sabato 22 settembre 2012

Corriere 22.9.12
Il rito miope dell’autoassoluzione
Così un sistema rivela il collasso anche in periferia
di Massimo Franco

L’ autoassoluzione della giunta regionale del Lazio è così perentoria da apparire sfacciata, quasi impudica. L’assenza di dimissioni di Renata Polverini, e la sua rivendicazione di avere «bonificato» la situazione facendo saltare un paio di teste, è peggio di una presa in giro: dimostra una miopia ai limiti dell’irresponsabilità.
Si tratta di una cecità politica che coinvolge quanti a livello nazionale pensano di poter comprimere una montagna di soldi e fango destinati a tracimare. La Guardia di Finanza che entra nella sede della Regione Campania e indaga sulle spese dell'Idv di Antonio Di Pietro a Bologna, allarga l'obiettivo e addita gli enti locali come una vera idrovora del denaro pubblico. D'altronde, lo scandalo segue la scia delle inchieste della magistratura che hanno toccato Lombardia e Sicilia, abbracciando simbolicamente l'intero territorio nazionale.
Si delinea dunque proprio quell'«effetto domino» politico-giudiziario che i partiti temono a pochi mesi dalle elezioni. Il fatto che di fronte ad accuse gravi di sperperi la reazione sia quella di farsi schermo con la legge, costituisce un'aggravante. Si tratta, di fatto, di norme di autofinanziamento che le nomenklature si sono ritagliate su misura, e che gridano vendetta in una fase di crisi economica acuta. Rappresentano la degenerazione caricaturale del potere legislativo, e minacciano di colpire a morte qualunque idea di autonomia locale. Sono destinate a portare non soltanto al disgusto nei confronti della politica, ma ad una riduzione drastica e a furor di popolo dei fondi per regioni e comuni.
Il rischio è che le vittime innocenti del malcostume diffuso, anche se si spera non generalizzato, siano settori come la sanità, l'istruzione, i servizi. Quando si pensa che in passato sindaci e governatori erano considerati il serbatoio naturale al quale attingere la classe politica nazionale, vengono i brividi. Oltre a bruciare denaro dei contribuenti, va in fumo qualunque speranza di ricambio. Il «potere municipale» si sta manifestando con le caratteristiche di una partitocrazia minore ma più famelica e più arrogante dell'altra. Forse perché la selezione è avvenuta al ribasso; o perché ha goduto di riflettori addomesticati e indulgenti, all'ombra di una altisonante retorica federalista.
L'idea di fingere punizioni esemplari per dare un contentino all'opinione pubblica senza cambiare comportamenti e meccanismi di finanziamento, è illusoria. I calcoli elettorali dei partiti, più preoccupati di non perdere clientele e voti che di dare segnali veri di rinnovamento, somigliano a sacchetti di sabbia affastellati in fretta e furia per fermare uno tsunami. In realtà, il collasso del modello regionale è il cascame inevitabile della crisi della Seconda Repubblica. E l'implosione di alcune forze politiche è il segno che il collante della spesa pubblica non regge più neppure a livello locale. Anzi, se ha retto tanto a lungo è stato solo grazie ad una complicità trasversale.
Il 2012 promette di essere la tomba di un modo di governare come lo sono state le inchieste giudiziarie di una ventina d'anni fa. E il vuoto di potere che si intravede provoca vertigini ancora più preoccupanti. Mette paura non tanto il rifiuto di vederlo, ma l'incapacità di farlo per mancanza di consapevolezza. Un'Italia che per anni è stata «mitridatizzata» assorbendo dosi di velenoso malgoverno, adesso è costretta a guardare in faccia politici locali che sono lo specchio di questa lunga impunità. Ma forse la nomenklatura è convinta che si possa continuare all'infinito, perché «così fan tutti». La novità è che, moralità o moralismi a parte, si tratta di un andazzo troppo costoso. Il parassitismo e l'inefficienza hanno un prezzo che pochi, ormai, si possono permettere di sostenere. Dover ricorrere di nuovo alla «supplenza» dei tecnici o delle procure è la certificazione dell'ennesima involuzione.

Repubblica 22.9.12
Batman e la banda degli onesti
di Francesco Merlo


È vero che sono sapide e gustose le cronache dello scandalo laziale, ma non fatevi ingannare: questa non è una burinata in romanesco. È infatti l’atto finale, nella capitale d’Italia, della dissoluzione della politica come professione, un epilogo drammaticamente serio che non è fatto solo di peculato e di maiali con il loro ricambio giornaliero di melma fresca. Ci sono anche i soci, i complici, i pali della banda.
E cominciamo con i 14 consiglieri del Partito democratico, che certamente non appartengono alla commedia né alla farsa ciociara, non sono indagati, non si trimalcionizzano e non si travestono da grecoromani. Anzi, al contrario dei fastosi e spudorati banditi del Pdl, non si espongono e neppure si compromettono con il codice penale. Hanno infatti il pudore di nascondersi, che in latino – lo dico per restare in tema di romanità classica – si dice latére, il cui frequentativo è latitare. Dunque i 14 democratici, come i 5 dell’Italia dei valori, i 2 di Rifondazione comunista, i 2 di Sel, i 6 dell’Udc, i 2 della Destra di Storace e i 13 che fanno capo alla Polverini, “latitano”, e di nuovo lo dico in senso latino. Sono infatti solidali, di una solidarietà “economico parametrale” direbbe un sobrio tecnico. Per noi, che invece sobri non siamo, somigliano ai compari di fiera, quelli che sempre stanno al gioco perché nel gioco hanno un interesse. Come diceva Marx, che ogni tanto torna ancora buono, l’essere sociale non è determinato dalla coscienza, ma dal dato materiale. E dunque non è importante quello che pensi, lo stare all’opposizione, il richiamarsi a Gramsci, a San Francesco, a Gandhi, a Di Pietro, a Vendola, a Bersani, alla retorica della legalità, al Santo padre, alla classe operaia o alla dialettica hegeliana; conta solo quello che fai. Ed ecco il punto: non fare è peggio che fare.
Di sicuro, oltre al già lauto stipendio e alle diarie, per ciascun consigliere, anche dell’opposizione, ci sono centomila euro netti l’anno gestiti dal proprio capogruppo. Quello del Pd si chiama Esterino Montino e non risulta che faccia il mazziere come il suo collega del Pdl, il famose er Batman, Francone Fiorito. Ma certo Montino governa i soldi, li distribuisce secondo i bisogni della politica, li divide in mazzette. Insomma non è un mazziere ma un mazzettiere. E quanto guadagna Montino? Anche questo è controverso. Lo stipendio sarebbe di circa 14mila euro netti al mese. Secondo er Batman salirebbe, per tutti i capigruppo, verso i trentamila con diarie e indennità a pioggia che invece Montino e gli altri negano.
E forse sarebbe bene accertarlo ed accertare pure come sono stati spesi, voce per voce, dettaglio per dettaglio. Di sicuro si tratta di cifre comunque scandalose che giustificano il silenzio di tutti questi anni, le teste nella sabbia, il tartufismo.
Anche il capogruppo dell’Itala dei valori, che si chiama Vincenzo Maruccio e che ora propone di azzerare e tagliare, e annunzia drastiche autoriduzioni, è stato sempre presente nel luogo del delitto ma non si è mai accorto di nulla. E tuttavia ha sempre portato a casa i troppi soldi che gli spettavano. E dov’era quando i consiglieri si sono aumentati lo stipendio? E’ accaduto tre volte. E per tre volte il gallo ha cantato. La verità è che la regione Lazio somiglia alla spelonca dei bucanieri della politica. A Roma la casta è diventata tresca. Il capogruppo dell’Udc si chiama Francesco Carducci, quello di Rifondazione comunista Ivano Peduzzi, quello di Sel Luigi Nieri, quello dei seguaci della Polverini Mario Brozzi. E ci sono persino 8 monogruppi: Mario Mei dell’Api, Francesco Pasquali di Fli, Antonio Paris del gruppo misto, Giuseppe Celli della Lista civica, Rocco Pascucci dello Mpa, Luciano Romanzi del Psi, Olimpia Tarzia dei Responsabili e Angelo Bonelli dei Verdi. Ebbene, pensate al consigliere che da solo è un gruppo misto. Pensate alle assemblee di gruppo, all’appello dei presenti. Pensate al verde Angelo Bonelli che prima di prendere qualsiasi decisione di spesa convoca, riunisce e alla fine distribuisce i centomila, dando tutto a se stesso che è il solo modo legale di dare a ciascuno quello che gli spetta. Come si spiega? Così: è vero che un gruppo formato da una sola persona è logicamente un ossimoro, ma economicamente è un bottino. Del resto c’è un solo organo che verifica le spese dei singoli gruppi ed è il Comitato di controllo contabile, presieduto da un consigliere del partito democratico, Carlo Ponzo, con il nome che tira la facile ma irresistibile battuta – me ne scuso – sul procuratore della Giudea. Dunque questo Pilato forse non si è accorto delle ruberie del Pdl perché in quelle ruberie era legittimato il suo compenso e quello di tutti gli altri. Se avesse messo in discussione il bilancio di un singolo gruppo avrebbe segato il ramo su cui stava seduto.
Ecco cosa ci insegna lo scandalo del Lazio: non basta essere onesti per essere onesti, e non è un calembour. Anche l’onestà, come si vede, può diventare complicità, l’onestà pirandelliana, l’onestà dostoevskiana, l’onestà dei funzionari che onestamente supportano e fanno funzionare il reato. Sono i colletti bianchi di Crapulopoli.

Repubblica 22.9.12
“È vero, quel denaro è troppo abbiamo sbagliato a prenderlo e tutti siamo chiamati in causa”
Montino (Pd) si difende: «Non abbiamo rubato»
«Nessuno qui dentro può dire che il Pd si è intascato soldi. L’unica nostra colpa, se c’è, è quella di non averli rifiutati»
di M. FV.


ROMA — «Nessuno qui dentro può dire che il Pd si è intascato soldi. L’unica nostra colpa, se c’è, è quella di non averli rifiutati».
Esterino Montino, romano, 64 anni, tra il 2009 e il 2010, per 5 mesi, ha retto la Regione Lazio dopo lo scandalo Marrazzo. Oggi è il presidente del gruppo Pd alla Pisana, 14 consiglieri e, nel 2011, poco più di 2 milioni di contributi regionali.
Tanti soldi.
«Vero. Ma non li abbiamo spesi mica tutti».
No?
«No, mi dicono che oggi c’è un avanzo di 600 mila euro».
Lei non lo sa di preciso?
«No, io non sono il tesoriere, come era Fiorito per il Pdl. Io sono soltanto il capogruppo».
Quindi non sa se tra questi 2 milioni per il “funzionamento del gruppo”, ci siano anche ricevute per cene private o altro.
«Senta, noi non ci siamo intascati una lira. Quando sono arrivato, ho nominato un tesoriere tra i miei consiglieri, Mario Perilli, e ho incaricato una società esterna per la contabilità del gruppo».
Quale?
«Promogest: aveva il compito di controllare che le ricevute e le spese effettuate dal gruppo fossero fatte tutte nel perimetro dell’articolo 3 bis della legge 6 del ‘73. Nel caso contrario venivano rimandate indietro».
Ed è mai successo?
«Mai».
Ma perché nell’ufficio di presidenza non vi siete opposti?
«L’ufficio di presidenza ha preso atto, senza discutere. Tutti potevano intervenire e nessuno l’ha fatto. La responsabilità è su come vengono spesi questi soldi».
E servivano tutti quei soldi?
«Una volta che tu hai a disposizione dei finanziamenti o fai un atto unilaterale e non li prendi oppure, se ci sono, eviti che gli altri facciano manifesti e tu vada avanti con le assemblee di sezione. Diciamo che non abbiamo fatto obiezioni e li abbiamo utilizzati. Ma sempre secondo le regole ».
E questo, politicamente, non vi chiama in causa tutti?
«Sì, è vero».
Quanto avete speso per alberghi, ristoranti e bar?
«Sono circa 23 mila euro nel 2011 e si agganciano a quelli spesi per riunioni conferenze e incontri».
Altri 200 mila euro. La voce più sostanziosa riguarda la stampa dei manifesti: 783mila euro.
«Abbiamo calcolato ed è circa un euro a manifesto. Non avevamo certo libertà di spesa: abbiamo seguito alla lettera quei regolamenti, senza intascare nulla».
E i soldi alle tv? Anche per interviste a pagamento?
«Non ci sono interviste a pagamento, ci sono solo alcuni consiglieri che hanno dato qualche migliaia di euro a tv locali, per pubblicizzare le loro iniziative».
Possibile che non vi siate resi conto che l’afflusso dei finanziamenti ai gruppi era eccessivo?
«Quando, a partire da novembre 2010, sono cominciati ad arrivare tutti questi soldi al gruppo abbiamo fatto anche una riunione».
Per decidere cosa?
«Per comunicare a tutti che questi soldi c’erano e andavano usati all’interno delle norme e dei regolamenti».
Anche nel gruppo del Pd si era deciso di spartire il finanziamento con 100mila euro a testa per ogni consigliere?
«Guardi, il teorema Taormina-Fiorito secondo il quale tutti sono colpevoli non ha fatto breccia nemmeno ai tempi di Bettino Craxi. La responsabilità è individuale».
E i 100mila euro a testa?
«No, noi non ci siamo mai dati questa cifra. Centomila euro a testa è una sorta di parametro di riferimento a livello di Consiglio che non viene neanche rispettato, visto che i gruppi piccoli prendono in proporzione di più rispetto a quelli più grandi».
Chi la decide questa ripartizione?
«Non c’è una regola scritta. All’interno dell’ufficio di presidenza il presidente Mario Abbruzzese ha proposto questo parametro».

il Fatto 22.9.12
Renzi, dalle spese in Provincia alle consulenze in Comune
Ex collaboratori, ex assessori, ex dirigenti (alcuni in pensione)
portati a Palazzo Vecchio con nomine ad hoc
di Davide Vecchi


Il camper che sta scorrazzando in giro per l’Italia Matteo Renzi ieri ha raggiunto Mantova. Il sindaco di Firenze, impegnatissimo nella campagna elettorale, ha fatto sapere di aver raggiunto 20mila euro di donazioni per finanziare il tour del Paese. Le spese saranno poi pubblicate nel dettaglio. Come avvenuto già per la Provincia e il Comune ha ricordato Sara Biagiotti del comitato elettorale del sindaco, sottolineando che i conti della Provincia, guidata dal 2004 al 2009 da Renzi, sono stati “passati al setaccio dalla Corte dei conti (...) che non ha eccepito nulla”. Eppure c’è una indagine ancora in corso che vede impegnati anche gli uomini delle Fiamme Gialle su incarico del ministero del Tesoro. A breve invieranno un ispettore nel capoluogo fiorentino. La comunicazione della nuova indagine risale a maggio ed è stata recapitata prima dell’estate nella città di Dante. I giudici contabili ipotizzano un “irregolare affidamento di servizi per un importo superiore a quello previsto dai relativi contratti di servizio”, nonché “contratti, convenzioni, disciplinari di servizio, affidamenti al lordo (…) il cui importo triplica quello dei contratti di servizio di base”.
Nella sprecopoli nazionale, che giorno dopo giorno coinvolge un sempre maggior numero di enti, l’attenzione verso possibili nuovi sperperi è alta.
Così spunta anche una lista di consulenze che il Comune di Firenze ha concesso all’esterno. Come le spese di rappresentanza in Provincia, così gli incarichi a chiamata diretta, sono legittimi. E quando da presidente della Provincia diventi sindaco di una città importante come Firenze è necessario tentare di conservare al proprio fianco i collaboratori migliori, i più fidati.
Renzi lo ha fatto con Giovanni Palumbo, già responsabile dell’Ufficio di gabinetto del Renzi presidente della Provincia e portato alla direzione delle risorse finanziarie del Comune di Firenze.
A Palumbo è stato affidato un incarico da dirigente “a tempo determinato fuori organico” da subito, nel 2009 e poi rinnovato fino a oggi. Il primo anno con un compenso di 71.675,79 euro, diventato di 74.860 nel 2010, 78.736 nel 2011 e, infine, 94.286,66 nel 2012. Sempre contratti a tempo determinato. Palumbo è un professionista. In Provincia gestì tutti i rimborsi spese e la gestione dell’ente. In Comune ha gli stessi incarichi. Tra i consulenti scelti da Renzi per Palazzo Vecchio ci sono anche altri ex. Gli ex assessori Lucia De Siervo e Simone Tani, ad esempio. Gli ex dirigenti in pensione Luigi Brandi e Valerio Pelini. L’ex dipendente della provincia Giorgio Caselli. Ci sono anche ex dipendenti della società Florence Multimedia, voluta e creata da Renzi per la comunicazione della Provincia (che ha sanato con 4,5 milioni di euro). Non solo i conti della Provincia, dunque. Renzi, dal canto suo, ha sempre affrontato con serenità le verifiche dei giudici. Quando nel 2011 lo condannarono per danno erariale, nei panni di presidente della Provincia, a pagare 14mila euro di tasca propria, lui non se la prese. E dichiarò: “Le contestazioni riguardano la categoria di inquadramento di quattro persone nello staff, assunte a tempo determinato. Se poi un dirigente ha sbagliato l'inquadramento ce ne assumeremo tutte le responsabilità, anche se è veramente difficile accettare l'idea che siano gli amministratori e non eventualmente i funzionari i responsabili di erronee impostazioni contrattuali, questione puramente tecnica”. Ma ormai era in Comune. L’esperienza aiuta.

Europa 22.9.12
Il colpo che il Pd deve battere
di Mario Lavia

qui

il manifesto 22.9.12
Attenti ai forconi
di Norma Rangeri

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il Fatto 22.9.12
Contro le porcate un sistema c’è
di Paolo Flores d’Arcais


La scelta sembra obbligata: o la padella o la brace. O un Parlamento di “nominati”, con la fauna lombrosiana che sappiamo, o il ritorno alle preferenze, che manderanno in Parlamento mozzorecchi capaci di spendere milioni in festini e voto di scambio (più lombrosiani dei primi, se possibile). Insomma, e per riferirsi agli esemplari “migliori”, un Parlamento di Scilipoti e Minetti o un Parlamento di “er Batman”. Disperante. Così ce la cucinano i politici e il codazzo di esperti e commentatori d’ordinanza che intasa e satura i media. E invece no, in questa faccenda tertium datur, eccome. Si chiama collegio uninominale a due turni, con una piccola variante tecnica che consente di incorporare anche le primarie vincolanti. Al secondo turno non passano i due candidati più votati in assoluto, ma i “campioni” (uno per coalizione) delle due coalizioni più votate. In un collegio, ad esempio, quella che un tempo si chiamava “sinistra” può vedere in lizza Bersani, Vendola, Renzi e Rosy Bindi, l’establishment del privilegio che pudicamente si battezza “centro” offrire la scelta tra Casini, Passera, Montezemolo e la Polverini, anche se la destra è unita sull’immarcescibile Berlusconi, perché non si disperdono i voti, al secondo turno passano i “campioni” delle due coalizioni più votate.
Si otterrebbe così quello che i padroni della politica italiana spergiurano ogni giorno di volere: restituire un significativo potere di scelta agli elettori, visto che le primarie sono da tutti riconosciute come uno strumento che diminuisce la distanza tra cittadino e “Casta”, ed evitare che col proporzionale si apra la strada alla vaghezza pre-elettorale sulle alleanze e alle pastette post-elettorali per formare il governo, perché l’uninominale a due turni ha un micidiale effetto maggioritario.
Se i politici che straparlano da mesi di riforma della legge elettorale fossero in buona fede, perciò, e se il Quirinale che sul tema è passato dagli alti moniti agli ultimatum volesse davvero inchiodarli alla coerenza tra chiacchiere e fatti, la via sarebbe tutta in discesa. Ma il sistema qui accennato ha una ulteriore virtù, che agli occhi dei partiti è vizio imperdonabile: il potere che restituirebbe ai cittadini lo toglierebbe alle nomenklature. Perciò di questa alternativa neppure si parla, come se non esistesse. Una campagna di opinione sulla riforma elettorale non c’è mai stata, per la “tecnicalità” del tema. La sua connessione con la degenerazione cloacale della politica italiana è però sotto gli occhi di tutti. Forse vale forse la pena di provarci, perciò.

l’Unità 22.9.12
Non esiste politica senza partiti
di Emanuele Macaluso

La crisi della prima Repubblica si manifestò già nel 1989 quando i partiti che avevano governato e quelli che erano all’opposizione non capirono che il sistema politico non reggeva, anche (e non solo) perché dopo il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Urss nel mondo cambiava tutto. In Italia invece, anche se il Pci di Occhetto fece la svolta della Bolognina, il tran tran politico continuò come se nulla fosse successo. Alle elezioni del 1992 il pentapartito (Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi) cantò vittoria perché ebbe una maggioranza risicata. La Lega però ottenne, gridando contro il sistema, 80 parlamentari.
Il vittorioso pentapartito non riuscì ad eleggere né il presidente della Camera, né quello della Repubblica (Forlani) né il suo candidato a Palazzo Chigi (Craxi). La crisi era più che evidente. Tangentopoli completò solo l’opera. In quel clima arrivò Berlusconi e trovò aperta un’autostrada. E per la bisogna utilizzò cinicamente tangentopoli e l’antipolitica, anche se arruolò un gruppone di reduci della Dc, del Psi, del Pri e Pli.
Dopo tangentopoli, il partito politico venne messo al bando: non erano falliti i gruppi dirigenti ma le istituzioni e la forma partito. A destra nasce il partito personale e padronale, c’è la Lega che scimmiotta il partito «leninista» con Bossi padre padrone. Il Msi, a Fiuggi, diventò An per stare al governo, ma senza una maturazione politico-culturale e l’identità di «nuova destra». A sinistra dal 1989 sino ad oggi si discute sul fatto che i partiti di massa, come li abbiamo conosciuti nel Novecento, non sono più riproponibili (bella scoperta). Ma per fare cosa? Dal Pci al Pds, partito che aderì all’Internazionale Socialista, ma non era socialista. C’è anche l’Ulivo prodiano dove tutto si stempera e l’identità è quella del leader. Successivamente, dal Pds ai Ds (cade la P): la «Cosa 2» che finalmente dovrebbe essere socialista. Ma c’è anche l’Unione prodiana per governare. Intanto i Ds, e la Margherita erede della sinistra Dc e dei popolari, dicono di essere al capolinea.
Occorre unire tutti i riformisti: socialisti, cattolici, laici. Nasce il Pd. Chiedo scusa se ricostruisco sommariamente e criticamente un percorso in cui, a mio avviso, al centro c’è stato un tema: come andare al governo. Aspirazione legittima, ma senza un retroterra si rivela inconsistente. I partiti socialisti europei hanno attraversato crisi e hanno problemi enormi con cui fare i conti, ma alla fine, al governo o all’opposizione, sono sulla scena e rappresentano una parte rilevante della società. Lo stesso i partiti conservatori. Anche negli Usa dove i partiti non hanno i caratteri e i ruoli che hanno in Europa, lo scontro tra Democratici e Repubblicani è netto e chiaro. La crisi economica e sociale che attraversa l’Europa e anche gli Usa ha messo a dura prova i partiti, ma ovunque sono loro i protagonisti della scena politica.
In Italia invece la crisi ha messo fuori giuoco la destra berlusconiana e in evidenza la inadeguatezza del centrosinistra. Ancora una volta, più che nel 92-94, il sistema politico si frantuma. Il governo tecnico di Monti è la testimonianza di questa realtà. Il bubbone laziale mette in evidenza cos’è il personale politico reclutato dalla destra, ma anche il sistema in un punto nodale, le Regioni: dalla Lombardia alla Sicilia. E così l’intreccio tra crisi economica e crisi politica ci propone un quadro che appare sempre più ingovernabile. Scrivo queste parole che possono apparire di un pessimismo nero, perché quel che si vede nel centrosinistra candidato a governare il Paese è scoraggiante. Non commento il Di Pietro che si veste da metalmeccanico e chiede un referendum sull’art. 18, ma vedo che Vendola gli va dietro.
Le primarie sono diventate una fiera delle vanità e un modo per farsi pubblicità e prenotarsi la candidatura come sindaci o nelle Regioni. Primarie senza regole. E se c’è qualcuno che dice: votino coloro che si iscrivono come elettori del centrosinistra, il braccio destro di Renzi risponde che si tratta di proposte degne di Ceausescu. E negli Usa le regole le ha fatte Stalin? La verità è che si invocano regole di partito per far fuori i vecchi (cinquantenni o sessantenni!) e poi si fa appello al popolo senza confini né di partito né di elettori ai quali però si dice: non puoi votare i «vecchi».
Concludo. Se non si costruisce un partito che abbia una sua identità nella società di oggi e chiare regole di comportamento, non ci sarà nemmeno una politica per governare. Cari compagni e amici del centrosinistra, non so quanti di voi hanno capito che la prossima legislatura sarà condizionata dalla crisi e dalle regole dettate dall' Europa. Entro queste strettoie un governo di centrosinistra può operare per fare una politica che ponga al centro il lavoro e l’avvenire dei giovani cercando di influire anche sulle scelte europee. Ma per operare in quelle strettoie occorre un governo autorevole e una maggioranza coesa. Il radicalismo di sinistra ci porta alla Grecia. La crisi, inevitabilmente, agevola il populismo e la demagogia. Lo vediamo anche negli Usa. L’alternativa alla destra e al populismo (anche quello di sinistra) si combatte con una politica chiara e netta.

Corriere 22.9.12
Fine vita, Avvenire contro i democratici
Ma Fioroni è sicuro: non ci spaccheremo
di Monica Guerzoni


ROMA — «Una questione di democrazia». E un leader del Pd che, come un crociato che combatte dalla parte sbagliata, parte lancia in resta «contro le Camere» per bloccare l'iter del testo sul fine vita. «Bersani tenta di silurare la legge», è il titolo con cui Avvenire denuncia il «no» del segretario sul biotestamento. L'attacco del quotidiano dei vescovi forse non ha precedenti, eppure Bersani non cambia linea: troppo delicato il tema per discuterlo nei pochi mesi di legislatura che restano e, soprattutto, troppo rischioso per l'unità del partito, già minacciata dalla disfida delle primarie. Avvenire affonda, il direttore Marco Tarquinio nell'editoriale (foto sotto) rilancia l'appello del presidente del Movimento per la vita Carlo Casini e denuncia quei «veti, convenienze e calcoli politici» che rischiano di bloccare «un iter legislativo giunto alla terza e decisiva tappa». Ma il segretario non si scuote. Al Nazareno, sede del Pd, raccontano che quando dall'ufficio stampa gli hanno mostrato la rassegna con le pagine di Avvenire, è rimasto in silenzio. Un silenzio assordante, che conferma come Bersani continui a ritenere «inaccettabile» e «palesemente strumentale» la richiesta di Pdl e Lega. La «vecchia maggioranza», così l'ha bollata l'ex ministro, ha proposto di riavviare in commissione Sanità del Senato l'esame del testo e il Pd ha votato contro. «Si cerca uno scontro ideologico — aveva detto il segretario —. Il Pd non accetterà questa forzatura». Se Bersani tira dritto, senza voltarsi di fronte al monito di Oltretevere, è anche perché i cattolici del suo partito non faranno le barricate per portare in Aula la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). La lettura maliziosa è che non ne sentano il bisogno, non perché non condividano lo spirito delle norme, ma perché Pdl e Lega hanno la maggioranza. Eppure Beppe Fioroni, che rappresenta gli ex Popolari del Pd, la spiega così: «È un delitto fare campagna elettorale su temi così delicati e lo dico a tutti coloro che pensano di strumentalizzare il fine vita per ragioni politiche, da una parte e dall'altra». Ma se la legge arriva in Aula, non c'è il rischio di una spaccatura profonda nel Pd? «No — tranquillizza Fioroni —. Quando si votò alla Camera il Pd si oppose e noi cattolici, dopo aver modificato il testo, decidemmo secondo coscienza». Ed è su questo schema che Fioroni e Bersani si sono accordati in vista della sfida in Senato. Il Pd è pronto a dare battaglia. «Il centrodestra non può dire bugie — attacca Ignazio Marino —. Questo non è un ddl sul testamento biologico, ma una legge che impone a chiunque abbia perso la coscienza e non abbia possibilità di risveglio, di essere sottoposto a trattamenti, anche se aveva espressamente detto di non volerli». La tesi del senatore è che il Pdl ha in realtà due obiettivi, poco spirituali: dividere il Pd e ricostituire la vecchia maggioranza Berlusconi-Bossi. «Ma gli elettori — spera il presidente della commissione d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale — li puniranno nelle urne, perché non si può giocare sulla sofferenza, la cultura e la fede delle persone».

Repubblica 22.9.12
La deriva del capitalismo
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei
Blues Blothers.
Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».
Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.
Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.
A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere considerato un comportamento virtuoso.
Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino di intere popolazioni.
Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che sono alla radice del processo di finanziarizzazione.
Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioni
azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.
Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.

Repubblica 22.9.12
Il Maometto di Voltaire
di Bernardo Valli


Il concetto di laicità, annidato nell’Illuminismo di cui Voltaire era uno dei massimi promotori, era ben lontano dal diventare uno dei principi della Francia repubblicana, del resto essa stessa ancora di là da venire. Poiché Voltaire era il polemico, insubordinato suddito di una Monarchia per diritto divino. Quindi a quei tempi le vignette irrispettose su Maometto di Charlie Hebdo (per non parlare del video americano) avrebbero subito sanzioni peggiori di quelle abbattutesi su Voltaire, essendo oltre che empie, irrispettose verso la religione, anche volgari. Voltaire era un grande autore di teatro. Era tra l’altro l’autore dell’Henriade, poema popolarissimo in dieci canti, dedicato a Enrico IV e alla tolleranza. Ed un ascoltato interlocutore di un sovrano come Federico II di Prussia.
A Lilla, al teatro della Vieille Comédie, il 25 aprile dell’anno precedente, la tragedia ha avuto un grande successo. Anche il clero ha applaudito e questo ha rassicurato Voltaire. Ma a Parigi, dove l’opera deve andare in scena il 9 agosto, le cose si complicano. Interpellato come censore, Prosper Jolyot Crébillon, autore di cupe tragedie, ha dato un
giudizio negativo. Prevedendolo, Voltaire ha però mandato il manoscritto al cardinale de Fleury, il quale non ha fatto obiezioni. Il pubblico parigino è dunque, infine, ammesso allo spettacolo, e può cogliere facilmente le allusioni al fanatismo religioso in generale, e quindi anche a quello di casa. Gli spettatori, più avvertiti, meno bigotti di quelli di Lilla, sono entusiasti, avvertono l’audacia dell’autore, e sono al tempo stesso inquieti. Persino un prete, Le Blanc, trova «bella, forte, ardita e brillante» la tragedia. Ma i giansenisti,
gli integralisti cristiani dell’epoca, reagiscono. Loro non si lasciano ingannare: «Hanno visto cose enormi contro la religione ». Voltaire non presenta il Maometto conquistatore, ma il Maometto Profeta, e lo tratta da fanatico. I ministri si consultano. C’è chi trova la tragedia «irreligiosa, empia, scellerata», e chi vorrebbe lasciar correre. Si arriva a un compromesso: si proibisce Mahomet ma ufficiosamente.
Voltaire presenta Maometto come un impostore, e glielo fa confessare, subito, al primo atto. Assedia la Mecca con il suo esercito e cerca di convincere l’avversario a unirsi a lui. Gli confida i suoi progetti che sono quelli di un politico, di un capo militare. Tutte le potenze orientali sono in decadenza ed è giunto il momento degli arabi. I quali possono conquistare il mondo. Ma per questo bisogna fanatizzare gli uomini con una nuova religione. «Bisogna creare un nuovo culto». «Ci vuole un nuovo Dio per l’universo cieco». Il Maometto di Voltaire inganna, tradisce, seduce, è sensuale, vuole imprigionare Palmire nel suo harem. La bella Mademoiselle Gaussin, l’attrice preferita di Voltaire, recita nella tragedia. Di lei l’autore dice che è debole e volubile, ed anche «incapace di tenere un segreto come di conservare un amante». È lei che seduce Maometto.
Il pubblico di Mahometnon è ancora quello del teatro di Beaumarchais, emblematico dell’illuminismo, ma è già un pubblico che intravede «i lumi » René Vaillot, autore di uno dei cinque volumi di un’imponente biografia («Voltaire en son temps», diretta da René Pomeau ed edita dall’università di Oxford) ricorda che al posto di Mahomet,
il 16 agosto 1742, alla Comédie Française andò in scena Polyeucte di Corneille. E la platea, offesa dalla censura imposta a Voltaire, si vendicò applaudendo l’imprecazione di un protagonista contro i cristiani. E manifestò il suo entusiasmo alle parole tolleranti di un altro protagonista: «Approvo tuttavia che ciascuno abbia il suo Dio e che lo serva come vuole».
Due secoli e mezzo fa Voltaire usa Maometto per denunciare la religione sanguinaria. Egli ricorderà in proposito Réné Clement, spinto da un prelato ad assassinare Enrico III. Ed è stato un difensore di Calas, un protestante accusato ingiustamente dai cattolici di avere ucciso il figlio che si era convertito. Se è severo con Maometto, non risparmia, nel Saggio sui costumi, gli elogi alla civiltà musulmana e all’Islam in quanto regola di vita.
Per evitare che accetti l’interpretazione dei giansenisti, manda al Papa una copia di
Mahomet, con una lettera in buon italiano (Voltaire parlava e scriveva l’inglese e l’italiano) in cui dice che nessuno meglio «di un vicario e di un imitatore di un Dio di verità e di mansuetudine» può riconoscere la crudeltà e gli errori di un falso profeta. E poi esibisce un messaggio d’approvazione di Benedetto XIV che risulterà falso.

La Stampa 22.9.12
Cina-Giappone, la contesa che fa paura al mondo
di Bill Emmott


Il mondo è giustamente preoccupato dalla guerra civile in Siria, e dalla violenza antioccidentale nei Paesi arabi e nelle altre nazioni islamiche in risposta al noto film amatoriale che attaccava il Profeta. Ma c’è anche un’altra serie di tensioni di cui preoccuparsi: quelle tra Cina e Giappone. Molto probabilmente, alla fine rientreranno e tornerà la calma. Tuttavia, vi è un rischio significativo che non andrà così. Si potrebbe anche arrivare a un conflitto.
Viste da migliaia di chilometri di distanza, le questioni in gioco sembrano banali, persino assurde. Poche piccole isole nel Mar Cinese Orientale, note in Giappone come Senkaku e in Cina come Diaoyu, una manciata di rocce, di questo stanno discutendo la seconda e la terza economia più grandi del mondo. Eppure quelle rocce hanno scatenato le più gravi manifestazioni anti-giapponesi in Cina dal 2005, mentre in decine di città cinesi si sono radunate folle per protestare al di fuori delle ambasciate e delle fabbriche e dei negozi appartenenti ai giapponesi. Cosa ancora più inquietante, i media statali cinesi hanno riferito che «1000» barche da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole contese, determinate, si presume, a far valere le rivendicazioni territoriali della Cina sulla pesca all’interno di quello che sono attualmente acque territoriali giapponesi.
Quanto seriamente dovremmo prendere questa notizia? Al tempo dell’ultima grande ondata di manifestazioni anti-giapponesi, sette anni fa, avevo fatto proprio questa domanda a un vecchio politico giapponese del partito allora al governo, Taro Aso. La sua risposta fu noncurante: “Il Giappone e la Cina si odiano a vicenda da più di mille anni - ha detto, - non dovrebbe sorprenderla che anche oggi sia così. ”
Poiché l’onorevole Aso nel 2008-2009 diventò primo ministro del Giappone, un linguaggio così poco diplomatico era un po’ preoccupante. Ma in sostanza stava dicendo la verità.
Questi due Paesi sono sempre stati rivali a tutti i livelli - politica, cultura, economia, territorio.
Questo è chiaramente dimostrato dal fatto che entrambi rivendicano la sovranità su grandi distese di fondali e di oceano: la rivendicazione più controversa della Cina riguarda l’intero Mar Cinese Meridionale, con il rifiuto delle pretese di Vietnam, Filippine, Malesia e altri Paesi vicini; il Giappone rivendica le Senkaku, contese anche dalla Corea del Sud, e, per via della conformazione del Paese, un grande arcipelago di piccole isole, una vasta fascia dell’Oceano Pacifico.
Questo genere di rivendicazioni è di solito roba da avvocati e funzionari che si occupano della Convenzione delle NazioniUnitesuldirittodelmare, l’accordo internazionale che ha lo scopo di governare e arbitrare tali pretese di sovranità in «zone economiche esclusive». Ciò che preoccupa ora è che il problema tra il Giappone e la Cina si è spostato nelle strade delle città cinesi, nella politica nazionalistadientrambi iPaesi, einunmomento estremamente delicato della politica interna cinese.
Questo è ciò che lo rende pericoloso. Là in mare, se davvero 1000 navi da pesca cinesi si stanno dirigendo verso le isole occupate dai giapponesi - o anche se il numero reale è solo la metà di quello – potrebbe facilmente capitare un incidente, una collisione con una nave della Marina giapponese o con la guardia costiera. O anche un non-incidente, un errore di calcolo, con una nave affondata e la perdita di vite umane.
L’ironia della situazione è che si è verificata a causa delle mosse che il governo giapponese ha appena fatto per cercare di calmare le acque. Le isole Senkaku, che il Giappone ebbe in piena sovranità per la prima volta nel 1895, e poi riebbe nel 1972 quando gli Stati Uniti le restituirono al Giappone insieme a Okinawa, sono state a lungo di proprietà privata. Il governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, della destra nazionalista, ha proposto all’inizio di quest’anno di acquistarle per il suo governo metropolitano di Tokyo. Così il governo centrale del Giappone è intervenuto per acquistarle, con lo scopo di impedirgli di creare problemi.
La tempistica, tuttavia, ha trasformato una misura intesa a calmare le acque in un innesco. Il partito comunista che governa la Cina si sente sotto pressione per via degli scandali legati alla corruzione e al rallentamento dell’economia. Si attende per il prossimo mese la nomina di un nuovo presidente e di un nuovo primo ministro. Così, quando l’opinionepubblicacinesehacominciato a gridare ad alta voce slogan antigiapponesi in rete e nelle manifestazioni di piazza, il partito sembra aver deciso di sfruttare le manifestazioni per confermare le sue credenziali patriottiche invece di reprimerle.
Per lo stesso motivo, l’istinto di adottare la linea dura, e di mettere a segno provocazioni nelle acque intorno alle isole, andrà avanti per diversi mesi mentre si svolge questo passaggio politico. Anche in Giappone, la politica è instabile: le elezioni generali si terranno solo all’inizio del 2013 e una delle stelle nascenti della politica nazionale - il giovane (43 anni) sindacodi Osaka, ToruHashimoto - ha appena lanciato un movimento politico nazionale in parte basato sulla retorica nazionalista.
In precedenti occasioni, quando sono sorte tensioni tra Giappone e Cina, in un mese o due le acque si sono calmate. I legami economici tra questi due partner che condividono enormi scambi e investimenti di solito inducono i politici alla ragione. Nel 2008, il Giappone e la Cina riuscirono persino a concordare lo sviluppo congiunto di petrolio e gas sotto il fondo marino intorno alle isole Senkaku, anche se il progetto non è ancora stato attuato. Gli Stati Uniti, che nel Giappone hanno uno dei più stretti alleati, di solito riescono a calmare gli animi.
Molto probabilmente questo accadrà di nuovo. Ma in un anno di elezioni presidenziali, gli Stati Uniti non sono nelle condizioni migliori per calmare le acque, e in ogni caso la loro posizione morale sulla questione non è così forte dal momento che il Congresso non ha ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, anche se la Convenzione è stata approvata ben tre decenni fa, nel 1982. In passato, i grandi conflitti sono spesso sorti da contenziosi minori e da errori di calcolo. Il mondo deve pregare che ciò non accada di nuovo ora, per colpa di alcune piccole rocce nel Mar Cinese Orientale.

Corriere 22.9.12
Comincia il lento declino della potenza americana
risponde Sergio Romano


Gli attentati di questi giorni alle ambasciate americane e l'uccisione di un ambasciatore e di altri funzionari e militari americani e libici sono un fatto assurdo, oltre che tragico. Vorrei proporle un esercizio di fantasia: che cosa accadrebbe se, per assurdo, domani mattina gli Usa decidessero di richiamare in patria tutti i militari da tutte le zone in cui sono impiegati attualmente? Quali scenari si configurerebbero? La situazione sarebbe migliore o peggiore di adesso? Preciso che per me è una curiosità e non un auspicio, non essendo in grado di prevedere le conseguenze che potrebbero esserci.
Domenico Marino

Caro Marino,
Esiste negli Stati Uniti, sin dagli inizi della loro storia, una corrente fortemente contraria al coinvolgimento del Paese in qualsiasi problema internazionale che non abbia una immediata rilevanza per gli interessi americani. È nota con il termine «isolazionismo» ed è il risultato della somma di molti fattori: orgoglio nazionale, autosufficienza economica, sentimento di superiorità e una diffidenza d'origine religiosa per l'immoralità della politica in tutti i Paesi da cui pellegrini e migranti partirono verso le sponde del Nuovo Mondo. L'unilateralismo dei neoconservatori, all'epoca della presidenza di George W. Bush, è per certi aspetti un figlio bastardo dell'isolazionismo. I neocon erano favorevoli agli interventi militari, ma ritenevano che gli Stati Uniti potessero agire a loro piacimento grazie alla straordinaria superiorità dei loro arsenali. Erano convinti, in particolare, che la sconfitta dei talebani, l'eliminazione di Saddam Hussein in Iraq e una politica minacciosa verso l'Iran avrebbero «normalizzato», sotto l'egida americana, l'intero Medio Oriente.
Nel corso della sua presidenza Bush ha finito per ricercare l'appoggio degli alleati e ha annacquato gli aspetti più radicali della filosofia neoconservatrice. Ma nelle due guerre combattute dall'America nell'ultimo decennio del secolo, Washington ha perseguito una linea strategica strettamente americana senza chiedere e ascoltare consigli. Il risultato, anche se gli amici dell'America lo dicono a bassa voce, è sotto gli occhi di tutti: due guerre perdute e il peggioramento di tutte le crisi che turbano la pace della regione, dall'Egitto al Pakistan, da Baghdad a Teheran. A questa situazione si è aggiunta una crisi finanziaria dovuta in buona parte alla crescita di un nuovo potere americano, il potere finanziario, che Washington non ha potuto o voluto controllare.
I quattro anni di Obama alla Casa Bianca sono stati una fase di transizione. Il nuovo presidente voleva mettere fine alle guerre di Bush e sperava che una linea più conciliante e dialogante avrebbe consentito all'America di esercitare la propria leadership con minori contrapposizioni e migliori effetti. Non vi è riuscito e gli avvenimenti hanno smentito le sue speranze. Oggi l'America sembra essere divisa fra coloro che accusano Obama di essere stato troppo buono e coloro per cui la sua politica è la sola che possa essere praticata. Ma tutto sembra dimostrare che gli Stati Uniti, nelle grandi crisi internazionali, saranno sempre meno determinanti. Assisteremo quindi a un progressivo declino della potenza americana con effetti che sono oggi incalcolabili. È questa la ragione, caro Marino, per cui non ho neppure tentato di rispondere alla sua domanda.

l’Unità 22.9.12
Il «bombarolo» della psichiatria
Thomas Szasz, il ricercatore che disse «La malattia mentale è un’invenzione»
Il ricordo Uno dei protagonisti più scomodi influenti e ostracizzati della scienza psichiatrica (la considerava pseudoscienza) è morto l’11 settembre scorso all’età di 92 anni
di Stefano Carta
, psicoanalista

L’11 SETTEMBRE SCORSO È MORTO, ALL’ETÀ DI 92 ANNI THOMAS SZASZ, UNO DEI PROTAGONISTI PIÙ SCOMODI, INFLUENTI E OSTRACIZZATI DELLA STORIA DELLA PSICHIATRIA. Szasz era nato a Budapest da una coppia ebrea ungherese, che rifugiò negli Stati Uniti nel 1938 a causa delle persecuzioni naziste. Nel 1960, un anno dopo avere vinto la cattedra di psichiatria all’università di Syracuse, nello stato di New York, pubblicò quello che è considerato il suo libro più importante, Il mito della malattia mentale, al quale è seguita una produzione di decine di libri e centinaia articoli scientifici.
Il mito della malattia mentale fu accolto dalla comunità scientifica internazionale, così come in generale dal mondo della cultura, come una vera e propria bomba destinata ad esplodere nel cuore stesso della psichiatria. La tesi centrale del libro era, infatti, assolutamente «radicale»: la malattia mentale qualsiasi malattia mentale non esiste, essendo un artefatto inventato per ragioni di potere, prestigio e controllo dalla psichiatria, e fondato su quelli che Szasz considerava fondamentali errori epistemologici e metodologici.
Secondo Szasz, infatti, il termine malattia può essere riferito esclusivamente a malattie organiche, vale a dire a particolari condizioni osservabili e relative a organi o parti del corpo (come per esempio uno sbilanciamento nel metabolismo del litio). Alla base di questa definizione di malattia nei termini di malattia organica Szasz ha fatto posto il padre della patologia moderna, Rudolf Virchow, e il suo trattato del 1858 su La patologia cellulare nella sua fondazione dall'istologia patologica e fisiologica, considerato il punto di ancoraggio della patologia medica moderna.
Secondo l’acuta analisi di Szasz, imbevuti della cultura materialistica e riduzionista dell’epoca, gli psichiatri ottocenteschi, come Charcot e Freud (il quale era un neurologo «prestato» alla psichiatria) estesero il concetto di malattia dagli organi somatici e dai segni che ne evidenziano all’osservazione le patologie, a delle cosiddette «funzioni», creando così dal nulla una nuova classe di malattie, come l’«isteria di conversione», che vennero denominate, appunto, malattie funzionali. Tuttavia, mentre la malattia organica, per esempio, neurologica o neurochimica, è osservabile, quella funzionale, ovvero quella relativa ai comportamenti di una persona, era, secondo Szasz, inferita, e quindi letteralmente inventata da colui che interpreta un certo comportamento in termini, appunto, di malattia.
Per Szasz, quell’artefatto inventato e reificato che chiamiamo «malattia mentale» sarebbe quindi il frutto di una abusiva letteralizzazione di una metafora: il paziente che si comporta come se avesse una malattia organica (o sul quale uno psichiatra fa una simile attribuzione e assimilazione) viene etichettato come «malato mentale». Successivamente, a questa etichetta si sottrarrà il suo carattere metaforico, e si agirà come se il paziente fosse veramente affetto da una entità morbosa da eliminare. È evidente che l’eliminazione non sarebbe relativa ad un’entità inesistente, ma a forme particolari di comportamento, a forme particolari di vita. Un esempio di questo processo socioculturale di etichettamento è quello dell’omosessualità, fino a qualche decennio fa psichiatrizzata e «diagnosticata» come malattia mentale.
Szasz la pensava diversamente: secondo lo psichiatra la persona che, per esempio, si comporta da isterica o da depresso, mette in atto, esattamente come una persona «sana», comportamenti specifici orientato versi scopi. E questi comportamenti, a loro volta, iscrivendosi all’interno di una matrice intersoggettiva e sociale particolare, si organizzano e si articolano in forme e stili peculiari, che Szasz chiamava «giochi comunicativi». Pertanto, la differenza che passa tra un «sano» e un «malato» sarebbe data dal fatto che il secondo, iscritto in una matrice psicosociale di potere, non può o non riesce ad esprimere autonomamente, responsabilmente e liberamente gli scopi che desidera perseguire. In sostanza, per Szasz, la psichiatria, reificando la posizione subalterna del «malato», la confermerebbe isolandolo, etichettandolo e controllandolo sia attraverso processi di istituzionalizzazione che di «cura» farmacologica.
Szasz ritiene che colui a cui attribuiamo un’entità «reale» in verità un artefatto di carattere magico-religioso comunica, attraverso modi speciali, i propri scopi, cercando di evitare proprio ciò a cui la psichiatria, in analogia con i sistemi di etichettamento e «salvazione» delle streghe medioevali, poi lo condannerà. Per Szasz, quindi, la malattia mentale è un etichettamento patologizzante, controllante ed espulsivo di un comportamento intelligente che usa strategie difensive e di occultamento rispetto ad un ambiente oppressivo o comunque fortemente asimmetrico. Queste strategie comunicative per Szasz utilizzavano codici protolonguistici e linguaggi non-discorsivi, iconici e performativi, per manifestare ciò che in una posizione di maggior potere negoziale il soggetto potrebbe esprimere in forma più consapevole, libera e diretta.
Spesso Szasz è stato assimilato all’antipsichiatria, o addirittura ne è stato considerato il padre. Niente di più falso. Più volte, infatti, riportando il motto di Voltaire: «Dio mi protegga dai miei amici, che dai nemici mi proteggo io», Szasz sottolineò come Cooper a Laing in primis, e tutta l’antipsichiatria inglese, a partire dalla questa orrenda denominazione, anziché avvalorare l’inesistenza della malattia mentale la perpetuava attraverso pratiche comunque psichiatriche, unite ad una sinistra pseudo-idealizzazione di questa entità creata ad hoc. Se, come recita un suo libro recente, la psichiatria era un’ «impostura» per Szasz, l’antipsichiatria era un’impostura al quadrato.
Se mai un inquadramento filosofico fosse possibile, Szasz era un radicale esistenzialista; una sorta di estremo Sartre di «destra» (nel senso ampio che Bobbio diede a questa categoria) difensore radicale della libertà individuale, vicino all’interazionismo simbolico, al costruzionismo sociale (come nel caso di Goffman), alla psichiatria di Sullivan e, forse, alla «psicologia dell’azione» di Shafer nonché alla critica mossa dall’etnopsichiatria di Tobie Nathan all’impianto psicoanalitico a partire dai suoi dispositivi tecnici. Ma Szasz certamente non apparteneva all’antipsichiatria, né all’atteggiamento di Foucault, che considerava un critico algido e non impegnato in nessuno degli effetti che le sue analisi mettevano in luce.
Szasz fu sempre molto chiaro nel non voler essere «infangato» dall’etichetta di antipsichiatra proprio per il fatto la sua era una critica radicale, paradigmatica, alla psichiatria nel suo complesso. E, come fu con il flogisto prima di Lavoiser, sotto la critica di Szasz letteralmente scompare tutto un mondo che, nel paradigma precedente alla critica (quello, quindi, psichiatrico) sembra ovvio e reale. Per questo lo psichiatra dichiarava che la sua non era un’opera di psichiatria, ma una critica sulla psichiatria, e ai pochi psichiatri che non lo liquidavano con una scrollata di spalle, ma contrattaccavano, rispondeva che la loro richiesta di dimostrare l’inesistenza della malattia mentale e il suo carattere mitico e coercitivo era insensata, proprio perché verteva ancora su una invenzione inesistente di una pseudoscienza.
Oggi viviamo in un’epoca dominata dal manuale statistico diagnostico (Dsm) delle malattie mentali: una vera e propria Bibbia nosografica che, come un lupo essenzialista travestito da agnello nominalista (Brierley), deculturalizza i propri soggetti descrivendoli attraverso moduli comportamentali parcellizzati i quali escludono a priori la possibilità di un progetto e un senso simbolico delle condotte, e che, così facendo, nomina entità nosografico-nosologiche quasi-reali. Viviamo in un mondo in cui la «farmacocrazia» non solo produce strepitosi profitti, ma anche promette l’estirpamento di quella «malattia mentale» che Szasz riteneva essere invece il tentativo di progetti ed espressione simboliche individuali da tradurre e interpretare. Viviamo in un mondo di straordinari progressi neuroscientifici (quindi appartenenti al regno dell’organico), che vengono spesso invocati per giustificare la «cura» della malattia «mentale».
Un buon atteggiamento scientifico, falsificazionista fino in fondo, imporrebbe non di espellere Szasz dalla riflessione e dalla letteratura psichiatrica contemporanea, ma, al contrario, di assumerlo come il più formidabile critico dell’impostazione dominante. È infatti, possibile che Szasz fosse un visionario e fosse in errore, tuttavia credo che la domanda più utile e dotata di maggior forza euristica oggi resterebbe questa: «E se avesse avuto ragione»?
Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida.

CHI È
Professore emerito emarginato dai «colleghi»
Thomas Szasz, nato a Budapest nel 1920, era dal 1956 professore emerito di psichiatria al Centro Scientifico sulla Salute della State University a New York. Nel 1961 ha scritto l’esplosivo «Il mito della malattia mentale» (in Italia edito da Spirali) che lo portò alla fama internazionale (e all'emarginazione); «L’etica della psicoanalisi» nel ’65 (Armando) in cui Szasz considera la psicoanalisi una forma laica di confessione; «La schizofrenia, simbolo sacro della psichiatria» nel 1976.

l’Unità 22.9.12
Henry Bauchau, una vita di lotte
Se ne è andato a 99 anni lo scrittore e psicanalista belga
di Anna Tito


La prima battaglia fu con la sua famiglia che non voleva si dedicasse alla letturatura. Poi la Resistenza e l’esperienza in un ospedale per disadattati. Il successo arrivò con «Lo strappo»

È SCOMPARSO L’ALTRA NOTTE NEL SONNO, QUATTRO MESI PRIMA DI COMPIERE CENTO ANNI, NELLA SUA «CASA DELLE FATE» di legno grigio nella foresta di Louvenciennes, lo scrittore, poeta, drammaturgo e psicanalista belga Henry Bauchau, considerato uno dei più importanti scrittori di lingua francese.
Attraversare il secolo scorso e anche andare oltre fu per lui una lunga lotta, iniziata all’età di tredici anni, quando decise di dedicarsi alla letteratura dopo aver letto Un cuore semplice di Gustave Flaubert: dovette combattere con la sua famiglia di industriali valloni per i quali gli scrittori non possono essere che saltimbanchi o geni, e lo invitarono a studiare giurisprudenza.
E nel 1936, a ventitré anni, puntualmente, divenne avvocato del Foro di Bruxelles. Un decennio dopo entrò nella Resistenza nelle Ardenne in seguito all’occupazione nazista. Aveva fino ad allora scritto qualche poesia e alcuni articoli. Si trasferì a Parigi nel 1946, dove fece il grande incontro destinato a dare una svolta alla sua vita, quello con la psicanalisi: immergendosi nei meandri del suo inconscio, scoprì un universo interiore che gli era del tutto sconosciuto, e decise di assecondare la sua passione per la scrittura. Apparvero nel 1958 nella prestigiosa collana «Métamomorphoses» di Gallimard alcune sue poesie (Géologie), ed esordì come drammaturgo con Gengis Khan (1960), messo in scena a Parigi l’anno successivo da Ariane Mnouchkine.
La notorietà come romanziere arrivò con La déchirure (Lo strappo) del 1966, libro dell’abbandono, nato dal «Piccolo quaderno di tela grigia» in cui annotava i ricordi d’infanzia, quelli della Grande guerra, nel suo caso. Aveva poco più di un anno quando scampò per miracolo, insieme ai nonni, all’incendio di Lovanio nell’agosto del 1914. Non ritrovò sua madre che alcuni mesi dopo, e mai si riprese da questo «strappo originario». Come nelle favole, il bimbetto venne a conoscere la storia di quella giornata di orrori nascosto sotto il tavolo con il fratello.
La guerra, sempre lei! Costrinse il padre ingegnere e cacciatore di farfalle, a smettere di lavorare, e la famiglia venne a trovarsi sballottata da una casa all’altra, ospitata da parenti e amici non sempre benevoli. Era troppo per l’ipersensibile Henry: «Era disoccupato e ci trattavano come i parenti poveri», scriveva ricordando l’umiliazione di quegli anni.
Nel 1975 iniziò a Parigi a esercitare la professione di psicoterapeuta in un ospedale per giovani disadattati, esperienza che rievcò una trentina d’anni dopo in L’enfant bleu, che ha per protagonista il giovane Orion, psicotico tredicenne che solo con l’arte riesce placarsi. Rese in poesia il «freudismo» in La sourde oreille ou le rêve de Freud (1981), opera poetica direttamente ispirata alla psicanalisi, e apparvero i romanzi Edipo sulla strada (1990) e Antigone (1997).
Eletto nel 1990 membro dell’Académie royale de littérature de la Communauté française de Belgique, lascia un’opera densissima, in cui la poesia, la psicanalisi, la letteratura e la mitologia vengono a fondersi, tutte insieme, per riempire uno strappo originario, quello della separazione dalla madre nella Grande guerra. In Bauchau tutti i generi ne fanno uno solo, poiché rifiuta ogni frontiera fra la letteratura, l’arte, la psicanalisi, la storia, il mito o la poesia. E la trasversalità del suo lavoro e dei suoi interessi la ritroviamo appieno in Journal d’Antigone (1999), al tempo stesso diario, autobiografia, raccolta di frammenti letterari, poesie, saggi...
IL DILUVIO
Al tema del Diluvio è dedicato Déluge (2010), in cui un pittore folle, alle prese con una tela gigantesca sul Diluvio è «un uomo esausto, felice, a volte meravigliosamente felice e disperato sempre». Spiegò l’autore: «è vero che io sono spesso esausto, in fondo sono alla fine della mia vita. La sola cosa che posso fare ancora oggi, è scrivere, dettando ormai, perché la mia mano non regge più». Era quasi sordo e cieco, ma proseguiva nella sua creazione letteraria.
Caso rarissimo per un autore ultranovantenne, negli ultimi anni della sua vita scrisse quanto nei precedenti: nel 2008 gli è stato conferito il Prix du Livre per Boulevard périphérique (Il compagno di scalata), romanzo sul ricordo e l’ombra della morte, che mai però indugia nell’egotismo e nell’indulgenza per il passato; al contrario, Bauchau vi appare estremamente attento al presente, «unico vero luogo del Divino».
Conservava nei suoi cassetti della casa nella foresta un racconto sulla Vergine, una massa di giornali e un romanzo sulla guerra del 1914, ancora una volta vista con gli occhi del bambino che era, insieme al manoscritto di un volume su Blanche Reverson e Pierre Jean Jouve, protagonisti del grande incontro della sua vita, quello con la psicanalisi: Pierre et Blanche, che apparirà a giorni da Actes Sud.

venerdì 21 settembre 2012

l’Unità 21.9.12
La caduta di un sistema feudale
di Vittorio Emiliani


CENTOQUARANTADUE ANNI FA I BERSAGLIERI ITALIANI ENTRAVANO IL 20 SETTEMBRE in Roma dalla breccia di Porta Pia, con non pochi morti e feriti, mettendo fine al potere temporale dei papi e il severo Quintino Sella diventava il regista della Terza Roma. Centoquarantadue anni dopo alla Pisana si apre pure una breccia, ma in uno scandalo che ferisce lo Stato regionale, l’idea stessa di democrazia. Uno scandalo fra i più gravi e grotteschi che si ricordino, anche in una città come Roma che di corruzione ne ha vista passare parecchia assieme all’acqua del Tevere. Del resto le carte dei giudici milanesi non parlano linguaggi molto diversi per i vertici della Regione Lombardia.
Che è lontanissima dall’austera, morale efficienza e lungimiranza del riformismo lombardo.
Lo scandalo scoppiato alla Regione Lazio è di tale natura e dimensione da non poter essere ridotto o medicato con misure parziali.
Esso esige l’azzeramento e nuove elezioni.
Perché parliamo di uno scandalo «diverso» rispetto ai molti scoperchiati in giro per l’Italia? Perché qui i nostri denari, destinati ai gruppi consiliari regionali, sono stati usati come se si trattasse di una torta da spartire fra un certo numero di privilegiati del centrodestra, un bel pacco di euro per ciascuno.
Da spendere a piacere: cene, festini, viaggi, convivi di massa e via brindando. Senza controlli di sorta. Come se ormai la politica fosse e in molti casi lo è una impresa individuale o di clan. Mentre i contribuenti (i redditi fissi per lo più) pagavano e pagano una crisi senza fine.
Si è sparato a zero, per anni, sui partiti. Salvo scoprire che, liquefatti, o autoaffondatisi, i tanto detestati (dalla destra) partiti, al loro posto, con l’irrompere del partito-azienda e degli interessi del «salvatore», si è creato un vuoto agghiacciante di idee-guida, di programmi, di moralità, di controlli.
In Tangentopoli si è detto in sede di bilancio si prendevano i soldi per il partito, ora li prendono ognuno per sé. E la marea della corruzione sale, togliendo ossigeno all’economia oltre che alla moralità.
«Ognuno è padrone a casa sua», è stato uno degli slogan più fortunati di Silvio Berlusconi. Alla Regione Lazio gestione-Polverini è diventato un motto feudale: al vertice c’era una governatrice che, forse troppo inesperta e occupata, poco o nulla vedeva (colpa non lieve), mentre ai suoi piedi i neo-notabili si sentivano autorizzati a quella «dolce vita» di massa da decine di migliaia di preferenze incettate come sappiamo. Alla maniera di questo Fiorito, detto, chissà perché Batman: quello dei fumetti è un superatleta che vola a stornare soprusi e ingiustizie; questo è un tipo grasso e imbarazzante che ammette di aver distribuito i soldi del suo gruppo (soldi di tutti) «a otto ladri» (dice lui), sapendo che ne avrebbero fatto un uso solo personale.
Un tempo si protestava fieramente contro le correnti dei partiti che si finanziavano per organizzare convegni, studi, riunioni in provincia, o, annualmente, a livello nazionale (a Montecatini, a Saint Vincent, a San Pellegrino, ecc.) e anche, specie nel Sud, per le campagne elettorali.
Cose che comunque avevano a che fare, in modo diretto sovente, col dibattito politico. Qui siamo alla «società dei magnaccioni» allo stato puro, ai banchi della porchetta, al «ma che ce frega, ma che ce importa», senza alcuna ricaduta di tipo sociale (se non per il fatturato di ristoratori e affini). Gli spavaldi «magnaccioni» della canzone popolare almeno protestano «contro ‘sta zozza società». Quindi un fine politico se lo danno. Per poi confessare candidamente: «A noi ce piace de magnà e beve, e nun ce piace de lavorà». Come questi qua, che in più però se la spassano a spese nostre, gettando fango a raffica sulla politica, sulla Regione, sullo Stato regionale. Per questo la cura non può che essere radicale. Essa deve tuttavia contenere il recupero di strumenti di controllo che sono stati divelti o gettati chissà in quale scantinato della Pisana (e di altre Regioni). La soluzione presidenziale è stata piegata in Italia a caricatura grottesca (costosa e corrotta), togliendo voce agli oppositori e senza nulla guadagnare in efficienza e governabilità. Anzi.

Corriere 21.9.12
L’ingordigia dei mediocri
di Gian Antonio Stella

qui

«[Alla Regione Lazio...] I partiti, tutti assieme, incassano in un anno — ufficialmente per l'attività politica — dodici milioni di euro» [...]
Di certo, nessuno sa spiegare come la cifra totale venga divisa tra i partiti: difficile che il criterio sia il numero dei consiglieri, perché altrimenti La Destra (due persone, 538 mila) avrebbe gli stessi soldi di Sel, Fds (due consiglieri, 322 mila euro) o dei Radicali (422 mila). [...] Non rimane che leggere le cifre: detto dei partiti maggiori (il Pdl quasi tre milioni di euro totali, il Pd, 14 consiglieri, incassa poco più di due milioni, l'Idv ne ha cinque e prende 1.217.000), rimangono i monogruppi. Verdi (183 mila euro), Api (181), Mpa (182), Fli (188), Gruppo Misto (180). Poi ci sono i 154 mila euro dei Responsabili di Olimpia Tarzia: nelle sue note, «indennità e rimborsi per i consiglieri» per quasi trentamila euro. C'è ancora la Lista Civica dei cittadini di Giuseppe Celli (180 mila) [...]
Alessandro Capponi sul Corsera di oggi, pag. 5

«Fiorito: "Le cifre che prendiamo sono vergognose. In tutto il consiglio regionale vengono distribuiti 17 milioni di euro fra i vari gruppi consiliari attraverso un patto". Un meccanismo di sovvenzioni esteso a tutti i gruppi regionali»
La Stampa 21.9.12
Scatta il blitz della Finanza Alla Regione tremano tutti
I magistrati vogliono capire se il “sistema Fiorito” coinvolge anche gli altri partiti
E ora la Guardia di Finanza sta estendendo le indagini per verificare come sono stati usati finora i fondi di tutti i partiti della regione Lazio
di Flavia Amabile


ROMA Mentre il capogruppo del Pdl alla Regione Francesco Battistoni ha dato le dimissioni come chiesto dalla presidente Renata Polverini, da ieri gli investigatori del nucleo di polizia stanno effettuando controlli negli uffici del consiglio regionale ma stanno anche sentendo i funzionari dell’ufficio di presidenza per capire come funzioni il regolamento sui finanziamenti per poi estendere le indagini agli sportelli bancari e ai movimenti bancari di tutti i gruppi.
Gli investigatori cercano riscontri alle rivelazioni arrivate durante l’interrogatorio dell’ex capogruppo del Pdl alla Regione, Franco Fiorito che ha consegnato «almeno due casse di documenti» e indicato i nomi di una decina di persone, quasi tutti consiglieri regionali.
Nei prossimi giorni Franco Fiorito sarà ascoltato anche dal pm di Viterbo Massimiliano Siddi per un nuovo filone di questa pessima vicenda. Tre fatture potrebbero essere gonfiate. La fattura numero 735 emessa dalla Panta Cz per una campagna pubblicitaria è di 3 mila euro e non di 13 mila. Altre due risultano emesse dalla Majakovskij Comunicazione: una da 1275 euro sarebbe stata portata a 12mila mentre la seconda, di 15 mila euro, risulterebbe totalmente falsa. Ma le somme spese dall’ex capogruppo Francesco Battistoni con partner commerciali con sede della Tuscia sono almeno una ventina e almeno metà sarebbero state falsificate secondo il consigliere regionale.
Il rischio sempre più concreto, a questo punto, è che la vicenda dilaghi in un susseguirsi di rivelazioni e illegalità. «E’ una vicenda che può portare a sviluppi clamorosi e a colpi di scena inimmaginabili», conferma Enrico Pavia, l’avvocato che insieme con Carlo Taormina difende Fiorito. L’ex capogruppo, infatti, «è provato, ma allo stesso tempo determinato nella richiesta di approfondimenti delle posizioni di altri consiglieri regionali».
Nel frattempo il Consiglio Regionale è convocato per questa mattina alle 11 e mezza per esaminare i tagli chiesti dalla presidente Renata Polverini: il dimezzamento delle commissioni consiliari permanenti, la cancellazione delle tre commissioni speciali: «Federalismo fiscale e Roma Capitale», «Sicurezza ed integrazione sociale, lotta alla criminalità», «Sicurezza e prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro».
Le dimissioni di Francesco Battistoni sono giunte al termine di un lungo incontro in via dell’Umiltà con il segretario del Pdl Angelino Alfano. Non è stato semplice ottenere il passo indietro e ora si cerca il successore adatto per dare un segnale di svolta da parte del partito rispetto ad una vicenda che rischia di costare molto cara. I nomi che circolano sono di Antonio Cicchetti o Chiara Colosimo, anche loro due ex-An per non modificare gli equilibri.
«Abbiamo persone degnissime all’interno del gruppo che possono succedere a Battistoni - assicura il coordinatore regionale del Pdl Vincenzo Piso - sono persone con qualità diverse. Cicchetti è riconosciuto da tutti come una persona onesta, di grande esperienza. La Colosimo è una brava ragazza, che rappresenta la freschezza».

Repubblica 21.9.12
La mangiatoia degli ex missini
Addio ai miti Patria e Onore gli ex Msi nell’orgia del potere tra case di lusso, cene e auto blu
di Filippo Ceccarelli


DOMANDINA innocente, ma fino a un certo punto. Come mai gli ex missini sono, o appaiono, o comunque risultano, in tutte queste storie, i più famelici? Quale misteriosa energia spinge questi attempati giovanotti?

SONO cresciuti con il mito della Patria, dell’Ordine, della Gerarchia, dell’Onore, della Tradizione e via dicendo. E ora perché sono lì ad abboffarsi senza requie nei ristoranti di lusso? Quale maligno incantesimo, quale invincibile demonio li obbliga oggi a smaniare e a vendersi l’anima e la reputazione per una casa con un buon indirizzo o per una villa, un Rolex d’oro, una macchina di alta cilindrata, un autista servizievole, uno champagne millesimato, una vacanza esotica, una consulenza alla Rai, una escort che lo è, ma non lo sembra?
Quando Francone-Batman rivendica di sentirsi «il federale» non viene più nemmeno in testa quella fantastica pellicola con Ugo Tognazzi (1961). E a guardare tanti suoi ex camerati, quegli stessi che in gioventù rischiavano o prendevano le botte nelle scuole o sotto casa, si resta attoniti come dinanzi a un sogno che è svanito. Adesso fanno anche un po’ ridere gli effetti del risveglio. Però il ripudio degli ideali, la secolarizzazione nera, come quella bianca e quella rossa, si rivela col tempo una faccenda molto seria e anche un po’ triste. Ma quale fascismo! Questi che saturano le cronache con i loro grossolani desideri hanno in realtà acchiappato il peggio dei loro nemici, quegli stessi che per anni e anni li avevano rinchiusi in un recinto per appestati, o li avevano seppelliti nelle catacombe a lucidare mortiferi labari e polverose reliquie; prima che il Cavaliere gli restituisse la vita all’aria aperta, ma sempre stando bene attento che ai nuovi alleati un po’ rimanesse appiccicato il complesso d’inferiorità, che nel caso specifico ha tuttora e a buon ragione il nome di «impresentabilità». No, non è nostalgia, «ah, i buoni fascisti di una volta! ». E’ che ora la compromissione dei postmissini in ciò che un tempo definivano «il regime» s’è intensificata e accelerata, e la trasformazione non solo li ha visibilmente e definitivamente stravolti, ma li sta anche perdendo, forse per sempre. Famelici, sì. «È ora famelica, l'ora tua, matto. / Strappati il cuore» (Ungaretti). E se pure non esiste un attendibile strumento che misuri il primato della bulimia di potere degli ex missini rispetto ai leghisti, per dire, o ad altri eroi dell’appropriazione selvaggia. Ma certo a Roma, con Alemanno, il processo è vistoso, asfissiante, spesso ridicolo perché al tempo stesso sorcio e tracotante.
Fecero impressione, quando fu eletto, i saluti romani, ma oggi francamente spaventano di più le parentopoli Ama e Atac, gli sprechi pazzeschi, le arcane consulenze, i capricci di elicotteri acquistati, i «Punti verdi» di sospetto lucro a schermo ecologico, gli orrendi e costosi alberi di Natale commissionati ad agenzie amiche, poi ritirati e ripiantati in periferia, gli uffici di comunicazione che proliferano improbabili professionalità, a loro volta da girare ad altri enti a prova di elezioni ormai date per perse. E gli incredibili videoclip di santificazione del sindaco, i sogni di bolidi sfreccianti, i pomposi Stati Generali e milionari, gli ex banditi della Magliana e gli ex terroristi dei Nar «sistemati» su comode poltrone.
La tentazione è che si tratti di fame antica, atavica, ancestrale. Una sorta di risarcimento che lega i poveri pasti dei padri epurati, le minestre degli enti di assistenza, oppure i «ranci» militareschi, al massimo le porchettate nel ristorante vicino al Luna Park all’odierno raffinato magnamagna, agli smoking, ai Suv, ai red carpet, alle hostess e ai buttafuori con l’auricolare in vista, insomma all’odierna e ostentissima pacchia.
L’inventore della «Festa dei nonni», il giovanissimo Samuele Piccolo, recordman di preferenze al Consiglio comunale, è finito in prigione con qualche parente. Durante la perquisizione agli uffici del clan volavano i documenti dalla finestra e gli armadi sigillati dalla Guardia di finanza sono stati violati. Si è poi scoperto che i Piccolo si erano anche agganciati alla cabina dell’Enel per recuperare elettricità.
In Campania ci sono esponenti, come l’onorevole Landolfi, sotto accusa per avere avuto impicci con la Camorra; mentre da qualche mese l’onorevole Laboccetta è nei guai per i suoi stretti rapporti con il mondo delle società del gioco d’azzardo. Ma dietro le questioni giudiziarie tuttora aperte, per gli ex missini del Pdl ma anche per Fini e per quelli che l’hanno seguito nel Fli, s’intravede un andazzo di villana ostentazione, una voglia pazza o forse addirittura un destino di edonismo disperato e a buon mercato. Vita comoda, case all’estero, viaggi esotici, servizi fotografici patinati, le carte di credito della Rai utilizzate per le spesucce dall’onorevole Rositani, i premi Almirante in prima serata, l’«Ignazio Jouer» di Fiorello, le poltroncine bianche di Vespa, l’amichetta che presenta il 150°, le fiction futuriste, i quotidiani che durano mesi, l’imitatrice che la Polverini (« A’ bellaaa! ») ha voluto portarsi a pranzo in regione, le sfilate di moda baby, i compleanni con Novella2000, le maxi-torte, Malgioglio e la principessa Borghese.
Peppino Ciarrapico, in fondo, insediato com’era nel formaggio dell’andreottismo all’ultimo stadio, era un profeta della trasformazione degli «esuli in Patria » in gaudenti uomini di potere, e più in generale del percorso che dal trittico «Dio Patria e Famiglia » inesorabilmente li avrebbe convertiti, o adeguati, o perfino addomesticati lungo l’asse degeneratasi in: «Io Patrimonio e Tengo Famiglia».
Hai voglia poi a intitolare qualche strada «via Almirante». E hai voglia a invocare le foibe e intanto prendersela con Berlusconi. Il vuoto di ideali si è riempito di soldi, voglie, esibizionismo, vanità. In altre parole si è colmato di nulla, del Nulla. La fine della diversità è l’inizio della fine. Francone- Batman, Polverini e gli altri ex camerati non possono farci nulla. Dopodomani, d’altra parte, non importerà a nessuno sapere chi vinse il campionato di voracità, avendolo perso l’intero paese.

l’Unità 21.9.12
Lo spazio dei progressisti
di Alfredo Reichlin


SE HO CAPITO BENE CIÒ CHE HA SPINTO BERSANI A CHIEDERE NON SOLO AGLI organi dirigenti del suo partito ma a milioni di persone, a tutta l’Italia del centrosinistra, di legittimare la sua candidatura alla guida del paese non è l’ambizione personale. Almeno, credo.
È la consapevolezza che gli italiani sono di fronte a una scelta di portata storica alla quale non possono più sottrarsi. In poche parole: l’Italia così com’è non regge alle nuove sfide che derivano dal fatto del tutto inedito che stiamo entrando a far parte di una nuova costruzione europea. Se il Paese non si riforma e non si modernizza, sia come Stato che come nazione finirà ai margini della storia, come nel ‘600. È da qui che viene l’interrogativo (che è serio e non è solo italiano) sulla candidatura del Pd a guidare l’Italia in questo passaggio storico. Che poi tutto questo dia spazio anche a manovre, a manovrette, a calcoli personali e ridicole ambizioni, è normale. Ma il problema vero è l’altro. E sta qui il bisogno di un rinnovamento radicale di idee.
Sono passati cinque anni dall’inizio di una devastante crisi mondiale e non si vede una via d’uscita. Ma allora è sulla parola crisi che bisogna intendersi. È evidente che non si tratta di una normale crisi che si chiude dopo alcuni trimestri e poi la vita ricomincia come prima. In realtà noi siamo già di fronte a un nuovo processo di trasformazione dell’«ordine» mondiale. L’oligarchia finanziaria che fa capo a Wall Street e alla City conserva tutta la sua potenza ma non è più in grado di dettare il futuro del mondo. Valuteremo tra poche settimane i risultati e gli effetti delle elezioni americane. Saranno grandissimi. In Europa la crisi dell’Eurozona continua ma la moneta unica ha resistito e il grande tema politico di fare dell’euro lo strumento di una sorta di Stato federale europeo è venuto sul tappeto. Il fatto avrebbe conseguenze enormi e confermerebbe che un riequilibrio sulla distribuzione della ricchezza globale è in atto. Dice qualcosa che le economie emergenti detengono ormai la maggioranza delle riserve internazionali rispetto alle economie avanzate? In sostanza ciò che è in atto è molto di più di una crisi, è una transizione per cui il mondo di oggi è già molto diverso di quello di cinque anni fa. La grande illusione che il processo storico della globalizzazione si potesse governare dando mano libera ai mercati finanziari e riempiendo il mondo di debiti non è riproponibile. Wall Street conta. Ma nei Paesi emergenti si sta formando un gruppo di imprese multinazionali in grado di condizionare i flussi degli investimenti. E mi sembra sempre più difficile impedire l’evoluzione del sistema monetario internazionale da un modello in cui il dollaro era l’unica moneta di riferimento ad un regime dove, oltre al dollaro, avranno un ruolo crescente l’euro e la moneta cinese.
Bisognerebbe quindi guardare anche alle cose italiane con occhi un po’ diversi da quelli del miserabile baraccone politico e giornalistico italiano che rincretinisce la gente. La decadenza del Paese è del tutto evidente. Eppure io credo che la partita non è giocata. Anzi. Forse si riapre. Molte cose stanno cambiando anche se noi appena le intravediamo. Nella sostanza io credo che si sta allargando lo spazio per una forza popolare e progressista di stampo europeo che abbia l’ambizione di costituire il perno non solo di una svolta politica ma di una rinascita sociale e morale. Al di là dei suoi silenzi, delle sue risse inconcludenti e delle debolezze del suo scombinato gruppo dirigente, io mi ostino a credere che il Pd è la sola forza in grado di capire che nuove prospettive si aprono alle forze di progresso. Faccio un solo esempio. Finalmente si riapre la grande questione della «produttività». È giusto. Non si vive di solo spread.
Alla fine ciò che conta è la produttività del lavoro, compreso il lavoro dell’imprenditore. Ma allora il lavoro ritrova la sua dignità e centralità. Allora esiste anche il «capitale sociale» e non solo quello finanziario. Allora vi siete sbagliati. Non regge l’illusione del denaro fatto col denaro, del lavoro ridotto a puro prezzo , residuo, roba da usa e getta. Torna a contare non più solo il banchiere e dovete smetterla di guardare il Pd dall’alto, come un prodotto dialettale. Ma anche noi stiamo attenti a non montarci la testa. Noi non siamo il passato che ritorna. Un «neo-sinistrismo» sarebbe del tutto fuori dalla realtà. Così come un «neo-liberismo». Non si tornerà al mondo di ieri. L’economia finanziaria ha cambiato tutto. Ha coinvolto tutti: le imprese produttive come le famiglie come gli Stati e le istituzioni pubbliche. Ha cambiato non solo i confini del mondo ma il modo di essere della società umana. E in modo radicale. Per questo è così difficile uscire dalla crisi. Ma questo non deve scoraggiarci. La forza di un nuovo pensiero riformista, (e la sua radicalità) stanno proprio nel fatto che un nuovo assetto dell’economia comporta, necessariamente, un nuovo assetto della società, dei bisogni e dei valori. Dunque, la politica e la società tornano a contare. Devono entrate in scena nuovi attori, sia politici che sociali. Ma il mondo di ieri non tornerà più.
Il capitalismo globale non ha rappresentato solo un ampliamento senza più confini del sistema dell’economia di mercato. Esso ha rotto la vecchia trama su cui si era fatta la storia delle società umane, cioè la trama degli Stati, delle solidarietà sociali, della famiglia, delle religioni, insomma le cose all’interno delle quali si erano sviluppati i sistemi economici precedenti. E tuttavia non torneremo ai vecchi blocchi sociali. L’individuo ha assunto una nuova dimensione ma il suo apparente trionfo si è accompagnato allo smarrimento di quelle certezze che derivano da un rapporto meno squilibrato tra la potenza del denaro e il potere della società e delle istituzioni. La gravità della crisi italiana va letta anche così. La produttività italiana è diminuita per tante ragioni ma tra queste c’è la trasformazione del cittadino produttore in un consumatore.
Oggi misuriamo fino a che punto ciò ha distrutto l’antico sapere degli italiani e lo straordinario saper fare dei suoi lavoratori-imprenditori. Ma per fortuna le radici della pianta-uomo italiana non sono morte. Andate a vedere come l’Emilia risorge dal terremoto. È la cultura cooperativa: il mio successo dipende anche dal tuo successo, non dalla tua rovina. Non esiste ricchezza fondata sulla rovina degli altri. Questa è la nostra bandiera. Ma la novità è che questa non è più una affermazione astratta e ideologica. La novità è che l’Europa e il mondo non possono più far leva come nel passato sui consumi privati ma devono porsi il problema di nuovi bisogni e di una nuova domanda. E quindi il problema di nuove forme di vivere e di associarsi degli uomini tra loro.

l’Unità 21.9.12
Regole e candidati
Tensioni nel Pd verso l’assemblea
Malumori Areadem sulla linea. Bindi contro la deroga per Renzi: nel fine settimana deciderà se correre
di S.C.


Gli attacchi dal fronte pro-Renzi, ma anche i dubbi espressi dagli esponenti di Areadem, le riserve dei bindiani “Democratici davvero”, e poi la richiesta di chiarimenti da parte degli ex-popolari, per non parlare dei “montiani” (già veltroniani di Modem) che tra dieci giorni si riuniscono per decidere (al netto di quelli che già hanno optato per Renzi) se scendere in campo con una propria candidatura. La scelta di Bersani di indire le primarie per decidere chi sarà il candidato premier del centrosinistra sta agitando parecchio le acque nel Pd. E allora l’Assemblea nazionale convocata per il 6 ottobre per modificare lo statuto e dare di fatto il via alla competizione rischia di non essere semplicemente un passaggio burocratico. Quel giorno si voterà una deroga al regolamento interno al partito che consentirà a tutti gli iscritti del Pd, e non solo al segretario, di correre per la premiership. Servirà però il via libera da parte del 50% più uno dei membri elettivi dell’Assemblea nazionale (poco meno di mille) perché l’operazione parta. E benché sia difficile che riescano nell’intento, sono in molti nel Pd a volerlo impedire.
Rosy Bindi non fa mistero di pensare che sia un errore votare una norma ad hoc che permetta a Renzi di candidarsi contro Bersani. La presidente del Pd da oggi a domenica riunisce a Milano marittima la componente “Democratici davvero”, nata per la sua corsa a segretario del Pd alle primarie del 2007. Lì scioglierà la riserva sulla sua candidatura alla sfida del 25 novembre. Bisognerà invece aspettare il week-end della prossima settimana per capire come si muoveranno Ichino, Tonini, Ceccanti, Follini e gli altri che sostengono la necessità di proseguire nel solco dell’agenda Monti (Gentiloni e Morando hanno comunque già espresso apprezzamenti per Renzi).
Non meno agitazione c’è tra gli ex-popolari, che vogliono «serietà e chiarezza» in vista delle primarie, e che con Lucio D’Ubaldo chiedono a Bersani di sciogliere i nodi prima dell’Assemblea del 6 ottobre. Dice Beppe Fioroni: «I programmi di Renzi e Vendola sono oltre le ambiguità. Sono conflittuali. Così si perdono le elezioni». La riprova, per l’ex ministro dell’Istruzione, è nei sondaggi: «Dobbiamo evitare di fare qualcosa di peggio dell’Unione. Da quando è iniziata la campagna sulle primarie, Berlusconi recupera il Pd perde consensi».
Anche dentro Area democratica si guarda con preoccupazione alle prossime settimane. La componente che fa capo a Franceschini e Fassino si è riunita per discutere il profilo da tenere in questa sfida. Il sostegno a Bersani non è in discussione, anche perché come hanno detto durante l’incontro Marini ed altri una vittoria del leader Pd è d’obbligo: «Ne va di mezzo l’Italia». Alcune mosse del segretario Pd stanno però suscitando tra gli esponenti di Areadem dei malumori che consigliano di tenere in questa partita un profilo autonomo. Al segretario viene rimproverato lo scarso coinvolgimento di una componente che di fatto fa parte della maggioranza, di essersi fatto trascinare nel vivo della competizione delle primarie quando ancora non si sa con che tipo di legge elettorale si andrà alle urne (per molti di quest’area con un sistema proporzionale la chiamata ai gazebo non andrebbe fatta), e di aver impostato la campagna su una linea “di sinistra” che rischia poi di risultare controproducente quando si giocherà la sfida decisiva, le elezioni politiche del 2013.
RICONCILIARE POLITICA E SOCIETÀ
Bersani, che alla polemica di Reggi sul sostegno ricevuto dai segretari dell’Emilia Romagna risponde dicendo che ogni iscritto ha il diritto di dire la sua e che «le strutture del partito devono essere neutrali ma ognuno può essere protagonista» («è curioso che arrivino queste critiche quando è il segretario del partito che si è messo in discussione»), fa fronte invece alle pressioni che gli vengono fatte dicendo che le primarie serviranno a «riconciliare la politica e la societa», che il confronto dovrà essere senza rete (da Areadem arriva anche la richiesta di un albo degli elettori a cui iscriversi nei giorni precedenti alla convocazione ai gazebo) e che questo appuntamento farà da «traino» alla campagna elettorale della prossima primavera. «Siamo in un momento di caos creativo, ma non ci risulta che ci siano danni», dice il leader del Pd smentendo Fioroni e minimizzando il peso della proliferazione di candidature. All’Assemblea nazionale del 6 ottobre verrà infatti votata, oltre alla deroga allo statuto che permetterà a Renzi di correre, anche una norma che prevede si possa candidare soltanto chi riuscirà a raccogliere un certo numero di firme (10 mila viene data come soglia minima), il che porterà a un netto dimagrimento della lista degli aspiranti premier circolata finora.

l’Unità 21.9.12
«Chi vota ci mette la faccia. Non si va ai gazebo mascherati»
Il responsabile organizzazione del Pd risponde a Reggi: «Ceausescu? Sono
gli stessi argomenti di Berlusconi»
di Andrea Carugati


«Voglio dirlo a tutti, dentro il Pd: quella delle primarie deve essere una campagna tranquilla, in cui tutti i candidati parleranno delle loro idee per l’Italia. Parlare di regole “da regime comunisti”, o citare Ceausescu per criticare una riunione di dirigenti che sostengono Bersani, è un atteggiamento che appartiene a Berlusconi, che dal 1994 agita questi spauracchi pensando di ottenere qualche risultato. Ma nel nostro campo non si gioca così, certi argomenti vanno tolti dal tavolo». Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd, replica all’intervista apparsa ieri su l’Unità, in cui il responsabile della campagna di Matteo Renzi, Reggi, ha bollato come «comunista» l’ipotesi di pubblicare le liste dei votanti alle primarie. «Raccogliere i dati di chi viene ai gazebo a votare è una pratica che abbiamo sempre seguito, fin dalle primarie di prodi del 2005, e anche in quelle fiorentine vinte da Renzi», ricorda Stumpo. Stavolta però vorreste anche renderli pubblici...
«I cittadini che sono venuti a votare ci hanno sempre lasciato i loro dati, compresi il telefono e la mail, che sono stati inseriti in dei data base. Per un elettore che si riconosce del centrosinistra non c’è nulla di strano nel vedere il proprio nome inserito in un pubblico elenco. Di certo non pubblicheremo i dati sensibili come telefono o indirizzo».
Secondo gli uomini di Renzi questo vuol dire allontanare gli elettori fluttuanti, che magari in passato hanno votato Berlusconi o la Lega.
«Il voto politico è segreto, e nessuno intende fare l’analisi del dna ai votanti delle primarie o pretendere una antica fedeltà nelle urne. E tuttavia chi vota dovrà sottoscrivere la carta d’intenti del centrosinistra e firmare una liberatoria, come sempre è successo».
Lo staff di Renzi sostiene che nelle primarie passate gli elenchi dei nomi non sono stati effettivamente pubblicati.
«È vero, ma non sono neppure mai stati segreti. Io ritengo che d’ora in poi debbano essere pubblicati. Ma definire questo un cambio delle regole è una forzatura». E se qualcuno volesse votare ma non farlo sapere?
«Visto che non accettiamo votanti mascherati, e che non si vota per corrispondenza, chi si presenta al seggio compie un atto pubblico. Ci mette la faccia. E io credo sia giusto così. C’è un grande popolo che è orgoglioso di appartenere al centrosinistra. L’unica barriera sarà per quelle persone che appartengono esplicitamente a una forza politica estranea al centrosinistra. Queste non sono elezioni generali, ma primarie di una parte politica».
Parliamo delle regole per evitare una babele di candidati del Pd.
«All’assemblea del 6 ottobre approveremo una deroga che consente anche ad altri iscritti di candidarsi alle primarie. Questa è l’unica modifica di sostanza, visto che da statuto potrebbe correre solo Bersani. Approvata questa deroga, Renzi, Laura Puppato o altri dovranno raccogliere un certo numero di firme tra gli iscritti, su tutto il territorio nazionale. In una seconda fase, tutti i candidati, compresi Bersani e Vendola, dovranno raccogliere un certo numero di firme tra i cittadini italiani: nel 2005 erano tra 10 e 20mila, mi pare un numero ragionevole, ma ne discuteremo con gli altri partner della coalizione».
Dunque gli altri i candidati Pd dovranno fare due raccolte di firme?
«Certamente».
E quante firme dovranno a raccogliere tra gli iscritti?
«Per le primarie dei sindaci si parla del 35% dei delegati dell’assemblea comunale o del 20% degli iscritti in quella città. Tradotto in nazionale vorrebbe dire 120mila firme. È evidente che è una soglia troppo alta e che dovrà essere drasticamente abbassata».
Le primarie saranno a doppio turno?
«La mia idea è che, se nessuno raggiunge il 50%, occorra un ballottaggio tra i primi due candidati. Ma siamo aperti alla discussione».
Reggi polemizza con gli 11 segretari provinciali dell’Emilia Romagna che hanno fatto una riunione con il leader regionale Bonaccini per sostenere Bersani. «Quando la campagna inizierà ufficialmente, le strutture del partito saranno a disposizione di tutti i candidati del Pd, senza favoritismi. Ma tutti i dirigenti hanno il diritto inalienabile di impegnarsi nella campagna e di sostenere chi vogliono. Qualsiasi tentativo di impedirlo fa parte di culture illiberali».
Alcuni dirigenti del Pd sostengono che la campagna sia iniziata troppo presto, prima ancora di conoscere la legge elettorale e le coalizioni.
«Non credo, perché l’idea che ci sia una coalizione fa ormai parte della cultura del nostro Paese. Noi ci batteremo contro il ritorno al proporzionale ma, anche se passerà, diremo prima ai cittadini con chi vogliamo governare».

Corriere 21.9.12
Mal di pancia nel Pd: «Primarie sbagliate» Bersani: che potevo fare?
Il leader presenta una squadra «giovane»
di Monica Guerzoni


ROMA — Pier Luigi Bersani non si è pentito di aver lanciato le primarie. Anzi, è «sempre più convinto» di aver fatto la cosa giusta: «Se stiamo qui a pettinar le bambole gli italiani ci prendono a calci». Davanti a un piccolo buffet nel cortile della Casa internazionale delle donne, il leader brinda al suo giovane comitato elettorale e si mostra serafico, per nulla timoroso che la gara per Palazzo Chigi finisca per terremotare il partito. «Preoccupato io? È una vita che mi sento chiedere se lo sono. Ebbene no, non sono preoccupato affatto».
A chi gli rimprovera un eccesso di generosità per aver raccolto la sfida di Matteo Renzi, il segretario risponde allargando le braccia: «So bene che è una cosa seria, ma il candidato era in campo. Cos'altro avrei dovuto fare?». Non teme, come Beppe Fioroni, gli effetti delle risse interne? «È un momento di caos creativo — respinge l'allarme degli ex Popolari il leader —. Ma non è vero che i sondaggi ci diano in calo. Anzi, delle buone primarie faranno da traino alle politiche».
Con questo spirito il segretario dichiara aperta la campagna e presenta il suo team, tre giovani «capaci ed esperti, perfettamente in grado di guidare una macchina complessa». Tutti assieme fanno un secolo e sono la risposta del segretario alle accuse di Renzi, che lo dipinge circondato di «matusa» da rottamare. Toccherà a loro coordinare la raccolta fondi e i comitati, organizzare i volontari e gestire la comunicazione. «Ci metteremo la faccia e il cuore», è lo slogan di Alessandra Moretti, portavoce del comitato, avvocato e vicesindaco di Vicenza: a 39 anni (e due figli) è la più «anziana» e la più nota al pubblico tv. Il più giovane è Tommaso Giuntella, consigliere municipale a Roma, segretario della storica sezione Mazzini di Roma Prati e programmista regista in Rai per i nuovi media. A coordinare il comitato sarà Roberto Speranza, 33 anni, segretario regionale del Pd in Basilicata: «Non vogliamo una competizione sfrenata, ma una co-petizione. Dobbiamo guardare alle grandi dinamiche che interessano il Paese, non a quelle piccole che attraversano il partito».
Lui, Bersani, continuerà a fare prima di tutto il segretario. E pazienza se gli toccherà combattere «con le mani legate» contro gli attacchi di Renzi, che ha presentato in simultanea la sua squadra di sole donne. «Tre a tre, sarà una sfida fantastica!», è l'augurio del sindaco, che a sorpresa si è fatto fotografare a Milano, alle sfilate di Armani e Scervino. E quando gli hanno chiesto se è vero che ha siglato l'armistizio con Bersani, magari in vista di un futuro ticket, ha invitato tutti a occuparsi «di questioni concrete, come la moda». Intanto però il capo della macchina elettorale di Renzi, Roberto Reggi, accusa Bersani e i suoi di comportarsi da comunisti in stile Ceausescu. Il segretario promette che «le strutture del partito saranno neutrali», ma insiste nel rivendicare che «ognuno può dire la sua»: segretari territoriali e sindaci compresi. E siccome è stufo di «certe polemiche», ricorda di aver accettato di «mettersi in discussione» nonostante lo Statuto dica chiaro e tondo che il candidato premier è lui.
I dirigenti del Pd ancora glielo rimproverano. Dario Franceschini e Piero Fassino, che pure sostengono Bersani, hanno riunito Area democratica e i malumori sono venuti a galla. Chi lamenta che il comitato elettorale è troppo vicino all'ala sinistra di Orfini e Fassina, chi non apprezza la «rincorsa giovanilista» di Renzi, chi avrebbe voluto far partire la macchina delle primarie solo dopo la riforma della legge elettorale... Franco Marini vede nero e mette in guardia Bersani: se il leader perde le primarie, si sfascia il Pd e ci rimette l'Italia. Il 6 ottobre all'assemblea nazionale sarà battaglia, anche sulle regole. Un assaggio? Reggi ha detto a L'Unità che schedare i partecipanti alle primarie in un albo pubblico «è cosa da regime comunista».

Repubblica 21.9.12
Bersani sceglie tre giovani, i big si ribellano
La corrente di Fassino e Franceschini: “Pier Luigi si vergogna di noi”
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Si vergogna di noi». Noi sarebbero gli apparati, la nomenklatura, il gruppo dirigente. L’allarme viene dalla corrente di Dario Franceschini e Piero Fassino che mercoledì sera hanno riunito alla Camera parlamentari, amministratori e militanti. Pier Luigi Bersani fa tutto da solo, non riunisce i leader, sceglie collaboratori e squadra per le primarie senza ascoltare nessuno. «Per carità, visto il tono della sfida di
Matteo Renzi è giusto così. Ma dovrebbe anche rispondere a chi ha tenuto unito il partito in questi tre anni», è stata la critica mossa in quella riunione. Critica condivisa da una cerchia che va oltre il capogruppo del Pd e il sindaco di Torino.
La prova di un Bersani che vuole liberarsi della “zavorra” dei notabili, secondo alcuni, è “fotografata” dalla scelta della squadra per la campagna delle primarie: la portavoce Alessandra Moretti, 39 anni, vicesindaco di Vicenza; il coordinatore Roberto Speranza,
lucano, 33 anni, segretario regionale del Pd in Basilicata; l’ambasciatore presso l’associazionismo Tommaso Giuntella, 28 anni, di Roma, consigliere municipale, cattolico. Tre aderenti alla corrente dei “giovani turchi”, l’ala socialdemocratica del Pd che esprime anche Stefano Fassina, Matteo Orfini e Andrea Orlando. «Così Bersani si chiude invece di aprirsi all’esterno», dicono i fedelissimi di Franceschini e Fassino. Un grido di dolore che forse nasce dal disappunto per essere stati tenuti fuori e dalla preoccupazione per una competizione che si vuole come una sfida a due. Ma la verità non è lontana dalle paure espresse nella riunione dei franceschiniani. Bersani ha fatto sapere a chi gli ha parlato in questi giorni che vuole andare “leggero” allo scontro con il primo cittadino di Firenze: sul palco con lui non ci saranno mai i big, né D’Alema, né Bindi, né Fioroni, né altri parlamentari di lungo corso. Neanche i cosiddetti bersaniani i quali da giorni si lamentano per la mancanza delle regole d’ingaggio da parte del “capo”. La sua campagna si affida ai tre ragazzi presentati ieri e alle strutture locali che come il segretario ripete spesso sono guidate soprattutto da under 40 e in alcuni casi da under 30. Una scelta precisa, un’“autorottamazione”, un segnale di rinnovamento che gli elettori delle primarie dovranno toccare con mano. «Non voglio un coro di fan — ha detto ieri Bersani presentando la squadra — ma un gruppo di protagonisti che apra comitati in tutta Italia e combatta con me». Renzi ha risposto facendo gli auguri ai giovani di Bersani e presentando il suo staff di donne: Simona Bonafè, 39 anni, Sara Biagiotti, 42, e Maria Elena Boschi, 31. Naturalmente, da tempo si sa che i veri attori della squadra del sindaco sono il coordinatore Roberto Reggi e lo spin doctor Giorgio Gori.
Su quel «si vergogna di noi” si gioca adesso la partita delle correnti, soprattutto dentro la maggioranza che sostiene Bersani dal 2009. Rosy Bindi è stata fra le prime a denunciare la rottura di un patto. Ma altri stanno salendo sulla medesima barca. Non a caso ieri il leader ha cercato di rassicurare i “delusi” garantendo che il suo impegno da segretario continua. È un modo per dire che la tutela per coloro che Renzi vuole rottamare non verrà meno. Però le primarie libere non si toccano: «Ci faranno bene, sono un momento di caos creativo». Proprio il caos che temono i maggiorenti.


il Fatto 21.9.12
Quando non rottamava
Renzi, 600 mila euro per aragoste e viaggi all’estero
La sprecopoli renziana
Cene, viaggi, fiori, pasticcini: 5 anni a spese della Provincia di Firenze
di Davide Vecchi


La Corte dei conti setaccia i bilanci della Provincia di Firenze dell’era renziana. Alla voce “rappresentanza istituzionale” in 5 anni è stato inserito di tutto. A partire da cene da 2.000 euro

Aragoste, vini pregiati, soggiorni negli Stati Uniti, biglietti aerei, cene, pasticcini e fiori: il giovanissimo Matteo Renzi, quando era presidente della Provincia di Firenze, si è adeguato con estrema disinvoltura al modus operandi dei politici di professione. E così, tra gli spaghetti al caviale di Luigi Lusi e gli sprechi della giunta regionale di Renata Polverini per la comunicazione, l’attuale sindaco di Firenze e possibile candidato premier per il centrosinistra si insinua tra i due esponenti simbolo dello sperpero del denaro pubblico. Anche la Corte dei Conti vuole vederci chiaro sui conti della Provincia dell’era renziana: ci sono troppi rimborsi senza giustificativi adeguati e un uso allegro delle carte di credito da parte del rottamatore. Dal 2005 al 2009, nel periodo in cui Renzi è stato presidente, la Provincia ha speso 20 milioni di euro. Il capo di Gabinetto Giovanni Palumbo, nominato da Renzi, ha firmato decine e decine di delibere per rimborsi di spese di rappresentanza per il presidente che aveva a disposizione una carta di credito con limite mensile di 10mila euro di spesa. Nell’ottobre 2007 però, durante un viaggio (ovviamente di rappresentanza) negli Stati Uniti, la carta viene bloccata “a garanzia di un pagamento da parte di un hotel a Boston”, si legge nella delibera del 12 novembre 2007. Renzi, trovandosi senza carta di credito della Provincia è costretto a usare la sua per pagare 4 mila dollari (pari a 2.823 euro) all’hotel Fairmont di San Josè, in California. Come torna in Italia si fa restituire la cifra con una delibera, ma senza fornire giustificativi. Tolta la dicitura “spese regolarmente eseguite in base alle disposizioni contenute nel disciplinare delle attività di rappresentanza istituzionale”. Nei soli Stati Uniti la Provincia, con Renzi, ha speso tra biglietti aerei, alberghi, ristoranti 70mila euro. Spese di rappresentanza. Ovviamente. In tutto arriva a sfiorare i 600 mila euro.
TRA I 20 milioni di euro al vaglio della Corte dei Conti ci sono anche centinaia di migliaia di euro ricostruiti con numerosi scontrini e ricevute. Non molti. In tutto 250 circa. In prevalenza di ristoranti. Gli elenchi depositati agli atti mostrano una intensa attività di rappresentanza da parte di Renzi. Per lo più svolta alla trattoria Garibaldi, al Nannini bar, alla taverna Bronzino e al ristorante da Lino. Locali prediletti dal candidato alle primarie del Pd che, in particolare nel 2007 e nel 2008, riesce a spendere qualcosa come 50mila euro per il cibo. Con conti singoli che spesso superano i mille euro. Il 31 ottobre 2007 la provincia paga 1300 euro alla pasticceria Ciapetti di Firenze. Il 5 luglio alla Taverna Bronzino viene saldato un conto di 1.855 euro. ll ristorante non è tra i più economici di Firenze, del resto. Ma a Renzi piace. Per tutto il suo mandato alla guida della Provincia frequenta assiduamente i tavoli della taverna. Con conti che oscillano tra i 200 ai 1.800 euro. Renzi ogni tanto cambia ristorante. Alla trattoria I due G in via Cennini il 29 aprile 2008 ordina una bottiglia di Brunello di Montalcino da 50 euro per annaffiare una fiorentina da un chilo e otto etti. Alla Buca dell’Orafo in via dei Girolami il 13 giugno 2008 si attovaglia con due commensali e opta per un vino da 60 euro a bottiglia. E ancora: al ristorante Lino, dove è di casa (anche qui), riesce a spendere per un pranzo 1.050 euro. 1.213 li lascia al ristorante Cibreo.
NEI SOLI mesi compresi da maggio a luglio 2007 spende in ristoranti circa 17mila euro. Nel lungo elenco di ricevute e spese che gli inquirenti stanno verificando ci sono anche le fatture di fioristi, servizi catering, biglietti aerei e società vicine all’attuale sindaco. A cominciare dalla Florence Multimedia che riceve complessivamente 4,5 milioni di euro dall’ente. La Florence Multimedia srl è la Società in house della Provincia che svolge attività di comunicazione e informazione per la provincia. Nel 2009 Renzi è diventato sindaco. In bici. Ora sta girando l’Italia in camper, con lo sguardo rivolto a Roma. Ieri, Renzi era alla sfilata milanese di Armani. A Firenze, intanto, l’aspetta Alessandro Maiorano, ex dipendente del Comune che ha denunciato la gestione del sindaco e promette di dar battaglia alla “sprecopoli renziana”. Anche rottamare costa.

l’Unità 21.9.12
L’ente ecclesiastico truffava la sanità pugliese
Rimborsi gonfiati e voci di spesa inesistenti: ai domiciliari i dirigenti dell’Opera Pia Miulli


Per gli obesi, diabetici, ipertesi era previsto un regime alimentare giornaliero pari a 4mila calorie invece delle 1.200 previste nelle diete. I tavoli operatori acquistati erano un centinaio e per i 300 ospiti della Colonia Hanseniana Opera Pia Miulli era previsto anche un sussidio giornaliero di 30 euro. Il tutto, ovviamente, rimborsato dalla Regione Puglia. Così sarebbero stati gonfiati i bilanci della struttura ecclesiastica ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, perpetrando una truffa ai danni delle casse regionali.
Ai domiciliari sono finiti don Mimmo Laddaga e Saverio Vavalle, amministratori della Colonia Hanseniana di Gioia del Colle. Tra gli otto indagati a piede libero gli imprenditori Giovanni e Francesco Romano titolari di una ditta esecutrice dei lavori di ristrutturazione del lebbrosario. Nei loro confronti è ipotizzato il reato di truffa aggravata e continuata in danno della Regione Puglia mentre l’Ente ecclesiastico è accusato di omesso controllo. L’inchiesta del procuratore capo Antonio Laudati e del sostituto Renato Nitti, avrebbe svelato un sistema di finte spese per la gestione del lebbrosario, in cui nei fatti non ci sarebbero stati soggetti con la patologia di Hansen. Ma non solo, in quanto «nei bilanci della Colonia si legge negli atti sono state inserite voci di costo insussistenti al fine di rappresentare contabilmente l’utilizzazione totale (anche in eccedenza) dei fondi assegnati dalla Regione per il finanziamento della spesa sostenuta per la gestione della struttura pari ad euro 6 milioni fino al 2009, la cui entità veniva stabilita nei Documenti di Indirizzo Economico Funzionale annualmente approvati dalla Giunta Regionale, onde ottenere il rimborso di spese superiori a quelle realmente sostenute».
L’inchiesta fu raccontata anche dall’Unità a novembre 2010, svelando la presunta truffa che avrebbe permesso di distrarre il denaro pubblico dal lebbrosario all’ospedale Miulli. Sotto sequestro preventivo sono finiti 25 immobili e 11 fondi rustici tra la provincia di Bari e Taranti riconducibili sia agli indagati sia all’Ente ecclesiastico, per un valore di 2 milioni 70mila 407 euro.

«ad aprile è stato indagato, con il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per una transazione da 45 milioni»
il Fatto 21.9.12
Bari. Prete-manager truffava la regione
di Antonio Massari


Bari Il vescovo agli arresti domiciliari. L’accusa: avrebbe truffato la Regione, danneggiandola per 2,3 milioni di euro, truccando i conti del “lebbrosario” di Gioia del Colle. Parliamo dell’unico “lebbrosario” – chiuso nel 2011 – esistente in Italia. E così, la parabola giudiziaria di don Mimmo Laddaga, stando agli atti della procura di Bari e della Guardia di Finanza, ha ben poco da spartire con le parabole evangeliche: nel lebbrosario si truffava su tutto, dalla manutenzione al cibo, passando per la distribuzione, agli ammalati, di ben 18mila litri di birra (e altrettanti di Coca cola) dal 2007 al 2010. Laddaga è il rappresentante legale dell’ospedale Miulli, l’ente ecclesiastico che gestisce il “lebbrosario”, dove si contano 29 pazienti – “ospiti” li definisce la procura – in una struttura a cinque piani con nota spese esorbitante: 7 milioni l’anno.
IL PM Renato Nitti intercetta un ex medico: “Otto chili di prodotto a persona – lamenta al telefono Roberto Giannico - per poi certificare 2 milioni di euro all'anno, per mangiare, per 10 persone… per la manutenzione… la luce se ne va… un milione mentre invece se ne vanno 100 mila... hai capito? E’tutto un gioco, che poi, alla fine, dici… spendiamo 7 milioni. .. e la Regione ti da 7 milioni”. E quella di Giannico è un storia nella storia: secondo le accuse, confluite in un altro procedimento, il medico avrebbe tentato di estorcere all’ente 1,5 milioni di euro, per non rivelare le informazioni sul lebbrosario: don Laddaga rifiuta l’accordo e Giannico, che nel 2009 lascia l’ospedale, medita di ucciderlo con l’aiuto della camorra.
PRENDENDO spunto da un articolo scritto da Repubblica-Bari, poi, la procura decide d’aprire un nuovo fascicolo e scopre che la “colonia di Hansen” - l’ospedale che scatena la guerra tra Giannico e don Laddaga - conta appena 29 “ospiti”. “Ospiti”, scrive la procura, e non “pazienti”: perché si “tratta di soggetti che, in un passato alquanto remoto, hanno contratto il morbo di Hansen e attualmente sono in buone condizioni generali”. Più che un ospedale, la struttura “ha finalità recettive di tipo socio assistenziale”, e appare “inappropriato e opportunista” il tentativo di “medicalizzazione” dei 29 “ospiti”. La loro presenza, piuttosto, sembra un’opportunità di guadagno e occupazione: per 29 persone si contano “6 cucinieri, organizzati per circa 600 pasti giornalieri, quando ne vengono preparati circa 15”. Nonostante esistano i telefoni cellulari, si contano ben “6 centralinisti”, ma è alla voce “pinze depilatorie” che la GdF scopre l’inverosimile: nel bilancio 2006 si scopre una spesa di 84mila euro che, scrivono gli inquirenti, è “cento volte superiore al valore reale”. La cifra - “cento volte superiore a valore reale” - sarà riportata anche negli esercizi successivi, dal 2007 al 2009, e così rimborsata dalla Regione all’ente ecclesiastico.
Con questi e altri trucchi, scrive l’accusa, “il Miulli, ha conseguito indebitamente e fraudolentemente dalla Regione Puglia, sino ad oggi, la somma di 1,42 milioni di euro che, permanendo l'attuale impostazione contabile, comporterà l'indebita percezione di 2,3 milioni”. Il gip di Bari Giovanni Abbattista, letta la richiesta del pm Nitti, che indaga su altre otto persone, dispone l’arresto del vescovo. E per don Laddaga non si tratta della prima rogna giudiziaria: ad aprile è stato indagato, con il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per una transazione da 45 milioni (non conclusa) tra il Miulli e la Regione.

La Stampa 21.9.12
Il Senato decollato
di Massimo Gramellini


Per riprendermi dalle foto del toga party laziale - deputate travestite da ancelle e maiali travestiti da maiali - sentivo il bisogno di rifugiarmi in un’istituzione seria, il Senato della Repubblica. Ieri quell’augusto consesso si occupava di violenza sulle donne. Nell’accostarmi al dibattito, trasmesso dalla tv parlamentare, mi domandavo quali mozioni ed emozioni avrebbero prevalso. In realtà la domanda che avrei dovuto pormi era un’altra: a che ora sarebbe atterrato l’aereo del vicepresidente Nania.
L’uomo incaricato di presiedere la seduta, Nania appunto, era infatti ancora all’aeroporto di Catania per un ritardo di cui ha subito incolpato il ministero dei Trasporti. Ingenuamente mi sono chiesto cosa ci facesse il vicepresidente del Senato a Catania di giovedì. Già il Parlamento funziona due giorni e mezzo alla settimana. Sarà troppo pretendere che almeno quelle sessanta ore i nostri stipendiati le trascorrano a Roma nel luogo di lavoro? In attesa del decollo di Nania, sullo scranno presidenziale è salita Rosy Mauro, che dopo lo scandalo della Lega si è dimessa da vicepresidente vicario, però non da vice semplice. La capisco: i distacchi vanno centellinati. Ma anche lei aveva un aereo in partenza e così «per impegni urgenti e improrogabili» (qualche laurea all’estero?) una donna ha sospeso la seduta dedicata alla violenza sulle donne. Dopo mezz’ora di buio istituzionale senza precedenti è dovuto accorrere il presidente Schifani, interrompendo un incontro coi beagle della Brambilla. Sto cercando una battuta per chiudere, ma dalla disperazione mi è caduta la testa sulla tastiera. La rialzerò appena atterra Nania.

«L'altra vicepresidente, Emma Bonino, che aveva guidato l'assemblea fino a pochi minuti prima, si era resa disponibile a «coprire» un quarto d'ora del ritardo di Nania (che — tra l'altro — ha mandato a quel paese il ministro dei Trasporti per il ritardo del suo aereo). Ma poi aveva chiesto alla collega di continuare la supplenza»
Corriere 21.9.12
Quelle poltrone vuote per «impegni»: il Senato non è un secondo lavoro
di Gianna Fregonara

Se fosse stato un negozio, invece del Senato, Rosi Mauro avrebbe tranquillamente appeso il cartello: «Torno subito». In fondo lei in quel momento sostituiva un altro vicepresidente, Domenico Nania, che era in ritardo causa traffico aereo, e dunque si è considerata una «precaria» della presidenza e aveva altro da fare. Un impegno «improrogabile», si è giustificata, come se la vicepresidenza del Senato fosse per lei un secondo lavoro, o un volontariato.
L'altra vicepresidente, Emma Bonino, che aveva guidato l'assemblea fino a pochi minuti prima, si era resa disponibile a «coprire» un quarto d'ora del ritardo di Nania (che — tra l'altro — ha mandato a quel paese il ministro dei Trasporti per il ritardo del suo aereo). Ma poi aveva chiesto alla collega di continuare la supplenza.
Il presidente Renato Schifani che stava consegnando con Michela Brambilla gli ultimi tre beagle di Green Hill alle famiglie affidatarie si è precipitato in Aula. Ma l'approvazione della mozione (incredibilmente unitaria e bipartisan) che impegna il governo a sottoscrivere la convenzione di Istanbul contro la violenza alle donne è stata rinviata di qualche ora. È la prima volta nella storia che il Senato sospende i suoi lavori perché manca il presidente. Fortunatamente contro la poltrona vuota si sono indignati i senatori.
Ma brevemente. L'assenza di un presidente ha subito creato un effetto di «sciogliete le righe» e un'ora dopo la ripresa dei lavori il Senato era vuoto (si suppone causa pranzo, erano quasi le due del pomeriggio...) tanto che Schifani ha dovuto promettere che le norme sull'insegnamento della storia dell'Arte verranno votate senza altri rinvii.
Una situazione incresciosa e paradossale. Che darà benzina all'antipolitica (ma è possibile che neppure il ruolo di vicepresidente del Senato sia ormai considerato un dovere oltre che una carica onorifica e remunerativa?).
Certo viene da chiedersi se un po' non c'entri anche il tema: la lotta alla violenza alle donne è un argomento buono per i convegni. Ma evidentemente al Senato, anche per donne con incarichi di primo piano, non vale più di un aereo.

Repubblica 21.9.12
Roma, si lavora a ritmi cinesi con stipendi tra i più bassi d’Europa
Sottopagati i maestri e gli ingegneri italiani
di Lucio Cillis


ROMA — In Italia si lavora tanto e si guadagna poco. Lo sanno bene a Roma, la città dell’Eurozona dove quasi in tutti i settori l’orario di lavoro è il più elevato tra le grandi città europee ma in cambio la paga è tra le più basse, e con essa il potere di acquisto. I dati sono contenuti nella ricerca pubblicata dalla banca svizzera Ubs. Si tratta di un campionario di dati, rilevati ogni tre anni, su ore di lavoro, stipendi e costo della vita nelle principali metropoli del mondo. Per l’Italia sono prese in considerazione Milano e Roma.
Ed è proprio dalla capitale che arrivano le sorprese maggiori, rispetto a taluni luoghi comuni sulla pigrizia dei romani. Professionisti e dipendenti della capitale, nel confronto omogeneo del monte di ore lavorate con le altre realtà dell’area euro, risultano i primi della classe e se la battono addirittura con i cinesi: un lavoratore di
Shanghai, nel corso dell’anno (e grazie anche a ferie ridotte a 9 giorni) riesce ad arrivare a 1.967 ore trascorse al lavoro contro le 1899 di un romano (che dispone di 22 giorni di pausa l’anno). Quindi solo un pugno di ore (appena 68) separa i due tipi di lavoratori.
Anche Milano è nella classifica alta delle ore di lavoro, e supera molte capitali europee con 1.753 ore l’anno. L’operosa Germania concede più riposo ai propri dipendenti: a Francoforte si sta in ufficio per 1.731 ore e si dispone di 28 giorni di vacanza l’anno, a Monaco di Baviera 1.756 (26 giorni di congedi annui) e a Berlino 1.742 ore e 29 giorni. Un romano si sobbarca quasi 170 ore in più rispetto ai colleghi tedeschi, il che vuol dire, con 8 ore quotidiane di ufficio, oltre 21 giorni di più. Le altre grandi città europee sono tutte al di sotto delle 1.800 ore: è il caso di Bruxelles (1.730), Barcellona (1.761), Madrid (1.734), Amsterdam (1.755), Dublino (1.707). Fanalini di coda Lisbona con 1.696 ore (quasi 26 giorni in meno di lavoro rispetto ad un romano) e Parigi che risulta a sorpresa la città dove — almeno per quantità oraria — si lavora meno: 1.558 ore, con 30 giorni di ferie annue.
Allargando lo sguardo fuori dall’Europa, ci sono Paesi dove il lavoro a volte può trasformarsi in un impegno massacrante: Città del Messico svetta al primo posto mondiale con 2.375 ore l’anno e 6 giorni liberi. Più o meno allo stesso livello Il Cairo (2.331), Bangkok (2.312), Dehli (2.265), Manila (2.246).
Il primato europeo della capitale italiana per numero di ore lavorate non si riflette affatto, tuttavia, in busta paga. Sia Roma sia in parte anche Milano si trovano infatti agli ultimi posti in Eurolandia per stipendi. L’Ubs confronta in particolare due categorie di lavoratori: ingegneri e maestri. Un ingegnere di Roma incassa 16.300 euro netti l’anno contro i 25.500 di Barcellona, i 40 mila di Francoforte, i 29.600 di Madrid e i 36.900 di Parigi.
E la musica non cambia per i maestri elementari. A Roma lo stipendio netto medio è di 17.100 euro, a Milano 16.800 mentre i colleghi della zona euro oscillano dai 22.800 di Parigi ai 24.600 di Vienna; dai 25.200 di Amsterdam fino ai 35.600 di Francoforte.
Infine, i salari orari netti nella media di 15 lavori o professioni: a Roma un lavoratore incassa 9,40 euro l’ora contro i 12 di Milano, i 13,80 di Amsterdam, gli 11,40 di Barcellona, i 13,60 di Berlino, i 15,30 di Dublino, i 15,20 euro di Francoforte, gli 11,30 di Madrid, i 13,80 di Vienna o i 14,30 di Parigi. Solo Atene fa un po’ peggio della capitale italiana con 7,80 euro l’ora.


Corriere 21.9.12
Arriva il maxibando per 12 mila insegnanti
Lunedì la pubblicazione. Chi potrà candidarsi
di Luisa Adani


Novità in arrivo dalla scuola. Il 24 settembre (cioè lunedì prossimo) è prevista l'emanazione del bando di concorso — il primo dal 1999 — per l'assunzione di 11.892 insegnanti, la metà del fabbisogno stimato dal ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca. Riguarda le scuole statali di ogni ordine e grado (scuola per l'infanzia, primaria, secondaria di primo e di secondo grado) ed è organizzato per titoli ed esami, su base regionale e per cattedre reali. Non verranno quindi definite delle graduatorie permanenti a cui attingere rispetto alle eventuali vacanze e i posti saranno interamente assegnati, dal prossimo 1° settembre in poi. Inoltre, a questi nuovi ingressi se ne aggiungeranno altrettanti attingendo ai nominativi dalle attuali graduatorie che sono in parte il lascito degli ultimi due concorsi generali.
In attesa delle precisazioni che saranno indicate nel bando, potranno candidarsi: le persone già inserite nelle vecchie graduatorie (per migliorare le loro possibilità), i diplomati delle Scuole di specializzazione all'insegnamento secondario (Ssis), i laureati entro il 2001/02 (per i corsi di laurea quadriennali, oppure 2002/03 per quelli quinquennali etc.). Nel caso invece di posti banditi per le scuole elementari, potranno accedere al concorso sia i diplomati delle magistrali (fino al 2001) sia i laureati in Scienze della formazione in quanto si tratta di un corso universitario abilitante all'insegnamento. Inoltre, dato che i posti sono destinati a cattedre specifiche, si potrà candidare solo chi avrà i titoli coerenti con la classe di laurea prevista. Al concorso non potrà accedere invece chi questa estate si è candidato per sostenere uno dei 20.000 Tirocini formativi attivi (da ora necessari per conseguire l'abilitazione all'insegnamento) che dovrà terminare il percorso e aspettare il prossimo concorso previsto dal Miur in primavera.
Le prove selettive — ci dice Paola Borgonovo editor di Alpha Test, la casa editrice specializzata sui test e sui concorsi — sono organizzate in tre fasi. La prima, preselettiva, si svolgerà in autunno e prevederà la somministrazione di una batteria di test, uguale per tutte le classi di concorso, che valuterà competenze di carattere generale (ragionamento logico deduttivo, comprensione testi, abilità informatiche e lingua straniera). A gennaio sarà la volta di una prova scritta organizzata rispetto alle diverse materie disciplinari. Si tratterà di una prova strutturata in «domande aperte e risposte sintetiche». Chi supererà questa prova accederà all'ultima che prevede che i candidati si cimentino nella simulazione di una lezione (di un laboratorio oppure di una prova pratica nel caso degli insegnanti delle materie tecnico/scientifiche oppure musicali o coreutiche) di 30 minuti su un argomento che verrà comunicato con almeno un giorno di anticipo in modo che ci si possa preparare in tempo.

Corriere 21.9.12
Se alle professioni serve più psicologia
Le novità in aula e in ufficio
di Giuliana Gagliardi


Se la crisi pesa sempre più sull'occupazione, il mondo delle professioni si fa più esigente lasciando porte aperte soltanto a chi ha una formazione di altissimo livello e una forte capacità di «essere professionalmente»: saper essere e saper fare. Ecco alcuni esempi. Il pedagogista relazionale dovrà effettuare interventi sull'individuo e sul sistema, svolgendo la sua attività principalmente nelle scuole, presso gli enti locali, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private e negli studi professionali. Le competenze acquisite verranno utilizzate in vari ambiti occupazionali, fra cui: settore socio-educativo; settore della gestione ed erogazione dei servizi sociali; gestione e sviluppo delle risorse umane. Lo psicologo clinico e sociale, il mediatore familiare e lo psicoterapeuta individuale e di gruppo dovranno, a seconda del proprio ambito, costruire relazioni di aiuto, gestire lo sviluppo organizzativo nell'ambiente di lavoro, svolgere consulenze nel porre in atto competenze complesse, svolgere una ricerca «attiva» e l'ascolto dell'altro, contribuire alla comunicazione, intervenire come facilitatore nei gruppi di lavoro.
Le imprese puntano anche — come è facilmente intuibile — al contenimento dei costi. Il mercato — si legge in una nota relativa all'ultima indagine dell'Osservatorio Seltis (società di head hunting di Openjobmetis) — è in continua evoluzione nella ricerca di manager «under 40», con una formazione che garantisca maggiore disponibilità a seguire un percorso di crescita all'interno dell'azienda. «Nei primi tre mesi di quest'anno — spiega Francesca Cancian, responsabile di Seltis — le professioni "rinnovate" che hanno visto il maggior numero di assunzioni, sono diverse: dall'analista finanziario allo specialista del controllo di gestione, dal tecnico commerciale al sales engineer, fino al project manager e agli esperti di manutenzione dei macchinari».
Oggi, si chiede una «marcia in più» ai giovani in cerca di lavoro nelle nuove professioni: adattabilità alle diverse situazioni che si vengono a creare in un'azienda e, di conseguenza, plasmare il profilo direttamente sul campo.
Il 27 e 28 ottobre prossimi, a Firenze — Cenacolo di Sant'Apollonia — c'è un appuntamento per la formazione con una conferenza dedicata al modello biopsicosociale rivolta ai professionisti della salute e della qualità della vita (www.polopsicodinamiche.com/conference-26-28-oct-2012/): prima conferenza internazionale di psicologia e psichiatria dinamica. Saranno affrontati temi che riguardano opportunità e limiti della ricerca, della pratica clinica e della conoscenza in relazione all'approccio biopsicosociale. Il taglio della conferenza è multiprofessionale e si rivolge, anche, a umanisti, avvocati, mediatori, assistenti sociali, sociologi, antropologi, pedagogisti, architetti e urbanisti. E per i corsi dal 15 settembre, informazioni all'indirizzo email ceo@polopsicodinamiche.com.
Il Progetto Europsy è invece una «Certificazione europea in psicologia» che fornisce uno standard di formazione accademica e training professionale. Il progetto prevede anche lo sviluppo delle competenze in lingua inglese (professionale e interpersonale) che permette al professionista di redigere articoli in inglese e partecipare a congressi. Dettagli sul sito: www.polimniaprofessioni.com.

Il sequestro di Abu Omar
La Stampa 21.9.12
Intervista
“Traditi da Bush e Obama. Le leggi italiane violate dai presidenti”
Lo sfogo di una funzionaria condannata: non siamo difesi
di M. Mo


Irresponsabili della rendition di Abu Omar hanno avuto l’immunità diplomatica o non vengono perseguiti mentre ad essere condannata è una come me che non ebbe alcun ruolo». L’agente Sabrina De Sousa è uno dei 23 funzionari della Cia nei cui confronti la Corte di Cassazione ha confermato la condanna del Tribunale di Milano. Ha scelto di parlare ora per far conoscere la propria versione.
Iniziamo da quanto avvenne a Milano il 17 febbraio 2003. Lei è stata condannata, assieme ad altri 22 agenti, per essere stata coinvolta in un’operazione illegale in Italia. Cosa risponde?
«Dal fine settimana precedente al 17 febbraio ero a Madonna di Campiglio in settimana bianca. Non ho avuto ruoli nella presunta operazione illegale. Dico presunta perché questa è la posizione del governo Usa che non conferma nè smentisce la “rendition”. Per il tribunale italiano è un caso di sequestro e i sequestri sono illegali. Le “rendition” invece sono legali negli Usa. Una “rendition straordinaria” è la cattura e il trasferimento extragiudiziale di una persona da una nazione all’altra e, per renderlo legale deve essere il presidente Usa ad approvarlo».
Perché alla AbcNews ha detto che gli Usa «hanno violato la legge»?
«Sono stati individui sotto la direzione del presidente Usa a violare la legge italiana. Alti funzionari di Cia, Dipartimento di Stato e consiglio per la sicurezza sono responsabili di averla violata approvando e finanziando le rendition. Purtroppo i governi europei hanno difficoltà a indagare su funzionari dell’amministrazione Bush perché facendolo vengono sottoposti a pressioni dall’amministrazione Obama. Ogni azione politica di diplomatici Usa sul suolo straniero è approvata da Washington».
Quale è il stato suo ruolo in questa vicenda?
«Non ero presente sulla scena nè avevo un’anzianità di servizio tale per essere responsabile di decisioni su rendition o sequestro. Il mio ruolo è stato di porre l’interrogativo sul perché alti funzionari a Washington avevano concordato con i funzionari Usa a Roma che Abu Omar avrebbe dovuto essere rapito e mandato in Egitto. Aspetto ancora la risposta».
Si trattò di un’operazione Usa o fu condotta con gli italiani?
«Questa è una domanda a cui devono rispondere le autorità italiane e il presunto regista della rendition, Jeff Castelli (capostazione della Cia, ndt), che era a Roma in contatto gli italiani».
Cosa pensa del verdetto di colpevolezza del tribunale di Milano?
«Non ha preso in considerazione i fatti. Basta leggere i verbali. Ad esempio vi è scritto che “il procuratore generale ha chiesto l’annullamento per l’agente De Sousa”. La procura mi considera centrale nel rapimento perché sarei stata trasferita dall’ambasciata a Roma al consolato di Milano per eseguirlo. Ma fui trasferita a Milano prima dell’11 settembre 2001 ovvero assai prima che iniziassero le rendition straordinarie».
La Corte di Cassazione ha convalidato la sua colpevolezza e l’Italia potrebbe chiedere la sua estradizione. Cosa farà?
«Da un punto di vista legale non c’è molto che possa fare negli Usa o in Italia in merito a tale verdetto. E non so con certezza quali passi adotterà l’Italia sull’estradizione».
Come giudica la difesa che le ha garantito il governo Usa?
«Il governo Usa sotto le amministrazioni Bush e Obama ha abbandonato i diplomatici e militari. Se l’Italia avesse processato alti funzionari del governo, gli Usa avrebbero fatto di più per difenderli. L’unica ragione per cui sono riuscita ad avere un avvocato difensore in Italia è perché ho fatto causa al Dipartimento di Stato. Le credenziali diplomatiche e gli accordi “Sofa” sullo status delle truppe all’estero non valgono la carta sui quali sono scritti. Senza contare che il presunto regista della rendition di Abu Omar si è visto riconoscere l’immunità diplomatica dall’Italia. Inoltre i leader della Cia e del Dipartimento di Stato che hanno approvato e finanziato le rendition restano immuni da ogni tipo di azione legale».
Si aspettava una decisione differente della Cassazione?
«Ero ottimista, sulla base delle affermazioni del procuratore».
Cosa prova verso l’Italia e gli italiani?
«I miei sentimenti positivi non cambiano a causa dei tribunali».

Corriere 21.9.12
L’ambiguo culto di Mao. Perché la Cina ne ha bisogno
risponde sergio Romano


Il Partito comunista cinese ha festeggiato con gran pompa il 90° anniversario dalla sua fondazione. Mi interesserebbe conoscere come i cinesi di oggi giudichino Mao, l'uomo politico che per anni ha diretto la loro politica. Un barista da me interpellato, di cui non so quando fosse espatriato dalla Cina, mi ha detto che veniva apprezzato il Mao dei primi tempi e non quello dell'età avanzata. La politica economica cinese, artefice del notevole sviluppo, è però coerente con i principi ideologici professati dal partito al potere? Se non esiste discrasia, capisco Le riflessioni sulla Cina scritto da Enver Hoxha e lo sfascio del legame dei marxisti-comunisti che si erano riuniti nel 1994 ma litigarono proprio per una diversa opinione su Mao Zedong.
Silverio Tondi

Caro Tondi,
Nella Cina d'oggi Mao è soltanto una mummia, oggetto di un culto ambiguo e contraddittorio, simile a quello riservato nella Russia post-sovietica alla mummia di Lenin, ancora custodita nel mausoleo della piazza Rossa. Il «grande timoniere» è onorato e celebrato, sia pure senza troppe lodi e pubblici omaggi, perché recita ancora una parte necessaria alla continuità dello Stato fondato nel 1949. La classe politica ha ripudiato tutti i suoi pericolosi progetti, dal «balzo in avanti» degli anni Cinquanta alla «rivoluzione culturale» degli anni Sessanta e Settanta. Ha cancellato dalla pubblica memoria i suoi slogan rivoluzionari e il «libretto rosso». Non esita a eliminare (come è accaduto nel caso recente di Bo Xilai, ambizioso governatore del Chongqing) chiunque pretenda di salire al vertice del potere agitando vessilli maoisti. E considera la rivoluzione culturale come una delle fasi più inutilmente tragiche della vita nazionale. Ma non può espellere Mao dalla storia del partito.
Se chiudessero a chiave il suo tempio nella piazza Tienanmen e trasferissero la sua tomba in un lontano cimitero di campagna, i dirigenti del Pcc metterebbero in discussione la loro legittimità. A dispetto dei madornali errori della sua politica economica e dei crimini commessi in suo nome, Mao è l'uomo che ha persuaso i contadini cinesi a credere nella rivoluzione, che ha creato il primo Stato comunista cinese nella provincia dello Shaanxi, che ha salvato il suo popolo e il suo esercito nella fase decisiva della Lunga Marcia (12.000 km, 200 scontri, 80.000 caduti), che si è battuto contro il Guomintang del nazionalista Chiang Kai Shek e le forze armate giapponesi, che è entrato trionfalmente a Pechino nel gennaio 1949.
Deng Xiaoping fu un grande riformatore e creò le condizioni per uno straordinario miracolo economico. Ma voleva che le liberalizzazioni e le privatizzazioni avessero luogo sotto l'occhio vigile di un partito forte, capace di reprimere, se necessario, qualsiasi forma di dissenso. Se avessero permesso alla nuova Cina di divorziare dal suo passato comunista, Deng e i suoi eredi avrebbero perso lo scettro. È questo il grande paradosso della Cina: quanto più è lontana da Mao, tanto più ha bisogno di lui.

«Pier Paolo Pasolini [...] gli atti del processo per atti osceni in luogo pubblico del 1949: pedofilia»
La Stampa 21.9.12
L’intellettuale ingombrante
Sciascia in Italia come Camus in Francia: quando un autore è così scomodo che perfino il suo ricordo non smette di urtare
di Marco Belpoliti


Albert Camus premio Nobel per la letteratura nel 1957, era nato a Dréan, in Algeria, nel 1913 (sarebbe morto in un incidente d’auto in Borgogna nel 1960). In vista del centenario della nascita la figlia Catherine aveva preparato una grande mostra celebrativa a Aix-en-Provence, affidandola prima allo storico Benjamin Stora (che voleva enfatizzare la battaglia dello scrittore contro le atrocità del colonialismo francese in Algeria), poi al filosofo Michel Onfray, che qualche giorno fa ha gettato la spugna denunciando l’atmosfera culturale francese che «è sempre da guerra civile».

Una mostra documentaria di Albert Camus, che doveva aprire nel Sud della Francia, a Aix-en-Provence, fa fatica a trovare un curatore. La ragione risiede nelle posizioni anticolonialiste dello scrittore dello Straniero, che mettono in causa le torture inflitte negli Anni Cinquanta agli indipendentisti algerini con l’accordo di un ministro d’allora, François Mitterrand, o che urtano la suscettibilità degli eredi dei pieds-noirs, i coloni francesi costretti a lasciare l’Algeria. La guerra d’Algeria appare un vulnus ancora aperto, nonostante la grandezza della figura di un intellettuale e scrittore come Camus.
Chi sono, tra gli italiani, gli scrittori così scomodi da rendere impossibile l’allestimento di una mostra su di loro?
Pier Paolo Pasolini, di sicuro. Provate a immaginare un’esposizione biografica del poeta con gli atti del processo per atti osceni in luogo pubblico del 1949: pedofilia. Ma Pasolini è troppo risaputo. Silone potrebbe essere un altro, visto che viene accreditato come un doppiogiochista nell’epoca dei totalitarismi novecenteschi. E Sartre, con la sua difesa dei terroristi della Raf e il Ribellarsi è giusto? Quando la polizia arrestò il filosofo, nel ’68, De Gaulle intervenne presso il ministro dicendo: «Non si arresta Voltaire! ». Un rispetto verso la figura dell’intellettuale che sembra scomparso. Oggi la parola risulta quasi un insulto, e nessuno, o quasi, si presenta come tale. Zygmunt Bauman, in un suo libro di qualche anno fa, ha decretato la decadenza di questa figura nata con l’Illuminismo e codificata dalla protesta contro il caso Dreyfus (il termine viene proprio da lì).
Ma forse l’intellettuale più scomodo non è un poeta dedito agli amori con adolescenti e neppure un filosofo sostenitore della rivolta totale, bensì un ex maestro elementare passato alla narrazione e al saggio alla fine degli Anni Cinquanta. Mi riferisco a Leonardo Sciascia il cui astro letterario, e intellettuale, sembra essersi spento, o quanto meno appannato, dopo essere stato uno dei più letti e seguiti scrittori del secondo dopoguerra. Adesso l’editore Adelphi, che lo pubblica da poco prima della scomparsa, avvenuta nel 1989, manda in libreria il primo volume delle sue opere. Non saranno disposte in ordine cronologico, ma radunate per temi e argomenti; dapprima le opere narrative poi quelle saggistiche - se la differenza ha un senso in un narratore così profondamente saggista. Tra i saggi ci sarà l’ultimo libro di Sciascia pubblicato l’anno della sua morte, A futura memoria, ma non la raccolta, composta in gran parte di interviste, La palma va a Nord, pubblicata nel 1980 a cura di Valter Vecellio.
In questi due volumi ci sono tutte le ragioni dello scandalo di Leonardo Sciascia, le ragioni per cui una mostra biografica, come una biografia letteraria e intellettuale, non potrebbe ignorare alcune questioni scomode. In un articolo su La Stampa del novembre 1977, Sciascia così definiva l’intellettuale: «Uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa - principalmente e insopportabilmente dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere». L’avverbio «insopportabilmente» è perfetto.
Prima viene il caso Moro, su cui Sciascia scrive un libro, L’affaire Moro, nel 1978, testo letterario che viene attaccato, prima ancora che sia in libreria, da Eugenio Scalfari, come ricorda Miguel Gotor in Dentro il baule di Aldo Moro, nel terzo volume dell’ Atlante della letteratura italiana (appena uscito da Einaudi), e anche da Indro Montanelli. Il conflitto tra lo scrittore e una parte dell’establishment giornalistico e politico italiano era già cominciato all’epoca de Il contesto, romanzo stroncato dai giornali comunisti. Sono decine le interviste, le lettere ai giornali, gli interventi in cui Sciascia replica ai suoi critici, ma a quel punto tra l’autore de Il giorno della civetta e la sinistra italiana si crea una rottura che lo porterà a candidarsi con i Radicali, dopo essere stato vicino al Pci.
Negli anni degli articoli raccolti in A futura memoria - il cui sottotitolo è «(se la memoria ha un futuro) » - c’è una denuncia: Sciascia riferisce una frase detta da Enrico Berlinguer a Guttuso riguardo le interferenze dei servizi segreti cecoslovacchi nel sequestro Moro; il segretario comunista lo denuncia per calunnia. Poi l’intervento, nel 1982, contro la mitizzazione del generale Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo; e ancora l’appoggio alla campagna per l’innocenza di Enzo Tortora accusato da «pentiti» della camorra.
Il culmine della polemica si raggiunge con la recensione nel gennaio del 1987 del saggio dello storico inglese Christopher Duggan su La mafia durante il fascismo, dove Sciascia sostiene che l’antimafia può diventare uno strumento di potere e parla anche della nomina di Paolo Borsellino a procuratore a Marsala. Si tratta della polemica sui «professionisti dell’antimafia» (ma l’espressione non c’è in quel pezzo) che diventa un punto controverso della sua vicenda di scrittore e polemista, cui segue, tra le altre cose, anche una dichiarazione d’innocenza per Adriano Sofri riguardo al delitto Calabresi: «Se è davvero colpevole davanti ai giudici confesserà», scrive.
Bauman concludeva il suo libro la Decadenza degli intellettuali evocando la figura dell’«intellettuale legislatore», almeno «sino ai prossimi tagli della spesa pubblica». Adesso ci siamo. Gli scomodi alla Sciascia che fine faranno? Niente mostre anche per loro?

Corriere 21.9.12
Quando i filosofi si confrontano con lo scetticismo
di GIianni Vattimo


Caro direttore, i «nuovi» realisti, a cui Emanuele Severino («la Lettura», 16 settembre) fa l'immeritata gentilezza di prenderli sul serio, saranno «in sé» o «fuori di sé»? Essi (Maurizio Ferraris, «Repubblica», 17 settembre) lo ricambiano facendo dire al povero Kant che i fenomeni, per essere tali, devono avere dietro delle «cose in sé» (ogni fenomeno la sua cosa; multe, colapasta, sciacquoni, ecc); e siccome questo è impossibile (lo era soprattutto per Kant, che non avrebbe mai parlato di cose in sé al plurale), multe, colapasta e sciacquoni non sono fenomeni, ma essi stessi cose in sé. Ma a parte l'imprudenza di dialogare con simili interlocutori, Severino argomenta anche in modo serio; serio e anzi eterno, perché le sue ragioni sono sempre le stesse (del resto lui non se ne preoccupa: «Ogni cosa è un essere eterno», dunque anche il suo discorso sull'incontrovertibile). Due i punti essenziali dell'articolo.
a) Gentile. Come i suoi maestri neoscolastici dell'Università Cattolica, Severino riconduce tutto a Gentile e al suo idealismo estremo e soggettivistico. Sono loro che gli hanno insegnato a preferire Gentile a Croce: più facilmente riducibile ad absurdum: tutto sarebbe nelle mani dell'uomo empirico, io lui loro; soggettivismo, nichilismo, ecc. Se questo è l'esito del pensiero moderno, è chiaro che bisogna tornare agli antichi e agli eterni: Parmenide, alla faccia di ogni esperienza vissuta di storicità, libertà, cambiamento.
b) L'incontrovertibile. Se io, con Nietzsche (e Gadamer e Heidegger; ma anche Marx critico dell'ideologia), dico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questo è un'interpretazione, Severino sostiene che anch'io (e i sunnominati) pretendo di fare una affermazione metafisica e incontrovertibile. E perché? Lo dico, qui, ora, leggendo così la mia condizione ed eredità storica. La leggo così e non altrimenti. Ah, ecco, il principio di non contraddizione da cui dovrebbe discendere la verità incontrovertibile dell'eternismo severiniano. Che poi questo vada a braccetto con il «realismo» dei banalizzatori di Kant con cui egli dialoga può solo far da tema a un racconto patafisico. Oltre alla confutazione del pensiero moderno identificato con Gentile, il discorso di Severino (qui e sempre) si riduce tutto al vecchio argomento antiscettico: se dici che tutto è falso, pretendi che la tua tesi sia vera. Dunque... Ma c'è mai stato uno scettico che si sia «convertito» sulla base di questo giochetto logico-metafisico?

La Stampa TuttoScienze 19.9.12
“Inseguite i paradossi e troverete la fisica”
di Barbara Gallavotti


Un tempo la fisica era rassicurante: forniva una visione del mondo in cui le mele cadevano dagli alberi proprio come ci si aspetta da loro e non era impossibile conoscere allo stesso tempo la velocità e la posizione di qualcosa che si muove. Poi gli scienziati si sono spinti a fondo nei segreti della natura, scoprendo come le regole che reggono l'Universo siano spesso in contrasto con il nostro senso comune.
La teoria della Relatività, la meccanica quantistica oppure la fisica delle particelle ci hanno posto di fronte a fenomeni così paradossali da fare venire il mal di testa al curioso di scienza più motivato. Ma Jim Al-Khalili non è uomo da spaventarsi, non per nulla questo fisico teorico di origini irachene trapiantato in Inghilterra è uno dei divulgatori più noti al mondo. Così ha visto la luce il suo ultimo libro, il cui titolo, «La fisica del diavolo» (edito da Bollati Boringhieri) ammicca al successo del mistico nomignolo del bosone di Higgs («la particella di Dio»), anche se in realtà allude al famoso diavoletto di Maxwell. Al-Khalili prende di petto i più noti rompicapo della fisica e dissolve la loro imperscrutabilità alla luce delle scoperte dell'ultimo secolo. Professore, perché spiegare la fisica partendo dai suoi fenomeni più controintuitivi? «I paradossi della fisica sono come dei giochi: sembrano inconciliabili con il senso comune, ma basta introdurre un nuovo concetto o una nuova scoperta e si chiariscono. Sbrogliare un paradosso è divertente, è una sfida mentale che spinge a superare gli ostacoli per comprendere non solo la soluzione dell'enigma, ma anche alcuni profondi concetti scientifici». Prendiamo uno degli enigmi che lei affronta: perché di notte il cielo è scuro? «E’ un quesito vecchio di secoli. L'Universo è enorme e contiene così tante stelle che in qualsiasi direzione si guardi dovremmo vederne abbastanza da non lasciare nessuno spazio di cielo oscuro. Quindi di notte dovrebbe esserci luce come di giorno. Insomma, sembra un paradosso. La soluzione è semplice, a patto di sapere qualcosa che è stato scoperto solo di recente, e cioè che l'Universo ha avuto un inizio ed è in espansione. Ciò vuol dire che possiamo vedere solo la luce dei corpi celesti relativamente vicini, perché quella prodotta dai più lontani non ha ancora avuto il tempo di raggiungerci». Un altro paradosso celebre è quello di Fermi. Viste le caratteristiche dell' Universo, sarebbe plausibile che ci fossero molte forme di vita extraterrestri, e allora come mai non ne abbiamo mai incontrata una? «Questo è un paradosso molto intrigante e per rispondere bisogna riesaminare le ricerche della vita extraterrestre che sono state fatte, così come i calcoli per capire le sue probabilità di esistere. Alla fine penso sia piuttosto semplicistico chiedersi se ci sono degli alieni là fuori: presumibilmente dovrebbero esserci, perché l’Universo è così vasto che potremmo non essere stati ancora contattati. Il punto, però, credo sia un altro: la vita è così speciale da poter esistere solo sul nostro pianeta? Questo interrogativo conduce a due grandi misteri ancora senza soluzione. Il primo riguarda l’inizio della vita sulla Terra, mentre il secondo è: come mai tutto nell’Universo sembra essere stato calibrato in maniera finissima proprio per rendere possibile la vita?». Alla fine del libro lei accenna anche al bosone di Higgs. Secondo lei, la sua scoperta risolve qualche paradosso? «Il bosone di Higgs è una risposta a interrogativi aperti, ma al momento non ci svela nessun mistero e non risolve paradossi. Bisogna aspettare di capire fino a che punto la particella osservata ha le caratteristiche che ci si attendeva. Possiamo essere certi che questa scoperta porterà a nuovi esaltanti sviluppi nella fisica, anche se al momento non abbiamo idea della direzione in cui saranno».

La Stampa TuttoScienze 19.9.12
Neuroscienze
L’imprevedibile caccia ai geni che ci trasformano in killer
Le ricerche sul cervello sono destinate a rivoluzionare anche il diritto penale?
di Pietro Calissano


EUROPEAN BRAIN RESEARCH INSTITUTE - ROMA
Studiare il male. Le conoscenze sul cervello e sulle sue malattie stanno svelando nuove realtà sui comportamenti devianti e criminali

Abbiamo assistito al processo ad Anders Breivik, responsabile delle stragi di Oslo e di Utoya, in cui 77 persone sono rimaste uccise. Dalle tv emergeva un individuo ben vestito, un po’ manierato, con un viso del tutto identificabile con quello di molti suoi coetanei e privo di quei connotati - diremmo lombrosiani - che ci porterebbero ad immaginare come criminale un individuo che ha commesso un massacro simile. Era davvero lui l'uomo che per ore aveva preso di mira e ucciso tutti quei giovani?
Di fronte a questa immagine molti sono rimasti confusi e sconcertati: la nostra mente, abituata a meccanismi quasi automatici, talvolta inconsci, di istantanei collegamenti tra ciò che vediamo e ciò che emotivamente elaboriamo a livello cognitivo, rimane quasi ipnotizzata in una specie di schizofrenia indotta. Come se, per qualche istante, anche noi fossimo preda della stessa apparente scissione di personalità che aleggia nella mente di Breivik e di altri che hanno commesso crimini così orrendi e inspiegabili.
Il rapido, e a volte tumultuoso, progresso delle conoscenze sul funzionamento del cervello pone un dilemma da tragedia greca a chi si occupa di diritto penale ed è chiamato ad esprimere valutazioni sullo stato mentale degli assassini seriali. L’imputato è portatore di tare genetiche che inducono un comportamento pluri-omicida? La sua crescita adolescenziale ha influito sulla sua formazione, fino a modificarla strutturalmente? Fino a che punto un eventuale consumatore di droghe pesanti può subire danni irreversibili al cervello e condurlo al crimine? Queste domande - e molte altre a cui i giudici o una giuria popolare sono chiamati a rispondere - sono sintetizzabili nella domanda di fondo: quel dato individuo era veramente capace di intendere e di volere? Questione riassumibile in una più generale dalla connotazione etico-filosofica: in che misura un pluriomicida (ma il quesito si estende a tutti noi) è dotato di libero arbitrio al momento del suo gesto e quindi agisce in tutta coscienza?
Oggi le conoscenze sul cervello e sulle sue malattie svelano nuove realtà: si è dimostrato, per esempio, che numerose risposte motorie volontarie sono precedute, per una frazione di secondo, dall’attivazione di aree di cui non siamo coscienti, ma che possono interferire sui nostri movimenti. Esiste, in altre parole, un complesso di reazioni, ritenuto totalmente sotto controllo volontario, che, invece, può essere preceduto da attività inconsce. Grazie alle indagini che localizzano determinate funzioni cerebrali in specifiche aree del cervello, quindi, si potranno confrontare sempre meglio le caratteristiche di una mente normale e quelle di un potenziale killer seriale. Ciò implicherebbe che, forse, si potrà davvero definire la normalità e l’anomalia di un comportamento. Non è difficile prevedere che chi sarà incaricato (e in grado) di comunicare queste valutazioni sarà oggetto di infinite critiche e possibili accuse sul piano professionale e personale. E proprio di questi temi si è discusso a Foggia in un convegno organizzato da Ombretta Di Giovine, dal titolo «Neuroscienze e diritto penale», che ha coinvolto giuristi e neuroscienziati.
Non è azzardato prevedere che presto si potranno identificare geni o gruppi di geni direttamente collegati a determinati comportamenti oppure a specifiche malattie o psicosi gravi, come la schizofrenia o le forme depressive. In sostanza, il progresso delle nostre conoscenze sul cervello, come spesso accade nella scienza, da un lato è fonte di enormi vantaggi per l’uomo (che, com’è evidente, sempre di più trae grandi benefici per la propria salute) e dall’altro può essere causa di inesauribili discussioni tra chi vorrebbe una pena in rapporto diretto al delitto commesso e chi, invece, in base proprio a quelle nuove conoscenze, sarà indotto ad un «giustificazionismo» assolutorio, anche e soprattutto nei casi dei crimini più terribili e scioccanti.

La Stampa TuttoScienze 19.9.12
Mille formule svelano l’agonia sconosciuta della civiltà maya
Il Santa Fe Institute: troppe ipotesi sbagliate
di Gabriele Beccaria


Poveri maya. Astrologi e fanta-archeologi giurano che avessero previsto una catastrofe cosmica per il 2012, ma la storia dimostra che non si accorsero in tempo di un’altra catastrofe - la loro - più precoce e localizzata. Nel IX secolo la civiltà che aveva colonizzato il cuore dello Yucatan crolla di colpo e ora due scienziati veri - gli americani Jerry Sabloff e Billie Turner - propongono uno scenario alternativo, diverso dai tanti che l’hanno preceduto.
Dimentichiamo l’ossessione per le cause singole, spiegano. Il disastro - hanno scritto sulla rivista «Pnas» - fu il prodotto di una lunga serie di elementi, intrecciati l’uno nell’altro. Come una rete che un po’ alla volta mise in trappola un intero mondo, strangolandolo. E che si può portare alla luce solo se si adotta la visione allargata della complessità. Il passato, così, si trasforma e da rozzo meccanismo lineare diventa sistema dinamico, dal quale emergono proprietà e conseguenze impreviste.
Per chiarirsi, Sabloff e Turner hanno ideato un grande disegno-diagramma. Un’esplosione di frecce collega a doppio senso i protagonisti del dramma, dalle foreste primigenie ai campi coltivati, dagli insediamenti contadini alle cittàstato, dalle paludi alle risorse idriche, dalle alterazioni climatiche alle metamorfosi dei paesaggi. L’impatto visivo è forte, forse non altrettanto risolutiva è la chiarezza per un nontecnico, ma il messaggio a grandi linee è cristallino. E’ inutile tormentarsi nella ricerca di un fattore scatenante (c’è chi ha ipotizzato le siccità, altri le epidemie e altri ancora le guerre civili). La realtà che si manifesta in questo viaggio a ritroso nel tempo è un’altra.
«Non c’è stato un periodo monolitico in cui si verificò il collasso - sostiene Sabloff, che (non a caso) è il presidente del Santa Fe Institute, la celebre istituzione del New Mexico impegnata a studiare ciò che ci circonda con le logiche della complessità -. Quello che abbiamo portato alla luce, invece, è una quantità di modelli variabili». Traducendo, può essere andata così: secoli di pratiche agricole non sempre adeguate finirono per alterare i suoli e creare un «ambiente stressato». E quando i cicli naturali cambiarono e si manifestarono periodi ravvicinati di siccità, gli habitat erano già al limite, sull’orlo di una crisi irreversibile. Intanto le principali vie commerciali si erano trasferite dalla terraferma alle rotte costiere intorno allo Yucatan, isolando le città dell’interno, già sofferenti per un doppio sisma, alimentare ed economico. Tra le conseguenze a catena, deflagrò il disordine sociale, con rivolte e guerre intestine, mentre le élite si dilaniavano nel tentativo sempre più disperato di conservare il potere. Le fughe di massa dei contadini infersero ulteriori colpi al già fragile equilibrio delle metropoli, fino alla dissoluzione finale.
Le frecce che esemplificano i rapporti dei modelli matematici dimostrano che errori umani e irrequietezze naturali si saldarono in un abbraccio mortale. E dimostrano che il caso di «ecocidio» dei maya non fu inevitabile. Semmai una corsa nel baratro che evoca angosce contemporanee. «Speriamo - concludono i due studiosi - di aver fornito un contesto utile anche per i politici del presente, costretti, come sono, ad affrontare problemi altrettanto complessi».

La Stampa TuttoScienze 19.9.12
Sessualità
Trasformate dal sesso
“Dal sistema immunitario al sonno, gli effetti sulle donne”
di Valentina Arcovio


Il sesso può avere sulle donne effetti insospettabili. Specialmente quando il rapporto viene consumato senza protezioni. Secondo uno studio condotto all’Università dell’East Anglia, quando una femmina si accoppia con un maschio subisce un vero e proprio «scossone» a livello genetico. Il passaggio del liquido seminale accenderebbe una serie di geni legati a diverse funzioni dell'organismo femminile: dalla fertilità alla capacità immunitaria, dalla libido all'alimentazione e al sonno.
Lo studio, pubblicato su «Proceedings», ha coinvolto i moscerini della frutta, i «Drosophila melanogaster», di sesso femminile. Ma i risultati - secondo Tracey Chapman, professoressa di genetica alla scuola di Scienze Biologiche dell'università britannica - possono estendersi agli umani e a tutte le specie animali che, per riprodursi, rilasciano liquido seminale nella femmina. Già quattro anni fa il team aveva accertato che quest’ultimo contiene proteine che inducono un profondo rimodellamento fisiologico e comportamentale, ma ciò che non era ancora stato dimostrato è quale proteina sia la vera «regista».
«Adesso - sottolinea Chapman - abbiamo testato gli effetti di un’enigmatica proteina, conosciuta con il nome di “peptide sessuale”, e abbiamo scoperto che condiziona l’espressione di molti geni, con conseguenze sullo sviluppo delle uova, la formazione dell’embrione, il sistema immunitario, l’appetito, il sonno, il bilancio idrico e il desiderio sessuale».
I ricercatori, in particolare, hanno trovato nelle cavie un’elevata produzione di ovuli e una ridotta ricettività sessuale verso altri partner. Non solo. Il «peptide del sesso» sembra in grado di spingere a mangiare di più, aumentando l’alimentazione post-sesso. E infine influisce anche sul sistema immunitario, contribuendo alla prevenzione delle infezioni del tratto riproduttivo, e fungendo da «barriera» contro lo sperma di maschi diversi.
«Abbiamo trovato alterazioni significative di geni legati alla sviluppo dell’ovocita, all’embriogenesi precoce, all’immunità, alla percezione dei nutrienti, al comportamento e, inaspettatamente, alla fototrasduzione, vale a dire le vie attraverso le quali le donne vedono - riferisce Chapman -. La proteina dello sperma - aggiunge - è un “master regolatore”: significa, in ultima analisi, che i maschi hanno effettivamente un’influenza diretta e globale sul comportamento e sul sistema riproduttivo della femmina».
Si tratta di conclusioni molto forti e destinate a far discutere: i maschi, infatti, avrebbero un indiscutibile vantaggio innato.
«E un tocco aggiuntivo e intrigante è anche che gli effetti dello sperma possono favorire gli interessi dei maschi, mentre nelle femmine genera dei costi, con un conseguente conflitto sessuale - ha spiegato Chapman -. Si può verificare, di conseguenza, una sorta di “gara di tiro alla fune”, in cui gli uomini spingono perché le donne facciano un forte investimento nella “covata”, anche se questo tipo di costrizione può non soddisfare gli interessi a lungo termine delle donne». Dopo l’accoppiamento, infatti, la femmina diventa meno ricettiva rispetto ad altri maschi e investe molte energie nel garantire la sopravvivenza della futura prole.
«Sono tutti aspetti su cui non sappiamo ancora abbastanza», ha sottolineato la studiosa. Le ricerche - promette - sono destinate a continuare.

«Minucci è stato anche direttore di Left»
l’Unità 21.9.12
Adalberto Minucci scompare a 80 anni: fu nella segreteria Pci


È morto ieri all’età di 80 anni Adalberto Minucci. Politico e giornalista, la sua storia si intreccia con quella del Pci e del nostro giornale per il quale ha diretto per vari anni la cronaca regionale piemontese.
Nato a Magliano in Toscana, 4 marzo 1932, è proprio a Torino che si svolge la sua carriera politica. Iscrittosi al Pci nel 1950 è stato il responsabile torinese negli anni Sessanta e Settanta. Membro della direzione nazionale comunista per vent’anni, è stato direttore di Rinascita e ha fatto parte della segreteria nazionale del Pci durante la segreteria di Enrico Berlinguer.
Responsabile dell’informazione del partito è stato eletto per due legislature alla Camera dei deputati (nel 1983 e 1987) e per una al Senato della Repubblica nel 1992 nelle liste del Partito Democratico della Sinistra. Infine l’approdo al Pdci
Minucci è stato anche direttore di Left.
Tra i suoi libri “ Il grattacielo nel deserto” (1960), “Terrorismo e crisi italiana “(1978) e “I comunisti e l’ultimo capitalismo “(1989).

Repubblica 21.9.12
Esce il libro che raccoglie i colloqui del Cardinale con il fondatore di “Repubblica”
Martini, Scalfari e Mancuso
Conversazioni filosofiche
di Roberto Esposito


Ciò che più colpisce, delle Conversazioni tra Eugenio Scalfari e Carlo Maria Martini – adesso raccolte per Fazi con l’introduzione e un commento di Vito Mancuso – è il loro particolare rapporto con il tempo. Non solo, intendo, con il nostro tempo, con questi giorni indelebilmente segnati dalla morte recentissima del Cardinale, ma con la dimensione del tempo in quanto tale, guardata a partire dal punto di fuga che la collega all’eterno. Tutti i dialoghi, come anche i due commossi testi di commiato di Scalfari e Mancuso, si affacciano su quella soglia estrema in cui, incalzati dagli anni, “ci si sente come sentinelle avanzate su un terreno incognito”. E’ un pensiero costante, questo, che non solo non nega la vita, ma conferisce senso e rilievo alle sue opere, come ben sapeva Montaigne quando affermava che “bisogna portare il pensiero della morte come i signori dell’epoca portavano il falcone sulla spalla” – perché prendesse dimestichezza con colui che, fin dalla nascita, comincia a morire. In questo senso, intenso e profondo, si può ben dire che al centro di queste pagine si accampi la vita stessa, interpellata sulle grandi questioni della fede e del sapere, del possibile e del necessario, dell’amore e del potere. L’energia che ne promana nasce dall’attrito tra queste dimensioni contrastanti che, al limite della loro divergenza, trovano, infine, un inatteso punto di raccordo. Come le prospettive dei due dialoganti, lontane nei presupposti, ma accomunate dallo sforzo di attenzione reciproca. Ciò che sorprende – in uomini con esperienze così diverse come quelle del gesuita Arcivescovo di Milano e del laico fondatore di Repubblica – non è tanto la somiglianza delle domande, ma la ben più singolare consonanza di alcune risposte scaturite da esigenze apparentemente incomparabili. Come due rette parallele che ad un tratto, d’improvviso e contro ogni logica, si toccano, aprendo uno squarcio problematico all’interno dei rispettivi linguaggi. E’ così già in ordine al tema, centrale, della vita umana. Da Scalfari ricondotta alla combinazione di elementi chimici riuniti nel nostro corpo non diversamente da quanto accade alle altre specie animali, ma con in più quella capacità di guardarsi dall’interno che ha assunto il nome di coscienza. Da Martini invece intesa come qualcosa che oltrepassa radicalmente la falda biologico- naturale, per situarsi in una relazione privilegiata con il suo creatore. Per il primo destinata a dissolversi senza lasciar traccia, trascinando nell’oblio anche il nome di Dio, per il secondo destinata, alla fine dei tempi, a rientrare nel grembo divino da cui è scaturita. Eppure, pur nella nettezza di questa alternativa, i due interlocutori condividono qualcosa di decisivo, attinente alla libertà di scelta che rende ogni vita responsabile dei propri atti – perfino nella sua fase terminale, quando l’uomo affronta, da solo, la “nera Signora”. Di tale libertà, come ha ricordato Mancuso, lo stesso Martini ha dato estrema testimonianza staccando, quando ha lo ha ritenuto inevitabile, le macchine che lo tenevano artificialmente in vita. Il secondo nucleo problematico che il libro affronta, dopo quello che interroga la vita dal margine della morte, è la relazione, nella Chiesa cattolica, tra missione apostolica e forma istituzionale. Come fa Mancuso dal suo interno, anche Scalfari batte con forza sulla contraddizione di una Chiesa che nel corso del tempo ha non solo perseguitato coloro che dichiarava eretici, ma è entrata in relazione diplomatica anche con regimi nefasti, come quello nazista. La risposta di Martini è che essa non avrebbe potuto fare altrimenti a meno di non esporre i cattolici tedeschi alla rappresaglia di Hitler. Più in generale egli ricorda, non senza ragione, che se la Chiesa di Roma non avesse costruito una salda struttura istituzionale sarebbe stata spazzata via dalla storia come è accaduto ad altri movimenti puramente profetici. E tuttavia, anche in questo caso, la distanza delle posizioni lascia trasparire più di un punto di tangenza. Non solo Martini fa chiaramente intendere di condividere le preoccupazioni di Scalfari, al punto da affermare che il papa deve essere prima di tutto vescovo di Roma, ma concede qualcosa di ancora più rilevante sul piano teologico. Si tratta del rapporto, giustamente individuato da Scalfari come decisivo dell’intera vicenda cristiana, tra Monoteismo e Trinità. La ricchezza originaria del cristianesimo, rispetto agli altri due monoteismi, nasce dalla complessità della sua struttura trinitaria, che vieta ogni trasposizione indebita dal monoteismo religioso a quello politico – secondo il modello imperiale che fa corrispondere ad un unico Dio un unico monarca. Lo stesso Martini non solamente attribuisce alcuni caratteri autoritari del Dio dell’Antico Testamento alla difficile instaurazione del modello monoteista in un mondo antico politeista, ma interpreta il dogma trinitario nel senso di una relazione vitale con l’alterità. Solo un Dio capace di contenere in sé la pluralità può spezzare il vincolo dogmatico tra verità e forza. Il terzo baricentro delle conversazioni è costituito dalla relazione tra pensiero e fede. Mai come in questo caso le posizioni di partenza, tra il cardinale e L’uomo che non credeva in Dio – come s’intitola un libro di Scalfari – sono logicamente lontane. Come può il successore di Sant’Ambrogio dialogare con l’erede di Diderot? Cosa è più lontano dalla problematicità della ragione che la certezza della fede? E come può, la forza del pensiero, coniugarsi con l’ispirazione della preghiera? E’ forse il punto di maggiore distanza delle rette parallele. Ma anche, e proprio per questo, il luogo più straordinario della loro attrazione. Intanto chi conosce i libri di Scalfari sa bene che, dopo o insieme a Diderot, la sua predilezione va al giansenista Pascal – in nome di una ragione sempre pronta a mettersi in dubbio in base alla propria costitutiva finitezza. Ma ancora più decisivo è l’argomento proposto da Mancuso quando nega che la fede in Dio rappresenti un vantaggio sotto il profilo conoscitivo, e perfino etico, rispetto a chi non crede. Se così fosse, se si dichiarasse la verità di fede autonoma dalla ragione e insieme capace di incarnarne l’unica verità, si farebbe una manovra a tenaglia destinata a schiacciare la verità nel calco di un’insostenibile imposizione. Del resto lo stesso pensiero, se non vuole limitarsi alla pura descrizione della realtà così com’è, deve tendere a spingersi oltre se stesso, aspirare a penetrare nello spazio aperto della vita per conferirle quel senso che a volte, o forse sempre, le manca. In questo caso esso, nella sua tensione al mutamento delle cose e degli uomini, non è poi così lontano dalla preghiera. «Quando ci lasciammo – così si conclude l’ultimo testo di Scalfari – lui mi sussurrò nell’orecchio “pregherò per lei” ed io risposi: “Io la penserò”. E lui sussurrò ancora: “Eguale”».

S’intitola “Conversazioni con Carlo Maria Martini”, il libro di Eugenio Scalfari e Vito Mancuso (Fazi, pagg. 165 euro 15)

Repubblica 21.9.12
“Il papiro della moglie di Gesù non influisce sulla Chiesa”


ROMA — «Non influisce sulla visione di Gesù Cristo che appartiene alla tradizione della Chiesa». E’ lapidario padre Federico Lombardi, responsabile della Sala Stampa della Santa Sede; il frammento di papiro copto del quarto secolo dopo Cristo con la frase: «Gesù disse loro: “mia moglie”, presentato a Roma nei giorni scorsi dalla studiosa di Harvard Karen L. King, non fornirebbe alcuna prova — come ha dichiarato al nostro giornale la stessa King — che fra i primi cristiani alcuni credevano che Gesù fosse sposato. «E’ una questione specialistica che riguarda gli studiosi di frammenti di papiri copti» ha tagliato corto il portavoce del Vaticano.

A richiesta con Repubblica e l’Espresso “La psicologia”, nel secondo dvd Stefano Mistura racconta Freud...