se senza la trasparenza di Casini. È alla segreteria del Pd che alla fine sarà presentato il conto, che invece di lavorare tra i cittadini a costruire una coalizione in condizione di offrire, dopo la sconfitta di Berlusconi, un’alternativa di governo è costretta a subire le scelte del suo alleato di centro sia per quel che riguarda le alleanze sia per quel che riguarda le regole della democrazia.

Corriere 18.9.12
Solo il 10% di chi studia ha anche un lavoro In Germania è il 50%
Più di un giovane su tre non fa il lavoro che voleva
Impegni slegati dal livello di istruzione. Appena il 10% di chi studia ha un reddito autonomo, in Germania sono il 50%
di Enrico Marro


Tra i principali Paesi europei, l'Italia è la più arretrata nell'affiancare scuola e lavoro. Solo il 10% dei giovani associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro il 60% della Danimarca e il 50% di Germania e Regno Unito. E uno su 3 ha occupazioni inferiori al proprio livello di istruzione.

ROMA — Fondamentale per la crescita dell'economia è «il capitale umano», come dicono quelli che vogliono fare bella figura. L'americano Gary Becker, dimostrandolo con i suoi studi, ci ha vinto il premio Nobel per l'economia nel 1992. Ma il concetto è comprensibile a chiunque: più è alto il livello di istruzione e formazione dei lavoratori più ciò andrà a vantaggio del sistema produttivo, a patto di utilizzarlo. Bene, da noi il capitale umano non è né elevato né ben impiegato. Una costante nella storia d'Italia, che spiega non poco della perdita di competitività del 20% negli ultimi dieci anni rispetto alle altre economie dell'area euro. Lo sottolinea il Rapporto sul mercato del lavoro che verrà presentato oggi al Cnel, Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, presieduto da Antonio Marzano. Nel testo, messo a punto dal centro studi Ref diretto da Carlo Dell'Aringa, una lunga parte è dedicata a spiegare il problema, con particolare riferimento ai giovani.
Due i dati da cui partire. Primo: in Italia solo il 10% dei giovani (20-24 anni) associa allo studio una qualche esperienza lavorativa, contro livelli superiori al 60% in Danimarca e vicini al 50% in Germania e Regno Unito e al 25% in Francia. Perfino in Spagna sono oltre il 20%. Secondo: a segnalare il drammatico scollamento tra mercato del lavoro e sistema scolastico ci sono 5,2 milioni di lavoratori nella fascia tra 15 e 64 anni, cioè uno su quattro, «che risultano sottoinquadrati» nel lavoro rispetto al loro livello d'istruzione. Tra i giovani, sono uno su tre. Insomma: il capitale umano è sia sottoutilizzato, basti pensare alla disoccupazione giovanile (il 20,2% nella fascia 18-29 anni nel 2011), sia male utilizzato, tanto che da un lato molti posti di lavoro vengono coperti dagli stranieri e dall'altro «centinaia di nostri giovani affollano le università del mondo anglosassone».
Chi studia non lavora
«La questione giovani è un tema estremamente delicato», esordisce il rapporto del Cnel, perché qui la crisi economica ha colpito duramente, causando un forte aumento del tasso di disoccupazione in tutti i Paesi europei. In Italia però, «persiste una cultura — unica in Europa — che ancora separa nettamente il momento formativo da quello lavorativo. Solamente il 10% dei ragazzi coniuga il percorso di studi ad una qualche esperienza lavorativa» e ciò, ovviamente, «contribuisce a rendere la transizione scuola lavoro più lunga e difficile».
Troppo tempo per trovare un lavoro
Nei Paesi che invece hanno «da sempre sostenuto un mix di istruzione e lavoro (si pensi ad esempio ai Paesi scandinavi oppure a Germania, Austria e Svizzera) si sono registrati livelli di disoccupazione giovanile più bassi e la transizione scuola-lavoro tende ad avere tempi più brevi». Mediamente in Italia per trovare il primo impiego ci si mette più di due anni, 25,5 mesi per la precisione. In Germania ne bastano 18. In Danimarca 14,6, nel Regno Unito 19,4. Solo in Spagna stanno peggio di noi, con un'attesa media di quasi tre anni (34,6 mesi). Stesso trend anche se si calcola il tempo medio prima di trovare un lavoro a tempo indeterminato. In Italia ci vogliono quasi quattro anni (44,8 mesi). In Danimarca solo 21,3 mesi, ma lì non c'è l'articolo 18 (ora attenuato dopo la riforma Fornero) e le aziende possono licenziare facilmente. In Germania per un lavoro stabile si attendono in media 33,8 mesi, nel Regno Unito tre anni.
«I giovani che hanno appena completato gli studi — osservano i ricercatori — se restano per un periodo lungo in condizione di inattività, tendono a registrare un deterioramento del loro capitale umano». Inoltre, «la ricerca di un posto può portare alcuni ad accettare lavori per i quali sono richiesti requisiti inferiori rispetto al percorso scolastico seguito: è il fenomeno dell'over education».

Corriere 18.9.12
Attività intellettuale il mito che si sgretola
di Dario Di Vico


Quasi tutti i tentativi legislativi che abbiamo fatto nel tempo per cercare di avviare al lavoro i giovani e alternare le loro esperienze tra studio e pratica si sono risolti con il classico buco nell'acqua. E il ritardo nella comparazione europea deriva, almeno in parte, da questa incapacità bipartisan. Del resto troppo spesso nel discorso pubblico italiano si è portati a sopravvalutare l'effetto delle nuove leggi sulle dinamiche reali del mercato del lavoro, si coltiva l'idea che il diritto sia un passepartout. Basta modificare una norma e la società automaticamente si adatta. Non è così, ciclo giuridico e ciclo sociologico non è detto che coincidano, anzi. I cambiamenti della cultura del lavoro delle famiglie italiane sono lenti e di conseguenza la tempistica dell'adeguamento dei loro comportamenti non è prevedibile. Detto del metodo però è giusto sottolineare come la scelta fatta negli ultimi anni (e ribadita dalla legge Fornero), di puntare sullo strumento dell'apprendistato per favorire l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, sia sensata. È troppo presto per operare bilanci ma deve essere chiaro che non possiamo aspettarci miracoli. Gli strumenti legislativi che abbiamo messo in campo vanno accompagnati con altri interventi di carattere culturale, proprio per incidere sulla concezione del lavoro che hanno sia i padri sia i figli e che non è influenzata dal dibattito politico né da quello giuslavoristico.
In Italia veniamo da un lungo periodo in cui il lavoro manuale è stato schivato, messo da parte, considerato utile tutt'al più per impiegare/stabilizzare i nuovi immigrati. È passata l'idea che rifuggire dalla manualità equivalesse di per sé a una sorta di mobilità sociale verso l'alto, che fosse da preferire una laurea qualsiasi a un posto sicuro e ben remunerato nell'agricoltura, nel commercio tradizionale, nell'artigianato. Le famiglie hanno generosamente finanziato quest'illusione e per paradosso stiamo assistendo ancora oggi ad esercizi commerciali e piccole imprese che chiudono perché la staffetta generazionale si rivela impossibile. Avviene in Brianza non a Roma ed è tutto dire. I figli rifiutano il lavoro dei loro genitori considerandolo eccessivamente duro e soprattutto socialmente non gratificato. La crisi però sta spazzando quest'illusione e il rapporto del Cnel racconta come dalla fine del 2011 il tasso di disoccupazione sia aumentato anche perché si è ingrossato il numero di coloro che cercano lavoro. Le famiglie oggi possono essere paragonate a degli ascensori sovraccarichi, non ce la fanno più a portare tutti ai piani superiori e qualcuno a questo punto deve scendere e salire a piedi. Fuor di metafora deve mettersi a cercare un posto di lavoro senza tutte le pregiudiziali di qualche anno fa.
Se queste sono le dinamiche in corso l'operazione che dobbiamo fare è quella di accompagnare il rilancio del lavoro manuale con il mutamento della sua immagine. Qualcosa sta camminando con varie iniziative sul territorio e con il protagonismo dei soggetti più diversi. Dalla Fondazione Cologni che organizza in Lombardia e Lazio tirocini formativi per giovani nei mestieri d'arte al progetto «Botteghe di mestiere» lanciato da Italia Lavoro, dalla rete creata nel Nordest da Stefano Micelli con la parola d'ordine del «futuro artigiano» al movimento dei giovani makers che stanno dando nuova linfa generazionale non solo alla piccola manifattura ma anche al terzo settore. Sono tutte iniziative che vanno incoraggiate e sostenute perché il cambiamento alla fin fine si costruisce così.

Corriere 18.9.12
Regione Lazio
Come cavarsela (tutti) a buon mercato
Ma nessuno ha pagato il conto delle Bmw e delle regalie ai politici
di Sergio Rizzo


Se la sono cavata davvero a buon mercato alla Regione Lazio. Quei soldi che verranno risparmiati da qui al 2015 sono dei contribuenti. E nessuno, ma proprio nessuno, si è fatto male.
Su cinquanta milioni, di questi tempi, non si può sputare. Ma se la sono cavata davvero a buon mercato, tutti quanti. Perché quei soldi che verranno risparmiati da qui al 2015, tagliando sprechi inconcepibili come quelle due inutili palazzine che dovevano essere costruite, regalie vergognose quali erano i contributi ai gruppi politici, e privilegi insensati tipo le auto blu che scarrozzavano perfino i presidenti delle venti commissioni venti, non sono loro: sono dei contribuenti. E nessuno, ma proprio nessuno, si è fatto male. Ecco la vera conclusione della sceneggiata andata in onda ieri al consiglio regionale del Lazio. Ha conservato la testa il capogruppo del Popolo della libertà Francesco Battistoni. Non l'ha perduta nemmeno il presidente del consiglio regionale Mario Abbruzzese, che in un altro Paese in circostanze analoghe (vedi la vicende delle note spese gonfiate nel parlamento inglese) sarebbe partito come il tappo di una di quelle bottiglie di champagne con cui alcuni suoi compagni di partito deliziavano a spese nostre se stessi e i loro commensali. Come al solito, non c'è stato uno soltanto che abbia pagato politicamente. Tranne forse Franco Fiorito, quello che con i soldi pubblici generosamente elargiti al suo partito si era comprato un Suv Bmw da 88 mila euro perché l'auto blu non gli bastava. Sempre che poi si possa considerare una vera sanzione politica l'«autosospensione» dal partito, rimanendo in consiglio con la sua stazza da 170 chili tutta intera. Se la vedrà con i magistrati, ma questo riguarda il codice penale, non l'etica politica. Che da queste parti non abbonda di certo.
E anche il governatore Renata Polverini, che domenica tuonava «Dopo di me il Diluvio!» e chiedeva dimissioni a Tizio e Caio, minacciando le proprie, ne è uscita senza un graffio. Come se in questi due anni e mezzo, mentre andavano in orbita le spese del consiglio regionale del quale pure la presidente della giunta fa parte, e che sono registrate nel bilancio della Regione, si trovasse su Marte. Giuseppe Rossodivita, uno dei due radicali che hanno dato fuoco alle polveri semplicemente pubblicando il bilancio del loro gruppuscolo su internet, ricorda come l'assessore al Bilancio Stefano Cetica avesse dato sempre «parere negativo» a tutte le proposte di tagli alle spese del consiglio presentate da lui e Rocco Berardo. «Se non è responsabilità oggettiva, questa cos'è?», si domanda. Per non parlare di quella norma inguardabile fatta passare mentre si discuteva l'abolizione degli assegni a vita per i consiglieri a partire dalla prossima legislatura. Un emendamento recapitato direttamente dalla giunta Polverini per concedere invece proprio in extremis il vitalizio ai 14 assessori esterni. Due dei quali, l'ex senatore Luciano Ciocchetti e l'ex deputato Teodoro «er pecora» Buontempo potranno avere addirittura doppia razione, sommando il vitalizio parlamentare a quello regionale. E avveniva, cosa ancora più grave, alle due e mezzo di notte, nei giorni in cui il governo di Mario Monti varava la manovra «salva Italia» con un bel giro di vite per i pensionati presenti e futuri, ma comuni mortali. Spreco, privilegio, chiamatelo come vi pare: comunque, una schifezza. A beneficio, per di più, anche di qualche collega sindacalista del governatore. Che, ha lasciato intendere qualche mese fa Enrico Marro sul Corriere, continuerebbe da lontano a tirare le fila dell'Ugl. Cetica, appunto, che ha preceduto Renata Polverini alla segreteria della ex Cisnal. E l'assessore regionale alle Infrastrutture Giovanni Zoroddu. Due del gruppo di esponenti del Consiglio nazionale del sindacato di destra che da quando c'è il governatore affolla la Pisana. «Personaggi importanti», ha scritto Marro, come «Giovanni Zoroddu, capo di gabinetto della stessa Polverini e da sempre braccio destro della sindacalista» i quali «possono rivestire questo doppio ruolo perché nello statuto dell'Ugl non ci sono regole di incompatibilità tra l'appartenere al consiglio nazionale del sindacato e il ricoprire cariche elettive o dirigenziali in Regione». Anche se poi si finisce per essere di fatto controparte dei lavoratori. Particolarmente numerosi.
Secondo la pianta organica dovrebbero essere 3.726, quanti quelli della Lombardia, Regione che ha però il 43 per cento degli abitanti in più. Ma in realtà, come si deduce dal numero degli aventi diritto a votare i loro rappresentanti nelle Rsu, sono 3.954. Fra di loro, qualcosa come 868 addetti «ai parchi» insieme a 60 dirigenti. Già, i dirigenti. Oggi dovrebbero essere 319. Moltissimi, lamenta Roberta Bernardeschi, assunti dall'esterno. La segretaria del sindacato interno dei dirigenti e dei quadri sottolinea poi che all'inizio di agosto è comparsa una delibera che porta il numero delle caselle dirigenziali a 327. E non basta, perché c'è anche Lazio Service. Di che cosa si tratta? Una delle varie società regionali, creata anni fa con uno scopo evidente: aggirare il blocco del turnover. Infatti i suoi dipendenti lavorano per la Regione esattamente come gli altri. Sono un esercito in continua espansione. Alla fine del 2009, prima che arrivasse la giunta Polverini, erano 1.170. Un anno dopo, erano 1.370: duecento in più. E mancano ancora i consulenti (270), gli occupanti delle poltrone nelle varie società (230), nonché i dipendenti delle medesime.
Una seria spending review darebbe risultati strabilianti. In questa come in tutte le altre Regioni, statene certi. Perché una cosa comincia finalmente a essere chiara. E cioè che le Regioni sono un problema grosso come una casa, dal Nord al Sud. Hanno spesso classi politiche sempre più mediocri, amministrazioni sempre più scadenti, sprechi allucinanti. Negli ultimi dieci anni la spesa pubblica regionale è aumentata di 90 miliardi l'anno. Quanto può ancora andare avanti?

il Fatto 18.9-12
Amicizie trasversali
I 160 mila euro (sospetti) per la società di un Radicale
di Loredana Di Cesare e Valeria Pacelli


C’è un filo rosso che unisce le schiere dei radicali a quelle del gruppo Pdl alla Regione Lazio. Si tratta della società Lallaria srl, un'azienda che si occupa di progettazione e comunicazione e che al gruppo Pdl in 2 anni ha fatturato circa 160mila euro. Le ricevute sono contenute nel dossier di Franco Fiorito, l'ex capogruppo indagato per peculato. Ma c'è una particolarità: perché l'amministratore unico di questa azienda che vanta tra i suoi clienti l'Enel, il II municipio di Roma e Lottomatica Italia, è Paolo Campanelli, un radicale, candidato sindaco a Fara Sabina. Il sospetto infatti è che quei soldi siano partiti dal Pdl solo per finanziare il candidato. Ma procediamo con ordine.
Dal 2010 al 2012 ci sono infatti 6 bonifici che il Pdl paga alla Lallaria srl. Nel maggio 2011 però l'amministratore unico Campanelli si presenta alle elezioni amministrative in provincia di Rieti nella lista civica “Sabina Futura”, dalla parte dei radicali.
IN QUELLA tornata elettorale a vincere le elezioni è Davide Basilicata, giovanissimo pidiellino Campanelli conquisterà poco meno del 6% dei voti, mentre sul fronte opposto, in quota Pd, Vincenzo Mazzeo, perde. È proprio il candidato Pd che sentito da Il Fatto racconta il clima di quei giorni a Fara Sabina. “Da subito – afferma Mazzeo – c'è stato il sospetto che Campanelli fosse stato messo lì solo per ostacolarci. Infatti c'è stata da una parte una ricerca affannosa dei candidati, dall'altra un dispiegamento di denaro non indifferente. Insomma sospettiamo che dovesse presentare per forza una lista, che era solo di disturbo nei nostri confronti. Radicali e Pdl erano alleati insieme contro di noi. ” A fare da ponte tra Paolo Campanelli e il gruppo Pdl è la rietina Livia Nobili, eletta nella lista Polverini, vicepresidente commissione sanità alla Regione Lazio. La Nobili aveva affidato alla Lallaria srl tutta la gestione degli eventi che la riguardavano, dagli aperitivi agli incontri politici. Come quello chiamato “la Regione incontra Rieti”, che è costato 160mila euro.
SOLDI CHE secondo il Pd, che intanto ha presentato anche un'interrogazione, sarebbero stati utilizzati per finanziare la campagna elettorale dell'amministratore.
Contattato Paolo Campanelli spiega: “La mia storia di impegno civile e la mia professione sono due cose distinte. Livia Nobili era assessore nel 2007 nel comune di Rieti e mi ha contattato. Poi nel 2010 mi ha chiesto se potevo gestire i suoi eventi”. E sulle elezioni commenta: “Sono tutte calunnie. Sono un radicale, contro tutte le partitocrazie. Chi ha perso cerca di legittimare la sconfitta, infamando la mia attività. ” Così il quadro si restringe perché se da una parte il Pdl con denaro pubblici pagava gli eventi della Nobili, dall'altra l'organizzazione di questi veniva affidata a un'azienda con amministratore un radicale. Quando si dice, gli opposti si attraggono.

il Fatto 18.9.12
Emergenza carceri
Napolitano convoca tutti. Tranne i Radicali
di Sara Nicoli


E dire che solo fino a un anno fa non si parlava d'altro. Il sovraffollamento carcerario – e la necessità di trovarvi un rapido rimedio politico – sembrava uno dei pensieri principali di Giorgio Napolitano. Poi, improvvisamente, il silenzio. Da quando, cioè, il governo e alcune forze politiche (anche il Pd) hanno fatto capire che mancano le condizioni per una soluzione politica, il Capo dello Stato ha riposto la questione in un cassetto. E se proprio ne deve parlare, lo fa a livello puramente accademico. Come succederà il prossimo 27 settembre al Colle, quando Napolitano riceverà una nutrita delegazione di professori di diritto firmatari di un appello nel quale si chiedeva proprio al Capo dello Stato di intervenire sulle Camere per dare corso ad un provvedimento di amnistia: “ Signor presidente della Repubblica – si leggeva nell'appello – se non ora, quando? Se non così, come? ”. In prima linea sul fronte politico Rita Bernardini e i Radicali (autori dell'appello firmato da 136 personalità accademiche e non solo) che, però, non ci saranno al Quirinale: non sono stati invitati. Napolitano li ha voluti tenere fuori mentre discuterà della questione con Francesco Di Donato (Ordinario di Storia delle Istituzioni, Università Parthenope di Napoli), Fulco Lanchester (Ordinario di Diritto pubblico comparato, Università di Roma “La Sapienza”), Renzo Orlandi, Ordinario di Diritto processuale penale (Università di Bologna), Tullio Padovani (Ordinario di Diritto penale, Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa), Marco Ruotolo (Ordinario di Diritto costituzionale, Università Roma III), il Coordinatore dei Garanti dei diritti dei detenuti Franco Corleone e, infine, Vladimiro Zagrebelsky, con il quale ha anche avuto un recente scontro sulla trattativa Stato-mafia. Ma con Rita Benardini no. Perché?
La diretta interessata spiega: “Napolitano dice che non ci sono le condizioni politiche per l'amnistia e dunque esclude la rappresentanza politica dall'incontro per depotenziarne il valore del messaggio”. Ma poi ragiona ad alta voce. “Per questo motivo Marco Pannella lo attacca tutti i giorni e lo sappiamo che lui non ama essere attaccato”. Insomma, un'esclusione che sa un po' una ritorsione, un po' di una questione di opportunità politica personale. Di Napolitano, ovviamente. Di sicuro, anche la volontà di non riconoscere ai radicali la primogenitura dell'allarme carceri e delle iniziative politiche conseguenti per tenere la questione sottotraccia fino a quando, probabilmente, tornerà di stringente attualità. Sempre personale, ovviamente. Ma-rio Staderini, segretario dei Radicali Italiani, la legge un po' così: “Non basta girarsi dall'altra parte, come ha fatto Napolitano escludendo i radicali, per chiamarsi fuori dalle sue responsabilità; se le condizioni politiche non ci sono, bisogna lavorare per ricrearle. E se non lo fa lui, chi lo deve fare? ”. Ma l'argomento è diventato troppo scomodo per il Colle. Soprattutto dopo che la ministra della Giustizia, Paola Severino, ha riportato dal suo tour estivo nelle patrie galere immagini e impressioni raccapriccianti, di vera illegittimità costituzionale che, tuttavia, pare non abbiano sortito a nulla. Dal Quirinale solo silenzio. Ed accademia. Eppure, solo poco più di un anno fa, il 28 luglio 2011, al convegno sulla riforma della giustizia promosso sempre dai Radicali, Napolitano era stato durissimo. Parlò, allora, di “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” che ha raggiunto un “punto critico insostenibile”, “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana fino all impulso a togliersi la vita di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. Una tenacia d'azione e una tensione nelle parole che, certamente, facevano ben sperare. Invece, nulla. L'esclusione della Bernardini ha messo in grande imbarazzo un po' tutti. E, soprattutto, è rimasta indigesta al professor Lanchester: “Visto che ci sarà un rappresentante del governo che darà comunque valenza politica all'incontro, perché escludere la Bernardini? ”. Già, perché?

Repubblica 18.9.12
Patrimonio pubblico e diritti civili
di Salvatore Settis


Puntuale come gli acquazzoni di fine stagione, piove dal governo l’attesa grida che proclama l’imminente salvezza della patria, se solo ci decidiamo a vendere monumenti e segmenti del patrimonio immobiliare pubblico. Quest’idea di seconda mano si trascina da oltre vent’anni con risultati miserevoli, eppure a ogni crisi spuntano medici improvvisati che promettono all’Italia malata di debito guarigioni miracolose a suon di dismissioni. Comiciò Guido Carli, ministro del Tesoro con Andreotti nel 1991, proponendo una “Immobiliare Italia S.p.A.”, rimasta sulla carta finché il suo fantasma, invecchiato e inacidito, si materializzò dieci anni dopo con la “Patrimonio dello Stato S.p.A.” di Tremonti. Ma intanto le ipotesi di dismissioni venivano rilanciate quasi a ogni Finanziaria (anche coi governi di centrosinistra): quelle norme confuse e velleitarie costruirono un retroscena di “precedenti” per Berlusconi, che appena insediatosi a Palazzo Chigi nel 2001 rilanciò il tema con la legge 410. In essa si colpiva al cuore l’inalienabilità dei beni demaniali, resi disponibili alla vendita con decreto del ministro dell’Economia. La “Patrimonio S.p.A.”, col suo sistema di scatole cinesi e “cartolarizzazioni” che innescava la privatizzazione dell’intero demanio e patrimonio pubblico, è stata un fallimento epocale (fu lo stesso Tremonti a firmare nel 2011 il certificato di morte), un costoso carrozzone che non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, anzi ha peggiorato il conto patrimoniale dello Stato senza produrre alcun beneficio di lunga durata.
Con l’acqua della crisi alla gola del governo, si susseguono gesti retorici che mediante l’effetto- annuncio spargono foglie di fico sull’assenza di progetti per il futuro. Della stessa natura è l’etichetta bugiarda di spending review, indistinguibile dai famigerati “tagli lineari” (cioè alla cieca) di Tremonti; eppure il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in un’intervista a questo giornale (5 agosto) ha esortato a «evitare la filosofia dei tagli lineari ». Come fosse un’impensata fatalità, i tagli del governo si accaniscono invece sulla spesa sociale e sulla cultura, corrodono l’equità, diffondono una cortina di fumo che comprime la crescita, ma la sbandiera come se ci fosse. Ma le politiche di austerità mirate solo a ridurre il debito frenano l’economia, riducono la competitività e fanno lievitare il deficit nel suo rapporto percentuale con un Pil in calo (è un paradosso osservato da George Soros). Intanto i tagli in nome del debito pubblico danno per scontato che gli sprechi (che ci sono) siano dovuti alla spesa sociale (che non è uno spreco): ecco perché la scure si abbatte su sanità, scuola, previdenza, cultura. Si occulta invece una scomoda verità: l’accumulo del debito pubblico è aggravato dal debito di banche e imprese, regolarmente ripianato da interventi degli Stati (37% del Pil in Europa a fine 2011, secondo dati Bankitalia). I paladini della deregulation neo-liberista, quando i loro buchi di bilancio diventano voragini, si tramutano sull’istante in neokeynesiani, invocano l’intervento dello Stato e con subita metamorfosi il debito privato diventa debito pubblico, e i cittadini vengono borseggiati. Non solo: dopo essersi mostrati incapaci di amministrare se stessi, banche e mercati si sostituiscono ai governi, colpendo al cuore i principi della democrazia.
Questo processo è ancor più feroce in Italia, perché si aggancia alla cancrena dell’evasione fiscale, nostro non invidiabile primato. Il presidente Monti ha il merito di aver infranto su questo tema la congiura del silenzio di cui furono complici destra e sinistra; tuttavia, non ha (ancora?) lanciato misure commisurate alle gigantesche dimensioni del problema: 142,47 miliardi di tasse non pagate nel 2011, 154 la proiezione per il 2012 (dati Confcommercio). Gli introiti fiscali sono stati irresponsabilmente frenati distribuendo iniquamente la pressione tributaria, massima sui percettori di reddito fisso e quasi opzionale su tutti gli altri, per non dire di sconti, deroghe e condoni. I mancati introiti impediscono di risanare il debito, accrescendolo nel tempo coi relativi interessi e facendo gravare sui più deboli anche i contributi di Stato a copertura delle perdite bancarie. Solo rimuovendo cinicamente dalla scena l’evasione fiscale e i suoi effetti si può sostenere che le dismissioni delle proprietà pubbliche e i tagli alla spesa sociale siano le sole leve disponibili per ridurre il debito.
La dismissione di beni demaniali non è solo inefficace, è anche incostituzionale. La proprietà pubblica è infatti attributo necessario della sovranità, che spetta al popolo (art. 1 Cost.). Demanio, beni pubblici, beni comuni e beni culturali sono, nel disegno della Costituzione, beni essenziali a garanzia dell’esercizio dei diritti civili e degli interessi collettivi (libertà, salute, democrazia, cultura, eguaglianza, lavoro). Sono, come ha scritto la Commissione Rodotà, «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona». Diritti dei cittadini e beni economici che ne sono la garanzia fattuale si stringono in un solo nodo: vendere le proprietà pubbliche e comprimere i diritti sono due facce della stessa medaglia. In questa corsa al peggio, la farsa del federalismo demaniale si segnala, secondo Paolo Maddalena (giudice emerito della Corte costituzionale), per la violazione di nove articoli della Costituzione, ma anche del principio di «equa ripartizione dei beni fra tutti i cittadini, ispirato ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico».
Su questo banco di prova il governo Monti si è mostrato finora inadeguato alla sfida. A una stanca retorica dello sviluppo (che secondo Passera coincide con grandi opere, piattaforme petrolifere a un passo dalla costa e massicce cementificazioni) non ha saputo sostituire un progetto di crescita produttiva del Paese. Ha lanciato un’ottima legge sui suoli agricoli (proposta dal ministro Catania), ma senza darle l’assoluta priorità che sarebbe necessaria, accelerando intanto i tempi di approvazione della pessima norma sugli stadi, col suo enorme spreco di suoli e di risorse pubbliche per basse operazioni immobiliari (la Repubblica, 17 maggio). Intanto il ministro dell’Ambiente Clini sponsorizza l’orrido grattacielo di Pierre Cardin che sfregerà per sempre Venezia, e il ministro dei Beni culturali Ornaghi coltiva un attonito silenzio. Di fronte all’incerto futuro del Paese, non è accettabile che di ambiente si parli solo per promuoverne le devastazioni, di patrimonio solo per svenderlo. Se i suoi ministri non sanno elaborare un’idea degna del Paese e della sua Costituzione, possiamo aspettarci che il presidente Monti si impegni in prima persona, ci dica quale è la sua?

Repubblica 18.9.12
Psicologi e filosofi, i “tecnici” di Ornaghi
Le nomine per il Consiglio Superiore per i Beni culturali e paesaggistici
di Francesco Erbani


Un filosofo del diritto. Uno psicologo. Uno storico. Una politologa. Infine, uno storico dell’arte. Sono i nuovi componenti del Consiglio superiore per i Beni culturali e paesaggistici. Li ha nominati il ministro Lorenzo Ornaghi. Saranno loro, in quanto membri del massimo organo di consulenza tecnico-scientifica del ministero, a fornire pareri sulla tutela del patrimonio, sulla sua valorizzazione, sui piani paesaggistici. E su tante altre materie che riguardano musei, siti archeologici, centri storici... Nessuno di loro, salvo Antonio Paolucci, ex soprintendente, membro del Consiglio in passato e ora direttore dei Musei Vaticani, museo di un paese che non è l’Italia, ha competenza specifica e profonda sulla materia. Un organo tecnico, dunque, formato da tecnici di altre discipline.
Il presidente, il cui nome era già noto, è Francesco De Sanctis, filosofo del diritto e rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa. Lo psicologo è Albino Claudio Bosio, professore di Psicologia del marketing e anche preside della Facoltà di Psicologia della Cattolica di Milano (di cui Ornaghi è stato rettore: sono solo di questi giorni le sue dimissioni). Lo storico è un altro rettore, però della Statale di Milano, Enrico Decleva, mentre la politologa è Gloria Pirzio Ammassari, che alla Sapienza di Roma insegna Fenomeni politici. A loro si affiancano altri tre membri. Ma questi nomi sono usciti dal cilindro delle Regioni, dei Comuni e delle Province. E le cose cambiano. Sono un archeologo di grande esperienza, come Giuliano Volpe, uno storico dell’architettura (Luca Molinari) e una storica dell’arte (Francesca Cappelletti). Ornaghi ha invece preferito pescare in tutt’altri settori disciplinari. Accademici illustri, studiosi che vantano ampie bibliografie, ma, tranne Paolucci, nessuno di loro può esibire altrettanta competenza in materia di tutela del patrimonio.Al ministero spiegano che Ornaghi ha voluto rinnovare e aprire ad altri ambiti della cultura. E che contava sulla competenza dei presidenti dei comitati di settore (uno per l’architettura, uno per l’archeologia, la storia dell’arte, ecc.), membri del Consiglio e da lui già nominati (sulla base, però, di designazioni fatte da altri). Ma i comitati sono stati tagliati dalla spending review, per cui Ornaghi si è trovato spiazzato ed ha sollevato la questione in Consiglio dei ministri. Ma finora senza conseguenze.
Il Consiglio è stato sempre formato da storici dell’arte, architetti, archeologi, economisti della cultura. Quello scaduto alcuni mesi fa era presieduto dall’archeologo Andrea Carandini e, prima di lui, dallo storico dell’arte e dell’archeologia Salvatore Settis. Fra i presidenti del passato spicca il critico Federico Zeri. Nel 2007 l’allora ministro Rutelli nominò, insieme a Settis, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Paolucci e Andreina Ricci. E persino Sandro Bondi, quando Settis si dimise, denunciando tagli massacranti, e con lui se ne andarono De Seta, Emiliani e Ricci, incaricò due archeologi (una dei quali Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato Niccolò) e uno storico dell’architettura. Non così, invece, il tecnico Ornaghi.

Repubblica 18.9.12
Viaggio nel campo profughi libanese dove miliziani falangisti protetti dagli israeliani uccisero migliaia di persone Tutto è cambiato, resta la disperazione: droga, violenza e disoccupazione condannano gli abitanti a vite senza futuro
Tra i fantasmi di Chatila, 30 anni dopo “Ostaggi della memoria e della malavita”
di Alberto Stabile


CHATILA (Beirut) Il ricordo del massacro soffoca lentamente sotto la polvere del tempo. D’altronde, come si fa a vivere di memorie se ogni giorno devi combattere contro mille insidie per poter tirare avanti? Nulla a Sabra e Chatila è più come era, non le persone che vi abitano, né i luoghi. In trent’anni, il campoprofughi simbolo della sofferenza dei palestinesi s’è trasformato in un inferno di reietti: libanesi indigenti, immigrati clandestini venuti dall’Asia e dall’Africa, trafficanti di poco conto, estremisti religiosi in cerca di proseliti e, da ultimo, palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana. I quali, tutti insieme, dice il direttore della Ngo palestinese “Social Care”, Kassem Aina, «assommano ormai ad oltre metà dei sedicimila abitanti del campo».
Avendo raddoppiato la sua popolazione, l’immagine di Chatila (appendice del quartiere di Sabra e da qui il nome di Sabra e Chatila) è cambiata. Non più case ad un piano, come quelle in cui 30 anni fa fecero irruzione i miliziani cristiani della Falange, sotto lo sguardo nella migliore delle ipotesi distaccato, se non accondiscendente, dei soldati israeliani, ma edifici, se così si può dire, di cinque, o sei piani, sorti abusivamente sopra le baracche fatiscenti di allora, per l’inevitabile spintaversol’alto,vistochenonci sono altri aree disponibili, prodotta dalla crescita demografica. Ma quest’esplosione è avvenuta nel caos, nell’anarchia e nell’indifferenza generale. Il risultato è un terrificante stato di abbandono. Andare in giro per le strade fangose e i vicoli asfissianti di Chatila è come camminare sotto una aggrovigliata ragnatela di cavi elettrici e di fili scoperti ad altezza d’uomo, che con le prime piogge si trasforma in una griglia mortale. Nelle case fatiscenti dove si ammassano sei o sette persone per ogni stanza, la luce viene data non più di tre o quattro ore al giorno. L’acqua non è potabile. Le fognature, perennemente intasate, diffondono ovunque un odore insopportabile. Gli effetti di questa situazione sull’igiene pubblica e sulla salute generale sono micidiali.
Pungolato dal senso di colpa collettivo provocato dal massacro dei palestinesi, nella stragrande maggioranza donne, bambini e anziani, l’Occidente, ha cercato timidamente di offrire assistenza e, laddove si richiedevano coraggiose soluzioni politiche, uno strato di malta è stato passato sulle ferite della guerra. Senza, tuttavia, riuscire a cambiare le condizioni di vita del campo, che sono andate costantemente peggiorando.
Se c’è un luogo che riassume questa involuzione è il cosiddetto “Gaza Hospital”, un tempo gioiello del sistema assistenziale dell’Olp (scuole, centri sociali, ospedali: uno “stato nello stato” si diceva a quei tempi) che, degradato adesso a semplice “Gaza building”, sorge ancora all’ingresso di Chatila con i fori dei proiettili che ne sfregiano la facciata. Solo che non è più l’ospedale di cui andava fiero Arafat, con la sua sala operatoria finanziata dai paesi europei e le corsie dove potevano trovare posto decine di ricoverati, ma un edificio fatiscente che ospita centinaia di stranieri e dove un letto per dormire costa soltanto tre dollari a notte.
Di tutti i paesi del Medio Oriente che ospitano la diaspora palestinese, il Libano è sicuramente il più avaro verso i rifugiati, ai quali, lamenta Kassem Aina, vengono negati i più elementari diritti umani, a cominciare dal diritto al lavoro. «In teoria — racconta Kassem, un volontario orgogliosamente legato alla sua missione — i palestinesi in Libano possono possedere un taxi ma non possono guidarlo, perché non hanno diritto alla licenza. Per non dire dell’accesso negato alle professioni, alla scuola, alle attività commerciali».
«Cosa ci si può aspettare da giovani a cui viene negata la speranza? », risponde Kassem Aina quando gli chiediamo conferma di notizie allarmanti sulla droga che gira nei campi profughi. «La droga c’è dappertutto in Libano — concede — . C’è anche a Dayeh (la roccaforte degli Hezbollah, n. d. r.), come ha denunciato Nasrallah. Noi non abbiamo ospedali e servizi sociali. Solo la Croce rossa e qualche Ong. L’unica cosa che possiamo fare è puntare sull’istruzione, e ci stiamo riuscendo».
«Subinah... Subinah». «Che ne è stato di noi? Cosa ci è successo? », canta in mezzo ad un gruppo di volontarie di “Social Care”, la piccola Yusra, nata nel campo siriano di Yarmuk e arrivata a Chatila due settimane fa, mentre sulla sua casa cadevano le prime bombe dell’esercito di Damasco. La canzone, resa famosa da Fairuz, la diva per eccellenza del bel canto libanese, è dedicata ai profughi dalla Palestina («per carità, riportateci nella nostra terra ») ma qui, attraverso la voce scintillante di questa ragazza di 13 anni, che non ne dimostra più di 8, o 9, diventa l’amara testimonianza di una storia infinita. La quale, nel caso dei palestinesi di Siria, ha preso un altro giro imprevisto: la fuga nella fuga.
Arrivata assieme al padre, la madre e due fratelli, la famiglia s’è subito smembrata. Il padre, tassista, è tornato a Damasco. Yusra ha trovato ospitalità da una zia. La madre e gli altri due figli, si sono sistemati da altri parenti. Ma lei non pensa con nostalgia a Yarmuk. Un campo vale l’altro. Il suo sogno è andare in Palestina, a Jaffa, da cui nel ‘48 erano fuggiti i nonni. Lì è la «vera casa», come ha sempre sentito ripetere in famiglia.
Perché questo è ciò che resiste al degrado di Chatila e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, questo desiderio di giustizia, questa nostalgia della terra tramandata da padre in figlio. Nuove rivelazioni si aggiungono alla storia risaputa del massacro. Un ricercatore americano della Columbia University, Seth Amsiska, scavando negli archivi israeliani, finalmente declassificati, ha scoperto che l’inviato del presidente Ronald Reagan per il Medio Oriente, Morris Draper, avrebbe potuto costringere Ariel Sharon, spietato architetto dell’invasione israeliana del Libano, a fermare i falangisti in procinto di entrare nel campo profughi, sotto il controllo dell’esercito dello Stato ebraico, per compiere la strage. Ma Draper e l’Amministrazione hanno ceduto ai falsi argomenti e alla tattica dilatoria di Sharon, consentendo, di fatto, alle milizie libanesi di compiere il massacro.
Interessante, certo, e forse istruttivo per gli Stati Uniti. Ma queste rivelazioni non cambiano la percezione dei palestinesi di quelle terribili giornate tra il 15 e il 17 settembre del 1982 in cui centinaia, forse migliaia di civili (le stime variano da 800 a 3500 morti) vennero massacrati dai falangisti libanesi. Il ricordo di quei giorni resta indelebile nella memoria di Jamila Khalifa, che adesso ha 50 anni ed allora, sentiti i primi spari, chiese al padre, Mohammed, di portare fuori tutta la famiglia.
«Mio padre aveva paura di lasciare la casa. Ci diceva che era meglio restare nel rifugio e aspettare. Appena fuori, un falangista vestito da cowboy puntò il mitra sullo stomaco di mia madre. Un soldato israeliano intervenne. Mia madre capiva l’ebraico. Il soldato disse che donne e bambini non dovevano essere toccati. Ci lasciarono andare, ma trattennero mio padre. Lo trovammo così due giorni dopo» e mostra la copia sbiadita di una pagina di giornale dove campeggia la foto di un corpo cadavere rannicchiato per terra, contro un muro. Uno dei tanti.

l’Unità 18.9.12
Occupy un anno dopo. Arresti a New York
Il sindaco Bloomberg vieta gli accampamenti, la polizia impedisce il blocco di Wall Street
Nel 2011 il movimento lanciò su scala planetaria lo slogan contro le élite finanziarie: «Siamo il 99%»
di Marina Mastroluca


Un anno fa trasformarono Zuccotti Park in un laboratorio politico all’aperto, per quanto confuso. Tende piantate nelle aiuole quasi un’edizione Usa delle Primavere che ancora sembravano piene di sole sacchi a pelo e una rabbia pacifica, con le mani alzate e la capacità di accaparrarsi almeno per un po’ l’attenzione dei media ufficiali. Occupy Wall Street compie un anno e lo festeggia cercando di circondare simbolicamente Wall Street, il cuore dell’economia finanziaria che ha innescato la crisi economica planetaria senza pagare pegno: la rappresentazione fisica dell’1 per cento che resta sempre a galla, che drena le risorse di Paesi interi e lascia agli altri le briciole, se restano.
NO CAMPING
Il sindaco di New York Michael Bloomberg ha vietato l’accesso e il pernottamento nel vicino Zuccotti Park: le aiuole sono piene di fiori, non ci sarà una riedizione dell’accampamento che per un paio di mesi lo scorso anno riuscì a tenere accesi i riflettori su di sé. La polizia ha disperso energicamente ogni tentativo dei manifestanti di avvicinarsi a Wall Street. Griglie metalliche e decine di arresti, una settantina, la mano ruvida degli agenti resa più semplice dal numero dei partecipanti, meno numerosi che in passato, appena un migliaio. Ma ugualmente determinati nel puntare il dito su un sistema economico che nel suo generare disuguaglianze a loro sembra arrivato ad un punto di rottura.
Occupy per certi versi è l’altra faccia della classe media americana che arranca e che per la prima volta ha paura di non farcela, neanche stringendo i denti. «Siamo il 99%». Lo slogan che ha fatto il giro del mondo è ancora quello. Ma ce ne sono anche altri su e giù per Manhattan, a piccoli gruppi radunati davanti alle insegne delle banche: «Se vedete che il capitalismo uccide, ditelo», «le banche sono state salvate, noi siamo stati venduti».
Una trentina le manifestazioni previste ieri negli Usa, ma è New York che resta sotto ai riflettori. Anche per chiedersi che cosa è rimasto di quel movimento che trovava insieme i funzionari della Lehman messi alla porta dall’oggi al domani con i loro bravi scatoloni di effetti personali, gli studenti universitari con i loro debiti sempre più difficili da pagare, disoccupati, liberal e veterani delle tante guerre sotto la bandiera a stelle e strisce.
«Il nostro messaggio è che i banchieri di Wall Street non possono andare a lavoro tutti i giorni senza pensare cosa le loro istituzioni stanno facendo al Paese», ha detto il portavoce del movimento, Mark Bray. Un portavoce, perché non ci sono leader in questo movimento che è rimasto orizzontale, tenendo i contatti sul web. E che questo gli rimproverano gli osservatori esterni non ha saputo formulare richieste specifiche. Occupy Wall Street respinge però le critiche. «Abbiamo trascorso lo scorso anno a pensare ai problemi, ora ne parliamo e iniziamo anche a realizzare delle soluzioni».
Che cosa rimane un anno dopo? Pochi manifestanti davanti a Wall Street, l’incapacità di trovarsi un leader? Dopo un’estate americana quella del 2011 segnata da un feroce dibattito sul tetto del deficit, sul declassamento delle agenzie di rating, su tagli e spesa pubblica, in un feroce braccio di ferro tra il presidente Obama e il repubblicani del Congresso il movimento di Zuccotti park, per quanto variegato e contraddittorio, riuscì a riportare in primo piano parole completamente uscite di scena: uguaglianza, opportunità, l’esatto contrario della forbice sociale che si allarga tra quel 99% contrapposto all’elite dell’1, che detta le regole del gioco. Occupy ha dato voce ad un sentimento diffuso di ingiustizia, per quei salvagente pubblici lanciati all’alta finanza, senza chiedere conto dell’insensata irresponsabilità che ha portato alla truffa piramidale dei mutui subprime. Alcuni temi sollevati a Zuccotti Park riverberano oggi nella campagna di Obama la necessità che lo Stato intervenga per bilanciare le diseguaglianze, lo slogan sulle opportunità per tutti. Accenni che probabilmente non porteranno un voto al candidato democratico. Ma più che nella campagna presidenziale, il movimento sembra aver lasciato tutta la sua eredità nel suo slogan identitario. «Siamo il 99%». Come dire che dietro ai mercati e all’economia, quello che affiora è soprattutto un problema di democrazia.

l’Unità 18.9.12
La blogger Tigella: «Più arrabbiati che un anno fa»
Claudia Vago da un anno racconta su Twitter il movimento di Zuccotti Park
E alla fine è andata negli Usa con l’aiuto finanziario dei suoi lettori
di Maddalena Loy


Sinceramente sono stupita che durante il primo compleanno di Occupy Wall Street stiano arrestando così tanta gente». L’inviata speciale che sta raccontando in queste ore, in diretta, l’anniversario del movimento degli indignati di Wall Street non è la corrispondente di una grande testata nazionale, ma un’impiegata della Regione Emilia Romagna che vive in un paese di duecento anime, Busana.
Si chiama Claudia Vago, nota su Twitter come «Tigella», è appassionata di web, e da un anno nel tempo libero («Quando avrò finito, dormirò per qualche mese», scherza), racconta sul social network e sul suo sito le cosiddette «rivoluzioni dal basso», con particolare attenzione al movimento Occupy Wall Street.
A colpi di post e di tweet, ha conquistato la fiducia delle persone che la seguono. E le ha convinte a finanziare attraverso una sottoscrizione online di 10 euro a quota il progetto «Manda Tigella a occupare Chicago». In pochi giorni ha ottenuto la somma necessaria per il viaggio e il soggiorno in America e ha lanciato in rete i suoi reportage in diretta. «Quello che mi piace ci aveva detto prima di partire è poter raccontare le cose come stanno, o per lo meno come io le vedo. Non andrò a Chicago per fare l’esaltazione del movimento Occupy ma per guardarlo criticamente».
Oggi, a distanza di cinque mesi, valuta il suo esperimento «perfettibile nel metodo, nelle tecnologie di supporto e nelle modalità di finanziamento». Ma è tornata in piazza, e oggi ci parla da New York dove, racconta, «c’è energia, un sacco di energia. Sono arrabbiati quanto un anno fa, se non di più».
Occupy Wall Street e Tigella, in fin dei conti, sono speculari. Entrambi hanno dimostrato che i social media sono strumenti per la raccolta e la costruzione di racconto. «Occupy è un esempio eclatante in questo senso – spiega Claudia perché nasce come “hashtag”, nasce per essere raccontato in rete, e infatti non c'è nulla che sia successo a Occupy che non abbia lasciato tracce in rete. È un caso assolutamente esemplare, ecco perché, in occasione dell’anniversario, ho pensato di farci un sito».
Non solo: loro hanno sfatato la favoletta di quelli che «non hanno voce». E lei è riuscita a dimostrare che il giornalismo partecipativo attraverso la rete esiste, e non è pura retorica.
Che il movimento sia nato disorganizzato, infatti, è vero fino a un certo punto: «I manifestanti di Ows racconta sono partiti da subito come macchine da guerra in fatto di comunicazione. E oggi su Twitter hanno un account con 160mila “follower” e una squadra di “livestreamer” che mette insieme più spettatori di molti canali tv. Diciamo che è un modo diverso di raccontare storie». Claudia sta raccontando la loro. «I media tradizionali continua non hanno capito quasi nulla di Occupy, o se l’hanno capito si sono guardati bene dal raccontarlo». Hanno stereotipato anche Occupy? «Sì, i luoghi comuni fanno sempre comodo. E ti dico che i media continuano a venire alle riunioni a chiedere come si posiziona il movimento rispetto alle elezioni (ndr: uno di loro, George Martinez, è stato il primo “occupier” a candidarsi: ha corso per le primarie democratiche per il Congresso). Che vuol dire non aver capito per cosa stanno “lottando” questi».
Qual è dunque, a distanza di un anno, la motivazione più importante del movimento Occupy? «Sono stufi di questo sistema economico/sociale/culturale che premia pochi a scapito di quasi tutti».
Come mai non hanno ancora un leader? «Ecco, questo è vero. Ci sono diverse persone in gamba che mi ha fatto piacere conoscere e con cui mi fa piacere mantenere i contatti. Sono tutti su Twitter e ho notato che ci sono moltissime donne nel movimento». E ora cosa faranno? «Continueranno a battere dove il dente duole, finché il cambiamento non diventerà inevitabile». Ci riusciranno? «Non lo so. Ma che questo sistema economico sia al collasso non lo penso soltanto io. E nemmeno soltanto loro».
(ha collaborato Roberto Arduini)

Corriere 18.9.12
Venti di guerra ad uso interno
di Sergio Romano


Le isole che hanno il nome di Dyaou a Pechino e quello di Senkaku a Tokyo formano un piccolo e inospitale arcipelago roccioso. Ma le loro acque contengono grandi risorse petrolifere e sono quindi un boccone attraente per ciascuno dei grandi Paesi, la Cina e il Giappone, che ne rivendicano il possesso. Accanto al petrolio vi è poi, in entrambi i campi, l'orgoglio nazionale, vale a dire la scintilla che può sempre, soprattutto fra popoli che si sono duramente combattuti sino alla prima metà del Novecento, dare fuoco alle polveri. Ma è difficile immaginare che le piazze cinesi, in questi giorni piene di folle tumultuanti contro il Giappone e le sue aziende, assomiglino alle piazze arabe dove le proteste furono certamente spontanee e colsero il governo di sorpresa.
Non è necessario essere un dietrologo per sospettare l'esistenza di un nesso tra queste manifestazioni e la situazione politica della Repubblica popolare. La trasmissione del potere a una nuova classe dirigente, prevista per la fine dell'anno, è stata turbata da scandali di cui non abbiamo ancora compreso la reale portata. Sul caso di Bo Xilai, ricco e ambizioso governatore maoista del Chongqing, e su quello di sua moglie, processata nelle scorse settimane per l'assassinio di un uomo d'affari inglese, conosciamo poco più delle scarse notizie che le autorità cinesi hanno lasciato trapelare. Ma le vicende degli scorsi mesi e la reticenza del regime sembrano dimostrare che il malessere è grave, investe il vertice del partito e ha provocato rotture non ancora riparate. Il contenzioso con il Giappone è reale, ma non è possibile escludere che le manifestazioni contro Tokyo servano a distrarre l'attenzione dei cinesi dalla crisi del partito e a unirli patriotticamente contro il vecchio nemico. Come abbiamo constatato quando un missile americano, l'8 maggio 1999, colpì l'ambasciata cinese a Belgrado durante la guerra del Kosovo, il nazionalismo è un interruttore che il partito comunista cinese può accendere e spegnere a piacimento.
Ma vi sono circostanze che rendono la situazione inquietante. La Cina e il Giappone attraversano momenti difficili. La crescita dell'economia cinese è stata bruscamente rallentata dalla crisi dei maggiori mercati mondiali. Quella dell'economia giapponese è da due decenni vicina allo zero. La Cina ha nelle sue casseforti 900 miliardi di dollari americani e dipende dallo stato di salute del suo debitore. Il Giappone ha un debito pubblico pari al 200% del prodotto interno lordo. La Cina è malata di corruzione. Il Giappone, dopo lo tsunami, ha bisogno di energia nucleare, ma l'opinione pubblica ha costretto il governo ad annunciare, sia pure con qualche riserva, la chiusura delle centrali entro trent'anni. Quanto più i litiganti sono deboli e nervosi, tanto più le liti diventano pericolose. In altri tempi questa sarebbe stata una faccenda asiatica di cui avremmo potuto occuparci con un certo distacco. Oggi, in un mondo globalizzato e interdipendente, una guerra tra Cina e Giappone avrebbe ripercussioni negative sulla crisi dell'euro, sull'economia europea e quella americana, sulla stabilità dell'India e sul ruolo asiatico della Russia. Ci restano le grandi istituzioni internazionali create negli ultimi decenni: l'Onu, le maggiori organizzazioni asiatiche e quella del commercio mondiale (Wto) di cui Obama ha suggerito l'intervento nelle scorse ore. Sappiamo per esperienza che non fanno miracoli. Ma possono servire a imporre quella pausa di riflessione di cui Cina e Giappone, in questo momento, hanno urgente bisogno.

Repubblica 18.9.12
Geometrie fatte a maglia
Le teorie di Thurston, matematico appena scomparso, hanno cambiato la disciplina studiando nuove forme
Cuffie e coralli, la nostra Odissea negli spazi
di Piergiorgio Odifreddi


Uno dei più grandi matematici del Novecento, William Thurston, è morto il 21 agosto a sessantacinque anni e verrà ricordato in questi giorni dalla sua università. Quella di Cornell dove, il semestre scorso l’avevo visto due o tre volte, aggirarsi sofferente. Ben altra immagine da quella dell’uomo sorridente ed elegante, che solo due anni fa, nel 2010 a Parigi, era stato il testimonial d’eccezione a una sfilata di alta moda. Lo stilista Issey Miyake aveva infatti tratto ispirazione dalla geometria di Thurston per i propri tessuti, e quella sera il matematico era salito in passerella insieme a modelli e modelle, indossando una sfarzosa giacca.
Come si può intuire, Thurston non disdegnava la divulgazione, e da vent’anni a questa parte ne aveva fatto uno degli obiettivi della sua molteplice attività. Naturalmente, però, il suo vero lascito è una prodigiosa produzione matematica, frutto di una formidabile intuizione geometrica che gli permetteva di vedere con gli occhi della mente ciò che non si può vedere con quelli del corpo. Ad esempio, fin da studente all’università aveva riscoperto da solo, negli anni ’60, un modello della geometria iperbolica ottenuto incollando insieme striscioline di carta, tutte incurvate allo stesso modo. Un modello scoperto in realtà nel 1869 da Eugenio Beltrami, e paragonato da un giornale dell’epoca alla “cuffia di una nonna”, ma mai pubblicato e poi completamente dimenticato.
Thurston mostrò in seguito il proprio modello a una collega di Cornell, Daina Taimina, che trovò più congeniale farlo a maglia. Questo metodo è poi dilagato, e si è sviluppato in una vera e propria arte artigianale. La Taimina ha pubblicato nel 2009 un intero libro sulle sue Avventure a maglia coi piani iperbolici.
E l’Institute for Figuring di Los Angeles ha lanciato da vari anni un progetto a cavallo tra l’arte, la biologia marina e la matematica, per realizzare a maglia una variegata e variopinta “Barriera Corallina iperbolica”: come suggeriscono questi modelli, infatti, molti organismi marini possiedono una struttura iperbolica.
Due anni fa, dopo aver visto per caso le foto del modello di Beltrami custodito presso l’università di Pavia, le inviai a Thurston, che ancora non stava male. E lui rimase piacevolmente sorpreso di trovare un collegamento ideale, a distanza di un secolo esatto, fra le sue idee giovanili e il lavoro di uno dei padri della geometria iperbolica. Le sue idee mature, invece, raccolte nel 1997 nel libro Geometria tridimensionale e topologia, più che guardare al passato hanno aperto le vie del futuro, e gli sono valse nel 1983 la medaglia Fields.
La prima volta che egli stupì il mondo fu negli anni ’70, quando trovò un insospettato legame fra la teoria dei nodi e la geometria iperbolica. In particolare, se si uniscono i due cappi di una corda disposta a otto, dopo averli fatti passare nell’anello, si ottiene un cosiddetto “nodo a otto”, appunto. E Thurston scoprì che se si realizza il nodo con un tubo, e se ne prende il calco, si ottiene un volume che si può decomporre in due tetraedri iperbolici con i vertici all’infinito, gli angoli fra le facce di 60 gradi, e le facce incollate a coppie. Quello fu il primo esempio dei cosiddetti “nodi iperbolici”, che oggi costituiscono una delle tre classi fondamentali di nodi. Un altro esempio fornito da Thurston è invece il calco dei tre “anelli Borrobolici, mei”, che appaiono nello stemma dell’omonima famiglia. In questo caso, il volume che si ottiene si può decomporre in due ottaedri iper- coi vertici all’infinito, gli angoli fra le facce a 90 gradi, e le facce incollate a coppie. Come si vede, la geometria iperbolica è ormai diventata uno strumento usuale della matematica moderna. Ma non solo! Ad esempio, nel film Avatardi James Cameron, i cui effetti speciali sono valsi nel 2010 l’Oscar allo scenografo Joe Letteri, si vedono in un campo degli strani fiori chiamati “helicoradian”. La loro forma elicoidale si ottiene facendo ruotare attorno a un asse una curva in movimento, chiamata “trattrice”. E il risultato è appunto una superficie iperbolica, scoperta da Ulisse Dini nel 1865.
Già nell’Ottocento si era capito che la geometria iperbolica riveste un ruolo fondamentale, nello studio delle superfici dello spazio a tre dimensioni. Ad esempio, qualunque superficie chiusa e orientabile (su cui non si possa, cioè, invertire la mano destra nella sinistra) si può distorcere, senza strapparla, in modo da farla diventare una sfera, oppure una ciambella avente un numero finito di buchi. Ora, a parte la sfera e la ciambella a un solo buco, che hanno rispettivamente una geometria sferica e una geometria euclidea, tutte le altre ciambelle hanno una geometria iperbolica. E una cosa analoga succede per le superfici non orientabili.
Cosa potesse succedere, invece, per i volumi dello spazio a tre dimensioni, o per le superfici dello spazio a quattro dimensioni, fino al lavoro di Thurston non lo sapeva e non lo immaginava nessuno. Fu lui a scoprire che in questo caso le cose si complicano terribilmente, in due modi diversi. Anzitutto, di geometrie possibili ce ne sono non soltanto tre, bensì addirittura otto. Inoltre, non si può direttamente assegnare a ciascuna superficie una di queste geometrie: bisogna prima tagliare la superficie in pezzi, in un certo modo, e poi assegnare a ciascuno di questi pezzi una delle otto geometrie.
Thurston intuì come bisognava procedere, e fece molti passi nella dimostrazione di quella che divenne appunto nota come “congettura di Thurston”: cioè, la classificazione completa delle superfici dello spazio a quattro dimensioni, analoga a quella ottocentesca dello spazio a tre. In particolare, nel 1982 dimostrò un “teorema di iperbolizzazione”, tanto complicato da essere chiamato “mostruoso”, che mostrava come la geometria iperbolica mantenesse un suo ruolo centrale anche in questo caso.
La dimostrazione completa della congettura di Thurston fu data nel 2003 da Grigory Perelman, che vinse nel 2006 la medaglia Fields per questo, e nel 2010 un milione di dollari per aver risolto en passant uno dei sette “problemi del millennio”. Oggi Perelman è più famoso di Thurston, perché ha rifiutato sia la medaglia che i dollari, oltre alla cattedra universitaria. I media hanno dunque visto in lui un esempio archetipico di “genio e sregolatezza”, e presto il citato Cameron porterà la sua storia sugli schermi. Per raccontare la storia intellettuale di Thurston ci vorrebbero invece le profondità di un Musil: il quale, non a caso, scelse un matematico come protagonista del suo Uomo senza qualità. Non sono infatti gli insignificanti eventi della sua vita, a costituire la memoria storica di Thurston, ma i suoi significativi pensieri. A chi si domandasse a cosa possano servire, quei pensieri, si potrebbero dare risposte utilitaristiche, ma è meglio e più corretto limitarsi a dire che servono semplicemente, come la Gioconda e le Variazioni Goldberg, a rendere onore allo spirito umano.

Repubblica 18.9.12
Perché la multa è una cosa in sè
Il dibattito sul nuovo realismo: risposta a Severino
di Maurizio Ferraris


Il dibattito sul Nuovo Realismo è iniziato dal Manifesto di Ferraris uscito su Repubblica l’8/8/2011 e ora saggio per Laterza

Emanuele Severino, domenica scorsa, su La lettura del Corriere della Sera, rimprovera al nuovo realismo di non tener conto della “svolta trascendentale” del pensiero, avviata da Kant e realizzata da Gentile. Per questa svolta, il pensiero è il primo e immediato oggetto della nostra esperienza, e noi non abbiamo contatto con nessun mondo “là fuori”, se non appunto tramite la mediazione del pensiero e delle sue categorie. In altri termini, e richiamandoci alle cose – il tema del festival di filosofia appena conclusosi a Modena – noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi.
In effetti, i realisti sono ben consapevoli della rilevanza storica di questa svolta, ma non ne sono convinti per motivi teorici. Questi: la svolta trascendentale ci pone in una perenne contraddizione, e fa sì che, nei nostri rapporti con il mondo, siamo afflitti da uno strabismo divergente. Da una parte, nella vita di tutti i giorni, siamo dei realisti ingenui, convinti che le cose siano quello che appaiono. Dall’altra, siamo degli idealisti costretti a pensare che nulla esorbita dal nostro pensiero e che non abbiamo a che fare con cose, ma con dati di senso, fenomeni, apparenze. La versione moderna dell’idealismo gentiliano, e cioè il postmodernismo, dice invece che tutto è socialmente costruito (di passaggio, Severino ha perfettamente ragione nel notare che i postmodernisti non hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Gentile). La domanda che si pone il realismo, allora, è semplicemente: è davvero così, o non è una superstizione filosofica, una abitudine inveterata e niente più?
Prendiamo gli oggetti naturali. Per Kant (e a maggior ragione per Gentile, che lo estremizza) sono dei fenomeni per eccellenza: sono situati nello spazio e nel tempo, che però non sono cose che si diano in natura. Stanno nella nostra testa, insieme alle categorie con cui diamo ordine al mondo, al punto che se non ci fossero uomini potrebbe non esserci né lo spazio né il tempo. Se ne dovrebbe concludere che prima degli uomini non c’erano oggetti, almeno per come li conosciamo, ma chiaramente non è così. I fossili ci tramandano esseri che sono esistiti prima di qualunque essere umano, prima di Gentile, prima di Berkeley, prima di Cartesio e prima di qualunque “io penso” in generale. Come la mettiamo? E come spieghiamo il fenomeno, comunissimo, del giocare con il nostro gatto? Visto che lui ha schemi concettuali e apparati percettivi diversi dai nostri, dovrebbe vivere in un altro mondo, altro che giocare con noi (inoltre, se davvero Gentile avesse ragione, ogni gioco, non solo con il gatto ma anche con un amico, sarebbe virtualmente un solitario). Ma a ben vedere anche gli oggetti sociali, che dipendono dai soggetti (pur non essendo soggettivi) sono cose in sé e non fenomeni. Questo sulle prime può apparire complicato perché se gli oggetti sociali dipendono da schemi concettuali, allora sembra ovvio che siano dei fenomeni. Ma non è così. Per essere un fenomeno non basta dipendere da schemi concettuali. Per essere un fenomeno bisogna anche contrapporsi a delle cose in sé. Prendiamo una multa. Quale sarebbe il suo in sé? Dire che una multa è una multa apparente significa semplicemente dire che non è una multa. Una multa vera e propria è una cosa in sé, così come è una cosa in sé e non semplicemente un riflesso del nostro pensiero la crisi economica che ci provoca tante preoccupazioni. Soprattutto, sono cose in sé le persone, che nella prospettiva di Gentile si trasformerebbero in fantasmi, in umbratili proiezioni del pensiero.
E adesso veniamo agli eventi, cose come gli uragani o gli incidenti d’auto. Che spesso sono imprevedibili. L’irregolarità, ciò che disattende i nostri dati e attese, è la più chiara dimostrazione del fatto che il mondo è molto più esteso e imprevedibile del nostro pensiero. Come nel caso della sorpresa, che – se non si è pessimisti, e soprattutto se si è fortunati – può anche essere bellissima. Per esempio, non prevedevo che un grande filosofo (che considero non un fenomeno, ma una cosa in sé: una persona con caratteristiche insostituibili e indipendenti dal mio pensiero) come Severino decidesse di intervenire sul realismo con tanta ampiezza e profondità. Lo ringrazio di nuovo, e spero che trovi questa risposta soddisfacente, o almeno tale da aprire un dialogo.

Repubblica 18.9.12
Il senso del lavoro
Così il capitalismo può riscoprire la virtù
di Will Hutton


Leader e intellettuali di ogni orientamento politico oggi discutono della possibilità di un nuovo approccio all’organizzazione e alla gestione del sistema economico. Per rispondere a questa esigenza, gli imprenditori dovrebbero almeno riconoscere di essere parte integrante delle società in cui operano. Il capitalismo affonda le sue radici in due tradizioni: il protestantesimo individualistico della Riforma e l’affermazione della “sfera pubblica” di origine illuministica. Negli ultimi trent’anni anni si è assistito a un sistematico tentativo, per iniziativa del neoconservatorismo americano, di negare il ruolo dell’Illuminismo per concentrarsi esclusivamente sull’individualismo. L’assunzione del rischio individuale è stata posta al centro (o presunto tale) del modello economico occidentale, e il profitto a breve termine è diventato l’unico metro di misura del successo. Il concetto di “uomo economico razionale” si è sviluppato a partire da questo approccio intellettuale quasi-ideologico, assurgendo a dogma del sistema imprenditoriale occidentale. Di conseguenza, la maggior parte delle organizzazioni considera una priorità la creazione di condizioni che favoriscano l’autonomia manageriale, la massimizzazione del valore per gli azionisti e la mercificazione del lavoro, anziché il riconoscimento dell’interdipendenza tra impresa e società, o del ruolo delle finalità e del valore sociale all’interno dell’impresa stessa.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che alle prime organizzazioni imprenditoriali di rilievo – la Compagnia olandese delle Indie orientali, per esempio – fu concesso il privilegio della costituzione in società commerciali in cambio della garanzia di concreti benefici pubblici. Esse furono costituite, cioè, per una finalità da cui erano intente a ricavare profitti. Per la Compagnia olandese delle Indie orientali, l’obiettivo era quello di regolamentare il mercato esistente al fine di massimizzare i ricavi per le Repubbliche olandesi, impegnate a combattere i loro rivali e a impedire ad altre nazioni europee di penetrare nelle loro rotte commerciali. La Compagnia inglese delle Indie orientali fu costituita allo stesso modo. I profitti erano funzionali al raggiungimento di uno scopo. La tradizione delle corporazioni che esprimono uno scopo commerciale con un valore pubblico e sociale è stata sviluppata da quei filosofi illuministi secondo cui sono l’interconnessione sociale e i rapporti all’interno della comunità a dare senso alla nostra vita. Per Rousseau, ad esempio, quest’ultimo può essere raggiunto attraverso la vita di comunità e l’interazione sociale, che consentono agli individui di maturare un sentimento di solidarietà in rapporti trasparenti con gli altri. Nel 1776 Adam Smith scrisse La ricchezza delle nazioni, seguita dalla Teoria dei sentimenti morali, e concepì le due opere come un tutt’uno. Il capitalismo non può essere disgiunto né dal senso né dai princìpi morali. Prima della secolarizzazione della società moderna, la religione assolveva al compito di dare un senso alla vita delle persone esprimendo valori e princìpi morali in grado di tenere unite le comunità. Più di un secolo fa il grande sociologo francese Emile Durkheim sostenne che, contestualmente al declino della religione, il suo ruolo tradizionale di fonte di significato sarebbe stato sostituito dalle organizzazioni capitalistiche. Oggi il lavoro e le organizzazioni contribuiscono in modo ancor più decisivo a definire il nostro status sociale e lo scopo della nostra esistenza come individui. Tuttavia, le teorie dominanti in materia di organizzazione aziendale non riconoscono questo vincolo, bensì pongono l’accento sulla razionalità dell’individualismo economico intesa come principio morale valido in sé, senza un contesto sociale di riferimento. E quando gli attori imprenditoriali e istituzionali negano la necessità di uno scopo di più ampio respiro, quel vuoto viene riempito dal mantra dell’efficienza, della flessibilità e della razionalità degli uomini e delle donne economici, il che alimenta un senso di alienazione, disadattamento e angoscia. A fronte di questo svuotamento morale, la corsa sfrenata al benessere materiale rimane l’unica fonte di senso: di qui la caccia a profitti sempre più esorbitanti. In seno alla cerchia dei super ricchi – dai Ceo alle star del football – nessuno ormai può spendere tutti i milioni che percepisce in busta paga; quel che la società non può concedersi, invece, è un segno di valore. Troppo spesso le organizzazioni moderne non riescono a mettere gli individui in condizione di dare un senso al proprio lavoro. Perché ciò sia possibile, le stesse organizzazioni devono esprimere valori e finalità in cui i lavoratori si identifichino, in un certo senso legittimando e affermando il loro legame con le comunità di appartenenza e con l’universo morale a cui fanno riferimento. Con la deificazione del profitto e del valore per gli azionisti quali obiettivi strategici d’impresa, tuttavia, la “creazione di senso” va perduta.
L’appello per un capitalismo responsabile lanciato lo scorso anno da Ed Miliband è imperniato sull’idea che le organizzazioni moderne debbano trovare un equilibrio tra l’imperativo del profitto e la responsabilità sociale. Miliband auspica un capitalismo più virtuoso, improntato all’impegno per un’impresa produttiva, non al business fine a se stesso. E traccia una netta distinzione tra il “produttore”, il “predatore” e l’“asset stripper” (chi acquisisce una società per poi frazionarla a fini speculativi, ndt). All’inizio il suo messaggio è stato oggetto di critiche e commenti scettici; nove mesi dopo, sono sempre più numerosi gli imprenditori e i politici che cercano a modo loro di dire le stesse cose.
All’atto pratico, tuttavia, non è così semplice tracciare una linea di demarcazione tra capitalismo buono e cattivo, poiché molte organizzazioni rivestono i loro gretti interessi commerciali con pretese finalità sociali di ampio respiro. Il caso Enron, per esempio, ha fatto balzare la questione dell’etica e della responsabilità sociale in cima alle priorità delle imprese. Prima dello scandalo, la responsabilità d’impresa era un principio “a combustione lenta”, propugnato da molti ma praticato da pochi. Oggi è al centro di preoccupati dibattiti nelle sale di consigli di amministrazione europei e statunitensi. La governance aziendale, il ruolo dei direttori non esecutivi, la correttezza delle convenzioni in materia di revisione contabile e il codice etico dei lavoratori sono oggetto di un’analisi più attenta che mai.
Si tratta di una sfida, ma anche di un’opportunità. Oggi le aziende hanno la possibilità senza precedenti di riconquistare il ruolo di fonte di motivazione e, in quanto tali, di diventare parte della soluzione anziché del problema. In virtù del sempre più evidente valore pratico dell’impresa responsabile, occorre apprendere nuove regole del gioco che consentano alle organizzazioni di operare in modo tale da promuovere l’equità, la coesione sociale e il benessere – e, non ultimo, la sostenibilità nel lungo periodo.

Corriere 18.9.12
Matteotti
Lo sguardo acuto di un socialista
di Marzio Breda


A Gaetano Salvemini pare solo «un'opera buffa» ispirata da «pezzenti intellettuali e morali», come giudica i primi parlamentari fascisti. Più o meno così la liquidano parecchi altri esponenti della sinistra, che parlano di «farsa», «teatrale raduno di scalmanati», «adunata di inutili idioti». Ma in quello stesso campo politico un uomo comprende subito con piena lucidità, anche se quasi in solitudine, il 28 ottobre 1922, che la marcia su Roma è l'atto di nascita di una dittatura destinata a umiliare ogni libertà. E che larghe fasce del potere e della società avrebbero avuto atteggiamenti indifferenti, se non di indulgente saldatura con il regime nascente, considerandolo una controrivoluzione preventiva, un provvidenziale strumento per «portare l'ordine», dato che temono più i rossi dei neri. Quell'uomo è Giacomo Matteotti, giovane ma già carismatico leader del Partito socialista unitario, il più implacabile avversario di Mussolini.
Mentre l'opposizione mostra segni di divisioni e sfaldamento, e mentre popolari, democratici e liberali sembrano pronti a concedere un'apertura di credito al Duce (secondo il pragmatico principio giolittiano di «parlamentarizzare» i movimenti rivoluzionari), Matteotti scrive a Filippo Turati: «Se il governo o il re avessero voluto resistere, sarebbe stato facilissimo. Si dice che il re dapprima avesse consentito allo stato d'assedio, e solo poi abbia pensato altrimenti. Si dice che i comandi d'esercito abbiano risposto che essi erano pronti a resistere solo se il governo voleva fare sul serio… ciò che naturalmente Facta non voleva». Racconta di «molti studi distrutti, una ventina di morti, indifferenza pubblica. Viltà generale alla Camera… e tutti pronti a entrare nel ministero… con lo strazio nel cuore». E sollecita la direzione del partito, di cui è appena stato eletto segretario, a schierarsi: «L'unica questione da dibattere è se l'atteggiamento nostro debba essere apertamente avverso o se bisognerà, per vivere, vellutare la nostra opposizione, considerare il fatto rivoluzionario esclusivamente dannoso alla democrazia e portarci sui problemi concreti».
Lui è, senza compromessi, per «la più ferma e dignitosa resistenza». Il 9 novembre 1922 denuncia in una lettera a Claudio Treves «tutto un movimento di circuizione, esercitato su molti dei nostri uomini, dagli emissari del dittatore». L'obiettivo dei fascisti è volto «a piegare, a consentire, a permettere il più comodo sviluppo della dittatura». E avverte che in molti casi, per riuscire nell'intento, non servono ormai più le manganellate. Bastano «la semplice minaccia del terrore, la corruzione degli elementi più resistenti, la prigionia morale di chiunque dei nostri sarebbe capace di agire». Almeno, incita con un desolato paradosso, «aspettiamo a venderci, quando ci pagheranno un prezzo conveniente, cioè una vera e non una falsa garanzia di libertà».
È quel che invece fa subito la parte più opaca del Paese, per vigliaccheria o per calcolo o per disprezzo verso le istituzioni. Attribuendo a Mussolini un consenso in crescita progressiva, incrinato soltanto per pochi mesi dopo l'assassinio di Matteotti (10 giugno 1924), compiuto da una banda di squadristi e di cui il Duce si dichiara responsabile morale. I prodromi della tragica avventura, insieme a nuovi elementi per un profilo intimo del martire, li troviamo nell'Epistolario 1904-1924 (Edizioni Plus, pp. 284, 30), decimo volume delle opere matteottiane curate dallo storico Stefano Caretti. Ricco di documenti inediti che gettano nuova luce su quei giorni difficili e sulle fratture interne al socialismo, il libro ha tra l'altro il merito di fare giustizia sul preteso massimalismo di Matteotti. Una questione sempre aperta, visto che ancora di recente lo si è dipinto con una doppia faccia: estremista nel suo Polesine e democratico in Parlamento (e il sottinteso è che in fondo è stato vittima di «un incerto del mestiere di demagogo», come disse in piena euforia mussoliniana il giurista Vincenzo Manzini). Per sincerarsi della verità, basta rileggere una sua lettera del 16 aprile 1924 alla direzione del Pci, che vuole organizzare una manifestazione unitaria. No, risponde Matteotti, «restiamo ognuno quel che siamo. Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c'è quindi nulla in comune tra noi e voi».

Corriere 18.9.12
La filosofia? Aiuta a decidere
Servono visioni generali su cui fondare le scelte
Dagli amori al lavoro, sino alle questioni bioetiche
di Daniela Monti


Molte persone vivono senza farsi troppe domande, ma è una strada sempre meno praticabile (a patto di non trascorrere l'esistenza con la testa dentro un sacco o autoreclusi in un reality). Ideologie, valori, riferimenti che fino alla metà del secolo scorso orientavano le nostre azioni all'interno di un assetto condiviso non ci vengono più in soccorso al primo spaesamento; la loro crisi «costringe ciascuno di noi a decidere da solo cosa fare, senza potersi più appellare ad un'autorità esterna, ma potendo contare solo sulle proprie specifiche competenze», per usare le parole di Moreno Montanari in La filosofia come cura, appena uscito da Mursia. La cultura dell'autonomia, dell'indipendenza ci ha resi più liberi e più felici? Ciascuno ha una propria risposta da dare. Il sociologo francese Alain Ehrenberg, ne La fatica di essere noi stessi, raffredda ogni eccessivo entusiasmo: quest'uomo riscattato dalla morale che si forgia da sé gli appare «intimamente più fragile, è stremato dal suo stesso essere sovrano e se ne lamenta».
Siamo chiamati ad esprimerci su tutto. Sì o no al prolungamento della vita fino a quanto la medicina lo rende possibile, anche se non sappiamo cosa ne sia rimasto, di quella vita? Sì o no all'avere figli comunque, a dispetto della salute e dell'età, e solo bambini concepiti con il certificato di sana e robusta costituzione? Sì o no allo sforzo quotidiano di condividere lo stesso spazio con chi, non avendo la nostra cultura e religione, è diverso? Sono questioni che riguardano da vicino la vita di ciascuno.
«Nel passaggio alla modernità la dipendenza dalla decisione aumenta — ribadisce Niklas Luhmann, filosofo e sociologo tedesco, ne La società del rischio —. Molto di ciò che prima veniva più o meno da sé, nel corso della vita, è oggi richiesto come decisione, e questo su uno sfondo di possibilità di scelta più ampio». Ma chi insegna a decidere? La scienza ci spalanca un universo di possibilità, ma poi ci lascia soli quando si tratta di scegliere da che parte andare. La medicina ha a che fare ogni giorno con la vita e con la morte. Ma possiamo parlare di vita e di morte solo utilizzando il linguaggio della medicina? Dopo il caso di Eluana Englaro, per 17 anni in stato vegetativo interrotto da sentenza giudiziaria, nessuno può più illudersi. La tecnologia è un alleato, ma i patti devono essere chiari: «La tecnica non è né buona né cattiva, è la ragione umana a dover integrare la scienza in una visione razionale del mondo», sintetizza lo storico Aldo Schiavone.
Certo, c'è scelta e scelta, dice Giulio Giorello: «Alcune riguardano questioni di vita quotidiana, come la scelta di una professione o quelle dentro la professione stessa. Vi sono poi le scelte dei propri amori, dei problemi che si vogliono studiare e possibilmente risolvere, e persino dei propri miti. Vi può anche essere la scelta di una fede, o di nessuna. Infine, vi è una scelta particolare, la scelta di scegliere — e questa da oltre duemila anni ha un nome: filosofia». Sottrarsi alla «scelta di scegliere» è sempre più complicato. Oggi bisogna scegliere. In cosa credere, cosa tenere, cosa buttare. «Tra le arti del vivere liquido moderno — ricorda Zygmunt Bauman — sapersi sbarazzare delle cose diventa più importante che non acquisirle».
È il momento, dunque, della filosofia? Verrebbe da rispondere sì, se non fosse che poi, nella realtà, tutto questo interesse per un approccio «filosofico» alla vita non si vede. Le scienze ne hanno fagocitato i temi tipici, appropriandosi delle domande su cui la filosofia ha costruito se stessa e il proprio senso, e accreditandosi come uniche in grado di dare risposte veloci e soddisfacenti. E sul fatto che siano veloci, le risposte, possiamo essere tutti d'accordo. Sul soddisfacente, invece, si avvertono scricchiolii.
Agli studenti che chiedono «ma la filosofia a cosa ci servirà?» Roberta de Monticelli risponde di diffidare della parola «servire, che ha un significato buono e uno cattivo»: «In fondo una delle cose che si potrebbero rispondere e che la filosofia non serve mai, ma domina. Domina le menti». È bisogno di chiarezza, a partire dal rapporto con se stessi.
La filosofia «è una cosa pensierosa», rispondevano invece i bambini delle elementari interrogati da Anna Rita Nutarelli e Walter Pilini. Addentrarsi nelle loro riflessioni, raccolte in un volume di Morlacchi, diverte e illumina sull'appeal ai minimi termini che la disciplina può vantare presso i giovanissimi: «Un filosofo me l'immagino vecchio con una casa piena di libri e tutta impolverata piena di ragnatele e disordinata senza un posto pulito in tutta la casa — dice il piccolo Alberto —. Un filosofo lo vedo strano, mai a parlare con qualcuno o a essere popolare stando insieme agli altri».
Comunque la si veda, la filosofia è la capacità di indagare il senso delle cose e «il suo contrario è l'incuria, il disimpegno, la deresponsabilizzazione propria di chi rinuncia al gravoso ma indispensabile compito di prendersi cura di sé», chiude Montanari. José Ortega y Gasset la vedeva permeare il mondo come l'aria, senza che nessuno potesse sottrarsene: «L'uomo vive a partire da e in una filosofia. Questa filosofia può essere erudita o popolare, propria o altrui, vecchia o nuova, geniale o stupida; ma in ogni caso il nostro essere affonda sempre saldamente le sue radici viventi in una filosofia. Gli uomini per la maggior parte non se ne capacitano perché questa filosofia di cui vivono non appare loro come risultato di uno sforzo intellettuale, cioè dello sforzo che essi o altri hanno fatto, ma come la "pura verità" vale a dire la "realtà stessa"». Bauman ci ha avvertiti: nella società liquida «le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure». Se anche qualcosa ha funzionato in passato, non è detto che funzionerà ancora. I pensieri di ieri potrebbero non servirci per risolvere le questioni di oggi. C'è urgenza di pensieri nuovi.

Corriere 18.9.12
Le grandi idee spiegate dai maestri di oggi


Sarà in edicola da giovedì 20 settembre la collana «Philosophia. Il dibattito delle idee», nuova iniziativa del «Corriere della Sera» realizzata in collaborazione con Rai ed Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, una serie ideata e diretta da Renato Parascandolo e con la direzione scientifica dell'Istituto italiano per gli studi filosofici. Saranno 20 i dvd dedicati ciascuno a un argomento fondamentale del pensiero filosofico di ogni tempo, così come è sviluppato o interpretato dalla riflessione contemporanea. Dopo il dvd su «Libertà» in edicola giovedì, con le interviste a Massimo Cacciari, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, la seconda uscita sarà in edicola il 27 sul tema dell'«Essere», con i contributi di Emanuele Severino, Gianni Vattimo e Umberto Galimberti, per continuare con «Scienza», «Storia», «Logica» e così via, di argomento in argomento, fino al 31 gennaio 2013. Ideale continuazione della collana dedicata nel 2010 al «Cammino del pensiero», questa nuova iniziativa propone in ciascun dvd due o più videointerviste con i massimi pensatori contemporanei o del recente passato — personalità di rilievo internazionale come Jacques Derrida, Michael Dummett, Elémire Zolla, Ralf Dahrendorf, Gillo Dorfles, Remo Bodei, Maurizio Ferraris e numerosi altri —, che espongono con taglio divulgativo le linee principali del pensiero a cavallo del millennio. (i.b.)

l’Unità 18.9.12
L’Italia cinica di Bellocchio
Un film su un Paese depresso che vorrebbe essere salvato
«La bella addormentata», recitato benissimo, riflette su un problema che riguarda tutti: si può lasciar morire le persone che amiamo?
di Enrico Palandri


CI SONO ALCUNI SPUNTI NELL’ULTIMO, BELLISSIMO FILM DI MARCO BELLOCCHIO CHE ILLUMINANO IL MONDO CHE ABBIAMO INTORNO, E NON SOLO L’ITALIA, CON QUELLA MISURA PARTICOLARE CHE SOLO AL CINEMA RIESCE. Come diceva Zavattini del neorealismo, che si era sentita la necessità di fare dei comizi, delle riumioni, così questo film si innesta nella nostra migliore tradizione cinematografica prendendo di petto un tema che è profondamente politico, sociale, al punto che ridiventa un problema personale per ognuno dei personaggi e per noi. Si deve, si può lasciar morire? Lasciar morire le persone che amiamo, o lasciare che altri decidano come a loro sembra di dover decidere per le persone che amano?
Non voglio dilungarmi sui dettagli della grandissima arte di Marco Bellocchio se non per dire che il film è anche recitato benissimo da tutti gli interpreti, scandito da un ritmo esatto, mai ripetitivo, e che è coraggioso formalmente, inventivo senza essere artificioso. Basti dire che Maya Sensi, che nel ruolo della tossica rischiava di far scadere il film nella cronaca, raggiunge al contrario vertici di intensità che ricordano la migliore Anna Magnani, forse proprio perché motivata dalla stessa disperata ricerca di senso che caratterizzò la generazione che aveva visto le Fosser Ardeatine e Auschwitz. Non mi soffermo neppure sulle eleganti, spiritose macchiette sulla politica di Herlistka, o sul grande Servillo e la Rochwacher, che compiono magnificamente il compito di rendere trasparente comportamenti che in questi anni sono parsi solo predatori e cinici, che fossero le veglie a Eluana o le altre battaglie che si spacciavano per cattoliche, e che erano al contrario semplicemente ideologiche, o la strana relazione tra gli ex socialisti e Berlusconi. Magnifica Isabella Huppert e tutti gli altri. Qualcosa di molto buono deve essere accaduto durante la produzione di questo film che ne fa un film perfetto.
Ma sono i temi su cui poggia a cui si devono offrire risposte all’altezza. Temi che ritraggono un’Italia depressa e cinica, come dice un personaggio, che è il vero dramma, a destra e sinistra, della afasia politica di fronte a come oggi viviamo: al denaro, al sesso, ai furti e disastri morali cui abbiamo preso parte negli ultimi anni, come spettatori e complici. Un’Italia che vorrebbe essere salvata. In gran parte anche il favore politico di cui ha goduto Monti, che per fortuna non sembra caratterialmente incline ad approfittarne per scopi privati, sono quelli di un paese che vuole essere salvato. Come una tossicodipendente, come un marito il cui dolore per la perdita della moglie è inconsolabile, come una madre che non accetta la morte di una figlia.
Il filo su cui corriamo in tutto l’occidente, carichi di adrenalina e tentando di non fermarci mai, è l'incapacità di tutti di fare spazio per l’umanità propria e quella degli altri. Siamo ingessati nel denaro perché chi è povero è disperato e non ha accesso oggi al minimo per sopravvivere e chi è ricco sembra non si senta mai ricco abbastanza, teso tra un vuoto che la religione non riesce a colmare per nessuno dei protagonisti (e che al contrario a volte cavalca per scopi di strategia sociale) e una ricerca di senso di fronte alla morte.
Forse la risposta più bella la dà il personaggio di Maria che da guerriera cattolica, la suora, come la definisce con disprezzo il fratello matto di un altro dei bei personaggi di questa storia, scopre in una notte in albergo che c’è qualcosa in noi che vuole essere vivo. Voglio stare sempre con te, dice al suo compagno, e quel tu guarda lontano, perché incarnato in una persona è amore reale, molto più vero dell’amore ideologizzato degli stendardi con cui faceva la veglia davanti all'ospedale, molto più pieno di Dio, come ricordano anche i versi di Jacopone recitati dal figlio dell’attrice che veglia la figlia morente, perché la tradizione ebraica che si realizza a Roma, e cioè il cristianesimo, e la nostra civiltà latina, è tutta piena di questa asserzione: che Dio è carne, Dio è l’altro. Grazie a questo amore, che è per lei un vero amore e non un’idea, anche se pieno di difficoltà, riuscirà a capire suo padre, la morte della madre, le scelte che fanno gli altri in cui il film, mirabilmente, non si intromette.

il Fatto Lettere 18.9.12
Se le donne sono collaterali


È agghiacciante la notizia che domenica, per "errore", nove donne siano state uccise e altrettante ferite dal fuoco dei jet della Nato: tra loro anche delle bambine. Stavano raccogliendo legna e pinoli in un bosco tra le montagne. La Nato li chiama "danni collaterali", questi errori mortali e imperdonabili. In realtà significa che, da un lato i talebani e dall'altro i caccia americani, le donne afghane non hanno scampo. Né in tempo di pace, né in tempo di guerra. Nella sempiterna, monosessuale violenza degli uomini, sono sempre le donne a pagare il prezzo più alto. Morendo incolpevoli sotto i colpi di chi odia l'uguaglianza e di chi vuole imporla a suon di bombardamenti. Fuoco nemico, fuoco amico. E donne collaterali.
Paolo Izzo, Roma