martedì 25 settembre 2012

l’Unità 25.9.12
La bancarotta politica del Lazio
di Francesco Cundari


LE DIMISSIONI DI RENATA POLVERINI DALLA PRESIDENZA DELLA REGIONE LAZIO NON SONO STATE NÉ PIÙ TEMPESTIVE NÉ PIÙ SPONTANEE di quelle di Silvio Berlusconi dalla guida del governo. Entrambi hanno tentato di restare al proprio posto con ogni mezzo, dopo avere rifiutato caparbiamente di cambiare rotta, anche quando era ormai chiaro a tutti che la nave sarebbe finita sugli scogli (per restare all’immagine della Concordia già utilizzata dalla presidente Polverini, evidentemente inconsapevole del ruolo che nella metafora spetterebbe a lei, come capitano della Regione). Non hanno voluto cambiare rotta né lasciare che altri prendessero il timone quando si era forse ancora in tempo per evitare gli scogli. La data decisiva è la stessa per entrambi: 14 dicembre 2010.
La prima delibera dell’ufficio di presidenza della Regione Lazio che dà inizio alla crescita esponenziale dei finanziamenti ai gruppi, infatti, porta la stessa data del voto di fiducia al governo Berlusconi. 14 dicembre 2010, dies horribilis del rapporto tra denaro e politica: il giorno in cui si decideva la sorte dell’esecutivo che un anno dopo avrebbe portato l’Italia sull’orlo della bancarotta, e a deciderne la sorte erano proprio i numeri della scissione promossa da Gianfranco Fini nel Pdl. Una coincidenza che getta una luce sinistra sulla vicenda e rende ancor più gravi, a due anni di distanza, silenzi e ambiguità di tutti i partiti di opposizione.
Evidentemente il mese di dicembre, con l’approssimarsi del Natale e la necessità di chiudere il bilancio, è stato sempre un mese importante per la giunta Polverini: il 16 dicembre 2011, meno di un anno fa, il centrodestra laziale approvava l’estensione del vitalizio previsto per i consiglieri anche agli assessori esterni. Proprio così: mentre tutto il Paese era alle prese con le pesanti misure della manovra Monti, mentre nelle altre Regioni i vitalizi si tagliavano o erano stati già tagliati, alla Regione Lazio venivano estesi. Una decisione che la presidente Polverini difendeva con fermezza. «La mancata equiparazione degli assessori ai consiglieri spiegava era un’anomalia della nostra Regione».
Quello che è emerso in questi giorni, attraverso scandali e inchieste giudiziarie, ha reso le dimissioni della presidente del Lazio semplicemente inevitabili. Un esito che non avrebbero comunque scongiurato né i comizi da capo dell’opposizione improvvisati disinvoltamente dalla presidente della Regione, né alcuno stratagemma avessero potuto escogitare i suoi consiglieri dal multiforme ingegno. Il tardivo e maldestro tentativo di indossare ora i panni della moralizzatrice decisa a tagliare e risanare non ha fatto che prolungare di pochi giorni l’agonia di una giunta e di una maggioranza ormai non più  in grado di stare in piedi.
Lo scandalo della Regione Lazio, però, non riguarda soltanto il Pdl, ma tutti i partiti che con quel sistema hanno convissuto. Avere decuplicato in meno di un anno i finanziamenti ai gruppi presenti in Consiglio, mentre in tutto il Paese e anche nel Lazio si tagliavano i fondi a scuola e sanità, non è una responsabilità che possa essere rovesciata soltanto sulla maggioranza.
Può sembrare ingeneroso, dinanzi allo spettacolo offerto dal Pdl, prendersela proprio oggi con i suoi oppositori, a cominciare dal Pd. Ma c’è poco da fare: la responsabilità di chi si batte contro il vento dell’antipolitica è più grande di quella che spetta a chi preferisce andare con la corrente. Il compito è più difficile, la posta in gioco è più alta: chi sceglie di difendere le istituzioni e i partiti, difendendo i principi fondamentali della democrazia rappresentativa e della convivenza civile, può perdere le elezioni, ma non la faccia. Chi conduce una battaglia democratica in difesa del finanziamento pubblico ai partiti, proprio per impedire che la politica finisca ostaggio di interessi privati, deve essere più rigoroso con se stesso di chi cavalca la facile demagogia dell’abolizione di ogni finanziamento. Chi conduce una battaglia di civiltà contro l’idea che la pubblicazione sui giornali delle private conversazioni telefoniche di chiunque sia un fattore di trasparenza, invece che di ricatto e di manipolazione dell’opinione pubblica, deve essere il più determinato nel chiedere e nell’ottenere ogni forma di tracciabilità e rendicontazione di ogni euro di denaro pubblico; dev’essere il primo a chiedere e ottenere trasparenza nei bilanci di tutte le istituzioni e di tutti i partiti, a tutti i livelli.
Populisti e demagoghi di ogni colore possono attraversare ogni scandalo senza troppe preoccupazioni. La storia italiana degli ultimi vent’anni ne offre ampie dimostrazioni: finché la barca regge o sembra reggere ci sarà sempre un nuovo capro espiatorio su cui indirizzare rabbia e scontento, distogliendo l’attenzione dalle proprie magagne. Sono i democratici che non possono permetterselo.

l’Unità 25.9.12
Il Pd incassa le dimissioni
«Ma anche noi quanti errori»
La rabbia dei segretari di circolo: «Noi non abbiamo neppure i soldi per pagare le bollette»
di Jolanda Bufalini


«Quello a cui stiamo assistendo è il fallimento del governo della destra, ma sappiamo che l’inquinamento della politica ha lambito l’intero sistema». Il segretario regionale del Pd, Enrico Gasbarra, introduce così la direzione regionale del partito, riunitasi ieri a porte chiuse proprio mentre Renata Polverini si apprestava ad annunciare le sue dimissioni. I democratici salutano con soddisfazione l’epilogo della vicenda, ma restano dubbi e rabbia sull’operato del consiglio.

La riunione della direzione è a porte chiuse, «Davvero?», «Allora guarda, i casi sono due: o abbiamo paura o siamo diventati un partito serio», la battuta è di Enzo Foschi, consigliere dimissionario come gli altri 14. Mario Ciarla, che è stato segretario romano, uscendo dopo la riunione finita rapidamente con il «sì» alla linea delle dimissioni dei consiglieri: «Forse siamo diventati un partito serio». Battute che sintetizzano il sollievo ma anche la rabbia e la paura. Rabbia e paura ci sono ma non è il giorno per dare sfogo alla discussione, è quello delle decisioni da prendere in fretta. Quando alle 17 la direzione regionale del Pd si riunisce a Sant’Andrea delle Fratte, l’atmosfera è elettrica, è già chiaro che le dimissioni della presidente della Regione Lazio sono imminenti, il tempo di organizzare una piccola claque per l’uscita di scena in via Ripetta.
Il segretario Enrico Gasbarra sa che di fronte a lui ci sono tante persone molto preoccupate, «Quello a cui stiamo assistendo è il fallimento del governo della destra dice, per aggiungere subito: ma sappiamo che l’inquinamento della politica ha lambito l’intero sistema». Promette che si discuterà e ci sarà spazio per tutti, ma ora «si deve andare fino in fondo sostenendo la scelta coraggiosa delle dimissioni dei consiglieri regionali». Fa appello ai candidati non eletti, anche loro devono partecipare a questa battaglia. Il tranello, infatti, è dietro l’angolo, se qualcuno di loro si sfilasse, accettando la surroga, cioè di sostituire i dimissionari, la partita si farebbe più incerta. Accanto a lui c’è il capogruppo alla Pisana, Esterino Montino che tiene il conto delle firme: «Ne abbiamo 28» e fa appello all’Unione di centro, con i loro 6 consiglieri e con i radicali si raggiunge la maggioranza del consiglio e lo scioglimento automatico. Si sente il sapore della vittoria e questo calma gli animi. La scelta di andare al voto ha creato, almeno per una volta, l’unanimità.
La sala di Sant’Andrea delle Fratte è piena come succede nelle grandi occasioni: Luigi Zanda e Giuseppe Fioroni, Roberto Gualtieri, i consiglieri regionali, i responsabili dell’organizzazione che dovranno poi lavorare con i circoli, Pietro Folena che rivendica, come sinistra: «Per primi abbiamo indicato la via delle dimissioni». Arriva attutita ma arriva la rabbia dei segretari di circolo, alcuni, soprattutto in provincia, giovanissimi: «Noi non abbiamo i soldi per pagare le bollette, siamo costretti a chiudere le sedi», l’iniziativa politica in periferia si fa con l’autofinanziamento e i soldi sono molto scarsi, venire a sapere dei bilanci del gruppo è stato un colpo, «non puoi più dire che fai politica perché nessuno crede che lo fai per passione, tutti pensano che lo fai per i soldi». C’è la preoccupazione politica più generale, Sesa Amici siede accanto a Daniela Valentini e Maria Coscia, politiche di lungo corso nella sinistra romana, c’è pessimismo, forse anche perché non sanno che Renata Polverini sta per dimettersi: «Brutta situazione, è un’onda che non sai dove si fermerà.».
E per di più, proprio oggi c’è Renzi a Roma. La discussione è rinviata ma non di molto. Racconta Lionello Cosentino che, quando arrivò la prima volta alla Regione, negli anni Novanta, fu un momento entusiasmante. Poi però «sono stato contento di andarmene». Il problema vero è che negli anni il bancomat regionale, nel Lazio ma non solo, è diventato uno strumento di finanziamento delle fortune politiche personali e delle correnti. È durissimo Roberto Morassut: «Le dimissioni della Presidente Polverini non sono solo la fine di un'esperienza di governo della Regione Lazio, ma la fine di un regime e questo vale per tutti. Un regime segnato dalla crisi dei partiti come strumenti collettivi e dal dominio di potentati personali, di capibastone, lobbies e gruppi di potere spesso trasversali, che hanno svilito la vita democratica e la partecipazione». La strada da percorrere, dice, è quella dell’anagrafe patrimoniale degli eletti, della uscita dei cda, del reclutamento attraverso concorso pubblico delle aziende partecipate.
Ma non è piaciuta l’intervista di Emma Bonino, «non è vero dice un militante Pd che non avessimo candidati, c’erano in corsa Gasbarra e Zingaretti, poi ci fu l’alleanza dell’Udc con la Polverini, il nostro sostegno fu leale».
Zingaretti e Gasbarra. Di nuovo un tandem, quanto al presidente della Provincia, aveva espresso da tempo la convinzione che l’unica soluzione possibile per il pasticciaccio del Lazio fosse «andare tutti a casa». Ora si tratta di capire quando saranno convocati i comizi elettorali: c’è il rischio che Polverini, che ha mandato una serie di messaggi trasversali, alla sua ex maggioranza, voglia fare come Raffaele Lombardo: stare il più a lungo possibile a gestire l’ordinaria amministrazione, magari fino alle elezioni politiche. Un tempo troppo lungo dopo il cataclisma del Lazio.

La Stampa 25.9.12
Il partito unico della spesa allegra: dopo il Lazio si teme l’effetto-valanga
Tam-tam trasversale sui rischi da nuove indagini in tutta Italia
Montino Capogruppo Pd, ha detto: «Tanti soldi? Vero, ma non li abbiamo spesi tutti»
di Fabio Montino


Alle 10, di solito, il baretto della Pisana alla Regione Lazio, è zeppo di clienti, assessori, consiglieri, portaborse ma stavolta c’è il deserto: «Aho’ che è successo? So’ fuggiti tutti?». Dopo anni è tornato in Regione, a vedere che aria tira, Corrado Bernardo, una delle colonne (immacolate) della politica romana nella Prima Repubblica, già capo del Personale alla Pisana, assessore andreottiano in Campidoglio. “Corado”, come lo chiamano qui, conosce tutti, negli uffici è andato a parlare con chi sa e a fine mattinata fa una profezia: «Purtroppo sono coinvolti tutti i partiti, ma quello che ancora nessuno ha capito è il rischio dell’effetto-slavina: ci si è consultati, molto informalmente, con altre Regioni e grosso modo la situazione è analoga anche altrove e se la magistratura e la Corte dei Conti allargano il campo di indagine, il rischio è per tutto il sistema...». A quali regioni si riferisca il vecchio “Corado” non è dato sapere: la Sicilia? La Liguria? Altre ancora? In queste ore è partito un tam-tam angosciato che coinvolge funzionari regionali, dirigenti di partiti, consiglieri regionali, tutti atterriti dal possibile “contagio”. Una paura che spiega l’accelerazione, imposta dal Pd e raccolta dall’Udc, sulle dimissioni di Renata Polverini: ma basterà una “testa” per stendere un velo su eventuali “leggerezze” svolte altrove? Il sistema dell’autocertificazione e delle fatture volanti, emerso col sistema-Lazio, quanto è diffuso?
Una cosa è certa: man mano che passano i giorni, diventa sempre più chiaro che nel Lazio esisteva una sorta di “partito unico della spesa allegra”. Certo, l’iniziativa di far lievitare fino all’inverosimile le spese «per il funzionamento dei gruppi» nel 2010 è stata del Pdl, ma la “cupola” che tutto decideva sui fondi era assisa nell’Ufficio di presidenza nel quale erano presenti esponenti di diversi partiti: l’Udc, la lista Polverini, il Pdl con il presidente dell’Ufficio e con Isabella Rauti (moglie di Gianni Alemanno), ma anche due partiti dell’opposizione, il Pd e l’Italia dei Valori Certo, dei finanziamenti a pioggia hanno goduto tutti gli altri gruppi, gli unici a denunciare ripetutamente l’andazzo sono stati i Radicali, ma un ruolo di protagonisti lo hanno giocato i due partiti di opposizione presenti nell’Ufficio di presidenza: il Pd e l’Idv, che hanno dato il via libera a tutti gli auto-aumenti. E da due giorni, al Pd nazionale, sono rimasti abbastanza sorpresi eper le argomentazioni portate dal capogruppo alla Pisana, un personaggio sperimentato come l’ex Pci-Pds Esterino Montino, in una intervista a “la Repubblica”: «Tanti soldi? Vero, ma non li abbiamo spesi tutti», «l’Ufficio di presidenza ha preso atto, senza discutere: tutti potevano intervenire, nessuno lo ha fatto». Nel Pd, l’ala soft dell’ex Ds Montino è stata travolta dalla linea dura del segretario regionale Enrico Gasbarra, un ex democristiano che ha mostrato di aver imparato le regole della Seconda Repubblica: è stato lui, d’intesa con Pier Luigi Bersani, a suggerire l’idea delle dimissioni unilaterali. E sarà lui il prossimo candidato del centrosinistra alla Regione Lazio: c’è già un accordo con l’Udc. Ma anche l’Idv, partecipava al “sistema”: nell’Ufficio di presidenza era presente Claudio Bucci, un campioncino del trasformismo. Presidente del sindacato autonomo delle modelle e degli indossatori è come se Bucci avesse trasferito su sé stesso il naturale “fregolismo” dei suoi assistiti: retino nei primi anni Novanta, per entrare in Consiglio regionale passa sotto le insegne di Silvio Berlusconi, con la presidenza dell’ex socialista Marrazzo si trasferisce allo Sdi e finalmente all’Idv. E quanto all’Udc, in questi anni aveva stretto un patto di ferro con la Polverini nel campo della sanità, come dimostra l’originale concentrazione di potere che si assomma in un personaggio vicino al segretario Cesa: Domenico Alessio è al tempo stesso direttore generale di un grande ospedale, il San Filippo Neri, ma anche commissario del più grande nosocomio italiano: il Policlinico Umberto I.

«Accettare l’aumento del contributo ai gruppi è stato certamente un errore. Ma lo hanno fatto anche gli esponenti regionali radicali. Prima di attaccare gli altri Emma Bonino avrebbe dovuto spendere almeno una parola sul suo partito»
l’Unità 25.9.12
D’Alema: «Atto dovuto, ora una riflessione seria»


«Le dimissioni sono un atto dovuto, un successo dell’opposizione, che le ha chieste, e un segno del fallimento del centrodestra», ma quanto è successo sono «fatti che richiedono a tutti i partiti una riflessione seria», ha commentato ieri sera Massimo D’Alema, intervenendo a Otto e Mezzo. A una domanda sulle parole di Emma Bonino, che in una intervista uscita ieri su Repubblica criticava il comportamento degli esponenti pd alla Regione Lazio, il presidente del Copasir ha poi aggiunto: «Accettare l’aumento del contributo ai gruppi è stato certamente un errore. Ma lo hanno fatto anche gli esponenti regionali radicali. Prima di attaccare gli altri Emma Bonino avrebbe dovuto spendere almeno una parola sul suo partito. Detto questo, non è la stessa cosa aver usato quei soldi in modo lecito, aver rendicontato i bilanci on line, e invece averli spesi per festini o altro, come hanno fatto altri. È chiaro che in un momento di così profonda crisi i partiti devono dare l’esempio», ha proseguito D’Alema. «A Emma Bonino non sono mancati dei voti. Bonino ha perso le elezioni. Poi, quando dopo aver perso, si diventa vicepresidente del Senato e non si viene mandati in Siberia, forse si può avere anche un certo garbo», ha sottolineato ancora D’Alema riguardo le parole di Bonino, candidata alla regione Lazio contro Polverini tre anni fa, che ha detto che in campagna elettorale molti del Pd le consigliarono di non toccare il tema della trasparenza. «Bonino ha aggiunto D’Alema dovrebbe dire chi le ha dato questi consigli perché il Pd combatte contro l’invadenza dei partiti nelle Asl. Dica nomi e cognomi. È singolare che li abbia ascoltati perché Bonino è una signora adulta la quale può anche dire “io questi consigli li respingo”. Magari in tempo reale e non quattro anni dopo». Sul quadro politico nazionale, invece, D’Alema ha rivendicato: «Noi abbiamo voluto il governo Monti, Abbiamo chiesto un governo di responsabilità nazionale e fatto in pratica il suo identikit. Se c’è Monti è merito in gran parte del Partito democratico».

Corriere 25.9.12
I graffi, le accuse, le baruffe. Ma Polverini è andata fuori tempo
di Gian Antonio Stella


«Bene così», le avrebbe detto «Clementina la comunista», nonna dell'ex marito iscritto alla Cgil. Con le dimissioni date artigliando a destra «i personaggi da operetta» che hanno scatenato la «faida dentro il Pdl» e a sinistra quelli che «avevano annunciato le dimissioni senza però darle», Renata Polverini esce di scena con qualche possibilità, forse, di rientrarci. Fosse rimasta un solo minuto in più, non avrebbe avuto un futuro.
Fosse stato per lei, dice, avrebbe sbattuto la porta prima. Al momento in cui lo scoppio dello scandalo delle spese pazze di certi consiglieri pidiellini, le fotografie delle feste con i gladiatori e i maiali, i prelievi dalle pubbliche casse come fossero bancomat personali, i versamenti dei fondi per i gruppi sui conti privati, il montare delle leggende intorno a «Er Batman», l'arroganza da coatti rivestiti di certi colleghi di partito finiti nel mirino dei giudici le avevano reso l'esistenza insostenibile.
Era stato solo l'assedio intorno di chi le suggeriva di «resistere, resistere, resistere» per non innescare una reazione a catena catastrofica per il Pdl e per la Lombardia, assicura, a spingerla a dichiarazioni impegnative come quella fatta a Piazzapulita: «Non mi dimetto, non sono stata trovata con le mani nel sacco e non mi ci troveranno mai». Ma lei, ha giurato ieri sera, aveva già deciso: era rimasta solo per smascherare il bluff dei consiglieri di sinistra che ieri sera non avevano ancora presentato ufficialmente le dimissioni.
Vero? Falso? Un po' vero e un po' falso? Certo è che, dopo quello che è emerso in questi giorni, la governatrice non aveva scelta. Tanto più dopo che l'emorragia della sua maggioranza, dopo il «basta» di Pier Ferdinando Casini, era ormai incontenibile.
Se n'è andata a modo suo. Graffiando quei compagni di partito «che non meritano di stare dove stanno», graffiando Roberto Formigoni che solo dopo 20 anni inchiodato sulla poltrona di governatore ha scoperto che le Regioni hanno bisogno «di un'autoriforma» che regoli meglio i poteri del consiglio e della giunta, graffiando il capogruppo del Pd Esterino Montino che vuole darle lezioni, lui che «è in Regione da 26 anni».
«Salda nell'almo, con la fronte altera»: esattamente come aveva reagito in questi anni a tutte le polemiche. A quella col cronista de Il Fatto che le chiedeva come mai fosse arrivata alla «Fiera del peperoncino» di Rieti con l'elicottero anziché con la macchina, elicottero tra l'altro affittato dalla Heliwest, una società che aveva vinto un appalto proprio con la regione Lazio: «No guardi, non troverà nessuna spesa che mi riguarda, nemmeno le cene. Vada a studiare che è meglio». Quella sulla casa in affitto a 130 euro al mese dell'Ater: «L'appartamento di cui trattasi, posto al quarto piano senza ascensore con una metratura di circa 60 mq, senza balconi, è stato assegnato, nei primi anni del Novecento alla nonna di mio marito». Quella con un contestatore a Genzano, dove recuperò un vecchio epiteto neofascista nei confronti dei sinistrorsi: «Con me caschi male. So' della strada come te, le manifestazioni le organizzavo quando tu c'avevi i calzoni corti. Non mi faccio mettere paura da una zecca come te».
Che non sia facile mettere paura a Renata Polverini è vero. Se c'è da scazzottare, scazzotta. Basti ricordare, qualche mese fa, la baruffa con Gianni Alemanno, il sindaco di Roma di cui è (era) amica da una vita. Alemanno era schierato contro l'ipotesi di una discarica a Corcolle, a poche centinaia di metri (sopravento) dalla meravigliosa villa Adriana, lei stava invece col prefetto dalla parte di chi riteneva quella la migliore delle soluzioni possibili per sversare in una vecchia cava l'immondizia capitolina dopo la chiusura della storica pattumiera di Malagrotta.
Dice l'ex governatrice di essere caduta dalle nuvole alla scoperta di come si comportavano quei personaggi «indegni» che in questi giorni ha attaccato frontalmente. Risponde Franco Fiorito, l'ex capogruppo diventato in pochi giorni (tristamente) celebre, che «Renata non poteva non sapere». E ricorda che molte delle storture che oggi appaiono inaccettabili all'ex sindacalista della Ugl erano state denunciate in varie inchieste giornalistiche senza scatenare allora sfoghi d'indignazione lontanamente paragonabili a quelli di oggi. Due casi tra i tanti: la presenza in Regione (sia chiaro: per responsabilità pesanti anche delle maggioranze precedenti, comprese quelle di sinistra) di 11 dipendenti per ogni parlamentare o i rimborsi di 35 centesimi al chilometro concessi anche ai consiglieri regionali che non risultavano avere una macchina. Ecco, se su alcune cose la governatrice avesse strillato prima ciò che strilla adesso, oggi la sua immagine potrebbe essere meno ammaccata.

il Fatto 25.9.12
La piena in arrivo
di Peter Gomez


Non è che l’inizio. Le dimissioni di Re-nata Polverini segnano solo un primo giro di boa nello scandalo dei fondi milionari incassati, spesi e rapinati senza controllo dal Pdl e da altri movimenti politici. Non servono particolari capacità divinatorie per capire che il sistema Lazio, ben incarnato dalla pantagruelica figura Franco Fiorito, è un patrimonio comune di molti altri Consigli regionali. Ovunque l’opacità regna sovrana. Ovunque, appena si tenta di fare qualche domanda, si scopre l’imbarazzo.
In Lombardia Pd, Pdl e Lega, non vogliono mostrare ai giornalisti gli scontrini. “Sono cose nostre, c’è la privacy”, dicono all’unisono, sorvolando sul fatto che pranzi e riunioni saranno pure loro, ma i soldi, almeno quelli, sono dei contribuenti. In Emilia Romagna, quando è stata avviata un’indagine interna, si è scoperto che quattro partiti non avevano depositato le fatture. I documenti sono saltati fuori dopo un mese e, da un primo esame, la Guardia di Finanza si è resa conto che un ex consigliere dell’Idv (subito espulso) risultava aver cenato in quattro diversi ristoranti la stessa sera. Un record. In Campania, da cinque giorni, si trattiene il fiato per un blitz delle Fiamme Gialle: in ballo ci sono un paio di milioni di euro di spese sospette. Insomma, i mattoni della politica italiana cadono uno dopo l’altro. Per salvare dalle macerie i cittadini e la residua credibilità delle istituzioni sono necessari almeno due atti immediati. Polverini e gli altri consiglieri devono rendere tutto quello che, a vario titolo, hanno incassato. Non perché servano gesti simbolici, ma perché con quei soldi si potrà molto più concretamente restituire ai disabili i servizi sociali tagliati dalle Asl del Lazio ed evitare di far pagare loro il ticket.
A Roma, nelle segreterie dei partiti, è invece saggio che qualcuno cominci finalmente a farsi dei calcoli. Attendere serenamente (si fa per dire) che il disastro arrivi dalla periferia al centro – ancora oggi i gruppi del Senato non vogliono controlli su 22 milioni di euro – non conviene. È molto più furbo anticipare la piena. Senza parole, leggi o riforme. Ma solo con dei comportamenti. Con cose semplici del tipo: vietare ai propri eletti di accedere ai rimborsi regionali e magari obbligarli a dirottare da domani parte dei loro super stipendi ai disoccupati. Inutile però farsi illusioni. La risposta (negativa) dei partiti la conosciamo già: “Questa non è politica, è populismo”. Peggio per loro.

La Stampa 25.9.12
La fine della seconda repubblica
di Marcello Sorgi


E’ inutile girarci attorno o attardarsi troppo sui dettagli: quella a cui stiamo assistendo è la fine della Seconda Repubblica. L’unica differenza, rispetto alla caduta della Prima, vent’anni fa, è che stavolta le dimissioni non sono imposte dagli avvisi di garanzia delle Procure, ma da una sorta di tribunale dell’opinione pubblica, che non ha bisogno di aspettare indagini, processi e sentenze, per esprimere il proprio disgusto. Renata Polverini, che appartiene all’ultima generazione di leadership costruite in tv (il suo trampolino di lancio era stato «Ballarò»), proprio questo aveva capito quando, all’esplodere dello scandalo della Regione Lazio di cui fino a ieri era presidente, aveva annunciato la sua decisione di dimettersi. Doveva farlo subito, dieci giorni fa, senza lasciarsi attirare dalle molte sirene che hanno cercato fino all’ultimo di convincerla a resistere. Come potevano pensarlo, davvero non si era capito. Né lo hanno compreso i molti del centrodestra che ieri sera, dopo le dimissioni, continuavano a ripetere che non c’era ragione, che la giunta laziale era pulita, e sarebbe bastato mettere a stecchetto i consiglieri regionali per rifarsi la faccia di fronte agli elettori.
Diciamo la verità, era fuori dal mondo l’idea che per andare avanti bastasse mettere fuori «Francone» e «Franchino», il Batman di Anagni che coi soldi della Regione si era comperato un Suv e cenava a ostriche e champagne, e il finto pentito che gli aveva fregato il posto e lo aveva denunciato. Ed era impossibile che Berlusconi e Alfano non lo avessero compreso.
La verità è che nei dieci interminabili giorni trascorsi tra l’esplosione dello scandalo e le dimissioni della Polverini, i vertici del Pdl hanno dovuto far fronte alle pressioni della componente ex An guidata da La Russa e Gasparri, che minacciavano la scissione del partito perché il conto del Batman rischiavano di pagarlo loro. Di qui l’inutile tentativo di metterci una pezza, dimissionando «Franchino» per salvare «Francone», e mettendo al posto di capogruppo in consiglio regionale un’ignara ragazza ventenne, da usare come copertura dei prossimi imbrogli.
Una toppa che non poteva reggere. E questa pretesa campagna di moralizzazione - così hanno avuto il coraggio di definirla! - si svolgeva mentre i due protagonisti della faida si scambiavano le accuse peggiori, a colpi di lettere minatorie, copie di ricevute false con importi decuplicati, foto della festa in costume con i consiglieri mascherati da porci. Come potevano pensare di recuperare la fiducia dei cittadini, di fronte a uno spettacolo come questo?
C’è voluto il richiamo della Corte dei conti. Ci sono volute le dimissioni dell’opposizione. E alla fine è toccato al cardinale Bagnasco dar voce allo sdegno popolare e sollecitare i partiti a staccare la spina. L’accelerazione di Casini e dell’Udc, che hanno fatto calare il sipario sulla vicenda, è dipesa anche da questo.
Adesso c’è chi dice che questa storia era segnata dall’inizio, quando, nel 2010, il Pdl non riuscì neppure a presentare la lista per le regionali e il consiglio venne lasciato in mano al «federale» di Anagni. E’ possibile, ma la lezione che si ricava da quanto è accaduto è più semplice. A sei mesi dalle elezioni politiche, se non vogliono che alla Camera e al Senato accada quello che negli ultimi anni è successo a Milano, Napoli, Parma e Palermo, dove la gente ha cercato qualsiasi rifugio pur di non votare i partiti tradizionali, i gruppi dirigenti hanno solo una possibilità: far pulizia. Subito, senza perdere altro tempo. Vale per il centrodestra, il più colpito in sede locale da ras che compiono ogni genere di illegalità e quando arrivano le inchieste della magistratura fanno spallucce. Cosa aspetta, ad esempio, Berlusconi per pretendere un chiarimento da Formigoni? Dopo l’esempio della Polverini, quanto ancora può reggere il presidente della Lombardia, con le accuse che gli sono piovute addosso?
Ma anche il centrosinistra, non va dimenticato, dall’Emilia alla Puglia, sullo stesso terreno, non è certo esente da guai. La sensazione è che tutta la rete delle Regioni sia a rischio. Già solo il dato della spesa pubblica, cresciuta a livello locale di ottanta miliardi di euro negli ultimi anni, è inaccettabile in una stagione di sacrifici in cui lo Stato aumenta le tasse e chiede ai cittadini di tirare la cinghia.
La Prima Repubblica era stata inaffondabile per quasi mezzo secolo, ma si inabissò in due anni. La Seconda è durata meno della metà e sembra morire dello stesso male. In sei mesi, se è in grado di rinnovarsi veramente, può ancora provare a salvarsi. Oppure, come ha fatto in questi giorni, celebrare il suo funerale.

Il Sole 24 Ore 25.9.12
Un intero sistema da rifondare
di Stefano Folli

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Corriere 25.9.12
Molte spese pochi valori
di Ernesto Galli della Loggia


Quando la quantità di un fenomeno supera una certa misura, ciò ne cambia la qualità, esso diviene qualcos'altro. E dunque non si può definire semplicemente corruzione, sprechi, malgoverno quanto sta emergendo a proposito del modo d'essere delle istituzioni regionali nel nostro Paese. Che va aggiunto, per l'appunto, alle note ruberie dei vari Lusi e Belsito e dei loro molti complici, nonché alla pervicace volontà dei partiti, dimostrata in mille occasioni e ancora pochissimi giorni fa al Senato, di continuare a non dare conto del modo in cui impiegano il fiume di soldi dei contribuenti ottenuti grazie a delibere da loro stessi approvate nei consigli comunali, provinciali, regionali e per finire nelle aule parlamentari. Né vale dire, mi sembra — come ha fatto proprio sul Corriere di ieri il presidente Onida — che la colpa è degli uomini, degli eletti, i quali poi, secondo quanto prescritto dal Porcellum, sarebbero in realtà dei «nominati». Infatti gli orribili e patetici figuri della maggioranza del Consiglio regionale del Lazio (di cui voglio sperare che il Pdl non osi ripresentare nelle proprie liste neppure uno), così come i consiglieri dell'Udc, del Pd e dell'Idv, loro complici nella finanza allegra e nelle smisurate appropriazioni, sono stati tutti eletti da migliaia e migliaia di preferenze (come del resto Formigoni, come Penati, come Lombardo, e come mille altri). Altro che nominati!
In realtà ciò che è sotto i nostri occhi è il collasso dell'intera piramide del ceto politico a partire dalla sua base, dall'ambito elettivo locale. È tutto l'edificio della rappresentanza che sta sprofondando nel malgoverno. Ormai perfino gruppi parlamentari veri e propri, per non dire di moltissimi gruppi dei consigli comunali e regionali, hanno la loro vera ed esclusiva ragione d'essere nell'appropriazione del pubblico denaro. Interi gruppi di delibere, intere filiere amministrative, blocchi di uffici e di assessorati (penso alla sanità, alla «formazione», al demanio), centinaia di società per azioni pubbliche, esistono principalmente in funzione esclusivo dell'uso privato-politico-clientelare dei soldi dell'erario.
Ma il collasso/incanaglimento del ceto politico non nasce, ripeto, dalla nequizia dei singoli o dall'assenza di controlli (che naturalmente potrebbero sempre essere accresciuti e migliorati). La sua causa vera, così come la causa della sua vastità capillare, sta altrove: sta nella disintegrazione del quadro generale — ideale e istituzionale — in cui quel ceto è chiamato ad agire. Chi oggi inizia a far politica in Italia non ha più alcun riferimento storico-ideologico forte, non può ricollegarsi ad alcun valore; in senso proprio non sa più a nome di quale Paese parla, anche perché ben raramente ne conosce la storia e perfino la lingua; l'Italia che gli viene in mente può essere al massimo quella del made in Italy. Per una ragione o per l'altra, poi, tutto l'orizzonte simbolico ma anche pratico sul cui sfondo è nata e vissuta la Repubblica gli si presenta in pezzi. La politica, i partiti, l'antifascismo, l'intervento pubblico, il Welfare, la mobilità sociale, il lavoro hanno perduto qualunque capacità mobilitante, non rappresentano più quelle rassicuranti (e plausibili) linee d'azione che rappresentavano un tempo: andrebbero ripensate da cima a fondo ma nessuno lo fa.
Quando perfino il destino di una fabbrica locale sembra dipendere (e dipende!) da Bruxelles, da Francoforte o da Pechino, tutto ciò che si richiama alle vecchie culture politiche della nostra tradizione democratica suona irreale, morto. Anche la Costituzione dovrebbe essere urgentemente aggiornata ma nessuno osa provarci veramente. Le assemblee elettive, infine, tutte le assemblee elettive, languono da anni in una crescente irrilevanza funzionale, testimoniata dal numero sempre più ridicolmente basso dei giorni in cui siedono e dei provvedimenti che riescono a varare.
Chi s'inoltra oggi sul sentiero della politica s'inoltra dunque in un vuoto abitato dal nulla. Che non a caso attira perlopiù solo donne e uomini vuoti, senza idee né principi. Che una volta eletti sono destinati a passare il proprio tempo in un'aula come fossero pesci in un acquario: impegnati a muoversi senza un vero scopo, a dare vita a finte passioni e a finte battaglie, il loro unico scopo è restare in attesa del cibo. Chi vuole avere un'idea del senso d'inutilità e di frustrazione che oggi può provare nel nostro Paese chi è chiamato ad amministrare e pure ha idee e passioni vere, legga la desolante confessione-testimonianza che un galantuomo a diciotto carati come l'attuale sindaco di Forlì, Roberto Balzani, ha consegnato a un libro appena uscito dal Mulino, Cinque anni di solitudine: un titolo che dice tutto.
Sono questa solitudine e questo vuoto; meglio: questa mancanza di adeguati presupposti ideali e istituzionali, questa inconsistenza e irrilevanza che ha oggi l'agire politico in Italia, la vera causa della corruzione e del malgoverno dilaganti. Oggi in politica si ruba perché non c'è nient'altro da fare, perché la politica non riesce a essere e ad animare più nulla: neppure quella cosa che si chiama governo, che infatti abbiamo dovuto affidare a un «tecnico». Domandiamoci con spregiudicata sincerità: che cos'altro può fare di davvero significativo per il suo presente e per il suo futuro un consigliere, un deputato o un assessore qualunque, di questi tempi, se non cercare di rimpannucciarsi come meglio può, e costruirsi una bella clientela personale? Smettiamola di illuderci: non più presidiata dalla forza delle idee e dall'autorevolezza delle istituzioni, la politica è un territorio destinato inevitabilmente a cadere nelle mani dei Lusi e dei Fiorito. Come del resto sta puntualmente avvenendo.

Repubblica 25.9.12
Primarie, sfida sulle regole Bersani: solo votanti certificati
Renzi: norma contro di me, scoraggia la società civile
di Goffredo De Marchis


ROMA — Non sarà un albo degli elettori e verranno tutelati i dati sensibili. Ma Pier Luigi Bersani pensa comunque di utilizzare i nomi dei cittadini che parteciperanno alle primarie. Probabilmente in calce a un appello che sarà utilizzato nella campagna per le politiche. Un manifesto per far votare il centrosinistra: milioni di firme che danno forza alla candidatura del Pd e dei suoi alleati per Palazzo Chigi. Niente date di nascita, mail, indirizzi. Ma nomi e cognomi sì. E se Matteo Renzi, com’è successo negli ultimi giorni, alimenterà una lite sulle regole denunciando ostacoli, barriere e censure al libero voto, gli uomini del segretario sono pronti a sbandierare il regolamento della sfida che proiettò il rottamatore sulla poltrona di sindaco di Firenze. Articolo 4 dello statuto per le primarie fiorentine: «I cittadini accettano di essere registrati nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori del centrosinista fiorentino ». Pubblico è la parola-chiave.
Per il momento la partita delle regole viene giocata dagli ambasciatori degli sfidanti davanti a un caffè o con lunghe telefonate che attraversano l’Italia. Protagonisti delle chiacchierate: il braccio destro bersaniano Maurizio Migliavacca, il responsabile dell’organizzazione del Pd Nico Stumpo, il coordinatore renziano Roberto Reggi. Per dire, il prossimo incontro è fissato giovedì, al bar dietro la sede del Pd. Ma la tensione rimane alta. C’è il pericolo di un’infiltrazione di “Batman”, ossia di gruppi organizzati da personaggi come Franco Fiorito, è stato l’avvertimento del segretario del Pd. Mentre l’idea che le primarie siano lo strumento di riconciliazione della politica con la società significa anche il coinvolgimento diretto degli elettori. L’appello al quale pensa Bersani è un modo per dimostrare la forza del centrosinistra, la sua popolarità contrapposta al populismo. Reggi però contesta la pubblicazione dei nomi: «Non si è mai fatto ed è la maniera migliore per disincentivare le persone perbene. I mascalzoni vanno a inquinare il voto anche se gli pubblichi il nome. I cittadini normali no».
Reggi ricorda che le primarie aperte hanno avuto dei problemi, ma dove la partecipazione è stata ampia i mestatori non hanno influito, sono scomparsi nella massa degli elettori in buona fede. È successo quasi dappertutto (con l’eccezione clamorosa di Napoli che affossò il Pd). Su questo crinale lo scontro contiene in sé tutte le premesse per esplodere. Il doppio turno, che Bersani vuole e che Renzi respinge, non è altrettanto dirompente. Nello stesso regolamento fiorentino era previsto e controfirmato
dal futuro sindaco che poi vinse al primo turno scavalcando la soglia del 40 per cento. Ma la pubblicazione rappresenta un discrimine fondamentale: se il voto di opinione compreso quello dei “delusi del Pdl” si spaventa per la diffusione delle liste e rimane a casa, il primo cittadino verrà penalizzato. Non per caso gli sfidanti compulsano ogni giorno sondaggi che offrono una doppia lettura: quella sul voto di una platea ampia e quella sui votanti del centrosinistra. In tutte le ricerche Bersani è avanti, ma lo è di più nella seconda tabella.
Renzi continua ad agitare polemicamente il doppio turno per denunciare il pericolo di «accordi nei ballottaggi». Annuncia che lui non farà apparentamenti in caso di ballottaggio. Ma il punto resta quello dell’albo o dell’appello. Bersani mantiene la linea del mutismo sulla sfida per la premiership. Prepara la sua campagna a partire dal 6 ottobre quando si riunirà l’assemblea del Pd. E a differenza di Renzi mantiene fede a un patto di coalizione con Nichi Vendola: l’alleanza non si discute. Come conferma Rosy Bindi, ancora una volta bersaglio di Renzi: «Il sindaco deve capire che queste non sono primarie di partito. Anche se vince non sarà lui a decidere in casa Pd, sia sul programma, sia sulle alleanze. Non diventa né segretario né presidente fino al congresso». E la Bindi rimbecca Renzi anche sui mandati nella Dc: «Non ho mai detto a De Mita che si doveva fare da parte perché era vecchio. La regola dei mandati in quel partito non è mai esistita. Quando parla di me Renzi dovrebbe documentarsi meglio».

l’Unità 25.9.12
Bersani a Renzi: l’albo non è contro di te
Il leader Pd a Milano: «La politica deve riacquisire credibilità Spero che le primarie ci aiuteranno»
Il 6 ottobre l’assemblea sulle regole, il 13 la Carta d’intenti
di Laura Matteucci


MILANO «La politica deve cambiare. Mi pare che la situazione sia arrivata a un punto insostenibile, credo che la Polverini stessa abbia fatto un gesto che va comunque sottolineato». Per Pier Luigi Bersani, che chiude a Milano la festa democratica, è inevitabile parlare della situazione del Lazio, che definisce «un caso drammatico», e delle dimisioni della presidente. Il segretario dei Democratici ribadisce che lo scandalo della Regione Lazio pone l’urgenza dell'adozione di «nuove regole». «Non a caso noi facciamo le primarie, perché questo tema del rapporto tra politica e società è il problema numero uno. È essenziale che le istituzioni riacquisiscano credibilità nei confronti dei cittadini dice Quello che serve è una terapia d’urto».
Un tema che richiama anche le primarie, per le quali a breve, il 6 ottobre, il Pd fisserà oltre ai tempi le proprie regole. A partire dall’albo non gradito ai renziani, ma che per Bersani è semplicemente «un registro normale di chi va a votare», «una norma anti-Batman, non anti-Renzi». «Renzi aggiunge fa bene ad aver fiducia. Le regole non sono da cambiare ma da fare, perché facciamo le primarie insieme agli altri. E fa bene ad aver fiducia perché l’albo è una norma anti-Batman». Il Patto dei democratici e dei progressisti, ovvero la Carta d’intenti cui aderire per partecipare alla consultazione, verrà firmato il 13 ottobre. Ma, prima di arrivare a quella data, sono già in calendario una serie di incontri di confronto sulla piattaforma, mercoledì prossimo con gli amministratori locali, l’8 ottobre con i movimenti della società civile. E Bersani, dopo lo scandalo dei rimborsi che ha travolto la Regione Lazio, intende riunire già stasera anche i presidenti regionali e i capigruppo del Pd per «discutere di costi, trasparenza e terzietà dei controlli: perché è chiaro dice che bisogna fare un salto di qualità». Serve «una terapia d’urto su un problema generale, come ha detto il presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani continua poi perché laddove si consentono deviazioni così macroscopiche dalla trasparenza e persino dal buonsenso, è chiaro che si finisce per mettere tutti nel mucchio». Ancora: «C’è un colpo di reni da dare su tutto il sistema, anche a livello politico e istituzionale». Riguardo la possibilità che lo scandalo si possa estendere ad altre regioni, Bersani replica che in «questa curiosa Italia» si oscilla tra «una spesa per la gestione di un Consiglio regionale, con annessi e connessi, come quello dell’Emilia-Romagna di 8 euro per abitante ai 18 del Lazio. Bisogna superare questa cosa, non è ammissibile, non c’è autonomia regionale che tenga. Bisogna intanto darsi regole pari e controlli terzi. E vedere di fare interventi seri per ridurre i costi». Da qui l’incontro di stasera per fissare regole e paletti.
GOVERNO COMPATTO
Si va delineando intanto il recinto dell’alleanza dei progressisti: dentro Nichi Vendola (Sel) e Riccardo Nencini (Psi), fuori l’Idv di Antonio Di Pietro. «Al prossimo giro ci vuole un governo compatto che non abbia problemi in casa perché ci sono già troppi problemi fuori»: inizia così il segretario del Pd parlando di alleanze e del rapporto con l’Idv. «Credo che la palla sia di là continua Da mesi io mi pongo un problema che rimane quello: le alleanze non si improvvisano, richiedono coerenza. Non intendo andare a dire agli italiani chiarisce che improvvisamente scoppia la pace, dopo che hanno visto mesi di guerra, non fatta da noi: non si può chiedermelo. Io non ho mai detto una frase men che rispettosa nei confronti dell’Idv». Dichiarazioni cui replica a stretto giro Di Pietro: «Noi non abbiamo fatto né una dichiarazione di guerra né una dichiarazione di pace, abbiamo proposto una piattaforma programmatica insieme a Sel e vogliamo sapere se il Pd ci sta oppure no. La ragione per cui i nostri rapporti politici si sono interrotti prosegue è solo perché il Pd ha deciso di appoggiare il governo Monti anche quando ha fatto provvedimenti iniqui come quelli a danno dei lavoratori. Provvedimenti dai quali abbiamo preso in maniera netta le distanze».
E del governo Monti, appunto, parla anche Bersani, a partire dal fatto che l’Udc di Casini ne vorrebbe la replica: Monti è «una persona importante anche per le prospettive del Paese» ma è «meglio lasciarlo fuori dalla contesa elettorale», spiega il segretario Pd. «In questo momento dice poi è un riferimento anche per lo sguardo internazionale che c’è su di noi. E credo che lo si debba preservare dalla contesa politica». In altri termini: «Alle prossime elezioni l’Italia farà quel che fanno altri Paesi normali nelle democrazie occidentali: sceglierà una maggioranza in grado di esprimere un governo. Dopodiché chiude credo che Monti sia un profilo prezioso, una persona importante anche per le prospettive del Paese».
Resta alta l’attenzione del Pd anche sul caso Fiat, «una questione che rimane aperta anche dopo l’incontro tra Marchionne e il governo», ricorda Bersani. Il punto è che Fiat «deve chiarire se è in grado di investire in innovazione dice Se è in condizione di dare una prospettiva agli stabilimenti o se invece bisogna pensare a qualcos’altro». In gioco, tra dipendenti diretti e indotto, c’è il futuro lavorativo di 1 milione di persone. E «immaginare un’altra stagione di ammortizzatori costosi per i lavoratori e per lo Stato, senza una prospettiva produttiva certa diventerebbe un problema molto serio». In altre parole: «Gli ammortizzatori servono nella transizione verso il rilancio. E sono queste settimane il tempo giusto per valutare la situazione. Se si fanno passare i mesi si arriva tardi e male».

Repubblica 25.9.12
Il camper di Matteo fa il pieno a Roma D’Alema: se vince, centrosinistra finito
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Da una parte c’è Matteo Renzi che col suo camper marcia su Roma, prima a Porta a Porta per l’intervista di rito, poi all’auditorium della Conciliazione: «1700 posti», fanno sapere solerti i suoi. Sala piena. Dall’altra, Pier Luigi Bersani fissa per il 13 ottobre la firma del patto con i progressisti (socialisti e Sel), e chiude la giornata a Sesto San Giovanni, davanti a striscioni che lo invocano «premier subito».
Il duello a distanza continua. E Renzi mena fendenti: «Rosy Bindi? Incoerente. Veltroni e D’Alema? Dei sussurratori, degli inciuciatori. Tutti imbullonati da 25 anni alle sedie del Parlamento». Il sindaco ricorda quando nel ‘94 la presidente pd faceva la battaglia nel Ppi contro De Mita, già a tre mandati in Parlamento. O quando D’Alema e Veltroni «decisero di far fuori Natta e Occhetto». E chiede: «È meglio uno che fa inciuci o uno che lo dice chiaramente? ». Parla di Monti, anche. «Dopo aver salvato l’Italia non farà certo il ministro in un governo. Mi sembra chiaro che sia destinato a un ruolo più alto nelle istituzioni italiane o europee». Tradotto, al Quirinale o a presiedere la commissione a Bruxelles. Poi, fa indispettire più di quanto già non fossero gli ex popolari del Pd: «Chi vince fa il programma», dice chiaro. Insorgono sia Fioroni che Rosy Bindi. La presidente lo invita a documentarsi quando parla di lei (nega la storia di De Mita e i tre mandati) e attacca: «A Renzi ricordo che queste non sono primarie di partito. Anche se dovesse vincere, non sarà lui a decidere in casa Pd». Altolà, quindi. Davanti al quale il sindaco non si ferma, tanto da tracciare una strada tutta sua anche per le alleanze. «Io vado alle primarie con una serie di punti specifici, ad esempio difendo la riforma delle pensioni. Se c’è chi la mette in discussione sarebbe automaticamente fuori dalla coalizione. A Firenze governo bene con Sel, ma con il giudizio sul governo Monti le strade sono divergenti ».
Probabilmente è a questo che pensa Massimo D’Alema, quando a Otto e mezzo sostiene senza mezze misure che «se vince Renzi non ci sarà più il centrosinistra». E aggiunge: «Sento in continuazione insulti e risse. Dopo le risse non è facile ricomporre l’unità di un partito e di una coalizione, è uno dei motivi per cui appoggio Bersani ». Ed è a questo che dovrà pensare anche il segretario, visto che l’annuncio del d—day del patto dei riformisti per il 13 ottobre con Nencini e Vendola ha suscitato una fredda presa di distanze di Sel. «Stupisce davvero che fonti anonime del Pd annuncino pomposamente un evento in cui si firmerà il Patto dei Progressisti tra Pd, Psi e Sel, quando ancora non sono chiari il percorso per le primarie, il quadro delle alleanze e i contenuti di un’alternativa di governo ». Quanto ad Antonio Di Pietro, è l’unica cosa su cui Bersani e Renzi vanno d’accordo. «Non dirò agli italiani che è scoppiata la pace — dice il segretario — da mesi il leader Idv semina posizioni polemiche non solo nei confronti del Pd, ma anche di punti essenziali di equilibrio a cominciare dal presidente della Repubblica. Per noi non è accettabile». E Renzi: «Deve decidere lui. Mi pare che si stia levando di mezzo da solo. È difficile non dare ragione a Bersani».

il Fatto 25.9.12
Paradossi democratici, le primarie senza legge
Si litiga (preventivamente) sulle regole. L’albo degli elettori è la pietra dello scandalo
di Wanda Marra e David Perluigi


Primarie? Di primarie io proprio non voglio parlare”. Arturo Parisi, prodiano e ulivista della prima ora, che le primarie le ha sempre sostenute, risponde col tono animato di chi non ha voglia di perdersi in chiacchiere. Infatti, spiega: “Già è paradossale parlare di primarie a candidato premier mentre si lavora perché dal voto non esca nessun premier. Ma il massimo è parlare di primarie di coalizione senza che si capisca se ci sarà mai e quale sarà. Prima facciamo la legge elettorale e poi ne riparliamo”.
Un paradosso. Non il solo. Il 6 ottobre si riunisce l’Assemblea nazionale del Pd per cambiare lo Statuto e rendere possibili le consultazioni (date possibili, 25 novembre e 2 dicembre). Poi le regole. Che saranno fatte prima di capire con quale legge si va a votare: e dunque, potrebbero eleggere un candidato premier che non potrà essere indicato come tale. E dunque, come dicono in molti, i Democratici rischiano di infilarsi in un congresso senza congresso. Matteo Renzi ieri ha detto a Porta a Porta senza mezzi termini: “Chi vince le primarie impone il programma”. E dunque, “Se vinco io Monti al Quirinale o a Bruxelles”. Reazioni furibonde. Bindi: “Queste non sono primarie di partito. Se anche dovesse vincere, non detterà legge in casa Pd”. Fioroni: “Da primarie così, escono due Pd”. E D’Alema: “Se vince lui non c’è più centrosinistra”.
PIER LUIGI BERSANI ha dato la sua disponibilità a modificare lo Statuto, per dar luogo alle consultazioni: ad oggi il candidato premier sarebbe il segretario, cioè lui. I vari big del partito, in odore di rottamazione, hanno accettato non proprio di buon grado. Ma le primarie servono a Bersani per blindarsi, a Renzi per provare a vincere. Per gli altri, potrebbero essere un boomerang. Comunque un voto è sempre necessario: serve la metà più uno dei 1000 delegati. E se alla fine mancasse il numero legale, trattandosi di riunioni poco frequentate?
Questo è un caso di scuola, ma le regole per la presentazione delle candidature e per i votanti sono materia caldissima. Le regole in senso stretto si dovrebbero scrivere dopo il 6, dunque, ma intanto a un ventaglio di proposte stanno lavorando gli uomini del segretario, nel ruolo di uomini chiave del partito, Nico Stumpo, responsabile Organizzazione in testa. I renziani, per ora, si limitano a protestare.
FIORONI ha gettato per primo la pietra dello scandalo, mettendo in dubbio la partecipazione di Vendola: “Non può dire ‘mai con l’Udc’ o ‘no all’agenda Monti’”. E poi, con i candidati che spuntano come funghi, “è una Babele: più andiamo avanti così, più rischiamo di perdere le elezioni”. E allora, si corre ai ripari: per mettere dei paletti, sarà obbligatoria la raccolta di 20mila firme di sostegno (cifra variabile), o di avere il sostegno del 30% dei delegati (cifra variabile anche questa). Requisiti che candidati “minori” come Civati, Gozi o Puppato difficilmente avranno. Il vero terreno di scontro riguarda l’albo degli elettori. Stumpo ha annunciato la settimana scorsa che i votanti dovranno sottoscrivere la “carta d’intenti” del Pd. E questo s’è sempre fatto. Però è andato oltre: saranno chiamati a firmare una liberatoria per rendere pubblico il loro nominativo, in modo da essere rintracciabili via cellulare o mail “per diventare attore, parte attiva delle nostre campagne future”. Sono scattati i renziani, nella persona di Renato Reggi: “Schedatura stalinista”. D’altra parte Renzi ha tutto l’interesse ad aprire il più possibile il bacino dei votanti, visto che punta agli elettori del Pdl e della Lega. E se lo Statuto si cambia per lui va bene, se no dà l’altolà. Ieri ha detto: “Non credo Bersani stia pensando a giochini”. Ma poi ha criticato l’ipotesi di un doppio turno (altra materia del contendere, visto che i bersaniani lo vogliono): “Serve solamente a contarsi e poi, al secondo turno, fare accordi. Ma io lo dico subito che non faccio accordi con nessuno". Bersani dal canto suo ha voluto chiarire: “L'albo, cioè un registro normale di chi va a votare, è una norma anti-Batman non anti-Renzi”. Spiega Salvatore Vassallo, costituzionalista, ormai in campo col sindaco di Firenze: “L’albo degli elettori è una cosa normale. Ma renderlo pubblico è anti-costituzionale. Il punto è che non si faccia una campagna mediatica per dare l’idea che si lavora a un archivio dei progressisti. Una cosa è dichiarare che si è elettori del centrosinistra ora, una cosa che lo si sarà per sempre”. E poi, i soldi: quali saranno i tetti di spesa? 250mila euro a candidato come per le ultime consultazioni?
Intanto, mentre la (dubbia) coalizione è alle prese con annunci e smentite (un’agenzia batte che il 13 si firmerà il patto dei progressisti, tra Pd, Sel, Socialisti, Sel cade dalle nuvole), il camper di Renzi sbarca all’Auditorium di Roma. Prosecchi, giovani, scout. Persino Viperetta. Ma nessun notabile di partito.

Repubblica 25.9.12
“Il leaderismo soffoca le idee” Boeri organizza i non allineati e lancia la rete pro-Puppato
Quarantenni divisi, Scalfarotto sceglie il rottamatore
di Concita de Gregorio


MILANO — Stefano Boeri, architetto, assessore alla Cultura del comune di Milano, sorride del fatto che se davvero si arrivasse alla candidatura di Cristina Tajani per Sel gli assessori di Pisapia in campo sarebbero tre, il terzo Tabacci. “Un po’ troppi, no? Proviamo a semplificare”. Il grande fermento di questi giorni, nel Terzo polo del Pd — quello dei quarantenni né con Renzi né con Bersani — ruota tutto attorno a questo: puntare su una candidatura unitaria e forte, che non sia di semplice testimonianza né, peggio, funzionale a questo o a quel giochetto. Una candidatura vera in grado di competere per vincere. E’ tardi? “No, non è affatto tardi”, dice Boeri: “Prima di entrare in campo bisogna conoscere le regole del gioco. L’assemblea del 6 ottobre le definirà. Vogliamo che siano chiare, non pensate per fare sgambetti, degne di un partito davvero democratico”. E dunque mentre Ivan Scalfarotto si schiera con Renzi e Debora Serracchiani, contraria a queste primarie, tace in vista delle elezioni regionali in Friuli Stefano Boeri prova a fare il regista delle forze ancora in campo: che vadano in sostegno a Laura Puppato, unica ad aver avanzato senza riserve la sua candidatura, è l’ipotesi più plausibile.
Il primo passo in questa direzione lo si è mosso in un incontro a Milano, sabato, in cui — racconta Boeri — “ci siamo detti che bisogna rovesciare lo schema di gioco. Lo scontro di personalità, Bersani contro Renzi, è tutto nel solco del berlusconismo. La faccia i nei la simpatia le maniche della camicia le battute a chi la fa più fortunata, e tutte le tv pronte a trasformare ogni sospiro in un boato. E’ di nuovo la ricerca dell’uomo della provvidenza da dare in pasto all’elettorato e, nella partita interna al Pd, una gara alla leadership del partito. Ma per questo ci sono i congressi”. E dunque? “Credo che sia maturo il tempo di offrire una novità vera, di sostanza: una candidatura di rete che metta insieme forze, saperi, talenti. L’intelligenza collettiva di un partito al servizio di un progetto per il Paese: poi una persona, certo, ci mette la faccia. Ma è la conseguenza, la persona: non la causa e l’unico scopo”. Una candidatura di rete.
All’incontro di sabato a Milano erano presenti Pippo Civati, Laura Puppato e Stefano Boeri. Ciascuno di loro, nelle settimane scorse, è stato contattato da Renzi, direttamente o attraverso Giorgio Gori, e invitato a far parte di “Adesso!” in opposizione a Bersani. Ciascuno di loro, per ragioni diverse, ha detto no. Debora Serracchiani ha preferito sfilarsi e candidarsi alla guida del Friuli Venezia Giulia, regione frontaliera a statuto speciale, luogo privilegiato da cui far politica in Italia e in Europa.
Ivan Scalfarotto ha sciolto in queste ore la riserva: correrà con Renzi. Pippo Civati chiede fin dal principio di sapere le regole del gioco-primarie prima di cominciare a giocare. Richiesta ragionevolissima, dirimente ma a quanto pare giudicata inessenziale dallo stesso segretario, che ha presentato ufficialmente il suo staff elettorale e già cominciato la corsa. “Evitiamo l’effetto nani da giardino”, ha detto qui Civati, “riduciamo le candidature nel Pd”. Di seguito si è autocandidato anche Sandro Gozi, giusto per mezza giornata: il tempo di arrivare all’incontro di sabato, appunto, Gozi al telefono. Dalla discussione è uscito un documento in cui si chiede che siano discusse le regole della competizione e si annuncia per il 6 ottobre, assemblea nazionale del Pd, un “segnale di unità e chiarezza”. Un po’ faticoso, questo cammino verso la candidatura unitaria, Boeri. Sarà Laura Puppato?
“Sarà la più adatta a vincere una volta conosciute le regole. Ma sarà la portavoce di un gruppo. Un’idea agli antipodi rispetto al culto della personalità cui siamo purtroppo abituati. La politica come l’abbiamo pensata fino ad oggi è un passato che stenta a morire. L’innovazione non è un tema anagrafico: serve un cambio sostanziale, radicale, una diversa idea del rapporto fra eletti e cittadini. Bisogna portare dentro la politica le energie che ne sono rimaste fuori o perché escluse o perché disgustate dallo spettacolo desolante. Il problema oggi non è vincere in un perimetro di pochi, è parlare ai molti che non fanno parte del gruppo: l’antipolitica è soprattutto astensione”. Una candidatura di squadra. “Del resto, se ci sarà una riforma elettorale in senso proporzionale cambierà anche il senso delle primarie. Diventeranno, in assenza di Vendola, soprattutto un para-congresso Pd”.
L’altra incognita, appunto, è Vendola. Che ha incontrato a Milano nel fine settimana Giuliano Pisapia e Cristina Tajani, assessore al lavoro di area Sel. Da giorni si indica in Cristina Tajani la possibile candidata “arancione”: molto apprezzata da Pisapia, molto vicina a Vendola, giovane (32) e competente in materia di lavoro e di diritti. Sarebbe la carta ideale da giocare se Vendola decidesse di non candidarsi in proprio. Boeri: “L’esperienza di Milano ci dice che l’intesa fra Sel, Pd, mondo cattolico e laico sono state l’offerta vincente. Dobbiamo ritrovare quello spirito. In dialogo con Sel, per una proposta di centrosinistra al Paese”. Sarà un po’ più al centro e un po’ meno a sinistra il campo di Ivan Scalfarotto, invece. “Ho già fatto molte battaglie ideali, vorrei giocarne una concreta. Matteo rappresenta la proposta di innovazione per la quale ho lavorato molti anni, ed è oggi la persona in grado di raggiungere l’obiettivo. In economia rappresenta una linea riformista, ichiniana, che condivido. In materia di diritti posso portare qualcosa di mio e provare a spingere il suo orizzonte più in là”.
Boeri replica che non basta più aderire, adeguarsi. “Vogliamo chiudere coi leaderismi. Serve umiltà, competenza, lavoro di squadra. A chi dice è poco rispondiamo: è rivoluzionario, oggi”.
(8. continua)

l’Unità 25.9.12
Il sindaco scomodo
Attentati alla prima cittadina di Lampedusa
di Manuela Modica


Una vita d’intimidazioni quella del sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini. L’ultima è di venerdì notte. Questa volta è un barcone che va a fuoco, uno di quelli che ha trasportato un po’ miracolosamente i migranti sulle coste italiane di Lampedusa. Non solo, uno di quelli dati in dono dalla Prefettura alla associazione culturale Askavuza, destinati alla realizzazione del museo dell’immigrazione. Un barcone simbolico, quindi, accompagnato da volantini eloquenti: «No ai clandestini liberi per l’isola u capisti? Alla prossima gruppo armato Lampedusa Libera». E di eloquente c’è soprattutto quell’interrogativo: «U capisti?» (l’hai capito?). Diretto a una persona specifica: il sindaco. Quella Nicolini i cui incendi improvvisi punteggiano il ritmo della sua attività politica, del suo impegno civico: l’officina del padre, il casotto di Legambiente di cui era direttrice, prima la jeep e poi il pulmino del marito. Un lungo curriculum di intimidazioni che vanno di pari passo con le lotte ambientaliste, ma non solo. E che però, visti i risultati, farebbe pensare che questa strana cinquantenne, sindaco da pochi mesi ma già vicesindaco ad appena 23 anni, di capire, non capisce.A incontrarla pare una siciliana qualsiasi, spensierata, generosa. Materna quando parla di migranti. Quando dice: «Ci auguriamo che gli sbarchi ci siano, che queste persone riescano ad arrivare sulle nostre coste... Per noi non sono numeri ma persone». Parole che sembrano un abbraccio, che però scatenano l’odio, tanto da essere definita nei commenti di un sito che riporta la notizia «mentalmente deviata. Le sue dichiarazioni sono da neuro e tendenzialmente criminali».
Questo il clima, il contesto in cui opera il sindaco di Lampedusa ma è un clima in cui vive quasi da sempre. Lei non ne vuol parlare, perché non ama apparire. La storia lunga delle sue lotte e intimidazioni la raccontano quasi di nascosto gli amici, i sostenitori. E va così: è già giovanissima impegnata in politica, nelle fila della federazione dei giovani comunisti italiani.
Pochissimo dopo, a soli 23 anni, viene nominata vice sindaco dal Professore Giovanni Fragapane, in un’amministrazione Pci. Ed è proprio lei a reggere il Comune di Lampedusa dall’83 all’84, dopo l’attentato subito dal suo sindaco, un accoltellamento che lo ridusse in fin di vita. È questo il periodo di formazione che la porterà via via a restistere a incendi e minacce e vincere ogni battaglia. Dall’abolizione dell’ecomostro voluto da Sindona, alla fuga della Valtur da spiaggia dei conigli, ottenendo che fosse dichiarata riserva naturale.
Ma la lotta per spiaggia dei conigli era ancora all’inizio. Ed è proprio per salvare quel pezzo di paradiso che la vita della Nicolini fu iniziata agli «incendi». Il percorso è tutto in discesa ma pare in salita. Più si va giù a piedi, più sale il senso di stupore, di meraviglia. Alla spiaggia dei conigli, a Lampedusa, si arriva così. Una spiaggia caraibica, un mare che regala trasparenze da sogno. Non è un caso se le tartarughe marine scelgono questo scorcio di mondo per depositare le uova. Ma prima che Giusi Nicolini diventasse direttrice della riserva naturale per Legambiente, nel ’97, la spiaggia è un inferno di chioschi e lidini. Preda del commercio e della fruizione più selvaggia. Già dall’acqua, sui barconi, in questo paradiso naturale, si vendono panini e bevande. Si violenta la natura. Per questo la direttrice della riserva subisce il primo attentato, l’incendio dell’officina da fabbro del padre. Davanti alla quale viene posta anche una corona funebre come segno intimidatorio. Ma lei prosegue. E la prefettura di Agrigento, competente per Lampedusa, le dà ragione. A sostenerla sarà il prefetto Giosuè Marino che ordinerà lo sgombero della spiaggia. Ma gli appetiti dei commercianti dell’isola non sono deboli. Nessuno si smuove di lì. Nessuna ditta dell’isola si rende disponibile per lo sgombero. L’amministrazione non la sostiene. Nel frattempo viene incendiata anche la sede di Legambiente. Così, questa donna, mingherlina, giovanissima ancora «non capisce», anzi, s’illumina di creatività. E spiaggia dei conigli si tinge di giallo. Bussa sulle spalle dei turisti, uno per uno, regalando gli ombrelloni di legambiente, spiegando che pagando i chioschisti supportovano l’illegalità sulla spiaggia. Gesto che manco a dirlo ha prodotto altri incendi, alla macchina, al pulmino dell’allora fidanzato, oggi marito, Peppino Palmeri esponente del Pd, già allora membro dell’opposizione in consiglio comunale. E sarà un tale braccio di ferro che la prefettura di Agrigento si vedrà costretta a inviare un rinforzo di polizia sull’isola e ad impiegare addirittura l’aeronautica per sgomberare la spiaggia. Ora, sindaco dell’isola siciliana dallo scorso maggio, sostenuta anche dal Pd, chiede lo sgombero di chioschi anche sulle altre spiagge e parla di migranti come una mamma. Proprio non «capisce». E con lei l’associazione Askavuza. A spalleggiarli, il Pd. Ermete Realacci, responsabile di Green economy del Pd ha annunciato un’interrogazione parlamentare al Ministro degli Interni, per assicurare la tutela e la sicurezza del sindaco ma anche delle associazione e, soprattuto, dei migranti.

Corriere 25.9.12
Renzi sfida il partito sul programma «Lo impone chi vince»
Bersani accelera con Sel, ma i vendoliani frenano
di Monica Guerzoni


ROMA — Matteo Renzi approda nella città eterna più bellicoso che mai, parcheggia il camper davanti agli studi Rai e, dalla poltrona di «Porta a Porta», fa in pezzi la carta d'intenti del Pd: «Chi vince le primarie impone il programma e gli altri danno una mano». Sembra una banalità, ma non lo è. Tanto che Beppe Fioroni arriva a prefigurare una devastante scissione. «Guai ai vinti! Con questo spirito alla fine delle primarie ci saranno almeno due partiti contrapposti», è la lettura dell'ex ministro, che prova a smascherare la strategia di Renzi: «Chi vince piglia tutto? Così non va». E anche Massimo D'Alema teme che «se vincerà Renzi non ci sarà più il centrosinistra».
Roma accoglie il sindaco con i muri tappezzati di manifesti, c'è scritto «Matteo Renzi adesso!» e la notizia è che sono tutti abusivi. Allo sfidante di Bersani non resta che scusarsi, cospargendosi virtualmente la testa di cenere su Twitter: «Clamoroso autogol. Abbiamo sbagliato. Grazie agli amici radicali che lo hanno evidenziato». La rottamazione per lui è anche questo. Scivolare, magari per calcolo, ma saper chiedere scusa.
Alle sei del pomeriggio Renzi sale negli studi Rai, alle nove della sera approda all'Auditorium della Conciliazione, dove tra i 1.700 posti a sedere (non tutti pieni) spunta anche qualche «curioso» del Pdl. E se da giorni va confidando ai fan di sentirsi la vittoria in tasca, in tv ammette che «Bersani è il favorito». Forse è solo tattica, ma rivela la preoccupazione che le regole finiscano per danneggiarlo: «Non credo che Bersani stia pensando a qualche giochino». Del segretario si fida (così dice), ma ha paura che qualcuno dei suoi punti a «restringere il campo». Un'altra cosa che non gli piace è l'idea di una competizione in due tappe: «Se ci saranno le primarie a doppio turno non farò accordi con nessuno. E chi si candida alle primarie non pensi di accordarsi poi con me».
Non c'è trucco e non c'è inganno, Renzi promette una gara «leale» e alla luce del sole, smentisce accordi sottobanco e ticket immaginari. E però avverte: «L'unica città dove hanno cambiato le regole in corsa è stata Firenze, ma io ho vinto al primo turno». Adesso si gioca duro, nel Pd. E mentre il sindaco scatena il panico tra i capicorrente, il segretario si prepara a siglare ufficialmente, il 13 ottobre, l'alleanza con Vendola e i socialisti. Senza Di Pietro però, perché al prossimo giro serve un «governo compatto» e non un caravanserraglio: «Dopo mesi di guerra, non fatta da noi, non intendo andare a dire agli italiani che improvvisamente scoppia la pace». Il problema è che, se Bersani accelera, il leader di Sel frena e affida a una gelida nota le sue perplessità: «Stupisce che fonti anonime del Pd annuncino pomposamente un evento in cui si firmerà il Patto dei progressisti, quando ancora non è chiaro il percorso partecipativo per le primarie, non è chiaro il quadro delle alleanze...».
Renzi sembra avere le idee chiarissime. Rottamare D'Alema, Veltroni, Bindi e anche Di Pietro: «Ha ragione Bersani, si sta levando di mezzo da solo. E poi sono vent'anni che sta in Parlamento». Quanto a Vendola, se si mette contro l'agenda Monti è di fatto fuori dal patto. Se vincerà le primarie e pure le politiche, Renzi non chiamerà Monti al governo, anche perché lo vede più adatto per il Quirinale. E nemmeno lascerà al Professore il suo posto a Palazzo Chigi: «Se io vinco le primarie e poi vinco anche contro l'ovetto Kinder-sorpresa Berlusconi, dico abbiamo scherzato? No!». E poi al governo Monti, aggiunge, «manca l'anima, l'orizzonte, una visione che vada oltre al giorno dopo giorno»
L'aria nel centrosinistra rischia di farsi irrespirabile. Prova ne sia che il segretario, da Sesto San Giovanni, litiga a distanza con il renziano Giorgio Gori sul tasso di giovinezza al vertice del Pd. Intanto il sindaco, cui la modestia fa notoriamente difetto, torna a paragonarsi a Tony Blair. E Bersani, all'opposto, dice di non volere «fans» e di detestare i personalismi: «Io stesso sono moderatamente bersaniano».

Corriere 25.9.12
Nicola Zingaretti
«Siamo su una polveriera Il leader abbia il coraggio di cambiare in profondità»
di Maria Teresa Meli


Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, e futuro candidato sindaco del Pd, ha appena avuto la notizia delle dimissioni di Polverini: «Era evidente che la maggioranza non poteva tenere in ostaggio un'intera regione. Bene ha fatto Casini nel Lazio». Secondo Zingaretti lì «si è superato il limite»: «Ma quante volte lo abbiamo detto? Ora occorrono i comportamenti reali, i fatti e l'esempio concreto. Sennò ancora una volta siamo al chiacchiericcio e al tatticismo politico».
Zingaretti, è stato uno spettacolo poco edificante.
«Sono anni che il berlusconismo ha dato colpi micidiali alle istituzioni, indebolendo il rigore, la sobrietà e la serietà nelle classi dirigenti e politiche. Fiorito è un figlio esasperato di questa cultura, che si è aggravata nell'attuale disfacimento del Pdl. Siamo arrivati così alle ruberie e alle volgarità emerse alla Regione Lazio».
I consiglieri del Pd hanno minacciato le dimissioni ma alla spartizione dei finanziamenti partecipavano anche loro.
«I consiglieri del Pd hanno fatto benissimo a dare le dimissioni per mandare tutti a casa. È un segno di una diversità. Ed è anche il minimo che oggi si possa fare per sperare nel futuro di rifondare il ruolo della Regione, che nata per legiferare e programmare è diventata, invece, un baraccone di spesa incontrollata. E ha fatto bene il Pd anche a svolgere una severa autocritica nell'aver accettato nel passato i finanziamenti ai gruppi, attraverso un meccanismo poco trasparente. I nostri consiglieri li hanno impiegati per la politica, mentre gli altri per festini, case e hotel di lusso. Ma non deve sfuggire a nessuno il disgusto della gente, alla quale si chiedono immensi sacrifici, per questo generale spreco di denaro. Questo ennesimo episodio conferma che siamo seduti su una polveriera. E ho l'impressione che non ci sia la necessaria consapevolezza».
Che cosa intende dire quando parla di polveriera?
«Oggi si parla del Lazio, perché emergendo i fatti è esploso il caso, ma ogni giorno in sequenza drammatica emergono un po' dappertutto malaffare, corruzione, disprezzo dell'interesse pubblico, ostentazione di privilegi e abusi di potere. La democrazia e la politica sembrano così vivere in una bolla lontana e privilegiata rispetto alla fatica della vita di tutti. I cittadini, soli, o tacciono o emettono urla impotenti».
Dunque, questa situazione non risparmia nemmeno il Pd.
«Il Pd è la sola risorsa che l'Italia possiede per ribaltare la situazione. Ma a certe condizioni. Dico questo perché sono convinto di una cosa che può apparire paradossale: la vera emergenza nazionale, più che economico-finanziaria, è democratica. Il vero collasso è nel rapporto tra istituzioni e cittadini. C'è uno sfarinamento che rischia di inghiottire tutti. E non è pensabile che il Pd sia fuori da questa realtà; inevitabilmente è esposto a contaminazioni e a possibili omologazioni. La condizione per noi, dunque, per essere il perno del nuovo è certamente quella di indicare programmi giusti, ma è soprattutto quella di rivoluzionare il nostro modo di essere e di dimostrare, con l'esempio, la nostra capacità di cambiare la democrazia italiana».
Che cosa propone, in concreto? Di rottamare tutto come Matteo Renzi?
«Propongo la rotazione nelle postazioni di partito e istituzionali, una democrazia interna fondata sulla partecipazione, la responsabilità e la libertà dei singoli iscritti e non sulle correnti, le sottocorrenti, le cordate personali e le mille intercapedini burocratiche. Occorre una poderosa cessione di potere verso il basso. E occorre ribaltare il personalismo che impera. E poi intervenire, dopo tante discussioni astratte, sull'impalcatura della Repubblica. Dalla crisi dei partiti del '92 purtroppo non si è elaborato nulla, anche a sinistra, per proporre una partecipazione attiva dei cittadini. La Repubblica si è così indebolita ed è emerso il falso nuovo, con l'irruzione della destra populista, del qualunquismo e oggi del grillismo. Sono tutti sintomi che ci dicono l'urgenza di un nostro intervento e rinnovamento».
Tra un po' si terranno le primarie del Pd.
«Rappresentano un fatto di grande importanza democratica e sono un esempio per tutti gli altri partiti. Io voterò Bersani. Lo stimo, mi convince la sua misura e serietà, la sua visione aperta e solidale. Ma anche a lui dico di avere molto più coraggio per cambiare tutto in profondità. Se vuole ha la forza per farlo».
E di Renzi che cosa pensa?
«Renzi, che sinceramente rispetto, lo sento tuttavia lontano da me, troppo vicino a quella cultura, soprattutto economica, figlia degli anni 80 e con la sua ispirazione così tatticamente attenta a sorvolare spesso su temi come l'antifascismo, i danni del liberismo o lo scadimento civile e morale in cui ci ha fatto precipitare Berlusconi. È un cambio di collocazione ideale del movimento al quale appartengo da quando ero adolescente, che non mi persuade. Non si può provare a vincere perché si "piace" all'avversario, ma perché si conquista il consenso dei cittadini con una proposta migliore. Ma attenzione, e questo lo dico a tutti i candidati, si rischia una contesa giocata su un terreno che sta franando. Appunto, il terreno dei partiti e della democrazia italiana. Questo è il mio grido di allarme. E riguarda tutti. Perciò dico a Renzi: non è rottamando i cosiddetti vecchi con dei giovani che vogliono prendere il loro posto che si risolvono i problemi. Occorre in realtà rottamare il campo da gioco della politica di oggi anche con il protagonismo e la guida di una nuova generazione e chiedere a quella precedente di cambiare ruolo per offrire a tutti noi la saggezza di una storia che può contribuire in varie forme all'immenso lavoro che ci spetta».

Corriere 25.9.12
L'altra Europa delle schiave del sesso
La denuncia della commissaria Malmström: «Il 12% sono minorenni»
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — I numeri sono allineati sul tavolo davanti a Cecilia Malmström, commissaria europea agli Affari interni: «Tre quarti delle persone vittime del traffico di esseri umani sono oggetto di sfruttamento sessuale. Le donne sono il 79% del totale, e il 12% di queste sono ragazze minorenni. Uomini e ragazzi rappresentano il restante 21%».
Questa, dunque, è l'Unione Europea agli inizi del ventunesimo secolo. «E il traffico degli esseri umani è la schiavitù dei nostri tempi — dice la commissaria Ue — soprattutto il traffico delle donne sfruttate per il commercio del sesso. Romania e Bulgaria sono i Paesi più colpiti. I dati sono in aumento. Le cause? Certamente la crisi economica ha reso queste stesse vittime ancora più deboli. E noi avremmo dovuto fare molto di più nel passato, per aiutarle».
Non che non sia stato fatto nulla. Una direttiva Ue già approvata, che fissa i principi generali sulla prevenzione di questi fenomeni e sulla protezione delle vittime, dovrebbe entrare in vigore nell'aprile 2013. Ma il tempo corre, e le organizzazioni criminali pure: i casi di «schiavismo sessuale» rappresentavano il 70% di tutto il traffico nel 2008, ed erano passati già al 76% nel 2010, per poi salire ancora. Non si hanno ovviamente dati precisi, per la paura di vittime e testimoni, ma l'introito complessivo del traffico nella Ue raggiungerebbe già decine di milioni di euro all'anno, e nel mondo potrebbe arrivare al 2,5% del prodotto interno lordo complessivo: quasi 21 milioni le vittime, e di queste oltre 5 milioni sarebbero bambine e bambini.
Secondo la Commissione europea, il traffico è già oggi la seconda fonte di guadagno per le organizzazioni criminali internazionali (la prima è ancora la droga). Le indagini svolte finora disegnano un metodo sempre uguale: il viaggio più o meno clandestino verso i Paesi più ricchi, la prostituzione forzata e comunque le violenze, il debito verso il trafficante che diventa una catena, a volte per sempre; infine il reinvestimento dei profitti in immobili, case da gioco, stupefacenti.
Le leggi sono diverse da Paese a Paese, le situazioni economico-sociali e le tradizioni culturali pure: in alcuni Paesi, come la Svezia della commissaria Malmström, è reato comprare prestazioni sessuali (non venderle), in altri come l'Olanda i bordelli sono legali, e per qualcuno sono anch'essi una calamita che finisce per accrescere la domanda di sesso, quindi il traffico delle donne da Paesi meno ricchi. Secondo i sondaggi, il 90% dei cittadini Ue ritiene che si debba agire subito. Tutti, sulla carta, sono contro questa piaga, ma poi è difficile armonizzare le azioni. Così, la Commissione europea ha lanciato ora una consultazione fra gli Stati, per integrare la direttiva già approvata.
Viene chiesto ai governi, alle organizzazioni non governative, che cosa si possa fare di più e di meglio in questo campo. E, sulle risposte, dovrebbe imperniarsi una strategia quinquennale con 5 priorità già delineate: prevenzione del traffico; punizione sicura dei responsabili; identificazione e protezione delle vittime; coordinamento interstatale, anche con Paesi fuori dalla Ue; aumento dell'informazione sul fenomeno. «Sono stata nei centri di accoglienza in Kosovo, a Belgrado, a Londra, dovunque — dice ancora la commissaria Malmström — e dappertutto ho parlato con queste donne: bisogna davvero fare di più, in favore della vittima».

Corriere 25.9.12
Ventinove anni, musulmana. Difenderà la cultura norvegese
Una ministra di origini pachistane per esorcizzare la strage di Utoya
di Benedetta Argentieri


«Era ora». Due semplici parole per chiudere ogni polemica sul nascere. Re Harald V, monarca norvegese, non ha dubbi: è un bene per il Paese che a guidare il ministero della Cultura sia una giovane donna musulmana. Hadia Tajik, 29 anni, è stata nominata venerdì scorso durante un rimpasto di governo. Sostituisce Anniken Huitfeldt che a sua volta è andata al Lavoro. «Nuovi valori, nuove forze, nuove idee», ha spiegato il primo ministro laburista Jens Stoltenberg che con un solo nome è riuscito a battere due primati: Tajik è il più giovane membro del governo nella storia norvegese e la prima fedele di Allah.
Un cambio di passo in un Paese ancora ferito dagli attentati di Oslo e Utoya del 22 luglio 2011. Settantasette vittime dell'odio razziale. Con il terrorista, Anders Breivik, che voleva combattere il processo di costruzione di una società multiculturale. La nomina di Hadia Tajik dimostra che questa evoluzione non si può fermare. Lei, il neoministro, vuole che «tutti abbiano la possibilità di partecipare alle attività culturali. A prescindere dalla classe sociale a cui appartengono, l'etnia o il sesso». Vorrebbe far emergere «le diversità culturali che vivono nel Paese». Proteggere le minoranze e le loro tradizioni. Ieri nel suo primo giorno di lavoro, non si è fermata un attimo. Appuntamenti, incontri, riunioni. E una gran voglia di fare, di cambiare per costruire, appunto, qualcosa di diverso.
Chi la conosce bene, spiega che Tajik è così, «una gran lavoratrice. I suoi obiettivi sono sempre stati chiari. E ora la politica viene prima di tutto». E non a caso c'è chi la definisce «stella nascente». Simpatica, sportiva («Fa jogging tutti i giorni»), affabile. «Nessuno sa molto sulla sua vita privata. Di certo non è sposata», raccontano dal suo quartier generale. Molto riservata, sembra non sia mai uscita con i colleghi dopo il lavoro. I lunghi capelli neri le incorniciano il viso dai tratti orientali. Grandi occhi neri osservano, si soffermano e a volte incutono quasi timore. «Oltre a essere molto bella, ha una grande personalità». Nata a Strand, il 18 luglio 1983, è cresciuta nella comunità pachistana. I genitori sono immigrati negli anni 70. Parla cinque lingue. Una laurea e un master in Norvegia. Un altro all'Università di Kingston a Londra. Legge, diritti umani e giornalismo. E per cinque anni ha lavorato in alcune redazioni. Poi nel 2006 l'affaccio in politica, come consulente del ministro del Lavoro. Un incarico dopo l'altro. Dagli uffici del primo ministro fino a quelli del dicastero della Giustizia e Pubblica sicurezza. Lì nel 2009 ha emanato il suo primo provvedimento: consentire alle poliziotte musulmane di indossare lo hijab (un velo che lascia scoperto il volto). Ma anche nella civilissima Norvegia questo è stato troppo: la norma è stata subito ritirata a causa delle polemiche che si sono scatenate. Nello stesso anno è stata eletta in Parlamento per la sezione di Oslo. «Fa parte di tante commissioni: la principale è quella sul welfare». Neanche a dirlo c'è quella dell'integrazione. «Non direi sia stata una nomina inaspettata», dicono ancora dal partito. Di certo c'è qualcuno che potrebbe dire «calcolata».
A un anno dalle prossime elezioni, Stoltenberg ha portato al governo una rappresentante della più grande comunità etnico-religiosa del Paese. Secondo le ultime statistiche a disposizione (dati del 2009) ci sono almeno 160 mila musulmani che vivono in Norvegia, su poco meno di 5 milioni di abitanti, il 3,2 per cento della popolazione. Non stupisce che ad affrontare il nodo sulla rappresentanza delle seconde generazioni sia proprio il governo di Oslo. Le quote rosa sono superate. «Nessuna legge impone che il numero dei ministeri debba essere diviso in egual misura tra uomini e donne. È consuetudine sia così», spiega Pia Gulbranvsen, nello staff del primo ministro.
Ma la nomina di Tajik ha un sapore diverso. Più che altro di apertura. Il partito di opposizione non ha criticato questa scelta, «perché sanno quanto questa donna vale come politico». Certo, alcuni gruppi di estrema destra, come il Sian (Stop the Islamization of Norway), hanno protestato e, su Internet, hanno gridato al grande complotto. Post denigratori e commenti infamanti. Insulti sul colore della pelle, sulla religione e la paura dell'Islam che si trasforma in odio. «Non è così per la maggior parte dei norvegesi». Anzi, c'è chi, come re Harald, non ha dubbi: «It was about time». Cioè, «era ora».

il Fatto 25.9.12
Foxconn
Rivolta cinese all’ombra di Apple
di Andrea Valdambrini


La “fabbrica dei suicidi”, quella che per produrre Apple non si ferma mai, stavolta è stata costretta a chiudere per un giorno. E questa è già una notizia. Una delle poche accertate, però. Perché per sapere quanto è successo realmente nello stabilimento di Taiyuan, nelle provincia di Shanxi a nord della Cina, c’è da una parte la (poco attendibile) versione ufficiale della stessa Foxconn e di Pechino, dall’altra – in assenza di stampa indipendente – quella di testimoni che hanno messo su Weibo, il Twitter cinese, quanto dicono di aver visto.
LO SCONTRO ha coinvolto circa 2000 persone: 40 sono rimaste ferite, tra cui tre in gravi condizioni, ed altre sono state arrestate. Lo stabilimento di Taiyuan ha 79.000 lavoratori, e Foxconn impiega complessivamente quasi un milione di persone. La versione ufficiale dell’azienda taiwanese racconta di una rissa generata non da controversie di lavoro, ma da rivalità personali. Gli scontri sono scoppiati nella notte tra domenica e lunedì in un dormitorio per gli operai situato non lontano dalla fabbrica e poi degenerati. L’agenzia cinese Xinhua ha precisato che all’origine si sarebbe trattato di una rivalità tra lavoratori di due diverse province, Shandong e Henan, e che 5000 agenti sarebbero stati impiegati per riportare l’ordine, che sarebbe stato riportato solo nella mattina di ieri. Di diverso tenore le testimonianze e le foto postate sul social network cinese. Sotto accusa da parte degli inter-nauti la violenza delle guardie di sicurezza, vera causa degli scontri. Un utente di Weibo, riferisce la Bbc, documenta come alcune guardie avrebbero picchiato un lavoratore quasi a morte, mentre un’altra testimonianza ipotizza che la violenza sarebbe nata in origine proprio tra gli agenti della security. Salita agli onori delle cronache per la triste serie di suicidi che si sono verificati nei suoi stabilimenti cinesi, del gigante Foxconn si sa in realtà pochissimo. Rimasto sempre all’ombra di Apple e degli altri grandi marchi di cui è fornitore (tra cui prodotti Sony, Motorola, Amazon, Dell) la ditta taiwanese ha, date le dimensioni, una storia di abusi e lavoro “fordista” tutta sua da raccontare. La rivolta di Taiyuan ha almeno il merito di portare Foxconn per la prima volta alla ribalta.

Repubblica 25.9.12
Cina, chiuso per rivolta
Se si ferma il Cipputi cinese
di Giampaolo Visetti


Lo sciopero “made in China” non è più un’utopia. E dalla fabbrica-simbolo dove nasce l’iPhone 5 parte un nuovo modello di relazioni industriali

PECHINO “Chiuso”. Questo avviso, in Cina, è incomprensibile. All’alba di oggi però la direzione Foxconn l’ha fatto affiggere, un francobollo rosso, sull’immenso cancello grigio dello stabilimento di Taiyuan, città-industria modello tra le montagne dello Shanxi. Una fabbrica sbarrata e inaccessibile, improvvisamente alla deriva nel silenzio e circondata dalla polizia privata del signor Terry Gou, magnate di Taiwan. Un evento economicamente inconcepibile: perché il cartello “chiuso” campeggia, come un vecchio certificato di malattia, sullo stabilimento- simbolo del successo di Pechino, icona della modernità globale. All’esterno solo gli agenti in divisa nera, armati e muti. Dentro, 80 mila operai nelle loro tute blu, consegnati nei dormitori e isolati dal mondo. Questo blindato carcere-fortezza, anonimo tra centinaia di altri capannoni senza insegne, è la fabbrica che produce l’oggetto più desiderato del pianeta: l’iPhone 5, l’ultimo telefono-gioiello a marchio Apple, capace di fondere Oriente e Occidente nell’attesa notturna davanti a uno “store”. Nessuno si sognerebbe mai, in Cina meno che ovunque, di fermare nemmeno per un secondo la catena di montaggio che muove ciò che
resta del consumo sul pianeta.
Invece a Taiyuan è successo e in Asia si sono segnati il 24 settembre sull’agenda: un giorno di chiusura alla Foxconn, fornitore Apple, danni da malore e fine dell’epoca consegnata alla storia con l’etichetta “miracolo cinese”. A sudovest di Pechino si consuma però qualcosa di più di un inedito «sciopero punitivo » promosso dal padrone. Sembra compiersi oggi, alla vigilia del congresso che deciderà i prossimi dieci anni di comunismo nella nuova superpotenza del mondo, il destino dell’eroe che per trent’anni ha sostenuto il mito della “globalizzata crescita infinita”. Anche il “Cipputi made in China”, spina dorsale della nostra Dolce Vita, si ribella e l’incubo del contagio, il virus dei diritti che pare consumare il capitalismo senza lavoro, per la prima volta spaventa il potere liberista degli eredi di Mao Zedong.
Dietro un cancello chiuso, questa notte, si è combattuta così l’ultima battaglia della guerra invisibile che da mesi sconvolge la Cina, ribollente terminal della delocalizzazione di Europa e Usa. Duemila operai hanno cercato di aggredire manager e poliziotti Foxconn, distruggendo impianti, dormitori e sale-mensa. La ribellione è scoppiata alle dieci di notte e solo all’alba le squadre dei dipendenti, sotto la minaccia delle armi, hanno accettato di distendersi sulle brande. Per l’azienda si è trattato di una «rissa degenerata in sommossa», nata a causa di «rancori etnici tra bande rivali formate nei reparti». A Taiyuan si conferma invece la versione circolata sul web. Gli operai del turno di notte sono insorti dopo che un loro compagno è stato picchiato perché «troppo debole per fare altri straordinari ». Bilancio non ufficiale: 40 feriti e centinaia di arresti.
L’Occidente affonda perché, prima che ai consumi, ha rinunciato alla garanzia del lavoro. Il sistema-Cina rischia di implodere perché, per consumare, non può esportare anche chi lavora in condizioni disumane. La rivolta e la chiusura nella fabbrica cinese dell’iPhone, coperta dalla censura e negata dalle autorità, non incarna così un paradosso ma rivela il cortocircuito del nuovo schiavismo dell’Asia, su cui Europa e Usa continuano a chiudere gli occhi. E gli stabilimenti cinesi della Foxconn, terzista di multinazionali come Apple, Motorola, Microsoft, Nokia, Hp, Dell, Ericsson e Sony, diventano la nuova frontiera di rivendicazioni storiche a cui lo stesso Vecchio Continente sembra aver abdicato.
La ragione è semplice. La terza generazione di operai cinesi, nata da operai partoriti da operaie, non accetta più di morire giovane alla catena di montaggio per pagare i debiti del capitalismo occidentale e lustrare la gloria del comunismo di Pechino. E la rivolta di questa notte condivide la scintilla con le oltre 100 mila sommosse taciute che nel 2012 scuotono la seconda economia del mondo: paghe da fame, turni di lavoro massacranti, straordinari obbligatori, reclusione in fabbrica, maltrattamenti fisici e umiliazioni morali da parte dei superiori. Al dramma meno ignoto, si somma però oggi anche in Cina una nuova realtà: aziende che chiudono, posti di lavoro che saltano, mutui impossibili da onorare, migranti senza diritti, figli disoccupati, lavoratori che pretendono gli stessi diritti dei loro colleghi stranieri, contattati grazie al potere della Rete. Europa e Usa non consumano, le esportazioni si fermano, altri Paesi-fabbrica emergono e il
modello-Cina collassa.
Il virus, anche alla Foxconn, viene chiamato “China plus one”. I monopolisti della produzione tengono un piede nel più grande mercato del mondo, ma spostano almeno uno stabilimento all’estero, nel Sudest asiatico, in Africa, in America Latina, o nell’ex Europa dell’Est. Il business del partito-Stato, patrimonio delle masse, si trasforma nell’affare di un pugno di privati prossimi alla corruzione del potere e inaugura il «nomadismo del distretto industriale». La fabbrica va, di stagione in stagione, dove il profitto per azionisti e sponsor è massimo. Ci si sposta di mille chilometri, si cambia regione, oppure si salta in un’altra nazione. «Vaporizzare la produzione — dice l’econo-
mista Zheng Yusheng, della Business School di Shenzhen — rafforza la proprietà. Se sei mobile e ovunque, operai e sindacati sono morti. È la globalizzazione ai tempi della crisi: lavora chi si adegua, gli affari perdono ogni valore sociale e le condizioni, anche in assenza di profitti, vengono decise dal management».
Alla Foxconn, che ha appena approvato un investimento da 500 milioni di dollari per aprire il quinto stabilimento in Brasile, il bilancio degli ultimi due anni è tragico: 16 operai morti suicidi, studenti assunti in nero per fronteggiare i picchi delle ordinazioni Apple, vita lavorativa media 15 anni, operai costretti a pulire le latrine se rifiutano di fare 80 ore di straordinari al mese, infortunati sul lavoro obbligati a dimettersi, lettera di assunzione con “divieto di suicidio”. I consumatori Usa avevano minacciato il boicottaggio dei suoi tesori hitech. A indignare il popolo della Rete, l’annuncio di una maxi-meccanizzazione tagliacosti. Slogan: «I robot non si buttano dal tetto, se danno problemi basta spegnerli».
È nata tra gli oltre un milione di operai Foxconn rinchiusi nelle fabbriche di Shenzhen, Longhua, Foshan e Chengdu, la rivolta di questa notte a Taiyuan. Una guerriglia da giro del mondo, ma certamente non un caso isolato. La ribellione del “Cipputi cinese” dilaga anche nel Guangdong e nello Zhejiang, a Pechino e a Shanghai, nella nuova terra promessa di Chongqing e nel distrettoauto di Changsha. Per il potere rosso, fondato su soldati, contadini e operai, è uno shock: o aumenta i salari e impone nelle fabbriche le basi di diritti universali, perdendo competitività nel nome della crescita dei consumi interni, o sacrifica la stabilità in cambio dell’export. Nella potenza post-proletaria che comanda il secolo, verranno prima le vite degli operai, o gli indici dei mercati finanziari? È questa la domanda sospesa sulla fucina anonima dell’iPhone 5 nello Shanxi, per la prima volta ferma causa rivolta e avvolta da un’altra notte di censura. Quesito
inaudito, nella Cina dei misteri dove nemmeno la data del congresso d’ottobre può essere rivelata. Ma interrogativo essenziale anche nel nostro mondo antico afflitto dal segno meno, ormai esposto al vento freddo del lavoro tradito già nella sua culla-tomba di Taiyuan.

l’Unità 25.9.12
Bioetica e fede
Così mi parlò Martini
«I testi sacri riconoscono il diritto di rinunciare alle cure sproporzionate»
Anticipiamo l’intervento di Ignazio Marino a «Torino Spiritualità»
Quale relazione è possibile tra ricerca scientifica e fede, tra libertà di coscienza e indisponibilità della vita?
di Ignazio Marino


Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro, cosicché l’uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui. (Qohelet 7,13; La Bibbia di Gerusalemme, Edb, Bologna 2009)
...e ritorni la polvere alla terra, com’era prima e il soffio vitale a Dio, che lo ha dato. (Qohelet 12,7; La Bibbia di Gerusalemme, Edb, Bologna 2009).

LO SCORSO 7 AGOSTO MI SONO RIVOLTO AL CARDINAL MARTINI PER ESSERE GUIDATO NEL RIFLETTERE SULLA RELAZIONE TRA BIOETICA E FEDE, SUI CONFINI DELLA SCIENZAEDELLARELIGIONE,e sulle implicazioni etiche che dal loro rapporto discendono a partire dai versi sopra riportati del Qohelet. Pur conoscendo genericamente alcuni passi del Qohelet non avevo mai studiato questo libro, opera di un ignoto saggio ebreo e databile intorno al III secolo a.C.; pertanto, quando ho ricevuto l’invito da Torino Spiritualità mi è sembrato opportuno rivolgermi proprio al cardinale. Non solo per la sapienza di Carlo Maria Martini nella esegesi dei testi sacri ma anche per la disponibilità con cui mi ha sempre accolto e donato il suo tempo nel dialogare su temi come il rapporto tra scienza e fede.
LO SCETTICISMO DELL’AUTORE
Nell’orientare me e don Damiano, il sacerdote che lo ha assistito con intelligenza ed amore sino all’ultimo, il cardinale sottolineò alcuni punti essenziali nella lettura di questi versi del Qohelet. Innanzitutto, evidenziò che il libro del Qohelet è scritto da uno scettico. Quindi l’analisi dei versi che mi sono stati proposti deve tener conto dello scetticismo dell’autore e della sua convinzione che è impossibile cambiare la storia. Tutto questo conduce ad alcuni interrogativi. Come giudichiamo questa tendenza allo scetticismo? E quali motivi abbiamo nel nostro ragionamento per accettare lo scetticismo di Qohelet? Infine, cosa può significare il libro di Qohelet con il suo scetticismo nell’insieme della Sacra Scrittura? Qual è il messaggio che ne possiamo cogliere in riferimento agli interrogativi etici che agitano le nostre menti quando ci confrontiamo con le nuove tecnologie e risorse che una scienza instancabilmente creatrice ci offre ogni giorno? Elaborando questi pensieri con un filo di voce il cardinal Martini mi sorprese: «Ciò che è scritto nel Qohelet disse può essere messo in relazione con uno dei temi più complessi della bioetica e correlato alla volontà di abbandonarsi alla storia, alla condizione che viviamo anche alla fine della vita e quindi al diritto di rinunciare a terapie che liberamente scegliamo di valutare sproporzionate, come la nutrizione artificiale». Sapeva che per lui sarebbe arrivato il momento di decidere se accettare questa terapia oppure no. Ci pensava. Ne aveva parlato tante volte con le persone che amava come la nipote Giulia e aveva espresso la sua decisione di non ricorrere a cure speciali quando non fosse più stato in grado di compiere quegli atti che il nostro corpo compie con così apparente semplicità, come il deglutire o il respirare. Come spiegò anche quel giorno di agosto, interpretando e rendendo improvvisamente moderne ed attuali le parole del Qohelet: «Dio non ha fatto le cose storte sottolineò ma esse sono conseguenze della storia». E anche nel dialogo Credere e conoscere aveva scritto: «In alcuni casi la sofferenza può essere davvero insopportabile. Qui è necessaria la terapia del dolore e molta comprensione per chi, entrato in una esistenza estrema, se ne voglia liberare».
Carlo Maria Martini ha sempre voluto e seguito tutte le terapie utili e che gli potevano permettere di ridurre le perdite nel movimento e nella voce che il Parkinson gli infliggeva. Le accettava con docilità, a volte persino con entusiasmo, quando erano strumentali ad aiutarlo nel suo lavoro e nei suoi dialoghi, come il sofisticato amplificatore che utilizzava per dare potenza alla sua voce indebolita. Ma aveva anche molto riflettuto e deciso di accettare la fine della vita come il fatto più naturale possibile, sperava nel ritorno alla casa del Padre.
DA ENGLARO A WELBY
Riflettendo su questi temi non è possibile dimenticare le tante vicende che sono entrate nelle nostre case in questi anni: la morte di Eluana Englaro nel 2009, emotivamente ripercorsa dal recente film di Marco Bellocchio, la lettera di Piergiorgio Welby a Giorgio Napolitano del 2006 e tante altre persone che si sono trovate a vivere situazioni drammatiche e che hanno scosso l’opinione pubblica. Storie vere, di persone in carne ed ossa, che ci hanno obbligato a riflettere, ad ascoltare il nostro cuore ed il nostro cervello, a interrogarci sui vuoti delle leggi, sulle mancanze dei parlamenti, sulle difficoltà dei medici e degli infermieri. Nel Qohelet è anche scritto che più preziosa della nascita è la morte e forse per un credente questo pensiero e l’idea del ricongiungimento al Padre è motivo più che sufficiente per accogliere senza tentare di opporvisi la fine naturale della vita. Tuttavia, penso che se si vuole interpretare in modo universale il linguaggio del Qohelet, in modo che esso abbia valore per i credenti e i non credenti, sia necessaria una ulteriore riflessione. I progressi in campo scientifico nella nostra epoca sono sorprendenti e davvero molto rapidi se paragonati al ritmo che le grandi scoperte hanno avuto nella storia dell’uomo. Questa velocità rappresenta una sfida recente alla quale non eravamo abituati. Essa ci obbliga a confrontarci con questioni bioetiche sempre nuove e sarebbe opportuno che la società e i Parlamenti non le ignorassero. Alcune di queste tecnologie permettono di supplire funzioni che non riusciamo più ad eseguire e, in alcuni casi, sono anche di semplice applicazione, come la nutrizione e l’idratazione artificiale. Non c’è dubbio che si tratti di un progresso utile in molte circostanze. Ma la persona, l’individuo deve poter scegliere. Quando si chiede di interrompere una terapia si accetta che la malattia faccia il suo corso, si accetta, come nel messaggio del Qohelet, la storia. Se una persona ammalata di tumore interrompe la chemioterapia perché non la considera più sopportabile, con la sua decisione accetta che la morte naturale sopraggiunga più rapidamente. Il medico avrà il dovere di informare il paziente delle conseguenze di quella decisione ma non dovrebbe fare nulla per opporvisi e, anzi, è tenuto a rispettarne le indicazioni.
Proprio per questo motivo è stato introdotto, anni fa, l’obbligo del consenso informato che sancisce la libertà nella scelta delle terapie e che deriva dall’articolo 32 della Costituzione. Proprio la Costituzione affida all’individuo la libertà, confidando nell’autonomia di ogni persona, un principio molto avanzato per l’epoca in cui è stato scritto e ancora assai attuale. Fu il trentenne Aldo Moro, vicepresidente della Democrazia Cristiana, ad insistere, il 28 gennaio 1947, sull’importanza del principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà: «Si tratta di un problema di libertà individuale che non può non essere garantito dalla Costituzione, quello cioè di affermare che non possono essere imposte obbligatoriamente ai cittadini pratiche sanitarie».
Ancora oggi è importante ricordare che dobbiamo separare la soddisfazione dell’esistenza di una nuova tecnologia dal suo utilizzo. Per quanto straordinaria e potenzialmente utile possa essere una nuova tecnologia la sua esistenza non deve mai costituire per nessuno un obbligo ad utilizzarla. E tanto meno i Parlamenti dovrebbero sancire questo obbligo in leggi per i cittadini. Speriamo che anche il nostro Parlamento sappia cogliere questa riflessione.
*Presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale

Corriere 25.9.12
Giulio Cesare, il pontefice ateo
Seguace di Epicuro, fu eletto alla massima carica religiosa
di Luciano Canfora


Nell'anno 63 a.C. Giulio Cesare, non ancora quarantenne, grazie ad una campagna elettorale costosissima che rischiò di portarlo definitivamente alla rovina, riuscì a farsi eleggere pontefice massimo, la più alta carica religiosa dello Stato romano. Lo scontro elettorale era stato durissimo; il suo principale antagonista Quinto Lutazio Catulo aveva messo in atto la più pervasiva corruzione elettorale fondata sulla capillare compravendita del voto. Cesare rispose con la stessa arma. Il «mercato politico» — come ancora oggi elegantemente lo si chiama — raggiunse in quell'occasione una delle sue vette. Cesare dovette indebitarsi a tal punto per far fronte ai costi di una tale oscena campagna elettorale da lasciarsi andare, parlando con la madre, alla celebre uscita: «Oggi mi vedrai tornare o pontefice massimo o esule». È Plutarco, al solito egregiamente informato su tutto quell'aspetto del reale che la storia «alta» trascura, a darci la notizia e a chiosarla con una interessante considerazione: con tale vittoria inattesa, e contro un avversario così forte e così autorevole, Cesare «intimidì gli ottimati, i quali capirono che avrebbe potuto indurre il popolo a qualunque audacia» (Vita di Cesare, 7).
Subito dopo esplode la congiura di Catilina. Cesare, che è pretore designato (entrerà in carica nel gennaio 62), è lambito dalla congiura. Ed in Senato, di fronte alla pressione fortissima di chi (come Cicerone e Catone) propugna l'esecuzione capitale dei congiurati, ormai scoperti e arrestati, Cesare sceglie di motivare, con argomenti tratti dalla filosofia di Epicuro, la proposta di lasciarli in vita. Con l'argomento che, se l'anima è mortale, la pena di morte è più lieve di una lunga detenzione!
Sappiamo quanto si sia speculato da parte dei contemporanei, e poi degli studiosi moderni, intorno alla implicazione o meno di Cesare nella congiura. Cicerone — e non lui soltanto — era convinto che Cesare fosse compromesso: ma non ritenne di affermarlo apertamente, se non quando il dittatore era morto. Certo, la vittoria elettorale che consentì a Cesare di assumere il pontificato massimo venne al momento opportuno e rivestì lo stesso Cesare di una nuova sacralità protettiva, quanto mai giovevole in quel momento.
Essere implicati in un'iniziativa eversiva segreta si può in molti modi, che vanno dalla diretta partecipazione alla semplice, passiva consapevolezza del progetto. Cesare non era così imprudente da porsi in una posizione tale da divenire ricattabile, una volta fallito il piano, da compagni imprudenti o sfortunati. Cercò però di salvarli parlando in Senato nel modo in cui Sallustio, suo seguace, lo fa parlare, scomparsi ormai tutti i protagonisti della vicenda.
Decimo Silano aveva proposto la pena capitale e la proposta incontrava largo consenso. Cesare interviene per capovolgere una situazione difficilissima e si sforza di presentare la pena di morte come troppo lieve, con l'argomento che — nella sventura — «la morte non è un supplizio, è un riposo agli affanni», in quanto — prosegue in perfetto stile epicureo — «dopo la morte non c'è posto né per il dolore né per il piacere» (Sallustio, Congiura di Catilina, 51). Fa una notevole impressione il pontefice massimo che impartisce agli altri senatori una breve ed efficace (e strumentale) lezione di filosofia epicurea. Era noto che Cesare avesse, come tantissimi nelle classi colte romane, subìto l'influsso o sentito il fascino di quel lucido pensiero anticonsolatorio.
Replicando a Cesare in quel dibattito memorabile, che si concluse con la decisione illegale di procedere all'esecuzione capitale immediata, e senza processo, dei congiurati, Catone ironizzò: Cesare — disse — pontefice massimo, pretore designato, «ci ha amabilmente intrattenuto (bene et composite disseruit) sulla vita e sulla morte»; «se non erro — soggiunse — ha sostenuto teorie false, ha dichiarato infatti di non credere a quello che si narra degli inferi, che cioè i malvagi andranno a finire, dopo la morte, in contrade diverse da quelle destinate ai buoni: contrade tetre, incolte, sinistre, spaventevoli». Questa lezione di corretta credenza religiosa, impartita al pontefice massimo appena eletto, è una delle più sottili perfidie dell'oratoria politica di tutti i tempi.
Naturalmente il problema da porsi è come mai nella società politica romana fosse possibile e conciliabile con il mos maiorum e con la stabilità delle istituzioni avere un «papa ateo».

Repubblica 25.9.12
Il destino contrastato di un valore fondamentale per la democrazia
Quella virtù dimenticata
Perché in tempi difficili va ritrovata la solidarietà
di Stefano Rodotà

Se volgiamo lo sguardo verso altri tempi e altre culture, ci avvediamo senza particolare fatica di quanto intenso sia sempre stato il richiamo alla solidarietà, quale che fosse la parola adoperata per designarla. Per lungo tempio di essa si è parlato come appartenente all’ordine naturale delle cose, come di un dovere, come di uno «strumento di Dio, e governante degli uomini». È quel che scrive nel ’500 Étienne de la Boètie, riferendosi esplicitamente alla natura: «bisogna pensare che distribuendo ad alcuni di più ad altri di meno, essa volesse dare spazio all’affetto fraterno e mettere gli uomini in grado di praticarlo, avendo gli uni capacità di offrire aiuto, gli altri bisogno di riceverlo». Nel secolo successivo John Locke dirà che «Dio non lascia un uomo alla mercé di un altro al punto che questi possa, volendo, farlo morire di fame (…) La carità dà diritto ad ogni uomo a quella parte della ricchezza di un altro che gli è necessaria per fuggire una situazione di estremo bisogno, quando non abbia altri mezzi di sussistenza».
Sono due soltanto tra gli infiniti esempi possibili, che ci parlano di una società “naturalmente” armonica. Ma questa idea morale si sarebbe sempre più mostrata incapace di reggere da sola il peso delle diseguaglianze, sì che poi si è scelta la strada che affidava all’artificialità del diritto, piuttosto che alla natura, i principi di libertà, eguaglianza, fraternità. Di questa triade rivoluzionaria proprio la fraternità si rivelò precocemente la componente più debole, tanto che Napoleone, nel suo proclama del 18 brumaio, si sarebbe presentato ai francesi come il difensore di “libertà, eguaglianza, proprietà”. La fraternità scompare, sopraffatta dal primato della proprietà, diritto a escludere gli altri dal godimento di un bene, dunque destinato a spezzare quel legame tra gli uomini che attraverso la fraternità si era voluto stabilire. Infatti, nel momento in cui la legislazione rivoluzionaria cancellava le appartenenze di ceto, tipiche del regime feudale, alla fraternità si affidava il compito di costruire la “nazione”.
Perché una condizione di minorità accompagna la fraternità oltre quel tempo, oltre la specifica vicenda francese? Una studiosa di storia, Mona Ozouf lo ha spiegato osservando che «tra la liberté e l’égalité da una parte e la fraternité dall’altra» non vi è «uno statuto equivalente. Le prime due sono dei diritti, la terza é un obbligo morale» (John Rawls ne ha parlato come di un “atteggiamento mentale”). Questa sbrigativa conclusione è stata poi ridimensionata dalla stessa Ozouf che, tornando sul tema, ha inteso «la fraternità meno come una comunione mistica e religiosa e piuttosto come quella esigenza di solidarietà senza la quale non hanno senso né la libertà, nè l’eguagianza« . La prospettiva è completamente capovolta. Non solo la fraternità/solidarietà non ha uno statuto più debole, ma si pone addirittura come precondizione perché si possa attribuire significato a libertà e eguaglianza.
Lo slittamento semantico è rivelatore. Per recuperarne la forza, la fraternità è descritta come “solidarietà”. Due parole diverse si congiungono e, usate in molte occasioni come se fossero intercambiabili, accrescono l’ambiguità già rimproverata alla categoria
della fraternità. Innescano anche un rifiuto culturale, soprattutto quando si teme che la solidarietà altro non sia che un travestimento di carità, beneficienza, compassione, tutte parole che non appartengono al lessico della dignità e dei diritti, ma rinviano piuttosto alla benevolenza altrui, sottolineando la minorità di chi si trova a esserne oggetto. Vicenda che sembrava lontana, confinata nei buoni costumi delle signore che si faceva-
“dame di carità”. Ma essa è tornata con il “conservatorismo compassionevole” che il Presidente Bush mise nel 2001 al centro del suo programma. “Compassion” ben presto sovrastata dal successivo e più aggressivo progetto di creazione di una “società della proprietà”, che faceva riemergere una storica opposizione.
Nella Costituzione italiana troviamo un altro tragitto, di cui si è voluta cogliere l’origine nella ricostruzione operata dal pensiero cattolico, e che è approdato alla formula che chiude l’articolo 2, dov’è scritto, subito dopo il riconoscimento dei diritti fondamentali che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ma questa attribuzione al solo pensiero cattolico della solidarietà contrasta con la sua storia politica e culturale che, per gran parte dell’Ottocento, l’identifica piuttosto con l’internazionalismo operaio e con gli sforzi di ridimensionare la portata dell’individualismo liberale. È una vicenda  che, scegliendo la parola “solidarietà”, laicizza il riferimento ad una fraternità che appariva troppo intrisa di religiosità. È una vicenda che si radica profondamente nel sentire socialista, tanto che nel 1936, durante la guerra civile spagnola, l’inno della brigata internazionale tedesca aveva come refrain “Viva la bandiera della solidarietà”. La solidarietà diventa così emblema e componente di una lotta politica, assume pure un significato conflittuale, e si allontana definitivamente da una appartenenza all’ordine naturale. Da qui prenderà le mosse una idea di solidarietà che, trovando significative consonanze con la riflessione cristiana, sarà alla base della costruzione dello Stato sociale. Da “obbligo della ricchezza” la solidarietà si fa dovere civico.
Nella Costituzione italiana questo segno è forte, congiunge diritti e doveri, individua il criterio in base al quale la persona si muove nella vita sociale. Non a caso la Corte costituzionale ha parlato della solidarietà come di uno dei «valori fondanti dell’ordinamento giuridico», di cui dunque deve tenersi conto nel definire la portata anche degli strumenti dell’agire privato come la stessa proprietà, il contratto, la responsabilità civile. E questo rinnovato insediarsi della solidarietà nel sistema costituzionale ha trovato conferma nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di cui è uno dei tratti innovativi e che descrive puntualmente l’insieme dei diritti che a essa fanno capo.
Ma i tragitti della solidarietà non sono lineari, conoscono fortune e rifiuti, momenti di eclisse, com’è tante volte accaduto in Europa negli ultimi due secoli, e che, nel 1976, inducevano Luciano Gallino a scrivere che il termine era “caduto pressoché in disuso nel lessico contemporaneo”. La solidarietà, comunque, riemerge sempre nel manifestarsi di una crisi. Non solo economica, ma anche politica, come ricorda la vicenda italiana della “solidarietà nazionale”. Dobbiamo concludere che essa è virtù dei tempi difficili e non un “sentimento repubblicano” che deve accompagnarci in ogni momento?
Vi sono rischi nell’intendere la solidarietà come un rimedio, e non come un principio. Il primo è quello di chiudersi in comunità autoreferenziali, mentre il passaggio dalla fraternità alla solidarietà significava mettere la società al posto della comunità. Un altro riguarda l’abbandono della solidarietà “generale”, quella che lega le persone, permettendo ad esempio la garanzia pubblica della salute, e quella che lega le generazioni, che rende possibili i sistemi pensionistici. Infine, si rafforza la solidarietà “verticale” che produce piuttosto elargizioni, e non quella “orizzontale”, che intreccia agire pubblico e privato e mobilita la società.
Nel gran cantiere della solidarietà oggi l’attenzione non si concentra sullo Stato “protettore”, ma mette l’accento sui diritti sociali, come precondizione della stessa democrazia; si sposta, anzi, fuori del perimetro dello Stato, e dello Stato nazionale, per operare una redistribuzione sociale del potere e per rendere possibili forme di controllo dei poteri economici globali che evocano un nuovo internazionalismo; indica forme di gestione di beni della vita sottratti alle logiche proprietarie. Una solidarietà, allora, non costruita tutta all’esterno delle persone, ma che recupera forza e legittimità intorno all’ipotesi dell’uomo solidale”, non per natura, ma come effetto dell’azione politica e della riflessione culturale.