mercoledì 19 settembre 2012

il Centro 19.9.12
“L’uomo nel cortile”
Natura senza peccato nella lezione di Fagioli
In uscita il 21 settembre il nuovo libro dello psichiatra che raccoglie le conversazioni con gli studenti a Chieti
di Federica D’Amato


PESCARA Leggere gli scritti dello psichiatra Massimo Fagioli credo abbia rappresentato da sempre un atto di ribellione salvifica della mente, se per lettura intendiamo una tipologia di incontro degno della massima presenza fisica ed intellettiva. Non smentisce tale impegno “L'uomo nel cortile”, il nuovo libro di Fagioli in uscita il 21 settembre per le edizioni L'Asino d'oro, che raccoglie le lezioni universitarie di psicologia dinamica tenute nel 2005 nel l’aula magna dell’università degli studi d’Annunzio di Chieti-Pescara.
Il libro riporta fedelmente i sei incontri in cui si snoda, davanti ad un pubblico attentissimo, fitta la dialettica tra un Fagioli interrogante ed un Fagioli cogitante, che nel disegno unitario vanno ad informare una storia complessa, quella della sua ricerca sulla malattia mentale, iniziata formalmente negli anni Settanta a Roma (chi non ricorda il capitale “Istinto di morte e conoscenza”?) e poi proseguita con coerenza sino ad oggi, in quarantanni di pensiero mai riposante sui dettami delle scuole psicoanalitiche ufficiali, bensì nuovo e illuminante la dimensione archetipica del sogno, i confini tra cerebrale e mentale, le dinamiche inconsce del rapporto interumano. In occasione dell'anteprima nazionale di presentazione del volume, in esclusiva per Il Centro il professor Fagioli ha accettato di rispondere ad alcune domande.
La genesi truffaldina della psicoanalisi di matrice freudiana pare abbia stregato tutto e tutti. Come è potuto accadere, come può ancora accadere?
Mi chiede una risposta storica, filosofica, psichiatrica. Nella scienza non accade. Il falso viene scoperto e denunciato. In politica, invece, si esaltano e si dà potere a coloro che gestiscono, come Hitler, una dimensione negativa dell’essere umano. Feuerbach aveva detto: non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea Dio. Io direi che è l’alienazione religiosa dell’essere umano. E l’esaltazione di Heidegger, Freud e la psicoanalisi sembra più una storia politica che non scientifica o filosofica. Ma direi che è stato soltanto un gruppo con una certa cultura reazionaria. Chi è “l'uomo nel cortile”?
E’ colui che ha acceso le luci e aperto le tre porte. Sta nel cortile e passeggia per venti minuti, fino a che non entra più nessuno. E’ un uomo che, per quattro giorni, realizza il movimento che lo fa diventare la novità storica di uno psichiatra che, avendo affrontato e conosciuto la realtà umana che non è coscienza, interpreta i sogni e cura per giungere alla guarigione di chi la chiede. Ha pensato e visto che, nella natura umana, non c’è il peccato originale, né l’inconscio perverso inconoscibile.
Che ruolo ha avuto l'arte durante la maturazione del suo sistema interpretativo riferito all'attività onirica?
E’ stata un fondamento per la ricerca sul pensiero senza coscienza. Ho vissuto la vita nella scontro continuo con la certezza millenaria che l’identità umana sta nella religione e nella razionalità. Il linguaggio articolato viene molto dopo la nascita e la scrittura a sei anni di vita. Ebbi, al contrario, l’idea che l’essere umano diventa tale con l’emergenza, dalla biologia della capacità di immaginare, dopo che ha realizzato la capacità di reagire con la vitalità del corpo. I sogni sono la ricreazione del primo anno di vita in cui non c’è parola, cammino, autosufficienza, ma c’è il linguaggio delle immagini che è identità umana.
Una richiesta di senso sembra essere la domanda fondamentale che la civiltà occidentale oggi pone a se stessa. Qual è la risposta di Massimo Fagioli?
Splendida domanda. Mi conferma che né la religione né la razionalità hanno dato un senso all’umano e ad una mente diversa da quella animale. La razionalità non è mai riuscita ad avvicinarsi al pensiero senza coscienza. E’ esattamente il contrario. L’animale ha soltanto il ricordo cosciente e non ha il linguaggio delle immagini, né la scrittura. Ho trovato un senso nella vita, cercando la realtà mia e nell’umano uguale e diverso, scoprendo e facendo conoscere la verità della nascita del pensiero.

l’Unità 19.9.12
Primarie, non facciamoci del male
Pd, troppi candidati Vota chi autorizza l’uso dei propri dati
No alla preiscrizione ma ai gazebo bisognerà firmare una liberatoria per la privacy
Per candidarsi sarà necessario raccogliere almeno diecimila firme in dieci regioni diverse
Allarme nel Pd per il moltiplicarsi di sfidanti
Candidabile chi raccoglie un certo numero di firme
Voterà solo chi si dichiara di centrosinistra e autorizza il trattamento dei dati
di Simone Collini


ROMA «Il sottoscritto (nome e cognome) presta il suo consenso al trattamento e alla comunicazione dei dati personali per i fini indicati». Bisognerà firmare una liberatoria per la privacy come questa, per poter votare alle primarie da cui uscirà il candidato premier del centrosinistra. Seconda cosa certa: chi vuole partecipare alla sfida ai gazebo dovrà raccogliere in poche settimane un numero di firme che, a occhio e croce, non tutti quelli che si sono fatti avanti finora riuscirà a incassare: la cifra più probabile è 10 mila, ottenute in dieci regioni diverse, come fu per le primarie che vinse Prodi nel 2005. Per le altre norme «anti-Babele» bisogna aspettare qualche altro giorno.
Anche se il Pd voterà le regole riguardanti i propri iscritti all’Assemblea nazionale del 6 ottobre (in quella sede verrà anche approvata la deroga allo Statuto che permetterà a Matteo Renzi di correre) e anche se l’accordo con le altre forze che parteciperanno alle primarie (Sel, Api, Psi) sarà siglato un paio di settimane dopo, incontri informali tra le parti sono già in corso.
Il coordinatore della segreteria di Bersani, Maurizio Migliavacca, e quello della campagna di Renzi, Roberto Reggi, hanno discusso per primo il nodo riguardante l’«albo degli elettori». Il sindaco di Firenze si è opposto all’ipotesi di un registro a cui far iscrivere gli elettori prima che vengano montati i gazebo (modello all’americana) e lo stesso Bersani si è detto favorevole a primarie «aperte» e contrario a strumenti che «limitino la partecipazione». Sia nel Pd che tra le fila di Sel si è però insistito sul rischio che senza alcun tipo di filtro ci possano essere infiltrazioni che finirebbero per inquinare il risultato della consultazione.
La soluzione avanzata dal fronte Bersani è stata quella di prevedere l’obbligo di siglare una liberatoria per la privacy: «O vogliamo che elettori del centrodestra falsino la nostra consultazione?». Quindi chi il 25 novembre andrà a votare dovrà dichiararsi elettore del centrosinistra e dare il consenso non solo a essere inserito in un database a cui poter attingere per le prossime campagne di mobilitazione, ma anche a far pubblicare on line il proprio nome nell’elenco dei sostenitori della coalizione dei progressisti. Solo dopo aver sottoscritto la liberatoria, chi sarà al gazebo si vedrebbe consegnare la scheda su cui indicare il candidato premier.
C’è però un altro aspetto che sta provocando una diffusa preoccupazione, nel partito di Bersani e non solo: la proliferazione di candidature, soprattutto in casa Pd. E questo, nonostante non si sappia neanche con che tipo di legge elettorale si voterà nel 2013. E da D’Alema a Veltroni, da Letta a Franceschini, sono in molti a chiedere a Bersani di riportare il confronto e anche il timing sulla linea indicata alla Direzione in cui annunciò di volere le primarie. Ovvero, legge elettorale, carta d’intenti, coalizione e solo alla fine discussione sulle primarie. Che primarie facciamo se alla fine si andrà alle urne con un sistema proporzionale?, è l’obiezione mossa al segretario. Che però non vuole rinunciare a un’appuntamento che serve a «riavvicinare politica e cittadini». Quanto al proliferae di candidature, per il leader Pd «non è un dramma».
Beppe Fioroni fa l’elenco e ironizza: «Bersani, Vendola, Renzi, Tabacci, Puppato, Civati, Spini, poi forse Gozi, e forse anche Bindi. Siamo a nove, ma sono convinto che si può fare di più. E se arriviamo a 11, facciamo la squadra di calcio dei candidati alle primarie e la facciamo giocare con quella dei cantanti e quella dei parlamentari». Anche Dario Franceschini ironizza, ma fino a un certo punto: «Se tutte queste persone si candidano alle primarie per prendere il posto di Monti, in quanti si candideranno a quelle per i parlamentari...?». La preoccupazione per il proliferare incontrollato di candidature targate Pd è anche alla base delle perplessità di Vendola circa la sua partecipazione. Anche Bruno Tabacci chiede un chiarimento: «Il Pd ha troppi candidati e questo trasforma le primarie da un confronto nella coalizione ad una contesa tutta interna al Pd. Deve chiarirsi».
In verità l’elenco fatto da Fioroni sarebbe già da aggiornare, visto che da Salerno arrivano indiscrezioni che parlano di una candidatura del sindaco Vincenzo De Luca e visto che alla sede del Pd hanno già ricevuto una lettera di Amerigo Rutigliano che, proprio come nel 2007 e nel 2009 (allora era per la carica di segretario del partito) annuncia che ci sarà.
Quella di Rutigliano è però una candidatura che dovrebbe rispondere alle preoccupazioni che serpeggiano in queste ore nel Pd: «Fu annullata con una scusetta amministrativa», dice. In pratica, non riuscì a raccogliere le firme necessarie per partecipare. Spiega il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo: «Non tutti gli iscritti saranno possibili candidati, ci saranno delle regole per partecipare come candidati. C’è necessità di avere una parte di sostegno necessario perché possa essere considerata una candidatura del Pd». «Necessario», allo stato, è concetto assestato sulle 10 mila firme, guardando al precedente di Prodi ma anche ad altre primarie: per candidarsi a fare il sindaco di Napoli bisognava raccogliere 2500 firme. Per fare il candidato premier quattro volte tanto.

La Stampa 19.9.12
Primarie, stretta sulle regole per far correre solo i big
L’idea dei tecnici: per candidarsi serviranno 20 mila firme in 20 regioni, o il 15% dell’Assemblea
Sorpresa a Ballarò. Un sondaggio sul più adatto a sostituire Monti: Renzi 44%, Bersani 25%, Berlusconi 16%
di Carlo Bertini


ROMA L’ obiettivo vero ancora è tenuto ben nascosto: far correre alle primarie solo i tre big, Bersani, Vendola e Renzi, scoraggiando tutti gli altri ed evitando così l’effetto Babele che bene non fa ad una coalizione (ancora tutta da costruire) che si candida a governare il paese. Questo è il motivo per cui, dopo l’appello di Vendola a evitare che le primarie si trasformino in un congresso Pd, i «tecnici» valutano una serie di opzioni per limitare al massimo i concorrenti in gara. E uno dei modi per ottenere il risultato potrebbe essere quello di pretendere che ogni candidato della coalizione raccolga 20 mila firme sparse nelle venti regioni d’Italia, compito arduo, se non impossibile per molti. Con un capitolo a parte che riguarda il Pd, dove potrebbe essere presa come base la regola per le primarie negli enti locali: prevedendo per chi voglia candidarsi l’obbligo di esser sostenuto dal 30% dei delegati dell’assemblea nazionale che sono circa 1400 o del 15% degli iscritti al partito che sono qualche centinaio di migliaia. Con una complicazione in più: il 6 ottobre l’assemblea dovrà votare la deroga allo Statuto che consenta ad altri candidati, oltre al segretario, di partecipare alle primarie di coalizione. E per fare passare questa modifica è necessaria la maggioranza più uno degli aventi diritto al voto. E già questo sarà un ostacolo, perché nelle ultime tornate si è presentato all’appuntamento alla Fiera di Roma vicino all’aeroporto neanche un terzo dei delegati. A far capire che qualcosa bolle in pentola sono le parole del responsabile organizzazione del partito, Nico Stumpo. «Non tutti gli iscritti del Pd potranno candidarsi alle primarie, ci saranno regole precise che disciplineranno le candidature dei tesserati. E potranno votare tutti i cittadini che sottoscriveranno di voler essere iscritti all’albo degli elettori del centrosinistra». Ed è proprio su questo punto che si concentrano gli strali di Matteo Renzi, contrario a «cambiare le regole in corsa» e sibillino, «forse per qualcuno i sondaggi non vanno più bene». E infatti basta sentire quelli letti ieri da Pagnoncelli a Ballarò con Bersani ospite: il distacco di Renzi da Bersani si sarebbe accorciato, 35% il primo, 40 il secondo; e se la domanda su chi sia più adatto a sostituire Monti viene fatta a elettori di ogni tendenza, la risposta è sorprendente: Renzi 44%, Bersani 25%, Berlusconi 16%.
In tutto ciò, i maggiorenti del Pd ieri ancora premevano, senza successo, su Bersani per legare le primarie al modello di legge elettorale: con l’argomento che se si passa al proporzionale svanisce il valore di primarie di coalizione: sarebbero solo inutili...

Corriere 19.9.12
Il rischio di consultazioni imbrigliate
Per modificare lo statuto serve l'Assemblea. Che non s'è mai riunita in plenaria
di Massimo Franco


ROMA — Come spesso gli accade anche questa volta Arturo Parisi potrebbe pronunciare il classico «io l'avevo detto».
Quante volte, prima di non frequentarne più le riunioni, l'ex ministro della Difesa del governo Prodi aveva protestato per la legittimità dell'Assemblea nazionale del Partito democratico. E quante aveva spiegato che non vi era il quorum e che le decisioni prese in quel consesso non erano valide.
Probabilmente, se la dirigenza del Pd non avesse preferito fare spallucce quando Parisi diceva la sua, adesso a Largo del Nazareno non si troverebbero nelle condizioni in cui si trovano.
L'Assemblea nazionale è un oggetto misterioso. I suoi componenti sarebbero mille. Sarebbero e non sono perché poi vi sono varie ed eventuali integrazioni di altri membri. Così, tra parlamentari e diversi innesti, si arriva a oltre quota 1.400. Dopodiché nessuno li ha mai visti tutti riuniti. Di qualcuno si sono perse addirittura le tracce. E qualcun altro non ha più rinnovato la tessera del Partito democratico. Solo che il 6 ottobre, quando questo organismo dirigente presieduto da Rosy Bindi si riunirà per cambiare lo Statuto, consentendo così a Matteo Renzi, che altrimenti non potrebbe, di candidarsi, i numeri non potranno essere più ballerini.
Già, perché per approvare la modifica dell'articolo secondo cui l'unico candidato, in caso di primarie di coalizione, è il segretario, è necessario avere la «maggioranza assoluta» dei componenti dell'Assemblea. Lo dice lo statuto stesso del Pd. Un bel pasticcio, non c'è che dire. E non potrà dirimerlo la povera Rosy Bindi il 6 ottobre prossimo. Non perché la presidente dell'Assemblea per quella data si sarà dimessa per candidarsi pure lei, e nemmeno perché nell'ultima riunione non ha contribuito a sedare gli animi.
La ragione è un'altra: dovranno lavorarci prima gli uomini del segretario Bersani se non vogliono che l'appuntamento si trasformi in una bolgia e che un gruppo di componenti possa fare ricorso. Una battaglia a colpi di carte da bollo in nome della trasparenza non è esattamente quello di cui il futuro primo partito italiano ha bisogno.
Per questo motivo la sede del Partito democratico a Largo del Nazareno in questi giorni si è trasformata in una sorta di call center. Tutti lì, con gli elenchi, a cercare di capire chi c'è e chi non c'è nell'assemblea, chi ha intenzione di venire e chi no, chi ha ancora la tessera in tasca, nel portafoglio o, almeno, in un cassetto. E quest'ultima preoccupazione non è niente affatto peregrina. Basti pensare che l'attuale portavoce del sindaco di Roma Gianni Alemanno, Ester Mieli, faceva parte della precedente Assemblea nazionale, quella di veltroniana memoria. Insomma, un po' di gente che non milita più sotto le bandiere del Pd in quell'assemblea c'è.
Del resto, se si dà uno sguardo al sito del Pd e si va all'elenco dei membri di questo organismo dirigente si può notare come molti, anzi moltissimi, siano sprovvisti sia di fotina che di biografia. Il che la dice lunga sulla composizione di questo oggetto misterioso che si chiama Assemblea nazionale. E sarà quindi interessante vedere come a Largo del Nazareno riusciranno a dirimere la complessa questione.
In compenso, pare che si stia trovando una soluzione per evitare che le primarie, come sostiene il sindaco di Bari Michele Emiliano, diventino una sorta di "X-Factor" del centrosinistra e per ridurre questa competizione a una sfida a tre Bersani-Renzi-Vendola, evitando che nell'agone scenda chiunque lo voglia, da Valdo Spini a Laura Puppato. Sì, perché Bersani e i suoi non soltanto ritengono che darebbe una pessima impressione il fiorire di candidature del Partito democratico, ma anche il moltiplicarsi di aspiranti dei partiti alleati. Le primarie in questo modo rimanderebbero all'esterno l'immagine di un centrosinistra profondamente diviso. E non si trasformerebbero in quella competizione in cui il «Pd parla al Paese», come vorrebbe il segretario.
Un modo per evitare il moltiplicarsi degli aspiranti premier potrebbe essere quello di prevedere che le candidature siano accompagnate da ventimila firme in venti regioni.
Maria Teresa Meli

Corriere 19.9.12
Aumentano i candidati e la confusione
di Massimo Franco


Non si può dire che le primarie stiano offrendo l'immagine di un Pd compatto intorno alla leadership di Pier Luigi Bersani. E la folla di aspiranti candidati a Palazzo Chigi farebbe pensare che chiunque nel centrosinistra si senta in grado di sostituire Mario Monti al governo. Ma probabilmente sono forzate entrambe le interpretazioni. Il segretario del Pd non è accerchiato da veri concorrenti, ma da una moltitudine di ambizioni, se non di velleità. E l'ipotesi che da questa gara esca un aspirante presidente del Consiglio diverso da Bersani rimane, al momento, piuttosto remota. L'unica vera sfida è quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi: se non altro perché è partita prima e tende a sparigliare i giochi interni.
Ma le candidature a ripetizione che sono spuntate sulla sua scia promettono di disperdere i voti e di trasformare un appuntamento ancora un po' nebuloso in una sorta di caotico cripto-congresso. Bersani ammette che «l'affollamento sarebbe un problema, ma non ne farei un dramma: alle primarie francesi c'erano sei candidati». Come dire: alla fine emergeranno comunque quelle vere. La moltiplicazione dei premier in pectore, però, sta seminando perplessità crescenti. Il sarcasmo dell'ex ministro Giuseppe Fioroni gli fa dire che se arrivano a undici si può fare una squadra di calcio. E qualcuno teme che un'esplosione non governata delle vanità porti al collasso del partito.
Fra l'altro, non è ancora chiaro neppure se le primarie saranno aperte ad esponenti delle forze potenzialmente alleate del Pd. Il problema è stato posto da Nichi Vendola, governatore della Puglia e capo di Sinistra, ecologia e libertà (Sel). Bersani ha risposto che sì, «Nichi sarà della partita». Il risultato, però, è di mostrare un partito che appoggia Monti ma intanto formalizza anche con le primarie un'alleanza con una sinistra che si vuole liberare del presidente del Consiglio e della sua agenda di politica economica. Su questo, resta un alone di ambiguità, che nemmeno Renzi è riuscito a dissolvere: forse anche perché teme che le regole delle primarie vengano cambiate in corsa per arginarlo.
«I sondaggi cominciano a far paura a qualcuno. Ma perché — protesta — chi votava per Prodi, Veltroni o Bersani eleggeva grandi personaggi, mentre se vota me è un pericoloso reazionario?». La risposta non c'è ancora, e le elezioni politiche del 2013 si avvicinano. Il ritardo è vistoso, ma forse inevitabile. Volente o nolente, come tutti il Pd è appeso alla riforma elettorale. Sull'attivismo e le autocandidature di queste settimane incombe tuttora la possibilità che si opti per un sistema non in grado di garantire a uno schieramento o a un partito la maggioranza sufficiente per governare; e dunque che tutte le ambizioni finiscano per rimanere tali, rendendo inutili le primarie perché il premier sarebbe scelto dopo, non prima delle elezioni.
L'insistenza di Bersani contro un ritorno al sistema proporzionale si spiega con la volontà di evitare un epilogo del genere: una coalizione di unità nazionale che Pdl e Udc si augurano, per motivi diversi. Un esito elettorale senza veri vincitori frustrerebbe infatti le ambizioni del centrosinistra. Ma nessuno è in grado di fare previsioni sui tempi e i contenuti del compromesso che si potrebbe raggiungere entro un mese in Parlamento. Il rischio è che qualunque mediazione sia percepita comunque come un passo troppo piccolo e tardivo per legittimare una classe politica sfregiata dagli scandali che spuntano negli enti locali, l'ultimo nel Lazio. Si parla di due settimane per un accordo, per poi andare alle Camere «al buio». E lì potrebbero arrivare sorprese.

Corriere 19.9.12
Le primarie, una fiera delle vanità
di Aldo Cazzullo


Le primarie sono senz'altro un'opportunità preziosa per avvicinare la politica ai cittadini. Per questo andrebbero prese molto sul serio. Proprio quel che non sta accadendo nel centrosinistra.
Il problema non è la legge elettorale. Certo, è grave che a pochi mesi da elezioni decisive ancora non si conosca il sistema con cui voteremo. Ma non è vero che le primarie rischino di incoronare al più un capolista.
Quasi tutti i capi di governo in carica in Europa — dalla Merkel al greco Samaras, da Cameron all'olandese Rutte — erano alla testa del partito più votato, anche se privo della maggioranza assoluta. L'uomo che ha riportato la sinistra francese all'Eliseo, trentun'anni dopo Mitterrand, è uscito da accanite primarie a doppio turno, e ha chiamato al governo alcuni tra i suoi sfidanti. Ora tocca al centrosinistra italiano indire consultazioni che dovrebbero individuare il candidato alla guida del Paese, in un momento drammatico della storia europea.
Il senso di responsabilità vorrebbe che scendessero in campo persone qualificate a un compito così serio e ambizioso: i sindaci o gli ex sindaci delle grandi città (il nome di Sergio Chiamparino dice ancora qualcosa?); i presidenti delle regioni più popolose (e invece Vendola ancora esita); i personaggi più importanti della società civile (e il coraggio di cui Pietro Ichino ha dato prova, nei giorni di una grave e mirata minaccia terroristica, ne conferma la statura). Invece le primarie del centrosinistra sembrano diventate la resa dei conti interna a un partito. Lo strumento per cercare facile quanto vana «visibilità», parola-chiave del nostro infelice tempo. Una scorciatoia per posizionare una microcorrente o conquistare un frammento di nomenklatura.
Sarebbe sin troppo facile ironizzare su una decina di autocandidati magari brillanti, che però non rappresentano molto più di se stessi, e soprattutto non hanno alcuna credibilità ed esperienza per reggere il governo di un grande Paese. Palesemente non è questo il loro intento. Non è detto si debba correre per vincere (anche se sarebbe logico farlo), anche candidature di testimonianza possono arricchire la discussione pubblica. Ma qui siamo al punto in cui viene salutata come una svolta pure la discesa in campo dell'ex sindaco di Montebelluna (ma allora perché non anche il sindaco di Barbaresco, di Castelfidardo, di Nocera Inferiore?). Colpisce poi l'attivismo degli assessori della giunta Pisapia: uomini di valore, che però avrebbero già molto da fare in città e farebbero forse meglio a concentrarsi sul loro lavoro; a meno che non si pensi che Bruno Tabacci possa condurre l'Api alla testa del centrosinistra, o che Stefano Boeri possa vincere le primarie nazionali dopo aver perso quelle milanesi.
Certo, anche in America le primarie talora assomigliano a una fiera delle vanità, in cui per un quarto d'ora vengono presi sul serio candidati improbabili. Ma c'è un limite oltre il quale il confronto delle idee e la ridda delle ambizioni travalica la soglia fisiologica e diventa folklore politico. Quel limite è molto vicino. È interesse di tutti i leader del centrosinistra, a cominciare da Bersani, evitare che venga superato, fissando il più presto possibile regole chiare. Altrimenti sarà perduta un'occasione importante non soltanto per uno schieramento.

l’Unità 19.9.12
Vendola aspetta il chiarimento «Anche il Pd vede il problema»
Il leader di Sel soddisfatto per le parole di Bersani, che lo ha invitato a non ritirarsi. «Si fa strada l’idea che le primarie sono di coalizione e non del Pd»
che sulla questione morale lui non ha ombre»
Resta il nodo della legge elettorale. «Se passa
il tedesco niente gazebo e niente alleanza»
di Andrea Carugati


Visto? Avevo ragione io. Anche nel Pd si stanno accorgendo che le primarie non possono diventare una conta tra le loro correnti e microcorrenti...che in questo modo non hanno senso».
Dopo aver fatto balenare per due giorni l’ipotesi di un ritiro della sua candidatura, ora il leader di Sel commenta con soddisfazione la discussione che si è aperta dentro il Pd sulla «babele» delle primarie. E aspetta quel «chiarimento» che ha chiesto ai vertici democratici. E cioè che le regole per la competizione di fine novembre chiariscano senza ombra di dubbio «che non si tratta del loro congresso», ma di una consultazione «aperta a tutto il centrosinistra per dare una nuova guida al Paese».
Le parole di Bersani, che lo ha invitato pubblicamente a non ritirarsi, anzi a essere «protagonista» dell’avventura delle primarie, gli hanno fatto piacere. Ma al governatore pugliese è molto chiaro che anche la sua incursione è stata accolta positivamente dagli uomini di Bersani. Nel senso che ha dato una mano a quanti vogliono fissare regole chiare per evitare la proliferazione delle candidature Pd, la resa dei conti tra le correnti.
Vendola si gode anche il momento di ritrovata visibilità. Se uno degli obiettivi era quello di distogliere l’attenzione dei media dalla «bolla Renzi», qualche risultato è arrivato. Ora il leader di Sel ritiene che la palla stia tutta nel campo dei democratici. Che con all’assemblea del 6 ottobre dovranno fissare appunto le regole interne per stabilire chi può candidarsi e chi no. Nel frattempo i suoi emissari si vedranno con il braccio di destra di Bersani, Maurizio Migliavacca, per fissare le regole delle primarie di coalizione.
Nichi dunque aspetterà alla finestra, scaldando nel frattempo i motori della sua macchina elettorale. Ma senza sciogliere del tutto la riserva almeno fino a quella data. Ieri lo ha ripetuto più volte ai suoi collaboratori: «Dobbiamo togliere dalla testa della gente l’idea che si tratti di un congresso del Pd». Se queste risposte arriveranno, allora lui si butterà nella mischia. Altrimenti è pronto a farsi da parte.
La questione giudiziaria da lui stesso evocata, a questo punto non sarà un ostacolo insormontabile. Il gup di Bari si pronuncerà il 27 settembre, dunque per i primi di ottobre sarà tutto chiaro. I suoi confidano in una archiviazione: «Quell’inchiesta non ha alcun fondamento. Ma Nichi ha fatto bene a parlarne, per ribadire he sulla questione morale lui non ha ombre».
C’è però un’altra variabile che potrebbe risultare decisiva. E cioè la legge elettorale. «È chiaro che una legge proporzionale alla tedesca renderebbe inutili le primarie di coalizione», spiegano gli uomini di Sel. «E in quel caso noi non avremmo alcun interesse a partecipare a una gara dentro il Pd per scegliere il loro capolista». In quel caso, infatti, «sarebbe difficile parlare addirittura di un’alleanza. Con il proporzionale ognuno corre per sé». Per Sel l’obiettivo sarebbe quello di superare il quorum del 5%, per riportare una pattuglia in Parlamento. E questo vorrebbe dire alzare i toni della campagna elettorale, anche contro i democratici, perché in quel tipo di campagna «la competizione più forte è tra i partiti più vicini».
L’idea di un listone PdSel, per puntare a ottenere l’ipotetico premio al primo partito, per ora viene tenuta nei cassetti. Se ne parla sottovoce, come extrema ratio. Da utilizzare solo se davvero passerà quel tipo di legge elettorale. E solo se i sondaggi sconsiglieranno la corsa in solitaria, pena il rischio di restare fuori un’altra volta. I dirigenti ne parlano poco e malvolentieri, perché nella base di Sel lo spettro dell’«annessione» da parte dei democratici è vista come fumo negli occhi.
Nel quartier generale di Sel, però, nessuno pensa che Bersani accetterà una riforma del Porcellum di quel tipo senza colpo ferire. «Per lui è indispensabile salvare l’idea della coalizione, e quella che la sera del voto si sappia chi governerà», è la convinzione dei vendoliani. Loro almeno spingono in questa direzione. Un ragionamento che, nel corso della discussione sulla legge elettorale in Senato, potrebbe anche farsi più ruvido nei confronti dei vertici del Pd. Della serie: «Senza premio di coalizione saltano tutte le intese tra noi».
C’è poi il tema del ritiro pro-Bersani, quello che “il manifesto” ieri ha definito il «soccorso rosso» di Nichi, che si farebbe da parte, anche in caso di primarie di coalizione, per far confluire i suoi voti su Bersani. Un’ipotesi che viene respinta ribaltando il ragionamento: «Non è affatto vero che l’assenza di Nichi favorirebbe Pier Luigi. Anzi, è vero il contrario: noi mobilitiamo un elettorato giovane, che chiede una profonda innovazione», spiegano fonti di Sel. «Quindi un popolo che, per certi versi, è più sovrapponibile a quello di Renzi». «Solo che noi puntiamo a una novità di sostanza, non alle vecchie tesi liberiste riverniciate», è l’inevitabile chiosa.

l’Unità 19.9.12
Conti trasparenti? Alla Camera è scontro sui revisori esterni
La giunta per il Regolamento modifica la bozza
Oggi il voto. Pd e Udc: i nostri bilanci controllati fuori
di Federica Fantozzi


ROMA Braccio di ferro a Montecitorio sulla trasparenza e la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari. Il testo messo a punto dalla giunta per il Regolamento prevede conti pubblicati su Internet e controllati dal collegio dei questori. Sparita invece la norma che impone un check esterno affidato a società di revisioni, come invece accade per i partiti e come aveva proposto Gianfranco Fini. Ma Pd, Udc e Idv, consapevoli del terreno scivoloso, dichiarano che loro si affideranno comunque a controllori esterni. A quel punto Fini invita la giunta a rivedere le norme (il voto è previsto oggi). Il Pdl Calderisi si impegna ad «approfondire» la questione.
Succede tutto in poche ore. La bozza di disciplina messa a punto dalla giunta per il Regolamento, che sarà discussa oggi a Montecitorio, prevede che i bilanci dei gruppi siano controllati e pubblicati online, ma che non vi saranno supervisioni da parte di società esterne. La prima bozza, risalente allo scorso 5 luglio, imponeva invece l’affidamento del controllo sui conti a società di revisione esterne, come succede al Bundestag. E come accade adesso, dopo la riforma di quest’anno, anche per i bilanci dei partiti politici. L’applicabilità di questa disciplina ai gruppi però non ha convinto tutti. Il Pdl Calderisi ad esempio vi trova «problemi di carattere costituzionale». E dunque, nell’ultima riunione del 12 settembre la giunta ha cambiato idea dando mandato al Pd Gianclaudio Bressa e al Pdl Antonio Leone di modificare il testo. Che nell’ultima formulazione prevede dunque una serie di controlli interni, con la supervisione della Corte dei Conti e la pubblicazione dei bilanci dei gruppi insieme a quello della Camera.
Ma appena trapela questa retromarcia, in aula scoppia la polemica. Molti capiscono che, con questo clima di caccia ai privilegi della “casta”, rinfocolato dallo scandalo sull’uso più che disinvolto dei fondi Pdl alla regione Lazio, ogni tentennamento può rivelarsi un passo falso fatale. Dario Franceschini annuncia subito che il Pd, a prescindere dalle decisioni della giunta, si avvarrà dei controlli esterni: «Faremo comunque certificare i bilanci da una società di revisione esterna». Il capogruppo ha aggiunto che ieri non c’è stato nessun voto, i giochi sono ancora aperti, e proprio i Democratici avevano scritto a Fini per chiedere «di avviare con la massima sollecitudine un’iniziativa per l’introduzione di nuove regole certe» sul tema.
Pierferdinando Casini annuncia in aula che l’Udc farà la stessa cosa. Idem l’Idv. Ovviamente il Fli cavalca l’«operazione trasparenza» in cui, dice, «Fini è stato frenato». Italia Futura, il think tank montezemoliano, intanto ha buon gioco a twitttare: «I partiti dicono no al controllo esterno sui bilanci. Proprio il contrario di quello che gli italiani si aspettano». A quel punto interviene Fini dallo scranno di presidente della Camera: «Sono certo che alla luce degli interventi» oggi la giunta per il Regolamento «potrà valutare la possibilità di ripristinare il testo iniziale». Il terreno però è molto scivoloso. Nei partiti nessuno vuole rimanere con il cerino in mano. Misiani, tesoriere Pd e componente della commissione Bilancio, conferma la disponibilità al chek esterno espressa da Franceschini. Bressa invece difende le posizioni della giunta: «È il massimo del controllo possibile e della trasparenza. Ben più di quello di qualsiasi società di revisione. I bilanci vengono trasmessi al collegio dei questori che li esamina, con la supervisione della Corte dei Conti. Poi tutto viene pubblicato. Ogni anno i cittadini potranno vedere le spese dei gruppi. A meno che non si pensi che i bilanci della Camera siano fatti da banditi».
Il dossier al voto oggi prevede poi che entro 30 giorni dalla costituzione, ogni gruppo approvi uno statuto che indica «l’organo competente ad approvare il rendiconto» di esercizio annuale e «l’organo responsabile per la gestione delle attività economiche. I contributi, si legge ancora nel testo «sono destinati esclusivamente alle specifiche finalità per le quali sono erogati e sono utilizzati per gli scopi istituzionali riferiti all’attività parlamentare e alle funzioni di studio, editoria e comunicazione ad essa ricollegabili». Il controllo «di conformità del rendiconto è a cura del Collegio dei Questori che deve anche autorizzare «l’erogazione delle risorse».

Corriere 19.9.12
Controlli sui conti, il muro dei deputati
La paura di verifiche indipendenti su 72 milioni di fondi pubblici
di Sergio Rizzo


ROMA — Domanda da rivolgere ai partiti: se i bilanci dei gruppi parlamentari sono puliti e regolari, che paura c'è a farli certificare da un soggetto indipendente? I tedeschi, per esempio, fanno così. Senza che nessuno si scandalizzi perché qualcuno non appartenente al Bundestag ficca il naso nei loro conti. E poi la certificazione esterna dei bilanci delle formazioni politiche, già da tre anni volontariamente introdotta dal Pd, non è stata forse resa obbligatoria con una legge votata appena prima dell'estate?
Vero è che senza gli scandali dei rimborsi elettorali della Margherita e della Lega Nord difficilmente una cosa del genere sarebbe passata. Come è pur vero che in quella legge ci sono molte cose discutibili. Per esempio, il fatto che il controllo «pubblico» sui bilanci non sia affidato alla Corte dei conti, come sarebbe naturale e come peraltro sostiene anche Giuliano Amato nella sua relazione a Mario Monti sui costi della politica, bensì a un collegio dove i giudici contabili sono affiancati da magistrati della Cassazione e consiglieri di Stato. Ma l'analogia con le norme approvate pochi mesi fa è un argomento difficilmente contestabile.
Anche perché, sebbene il particolare sfugga a molti, i contributi ai gruppi parlamentari della Camera e del Senato sono a pieno titolo una fetta del finanziamento pubblico dei partiti. Basterebbe rileggersi la legge del 1974, quella abrogata dal referendum promosso dai radicali nel 1993. Fu quel provvedimento che stabilì, appunto come parte del finanziamento pubblico, il contributo con fondi statali anche ai gruppi parlamentari. Poi diventato consuetudine, nonostante il famoso referendum.
E non sono certamente cifre modeste. La Camera ha in bilancio per il 2012 poco meno di 35 milioni di euro: per l'esattezza, 34 milioni 915 mila euro, contro i 36 milioni 250 mila euro dell'anno scorso. Il Senato, con metà dei parlamentari rispetto all'assemblea di Montecitorio, ha uno stanziamento addirittura superiore: 37 milioni 750 mila euro, contro 37 milioni 600 mila euro del 2011. Totale quest'anno: 72 milioni 665 mila euro. La somma dei contributi ai gruppi parlamentari delle due Camere non è quindi molto lontana dai 91 milioni l'anno fissati come tetto massimo dei rimborsi elettorali dalla nuova legge.
Perché questa somma debba avere sul piano dei controlli un trattamento diverso, francamente non si capisce. «È l'autodichìa, è l'autodichìa», ripetono i sostenitori di questa tesi. Molto più numerosi di quanto non si possa immaginare. Che cosa vuol dire quella parola? Semplicissimo. Siccome il Parlamento è autonomo e nelle sue scelte nessuno può mettere becco, ecco allora che i soldi pubblici versati ai gruppi parlamentari, pur essendo parte del finanziamento pubblico, devono essere controllati da un soggetto scelto dagli stessi gruppi che li spendono. Un contorsionismo che nasconde qualche riserva mentale? Boh...
Per non dire della scelta di tempo. Davvero incauta. Da settimane le pagine dei giornali sono piene delle vicende sconvolgenti che hanno investito il consiglio regionale del Lazio, dove alcuni politici utilizzavano i finanziamenti scandalosamente generosi concessi proprio ai gruppi per comprare auto di lusso, pagare conti da migliaia di euro al ristorante e perfino servizi fotografici. Una vergogna che ha gettato ancora più discredito sui partiti. E che forse avrebbe suggerito di affidarsi, più che all'«autodichìa», al banale buonsenso. Ma questa, si sa, nella nostra classe politica non è purtroppo una qualità molto comune.

il Fatto 19.9.12
Partiti senza controllo
Rubano soldi pubblici a man bassa ma i partiti bocciano i controlli
I deputati hanno detto no alla certificazione del bilancio dei gruppi parlamentari da parte di società esterne
di Sara Nicoli


Mentre gli scandali dilagano dal Lazio alla Lombardia, la maggioranza alla Camera affossa le certificazioni indipendenti sui bilanci dei gruppi. Meglio tenerli segreti
Non è bastato Lusi. E men che meno Belsito e Fiorito. Gli scandali percorrono la casta senza soluzione di continuità. E la casta risponde. Blindandosi ancora. Attraverso il rifiuto di controlli esterni sull’uso dei fondi pubblici destinati proprio ai partiti.
PER L’ENNESIMA VOLTA un provvedimento che tenta di sollevare il velo di opacità sui bilanci dei gruppi parlamentari viene respinto da chi dovrebbe diventare oggetto del controllo; sempre i partiti. Così, proprio mentre Mario Monti, dopo il caso Fiorito e su sollecitazione del Quirinale, studia un decreto per mettere un freno all’uso improprio dei fondi pubblici destinati alle forze politiche, arriva dalla Camera la prima doccia fredda: non ci sarà alcuna società di certificazione a sorvegliare i bilanci dei gruppi parlamentari di Montecitorio. Bocciata, dunque, la proposta fatta da Gian-franco Fini di ottenere maggiore trasparenza – e disincentivare le violazioni – mettendo nelle mani di un unico soggetto terzo la certificazione dei bilanci. I partiti, così, si “autocontrolleranno” attraverso un organismo, interno alla Camera, che sarà chiamato a visionare annualmente i rendiconti e di cui faranno parte sempre parlamentari dei vari gruppi. Pd, l’Udc, Idv e Lega sostengono che faranno comunque rivedere il bilancio da una società esterna, ma a questo punto tutto resta, in pratica, come prima: controllori e controllati verranno incarnati dai medesimi soggetti, i partiti.
IL PRESIDENTE della Camera, promotore dell’iniziativa, non si è dato per vinto. E ieri, in conclusione di un acceso dibattito d’aula, si è augurato che la Giunta (che si riunisce oggi) torni alle origini approvando il primo testo esaminato, quando si parlava appunto di certificazioni esterne, ma sembra una speranza destinata a rimanere delusa. La stessa giunta, infatti, mercoledì scorso ha dovuto constatare che l’orientamento dei gruppi andava in direzione del tutto opposta ai desiderata di Fini in nome dell’autogiurisdizione degli organi costituzionali. Che è un problema non facile da superare, ma con la volontà politica di tutti i partiti si potrebbe fare e oggi si vedrà se la pressione di Fini avrà sortito al suo scopo. Le speranze, tuttavia, sono poche. Nel nuovo regolamento, che dovrebbe essere varato, si esplicita anche una questione che dovrebbe essere ovvia, ossia che i fondi non possono essere usati per scopi privati o estranei all’attività parlamentare, ma dopo gli scandali, la sottolineatura di questo aspetto non appare affatto una ridondanza. Per il resto, tutto potrebbe restare ancora una volta come prima. I risultati sono noti.
E il segnale è comunque pessimo. L’ennesimo sul fronte casta, registrato come molto negativo anche a Palazzo Chigi. Dove Monti sta appunto studiando un provvedimento (forse anche un decreto) per dare un “segnale forte” contro la dilagante pratica dell’uso illecito del pubblico denaro. Il premier, infatti, non è rimasto affatto impermeabile al caso Fiorito, anche se un’indignazione più forte della sua Monti l’ha sentita dal Quirinale. Di lì la scelta di varare rapidamente una misura per far capire che il governo non sta a guardare e che, soprattutto, non chiude un occhio davanti agli scandali per non essere coinvolto. Nelle corde di Napolitano c’è da tempo una particolare sensibilità legata al rischio che gli scandali e le inchieste sulla corruzione della classe politica (e, ovviamente, non solo) possano alimentare “la tendenza al voto populista” (identificato per lo più nella figura di Grillo piuttosto che in quella del Cavaliere). Ecco, dunque, che subito dopo il colloquio con Napolitano, il premier ha chiesto un impegno ai partiti della maggioranza (“Abc”) per trovare un'’intesa, innanzitutto tra le forze parlamentari, sulla destinazione dei rimborsi elettorali. E i partiti, a quanto si è appreso, si sono riservati di dare una risposta a breve, ma è indubbio che il percorso di Monti è in salita.
LA DETERMINAZIONE del premier, però, è nota. E in questo caso, il suo punto di riferimento resta il ‘rapporto Amato’. Oltre ad una ulteriore possibile riduzione dei fondi, sul tavolo c’è la questione del controllo delle risorse e l’eventualità che ci sia un organismo di controllo che certifichi le spese. Cioè che sia certificato ogni capitolo di spesa, dai volantini ai filmati, dagli opuscoli alle manifestazioni elettorali. Dove non c’è l’autodeterminazione alla legalità, dunque, potrebbe arrivare il governo. Il tutto potrebbe essere già pronto per il consiglio dei ministri di venerdì, ma molto dipenderà anche dall’eventuale escalation in Regione Lazio. La Polverini, d’altra parte, ha già pronta una bella candidatura nelle file dell’Udc (che lei nega) e potrebbe non voler resistere a lungo alle spallate della giustizia sulla Pisana. E anche per avere lumi a riguardo, Monti attende la determinazione della sua maggioranza.

La Stampa 19.9.12
Questione di fiducia
di Massimo Gramellini


La classe dirigente al crepuscolo ha vissuto ieri un’altra delle sue surreali giornate. La Giunta per il regolamento della Camera ha respinto la proposta del presidente Fini di affidare la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari a una società esterna. Perché scomodare degli estranei quando gli onorevoli deputati possono giustificare le proprie magagne benissimo da soli? Tanto più che la certificazione esterna li obbligherebbe a garantire la tracciabilità delle spese. Addio a contanti e fuori busta, e instaurazione della dittatura delle ricevute e delle carte di credito. Una scelta da Paese civile, quindi oltremodo antipatica ma fortunatamente scongiurabile, a patto che il controllo venga lasciato a chi ha davvero i titoli per esercitarlo: i controllati.
Naturalmente non è questa motivazione prosaica ad avere impreziosito le relazioni dei membri della Giunta. Essi hanno preferito appigliarsi alla Costituzione, alla democrazia e alla libertà. Ma appena il frutto delle loro cogitazioni è finito sulle agenzie di stampa è scoppiato il pandemonio. I più lesti ad accorgersene sono stati due democristiani - Casini dell’Udc e Franceschini del Pd - che fiutando la rabbia degli elettori di centro e di sinistra si sono affrettati a smentire i propri rappresentanti in Giunta, dicendo che mai e poi mai avrebbero accettato una simile riforma consociativa e che anzi si sarebbero adoperati per fare certificare all’esterno i bilanci dei loro gruppi parlamentari. Nessun segnale apprezzabile è venuto invece dal Pdl, nonostante i suoi elettori siano persino più arrabbiati degli altri. Il partito che fu di Berlusconi ha preferito osservare l’ennesimo minuto di silenzio in morte di se stesso.
Alla fine il nuovo strappo fra Palazzo e Paese è stato in parte scongiurato e, fra un inciampo e un tentennamento, la Casta continua la sua opera di redenzione fuori tempo massimo. Cavour ammoniva che le riforme vanno fatte un attimo prima che i cittadini ne avvertano l’esigenza. Invece l’autoriforma della politica sta avvenendo in ritardo, a singhiozzo, e solo per il costante stimolo dell’opinione pubblica. Appena giornali e associazioni si distraggono un attimo, quelli ci riprovano. E quando la magistratura scoperchia gli scandali come alla Regione Lazio, imponendo uno scatto quantomeno di dignità, alle promesse iniziali di sfracelli seguono brodini caldi che ancora qualche tempo fa ci sarebbero apparsi saporiti, ma adesso risultano inesorabilmente sciapi. Se Renata Polverini avesse bloccato la proliferazione (con relativi benefit) dei gruppi consiliari composti da una sola persona o avesse tagliato le ventotto auto blu del garage laziale quando tutti glielo chiedevano, avrebbe raccolto consensi. Oggi che di auto ne toglie ventitré, i cittadini non applaudono. Semmai guardano con dispetto alle cinque rimaste, immaginando che serviranno a saziare i bisogni mobili del presidente del Consiglio regionale Abbruzzese, quel tizio impermeabile alla vergogna che ha dichiarato al nostro giornale di avere urgente necessità di due vetture sovvenzionate dai contribuenti, una per muoversi a Roma nel corso della settimana e l’altra per curare il collegio elettorale di Cassino durante il weekend.
La sensazione è che, malgrado gli sforzi dei politici più avveduti, all’opera anche ieri, il rapporto di fiducia fra questa classe politica e il Paese sia saltato definitivamente. Ormai basta un equivoco o un dettaglio sospetto - il classico capello sulla giacca che allarma la moglie più volte tradita, dunque diffidente - perché il disgusto, la nausea e la disistima tornino a prendere il sopravvento. Il ricambio della nomenclatura di destra e di sinistra non è un capriccio populista, ma la condizione perché gli italiani ricomincino a fidarsi dei loro rappresentanti. Per tentare di restituire alla politica il prestigio perduto non è rimasto che un modo: cambiare le persone che la fanno.

Repubblica 19.9.12
Nella foresta dei gattopardi
di Curzio Maltese

Insomma una spending review applicata ai costi della politica. Nulla di questo è avvenuto e la montagna di promesse aveva finora partorito lo sparuto topolino di una singola regola di trasparenza, per giunta applicata a una modesta fetta della torta di danaro pubblico destinata ai partiti, quella gestita dai gruppi della Camera. Ma anche questo minimo sforzo d’intercettare le richieste del Paese reale è parso al ceto politico un sacrificio troppo grande e ieri la norma ha rischiato di essere cancellata, prima dell’intervento di Fini e di Pd, Udc e Idv. Negare l’obbligo di un controllo esterno per lasciarlo alla vigilanza degli organi interni significa non cambiare nulla. Andare avanti
com’è andata finora, ovvero malissimo.
Questa è antipolitica. Autentica, volgare e pericolosa. Quando si disprezza in questo modo la richiesta da parte dei cittadini di maggior pulizia e controllo sul danaro pubblico dato ai partiti, quando si maschera con la bandiera ideale dell’autonomia una sostanziale impunità, quando si predicano i sacrifici ogni giorno agli altri per barricarsi alla prima occasione intorno ai propri privilegi, non si rende soltanto un pessimo servizio alla democrazia e al Paese. Si pongono le basi per far saltare l’intero sistema politico, le fondamenta stesse del patto di rappresentanza fra cittadini e partiti. Che razza di professionisti della politica sono questi, in grado di trovare l’unanimità su scelte oggettimenti vamente odiose, ma incapaci di raggiungere un accordo sulle riforme chieste a gran voce dall’intera opinione pubblica?
Viene quasi da chiedersi se non vi sia una logica in questa follia. Se una classe dirigente di gattopardi allergici al cambiamento non abbia deciso di blindarsi a palazzo, nel calcolo che comunque il movimentismo di Grillo non esprimerà mai un’alternativa di governo per una grande nazione, ma al massimo uno sfogatoio ai rancori accumulati da pezzi di società. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia catastrofica.
Occorre sperare che non sia vero. Sperare di trovarci di fronte all’ennesimo richiamo della foresta di sorde burocrazie di partito e vecchi gruppi dirigenti che hanno perso il contatto con la realtà, la volontà e i sentimenti  dei cittadini. Credere che il ripensamento di alcuni partiti, il Pd, l’Udc, l’Idv, sia la sincera ammissione di un errore e non una retromarcia da opportunisti. Ma al solito, perché non ci avevano pensato prima? Non si pretende che la politica arrivi sempre prima della società. Per quanto proprio in questo consista la buona politica. Ma neppure si può rassegnarsi all’idea che arrivi ogni volta molto dopo, quasi sempre troppo tardi e per giunta con l’aria di chi è trascinata a forza verso soluzioni chiare e oneste, cui naturalmente sfuggirebbe come il diavolo davanti all’acquasantiera. Non bastassero ogni mese un nuovo scandalo e un altro rinvio delle leggi contro la corruzione per alimentare cattivi pensieri e pessimi populisti.

Repubblica 19.9.12
Carte di credito, cene elettorali e portaborse così vengono spesi oltre 35 milioni l’anno
di Carmelo Lopapa


ROMA — E adesso anche i “responsabili” Scilipoti e Moffa dovranno spiegare come è stato utilizzato il milione 249 mila euro che il gruppo Popolo e territorio ha incassato nel 2011. I responsabili come metafora, sia chiaro, perché i loro sono spiccioli rispetto ai quasi 35 milioni di euro che la lo scorso anno la Camera ha assegnato alle otto formazioni che occupano gli scranni. Carte di credito a disposizione dei capigruppo, viaggi aerei, cene di rappresentanza e telefonini. Senza controlli, in nome dell’autodichia.
I FORZIERI DI PDL E PD
È un’enorme torta, sulla quale — neanche a dirlo — la parte del leone la fanno il Pdl e il Pd. Stando ai tabulati che Repubblica ha acquisito dagli uffici di Montecitorio, tanto la squadra di Cicchitto quanto quella di Franceschini hanno potuto contare su quasi dieci milioni di euro ciascuno. La gran parte per il personale (6 milioni) il resto per generiche spese di funzionamento dei gruppi che vanno sotto la voce “contributo unico” (4 milioni ad appannaggio dei berlusconiani e 3,6 milioni dei democratici). Ecco, è su quel “contributo” che foraggia tutti i gruppi che si accenderanno adesso i riflettori. Come vengono utilizzati? Con quanta discrezionalità? Esistono pezze giustificative? Così per i quasi 3 milioni in totale del gruppo Lega, i 2,1 dell’Udc, i quasi due di Fli, il milione e mezzo dei dipietristi. E i ben 5 e mezzo del calderone del Misto, dove 52 deputati sono confluiti in questi anni, in molti casi per sottrarsi alle regole (e agli obblighi di contributo) dei rispettivi partiti di origine.
I CONTI SOTTO CHIAVE
Fino ad oggi e per tutto il 2012 le squadre parlamentari di Camera e Senato hanno goduto della più totale autonomia nella gestione di quei fondi pubblici. Né la Corte dei conti, tanto meno una società di certificazione esterna ha mai potuto verificare. Ma la sindrome “Fiorito” ormai ha gettato nel panico anche deputati e senatori. E l’incidente di ieri, con la retromarcia imposta da Fini e Casini ai colleghi, sta costringendo tutti a correre ai ripari. Il Senato, dove la situazione è identica, si metterà in scia. In ogni caso, se le cose cambieranno, avverrà dal 2013, se ne parlerà insomma dalla prossima legislatura.
48 ORE PER “ORDINARE” I BILANCI
Di nuovo rischio «forconi fuori dal Palazzo». Ieri sera in Transatlantico l’atmosfera era elettrica. Ed è bastato un passa parola tra i tesorieri dei gruppi per accordarsi nel tentativo di arginare il caso: al di là del provvedimento adottato in giunta per il regolamento in queste ore, nell’ufficio di presidenza di domani il presidente Fini proporrà che tutti assumano l’impegno a pubblicare on line i rispettivi bilanci interni. Così, è scattata la corsa per mettere ordine, diciamo così, nelle singole voci di spesa che compongono il generico «contributo unico» dei gruppi (tutto ciò che esula dal personale).
IL CASO LEGA
Uno squarcio si era aperto il 19 aprile scorso, quando gli scandali Belsito e Lusi erano già noti. Gianluca Pini, deputato romagnolo e «barbaro sognante» vicino
a Maroni, sgancia in tv (a Omnibus su La7) una bomba contro Marco Reguzzoni: «Quando scopro che il mio ex capogruppo ha speso in un anno 90 mila euro con la carta di credito del gruppo, qualcuno mi deve giustificare come cavolo sono stati spesi». Scoppia un putiferio. Reguzzoni si difende: «L’importo complessivo delle spese della presidenza, i 90 mila euro citati per il 2011, tiene conto di molte esigenze, tutte documentabili, trasparenti e perfettamente motivate». Poi il caso è stato archiviato. Era una goccia, adesso rischia di venire giù tutto.

La Stampa 19.9.12
Costi della politica. I numeri
Lazio “sprecone”, ma non solo Ecco gli scandali delle Regioni
di Paolo Baroni


È proprio il caso di dire che è una Regione di magnaccioni. Parliamo del Lazio, l’ente «più caro d’Italia» oggi, che è retto dal centrodestra, come lo era ieri quando lo guidava il centrosinistra. Le spese degli organi di governo (giunta e consiglio) del Lazio guidano infatti la classifica dei bilanci più ricchi. Tutta colpa della moltiplicazione dei gruppi consiliari e delle commissioni, del numero delle poltrone e di conseguenza di indennità e benefit.
Spese in aumento Tutte cose su cui ora sta per calare la mannaia, tutte spese delle quali però fino a ieri, prima che scoppiasse il casoFiorito, si preferiva in qualche modo tacere. «Dei soldi dei gruppi e del consiglio io non ne sapevo nulla» ha ripetuto ancora ieri Renata Polverini. Nel 2010, in base ai bilanci, il Consiglio regionale della Regione Lazio costava la bellezza di 104 milioni di euro l’anno. Li si voleva portare a 97 e poi addirittura a 89, in realtà negli ultimi due bilanci sono lievitati prima a 109,7 e poi a 115 milioni di euro. Adesso la presidente Polverini progetta una sforbiciata da 20 milioni, ma nella graduatoria nazionale solo la disastrata Sicilia sfora il tetto del 100 milioni (arriva addirittura a 175), la Campania è ferma a 89,9, il Piemonte 81, la Lombardia 75,7. E visto che questa è la regione più popolosa d’Italia svetta nella spesa pro capite con una media d 7,77 euro per abitante contro il 18,15 del Lazio. Nonostante una serie di tagli già fatti nei mesi passati anche il conto della Giunta non fa che aggiungere spese a spese, anche perchè è composta in prevalenza di assessori esterni. Ai «magnifici 16» della Polverini non solo viene assegnata una indennità identica a quella dei consiglieri, ma in conto c’è pure una maggiorazione di 1668 euro/mese sostitutiva delle trattenute (e dei benefici) per il vitalizio e l’indennità di fine mandato di cui godono tutti gli eletti.
I consiglieri della Pisana sono 71 e sono quasi tutti «graduati», visto che occupano la bellezza di 79 poltrone. Ci sono infatti 4 segretari del Consiglio, 17 capigruppo (con 8 gruppi costituiti da un solo consigliere), 19 presidenti e 38 vice per le 19 commissioni. Per fare un paragone: la «virtuosa» Lombardia ne ha appena 8. Ancora a giugno erano addirittura 20, ma passati sei mesi e più dal ritiro della candidatura di Roma era difficile giustificare ancora l’esistenza di una Commissione per le Olimpiadi del 2020.
Indennità, auto blu e segretarie Ogni consigliere tra indennità (4252 euro), diaria (4003), rimborsi forfettari della benzina (40 centesimi al chilometro), per i quali è sufficiente una semplice autocertificazione, intasca all’incirca 8800 euro al mese. A questo importo va poi aggiunta l’indennità di funzione: dai 594 euro dei vicepresidenti di commissione ai 2311 del presidente del Consiglio, che così arriva a quota 11.140 circa mentre il vice si ferma a 10.600.
Il totale dei costi dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale tocca cifre considerevoli: 251 mila euro lordi per il presidente, 900 mila euro per i 18 addetti della segreteria più 1,5 milioni di spese di rappresentanza; i due vice percepiscono 484 mila euro lordi l’anno, poi usufruiscono di una «batteria» di 24 addetti di segreteria (12 a testa) che costano un altro milione e 200 mila euro l’anno. Due milioni e 200 mila euro se ne vanno per i tre consiglieri «segretari» oggi in carica: 689 mila euro di indennità e 1,5 milioni per i trenta (10 x 3) addetti di segreteria. Compensi e onorari vari assommano a 8 milioni di euro. Non parliamo poi delle auto blu: erano 28 a disposizione dei vertici regionali, a breve diventeranno 5.
Ogni singola commissione, 16 permanenti e 3 speciali, pesa sul bilancio per circa 1 milione l’anno personale incluso: 350 mila euro sono il conto delle indennità dei presidenti e 467 mila euro il totale del gettoni assegnati ai 38 vice. I gruppi consiliari pensano invece per altri 18,95 milioni di euro: 10 milioni circa per retribuire 201 dipendenti e 8,9 milioni per l’attività politica dei gruppi, il tesoretto dove in questi anni avrebbe pescato il pidiellino Fiorito. Ogni gruppo ha un presidente cui spetta una indennità aggiuntiva di 1536 euro e un vice che ne riceve 1024. E così cumulando cumulando un consigliere del Lazio ogni mese può arrivare anche a 13.300 euro: roba che deputato si sogna.
Ora si grida allo scandalo e si vuole tirare la cinghia, per finta o per davvero lo vedremo più avanti, ma la Regione con uno dei bilanci più dissestati (il deficit sanità dopo tagli e tasse segna ancora un drammatico rosso di 770 milioni) ancora pochi mesi fa non si faceva problemi ad assumere 45 «esperti», ex assessori ed consiglieri, insomma i soliti amici degli amici, autorizzando ovviamente col voto di tutte le forze politiche una spesa aggiuntiva di un milione e 60 mila euro. Oggi solo la giunta - denunciavano ieri i radicali - ha sotto contratto 270 persone tra consulenti, collaboratori e contrattisti a termine.
La Babele dei compensi La Regione Lazio, ad onor del vero, però è in buona compagnia. Moltiplicazioni di incarichi e di mono-gruppi, oltre a indennità elargite quasi «ad personam», sono fenomeni che hanno contagiato un po’ tutte le amministrazioni. In Abruzzo su 10 gruppi ben 7 sono costituiti da un solo consigliere, 9 su 11 in Basilicata, 9 su 12 nelle Marche, 9 su 14 in Molise, 5 su 9 in Umbria, 8 su 13 anche in Piemonte, in base ai dati aggiornati a inizio anno da www.parlamentiregionali.it. Che mette in fila anche compensi ed indennità e dove si scopre la solita Babele italiana: si va infatti dagli oltre 14 mila euro assegnati a presidenti di giunta e di consiglio in Lombardia, Puglia e Sicilia (ma in Emilia, Toscana e Umbria si fermano a 7700), ai 12.665 euro di compenso base che può arrivare a prendere un consigliere semplice del Pirellone a fronte dei 5174, 5395 e 5666 euro dei minimi previsti rispettivamente in Piemonte, Toscana ed Emilia. Ps: non parliamo della produttività di questi parlamentini. Solo per restare al Lazio nei primi sette mesi dell’anno il Consiglio ha approvato 8 leggi, di cui 5 proposte dalla Giunta. Nel 2011 erano state 21 di cui però 15 uscite dal cilindro della Polverini.

l’Unità 19.9.12
Lazio, con Polverini decuplicati i soldi al Consiglio
Nel 2009 il contributo era di un milione 800mila euro, nei primi sei mesi del 2012 è stato di 9milioni, il bilancio consiliare da 70 a 103 milioni di euro
di Jolanda Bufalini e Angela Camuso


Il cataclisma politico che si è abbattuto su Renata Polverini e sul Pdl del Lazio è ben lontano dall’essere finito. Tanto che per i vertici nazionali del partito è ancora allarme rosso, l’inchiesta potrebbe allargarsi ad altri esponenti Pdl, e preferiscono tenersi defilati lasciando la patata bollente a Renata Polverini. Ieri è stato interrogato Francesco Angelucci, commercialista del gruppo Pdl mentre quasi certamente oggi si svolgerà l’interrogatorio di Fiorito. Intanto emergono nuovi particolari sulla frenetica attività immobiliare dell’ex sindaco di Anagni: 4 o 5 case a Roma, altrettante ad Anagni, una a Tenerife che, rivela un servizio del Tg di Mentana su la 7, Fiorito l’avrebbe ereditata dal padre. Ma è proprio nella località spagnola che Francone ha scelto di aprire 5 dei 12 conti personali alimentati dai soldi deio contribuenrti. La casa a Punta Rossa, la località più esclusiva del Circeo, è stata acquistata con un mutuo acceso con la filiale Unicredit di piazza dell’Industria a l’Eur. Un bel conto su cui arrivavano le tre indennità cumulate dal capogruppo, che è anche presidente della commissione bilancio e tesoriere, oltre che il contributo per le relazioni con l’elettorato. Entrate che gli consentivano di staccare assegni dalle cifre molto importanti, ce n’è uno di 36.000 euro di cui non si conosce il destinatario. Negli affari Fiorito avrebbe coinvolto anche la mamma, Anna Tintori, cointestataria di un conto ad Anagni, sempre presso la filiale Unicredit. La signora, però, non avrebbe mai fatto alcuna operazione. Tutti motivi di preoccupazione che hanno portato, ieri, una parte di ex An (La Russa, Meloni, Rampelli) a riunirsi a lungo alla Camera. Intanto la presidente che ha incassato il sostegno di Alfano e l’incoraggiamernto di Berlusconi ha chiesto che il capogruppo Pdl alla Regione lasci l’incarico: «Battistoni è coinvolto, suo malgrado, nella vicenda giudiziaria e il partito dovrebbe essere liberato da questi problemi». Alla Pisana, intanto, è in corso la guerra dei numeri.
I NUMERI DEI TAGLI
Polverini ha annunciato 20 milioni di tagli ma il taglio vero si limiterebbe a 10 milioni perché altri 10 sono relativi al progetto ora abbandonato di costruire una nuova palazzina. Sostiene il capogruppo Pd Esterino Montino: «l’anno prossimo non ci sarà un’altra palazzina da definanziare».
CONSULENZE E ASSESSORI
Non solo, le consulenze di cui si avvale la giunta, costano 50 milioni l’anno di cui 30 per la sola sanità. Costano 5 milioni ogni anno gli assessori esterni, privi di mandato elettorale ma beneficiati con un vitalizio e, sostiene Vincenzo Maruccio, capogruppo Idv, «Polverini li ha nominati con un decreto e con un decreto potrebbe revocarli». Fra le proposte dell’opposizione, inoltre, c’è l’abolizione delle indennità di funzione, non prevista dall’odg Polverini.
CORRESPONSABILITÀ
Un altro capitolo riguarda l’estraneità della «zarina» alle allegre malefatte della sua maggioranza, intanto perché è lei stessa consigliere e poi perché Polverini era in Aula, durante la sessione di bilancio 2011, quando fu bocciata la proposta di dimezzare le 20 commissioni, operazione che si sta facendo adesso sull’onda dello scandalo. Un po’ di conti li fa l’ex presidente del consiglio regionale del
Lazio, Guido Milana: nel 2009 i contributi ai gruppi consiliari erano di 1.836.150, oggi sono di 9.217.000 per soli sei mesi. Il bilancio del consiglio nel 2009 era di 70 milioni, nel 2011 è di 13 milioni. Il contributo ai gruppi consiliari, dunque, è aumentato di 10 volte. E su questo generoso largheggiare Francone Batman Fiorito ha costruito la sua fortuna in capitali e, forse, in beni immobili . Ma il problema non finisce qui. Solo tre gruppi: Radicali, Pd e Sel hanno pubblicato on line il loro bilancio. Si può leggerli con l’amaro in bocca ma, almeno, si tratta di conti certificati. Fra i conti di cui non si sa nulla c’è quello della Lista Polverini, ora la presidente promette che lunedì il bilancio sarà certificato on line.
In tutta fretta si sta approvando la riduzione dei consiglieri da 70 a 50. Ma il Lazio è stato capofila delle regioni che hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro il provvedimento previsto dalla spending review. Infine c’è il gigantesco capitolo delle società partecipate, Enzo Foschi (Pd), propone all’opposizione di dimettersi dai CdA, come si è fatto per le commissioni.

Corriere 19.9.12
Foto per 75 mila euro Tutte le spese di Polverini
Un milione all'anno per i vitalizi agli assessori
di Ernesto Menicucci


ROMA — Le foto, alla Regione Lazio, costano care. Non solo quelle della consigliera Veronica Cappellaro, che ha usato mille euro dei fondi pdl per un book in uno studio del centro di Roma. Ma anche quelle della presidente Renata Polverini che, da inizio legislatura, non ha badato a spese: tra le delibere di assunzione della sua giunta, infatti, c'è anche quella di Edmondo Zanini, fotografo della presidente, che costa alla Regione 75 mila euro l'anno. Zanini la segue da sempre e, quando Polverini viene eletta, entra a far parte del suo staff come «responsabile comunicazione e grandi eventi».
La giunta, ieri, ha ratificato i tagli per il consiglio regionale (auto blu, commissioni, fondi ai partiti, rimborsi, monogruppi: manovra da 20 milioni circa) e la Polverini incassa anche il sostegno di Silvio Berlusconi: «Mi ha detto — racconta il governatore — che non c'entravo niente con questa vicenda e che dovevo andare avanti. Anche Alfano e Casini sono stati con me in questa battaglia». Non è che va all'Udc? «Fantapolitica».
Ma ora, ridotte le spese dell'assemblea, l'attenzione passa su quelle della giunta. Quella del fotografo non è l'unica assunzione che ha fatto discutere. A ottobre 2011, Gabriella Peluso viene chiamata a guidare la «Verifica dell'attuazione delle politiche regionali e del programma di governo»: contratto da dirigente, costo 122 mila euro l'anno. La Peluso è la compagna di Salvatore Ronghi, potentissimo segretario generale della Regione a 189 mila euro l'anno, uno del gruppo ex Ugl, di cui fanno parte anche il capo di gabinetto Giovanni Zoroddu e l'assessore al Bilancio Stefano Cetica. La Polverini si fida quasi esclusivamente di loro e Ronghi, insieme a Cetica, è lo stratega di «Città nuove», la fondazione della presidente che punta a diventare un partito. Cetica, invece, è il braccio della Polverini nell'azione amministrativa. Passa tutto da lui, decisioni politiche e finanziarie.
Se l'assessore dà «parere negativo», la proposta di legge (lo hanno ricordato i Radicali, citando una serie di tagli che volevano introdurre) viene cassata. Altrimenti, si va avanti. Come nel caso dei fondi dati direttamente ai partiti, norma voluta dalle forze politiche, approvata in consiglio, ma col «lasciapassare» della giunta. Anche i vitalizi agli assessori esterni sono transitati nelle mani di Cetica, su indicazione della Polverini. Prima non c'erano, adesso sì. E visto che, nell'esecutivo regionale, gli assessori (14) sono tutti esterni, quei vitalizi costeranno ai contribuenti circa un milione lordo l'anno per circa un trentennio.
Frutto della mancata presentazione della lista pdl alle elezioni 2010: chi doveva entrare in consiglio regionale è stato «risarcito» prima entrando in giunta e poi col vitalizio. Basta una legislatura, per portarsi a casa circa 3 mila euro al mese. Tutta la giunta, pensione a parte, costa 5 milioni l'anno: se gli assessori fossero «interni», cioè eletti in consiglio regionale, si risparmierebbe oltre un milione. Senza contare i circa 270 contratti stipulati, tra consulenti e collaboratori a tempo determinato. Dirigenti, portaborse, segretarie, addetti stampa. Ogni assessore ha diritto a uno staff di dieci persone, ma — con lo «spacchettamento» di contratti full time — si arriva al numero di 189 persone. Il record ce l'ha Patrizia Sentinelli (Istruzione), con 17 persone nello staff. In mezzo, c'è un po' di tutto: qualche volto noto (l'ex calciatrice Carolina Morace), l'ex estremista di destra Adriano Tilgher, parenti di assessori regionali o del Comune di Roma, la compagna dell'ex sottosegretario al Mibac Francesco Giro. È vero che auto blu e di servizio sono state ridotte, ma restano sempre un bel numero, 68. Mentre le società regionali si sono allargate a dismisura: a «Lazio Service», nel 2010 (a cavallo tra le giunte di centrosinistra e centrodestra) sono entrati 200 dipendenti in più, toccando quota 1.300. Per andare in elicottero alla sagra del peperoncino di Rieti, la Polverini disse di non aver utilizzato soldi pubblici: era un passaggio, della ditta che forniva i mezzi alla Protezione civile regionale. E altre polemiche ci furono per la vicenda della casa popolare, di cui usufruiscono governatore e marito dagli anni 90, a poche centinaia di euro al mese.

il Fatto 19.9.12
Renata fa la candida ma è buio sulle spese dei suoi
Il gruppo della Polverini ha 13 eletti e riceve 2,6 milioni ogni anno
di Marco Lillo


Ci mancava solo il Vaffa finale ma Renata Polverini lunedì sera sembrava davvero un Beppe Grillo con il vestitino bianco. “Bisogna dimezzare le commissioni e le somme sostenute a rapporto eletto-elettore, azzerare i contributi per i gruppi consiliari”. Il presidente della Regione è arrivata a sostenere: “ dobbiamo sospendere i contributi per il funzionamento dei gruppi fino a che non arriviamo ad un sistema trasparente di certificazione”.
TUTTO GIUSTO, tutto perfetto. Peccato che ancora oggi il gruppo consiliare della Lista Polverini non applichi in casa propria la trasparenza sbandierata in pubblico. La Lista Polverini è il terzo gruppo della Regione, con 13 consiglieri contro i 17 membri del Pdl e i 14 eletti del Pd. Nella ripartizione dei rimborsi elettorali pubblici, secondo i dati della Procura della Corte dei Conti, fa la parte del leone, con 2,3 milioni di euro, quasi a pari merito con il Pd, ai quali bisogna aggiungere i 5,5 milioni raccolti dai privati. A prescindere dai finanziamenti privati e dai contributi pubblici per le elezioni, a tutti i gruppi, compreso quello della Lista Polverini, sono attribuiti una serie di fondi proporzionali al numero dei consiglieri. Sommando le varie voci, il gruppo Polverini dovrebbe avere a disposizione una somma 2,6 milioni di euro ogni anno.
Dopo lo spettacolo messo inscena dall’altro partito che la sostiene, dopo la lotta all’ultima fattura tra il capogruppo uscente del Pdl Franco Fiorito e il suo sostituto Francesco Battistoni, probabilmente non c’era altra via di uscita mediatica possibile per la presidente. Grazie a quel discorso da donna della strada lady Polverini è riuscita ancora una volta nel miracolo di vestirsi da alfiere della trasparenza e della correttezza senza pagare il dazio dovuto: la pubblicazione su internet delle spese del gruppo consiliare che porta il suo nome.
Gli elettori laziali, che hanno scoperto con sgomento, solo grazie alla faida interna al Pdl, come venivano spesi i soldi pubblici dai consiglieri pdiellini, continuano a non sapere nulla sulle spese della Lista Polverini. Il Partito Democratico nei giorni scorsi ha pubblicato su internet il suo bilancio e ora il suo capogruppo Esterino Montino ha buon gioco ad attaccare la Presidente double face: “Il presidente non è credibile perché la Lista Polverini non pubblica i suoi bilanci”.
Ieri Il Fatto ha provato a chiedere a Renata Polverini, tramite la sua segreteria e il suo portavoce, i dati sulle spese della Lista che porta il suo nome ma il suo staff ci ha girato al capogruppo Mario Brozzi, che a sua volta ci ha risposto con un sms cortese: “sono impegnato in una riunione per gli ambulatori di quartiere con i medici e i farmacisti”. Sulla destinazione dei 2,6 milioni del gruppo del Presidente resta quindi il mistero. Un consigliere della Lista Polverini, l’ex sindaco di Valmontone Angelo Miele, spiega così il funzionamento delle procedure interne: “I consiglieri autocertificano le spese sostenute per l’attività politica e si prendono la piena responsabilità di quello che firmano. Solo a quel punto il capogruppo Mario Brozzi, paga le spese”. Il sistema sembra lo stesso che ha provocato sconquassi in casa Pdl ma quando lo si fa notare a Miele, lui non si scompone: “Il sistema secondo me è il migliore possibile perché pone sul consigliere l’onere della dichiarazione. Non c’è nessun metodo per eliminare il problema del consigliere disonesto. Per quanto mi riguarda io ho speso solo 30-40 mila euro”. Se tutti i consiglieri fossero stati così parchi, poco meno di due milioni di euro sarebbero rimasti nella disponibilità del capogruppo e tesoriere della Lista Polverini, Mario Brozzi, ex medico sociale della Roma. “Probabilmente a differenza del Pdl”, azzarda una spiegazione Miele, “abbiamo preferito organizzare manifestazioni a livello centrale e la spesa non è stata divisa sul territorio per ogni consigliere come hanno fatto altri”.
LA LISTA Polverini non è l’unico partito che deve ancora pubblicare il suo bilancio, anche l’IDV non lo ha fatto. Il capogruppo Ma-rio Brozzi è considerato una persona seria ma finché le spese non saranno pubblicate bisognerà fidarsi solo della sua parola e di quella di Renata Polverini. E c’è chi ricorda i precedenti non proprio esaltanti dell’ex leader dell’UGL, un sindacato famoso per i dati gonfiati dei suoi iscritti. Come abbiamo raccontato tre anni fa sul Fatto, Renata Polverini, prima di diventare un pasdaran della correttezza pubblica, ha mentito al fisco per risparmiare 19 mila euro di imposte. Nel 2002, l’allora giovane dirigente sindacale, ha comprato un appartamento con le agevolazioni prima casa dimenticando di dire al notaio al momento del rogito che possedeva già un’abitazione. Anche sulla capacità di Renata Polverini di distinguere tra interessi pubblici e privati, in passato qualcuno all’interno dell’Ugl aveva da ridire: alla fine degli anni novanta era circolato un documento nel quale si raccontava la strana storia di una società, la Alisan, che faceva affari con l’Ugl e che era amministrata dalla mamma.
C’è un solo modo per rimuovere questi brutti ricordi e per credere davvero alla nuova Renata Polverini che è apparsa alla Pisana lunedì. Il presidente deve imporre a Brozzi di tirare fuori i conti della sua Lista. Se Renata Polverini non è in grado di imporre al capogruppo della Lista Polverini di pubblicare su internet il rendiconto delle spese, non le restano molte alternative: o toglie il suo nome dalla Lista o si dimette davvero.

il Fatto 19.9.12
Intervista a Alessandra Mussolini
“Il Pdl? Siamo finiti in una voragine, ci inghiottirà tutti”
di Caterina Perniconi


Lunedì mattina è finita con la macchina in una voragine mentre accompagnava il figlio a scuola. Un tombino ha ceduto in via Spallanzani a Roma e Alessandra Mussolini c’è affondata dentro con tutte le ruote. In quel momento ha capito che non era quello l’unico buco nero della sua vita. “Con quel che è successo al Pdl nel La-zio è franato un mondo, ora ci finiremo tutti”.
Onorevole, questo scandalo non assomiglia di più a una guerra tra bande, ex An contro ex Forza Italia?
È chiaro che la bomba è scoppiata in un momento di crisi tra due realtà.
Di chi è la colpa?
La scissione di Fini ha lasciato delle conseguenze.
Ancora lui?
Parte da lì. E da un’amalgama mal riuscito tra i due ex partiti in alcuni territori.
Tipo nel Lazio.
Siamo stravolti. Ma come si possono fare delle cose così grossolane nel momento in cui la gente chiede assoluta trasparenza?
Già, come si fa?
Danno la colpa a Piero Marrazzo per aver diminuito i controlli, ma mica ci devono essere i controlli per non rubare. Non devono rubare e basta.
Limpido. Ma secondo lei perché non denunciava nessuno, erano tutti conniventi?
Sapevano, perché la modalità di spartizione del denaro pubblico era uno scandalo alla luce del sole.
Che andava bene a tutti.
La sensazione è quella. Neanche gli altri partiti sono intervenuti.
Renata Polverini doveva fare un passo indietro?
Credo che deciderà a seconda di come si metterà la situazione, ma ha reagito a testa alta. Lei è una realtà a se stante, aspettate e vedrete.
Grandi manovre.
È tutto in movimento. L’unica consolazione di questa storia è che alla fine si sono autodenunciati senza aspettare che arrivasse la magistratura.
E a quel punto sono volati gli stracci tra colleghi di partito.
Conseguenze di un’unione venuta male.
Paventa la scissione?
Per carità, a chi conviene andarsene in un momento di crisi? Guardate che fine ha fatto Fini con il suo gruppo di deputati, sta al 2% se ci arriva.
Scommetto non le dispiace. Che conseguenze allora per il Pdl nazionale?
Pesantissime. La gente sente parlare di Pdl alla tv e non fa distinzioni. Poi, dopo i casi Lusi e Belsito, diventa tutto un calderone. Eravamo già in difficoltà con le dimissioni di Berlusconi, il governo Monti e l’Italia dilaniata dalla crisi.
Vi serve una faccia nuova?
Per carità, se significa avere un altro Renzi proprio no.
Vi rottamerebbe?
Ma lui è da rottamare. Chiede trasparenza e poi è il meno trasparente di tutti, sul suo sito non c’è una riga sui costi di questa campagna.
Sempre e solo Berlusconi?
Condivido in pieno la sua pausa di riflessione. Così come le due ultime uscite su Imu e fiscal compact. È tutto così indeciso, dalla legge elettorale in giù, che non si può prevedere quel che succederà. Ormai noi politici siamo estremamente volubili, quasi vapore acqueo... il rischio è quello di una bella sublimazione e spariamo tutti. Non si può più sbagliare.

il Fatto 19.9.12
La questione è immorale
di Oliviero Beha


Lo sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli. E parrebbe un dettaglio, nel marasma generale che sta travolgendo la cosiddetta politica tradizionale, quello che ho letto giorni fa su La Stampa. Il presidente del consiglio regionale del Lazio, dove è in pieno e farsesco svolgimento la telenovela Polverini alias “sala Pichetti” (leggendaria e trucibalda pista da ballo capitolina...), Mario Abbruzzese, intervistato sull’altra vicenda delle autoblu con autista a spese ovviamente del contribuente ha risposto: “Di autoblu ne ho una e non due (come accusa il suo vice, ndr), e poi si tratta di un mio diritto. Uno dei benefit che spettano alla mia carica istituzionale”. Perché e dove si anniderebbe il diavolo in quello che certamente è un dettaglio in un Paese che quotidianamente soffre di scandali che toccano la politica, con un elenco lunghissimo di indagati e dunque una monumentale “questione penale” che rimanderebbe a detta di molti a una ancora più macroscopica “questione morale”? Che ce ne frega di quello che dice Abbruzzese, di una o due autoblu nel “magna magna”, se non è un Fiorito/Batman o prima un Lusi o ancor prima un Penati ecc., e quindi almeno per ora non è materia da Procura della Repubblica? Ebbene, il nocciolo o il diavolo è proprio questo: da quanto tempo non esiste più in Italia una “questione politica”, cancellata com’è stata dalla “questione penale” immediatamente e confusamente subito ricondotta alla “questione morale”? Dalla sentenza Andreotti, che ormai troppi anni fa ha costituito un specie di spartiacque, di qua il penale, di là il politico, se Riina ti bacia è un reato altrimenti è tutto a posto? Da quanto tempo il mantra di ogni politico che si rispetti, di stampo mediatico nazionale oppure locale, si riduce alla domanda pubblica “Dov’è il reato?” se c’è qualcosa che non va che lo riguardi? Con la conseguenza non ultima che poi si imputa alla magistratura di volersi sostituire alla classe politica “facendola fuori penalmente”. A parte il solito discorso sul fatto che sarebbe meglio occuparsi dei reati ipotetici commessi e non della volontà dei giudici di attribuirli per fini politici eversivi, resta fuori da tutto ciò lo specifico della politica. Ciò che differenzia un rappresentante del popolo da un professionista o lavoratore qualunque, un eletto da un elettore, un uomo politico da un cittadino qualunque. Ossia la responsabilità politica dei propri atti, compresa l’autoblu di Abbruzzese. Che è certo un benefit istituzionale, ma vissuto come un privilegio assai pesante politicamente nei confronti di un’opinione pubblica in piena crisi, scandalizzata dall’insensibilità dei propri rappresentanti. Questa palese insensibilità non è un fattore penale, né estetico cioè di gusto, né etico se non a un livello più profondo. È un colossale fattore politico. Come è una questione politica in senso pieno, cioè di una politica vuota che si riempie d’altro misurandosi solo sul suo coinvolgimento penale per dire appunto che “non c’è il reato”, la notizia di ieri che i partiti si negano alla certificazione esterna dei loro bilanci da parte della Camera. Ed è politicissima sia pure in senso mediato la mobilitazione dei dipendenti del Senato che vogliono evitare che si blocchino i loro scatti in busta paga... Sacrifici sì, ma per gli altri... La morale lasciamola fuori anche se ovviamente una politica senza morale finisce come sta finendo la nostra. Restiamo alla politica. Che si è dissolta da quando assistiamo a questo precipizio della responsabilità specifica mascherata da “questione penale”. Da quando tutto si è spostato sul terreno della legalità, del reato-non reato, delle aule di tribunale sovrimpresse neppure simbolicamente a quelle parlamentari. Da quando si ragiona solo di reati e sempre meno di responsabilità e dignità della politica. E ci si stupisce che Grillo cresca nei sondaggi, nel vuoto circostante?

La Stampa 19.9.12
Il “sistema Lazio” divorato dai camerati di merende
Il tramonto della destra romana tra fame di governo e volgari ruberie
di Mattia Feltri


ROMA La mirabile di sintesi è di uno che ci è cresciuto in mezzo: «Sono passati dal me ne frego d’opposizione al me ne frego di tutto. Anzi, me frego tutto». Potrebbe finire qui la storia della destra romana arrivata al Campidoglio (con Gianni Alemanno nel 2008) e in Regione (con Renata Polverini nel 2010) dopo un’esistenza ai margini politici ed esistenziali. Un’occasione irripetibile rottamata da sé in una gestione non indimenticabile della cosa pubblica e nello spettacolare e impadellato saccheggio dei denari regionali. Lo chiamavano sistema laziale poiché sindaco e governatrice provengono dai ranghi missini, e c’era qualcosa di particolarmente evocativo - i colli fatali e paccottiglia varia - e particolarmente affascinante nella rivincita dei fuoriusciti dalle catacombe, grazie anche a Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Ma se davvero era un sistema, e i dubbi abbondano, era un sistema basato su una persona: Andrea Augello.
Cinquantuno anni, prodotto del Msi, senatore del Pdl, gran galantuomo, gran conoscitore della capitale e della politica, Augello è stato il superbo organizzatore della campagna elettorale di Alemanno e Polverini. Oggi ci va giù con la schiettezza di chi è amareggiato: «Il sindaco non ha dato segnali di discontinuità reale». E sui camerati di merende: «E’ andato tutto ben al di là di quello che potevamo temere, conoscendo i personaggi. È un capitolo che conclude l’illusione di riprendere in mano la faccenda con strumenti ordinari. Ne servono di straordinari, bisogna sospendere il presepe di cariche nel partito, formare una squadra stretta come in campagna elettorale, cercare di giocarsi la partita nel tempo che rimane, se basterà». Non basterà, e lo sa anche Augello sebbene non lo dica. Negli occhi dei romani si riflette una classe dirigente crassa, sventata, famelica, inesperta. «Quelli di sinistra - dicono oggi i ragazzi della destra irriducibile di Colle Oppio sono stati abituati sin da ragazzi a gestire qualcosa, e quando rubano lo fanno con stile, con contegno, e non radono al suolo come abbiamo fatto noi».
La semina era cominciata a inizio anni 90 in una convivenza anche aspra fra destra sociale e destra protagonista, due anime di pretesa durezza e purezza, e fiorita nel più produttivo associazionismo, nelle periferie, all’università. Poi è arrivata la vendemmia, e s’è alzato il gomito. Questo popolo prima emarginato, pervaso di rabbia e senso d’inferiorità, ha dato sfogo a un bulimia monumentale, ha trasformato le occasioni conviviali - cioè la sede dell’affare e della congiura da Giulio Cesare fino a La Russa-Gasparri-Matteoli che si vedevano dal Caccolaro per tramare contro Gianfranco Fini - in una crapula liberatoria. «Sembriamo quelli che uscivano dai lager digiuni da così tanto che s’abbuffavano fino a morire d’indigestione», dice un anonimo ex An. E non è stato nemmeno uno show sfavillante, tutta roba minore, foto su Parioli Poket, ristoranti del viterbese. Non gli pareva vero - spifferano in comune - di ricevere telefonate di amici degli amici che caldeggiavano Andrea Carandini («E’ un piacere sapere che soffre»), uno da cui erano sempre stati snobbati. Un orizzonte semplicemente contenuto fra il senso di rivincita e lo champagne tracannato dalla scarpetta.
«No! Mi rifiuto! Quelli non sono di destra! Col cavolo! Sono solo ladri! Sapete quanto ci soffro? ». L’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, ora leader della Destra, se la cava così sebbene Franco Fiorito fosse stato suo uomo. E non importa se lui fu il prequel del sistema Lazio conquistando la Regione, e un prequel dissolto nella storiaccia dello spionaggio ad Alessandra Mussolini. Storace rivendica la bontà (controversa) della sua presidenza, e della Polverini dice che è «un bravissimo governatore e l’altro giorno si è dimostrata tosta. Abbiamo tagliato 20 milioni di spese in poche ore». È convinto sia un segnale sufficiente. Anche per la destra «rovinata da Gianfranco Fini». Su Alemanno il giudizio è sanguinoso: «In quattro anni non si ricorda una sola sua opera degna di menzione». Forse perché il sistema Lazio non è mai cominciato. E intanto la destra romana sta finendo.

La Stampa 19.9.12
Il raopporto Coldiretti / Censis
Un italiano su tre vive con i genitori
Il 42,3 per cento ha la madre che abita ad un massimo di trenta minuti dalla sua abitazione

qui

il Fatto 19.9.12
Miss Italia e il diritto di cittadinanza
risponde Furio Colombo


Come tanti ho notato la lettera al presidente della Repubblica di una giovane candidata a Miss Italia, che è nata a Roma, ha vissuto e studiato a Roma, ma non è italiana. E così ho appreso che il nostro Parlamento, anche senza l'inciampo della Lega, non ha risolto il problema. Vorrei una ragione, una spiegazione.
Vito

DOBBIAMO riconoscere alla diciottenne Nayomi Andibuduge il merito di avere trasformato per un istante Montecatini e l'evento Miss Italia in un momento importante per la vita pubblica e politica italiana. Nayomi è nata a Roma da genitori dello Sri Lanka immigrati da decenni, ha studiato a Roma, la sua vita è italiana come la sua cultura, l'italiano è la sua lingua madre e l'Italia è, finora, l'unico Paese della sua vita. Ma, dalla nascita, Nayomi è rimasta sempre straniera, legata al permesso di soggiorno dei genitori e vincolata a non cambiare mai residenza. Se i suoi genitori avessero commesso questo errore, anche solo per un tempo brevissimo, Nayomi, ragazza completamente italiana, avrebbe perduto per sempre la possibilità di diventare cittadina del suo Paese. Ma Nayomi ha le carte in regola, e la legge è questa: al compimento del diciottesimo anno, la giovane “straniera” ha un anno di tempo per chiedere la cittadinanza, e ha diritto di ottenerla se non ha commesso “errori”. Attenzione alla malevolenza della legge e alla cattiveria del legislatore: nessuno avverte gli immigrati del pericolo di lasciare, sia pure per un giorno, la residenza italiana. E nessuno avverte i giovani che compiono 18 anni, e credono che diventeranno automaticamente italiani, che la cittadinanza la devono avere e che hanno solo un anno di tempo per chiederla. Come si vede, tutto, in questa sequenza che la giovane Nayomi ha denunciato con una lettera chiara e ben scritta al presidente Napolitano. Tutto è fatto con la malevola intenzione di escludere, di respingere, di rendere difficile e, se possibile, impossibile, diventare cittadino italiano a chi è già italiano. In tanti, per puro buon senso, hanno chiesto: perché aspettare i 18 anni? La soluzione c’è, semplice e rispettosa: chi nasce in Italia è italiano (come accade negli Stati Uniti). La causa della brutta legge italiana e del clima barbaro che ancora circonda l'immigrazione è la Lega Nord per l'indipendenza della Padania, il partito razzista e xenofobo ora autodissolto nella corruzione e nelle reciproche espulsioni. Tragedie come quelle che continuano a ripetersi intorno a Lampedusa sono il tragico raccolto di una semina velenosa e ispirata da una cieca ossessione per “lo straniero”, ovvero una brutta caduta all'indietro nella storia che la Lega Nord di Bossi e Maroni ha imposto all'Italia. Dunque, grazie a Nayomi.

il Fatto 19.9.12
Scalfari illuminato dal Meridiano
Nel volume Mondadori pochi accenni (non troppo polemici) al cavaliere
di Silvia Truzzi


Non è facile parlare dei maestri: più che un pericolo, il metus è uno scivolone certo. La soggezione che si mischia al rispetto, la coscienza di essere semplicemente ciò che si è al cospetto di chi è e ha fatto tanto. Uno spirito che attraversando e scavalcando il Novecento, ha contribuito a scriverne un pezzo di storia. Compresa la per nulla celata insofferenza per il Fatto, reo di avere “un fucile a due canne”, da cui si spara “contemporaneamente un colpo sul Pdl e uno sul Pd”; e, più recentemente, di aver portato avanti con altri un “attacco di marca eversiva” contro il Quirinale. Nonostante le profezie mortifere sul dopo Berlusconi, questo giornale è ancora in edicola.
Tutti questi pensieri si mischiano scartando il pacco con la “A” rossa che precede il marchio Mondadori: dentro c'è un Meridiano fresco di stampa, in copertina l'immagine di Eugenio Scalfari, la celebre barba bianca e una Ruga sulla fronte. Sottotitolo: “La passione dell'etica, scritti dal 1969 al 2012”. Un onore riservato a pochi viventi, il Meridiano, mezzogiorno letterario tra l’alba e il tramonto dei grandi. Ancor più se preceduto da un saggio di Alberto Asor Rosa: “Il giornalismo e molto, molto altro”, dove l’autore di Scrittori e popolo spiega di non voler proporre una biografia intellettuale e politica di Eugenio Scalfari, bensì una lettura ragionata di testi.
SCRITTI che svelano “una formidabile curiosità intellettuale”. “Si potrebbe dire che Scalfari, contraddicendo Dante (un autore del resto da lui molto amato) non è stato contento di restare al quia (la citazione è appunto dal Canto di Manfredi, III Purgatorio ndr). Si è cioè costantemente spinto in una sorta di esercizio intellettuale altamente energetico, dall’osservazione e descrizione dei fenomeni all’interpretazioni dei loro modi e ragioni, in una sorta di catena esponenziale delle cause e degli effetti, in cui a ogni passaggio corrispondono una diversa ambizione e un diverso livello del discorso”. L’avviso è d’obbligo: “Le storie dell’Autore e dell’Introduttore di questo libro non avrebbero potuto essere più diverse. Forse il punto di contatto maggiore fra i due è rappresentato dal fatto che essi non hanno mai, o quasi mai, smesso di guardarsi negli ultimi decenni”. Il saggio introduttivo del professore palindromo ha una dedica (azzardiamo: pleonastica?): a Eugenio Scalfari. Il volume nella sua interezza non ne ha una in calce, bisogna andarla a scovare nel testo, dedicato alle sue quattro donne: “Serena, Simonetta e e le mie due figlie”. È, naturalmente, un volume celebrativo. Del resto l’autore in più sedi non ha fatto mistero della propria “albagia”, parola desueta che elegantemente – Eco di un altro maestro, non meno venerato – ammette l’amore di sé: nel volume sono contenuti stralci di Incontro con Io e Scuote l’anima mia Eros, in cui il tema dell’ego, è ampiamente sviscerato.
INEDITO è il Racconto autobiografico che inizia nell’aprile del 1924 a Civitavecchia, in un palazzo della piazza centrale dove s’udirono i primi vagiti del piccolo Eugenio. Ci sono i panorami dell’infanzia, gli orizzonti liceali di uno studente “un po’ secchione” e apostrofato “Napoli” dai compagni di classe di Sanremo, dove nel frattempo si era trasferito. C’è la famiglia, la mamma romantica e dolce, il padre, dirigente al Casinò alla fine degli anni Trenta, che a 22 anni si convinse a mandarlo a Chianciano a fare il croupier per cinque mesi. E poi il sentimento poliedrico e contemporaneo per le due donne della sua vita, che si sono divise, soffrendo, l’amore del giornalista: “Una m’ha insegnato a non farmi corrompere dal potere, l’altra a non disperare della rivoluzione”. La storia personale e quella pubblica corrono, ovviamente, su un binario unico e su questo treno della memoria, dai vagoni affollatissimi, è normale incontrare Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo, Arrigo Benedetti, tantialtri amici, giornalisti, scrittori, industriali, ministri. Fino alla prima Repubblica. L’ultima frase è dedicata alla conclusione della parabola andreottiana (“negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un’epoca tramontata per sempre”). E una chiosa: “Nel 2008 è morto Carlo Caracciolo. Vivrà nella mia memoria finché vivrò”. Il Cavaliere? Se ne trovano tracce nella selezione di articoli usciti su Repubblica. Non sono molti. Silvio Berlusconi, adorabile canaglia; Scende in campo il ragazzo Coccodè; Il grande seduttore; Meno male che c’è Fini; Il successo della destra e la sconfitta del suo capo. Sono, immaginiamo, un viaggio che tocca tappe diverse dell’avventura berlusconiana. Dagli albori - 20 luglio 1993 - in cui Scalfari, dopo aver fatto le pulci all’impero del Cav e alla fruttuosa amicizia con Craxi, confessa: quell’adorabile mascalzone mi sta simpatico. Al crepuscolo – 31 ottobre 2010 – di un uomo “gravemente ammalato, l'attrazione verso donne giovani e giovanissime è diventata una dipendenza che gli altera la mente e manda a pezzi i suoi freni inibitori. Dovrebbe esser seguito da medici e da psico-terapeuti”. Ma quest’ultimo pezzo, “Il bunga bunga che segna la fine di un regno”, nel Meridiano Mondadori non c’è.

il Fatto 19.9.12
Università, chi dà i voti ai prof?
di Angelo d’Orsi


Uno spettro si aggira per l’università italiana: si chiama “Terza Mediana”. Che un giorno emetterà i suoi vagiti (o strepiti inconsulti), qualcuno ci scommette, altri pensano il contrario. Siamo nelle viscere profonde della “riforma” Gelmini-Profumo. Ma il mondo accademico, non contento delle bastonate ricevute da una campagna che lo ha dipinto come dedito alla corruzione, al fannullonismo (ve lo ricordate il Brunetta fantuttone?) se non addirittura alla crapula, si divide, con gli uni pronti ad afferrare l’osso che il collega Profumo getta (a taluni) e a condannare ai margini del campo tutti gli altri. In generale, si sa, è il comparto scientifico (le scienze pretese “esatte”), a fare la parte del leone; agli umanisti restano le briciole. La “riforma” ha partorito il mostro, l’ANVUR, l’Agenzia della Valutazione, una entità che sembra perfetta per incarnare gli “arcana imperii” evocati da Tacito. Chi decide, chi sceglie, in nome di quale autorità morale e intellettuale? Non si sa. Un’aura di segretezza avvolge il meccanismo della “valutazione”, che, proprio grazie alla campagna mediatica di cui sopra – sostenuta anche da docenti come Giavazzi, Alesina, Perotti, sulla base di dati diciamo “discutibili” – è stata accolta dalla gran parte della pubblica opinione come il toccasana per dare una “regolata” a questa masnada di professori ribaldi.
ORA FINALMENTE saranno valutati in modo oggettivo, e farà carriera chi lo merita. Ecco, il grande totem del Merito, associato alla suprema divinità del Mercato. Mentre dunque l’Università riapre dopo la pausa estiva, tra mille difficoltà, si trova ad affrontare questi nuovi mostri. E accanto alle “mediane”, si parla di “semafori”, quando, per rendere ridicolo il tutto, non ci si butta a capofitto nell’inglese, convinti di rendere più “moderno” il passaggio. Verso dove? Verso il nulla rivestito di smalto, per richiamare un bell’aforisma di Gottfried Benn.
Dunque, un’oligarchia che agisce in nome della totalità del corpo docente, ma non per suo conto, sta decidendo come valutare i “prodotti della ricerca”, ossia come consentire la progressione di carriera dei docenti, come far accedere i giovani che premono, se, come capita sempre più sovente, non hanno mollato, emigrando, oppure hanno cambiato prospettiva di vita e di lavoro. Tutto questo seguendo il mito dell’internazionalizzazione, che è un semplice piegarsi al modello statunitense, quasi che le università le avessero inventate aldilà dell’Atlantico. Mai nella storia italiana era accaduto che un governo facesse una intromissione così rozza e brutale, seppur ammantata di smalto (appunto), nei criteri di valutazione universitaria. Come si fa a non rimpiangere Giovanni Gentile?
Dopo che le discipline “dure” si sono buttate a capofitto nei famigerati “criteri bibliometrici” (ossia più sei citato più vali, il che equivale a un incentivo agli accordi tra colleghi: tu citi me e io cito te, e diventiamo importanti!), le materie umanistiche hanno vagamente resistito, ora rischiano di piegarsi a una logica che nulla ha a che fare con la scienza e con la cultura.
IL DECRETO sull’abilitazione nazionale prevede tre “mediane”: monografie; articoli su rivista scientifica e contributi in volume; articoli su rivista scientifica “di fascia A”: per l’ammissibilità alla abilitazione al candidato basta il possesso di una sola di queste mediane. Essere in fascia A, dunque, significa che puoi non aver pubblicato mai un libro, o null’altro che un articolo che, in quanto collocato nella “prima divisione”, a prescindere dal suo valore, e al limite senza neppure essere valutato, ti accredita come studioso meritevole.
Insomma, qualcuno decide, in base a criteri imperscrutabili, quali siano le riviste elette all’empireo segnato dalla lettera A, ossia la mediana n. 3 sancisce una disuguaglianza tra i concorrenti, talmente clamorosa che Valerio Onida, presidente emerito della Suprema Corte, ha steso un ricorso, a nome dei costituzionalisti italiani (una categoria che di legge qualcosa capisce), contro un’aberrazione giuridica, oltre che scientifica. Purtroppo alcune società accademiche, in base a calcoli di potere e di conventicola, hanno steso un patetico appello al “mantenimento della terza mediana”.
Tra esse, ahinoi, c’è la SIS-SCO, la società dei contemporaneisti, che da anni si segnala per il suo discutibile “modernismo”; del resto l’appello è stato steso dal suo ex presidente. Un socio, Lucio D’Angelo (Università di Teramo) ha osato gridare: “il re è nudo”, facendo notare che se passasse la terza mediana “si arriverebbe all’aberrante risultato che un articolo di 15 pagine pubblicato in una rivista della fascia A verrebbe equiparato automaticamente, senza essere letto, a dieci saggi di 30 o 40 pagine ciascuno apparsi in altre riviste o in volumi collettanei oppure a due monografie, anche se di 400 pagine ognuna”.
COME SPIEGARE una pretesa del genere, se non come una furbata dei boss delle discipline di far passare un loro protetto di scarso valore?
I criteri di valutazione ci devono essere, ma non possono essere inventati da esperti di nomina politica, e con valore retroattivo; devono essere equi e sensati, condivisi dalla comunità scientifica, e non solo da alcune lobby, magari corrive alle centrali del potere. E se quella della terza mediana (ma in generale della “riforma”) è una bandiera di progresso, io mi dichiaro francamente conservatore.

Corriere 19.9.12
Pd e Pdl: il giudizio della storia
La Seconda Repubblica al vaglio «terzo» di due accademici
di Aldo Cazzullo


Se la Seconda Repubblica è davvero finita, allora se ne può scrivere la storia. L'hanno fatto due accademici che hanno il pregio di saper affrontare la contemporaneità e di usare un linguaggio rispettoso del grande pubblico: Simona Colarizi, storica del Novecento con cattedra alla Sapienza di Roma, e Marco Gervasoni, che a 42 anni ha già all'attivo pubblicazioni importanti sugli anni Ottanta, Craxi e Mitterrand.
La tela di Penelope, che Laterza manda in libreria domani (pp. 275, 18), è un libro riuscito, sin dal titolo. Che denuncia l'incompiutezza della svolta maturata alla fine degli anni Ottanta con il crollo del Muro e deflagrata all'inizio dei Novanta con Tangentopoli, senza che negli anni successivi la politica riuscisse a riformare le istituzioni e a porre fine all'eterna transizione italiana. Il motivo è individuato con chiarezza: è cambiato (più volte, oltretutto) il sistema elettorale, ma non è cambiata la Costituzione; il bipolarismo, sancito dai referendum di Mario Segni, non è stato accompagnato da una riforma istituzionale, per cui la nostra è rimasta una Repubblica parlamentare, senza che i governi potessero avere la coesione e i poteri necessari a incidere sugli antichi mali italici, a rilanciare lo sviluppo economico, a dare rappresentanza agli interessi e agli umori della società.
Il saggio ha un'impostazione che si potrebbe definire terzista. Individua nella mancata legittimazione reciproca tra i due schieramenti una delle ragioni dei ritardi istituzionali e del clima di scontro perenne che ha segnato questi anni. Denuncia l'anomalia berlusconiana, ma anche l'inadeguatezza dell'opposizione di sinistra, a cominciare dal vizio d'origine, indicato nell'indulgenza con cui Mani pulite affrontò le responsabilità del Pci-Pds e nel sostegno che il partito ex comunista garantì alle procure. E, tra le due opposte correnti critiche dell'atteggiamento del centrosinistra verso Berlusconi — demonizzazione o eccessiva tolleranza se non oggettiva complicità —, la scelta degli autori sembra orientata decisamente sulla prima.
Il pregio del libro — aderire alle cose, raccontare sulla base di citazioni di prima mano, recuperare i tasselli della memoria collettiva compresi quelli rimossi — rischia talora di diventare un limite, nei passi in cui il ritmo appare un po' frammentato, a discapito dell'impianto complessivo. A parte qualche oggettiva imprecisione — il presidente brasiliano Collor de Mello non era proprietario di Rede Globo, anche se la famiglia Marinho lo sostenne; nel '94 la sinistra non tenne solo Genova ma anche Torino, dove cedette sì il collegio di Mirafiori come viene opportunamente ricordato, ma tra Camera e Senato vinse pur sempre 8 dei restanti 11 collegi —, qualche interpretazione appare discutibile. Come quando la fine del primo esecutivo guidato da Berlusconi viene collegata direttamente con l'avviso di garanzia — «nessun dubbio che il risultato sarebbe stato la caduta del governo» —, mentre viene lasciata un po' in ombra la rottura con la Lega sulla riforma delle pensioni; che a ben vedere è anche alla base dell'ultima caduta del Cavaliere, nel novembre scorso, che il libro racconta un po' frettolosamente. Né convince appieno la lettura delle elezioni del 2008: scrivere che «la coalizione guidata da Veltroni non era riuscita a catturare l'elettorato della Sinistra "arcobaleno" crollata al 3%» significa non cogliere la dinamica di quel voto, che vide un flusso di consensi verso destra: appunto dalla sinistra radicale al Pd, dal Pd all'Udc, dall'Udc al Pdl, dal Pdl alla Lega.
Non c'è dubbio però che La tela di Penelope sia un libro prezioso. Un vero e proprio «memento». Per noi, e per chi verrà dopo di noi. Perché allinea scandali cui in molti si erano assuefatti. Fissa nella memoria errori da non ripetere. Ripercorre vicende che tendiamo a rimuovere. Sin dal momento in cui tutto cominciò. All'inizio dell'89 l'Italia festeggiava numeri da record: più 6 per cento della produzione industriale; più 3,5 per cento del Pil, mezzo punto sopra il dato della Germania. Certo, la classe politica appariva vecchia e impopolare, a Roma gli scandali si accavallavano, ma nel voto amministrativo nella capitale la Dc del premier Andreotti vinse senza problemi; e ancora nel 1992 il quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pli conquistò la maggioranza assoluta dei seggi. Poi tutto crollò all'improvviso. Resta aperto l'interrogativo se l'attuale assetto bipolare imperniato su Pd e Pdl abbia un futuro, o se la storia stia per ripetersi. Di sicuro neppure la lettura — raccomandabile — de La tela di Penelope, una volta denunciati i mali della Seconda Repubblica, può indurci a rimpiangere la Prima; quando l'alternanza era sconosciuta, e il voto serviva solo ad assegnare le carte di una partita giocata privatamente da segreterie e nomenclature nel chiuso del Palazzo.

La Stampa 19.9.12
Michael Haneke
“L’amore è un thriller fino alla morte”
Il regista Palma d’oro a Cannes con “Amour” sull’eutanasia
di Fulvia Caprara


VIENNA. Lui - Trintignant «Ho visto me stesso per la prima volta in un film» dice Jean Louis Trintignant, 81 anni, leggenda dello spettacolo francese, parlando di Georges, l’anziano professore di musica, protagonista di Amour. «Avevo deciso di non recitare più al cinema e dedicarmi al teatro, ma Haneke mi ha offerto una parte eccezionale» Lei - Riva Anche Emmanuelle Riva, 85 anni, dice di essersi «totalmente identificata nel personaggio», quello di una ex insegnante di pianoforte con un debole per Schubert, costretta da una paralisi alla sedia a rotelle prima e al letto poi, e si ritrova a dipendere interamente dal marito Michael Haneke, regista austriaco Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes con il suo «Amour».
Nel salotto dello storico «Hotel Sacher», di fronte al Teatro dell’Opera, sopra il bar dove si serve la migliore versione della celeberrima torta, Michael Haneke, vincitore, nel maggio scorso, per la seconda volta, della Palma d’oro del Festival di Cannes, smentisce la fama di autore inespugnabile. Merito, forse, di Amour, il film (nelle sale dal 25 ottobre distribuito da Teodora) in cui racconta la storia di un perfetto amore coniugale aggredito dalla malattia terminale di lei. Quando il dolore e la sofferenza toccano la massima soglia, l’unico scampo è scegliere di dare la morte, anche se chi se ne va è l’unica ragione di vita. Al centro della scena, per l’intera durata del film, una coppia di attori impareggiabili, Jean Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, capaci di rendere appassionante come un thriller una vicenda che, sulla carta, metterebbe in fuga chiunque. E invece, fino all’ultimo istante, si resta lì, inchiodati a guardare l’immensa fatica dell’essere anziani e malati nel mondo di oggi.
Da che cosa nasce l’idea del film?
«Mi è successo di dovermi misurare con un dolore simile, di una persona di famiglia, che ho molto amato, e per cui ho molto sofferto. Ho fatto delle ricerche e comunque quella che racconto non è una situazione insolita».
Nel finale di «Amour» il marito pone fineallesofferenzedellamoglie. Qual è la sua posizione sull’eutanasia?
«Non voglio esprimere la mia opinione sull’argomento, ogni spettatore è libero di farsi la propria. I film devono aprire un dialogo, bisogna obbligare il pubblico a cooperare. E questo vale anche per la letteratura, un libro che spiega tutto è un libro morto. Chi pensa di spiegare il mondo in 90 minuti sta solo prendendo in giro qualcuno».
Che rapporto ha con la fede?
«Non parlo nè della mia sessualità nè delle mie abitudini religiose, sono cose che riguardano solo me».
La chiesa cattolica condanna l’eutanasia. Pensa che in Italia, dove la voce del Vaticano è più vicina, «Amour» solleverà polemiche?
«Sono ingerenze che non mi interessano. La scelta del protagonista può essere interpretata in modi diversi, come una forma d’amore estremo oppure di egoismo. D’altra parte la realtà è spesso ambigua e contraddittoria e l’arte deve cercare di rifletterla, solo così può nascere il confronto».
A Cannes ha dedicato la Palma a sua moglie, alludendo a una vostra vicendevole promessa. Si riferiva alla decisione presa nel film da Trintignant?
«No, parlavo del fatto che ci siamo giurati che, mai e poi mai, qualunque cosa accada, nessuno di noi due sarà chiuso in una casa di riposo, conosciamo queste situazioni e sappiamo che finire in un ospizio è per tanti anziani un incubo. No, non parlavo di eutanasia, e credo che mia moglie non sarebbe affatto felice se mi sentisse dire che abbiamo deciso di ucciderci a vicenda».
Come ha convinto Trintignant a tornare sul set?
«Non è stato difficile, la mia produttrice lo conosce, lo ha invitato alla prima dell’altro mio film Il nastro bianco e lui ne è stato entusiasta. Così gli ho proposto Amour. All’inizio, dopo aver letto il copione, era un po’ scioccato, poi ha accettato. Senza di lui non avrei potuto girarlo, nessuno avrebbe fatto meglio il suo ruolo».
Trintignant ha abbandonato le scene in seguito alla tragica morte della figlia Marie, uccisa a botte dal compagno Bertrand Cantat. Ne avete mai parlato?
«No, non abbiamo mai affrontato l’argomento, lui non lo ha fatto e io nemmeno, credo che ne parli solo con amici intimi e che io non avessi alcun diritto di intromettermi. Trintignant è una persona particolare, affascinante, riservata, delicata. Un uomo interessante dal punto di vista umano, oltre che un attore bravissimo».
Ha ricevuto la Palma dalle mani del presidente di giuria Nanni Moretti. Vi conoscevate?
«Conoscevo il suo cinema, soprattutto Caro diario che ho molto amato. Quando ho saputo che sarebbe stato lui il presidente, ho pensato subito che le cose per me non sarebbero andate bene. Sapevo che, quando era stato membro della giuria e avevo presentato il mio film Funny games lui aveva detto che si sarebbe dimesso se mi avessero dato un premio. E invece stavolta è stato tutto diverso, ho saputo che al film avrebbe dato anche altri riconoscimenti».
In «Funny games» c’era molta violenza, come spesso nel suo cinema. È sempre necessaria?
«Dipende dall’argomento, sono contrario al cinema che fa della violenza un articolo consumistico».
Di lei si dice che fa film gelidi, implacabili, disturbanti. «Amour» è dolce e appassionato. A che cosa si deve quest’inversione di tendenza?
«Forse sono diventato più mite perchè sono più anziano, aspettiamo di vedere il prossimo».
Sappiamo che sta già scrivendo, che cosa racconta?
«Non è il caso di parlare di uova non ancora covate».

Corriere 19.9.12
«Vidi Eluana e capii che non aveva senso vivere così»
Tondo consentì il ricovero a Udine, dove poi la ragazza morì: sembrava un gomitolo di lana, nessun collegamento con il mondo
di Angela Frenda


MILANO — «Posso usare una metafora? Sembrava un gomitolo di lana, raggomitolata su se stessa. Nessun collegamento con il mondo. Nulla». Renzo Tondo è un signore di 56 anni alto e solitamente gioviale. Ma la sua voce si incrina quando ricorda quella mattina del novembre 2008 in cui è salito su un'auto privata e dal suo paesino, Tolmezzo, è andato a Lecco, alla casa di cura delle Suore della Misericordia «Beato Luigi Talamoni», a vedere Eluana Englaro.
Di questo episodio Renzo Tondo finora non ha mai voluto parlare. «Per rispetto a Beppino Englaro, mio caro amico». E perché lui, all'epoca presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, ha consentito che poi Eluana fosse trasferita nella clinica di Udine «La Quiete» per la sospensione di alimentazione e idratazione, e dove poi è morta il 9 febbraio 2009. Come andò, Tondo lo racconta oggi: «Erano le prime ore del mattino. Partii da Tolmezzo per Lecco, accompagnato da un amico. Beppino Englaro mi aveva dato l'ok, e io volevo rendermi conto con i miei occhi di quale fosse la situazione».
Che cosa vide?
«Fu una forte emozione. La scena che mi si parò davanti era tremenda. Provai un senso di impotenza. Ebbi anche la certezza che quella ragazza oramai non stava vivendo in modo dignitoso. Pensai: stare così da tutti questi anni... Non ha senso. Non era certo l'Eluana delle foto, mi creda. Se fosse stata mia figlia mi sarei comportato allo stesso modo di Beppino Englaro, lo dissi anche a Silvio Berlusconi che ai tempi mi chiese incuriosito cosa avevo provato quel giorno».
Lei, da governatore del Friuli Venezia Giulia, ha aiutato il papà di Eluana a sospendere l'idratazione e l'alimentazione. Ne va orgoglioso?
«Io sono orgoglioso di aver contribuito con una sofferta azione personale all'affermazione dello stato di diritto: ho consentito che la sentenza della Corte di Cassazione avesse un riconoscimento da parte della regione che guidavo. Orgoglioso di aver tenuto un profilo istituzionale e di non aver fatto valere solo i miei convincimenti, che poi coincidevano con quelli di Beppino Englaro. Solo oggi però posso dire che la pensavo come lui. Ai tempi, invece, sarebbe stato controproducente».
Ma avrebbe fatto come lui?
«Guardi, con Englaro ci conosciamo da tempo. Proveniamo tutti e due dall'esperienza dei socialisti della Carnia. E lui me l'ha spiegato, una volta, il suo ragionamento. Mi disse: "Renzo, per me questa è una battaglia di civiltà. Voglio che la prossima volta un genitore non si trovi nella mia situazione". Poi, se mi chiede se avrei fatto la stessa cosa, le dico che ritengo che sul fine vita non si debba legiferare. Come scrisse ai tempi anche Angelo Panebianco sul Corriere, è un tema che si deve lasciare nella zona grigia, dove solo chi è vicino alla persona può sapere e decidere».
Ha visto il film di Bellocchio su Eluana, «Bella addormentata»?
«Sì, e non mi è piaciuto. L'ho trovato lento e troppo cerebrale»
Senta Tondo, lei ha nella sua coalizione Udc e Lega insieme. Un piccolo laboratorio politico. Ma la vicenda di Eluana non ha danneggiato i rapporti con l'Udc?
«No, perché ho solo fatto rispettare la legge. E poiché sono un uomo del popolo, ma anche un moderato, sono riuscito a non far venir meno la fiducia verso di me. Pensi che quando misi insieme Lega e Udc, nel 2008, mi criticarono tutti, anche Berlusconi».
E invece lei vinse con il 53 per cento dei consensi, contro l'uscente Riccardo Illy.
«Un successo. Nella mia regione il Pdl oggi è unito intorno a me, perché quando si è chiari e si rispetta il proprio mandato, i cittadini apprezzano. La nostra è una regione virtuosa gestita senza scialacquare. Peccato che invece il Pdl nazionale sia ora in una fase difficile. Io sono per Alfano, e comunque per fare le primarie. Serve un ricambio. La mancanza di meritocrazia nelle candidature non ci ha certo aiutato... E a Berlusconi dico: faccia come mio padre, che 25 anni fa mi passò le chiavi dell'albergo di famiglia. E io gli dissi: però resta a tenerci compagnia, a berti un bicchiere di vino...».

Corriere 19.9.12
La rabbia dei musulmani, proviamo a cercarne le cause
risponde Sergio Romano


«Non tutti i musulmani sono terroristi ma tutti i terroristi sono musulmani», scriveva, mi pare, Oriana Fallaci dopo l'11 settembre. E sarebbe fin troppo scontato, in questi momenti di isteria collettiva, attribuire e riconoscere un che di profetico a tale frase. Ma a voler guardare bene dentro al mondo islamico, senza quelle pericolose e semplicistiche generalizzazioni reciproche, non si può non notare come la mala pianta del fanatismo religioso non abbia ovunque attecchito allo stesso modo. Le scrivo questo per chiederle se sia possibile approfondire le diversità esistenti all'interno di una fede per certi versi fin troppo radicale come quella musulmana. In cui però spesso ci si dimentica la differente collocazione etnico-geografica dei popoli coinvolti (araba, africana, indonesiana o albanese che sia).
Mario Taliani

Caro Taliani,
Non erano musulmani gli anarchici francesi della «bande à Bonnot», responsabili di numerosi attentati in Francia agli inizi del Novecento, e gli anarchici italiani che fecero saltare in aria il teatro Diana a Milano il 23 marzo 1921 (21 morti e 80 feriti). Non erano musulmani i membri della Rote Armee Fraktion, delle Brigate Rosse, dei Nuclei armati proletari, di Action Directe. Non erano musulmani, nella Palestina mandataria, i militanti della Banda Stern e dell'Irgun Zvai Leumi. Non erano musulmani i seguaci della setta religiosa Aum Shinrikyo che diffusero gas sarin nella metropolitana di Tokyo provocando 12 morti e 6.000 intossicati. Non erano musulmani i guerriglieri dell'Irish Republican Army (Ira) e i separatisti baschi dell'Eta. Come ha ricordato il Papa nel suo recente viaggio a Beirut, il fondamentalismo ha inquinato, in questi anni, tutte le grandi religioni monoteiste. Aggiungo che anche il nazionalismo, come è accaduto persino nel democratico Occidente, può essere vissuto come una fede religiosa e divenire spaventosamente violento. Abbiamo forse dimenticato gli 8.000 musulmani uccisi a Srebrenica nel luglio del 1999 dai serbi del generale Mladic e le stragi «minori» di cui furono responsabili in quegli anni le milizie croate?
È vero che nella graduatoria del fanatismo religioso e dei comportamenti violenti l'Islam è balzato in questi anni ai primi posti. Ma vi sono alcuni fattori strettamente collegati di cui dovremmo tenere conto. In primo luogo non è ragionevole attribuire alle intere società arabe le esasperate manifestazioni di rabbia degli scorsi giorni. Quelli che scendono in piazza e, a maggior ragione, quelli che danno l'assalto alle ambasciate straniere, sono pur sempre una piccola minoranza. È vero che le minoranze diventano spesso aggressive e violente quando sanno di poter contare sul consenso più o meno attivo e partecipe di settori molto più consistenti della pubblica opinione. Ma allora sarà bene cercare di comprendere perché tanti cittadini arabi assistano silenziosamente, senza condannarle, a queste manifestazioni di rabbiosa violenza. Se scrollassi le spalle e sostenessi che questo accade «perché sono arabi e musulmani», darei una risposta partigiana, fondamentalmente razzista e politicamente inutile. Se scavassimo più a fondo, invece, giungeremmo probabilmente alla conclusione che anche questa fase della storia arabo-musulmana ha cause più concrete e specifiche. Il problema non è tanto religioso, quanto politico, culturale e identitario. Tutto ciò che è stato sognato e tentato in Medio Oriente dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale è tragicamente fallito. La nazione araba non esiste. Lo Stato arabo si è dimostrato incapace di dare soddisfazione alle esigenze dei suoi cittadini. La presenza di Israele nella regione è percepita come una sorta di usurpazione coloniale. Tutte le guerre sono state perdute. I frequenti interventi militari dell'Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti sono stati, per l'orgoglio arabo, esperienze umilianti. E la religione è diventata l'estremo rifugio di popoli amareggiati e frustrati. In queste circostanze un'offesa all'Islam diventa un intollerabile affronto alla identità araba. Per curare queste malattie non esistono terapie sicure. Ma se la diagnosi fosse semplicemente «fanatismo islamico», peggioreremmo il male.

Repubblica 19.9.12
Perché è ancora attuale la breccia di Porta Pia
risponde Corrado Augias


Gent. Augias, il 20 settembre, anniversario di Porta Pia, è oggi fiammella, ma fu fiamma che finì di bruciare quel potere temporale della Chiesa di cui nel 1962 il cardinal Montini – futuro papa Paolo VI – definì provvidenziale la fine. Poi ci fu, nel 2010, la presenza del cardinal Bertone a Porta Pia insieme al presidente Napolitano. Le sue parole su «coloro che qui caddero» e la presa d’atto che «la comunità civile e religiosa desiderano praticare in Italia una vasta collaborazione», parve un discorso che chiudeva, più ancora del Concordato del 1929, la questione di Roma capitale e dell’Unità italiana. A me ha dato l’impressione che la Chiesa volesse fissare un punto fermo per dire quantomeno: «D’accordo. Che volete di più dal Soglio romano? ». E così sia. Insomma pare che oggi anche la Chiesa si sia convertita a considerare che un confuso amalgama dove tutto si mescola incontra parecchie sue convenienze pratiche. Sembra insomma aver deciso che tutto sommato non le è andata così male e che “tutto è bene ciò che finisce bene”.
Giovanni Moschini

Annosa questione quella di Porta Pia, non sono sicuro che i più giovani sappiano bene di che cosa si parli citando quel nome e la data relativa, 20 settembre. È bene o male che di quegli eventi drammatici resti così incerta memoria? Qualche aspetto positivo c’è. Il lungo processo che si concluse con quattro cannonate alle mura aureliane cento metri a occidente della Porta causò un trauma profondo, tolse di mezzo i cattolici per mezzo secolo dalla vita politica del Paese (Non expedit).
Annegarlo in un semioblio, smorzandone la forza che allora fu dirompente, può aiutare la convivenza tra italiani, sempre così difficile. Anche gli aspetti negativi però sono numerosi. La breccia di Porta Pia fa parte del nostro processo unitario e lo conclude. Che Roma dovesse diventare capitale del Regno d’Italia ci voleva poco a capirlo. Fu l’ostinata
paura di Pio IX a impedire che le ragionevoli proposte del Conte di Cavour non avessero esito. Lui morì troppo presto, povero Conte, e non poté vedere come finì la faccenda; ma che sarebbe finita a cannonate un po’ l’aveva previsto. La ferita venne risanata solo nel febbraio del 1929, a caro prezzo per l’Italia. Nuovo balsamo venne aggiunto nel 1984 e anche lì dovette correre parecchio denaro per arrivare a firmare un secondo Concordato. La tagliola dell’8 per mille ne è un lascito pesante. In ogni caso la storia, bella o brutta che sia, va ricordata. I sopravvissuti dell’aristocrazia nera celebrano messe di suffragio per quella giornata; tutti gli altri possono considerare con qualche rammarico che la formula di Cavour “Libera Chiesa in libero Stato” non ha ancora trovato piena applicazione.

Repubblica 19.9.12
“C’è un papiro che cita la moglie di Gesù


ROMA — In un frammento di papiro in copto del quarto secolo conterrebbe una frase mai esistita nelle Sacre Scritture: «Gesù disse loro: “Mia moglie...». Stavolta Dan Brown non c’entra niente ma la scoperta è di una storica della Cristianità antica alla Harvard Divinity School, Karen L. King e il frammento è stato presentato nel corso di un convegno internazionale di Studi Copti a Roma. La notizia è riportata sulla prima pagina del New York Times on line (c’è anche l’immagine del piccolo frammento il cui proprietario ha chiesto l’anonimato). La King ha dichiarato che non è certo la prova che Gesù fosse realmente sposato (il testo è stato scritto secoli dopo) ma la scoperta confermerebbe: «Antiche tradizioni secondo cui Gesù era stato sposato».

Repubblica 19.9.12
Veruschka. La signora dei sogni
Esce in Italia l’autobiografia della celebre modella, amata dagli artisti
“Sono sempre stata in fuga: sentivo che se mi fossi fermata sarei affogata” “Io dal nazismo ad Antonioni”
di Natalia Aspesi


C’è stata una vita in cui, bambina di 5 anni, passeggiava per il parco del castello di famiglia, nelle Prussia Orientale, tenuta per mano dall’allora ministro degli esteri Joachim von Ribbentrop. C’è stata una vita in cui, a 57 anni, abitava a Brooklyn in un ex panificio, assieme a Micha, un ragazzo di trent’anni più giovane, raccogliendo gatti randagi e preparando uova strapazzate per un barbone senzatetto che era stato un importante art director. C’è stata una vita in cui, finita la seconda guerra mondiale, a nove anni, la maestra l’aveva additata alle compagne come ‘la figlia di un assassino’, cioè di Heinrich conte di Lehndorff-Steinort, che aveva partecipato al tentativo fallito di assassinare Hitler nell’operazione Walchiria del 20 luglio 1944. Aveva 35 anni, fu arrestato, condannato a morte e impiccato il 4 settembre di quell’anno.
C’è stata una vita in cui, a 42 anni, a Parigi, ancora legata allo scrittore e regista François Weyergans (premio Goncourt nel 2005) ha tentato per la terza volta il suicidio, gettandosi dalla finestra di casa. Ma c’è stata anche una vita luminosa e cupa, vorticosa e funesta, in cui questa nobile signora prussiana, Vera Lehndorff, si inventò un nome pseudo russo con cui divenne una celebrità di quegli anni, ancora oggi indimenticata: Veruschka, la modella di un tempo in cui le ragazze da copertina erano singolari ed estreme, come Twiggy, come Penelope Tree, come la stessa Veruschka, protagoniste e coinventrici delle visioni dei grandi fotografi, autentici artisti, che riuscirono allora a sottrarre la moda alla sua mercificazione, per trasformarla in sogni e visioni. «Avevo capito che se volevo emergere dalla massa delle modelle, dovevo rendermi indimenticabile quando mi presentavo, o durante un servizio fotografico. Volevo apparire come nessuno appariva». Dice Vera-Veruschka. Erano gli inizi degli anni ‘60, lei aveva poco più di vent’anni, ed era fisicamente straordinaria: alta 1,83, («adesso sono rimpicciolita », dice ridendo) con i piedi enormi, che aveva sottoposto a un’operazione dolorosa per accorciarli: viso scolpito, occhi azzurri malinconici, sorriso immenso, corpo senza curve, e un groviglio di dolore e tragedia nel cuore. Quella che fu l’immagine più sensazionale di quegli anni, adesso si racconta con una spietata sincerità, senza ripararsi mai dalla sofferenza che ha macchiato tutta la sua vita, anche nei momenti più vivi, più belli, arricchiti dagli amori e dalla celebrità, nel sorprendente, avvincente lungo librointervista scritto assieme a Jor Jacob Rohwer, che contiene anche le sue bellissime lettere alla madre e pagine del suo diario.
Signora Lehndorff, lei era la più bella, la più celebre, la più pagata, la più amata tra le modelle di quel tempo di fulgore della moda. Eppure lei, nel suo libro, racconta, di quella sua giovinezza meravigliosa, soprattutto il dolore, la disperazione, la follia.
«Per tutta la vita io mi sono mossa dentro e fuori la nevrosi. Fare la modella era
un modo per evadere da me stessa, era una nicchia nella quale mi sembrava di potermi salvare. Ero in preda alla frenesia del cambiamento, cambiavo città, continenti, case, fotografi, agenzie, uomini. Mi pareva che se mi fossi fermata sarei affogata. Ero sempre in fuga, ma non bastava: arrivava il momento in cui crollavo, piegata dall’insonnia e dall’angoscia, e precipitavo nel panico e nelle allucinazioni.
Tentavo di ammazzarmi.
Ho passato più tempo nelle cliniche psichiatriche che davanti all’obiettivo
dei massimi fotografi, Arthur Penn, Richard Avedon, Gian Franco Barbieri, David Bailey, Franco Rubartelli, che per cinque anni fu anche il mio gelosissimo compagno».
A scoprirla ventenne per le strade di Firenze, fu Ugo Mulas. Poi vennero Vogue Francia e Vogue America e  la sua terribile direttrice Diana Vreeland, e lei divenne l’oggetto perfetto, con quel suo corpo duttile e i suoi pensieri neri, e quella voglia così contemporanea di cancellarsi, trasformarsi, uscire da sé, volare, essere altro, pietra, vento, fango.
«Fu Dalí a insegnarmi una cosa molto importante per me, utilizzare il corpo come uno strumento d’arte. L’avevo conosciuto nel 1965 a New York, perché era rimasto affascinato dal mio amore di allora, l’attore William Rothlein, che secondo lui gli assomigliava. Dalí era davvero un essere di un altro pianeta. Chiamava Limousine il pene, Mi volle per una performance intitolata “Schiuma da barba”, spruzzandomene barattoli sul corpo seminudo, per fare di me una sua opera d’arte. Tre anni dopo è cominciata la collaborazione con Holger Trulzsch, con cui abbiamo elaborato una speciale pittura per il corpo. Col body painting finalmente accontentavo la mia ossessione per il mutamento, e cominciai a trasformarmi in tigri, leopardi, lucertole, serpenti».
Michelangelo Antonioni l’aveva voluta nel suo Blow-up, che avrebbe vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 1966, e lei appariva in due scene come la modella che David Hemmings fotografava.
«Fin dall’inizio mi sono sentita molto unita all’arte di Antonioni. Era esattamente come i suoi film, taciturno, strano, melanconico e misterioso. Ci intendevamo senza bisogno di parole. Ammiravo il suo rigore e che non perdesse mai la calma. Ma tutti temevano il suo metodo di lavoro perché era lento, meticoloso, profondo. Quelli della produzione guardavano continuamente l’orologio».
Nella sua lunga confessione, lei ricorda con lucidità la sua tragica infanzia: sono stati quegli anni terribili a pesare su tutta la sua vita, a condannarla alla depressione?
«Ne è stata vittima la mia bellissima mamma che si era come estraniata dalla vita, che gli uomini amavano, tra cui uno molto giovane che veniva da un ambiente molto diverso, e insieme fondarono una comune filosofica in campagna, dove anch’io mi rifugiavo quando stavo male. Io avevo 5 anni quando io e le mie sorelline Mona e Gabriele, che aveva un anno e mezzo, fummo strappate alla nostra vita privilegiata, separate da nostra madre che era al nono mese di gravidanza, chiuse con tutti i figli degli oppositori in una specie di prigione, in attesa di essere mandate a Buchenwald. Ho solo ricordi di paura e il bisogno di proteggere Gabriele, che piangeva sempre e chiedeva la mamma. La guerra finì, e intanto era nata la quarta sorellina, Catharina. Non avevamo più il castello, non avevamo più niente. Fummo tenute all’oscuro, per anni, sulla fine di nostro padre, e la sua ultima lettera prima dell’esecuzione, ci fu letta dalla mamma quando eravamo già grandi. C’erano famiglie aristocratiche come i Bismarck che non ci vollero mai aiutare perché figlie di un traditore. Solo nel 1954 il presidente della repubblica Heuss dimostrò apprezzamento per gli oppositori di Hitler giustiziati. Ci vollero altri anni perché fossero considerati eroi della resistenza. Per tanto tempo ho detestato la Germania».
Lei ha avuto tanti amori, perché non si è mai sposata?
«Non se ne parlava mai, si viveva solo il presente. Comunque non avrei mai potuto. Io la famiglia l’ho persa da piccola, amavo mio padre e il suo ricordo, amavo mia madre tanto che quando tornavo in Germania, dormivo con lei. Ho dovuto allontanarmi perché quell’attaccamento non era giusto».
Vera Lehndorff, a 73 anni, (non vuole esser chiamata contessa) è un’artista che in questo momento sta preparando una serie di opere fatte con la cenere. Però oggi, per presentare il suo libro a Milano, le basterà poco, un trucco sapiente, una parrucca bionda, per tornare a risplendere come l’indimenticabile Veruschka.

Repubblica 19.9.12
La filosofia popolare e il populismo filosofico
Perché si può parlare di certi temi ai festival ma bisogna evitare le semplificazioni
di Pier Aldo Rovatti


Una volta, tanti anni fa, andai in televisione a parlare di filosofia. Il programma, allestito da Rai Educational, si chiamava “Il grillo”. Ero circondato da studenti delle scuole superiori, c’era un tema, e poi dovevo fare tutto da solo, compresa un’autopresentazione. “A cosa serve la filosofia?”, questa era la domanda; avevo un’ora (televisivamente, un tempo enorme) per rispondere assieme ai ragazzi. Me la cavai dicendo che a rigore la filosofia non serviva a nulla, tranne che a interrogarsi in modo critico attorno al senso della parola “servire”.
Non si combatte il populismo filosofico chiudendosi in casa (o nel proprio studiolo, o nella propria aula, che è una specie di casa), insomma rivendicando un atteggiamento elitario. Semmai lo si affronta davvero solo “scendendo in piazza” e rischiando di abbandonare il comodo piedistallo dello studioso solitario o attorniato solo da una sparuta cerchia di pari.
Ma, allora, cosa significa fare filosofia e cosa vuol dire combattere il populismo filosofico?
Ci sono parecchi equivoci da stanare e da chiarire. Una filosofia che abdichi al proprio compito critico, anche radicalmente critico, forse anche masochisticamente autocritico, non serve a nulla: legittima di volta in volta l’opinione corrente, le fornisce un po’ di belletto teoretico.
Perciò il cosiddetto “filosofo” è da sempre un personaggio alquanto scomodo, talora irritante, e da sempre, se è un “vero” filosofo, rischia la sua faccia e deve avere il coraggio di sfidare il potere delle idee prevalenti e già codificate. Non basta dire che il filosofo è uno che ama le idee in un mondo involgarito: la filosofia serve a qualcosa solo se accende dei segnali rossi attorno a certe idee lanciando un allarme.
Per esempio, dovrebbe riuscire a distinguere tra populismo filosofico e filosofia popolare, saper individuare bene la natura, il senso e le conseguenze di questo equivoco abbastanza clamoroso sul quale si è costruito il recente dibattito sulle feste filosofiche e sulla filosofia prêt-à-porter (inaugurata a luglio su Repubblica, da Roberto Esposito e proseguita con altri interventi in questi mesi).
Fin dall’antichità la filosofia ha avuto una vocazione popolare: ciò significa che essa si occupa e si preoccupa dell’esperienza quotidiana, si rivolge ai “cittadini” proponendo loro uno stile di vita. La filosofia ha da sempre una vocazione pubblica ed etica, anche quando sembra essere solo un esercizio del soggetto su se stesso. Questa vocazione attraversa tutta la sua storia, solo che oggi i cittadini non sono più un gruppo limitato di persone ma un insieme che riguarda tendenzialmente l’intera società senza distinzioni. Il bisogno di filosofia è avvertito oggi da tutti e perciò hanno presa le feste filosofiche
che chiunque può frequentare, e si sviluppano di continuo iniziative di massa che hanno come scopo la divulgazione.
La filosofia popolare deve cessare di essere critica? No, certamente, ma essa si annoda, oggi, con la cosiddetta “cultura televisiva” e accade così che la mediatizzazione appiattisca questa criticità o addirittura la elimini. Può esistere una filosofia popolare senza una tale “semplificazione” che snatura la filosofia stessa? Sì, può esistere, ma qui si deve innestare una vera e propria battaglia culturale contro il “populismo” filosofico, cioè contro la tendenza a ridurre il pensiero filosofico a modelli semplici e unificati. La battaglia tra chi asseconda questa riduzione e chi la combatte, magari anche nelle piazze, dunque anche nelle feste filosofiche (a FilosofiaGrado, qualche giorno fa, ho parlato proprio di questo).
Combattere la semplificazione populistica che è visibilmente in atto significa spingere il pedale della criticità, e battersi per il pensiero critico vuol dire, a mio parere, evidenziare gli aspetti paradossali del discorso filosofico, il suo connaturato pluralismo, il suo piacere della sfumatura, il suo rifiuto delle fissazioni, la sua vocazione storica e genealogica. Non a caso questa battaglia ha ora come campo un’idea di verità non bloccata né presupposta.
Uno dei miei autori preferiti, A.N. Whitehead, aveva lanciato una campagna contro le “cattive astrazioni”. Il populismo filosofico è una cattiva astrazione. Riduce la filosofia a un’ideologia prêt-à-porter. Lavorare contro il populismo filosofico e le sue cattive semplificazioni significa allora accettare la sfida mediatica e tentare di salvare l’identità del filosofo, oggi decisamente messa a rischio. Questa identità è attraversata da parte a parte da una tensione ironica. Se dalla cassetta degli attrezzi del filosofo si toglie l’ironia, con la quale è possibile spiazzare i problemi e farli vedere in una luce inabituale, il cosiddetto filosofo rischia di diventare un funzionario del pensiero abbastanza grigio.

Repubblica 19.9.12
L’esposizione. Arriva a Trento la mostra curata da Cavalli Sforza e Pievani
L’homo Sapiens insegna l’antirazzismo
di Valentina Bernabei


Per avere una piccola lezione, basterebbe il capitolo finale. È un test interattivo “Io non sono razzista, però..”: un gioco che, uscendo dal museo, ha il compito di far riflettere sulla naturale capacità umana di convivere, in diverse ere e zone del pianeta, con persone diverse per geni, molecole, lingue, come è stato dall’homo sapiens ad oggi. Serve anche a questo la mostra di Trento, visto che quello che definiamo “Terzo mondo” in realtà vanta il primato fondamentale per la storia evolutiva dell’umanità. I primi homo sapiens – slanciati e agili bipedi – sono comparsi in Africa, per poi spostarsi con continue migrazioni che hanno fatto più volte il giro del mondo. E la mostra
Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, a cura di Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani rende questa evoluzione avvincente e affascinante. Un progetto espositivo, che ha già fatto tappa al Palazzo delle Esposizioni di Roma, ed è stato ora riallestito nelle stanze del Museo delle Scienze di Trento (progettato da Renzo Piano).
Racconta come si è formata la specie umana, come è nata e come si evoluta, a cominciare proprio dagli spostamenti dall’Africa. La prima sezione dell’allestimento è
Mal d’Africa: qui si trova il calco dello scheletro di Lucy, il celebre esemplare femminile che visse in Etiopia 3,2 milioni di anni fa, per essere ritrovato soltanto nel 1974 (sette anni dopo il grande successo della canzone dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds,
da cui fu preso il nome dato allo scheletro recuperato integro al 40 per cento). Oltre a Lucy tanti significativi reperti, mappe storiche, documentazioni e una serie di installazioni che permettono al visitatore di vivere l’esposizione con tutti i sensi, non solo con la vista.
La seconda sezione (La solitudine è un’invenzione recente), così come la terza (I geni, i popoli e le lingue), svelano la storia più vicina a noi: qui la mostra ci fa vedere come siamo diventati intelligenti, quando, per esempio, abbiamo iniziato ad esprimerci e a relazionarci con l’arte e con l’agricoltura.
Ne sono testimonianza vari reperti esposti, come i manufatti neanderthaliani originali in selce, provenienti dalla grotta di Fumane (uno dei maggiori siti preistorici italiani, a Verona), una collana di ossa umane dalle isole Andamane (India), un tamburo delle Hawaii, un flauto, le prime pietre dipinte in maniera zoomorfa e antropomorfa. Nella quarta sezione (Homo sapiens, la specie planetaria)compaiono i primi indumenti, come quello cerimoniale Inuit composto da calzoncini e perizoma.
Capire gli aspetti antropologici, oltre che quelli fisici come le misure e le forme dei teschi e del corpo, significa capire noi stessi e per farlo bisogna prestare attenzione ai vari aspetti dell’evoluzione: questa mostra mette l’accento sulle differenze che esistono ma non vanno mai intese come divergenze. Ed è proprio questa la piccola lezione che Homo Sapiens ci dà.

Repubblica 19.9.12
Repubblica è il quotidiano più letto in testa per la sedicesima volta
L’Audipress: Affari&Finanza leader delle testate economiche


ROMA Repubblica si conferma il quotidiano di informazione più letto in Italia. Un primato che Audipress certifica per la sedicesima volta dal 2004, accompagnandolo con i buoni risultati di Affari&Finanza, leader tra le testate settimanali economiche, di Venerdì e D, ma anche dell’Espresso che registra nuovamente un’ottima performance. Il periodo preso in esame da Audipress nella sua nuova indagine cumula, per i quotidiani, due cicli del 2012: il primo dal 9 gennaio al 25 marzo e il secondo dal 2 aprile all’8 luglio. In questi mesi, Repubblica è stata premiata da 3 milioni e 199 mila lettori al giorno, contro i 3 milioni e 194 mila del Corriere della Sera. Entrambi i quotidiani risentono tuttavia della crisi generale e dopo una lunga serie di rilevazioni, a partire dal 2007, che li vedeva in aumento o sostanzialmente stabili, registrano nel periodo un segno meno (Repubblica -8,9%, Corsera -4,7%). La classifica è ancora guidata da un quotidiano sportivo, La Gazzetta dello Sport (4 milioni e 361 mila lettori, -1,3%), seguito appunto da Repubblica e Corriere.
La Stampa di Torino mantiene il quarto posto con 1 milione e 980 mila lettori (-11%). Stabile al quinto posto il Corriere dello Sport-Stadio (1 milione e 816 mila lettori, -2,5%). Scende il Messaggero, con 151 mila lettori in meno (-10%, a 1 milione e 352 mila). Tiene Il Resto del Carlino (1 milione e 314 mila, +1%). Dopo mesi con il segno più, si arresta anche Il Sole 24 Ore (1 milione e 191 mila, -4,2%). Non lontano il quotidiano Tuttosport, (1 milione e 107 mila, -1,9%). Chiude la top ten Il Mattino di Napoli (1 milione e 80 mila lettori, -7,5%). Tra i settimanali economici, poi, Affari&Finanza è leader con 422 mila lettori (Il Mondo è a 127 mila, Milano Finanza a 311 mila). Per quanto riguarda i periodici, Audipress ha monitorato tre cicli: il terzo del 2011 (19 settembre - 18 dicembre), il primo e il secondo del 2012 (9 gennaio - 25 marzo e 2 aprile - 8 luglio). In questo periodo, il Venerdì di Repubblica, dopo le ripetute avanzate delle precedenti rilevazioni, assesta la propria “readership” a 2 milioni e 462 mila lettori (-10,1%), mentre Sette del Corriere della Sera continua a non essere presente in Audipress, dal cambio di nome della testata avvenuto nel novembre 2009, per scelta dell’editore. Bene anche D - la Repubblica delle Donne che, dopo una forte crescita nel periodo precedente, ora registra un milione e 29 mila lettori (-6,2%), mentre Io Donna del Corsera descresce in misura simile (-5,4%). Stabile il risultato dei mensili del Gruppo Espresso XL (691 mila lettori, -0,4%) e Velvet (313 mila lettori +0,6%). Il settimanale l’Espresso, intanto, incrementa ancora i propri lettori (+1,6%) e raggiunge quota 2 milioni e 685 mila ogni sette giorni, mentre il competitor Panorama è di nuovo in calo a 2 milioni e 366 mila lettori (-2,4%). Lo “spread” Espresso-Panorama, ovvero il vantaggio del primo sul secondo, passa così da più 221 mila a più 319 mila lettori. Bene anche i mensili di scienza, natura e ambiente: National Geographic avanza ancora e supera il milione e mezzo di lettori (1.503.000, +2%), Le Scienze registra 478 mila lettori (-7,7%). Infine, tra i quotidiani locali del Gruppo Espresso, Audipress rileva buone performance del Tirreno (+8,1%), La Provincia di Cremona (+8,1%), Gazzetta di Reggio (+5,5%), Il Centro (+4,8%), La Nuova Venezia (+4,1%), Libertà (+2,5%).