mercoledì 26 settembre 2012

Corriere 26.9.12
Le mele marce e gli occhi chiusi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

qui

Repubblica 26.9.12
Cambiare subito
di Ezio Mauro

ORMAI è una questione di decenza, e anche di sopravvivenza. La legge anti corruzione non può rimanere ostaggio di una destra allo sbando, arroccata nelle paure personali del suo leader, politicamente suicida al punto da non avvertire l’urgenza assoluta di mettere il nostro sistema al passo con l’Europa: ma anche, e soprattutto, con la sensibilità acutissima del Paese, che non tollera più abusi e furbizie.
La cintura di illegalità corruttiva che soffoca l’Italia e la sua libertà tiene lontani gli investimenti stranieri, penalizza le imprese, altera il mercato. Ma soprattutto pesa sul sistema per 60 miliardi all’anno, una cifra enorme che è il segno dell’arretratezza del Paese e del condizionamento di una diffusa criminalità quotidiana.
A tutto ciò si aggiungono l’uso disinvolto del denaro pubblico e gli sprechi del sistema politico. Lo scandalo della Lombardia, con le vacanze pagate al presidente Formigoni da un faccendiere della sanità, e la vergogna del Lazio, con cifre da capogiro intascate dai consiglieri regionali per spese private, fanno ormai traboccare il vaso. Ieri Napolitano ha definito la corruzione “vergognosa”, il giorno prima Monti aveva denunciato “l’inerzia” della destra.
Ora non ci sono più alibi. Il governo non può fare il notaio delle inerzie altrui: vada avanti con forza e il Premier chieda al Parlamento di approvare subito la legge. Chi non la vuole, se ne assuma la responsabilità. E l'opinione pubblica faccia sentire la sua voce. Il cambiamento può cominciare qui, oggi.

La Stampa 26.9.12
La sensazione di una nuova frana che alimenta l’antipolitica
di Marcello Sorgi


Nel giorno in cui l’Onu approva una risoluzione a favore della lotta alla corruzione, Napolitano interviene contro «malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili e vergognose»: il riferimento allo scandalo della regione Lazio che ha portato lunedì sera la Polverini alle dimissioni è evidente, e il Capo dello Stato spera di scuotere i partiti dallo stallo che ha finora impedito di affrontare seriamente il problema dei finanziamenti pubblici a partiti e gruppi consiliari.
Ma al di là di promesse e impegni generici (da Berlusconi a Bersani, ieri in tanti sono intervenuti per cercare di parare le conseguenze di quel che è accaduto), ancora niente di concreto si muove. In realtà cresce il timore che dalle inchieste aperte in varie regioni possano uscire storie simili a quelle del Lazio, e non a caso il leader del Pd ha proposto ieri di imporre per legge trasparenza e certificazione dei bilanci regionali. Dalla Lombardia all’Emilia, a Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, emergono situazioni a rischio. Mentre Berlusconi e Alfano prendevano tempo, convocando i coordinatori locali del Pdl, ieri Daniela Santanchè ha chiesto apertamente le dimissioni di Formigoni. L’inchiesta di Napoli intanto rivela versamenti di centinaia di migliaia di euro ai gruppi consiliari. E da Palermo arriva la notizia che il governatore Lombardo ha potuto disporre di oltre trecentomila euro di dotazione personale senza obbligo di rendiconto.
La sensazione di una frana alle porte è ormai diffusa. E la possibilità che nel giro di poche settimane una sorta di «Regionopoli» possa abbattersi a livello nazionale, a pochi mesi dalle elezioni politiche, tiene i partiti in uno stato d’ansia e in attesa di conseguenze imprevedibili. Ieri a Washington il ministro degli esteri Terzi ha sottolineato i rischi d’immagine di un paese come l’Italia, nel momento in cui la lotta alla corruzione diventa un impegno condiviso a livello globale.
Ma non sarà facile raggiungere un accordo in Parlamento su una materia così delicata. Napolitano ha ammonito i partiti: non lamentatevi dell’antipolitica, se non siete in grado di ridare credibilità alla politica. Eppure, gli sforzi fatti finora dal ministro di giustizia Severino non hanno raggiunto risultati. Toccherà a Monti, al ritorno dagli Usa, valutare se premere ancora in questa direzione e se promuovere un’iniziativa del governo sui meccanismi di spesa delle Regioni. Lo aveva fatto per la Sicilia, portando Lombardo alle dimissioni. Adesso deve decidere se c’è spazio per un generale taglio dei costi anticorruzione.

Repubblica 26.9.12
La libertà a occhi aperti
“L’ora di religione va modificata” I cattolici all’attacco di Profumo
di Adriano Prosperi

collaboratore di LEFT

HA SENSO l’insegnamento della religione nella scuola pubblica italiana «così com’è oggi concepito»? Secondo il ministro dell’Istruzione non più. La sua osservazione ha suscitato un putiferio.
L’Avvenire per la penna autorevole di Giuseppe Dalla Torre l’ha definita «sorprendente»: e ha fatto presente che il ministro aveva appena firmato un accordo col presidente della conferenza episcopale italiana cardinal Bagnasco relativo proprio a tale insegnamento. Questo porrebbe il problema di quello che i ministri pensano come singoli e quello che fanno come ministri: un problema che non è certo limitato a questo tema ma che è troppo vasto per essere affrontato qui. Ricordiamo che, mentre leggiamo l’esternazione del ministro Profumo, si avanza nelle viscere del Parlamento la legge sul fine vita: e che da tempo l’Europa attende misure fiscali adeguate per i beni della Chiesa in Italia.
Quando questo governo è nato ci si è posti la domanda se fosse il governo dei cattolici seri, scesi in politica per rimediare ai disastri provocati dal collateralismo della Chiesa gerarchica e della Santa Sede col governo Berlusconi. Oggi abbiamo molti elementi per rispondere: e non possiamo dire che la risposta sia positiva. Ma intanto all’argomento dell’Avvenire – che l’insegnamento della religione è “l’anima d’Italia”, quell’anima che dovremmo imporre soprattutto ai figli degli immigrati, la risposta la dà lo spettacolo offerto in questi giorni dal governo della Regione Lazio: un governo nato dalla battaglia contro il rischio della vittoria di una esponente radicale, Emma Bonino, vista di malocchio e variamente osteggiata dai politici cattolici e cinici d’ogni partito, spaventati dalla semplice possibilità che la città del Papa vedesse all’opera un governatore dichiaratamente e fattivamente laico. Allora si scelse la salvezza dell’anima d’Italia: e quell’anima si è rivelata nel suo fondo clerico fascista e nell’immoralità impudente e contenta di sé di cui abbiamo quotidianamente tante fiorite esternazioni. Davanti a cui perfino il cardinal Bagnasco si è stracciato le vesti e ha gridato all’urgenza di un risanamento morale della classe politica.
Ma intanto l’esternazione del ministro ha offerto una zattera ai naufraghi del defunto berlusconismo: la Lega ha tuonato che l’ora di religione non si tocca, il ciellino Maurizio Lupi ha detto che bisogna difendere gli italiani dal pericolo del relativismo (rieccola la bestia nera della Chiesa ratzingheriana, a deludere chi sperava che le parole di apertura e di tolleranza del discorso papale in Libano valessero anche per l’Italia). Insomma la difesa dell’ora di religione ricompone lo scenario e ridà parvenza di unità ai brandelli di quello che fu un partito. Vorremmo mettere in guardia il mondo cattolico dal cadere ancora in questa trappola: soprattutto perché troviamo intollerabile la condizione di totale assenza di informazione religiosa e di consapevolezza dello stato del mondo che segna chi attraversa i percorsi scolastici avvalendosi dell’insegnamento suddetto. E riteniamo che nella confusione tra religione e morale e nella zuppa della religione scolastica fatta di buoni sentimenti e di ignoranza dell’esistenza e delle ragioni di altre culture stia una radice non minore dell’immoralità rampante e impunita e del malgoverno della cosa pubblica in Italia.
Basterà richiamare l’opera di uomini come Piero Calamandrei e Arturo Carlo Jemolo, che partendo da una profonda sensibilità verso il fatto religioso si batterono per il rispetto della libertà di ogni individuo e per un’educazione all’integrità morale dei cittadini contro la tradizione di dominio di un’unica Chiesa accampata nello spazio pubblico italiano, preoccupata di ogni finestra spalancata sul mondo, sulle fedi altrui, sulla ricchezza di altre culture. La battaglia per la libertà religiosa è stata la prima in ordine di tempo e resta la prima in ordine d’importanza nel processo di nascita dell’Europa moderna. L’Italia uscita dall’abiezione del fascismo non riuscì a liberarsi dall’assuefazione a considerare “religione” la scipita minestra unica distribuita nelle scuole sotto controllo dei vescovi. Di fatto i principi di uguaglianza e di pari dignità degli italiani espressi nella Costituzione repubblicana furono invalidati col semplice inserimento dei Patti Lateranensi: da quella porta come da un cavallo di Troia entrarono nella vita del paese continue e sistematiche lesioni di quei diritti. E l’insegnamento della cosiddetta religione nelle scuole pubbliche è nello stesso tempo la radice e la bandiera degli abusi. Vogliamo forse dimenticare lo statuto alieno degli insegnanti di religione, nominati col placet dell’autorità ecclesiastica? Si tratta di una specie di “fuori sacco” del corpo docente, un’infrazione al principio fondamentale che governa dal ’700 in poi la selezione e la promozione dei capaci e meritevoli nel moderno sistema dei diritti. Quanto al fantasma dell’identità italiana evocato dall’Avvenire, fino ad ora ha trovato corpo soltanto in una normativa sulla cittadinanza che non è definibile se non col termine di razzismo, fondata com’è sulla successione di sangue.
Ma si aprano gli occhi sul mondo una buona volta: si guardi a come l’ultimo fascicolo di “Le Monde des religions” in edicola in questi giorni informa l’opinione pubblica di un paese laico sullo stato delle religioni nel mondo, sui fantasmi dell’islamismo politico, sui progressi di culti e devozioni nell’universo di un cristianesimo sempre più florido in Africa e sempre più asfittico e demotivato in Europa. E pensare che tra ’500 e ’600 fu un autore italiano, Giovanni Botero, a informare i lettori di tutta Europa sullo stato delle religioni nel mondo. A noi oggi, testimoni dello stato morale del Paese, non resta che masticare fra i denti le parole di un altro italiano: quel Niccolò Machiavelli che accusò la Corte di Roma di aver reso gli italiani: «Sanza religione e cattivi».

l’Unità 26.9.12
L’ora delle religioni
La cultura laica in passato ha frenato. Spero che si cambi
di Michele Ciliberto


È IMPORTANTE IL PROPOSITO ESPRESSO OGGI DAL MINISTRO FRANCESCO PROFUMO DI INTRODURRE NELLA SCUOLA MEDIA L’INSEGNAMENTO DELLE RELIGIONI. È una proposta importante sia dal punto culturale che da quello civile. Non è la prima volta, in verità, che viene avanzato un progetto di questo genere, ma purtroppo è sempre caduto nel vuoto, senza riuscire ad ottenere una pratica realizzazione.
Alla base di questo fallimento ci sono stati contrasti, opposizioni, diffidenze di vario genere. C’è una diffidenza di matrice ecclesiale. Ma va detto che ostilità sono scaturite anche da vecchie forme di anticlericalismo di matrice vetero risorgimentale che impedivano di cogliere l’importanza della conoscenza storica delle religioni, e il valore che esse hanno avuto, sia pure da punti di vista differenti e configgendo tra di loro, nella formazione dell’uomo moderno e, in generale, della modernità. Basta pensare all’importanza che l’ebraismo ha avuto nella cultura rinascimentale per fare un solo nome: Giovanni Pico della Mirandola con la sua Biblioteca ebraica e al significato dell’islamismo già nel Medioevo nella costruzione complessa e stratificata dell’identità europea, che non può essere ridotta alla sola matrice cristiana. Essa è il risultato, in varie forme e con differente rilievo, delle tre «religioni del Libro».
E lo stesso atteggiamento negativo e dannosissimo che ha impedito lungamente lo studio della teologia nelle università italiane, non rendendosi conto che senza conoscere le discussioni, e i conflitti, di ordine teologico è impossibile comprendere filosofi di prima grandezza come Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant, Hegel... Un atteggiamento di cui non è il caso di sottolineare la miopia e la cecità, anzitutto sul piano scientifico, ma anche su quello civile perché impedisce di mettere a fuoco la molteplicità di vie e di forme attraverso cui si è formata, e continua a formarsi, l’esperienza umana, in cui confluiscono, anche polemicamente, correnti e tradizioni religiose di cui occorre mettere in luce, e valorizzare, sia la specificità che l’originalità.
Questo per quanto riguarda il passato. Ma oggi la conoscenza ,e lo studio, delle religioni appare perfino più importante e necessario per le trasformazioni della composizione demografica sia italiana che europea. Oggi sia nel nostro continente che in Italia si sta faticosamente, ma progressivamente, affermando una società multietnica e multireligiosa, che costituisce l’orizzonte attuale della nostra storia, ponendo una serie di problemi nuovi e inediti con cui è indispensabile confrontarsi. Questo processo richiede la maturazione di nuovi punti di vista e di nuove forme di cittadinanza che impongono di andare al di là della pur fondamentale idea moderna di «tolleranza» e richiedono la costituzione di nuovi modelli e di nuovi istituti di reciproco riconoscimento e convivenza, che non possono, evidentemente, prescindere da una forte e diffusa conoscenza delle reciproche fedi ed esperienze religiose.
In questo senso il problema posto dal ministro Profumo è centrale e riguarda direttamente la figura e l’identità del nuovo Stato nazionale e della nuova identità europea che intendiamo costruire. Occorre naturalmente vedere se ci siano le condizioni per attuare finalmente questo progetto uscendo da vecchie e superate forme di laicismo e da vecchie contrapposizioni tra credenti e non credenti. E se non ci sono queste condizioni occorre quanto prima crearle, anzitutto sul piano giuridico e istituzionale. E i primi a muoversi in questo senso dovrebbero essere proprio i «laici», se hanno a cuore la formazione di una nuova, e più ricca e più avanzata Italia civile, per riprendere un’espressione cara a un maestro come Norberto Bobbio.
Ma il discorso va al di là della pur importante dimensione civile: l’esperienza religiosa, quando è autentica e profonda, è un patrimonio essenziale per tutti: conoscerla e salvaguardarla è fondamentale per laici e non laici, per credenti e non credenti qualunque sia la «fede» che professano.

Corriere 26.9.12
Profumo: l'ora di religione cambi. Gli studenti hanno culti diversi
Il cardinale Ravasi: il Concordato prevede che resti cristiana
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo, a pochi mesi dalle elezioni, lancia l'idea di «cambiare l'ora di religione». «Credo che il Paese sia cambiato, nelle scuole ci sono studenti che vengono da culture, religioni e Paesi diversi. Credo che si debba modificare il modo di fare scuola, che debba essere più aperto». «Ci vuole — aggiunge — una revisione dei nostri programmi in questa direzione». «Probabilmente quell'ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica» aveva già affermato Profumo venerdì sera, alla festa di Sinistra, ecologia e libertà. Stessi concetti ribaditi ieri. «Un discorso — ha precisato dopo qualche ora il ministro dopo che ieri sono scattate più forti le polemiche da parte cattolica —, che vale per l'ora di religione, ma anche per quella di geografia, che, secondo Profumo, si può studiare ascoltando le testimonianze di chi viene da altri Paesi».
La parziale marcia indietro non ha però placato le proteste dei rappresentanti del mondo cattolico. E in serata dal Vaticano è arrivato lo stop del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura. «Il Concordato prevede che l'ora di religione resti cristiana», ha dichiarato Ravasi. Anche perché dai microfoni di Radio Vaticana il vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio, presidente della Cei per l'educazione cattolica obietta: «L'ora di religione non è di certo una lezione di catechismo». Contrario anche il centrodestra.
D'accordo con Profumo, Hamza Piccardo, portavoce dell'Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii): «Il ministro ha aperto una pentola che ribolle». D'accordo col ministro anche il Partito democratico, il sindacato scuola Flc-Cgil, l'Idv, Sel e i grillini, oltre ai radicali e la Rete degli studenti medi. Mentre lo Snadir (Sindacato autonomo degli insegnanti di religione) ha ricordato al ministro di aver appena firmato «due intese riguardanti l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche e le indicazioni didattiche senza aver letto con attenzione ciò che ha sottoscritto».
Intanto, con la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale, prende il via il concorso a posti e cattedre, per titoli ed esami, finalizzato al reclutamento del personale docente nelle scuole dell'infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado. E anche qui non sono mancate le polemiche.
Al concorso nazionale che sta per partire possono partecipare i docenti che hanno conseguito almeno un'abilitazione all'insegnamento entro quest'anno. Oppure che abbiano conseguito la laurea alla data del 22 giugno 1999. Inoltre, ma solo per le scuole primarie e dell'infanzia, «i candidati in possesso del titolo di studio comunque conseguito entro l'anno scolastico 2001-2002, ovvero al termine dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali dell'istituto magistrale, iniziati entro l'anno scolastico 1997-1998». L'iscrizione avverrà online, a partire dal 6 ottobre e fino alle ore 14 del 7 novembre 2012. Si tratta di un test con 50 quesiti, di logica, comprensione, lingua straniera e informatica, appunto. La seconda prova «scritto-pratica» sarà invece su base nazionale. Con quesiti a risposta aperta «finalizzati a valutare la padronanza delle competenze professionali nonché delle discipline oggetto di insegnamento». La terza prova sarà tecnico-pratica, e prevede anche una lezione prova.

l’Unità 26.9.12
Ora di religione. Contro Profumo l’ira dei cattolici
Il ministro: «Rivedere i programmi di religione Il Paese è diventato multiculturale»
La Cei: fa confusione con il catechismo
di Luciana Cimino


ROMA Non è la prima volta che si discute dell’ora di religione cattolica nella scuola pubblica. Stavolta però a riprendere la questione è il ministro Francesco Profumo in persona. L’argomento lo aveva già affrontato venerdì scorso ad una festa di Sel: «Credo che l’insegnamento della religione nelle scuole così come concepito oggi non abbia più molto senso. Quell’ora di lezione potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica», aveva detto.
Ma le polemiche sono scoppiate ieri mattina quando il titolare dell’Istruzione (in occasione dell’apertura della biblioteca del suo dicastero) ha ribadito, estendendola anche alla geografia, la sua posizione. «Credo che il paese sia cambiatoha spiegato Profumo nelle scuole ci sono studenti che vengono da culture, religioni e paesi diversi. Il modo di fare scuola deve essere più aperto». E ha aggiunto quindi che «non solo per la religione, ma anche per la geografia ci vorrebbe una revisione dei nostri programmi. Oggi la scuola deve essere più aperta, multietnica e capace di correlarsi al mondo attuale».
E subito il mondo politico si spacca in favorevoli e contrari. È Maurizio Lupi, pidiellino molto vicino a Comunione e Liberazione, il primo a manifestare contrarietà: «Non possiamo annacquare ciò che siamo per far piacere agli altri. È solo ripartendo dal riconoscimento della nostra cultura fondata sulle radici giudaico-cristiane che è possibile instaurare un dialogo con chi è diverso». Sulla stessa lunghezza di pensiero la Lega e Paola Binetti (Udc) mentre la Cei si difende dicendo che i nuovi programmi sono stati «già adeguati rispetto al passato e infatti oggi l'insegnamento della religione cattolica consiste in una presentazione del cristianesimo dal punto di vista culturale, che tiene conto della attuale realtà multietnica». Stesse parole per il segretario dello Snadir (Sindacato autonomo docenti di religione) che però trova l’uscita di Profumo «inopportuna e inadeguata».
Mentre un assist inaspettato viene dai genitori aderenti all’Agesc (Associazione genitori scuole cattoliche): «L’Italia è un Paese multiculturale ed è giusto ampliare l'insegnamento della religione alla scienza delle religioni», dice Roberto Gontero, il presidente. D’accordo anche Idv e Radicali che sottolineano «oggi nelle scuole italiane non si insegna storia delle religioni, ma si fa catechismo coi soldi pubblici». E interviene anche la Flc – Cgil che per bocca del suo segretario nazionale, Mimmo Pantaleo, dice che Profumo «ha perfettamente ragione». «L’aumento degli alunni stranieri deve essere una grande opportunità per un nuovo approccio all’educazione interculturale».
La Rete degli studenti medi chiede di partire da qui per «aggiornare tutti i programmi e per rivoluzionare la didattica italiana, cambiare i sistemi di apprendimento e riformare il sistema di valutazione, tutto fermo a 40 anni fa». L’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) invita il ministro «a dar seguito ai suoi dubbie a cominciare a intervenire seriamente». Mentre il Pd si concentra sulla mancanza di alternative per quei bambini e ragazzi che non optano per l’insegnamento religioso. Arriva un plauso per Profumo da Marco Pacciotti, coordinatore del Forum immigrazione del Pd e Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani dei Democratici. Intanto Francesca Puglisi, responsabile scuola, spiega «il programma dell'ora di religione discende dal Concordato tra Stato e Chiesa. Il governo Monti vuole modificarlo? Il primo atto concreto che potrebbe realizzare Profumo è assegnare alle scuole gli insegnanti che servono per poter svolgere l'ora di alternativa, invece di costringere gli studenti a dover abbandonare la classe o di studiare in palestra».
E invita a concentrarsi su altro: «l’ora di religione non serva a distrarre l'attenzione dell'opinione pubblica dal bisogno di risorse della scuola italiana o dai nuovi tagli che il governo ha in animo di fare e che il Pd è pronto a contrastare in ogni modo»

il Fatto 26.9.12
Non toccate l’ora di religione. Profumo fa dietrofront
di Chiara Paolin


La materia è notoriamente esplosiva. E il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, se n’è reso conto troppo tardi. “Credo che l'insegnamento della religione nelle scuole, così come concepito oggi, non abbia più molto senso. Probabilmente quell’ora di lezione andrebbe adattata, potrebbe diventare un corso di storia delle religioni o di etica" aveva detto venerdì sera alla festa di Sel.
CONCETTO neanche tanto innovativo considerato che il programma ministeriale della scuola italiana, approvato nel 1985 dopo il rinnovo dei Patti Lateranensi, aveva già messo nero su bianco l’obbligo di fornire agli alunni una preparazione di base sulla storia delle religioni. Contestualmente, veniva confermato il diritto del Vaticano a tenere corsi di religione cattolica dalla materna alle superiori, con insegnanti abilitati direttamente dagli organi ecclesiastici. D’altra parte, i genitori avevano la libertà di scegliere un’attività alternativa per i propri figli, completamente estranea alla religione. Tutto perfetto dunque? “Proprio no - spiega Antonia Sani, pasionaria della scuola laica -. Perché in concreto è successo che l’ora di religione l’hanno dovuta fare tutti. Da sempre, chi chiede l’alternativa viene spedito in altre classi, o in corridoio. I dirigenti scolastici accampano la solita scusa: non ci sono soldi per gli insegnanti in più. Falso, perchè i fondi esistono e basta chiederli”.
Ogni anno si spendono 800 milioni di euro per insegnare la religione cattolica, ma tra i fondi stanziati a questo scopo ci sono anche quelli per la materia alternativa: man mano che le famiglie richiedono corsi diversi, i milioni vengono dirottati. Se nessuno chiede, tutto resta com’è, ma non è facile pretendere dalle scuole il rispetto della norma. Nel 2011 il ministero dell’Istruzione ha inviato una circolare per spiegare alle direzioni scolastiche come attivare i corsi alternativi e dove trovare i soldi: “I genitori di una scuola di Padova avevano chiesto i danni al Tar perchè i loro ragazzi non godevano della materia extra - spiega ancora la Sani - I giudici hanno condannato la scuola a pagare 1.500 euro per ogni studente”.
INSOMMA l’uscita di Profumo casca a pennello tra le esigenze delle famiglie che sempre più numerose non vogliono la religione cattolica (perché di altra fede o semplicemente contrarie alla dottrina in aula) e l’oggettiva disponibilità ministeriale ad applicare finalmente la legge. I fondi 2011, riuniti in un unico asset nazionale, sono generosi: 25 milioni per la scuola materna, 308 per le elementari, 101 per le medie e 224 per le superiori. Dal 1993 al 2011 la percentuale di chi non frequenta l’ora di religione è salita dal 6,5 al 10,2, dice la Cei (cioè 800mila alunni su 8 milioni).
Certo ormai lo Stato italiano ha assunto in pianta stabile 25mila insegnanti di religione scelti dal Vaticano per diffondere la religione cattolica, personale con busta paga garantita e spazio di docenza automatico: qualcosa bisognerà pur fargli fare. Oltretutto nel 1985, allungando l’orario scolastico, si decise di raddoppiare l’ora settimanale e adesso che molte scuole non riescono più a garantire i turni lunghi per mancanza di risorse le ore di religione restano comunque due.
Il ministro Profumo, dopo la consueta zuffa dei pareri (basti la Binetti: “Chi non vuole può uscire di classe”), ha fatto un bel passo indietro: “L’Italia è cambiata, credo che debba cambiare il modo di fare scuola, che debba essere più aperto" ha detto. Un po’ imbarazzato.

l’Unità 26.9.12
Ai gazebo del Pd può votare anche la destra?
Primarie aperte: prova di democrazia o rischio di sabotaggio?
Si apre il confronto dopo che un elettrice ex Pdl ha scritto: «Voterò Renzi, ma se non vincerà lui, non voterò il Pd»

di Giuseppe Vittori

ROMA Dietro la contesa sulle regole delle primarie c’è una questione politica di prima grandezza: è giusto che votino anche gli elettori di centrodestra? È giusto che votino i cittadini «indecisi», quelli che non intendono prendere alcun impegno con il centrosinistra? Il tema viene trattato solitamente in modo indiretto, oppure velato da complicate disquisizioni procedurali. Ieri il Foglio ha messo i piedi nel piatto, con un articolo dell’intellettuale di destra, Sofia Ventura, politologa un tempo vicina a Gianfranco Fini. Ventura racconta della sua «delusione sconsolata» provata davanti alla parabola del centrodestra, e più in generale dalla politica, e annuncia di essere stata conquistata dalla «via più blairiana alla riforma liberale sposata dal sindaco di Firenze».
Dunque, parteciperà alle primarie e voterà Renzi. E se Renzi risulterà vincitore, alle prossime elezioni voterà per il Partito democratico. «Ma se i vincitori avverte subito saranno Bersani o Vendola me ne guarderò bene. Perché da libera cittadina ho deciso che voglio dare la mia fiducia all’ipotetico Pd di Renzi, altri Pd al momento non mi interessano». Ancora più chiaramente: «In questa fase lo sforzo per creare qualcosa di nuovo ed efficace passa per un rimescolamento delle carte, per nuove coalizioni che facciano convergere le forze più produttive e non assistite del Paese con quanti, anche per l’ottusità della sinistra, ha posto ai margini del sistema».
L’intervento ha così riacceso discussioni e dubbi sulle regole delle primarie, o dunque sui rischi di deregulation. Ma ancor più ha riaperto il confronto sul senso e la logica dell’appuntamento del prossimo novembre. Iscritti al Pd, elettori e simpatizzanti del centrosinistra hanno diritto a chiedere un patto di lealtà a tutto coloro che partecipano alle primarie, oppure è giusto così, che votino tutti, senza assumere impegni sul dopo, e magari in caso di sconfitta del candidato prescelto hanno già deciso di dare il voto allo schieramento avverso?
Secondo Giovanni Sartori la partecipazione di un elettore di centrodestra alle primarie promosse dal Pd sarebbe un atto «scorrettissimo». Di parere opposto Roberto D’Alimonte che vede in questa tendenza un avvicinamento a quanto accade negli Stati Uniti «dove è diminuito l’elettorato che si identifica con i repubblicani e con i democratici ed è aumentato quello indipendente». In mezzo Gianfranco Pasquino, che suggerisce il doppio turno come migliore garanzia perché «istituzionalizza la libertà di movimento».
L’Unità ha deciso di avviare un confronto sul tema, tanto delicato quanto decisivo. Michele Prospero e Stefano Ceccanti, negli articoli pubblicati qui di seguito, sostengono tesi opposte.

l’Unità 26.9.12
Così si calpestano i diritti del popolo dei progressisti
Nella competizione tra poli alternativi propri della democrazia liberale, ogni campo organizza i propri confini identitari senza incursioni corsare
di Michele Prospero


Adestra ora c’è chi reclama il diritto (sic!) di votare alle primarie con l’avvertenza che però, se Renzi non dovesse spuntarla nei gazebo, alle urne del 2013 tornerà all’ovile e quindi non sosterrà mai Bersani. Parrebbe uno stralunato episodio della commedia all’italiana e invece è una tragedia che rivela la corruzione ideale di oggi. Davvero può configurarsi il diritto di ciascuno di entrare nel campo avverso per alterarne gli equilibri e portare scompiglio?
Tanti nemici del Pd pensano di approfittare delle primarie per tentare il colpo grosso. Ai padroni dei media stuzzica l’idea di sospendere i rifornimenti che finora hanno concesso al comico genovese per dirottarli verso il «Grillo interno» (la definizione è di Pietro Ichino) che può far saltare il gioco con un repertorio anch’esso ispirato all’antipolitica. Spaventano molto i partiti con una cultura autonoma perché sono liberi dai pesanti condizionamenti di media e denaro.
Un foglio che sostiene i referendum sull’articolo 18, e sogna una coalizione dei non allineati con Grillo e Landini dentro, ha scelto il cavallo su cui puntare per travolgere il quartier generale del Pd. Poco importa che il ronzino abbia dato ragione a Marchionne senza se e senza ma. Anche il Sole 24 Ore sollecita un’azione risoluta per svelare tutto «l’anacronismo del Pd». Il piano che conduce all’annientamento del Pd è così auspicato da Stefano Folli: «Renzi può essere il sasso che rotolando provoca la valanga».
Ogni soggetto politico, dinanzi a manovre di sabotaggio, deve aggrapparsi all’istinto di sopravvivenza, perché questa è la sfida. Con l’adozione di regole incisive (albo degli elettori di sinistra), il Pd può scongiurare i palesi tentativi di farlo deflagrare. Presentare le più normali regole, di stampo americano peraltro, come un restringimento del sacro diritto (della destra) di stabilire il condottiero che i poteri forti preferiscono alla guida della sinistra è un sopruso intollerabile.
Le regole sono una necessità ineludibile per garantire a ciascuna parte politica l’opportunità di decidere con il metodo democratico la leadership, il programma, le alleanze. Le procedure, che definiscono il confine di un’area politica, sono una difesa dell’intangibile diritto di una parte di società di tracciare la propria strada, i propri codici, i propri valori. Non esiste un diritto di tutti i cittadini senza distinzioni ideali che li autorizzi ad espropriare il vitale bisogno di una parte della società di organizzare le peculiari identità e di mobilitarsi per vincere le elezioni sventolando le proprie bandiere.
In nome del presunto diritto degli elettori di destra di recarsi alle primarie viene calpestato il diritto reale della parte di popolo che si orienta a sinistra e rivendica la libertà di scegliere da solo chi meglio ne rappresenta le idee, gli interessi, la storia. L’essenza della democrazia liberale risiede nella competizione tra poli alternativi. Ogni campo ha cioè il diritto a organizzare i confini identitari senza incursioni corsare. Pretendere che con le primarie aperte ogni demarcazione crolli, predispone una deriva illiberale che soffoca il diritto della parte a rendersi visibile e induce la totalità ad invadere ogni spazio della differenza.
La regola che prevede albi pubblici di elettori per le primarie tutela la situazione più debole. E nei partiti, a soffrire di più sono gli iscritti, i militanti, i simpatizzanti che verrebbero soggiogati dai nemici di destra che afferrano il (fasullo) diritto di decidere per loro conto e quindi di stabilire a chi tocca sfidare Berlusconi marciando sotto i simboli della sinistra.

IL SONDAGGIO SU WWW.UNITA.IT
Chi deve votare? La parola al web

A chi aprire le primarie promosse dal Pd? Questa la domanda che introduce il sondaggio rivolto ai lettori sul nostro sito www.unita.it. Le primarie “aperte” sono una opportunità di partecipazione oppure possono diventare un pericolo, con voti “inquinati” e tentativi di sabotaggio? Chi è giusto che si presenti alle urne della consultazione indetta dai democratici e aperta a candidati di tutto il centrosinistra? Tre le opzioni che si avranno sul web: 1) Solo gli elettori del centrosinistra e coloro che si impegnano moralmente a votare il vincitore. 2) Chiunque voglia partecipare, anche elettori che non assumono impegni con il Pd. 3) Gli elettori di centrosinistra e i "non schierati" (anche se è difficile mettere a punto regole per identificarli). Mentre sull’Unità si confrontano pareri di esperti e politici, sul web la parola passa a lettori e cittadini. Da questa mattina visitando la nostra pagina web www.unita.it sarà possibile votare le tre possibilità. I risultati, sia i parziali di giornata, che i definitivi alla chiusura del sondaggio, saranno pubblicati nei prossimi giorni anche sul quotidiano in edicola.

il Fatto 26.9.12
Primarie, le regole le fa Bersani. Ecco come
Parla Nico Stumpo, responsabile Organizzazione del Pd
di Wanda Marra


Le persone serie fanno quello che dicono. Noi rispetteremo i patti e lo dovranno fare anche gli altri”. Lo ripete come un mantra Nico Stumpo mentre ragiona di primarie, di regole, di albi degli elettori. La sua è “la” figura chiave, come responsabile Organizzazione del Pd, un ruolo glorioso per la tradizione comunista. Con Matteo Renzi che delle regole del gioco tranquillamente se ne infischia, e mentre miete consensi su consensi, non si fa scrupolo di dire che se vince il programma lo fa lui, è un compito arduo. Ma Stumpo, che ha 43 anni e fa politica “per passione” da sempre (dai movimenti studenteschi alla Pantera, passando per il Prc e la Sinistra giovanile) ci prova con la cocciutaggine che contraddistingue gli uomini di Bersani.
Stumpo, la legge elettorale non c’è, eppure voi parlate di primarie di coalizione. Non vi pare un po’ un controsenso?
Abbiamo deciso che le faremo e così sarà. Non si potrà dire che abbiamo disatteso gli impegni. E non vogliamo dare l’idea di non volere la legge elettorale che diciamo, con l’indicazione del candidato premier e la coalizione.
Ma ora questa legge non c’è.
E prima di novembre non ci sarà, sono pronto a scommetterci.
E allora?
Allora noi diremo prima del voto con chi vogliamo governare. Tra persone serie conta la parola.
Intanto, si favoleggia che sia un continuo incontrarsi tra gli sherpa del partito per fare il regolamento.
Ma che sherpa! Ci sentiamo al telefono io e Roberto Reggi per lo Renzi. Ma sono chiacchierate, nulla di fatto. Le regole le farà un Comitato dopo l’assemblea.
Che farete allora all’assemblea il 6 ottobre?
Faremo una norma transitoria, per modificare lo Statuto: così alle primarie potranno presentarsi anche altri esponenti del Pd oltre al segretario.
Perché transitoria?
Perché altrimenti si cambierebbe per sempre la natura del Pd. Che senso ha che un segretario eletto da primarie magari subito dopo debba sottoporsi ad altre consultazioni per diventare candidato premier?
Ecco appunto. Che senso ha?
Bersani ha espresso la volontà politica di rendere non burocratica la scelta della leadership.
Quanti voti servono?
La metà degli aventi diritto (che sono 1000) più uno.
Lei ha parlato di albo per gli elettori e Reggi le ha dato dello stalinista.
Non è niente di più, né niente di meno di quello che abbiamo sempre fatto. Nella primaria del 2005 (quella che elesse Prodi), come quella che elesse candidato sindaco di Firenze, Matteo Renzi bisognava dare un contributo, sottoscrivere un progetto, e accettare che il proprio nome entrasse in un albo, a disposizione di chi volesse consultarlo.
Ma allora Renzi perché tuona contro il cambio di regole?
L’unico cambio è quello dello Statuto, che permette a lui di presentarsi. Noi vogliamo solo introdurre dei correttivi, nei buchi del regolamento: per esempio specificare che si tratta di centrosinistra. E poi rendere l’albo “attivo”: far sì che gli elettori delle primarie possano partecipare per noi alla campagna elettorale. È stato un errore non usare quel bacino.
Ma magari le persone vengono per votare un candidato e poi non hanno nessuna intenzione di partecipare.
Penso che coerentemente chi sceglie di votare a una primaria dovrebbe poi contribuire alla vittoria di quello schieramento.
E lo sbarramento per i candidati?
Bisogna evitare che si presenti un candidato senza volto come nel 2005. E nel 2007 dicemmo no a Pannella.
Nel 2009 a Grillo.
Certo, erano primarie del Pd e lui era componente attivo di un altro movimento, come poi si è visto.
Dunque quali sono i requisiti?
I candidati del Pd dovranno ottenere una percentuale dei delegati all’Assemblea, poi loro e gli altri dovranno raccogliere una serie di firme tra gli elettori. Nel 2005 erano 10000.
Quest’entusiasmo per Renzi non vi fa paura? Come vanno i vostri sondaggi?
Mah, i sondaggi. Io leggo quelli di tv e giornali...
D’Alema ha detto che se vince Renzi finisce il centrosinistra, la Bindi che nel partito comunque non cambierà niente. Ma voi della segreteria non avete l’impressione di mettere a disposizione il vostro impegno per vedervi “scalare” il partito?
Io mi auguro che vinca Bersani, ma se vince Renzi lo sosterrò. E lui dovrà rispettare gli impegni.
Ma se ha già detto che con Vendola non vuole andare...
Dovrà firmare prima. E le persone serie rispettano gli impegni.
Quanto costerà tutto questo?
Non lo so. Ma dovrà avere carattere di sobrietà. Nessuno può fare campagne mirabolanti.

Corriere 26.9.12
Dall'ex finiana Ventura a Jovanotti e Prandelli

I renziani trasversali
di Monica Guerzoni


ROMA — È scandaloso se una cittadina «delusa e sconsolata» (che ha sempre votato a destra) si mette in fila ai gazebo del centrosinistra e scrive sulla scheda il nome di Matteo Renzi? La politologa ex finiana Sofia Ventura non ne può più della «deriva integralista e confessionale» del Pdl, sente che la «promessa liberale» di Berlusconi è definitivamente «tradita» e ha deciso che non starà più a guardare. Dalla prima pagina del Foglio ha annunciato che voterà per il sindaco di Firenze e, se lui batterà Bersani, sarà «una sua convinta elettrice» alle politiche del 2013. «Se me lo chiedono posso anche prendere la tessera del Pd — confida al Corriere — perché sono molto motivata».
L'endorsement della Ventura arriva a sorpresa e apre una pagina nuova nella partita delle primarie. «L'elogio del voto libero e trasversale» è l'ultima trovata di Giuliano Ferrara, che del Foglio è il direttore. Una provocazione densa di insidie, che i «tecnici» di Bersani stanno cercando di disinnescare. Cosa succede se gli italiani che si sentono traditi dal Cavaliere si riversano in massa alle primarie, buttando il cuore dall'altra parte del muro? Sofia Ventura, intellettuale della destra liberale attratta dalla «via blairiana» incarnata da Renzi, non si sente un'infiltrata. Anzi pensa di avere tutto il diritto di scegliersi il candidato premier nel campo avverso: «Quel diritto io ritengo di possederlo, perché non credo che oggi in politica possano esistere case, popoli, perimetri». Il dibattito (anche se non piacerà ai vertici del Pd) è aperto. Il politologo Gianfranco Pasquino pensa che la caccia al voto trasversale sia «legittima» e che debba essere persino incoraggiata. E Roberto D'Alimonte, uno dei massimi esperti di sistemi elettorali, conferma che Renzi punta tutte le sue carte sugli indecisi, un patrimonio che vale otto milioni di voti. Per la professoressa Ventura il sindaco di Firenze «è l'ultima spiaggia» e come lei, racconta, la pensano in tanti negli ambienti che frequenta. A destra e a sinistra. «Un mio amico vendoliano, pur di cambiare le cose voterà per Renzi...».
Di endorsement a sorpresa Renzi ne ha incassati tanti, da una parte e dall'altra. Personaggi un tempo ritenuti vicini alla destra, come l'ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori (ora suo deus ex machina organizzativo) e icone della sinistra della fama di Roberto Benigni, che ricevendo a giugno la cittadinanza onoraria di Firenze lo ha ricambiato con un abbraccio: «Quando sarai premier io farò il sindaco».
Stefano Benni ha predetto a Matteo un futuro da premier, Alessandro Baricco ha sposato la causa della rottamazione già al «big bang» del 2011 e Lorenzo Jovanotti, un anno e mezzo fa, lo ha incoronato leader: «È il tuo momento, non ascoltare quei vecchi babbioni... Se fai le cose belle noi ti veniamo tutti dietro». Quel che colpisce non è tanto il peso delle adesioni, quanto la trasversalità. Antonio Campo dall'Orto, già «guru» di Mtv che a Luca Telese raccontò di esser stato in corsa per diventare il braccio destro di Berlusconi, è uno degli ingranaggi chiave del motore-Renzi. E quattro mesi fa il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha detto che, se fosse fiorentino, voterebbe per lui: «Molte delle idee che ha espresso il sindaco corrispondono esattamente alle mie». Barbara Berlusconi, dicembre 2010, rivelò che da Renzi si sentirebbe rappresentata e, via via, il giovane Renzi ha arruolato insospettabili come il patron di «Eataly» Oscar Farinetti, figlio di un comandante partigiano, lo stilista Scervino e il commissario tecnico della nazionale di calcio, Cesare Prandelli.
Sull'Appennino bolognese il sindaco di Monzuno, Marco Mastacchi, centrodestra, ha invitato il «rottamatore» a visitare i luoghi dell'eccidio nazista a Monte Sole. Il che ha innescato una polemica con il Pd locale, che accusa il primo cittadino di voler «inquinare» le primarie. Ma il renzismo è un vento che soffia anche fuori dai recinti tradizionali della politica. L'ultimo singolare endorsement è quello di Lele Mora, amico del Cavaliere dal 1986. Silvio deve ricandidarsi, ha detto a «La Zanzara» su Radio24 l'ex manager dei vip, ma Renzi gli piace moltissimo: «È un gran figo, sexissimo... Può piacere a tutte le donne d'Italia».

Corriere 26.9.12
Primarie, albo pubblico e voto a 16 anni
Bersani discute le ipotesi di regolamento: gli elettori devono metterci la faccia
di M. Gu.


ROMA — Per votare alle primarie basterà aver compiuto sedici anni. Si dovrà donare al centrosinistra un obolo di due euro o più e lasciare il proprio nome, cognome, indirizzo e mail, che finiranno in un albo pubblico (e computerizzato) degli elettori progressisti. Il regolamento ufficiale è ancora da scrivere, ma almeno a grandi linee la sfida tra Bersani e Renzi comincia a definirsi. Il leader del Pd ne ha discusso con i suoi e si è ancor più convinto che gli elettori «debbano metterci la faccia». D'altronde, è la tesi di Bersani, «come il Pd ha deciso di cedere sovranità» ai suoi sostenitori, così gli elettori devono «assumersi una responsabilità nel sostegno al centrosinistra». E poi, quando si trattò di incoronare Romano Prodi, l'elenco pubblico c'era già...
Matteo Renzi dovrà mettersi il cuore in pace, sull'albo il segretario non molla. Ha troppa paura dell'effetto «batman», quei dirigenti del Pdl a cui potrebbe venire voglia di inquinare le primarie per condizionare le politiche. Come dice Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione in segreteria, «nessuno pensa di limitare la partecipazione degli italiani alle primarie, ma chiediamo ai nostri elettori un gesto di responsabilità». E se a un cittadino deluso da Berlusconi venisse voglia di votare alle primarie? «È auspicabile che gli elettori del Pdl cambino idea — apre Orfini —. Se non hanno paura di dire che non sono più di centrodestra, iniziano a far parte di un progetto alternativo». Si voterà domenica 25 novembre o una settimana più tardi, il 2 dicembre. E se Renzi, come parte del Pd, vuole il turno unico, Bersani insiste perché la competizione si svolga in due tornate. Certo, le regole dovranno essere discusse dall'assemblea nazionale del Pd il 6 ottobre e poi approvate dagli alleati, Sel in primis. Ma la bozza c'è. Oggi per la prima volta si vedranno gli «sherpa» che i partiti hanno incaricato di scrivere le regole: Maurizio Migliavacca per il Pd, Francesco Ferrara per Sel e Marco Di Lello per il Psi. Fosse per i socialisti, ogni elettore dovrebbe sborsare dieci euro e ogni partito non potrebbe schierare più di due candidati. E poi, come spiega Di Lello, all'albo toccherebbe iscriversi «una settimana prima». Questo però, temono i democratici, rischia di restringere troppo la platea dei votanti, il che renderebbe inevitabili i confronti con le primarie di coalizione di Prodi: nel 2005 gli italiani che fecero la fila ai gazebo furono oltre quattro milioni. Se si punta a eguagliare quei numeri c'è una sola via e cioè che registrazione e voto avvengano contestualmente.
Sul voto agli stranieri, dopo lo scandalo dei cinesi in coda a Napoli il dibattito è aperto. Ma il nodo è Renzi, che a norma di Statuto deve ottenere una deroga per poter scendere in campo. Autorevoli dirigenti del Pd vorrebbero non dargliela affatto, la deroga. Bersani però si è impegnato pubblicamente e indietro non può tornare. Ecco perché ieri in segreteria si è deciso di fissare rigide «soglie di accesso». Il come è ancora allo studio. Se si dovesse applicare alla virgola la carta fondamentale del partito, per candidarsi servirebbe la firma di 350 membri dell'assemblea o di 120 mila iscritti: soglie altissime, che gli «sherpa» saranno costretti ad abbassare. E ieri è tornato a farsi sentire Romano Prodi. Con una nota della portavoce Sandra Zampa l'ex premier ha fatto sapere che voterà alle primarie, ma non dirà per chi. E dopo aver smentito di puntare al Quirinale, ha chiarito che la presenza del suo ex collaboratore Ernesto Carbone nello staff del sindaco non è un endorsement per Renzi: «L'opzione a favore di questo o quel candidato non riguarda in alcun modo il presidente». Bersani può tirare un sospiro di sollievo.

Repubblica 26.9.12
Prof, sedicenni e “spie” dei rivali ecco il melting pot del Renzi show
Molti neofiti. “Cerchiamo una sinistra lontana dalla Fiom”
di Concita De Gregorio


ROMA — Cambio di prospettiva. La campagna elettorale di Matteo Renzi bisognerebbe provare a guardarla dal palco: spalle al protagonista e occhi negli occhi al pubblico. Proprio come fa il fotografo — bravissimo — che ad ogni tappa dà il visto si stampi ad un’immagine sempre uguale e ogni volta diversa: Matteo di spalle, camicia bianca e pantaloncini affusolati, che parla alla folla inquadrata di prospetto e col grandangolo, assiepata nei teatri e nelle piazze. Effetto: un uomo solo e la moltitudine. Nelle foto gli sguardi delle cuoche della festa di Ravenna, i capelli col gel dei ragazzini di Monza, la messa in piega delle anziane signore del Politeama di Varese, i giovanotti con la borsa a tracolla e le insegnanti trentenni dell’Auditorium di Roma. Una foto, lo sa bene Renata Polverini, può decretare l’inizio e la fine di ogni cosa. Molto più delle cronache di giornale, delle analisi, dei mille commenti in chat. Una foto che dice, per esempio, che nell’autunno in cui alle Feste del Pd si è segnato il minimo storico di presenze (perché erano tante e tutte insieme, certo, perché faceva freddo e pioveva, sì, perché alle feste ci vanno solo i militanti mentre nei teatri e nelle piazze ci vanno tutti, d’accordo) ecco negli stessi giorni, però, guardate bene in faccia la platea di Renzi. Di qua, ai dibattiti di partito, militanti di mezza età inoltrata seduti composti sulle sedie. Di là ai comizi di Matteo, giovani e vecchi seduti ovunque, per terra e sulle scale, amici nemici e curiosi, addetti stampa degli avversari venuti a prendere appunti con l’Iphone e ragazzini non ancora in età di voto che “mi interessa perché domani c’è assemblea, a scuola, e così racconto cosa dice”. Potete non crederci, che ci siano sedicenni che vanno in gruppo ad ascoltarlo, ma ci sono. A Ravenna è venuto a sentire il parrucchiere del paese vicino, Alfonsine, che “le ragazzine sono pazze di lui, vorrei capire perchè”. A Forlì la cuoca della Festa dell’Unità “che potrebbe avere l’età di mio nipote mi fa tanta tenerezza, mi dà speranza”. A Monza l’imprenditore ex socialista “che non so, ci devo pensare ma certo la destra ormai fa schifo e a sinistra ci sarà pure qualcuno che non parla solo la lingua della Fiom”. A Varese, culla leghista, la vecchina coi capelli blu che vorrebbe farsi autografare la sua foto “perché mi piace un casino”.
Dice così, la settantenne: un casino. Certificato dai video. Visto dal palco, letto negli occhi di chi guarda, lo show di Renzi funziona. Fa ridere e scalda, coinvolge, non annoia. Perché questo sono, i comizi di Renzi. Uno spettacolo: un format studiato nei dettagli — colori sul palco, rosso e blu come Obama, luci, regia, quattro pillole di video, sempre le stesse, tre o quattro immagini che lui chiama sul maxischermo a comando con la confidenza del tu all’interlocutore invisibile alla consolle: “mi dai Curiosity?, ce l’abbiamo? ”. Certo che ce l’abbiamo, che domande. Ecco Curiosity, il rover della Nasa che cammina su Marte, “ho controllato, è costato meno dei lavori alla Salerno Reggio Calabria”. Risate, applausi. Le battute sono sempre le stesse, dall’ampolla del dio Po all’alzate la mano se pensate che spendiamo troppo per il pubblico impiego. Le pillole in video anche, scelte con sapienza televisiva: alleggeriscono, emozionano. Arrivano dove lui da solo non arriverebbe.
Troisi che a “ricordati che devi morire” risponde “ora me lo segno”, per dire dello sconfittismo di certa sinistra, riscatta anni di cupezza nei cinquantenni che “Non ci resta che piangere” lo videro in prima visione. Cetto La Qualunque nella gag dello scontrino fiscale scatena i ventitrentenni dello sciagurato ventennio della furbizia al potere. Will Smith che dice al ragazzino “non permettere a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa” illanguidisce le giovani madri e le nonne.
Crozza con l’orsetto che fa il verso al bambino Renzi fa ridere il pubblico televisivo, cioè tutti. Obama che parla della bimba Christina uccisa a Tucson — obiettivamente: superlativo — chiude lo show, due minuti di silenzio solido in platea e standig ovation, commenti all’uscita su quanto è bravo Obama, mamma mia, piccoli capannelli nel foyer, “Ma hai sentito quando dice che bisogna tenere in vita le aspettative dei bambini? ”. E sì era Obama, non Renzi, ma è uguale.
Perché almeno in una cosa, sicuramente in questa sì, Renzi ha già sconfitto tutti gli avversari: si è circondato di persone più brave di lui. Non ha avuto paura che gli facessero ombra, i collaboratori. Ha preso su piazza i migliori: lo spettacolo dell’Auditorium, chiunque abbia mai allestito anche solo un palco di paese lo sa, è un oggetto teatrale semplicissimo e sofisticato, costoso, studiato e provato nei particolari. Il regista, il tecnico del suono, gli autori dei testi, i filmaker che riversano sul blog le interviste fatte per strada, l’organizzatore che prende al volo la sala una settimana prima. Tutto funziona meglio di quando non accada agli altri, basta dare un’occhiata il giorno dopo sul web per verificare. Non è solo Gori, anche se Gori è molto. Non sono nemmeno le risorse, cioè il denaro: anche gli altri ne dispongono in sufficiente quantità. E’ una rete di competenze al lavoro, e la differenza si vede. Il pubblico applaude con convinzione, ed è un pubblico davvero misto per età e formazione, per provenienza politica. A Varese, nel teatro strapieno, c’è “una minoranza di ex leghisti, pochi del Pd”, annota sul taccuino la giornalista locale che i militanti politici li conosce quasi tutti di persona. Il resto “sono gente qualunque, quella è la mia vecchia prof del liceo. Quella la libraia del corso. Quello lì un avvocato, democristiano mi pare. Gli altri non so, alle manifestazioni politiche non li ho mai visti”. A Roma, alle nove di sera a due passi dal Vaticano, ci sono gli ex addetti stampa di D’Alema, di Franceschini e di Prodi, gli uomini del Campidoglio di Veltroni e quelli di Alemanno, i pdl Fabrizio Santori e Gianluigi de Palo assessore alla scuola del Comune. “Questo ha già vinto”, si dicono i collaboratori di Alemanno dando un’occhiata alla sala. “Macchè, sono tutti curiosi”, rispondono dal capannello bersaniano. Tutti no. In massa si fermano a firmare gli otto referendum per Roma proposti dai radicali, poi dentro in sala tutto pieno fino in galleria. Renzi batte e ribatte sulla scuola, gli asili nido e la formazione, il merito e i professori che fanno il mestiere “più bello e più importante del mondo”. Tre video su cinque (Crozza, Will Smith, Obama) parlano di bambini e lui stesso manda di sé questo messaggio: racconta del figlio undicenne, poi diventa in proprio il portabandiera dell’innocenza e del coraggio di un bambino. In platea, tra i tanti, tre sedicenni compagni di classe. Mattia Fiorilli, David Valente, Federico Stefanutto. A Federico piace, a Mattia per niente, David è dubbioso. “Siamo venuti a sentire, così poi possiamo discutere meglio”. La madre di un loro compagno di scuola passa e li riconosce, li saluta, si compiace. Mattia dice che “però tutta questa roba è fuffa, è solo buona per la tv”. Federico si accalora, non è vero, David ascolta. Una giovane donna, il doppio dei loro anni, si ferma a guardare la scena. “Ma ragazzi, voi l’avete mai sentito un uomo politico parlare di asili nido?”, domanda. Vorrebbe fermarsi a parlare con loro ma s’è fatto tardi, scusi signora, domani c’è scuola e fra mezz’ora chiude la metro.
(9. continua)

l’Unità 26.9.12
Enrico Rossi: «Giro su un’utilitaria a gas, non siamo tutti uguali»
«Dopo l’ubriacatura berlusconiana serve una rivoluzione morale, ma riguarda ognuno di noi»
Il presidente della Toscana: «Monti, in accordo con le Regioni, adotti un provvedimento: via i vitalizi, un tetto a rimborsi contributi e indennità»
di Maria Zegarelli


ROMA Non ci sto alla logica del “sono tutti uguali”. Non siamo tutti uguali ed è molto pericoloso far passare l’idea le istituzioni sono superflue, inutili». Enrico Rossi, governatore della Toscana, è appena arrivato a Roma, dove incontrerà insieme ad altri suoi colleghi il segretario Pd. «Presenterò una mia proposta diceperché adesso si deve fare in pochi giorni ciò che non si è fatto per anni».
Fare in pochi giorni ciò che non si è fatto per anni perché si rischia una valanga che spazza via tutto?
«Proprio perché non siamo tutti uguali è urgente intervenire adesso, subito. Non può più valere il principio dell’autonomia per impedire che sui costi della politica nelle Regioni ci sia una regolamentazione. Finora c’è stato una specie di federalismo per abbandono, tipico del centrodestra, con la logica del “faccio come voglio”».
E quindi come si deve riformare l’autonomia delle Regioni?
«Io prendo meno di 7mila euro, vivo bene. Penso che tutti i presidenti di Regione possano vivere con la stessa cifra. Non si capisce perché c’è chi debba prendere il doppio rispetto ad un suo collega e non capisco perché la Regionel Lazio, con 10 miliardi di debiti per la sanità, stanzi 14 milioni di euro di contributo per i gruppi. Quello che propongo è molto semplice: un accordo tra le Regioni e Monti che garantisca un provvedimento rapido per rendere omogenei i costi della politica per le Regioni. Si fissino in modo rigido le indennità di carica per i presidenti e le funzioni degli amministratori; si elimini i vitalizi; si stabilisca un tetto per i rimborsi per le spese e i contributi ai gruppi. Come parametri si scelgano quelli delle Regioni più virtuose. La Toscana non avrebbe problemi: noi in treno viaggiamo in economy, io ho rinunciato all’auto blu, giro con l’utilitaria a metano...».
Il presidente dell’Anci, Delrio, ritiene che le Regioni siano un ostacolo allo sviluppo.
«Ormai si mette in discussione tutto e questo dramma, che rischia di diventare il dramma del nostro Paese, deriva dalla mancanza di riforme che genera mostri e mette a rischio la democrazia. Non si governa un Paese se non ci sono corpi intermedi solidi e rischiamo che fatti come quelli della Regione Lazio gettino discredito su tutte le istituzioni».
Ma questa non è una responsabilità della politica che ha usato in molti casi le istituzioni per gli affari propri intascando soldi dei contribuenti?
«Credo che occorra una classe dirigente che, dopo l’ubriacatura berlusconiana, introietti l’idea di una politica sobria e al servizio del cittadino e qui non mi pare che ci sia tanto da distinguere tra giovani o maturi. Mi sembra che ci sia da fare una rivoluzione morale che riguarda tutti. Nel Lazio non si possono mettere sullo stesso piano i fatti accaduti nel Pdl e nell’opposizione anche se qualche scivolone c’è stato perché nessuno si è opposto alle delibere che aumentavano i fondi per i gruppi. In questa fase spetta al Pd imporre una classe dirigente nazionale e locale che faccia del rinnovamento e della trasparenza le sue bandiere. Bersani ha tutte le carte in regola per individuarne una del genere perché nel nostro partito queste forze ci sono e non sono l’eccezione. Questa la differenza tra noi e il Pdl». C’è chi dice che questo tema nel Pd l’ha imposto Renzi per primo.
«Renzi ha puntato un cannone contro il gruppo dirigente del Pd e in questo modo ha fatto la parte che di solito fa il partito avversario. Il vero punto è che non ha fatto i conti con il berlusconismo. Non mi sembra gli appartenga il rinnovamento morale, è più concentrato su quello generazionale».
Anche i vescovi condannano il declino della politica. Se a livello locale si assiste allo sbracamento le responsabilità non sono anche da attribuire ai partiti nazionali?
«Tra le tante riforme che mancano c’è quella sui partiti, previsti dalla Costituzione ma senza una legge che ne regoli la vita democratica, dai finanziamenti in giù. Ci sono partiti che nascono su internet e non rispondono a nessuno di quello che fanno e come lo fanno. E poi manca ancora oggi una legge contro la corruzione. Questo Paese ha bisogno di alcune riforme che non possono essere ulteriormente rinviate. Si inizi, come ha detto più volte il Pd, dal Parlamento, con il dimezzamento del numero dei parlamentari e la diversificazione delle funzioni tra Camera e Senato, si eliminino le Province e si accorpino i Comuni».
Rossi, ma davanti a questa vicenda non si mostrano tutti i limiti della riforma del titolo V della Costituzione che ha fatto il centrosinistra?
«Uno dei limiti è aver previsto l’autonomia statutaria, che porta a questa giungla di finanziamenti, e quella sulla legge elettorale. Ma è anche vero che le Regioni avrebbero dovuto trovare il punto di riferimento e di compensazione per l’unificazione nel Senato federale».

l’Unità 26.9.12
Il «concorsone» non è roba per giovani
Ieri il decreto. Alle prove possono accedere i precari che stanno nelle graduatorie
e i laureati con il vecchio ordinamento
di Lu. Cim.


ROMA I neo laureati dovranno aspettare ancora. Per lo meno di finire i Tfa (Tirocinio formativo attivo, l’abilitazione). Come anticipato nei giorni scorsi il concorso per l’insegnamento nella scuola pubblica è riservato a docenti già abilitati. L’antitesi giovani/vecchi che aveva scatenato il dibattito nei giorni scorsi sembra concludersi. Alle prove possono iscriversi i precari che stanno nelle graduatorie a esaurimento (e dunque che hanno frequentato le Siss o superato i concorsi del 90 o del 99) e i laureati con il vecchio ordinamento, quindi fino all’anno accademico 2003/2004.
E i giovani? Profumo aveva manifestato più volte la necessità di “svecchiare” il corpo docente e quella di dare una opportunità ai ragazzi appena laureati. Il turno per loro però non arriverà prima del prossimo anno. Il Miur ha intenzione infatti di indire un nuovo concorso per la prossima primavera, stavolta riservato solo a coloro che avranno concluso il primo ciclo del Tfa (le cui lezioni stanno cominciando in questi giorni).
PAURA
Ma tra gli ammessi cresce la paura che la prima selezione (che costerà all’Erario circa un milione di euro) possa esaurire i posti a disposizione. Anche per anni. E dunque che alla fine si crei un’altra imponente mole di precari ad aggiungersi ai «bocciati» del prima tanche di concorso. E intanto arriva anche il parere del Cnpi (Consiglio nazionale pubblica istruzione): pur esprimendo una valutazione positiva per parti relative ai programmi d'esame, alle prove e alla valutazione dei titoli, il consiglio ritiene nel complesso «inopportuno» bandire un concorso in una fase di grande disagio per i precari della scuola, nel contesto di una riforma pensionistica che contribuisce a ridurre ulteriormente i posti disponibili e mentre è appena iniziato il percorso abilitante attraverso i Tfa.
Per il Cnpi il concorso troverebbe «la sua giusta collocazione» solo dopo aver programmato un organico funzionale, dopo la completa l'attivazione delle procedure abilitanti e dopo la revisione delle classi di concorso. Il ministro Profumo è però ottimista: «credo che il concorso sia per gli insegnanti una grande opportunità – ha dichiarato ieri in occasione dell’apertura della biblioteca del Miur e che le persone con grande saggezza parteciperanno, perché sarà data loro la possibilità indipendentemente dalla loro posizione in graduatoria, di accelerare il loro percorso e di entrare in ruolo prima di altri». Ma i sindacati minacciano battaglia. L’Anief annuncia una pioggia di ricorsi. «È illegittimo escludere i laureati degli ultimi dieci anni o i soli dipendenti della scuola. Sbagliata la soglia dei quesiti della prova preselettiva. Manca una nuova graduatoria di merito per i prossimi tre anni». Così, dicono, si lasciano «fuori i giovani e i più esperti».
E mentre sui social network i professori si chiedono perché fra i requisiti richiesti non ci sia alcun modo per indicare la propria esperienze nelle classi, la FlcCgil chiede di nuovo «un piano di investimenti nella scuola che coniughi il dato occupazionale con la qualità della scuola pubblica» e convoca i docenti e il personale scuola per il 12 ottobre, giorno di sciopero «per rivendicare quell'inversione di tendenza richiesta da tempo e che aprirebbe a un sano progetto di reclutamento».

l’Unità 26.9.12
Due ragioni opposte si trasformano in due torti
di Mario Castagna


PURTROPPO LE INDISCREZIONI SUL CONCORSO PER GLI INSEGNANTI VOLUTO DAL MINISTRO PROFUMO SONO STATE CONFERMATE. Nessun giovane appena uscito dalle aule universitarie potrà parteciparvi e sarà solamente una seconda via per i tanti precari che in questi anni hanno faticato e accumulato posizioni in graduatoria per ottenere finalmente una cattedra.
Viene confermato così il teorema tipico della seconda Repubblica, in base al quale dietro ogni grande proclama si nasconde sempre una mezza misura. Ma le ansie mediatiche prevedono solo compromessi al ribasso e non veri processi di riforma. L’apertura ai giovani si è rilevata l’ennesimo grimaldello per ottenere un titolo sui giornali, e non per scardinare la segregazione generazionale che vede i nostri giovani fuori da ogni porta.
Se il concorso si rileva solamente un rimescolamento delle graduatorie degli insegnanti precari, non è troppo lontano dal vero chiamarlo concorso truffa. Se è così è inutile farlo, meglio risparmiare qualche soldo da utilizzare per ristrutturare una scuola o assumere qualche insegnante di sostegno in più.
L’esigenza di aprire la porta alla nuova generazione e di portarla finalmente dietro le cattedre era sacrosanta così come quella di riconoscere le esperienze di chi dietro una cattedra ci sta già da tanti anni senza nessuna garanzia. Ma il ministro Profumo rischia così di trasformare le due ragioni in due torti: la beffa per i precari, la pacca sulle spalle per i giovani. Due categorie sempre al centro di ogni impegno, tanto nominati quanto penalizzati.
Questo concorso non valorizza l’insegnante italiano, demotivato, malpagato, abbandonato seppur pieno di buona volontà. L’onda di entusiasmo e di impegno con cui il mondo della scuola sempre ci sorprende, andrebbe invece sostenuta. Potrà capitare che rompa qualche argine, ma renderà fertile il terreno di un’Italia che fatica a ritrovare la speranza.

Corriere 26.9.12
Torturati a scuola, uccisi in strada I bambini perduti di Damasco
Ban Ki-moon: «La comunità internazionale deve intervenire»
di Alessandra Farkas


DAL NOSTRO CORRISPONDENTENEW YORK — La guerra civile in Siria è «una calamità regionale con ramificazioni globali» che «minaccia la pace nel mondo e necessita un intervento da parte della comunità internazionale e soprattutto del Consiglio di Sicurezza». L'ha affermato ieri il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel suo discorso di apertura della 67sima Assemblea Generale Onu.
«Il mondo non può distogliere lo sguardo mentre la violenza aumenta vertiginosamente», ha puntato il dito Ban, che ha esortato il Consiglio di Sicurezza e i paesi della regione a «dare un aiuto solido e concreto all'Inviato Speciale per la Siria, Lakhdar Brahimi». Di fronte a quella che nei corridoi del Palazzo di Vetro viene considerata come la peggiore crisi diplomatica dai tempi della Guerra Fredda, Ban è stato esplicito nel condannare «i brutali abusi dei diritti umani commessi in primo luogo dal regime del presidente Bashar Al Assad ma anche dai ribelli».
Per rompere l'impasse provocata da Russia e Cina che per tre volte hanno posto il veto a risoluzioni occidentali, l'emiro del Qatar ha invocato l'intervento militare del mondo arabo. «Il Consiglio di Sicurezza ha fallito», ha detto nel suo intervento Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani. Nella speranza che anche l'Onu raccolga l'appello, l'Ong britannica Save The Children ha deciso di rendere pubblico il drammatico rapporto che, attraverso 18 testimonianze dirette di altrettante vittime, documenta le atrocità contro l'infanzia perpetrate in 18 mesi di guerra civile che ha causato 30 mila morti, di cui 2 mila bambini.
Ne emerge un quadro agghiacciante. «Ero a un funerale, poi un razzo ha fatto una strage, uccidendo dei miei parenti», racconta Hassan, 14 anni. «Cadaveri e feriti erano sparpagliati ovunque. Parti del corpo ammassate una sull'altra. I cani hanno continuato a mangiare i corpi per due giorni». Khaled, 15 anni, racconta invece di essere stato arrestato con un centinaio di ragazzi, alcuni di 12 anni. «Per torturarci ci hanno rinchiuso nella nostra vecchia scuola, dove mio padre era preside», spiega. «Per due giorni ci hanno costretto a stare in piedi, senza mangiare nè bere. Poi mi hanno appeso al soffitto per i polsi e hanno iniziato a picchiarmi, spegnendomi le sigarette sul corpo. Altri sono stati fulminati con l'elettricità».
Il racconto forse più terrificante riguarda Alaa, un bimbo di 6 anni il cui padre era nella lista nera del regime. «È stato torturato più di ogni altro, volevano che il padre si consegnasse», rivela il 16enne Wael, «L'hanno picchiato per tre giorni. Poi è morto. Era sempre in preda al terrore. Hanno trattato il suo corpo come fosse quello di un cane». Save the Children ha chiesto a Ban Ki-moon di «aumentare la presenza sul terreno per documentare le atrocità». Ma proprio il mese scorso il Consiglio di Sicurezza ha posto fine alla missione dei 300 osservatori Onu inviati a monitorare il cessate il fuoco che non si è mai concretizzato.

La Stampa 26.9.12
La Catalogna super-indebitata annuncia le elezioni anticipate, agitando lo spettro dell’indipendenza
La polizia carica gli Indignados
Scontri a Madrid alla manifestazione contro l’austerità di Rajoy
di Gian Antonio Orighi


MADRID Violenza Un poliziotto spagnolo manganella un dimostrante dopo che gli agenti avevano caricato i manifestanti che protestavano contro l’austerità
Per la prima volta, gli Indignados hanno assediato ieri la Camera dei Deputati, la Casa della Democrazia. Questa volta sotto accusa non c’era solo il governo del premier popolare Mariano Rajoy ed i suoi pesantissimi tagli (92 miliardi solo quest’anno), ma l’intera classe politica.
«Non ci rappresentate», scandivano le migliaia di manifestanti, che in serata sono riusciti davvero, contro tutti i pronostici, ad accerchiare le Cortes, dove è proibito manifestare a meno di 500 metri. La polizia ha effettuato parecchie cariche. Il bilancio, provvisorio, è di 36 arresti e di 28 feriti.
La protesta era stata convocata nel luglio scorso da due sconosciute piattaforme internettiane, «Coordinamento 25 Settembre» e «In piedi». L’obiettivo iniziale era di occupare la Camera e dichiarare un’impossibile Costituente per riformare la politica, sempre più in crisi. Poi, con l’avvicinarsi dell’appuntamento, la meta è diventata solo «Circonda le Cortes». Le manifestazioni, in un primo tempo, erano state proibite, ma poi sono state autorizzate. Fermo restando la distanza dalla Casa della Democrazia.
Fino alle 18 di ieri, quando due colonne di Indignados sono confluite in Plaza Neptuno, a fianco delle Cortes, l’atmosfera era assolutamente tranquilla. La polizia, che blinda da due mesi la Camera per evitare una nuova tendopoli nella Carrera San Gerónimo, la centralissima arteria che dalla piazza Sol arriva fino al Museo del Prado e fiancheggia la Camera, era presente in forze. Ben 1400 agenti anti-sommossa in 3 cerchi concentrici, poliziotti con blindati, a cavallo, con cani (spesa 200 mila euro).
In mattinata, la segretaria generale dei popolari, María Dolores de Cospedal, ricordava il fallito golpe dell’81 e gettava ancor più benzina sul fuoco dichiarando: «L’ultima volta che volevano chiudere la bocca agli eletti dagli spagnoli fu durante il colpo di Stato di 31 anni fa. Perché bisogna trattare i manifestanti in modo diverso dai golpisti? ». Gli Indignados hanno risposto che volevano solo manifestare il loro distacco da una classe politica che sentono estranea. La prima carica è arrivata alle 19, quando gli agenti hanno sgomberato parte della Piazza Nettuno allorché la prima fila degli Indignados ha cercato di sfondare le imponenti transenne che chiudevano Carrera San Gerónimo.
La protesta si è allargata, coinvolgendo molto più dei 6 mila dimostranti, quasi tutti giovani, contati ufficialmente dalla Prefettura di Madrid.
Dalle 20,30, le cariche si sono susseguite anche nella Piazza Sol e nelle stradine adiacenti, con spari di proiettili di gomma. La preoccupazione è che le manifestazioni degenerino. La brutalità della polizia è documentata con le immagini in diretta via Internet.
Ieri la Catalogna iper-indebitata ha proclamato il voto anticipato per il 25 novembre, con l’intenzione dichiarata di andare verso l’indipendenza. Si moltiplicano le grane per Rajoy. "La polizia ha sparato proiettili di gomma: una trentina i feriti e 36 gli arrestati"

l’Unità 26.9.12
Tzvetan Todorov
«Messianismo, liberismo, populismo: il male interiore della democrazia»
Gli anticorpi saranno efficaci se si capisce che queste tre derive non rappresentano soluzioni valide ai problemi
di Roberto Lorenzetti


Il Novecento è stato segnato dalla lotta della democrazia contro i regimi totalitari: nel 1945, alla fine della Seconda Guerra mondiale, è stato sconfitto il nazifascismo; con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 si è sgretolato il comunismo. Oggi, per molti osservatori, la sfida alla democrazia arriverebbe dai fondamentalismi religiosi e dal terrorismo, oltre che dalle brutali dittature che li proteggono. Per Todorov questa visione è sbagliata, fuorviante e pericolosa. Oggi la democrazia non ha più nemici esterni in grado di metterla in pericolo. I rischi per la democrazia ora arrivano invece dal suo interno: un individualismo spinto all'eccesso, un neoliberismo avido e senza più regole, la deriva populista.

PORDENONE. UN SAGGIO SULLA FORZA E SUI LIMITI DELLA DEMOCRAZIA NELL’ATTUALE CONTESTO GEOPOLITICO MONDIALE. L’ultimo libro di Tzvetan Todorov si intitola I nemici intimi della democrazia (traduzione di Emanuele Lana, Garzanti, pagine 254, euro 16,40). Per l’autore, la democrazia è oggi il sistema politico che tutti nel mondo difendono. Ma essa ha dei nemici precisi: «nemici intimi», cioè nemici interni.
Nato a Sofia, in Bulgaria, nel 1939, ma trapiantato in Francia all’inizio degli anni Sessanta, Todorov è uno dei massimi intellettuali a livello non solo europeo. Filosofo, teorico della letteratura, critico, storico della cultura, antropologo e analista politico, la sua produzione tocca molteplici campi del sapere.
«La democrazia», ci spiega al festival «Pordenonelegge» (dove Todorov ha presentato il suo libro in anteprima nazionale), «ha da sempre avuto dei nemici. Ma sino alla caduta del Muro di Berlino erano nemici, per così dire, esterni. Ad esempio il fascismo, che si proponeva come un regime superiore alla stessa democrazia. Oppure il comunismo, che si presentava come il superamento del parlamentarismo borghese. Oggi il fascismo è stato sconfitto e il comunismo è moribondo. Ma ci sono dei nuovi nemici».
Nel suo libro lei ne individua principalmente tre. Ce ne vuole parlare?
«Un certo messianismo politico, il liberalismo spinto, il populismo con la sua deriva xenofoba. Sono tendenze diverse, ma che hanno una caratteristica in comune: sono interne alla democrazia e proprio dall’interno rischiano di minarla. Inoltre portano all’estremo alcuni principi che sono propri alla democrazia stessa. Il messianismo estremizza il valore del progresso, il liberalismo quello della libertà, il populismo il valore del rispetto della volontà popolare».
Lei è ottimista o pessimista sulla tenuta, nel futuro, della democrazia?
«Penso che la democrazia abbia in sé gli anticorpi da opporre alle minacce che ho elencato poc’anzi, ma questi anticorpi saranno efficaci soltanto se le persone capiranno che queste tre derive della democrazia non possono rappresentare valide soluzioni ai problemi. Troppo spesso se ne parla come di possibili vie d’uscita alle difficoltà che inevitabilmente una piena democrazia attraversa».
Che cosa la preoccupa in particolare? «Oggi a livello mondiale la democrazia soffre della mancanza di equilibrio. Personalmente detestavo l’Unione Sovietica, ma è anche vero che prima del suo crollo esisteva un sistema bipolare, quello Usa-Urss. Naturalmente non propongo di tornare al passato. Servirebbe invece un mondo, una geopolitica multipolare. I Paesi emergenti dovrebbero essere membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu. La composizione di questo organismo, decisa all’indomani della Seconda guerra mondiale, è ormai anacronistica e andrebbe quindi modificata».
In Occidente abbiamo salutato la cosiddetta «primavera araba» come un aumento di democrazia. Ora, però, visto il rafforzamento dell’estremismo islamico, intravediamo dei pericoli che non possono non destare preoccupazione. Lei come vede le trasformazioni in atto in quei Paesi?
«Penso che si tratti di un movimento da salutare con gioia e speranza. La richiesta di fondo è giusta: riaffermare lo stato di diritto, ponendo fine a dei regimi autocratici. In Tunisia e in Egitto si sono tenute, dopo molti decenni, libere elezioni. La popolazione è riuscita, dopo molti decenni, a cacciare dei tiranni. Certo, alle rivendicazioni del popolo, si è accompagnato un aiuto esterno da parte delle potenze occidentali. Ma il movimento, con le sue istanze democratiche, è nato in quei Paesi. Quanto al successo dei partiti islamici, lo si può comprendere facilmente se si pensa che spesso i militanti di quei partiti erano gli unici oppositori dei regimi precedenti. È il caso dei Fratelli musulmani in Egitto. Oggi vedo in atto un contrasto tra una parte della popolazione ancorata alle tradizioni e alle prescrizioni coraniche e un’altra parte che ha negli occhi Singapore o Manhattan. E credo che quest’ultima rappresenti la stragrande maggioranza».
A quali riflessioni l’hanno spinta le notizie degli attacchi alle ambasciate occidentali in seguito alla pubblicazione del filmato blasfemo su Maometto?
«La violenza va ovviamente condannata senza riserve. Però a coloro che in Occidente difendono a tutti i costi la libertà di espressione vorrei dire che questo non è un valore assoluto neanche in democrazia. Perché, soprattutto quando si esercita ai danni di una minoranza, tale libertà può diventare sinonimo di potere e di violenza. Quando si affrontano tali discorsi, ricordo sempre il caso del padre dell’antisemitismo francese, il giornalista Edouard Drumont, che fondò una rivista intitolata Libera parola. Una libertà di parola che diventava strumento di denigrazione e oppressione di una minoranza. Quella minoranza che allora era la comunità ebraica oggi può essere, in Europa o negli Stati Uniti, quella islamica. La libertà, dunque, dev’essere limitata dal rispetto dell’altro e dal senso di responsabilità».
Come vede la situazione attuale degli Stati dell’ex blocco sovietico?
«Se penso al mio Paese d’origine, devo ammettere di conoscere maggiormente la Bulgaria comunista che non quella di oggi. Ho trascorso lì il primo terzo della mia vita, gli altri due terzi in Francia. Da osservatore esterno, però, ho come l’impressione che si sia gettato il bambino insieme con l’acqua calda. Voglio dire, l’acqua calda era la man-
canza di libertà di quei regimi, la retorica ideologica che copriva l’assenza di autentica democrazia. Il bambino erano i principi di solidarietà, la presenza dello stato sociale, il primato del bene comune su quello individuale. Oggi da quelle parti le sperequazioni sociali sono più accentuate che mai e una grande massa di popolazione, in termini materiali, sta veramente male. È venuta meno una rete di protezione sociale la cui assenza oggi schiaccia le fasce più deboli, mentre cresce il privilegio di una nuova oligarchia del denaro, che peraltro fa affari non sempre tasparenti».
E dell’Unione Europea che cosa pensa?
«Sono da sempre uno strenuo sostenitore del processo di integrazione europea. L’Europa non è, come qualcuno sostiene, il male. È il rimedio. Non soffriamo di troppa Europa, ma di troppo poca Europa. Temo che ci siamo fermati a metà del guado. C’è stata l’integrazione economica. Ora dobbiamo lavorare all’integrazione politica».

Corriere 26.9.12
Nonno Paul, gallerista di Picasso quando non era nessuno
Quadri, amicizia e denaro. Tra Parigi e New York
di Orsola Riva


«Sono la nipote di un signore che si chiamava Paul Rosenberg e abitava a Parigi al 21 di rue La Boétie». Ci sono voluti oltre sessant'anni ad Anne Sinclair per tornare a casa ma lo ha fatto. E (forse non a caso) in un momento particolarmente difficile della sua vita. Perché Anne Sinclair è uno dei volti più noti e apprezzati della tv francese, direttrice editoriale del sito francese dell'Huffington Post, ma soprattutto è l'ex «futura première dame» di Francia, l'ex moglie del mancato presidente Dominique Strauss-Kahn, l'uomo che si è giocato l'Eliseo perché era stato accusato di stupro da una cameriera di un albergo di New York (salvo poi essere prosciolto), ma che resta invischiato in un giro di prostituzione a Lille e che si è autoproclamato davanti ai giudici un libertino impenitente.
Eppure 21, rue La Boétie (Skira, pp. 184, 18,50) non è un libro su quella Anne Sinclair. O almeno non solo su quella: è la storia di una bimba ormai grande che decide di fare i conti con un pezzo grandioso e doloroso di storia familiare, a cominciare dal nonno Paul Rosenberg. Chi era? Il gallerista di Picasso, l'uomo che a partire dal 1918, conquistato dal genio dell'artista spagnolo, acquistava le opere dell'amico «Pic» e le teneva lì, perché nessuno le voleva (almeno fino alla metà degli anni Venti), finanziandosi intanto con la vendita dei capolavori impressionisti acquistati dal padre, anch'egli mercante d'arte. 21 rue La Boétie è l'indirizzo della galleria Rosenberg, dal 1910 al 1939, quando la famiglia si trasferisce in Turenna prima di riparare in America per sfuggire alle persecuzioni naziste (i Rosenberg sono ebrei). Ai piani superiori del numero 21 c'era l'appartamento di famiglia di Paul Rosenberg, della moglie Margot e dei due figli Micheline e Alexandre, detto Kiki (la madre e lo zio di Anne). Sotto, la galleria: al mezzanino la pittura dell'Ottocento, Monet, Renoir, Cézanne, Van Gogh, al piano terra i suoi «amati sconosciuti», Braque e Léger, Matisse e Picasso.
Le pagine più divertenti del libro sono quelle che raccontano l'amicizia, solidamente basata sugli affari ma non solo, fra Pic e Paul, il grande funambolo del Novecento e il suo impresario. «Voglio essere ricco ma vivere come un povero», confidò una volta Picasso. E Paul lo aiutò a realizzare almeno la prima parte del suo sogno.
Ben presto i due diventano inseparabili. Paul convince Pic a trasferirsi al 23 di rue La Boétie con la moglie Olga e il figlio Paulo. «Possiamo passare da voi dopo cena? Rispondete SVP dalla finestra», scrive familiarmente Paul a Pic in un bigliettino. La bella complicità familiare durerà fino alla separazione di Picasso da Olga (mai certificata da un divorzio perché lui non voleva lasciarle la metà delle sue opere come la legge francese imponeva).
A partire dagli anni Trenta Picasso si trasferisce nella residenza di Boisgeloup, a nordest di Parigi, con Marie-Thérèse Walter, da cui avrà una figlia, Maya. E i due amici si allontanano, non solo fisicamente. Picasso flirta con i surrealisti, Rosenberg non li ama molto…
Gli anni Trenta avanzano e il cielo d'Europa si fa scuro. Paul fiuta e rifiuta il nazismo con tutto se stesso. E riesce ad anticipare gli eventi, mettendo al riparo prima un po' di quadri e poi la famiglia in America, dove aprirà una nuova galleria sulla 57esima Strada, a New York, in seguito ereditata dal figlio, lo zio di Anne.
Purtroppo moltissime opere restano a Parigi e vengono sequestrate (quando non distrutte) dai nazisti. È la fine di tanti capolavori dell'arte del Novecento marchiati a fuoco come ET, «Entartete Kunst», arte degenerata.
Il 21 di rue La Boétie viene requisito dai tedeschi e diventa un famigerato centro di propaganda nazista (fra le foto rinvenute da Anne ce ne è anche una in cui due volenterosi collaborazionisti francesi scartano un voluminoso ritratto del maresciallo Pétain per appenderlo nel vestibolo della casa sui cui muri per tanti anni erano stati appesi i Van Gogh e i Picasso).
Seguono gli anni del Dopoguerra, la faticosa ripartenza, la sfibrante partita, anche con alcuni musei francesi, per riavere le opere di famiglia perdute.
Anne, nata a New York dopo la guerra, rientra con papà e mamma in Francia. Cresce nel mito del babbo eroe della resistenza (Robert Sinclair, nato Schwartz, riparato in America dopo la caduta di Parigi nel giugno del '40, scelse di «fare la sua parte» e si arruolò nella France Libre del generale de Gaulle), fatica a comprendere la scelta rinunciataria della madre, tutta famiglia e figli, e si vergogna un po' di quel suo nonno «mercante» di cose belle e rare: quasi fosse un crimine fare i soldi con la bellezza. La morte della madre la costringe a fare ordine nelle carte di famiglia e nei ricordi. E inizia a prendere forma questo suo libro, onesto e sincero.
Difficile, quasi impossibile, non pensare a come il viaggio a ritroso di Anne Sinclair nella memoria di una ricca famiglia ebrea francese si sia intrecciato con un altro doloroso percorso: la fine del suo matrimonio con Dominique Strauss-Kahn che pure con tanta determinazione e orgoglio lei aveva difeso nei giorni, nei mesi, della gogna americana.
Le due vicende si incrociano solo un paio di volte nel libro. Dapprima nel capitolo in cui racconta le sue vacanze felici di bambina francese degli anni Cinquanta nella bella casa dell'Upper East Side di New York dei suoi nonni. «Ci ho passato tanti di quei Natali — osserva di sfuggita Anne Sinclair — che, sino a pochissimo tempo fa, New York aveva per me un profumo inebriante». Fino a pochissimo tempo fa? Bisogna aspettare la fine del libro perché quel riferimento implicito si faccia più chiaro, forse anche nella testa dell'autrice. «Nel maggio 2011 — si legge nell'epilogo —, in circostanze dolorose, mi sono trovata costretta a vivere a New York, d'un tratto prigioniera, in qualche modo, dell'America (…). È stata dura ritrovare il piacere di percorrerne le strade». Ma, pare di capire, alla fine Anne Sinclair ce l'ha fatta. E il libro ne è la testimonianza.

Corriere 26.9.12
Il Dio sconosciuto dei cristiani
Napolitano e Ravasi si confrontano al Cortile dei Gentili
di Armando Torno


Il Cortile dei Gentili il 5 e il 6 ottobre si terrà ad Assisi. Dopo gli incontri di Stoccolma (13 settembre), si aprono ora numerosi dialoghi nella casa di Francesco, uno dei protagonisti del cristianesimo amato dai credenti di ogni confessione. E anche da chi si professa ateo o agnostico. In questo anno della fede la scelta della città umbra, luogo che è diventato sinonimo di pace, è carica di significati. D'altra parte, l'invito di papa Benedetto XVI è stato concretizzato dal Cortile dei Gentili con questi eventi: con essi si desidera «raccogliere e dare forma al grido spesso silenzioso e spezzato dell'uomo contemporaneo» verso Dio. Che, per un numero crescente di persone, rimane uno «sconosciuto».
Il presidente Giorgio Napolitano, in un confronto con il cardinale Gianfranco Ravasi condotto da Ferruccio de Bortoli, sarà il primo interlocutore di queste due giornate che hanno come tema appunto Dio, questo Sconosciuto. Un titolo che, nato nell'ambito del Pontificio consiglio della cultura, ha in sé una lieve provocazione e, al tempo stesso, riflette una problematica. Del resto, questo primo incontro avrà come protagonisti un laico, con una storia politica ricca di impegni e di ideali, e un cardinale studioso della Bibbia, che con questo Cortile sta invitando i credenti a dialogare con personalità distanti e sensibilità che si sono formate a prescindere dalla fede. Il conduttore Ferruccio de Bortoli porrà le domande sia a Napolitano che a Ravasi, portando le due esperienze in una sorta di zona franca, dove potranno parlare del loro rapporto con Dio senza preoccupazioni dei rispettivi ruoli istituzionali. Sono protagonisti che hanno molto da dire sull'argomento di apertura degli incontri, e quasi sicuramente non mancheranno sorprese.
Lo stesso Ravasi ci ha confidato: «Col tema, Dio, questo Sconosciuto, vogliamo invitare tutti ad alzare lo sguardo oltre le frontiere di quello che offre l'orizzonte quotidiano, verso quello che noi credenti chiamiamo Dio e che i non credenti possono chiamare il "mistero"». Parole che hanno in sé anche un invito, quasi una sorta di superamento di taluni luoghi comuni. Così come la nostra mente cerca di catturare conoscenza lanciando reti nervose verso ciò che ignora, allo stesso modo occorre andare al di là dei limiti delle visioni quotidiane per entrare in contatto con qualcosa che ci consenta di riflettere su Dio, indipendentemente dalla fede che ci portiamo appresso. Prosegue Ravasi: «La figura di San Francesco è emblematica perché da un lato racchiude, nel suo stesso corpo ferito dalle stimmate, la sua unione intima con Cristo nella fede; ma, d'altro lato, il suo messaggio e la sua opera coinvolgono i temi capitali dell'esistenza e della storia, dalla povertà al creato, dalla pace al dialogo tra i popoli, dalla vicinanza alle sofferenze fino alla gioia del canto libero e sereno». Non a caso ad Assisi ci saranno anche dibattiti su problemi contingenti (Franco Bernabè, Susanna Camusso e Mario Orfeo alle 21 del 5 ottobre parleranno di Lavoro, impresa e responsabilità) e il tutto sarà chiuso alle 17 del 6 ottobre da un dialogo tra lo stesso cardinale Ravasi e il ministro Corrado Passera. Saranno toccate anche le questioni dei giovani, della Terra, della crisi economica eccetera. E si avvicenderanno filosofi (Umberto Galimberti e Giulio Giorello, per esempio), registi (Ermanno Olmi), scienziati (Umberto Veronesi), architetti (Massimiliano Fuksas). Né mancheranno giornalisti: Monica Maggioni e Aldo Cazzullo, per esempio.
«Nel cortile di Francesco divinità e umanità s'incrociano in armonia, e forse Dio diventa meno sconosciuto», aggiunge sua eminenza alla fine. Viene alla mente, congedandoci, una frase di Robert Musil ne L'uomo senza qualità: «Se questa libertà da Dio non fosse altro che la via moderna verso Dio?».

L'elenco completo dei dibattiti e i nomi di tutti i partecipanti all'incontro di Assisi si può trovare consultando il sito: www.cortiledeigentili.com

Corriere 26.9.12
Se la fiction Rai è solo di santi o eroi
di Aldo Grasso


Non vale la pena soffermarsi sull'imbarazzante «Caruso. La voce dell'amore» trasmesso da Rai1 (domenica e lunedì, ore 21.20). Banale la sceneggiatura, approssimativa la recitazione, deludente il tutto. Se qualcuno ama Enrico Caruso si procuri i suoi dischi, i film di Richard Thorpe e di Giacomo Gentilomo (entrambi del 1951) e si goda su YouTube «My Cousin - Enrico Caruso - 1918 silent film - piano by Glenn Amer 201». È il caso invece di fare un discorso sulla fiction di Rai1, su quella sorta di storia patria che da anni la rete tenta di raccontare, visto che a dirigerla è stata chiamata Tinny Andreatta. Secondo Rai1, la nostra storia condivisa è fatta solo di santi e di eroi (non esistono mezze misure), tutti regolarmente agiografati secondo frusti canoni pre-televisivi.
Questi santi ed eroi hanno avuto un'infanzia difficile e noi, quasi a scontare una colpa storica, ne dobbiamo pagare il fio, soffrendo per una scrittura sciatta e per una recitazione oratoriale. I nostri eroi parlano incredibilmente un italiano libresco, piuttosto irreale, più simile al doppiaggese che alla lingua comune (se Caruso parla con un americano questi si esprime come Stanlio e Ollio). L'unico collante che unisce un eroe all'altro, a formare la benedetta storia condivisa, è solo il sentimentalismo, la negazione di ogni sentimento (ancora un esempio tratto da «Caruso»: se il tenore scopre di essere tradito parte il «Ridi pagliaccio», se è contento «O sole mio»). Gli eroi narrati sono tutti un revival, nel senso che ognuno ha alle spalle una filmografia o addirittura uno sceneggiato tv; così il pubblico si rafforza nella sua conoscenza, che è solo la conoscenza del già visto. Con grande determinatezza, poi, la fiction Rai si rivolge solo al pubblico italiano (difficilmente riesce a creare qualcosa che diventi prodotto da esportazione) e solo a un pubblico di una certa età. Così fa audience ma non fa catalogo, uno dei compiti del Servizio pubblico.

Repubblica 26.9.12
Se anche la scienza è contro l’ergastolo
di Umberto Veronesi


LA SCIENZA è con Sofri e con quanti si impegnano perché l’ergastolo ostativo venga eliminato dal nostro sistema giudiziario. La scienza sta con chi crede nel principio di una giustizia tesa al recupero e la rieducazione della persona, evitando trattamenti contrari al senso di umanità, della sua dignità , come recita la nostra Costituzione.
Il nostro sostegno si fonda su motivazioni molto forti. Gli studi più recenti in neurologia ci hanno dimostrato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent’anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare, evolversi, adattarsi, rispondere a nuovi stimoli educativi.
In secondo luogo studiando il Dna, abbiamo scoperto che l’aggressività non è per nulla scritta nei nostri geni: antropologicamente e biologicamente l’essere umano è predisposto alla fraternità e alla solidarietà. Dunque gli atteggiamenti violenti dell’uomo non sono un bisogno primario, ma invece la riposta a cause esterne ambientali, come violenze durante l’infanzia, ingiustizie profonde o abusi subiti. Per questo quattro anni fa ho voluto creare il movimento “Science for Peace”, che desse voce alla scienza contro ogni forma di violenza legittimata, le guerre, naturalmente, ma anche la pena di morte. E anche contro l’ergastolo che, secondo noi, è una forma di pena capitale spietata, tanto da far scrivere a Carmelo Musumeci, con cui ho un carteggio personale da molto tempo, “aiutatemi a ottenere la grazia di morire”.
Penso che la scienza, insieme agli uomini di pensiero come Sofri, forte del nuovo sapere sull’uomo e la sua natura, abbia il dovere morale di impegnarsi a favore di un’idea di giustizia che sia punizione, ma non vendetta. Per i greci Nemesi era insieme Dea della Giustizia e della Vendetta, ma questo dualismo esprimeva una concezione ancora barbara del diritto, che oggi dovrebbe essere superata anche grazie alle nuove conoscenze di cui disponiamo circa i meccanismi della mente. Penso che una giustizia moderna dovrebbe piuttosto ispirarsi alla Metànoia che Giovanni Battista predicava sulle rive del Giordano, il Ravvedimento.
Non sarà una campagna facile e sarà, come molte di quelle che la scienza conduce in nome della civiltà, molto impopolare. Scardinare culturalmente la legge del taglione, richiede un salto mentale e un grande sforzo collettivo. Tuttavia oggi vedo uno spiraglio: le posizioni di intellettuali come quella di Sofri espresse su questo giornale si affiancano a film come quelli dei fratelli Taviani e di Matteo Garrone. E la scienza è con loro.

Repubblica 26.9.12
L’incrociatore dell’Ottobre rosso è un monumento nazionale, con un milione di visitatori all’anno Ora sta cadendo a pezzi nel porto di San Pietroburgo. Nella totale indifferenza delle istituzioni
Sos Aurora affonda l’icona della rivoluzione bolscevica
di Nicola Lombardozzi


SAN PIETROBURGO La Rivoluzione fa acqua, scricchiola, rischia di affondare miseramente proprio davanti al molo. I suoi cannoni sono ancora puntati verso la riva opposta della Neva, contro il Palazzo d’Inverno. Ma sono scarichi e arrugginiti, non fanno più paura. L’incrociatore Aurora, il simbolo dei simboli della Rivoluzione russa, la nave degli eroi che diede il via alla riscossa del popolo, marcisce in un’ansa del fiume di San Pietroburgo con le bandiere che sventolano e i turisti che la visitano come una tappa obbligata del loro pacchetto organizzato.
Dal 1987, da quando non fa più parte della Marina russa, l’Aurora attende ancora una manutenzione che per le navi “vere” va fatta ogni cinque anni. Ma la ditta comunale, che ce l’ha in carico insieme a statue, parchi e fontane del quartiere Posadskij, non ha
idea di come trattare una nave da guerra. Le “armature di fondo” e i sistemi anti incendio rischiano di cedere. Nel fondo dello scafo, i segnali sono inquietanti. Ma dicono poco allo strano equipaggio di tre bigliettai e una guida che indossano, solo negli orari di apertura al pubblico, una finta divisa da marinai. E che fanno un bell’incasso: un milione di visitatori all’anno con il biglietto che costa due euro e mezzo per i russi e sette e mezzo per gli stranieri. Per il comune è già stato molto doloroso rinunciare alle entrate garantite dall’affitto della nave agli oligarchi più capricciosi. Accadde che una sera del 2009 il miliardario Mikhail Prokhorov allestì sul ponte del sacro incrociatore una festa con giovani modelle, fiumi di vodka, e varie sostanze eccitanti. Lo sdegno dei comunisti e la riprovazione di mezzo mondo chiusero di fatto la parentesi dell’affitto a privati. Forse pentito, Prokhorov si offre adesso di acquistare l’Aurora e di restaurarlo a spese proprie. Ma il Comune non ci sta a perdere una così alta fonte di reddito e la cosa rischia di arenarsi.
Un peccato perché l’Aurora non è solo un simbolo bolscevico. Tra i pochi superstiti della disfatta di Tsushima contro i giapponesi nel 1904, la nave fu tra le prime ad accorrere a Messina dopo il terremoto del 1908 quando il suo equipaggio si distinse per i soccorsi alla popolazione. Vecchia e malandata dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale l’Aurora era in bacino a San Pietroburgo nell’autunno del 1917. La frequentazione tra marinai e operai dei cantieri, in quei giorni di furore politico, trasformò l’equipaggio in una cellula di entusiasti bolscevichi. Furono proprio i marinai a imporre al comandante di sparare il colpo che scatenò i rivoluzionari a terra dando il via alla presa del palazzo d’Inverno.
Ma non è tutto. Nel ‘41, carico di gloria e decorazioni, l’antiquato incrociatore fu trasformato in batteria antiaerea galleggiante nei giorni epici dell’assedio dell’allora Leningrado da parte delle truppe naziste. I cittadini che piansero vedendolo affondare sotto le bombe della Luftwaffe, esultarono entusiasti, qualche anno, dopo alla decisione di rimetterla a galla e ancorarla a simbolo eterno di una Marina indomabile. Simbolo che adesso rischia di colare a picco per colpa della burocrazia, degli interessi di parte, dell’incuria. Cause molto più letali delle bombe e delle cannonate.

Repubblica 26.9.12
Perché il testo biblico oggi è al centro di tanto interesse anche nella poesia, in teatro e nel senso comune
Qoélet. Il libro sulla vanità che piace in tempi di crisi
di Gustavo Zagrebelsky


Il figlio di Davide, re in Gerusalemme, non è un sistematico. Il suo linguaggio è a salti, pezzi e bocconi, aggiunte e contraddizioni. Tale composizione ha permesso agli interpreti di Qohélet di rispecchiare se stessi nel testo con molta libertà, piuttosto che rispecchiarlo. In quanto sfogo d’uno spirito radicalmente sfiduciato o deluso circa il vero, il giusto, il buono, circa tutto ciò che ha valore in sé, si è considerato questo piccolo libro (chiamato anche Ecclesiaste) un precursore dell’arte di vivere senza eccessi («non essere né troppo giusto né troppo malvagio»: 7,16) à la Montaigne o la testimonianza d’un disperato della vita (“voglio provare la gioia, ma a che giova?: 2, 2) à la Leopardi, per fare solo due nomi. Si è visto in lui un padre dello scetticismo, del nichilismo, della disperazione e, alla fine, dell’edonismo egoistico, come farmaco e rimedio al taedium vitae di Lucrezio e Seneca o allo spleen di Baudelaire. Ma l’esaltazione della vita, soprattutto giovanile, ha fatto pensare anche a un’apologia della gioia di vivere. Altri, nella denigrazione dei beni del mondo hanno visto un “antidoto all’idolatria” delle cose vane e brevi (E. Bianchi): oggi, il successo, il denaro, i prodotti della tecnologia. Queste sono più o meno arbitrarie interpretazioni attualizzanti. Qualcuno, seguendo Renan, vi ha perfino visto tratteggiato il profilo psicologico dell’Ebreo moderno, completamente secolarizzato e assimilato al mondo: una visione che può facilmente essere generalizzata. Ma, in fondo, ogni interpretazione è attualizzazione e riflette il volto dell’interprete nelle condizioni del tempo che è il suo. In quanto testo privo di certezze “ontologiche”, che colloca l’essere umano in uno spazio non governato dalla dura verità dell’essere divino che si rivela o che è rivelata, lo si è considerato espressione di “spirito laico”: lo spirito della ricerca e dalla sperimentazione pragmatica di “tecniche di sopravvivenza” materiale e spirituale. Oppure, infine, s’è parlato di “spirito d’attesa”, soggiacente all’esaltazione della vanità del mondo. Nel vuoto della vita e nell’insignificanza in cui siamo immersi, Qohélet ci fa sentire l’urgente bisogno di uno svelamento, di una “rivelazione”. Sarebbe un libro dell’attesa, quasi un’invocazione messianica. Finalmente, la denigrazione del mondo si può intendere come una spinta, una preparazione all’accoglienza di un mondo che verrà, un “mettersi sulla soglia” di qualche evento o avvento portatore di senso (P. De Benedetti). Questa è la pia interpretazione cristiana, già a partire dall’orazione “Vanitas vanitatum” di Giovanni Crisostomo: un’interpretazione che la svalutazione luterana del mondo e l’attesa della salvezza solo “per grazia” accentueranno.
Qui, non c’è da prendere posizione. Il testo è fisso, le parole sono ricche di significati e le interpretazioni sono libere. L’unica cosa che non si può negare è l’esistenza del filo conduttore, la vanità delle vanità che lega tutto il discorso, dall’inizio alla fine, in un moto circolare, che riproduce letterariamente la legge universale che muove in un circolo chiuso le cose del mondo, sotto il sole.
Un libro attuale?
All’epoca in cui fu il libro fu scritto (tra il III e il II secolo a. C.) dovette esserlo. Non mancano accenni polemici, oggi quasi incomprensibili, a vicende contemporanee. In generale, Qohélet è figlio del suo tempo, un tempo d’incertezze rispetto ai valori della tradizione, insidiati da influenze scettiche provenienti dalla cultura ellenistica, dal sorgere di sette fanatiche come quella degli Esseni, e da movimenti politico-radicali per la restaurazione della pura fede dei padri, senza che valori nuovi apparissero all’orizzonte: un tempo del “non più” e del “non ancora”. Qohélet reagisce con distaccata indifferenza, come i grandi scettici che additano nei piccoli piaceri l’efficace lenimento dei dolori d’una vita senza speranza.
E oggi? Se guardiamo al successo che il nostro testo incontra, e in misura crescente, nella letteratura esegetica, nella poesia, nel teatro, nella musica, nel senso comune che si è appropriato di tante espressioni di Qohélet, facendole sue e dimenticando la fonte; se diamo al giovanilismo odierno, alla paura dell’invecchiamento e agli esorcismi contro la morte il significato d’un marchio del tempo, al di là del loro aspetto grottesco e disperato, possiamo forse credere in Qohélet come filosofo per i nostri giorni, e fare nostra la parola di Ceronetti: qohéletite. Anche questo odierno incontro potrebbe essere un sintomo di qualcosa, come un’infezione dello spirito. Oppure, potrebbe essere il segno della speranza in qualcosa che deve nascere. Per capirne di più, occorrerebbe l’interrogazione, niente di meno, sui caratteri profondi dello spirito dell’epoca attuale, nel confronto con lo spirito cui Qohélet, ventidue secoli fa, diede voce.
Anche la saggezza di Qohélet è vana?
Di qohéletite si può morire. E anche morire percorrendo una strada di piacevolezze. Chi non ha sentito il fascino poetico delle potenti immagini che descrivono l’insignificanza dei giorni della vita “sotto il sole”? Chi non direbbe: è proprio così, so anch’io che è così? Le parole di Qohélet cadono su un terreno predisposto ad accoglierle. E chi non ha detto: prendiamo dalla vita, momento per momento, il piacere effimero che può dare, senza pensare al futuro? Anche a questo, il terreno è predisposto. E se poi Dio “ti convocherà in giudizio” (11,9), gli si potrà dire: ma proprio tu mi hai messo nella disperata condizione mortale e non mi hai detto come uscirne. Devo sì ricordarmi del mio creatore (12, 1), ma proprio perché me ne ricordo e so d’essere quello che hai voluto ch’io fossi, procedo così.
Condannami, se puoi!
Dunque, la voce di Qohélet è seducente. Ma è anche convincente? Egli si presenta spoglio d’ogni orgoglio e anche in questo consiste il suo potere seduttivo. Ma la sua è modestia solo apparente. Non dice: questo o quello è vanità, ma tutto, veramente tutto, è vanità, anzi è vanità delle vanità. In verità, qui non c’è modestia, ma massima prova d’orgoglio. È un mettersi al di sopra di tutto e di tutti. Ma quest’atto d’orgoglio troppo s’innalza e rovina su se stesso. Se tutto è vano, infatti, lo sono anche, e specialmente, le parole di Qohélet stesso. Se non sono vane, allora non è vero che tutto è vano e altro ci può essere che contraddice “non vanamente” quelle parole. Del resto, Qohélet, sulla sua “vanità” costruisce addirittura un’etica, l’etica del vano godimento della vita. In base a quale principio o autorità preminente può egli dire che tutto è senza valore, salvo ciò che viene detto da lui stesso? Si uscirebbe dalla difficoltà se si dicesse che il nostro testo non parla della “vanità” della vita, ma solo dei “vanitosi” che incontriamo nella vita: questi sì sarebbero vani e vuoti, ma tra questi potrebbe non esserci Qohélet stesso in quanto egli prenda le distanze (come in 7, 8) dalla vanità dei vanitosi. La vanità e la vuotaggine, allora, potrebbero non riguardarlo. Ma, per quanto le interpretazioni possano spaziare, una come questa varrebbe ad appianare le impervie vette del testo in una visione banalizzatrice, ma trascurerebbe il dato più evidente: Qohélet non si professa affatto diverso da tutti gli altri mortali; non si dichiara esente dalla legge generale della vanità della vita. Al contrario, anch’egli è completamente irretito nella vanità del mondo, nell’assurdità di tutte le vite che si svolgono sotto il sole, destinate a essere ugualizzate nella morte. Si considera un “pezzo” della generale insensatezza; anzi, un testimone autorevole di questa generale condizione.Non dobbiamo considerare quelle che precedono vane esercitazioni logiche. Dobbiamo invece respingere, come fallaci e tentatrici, tutte le affermazioni autoriflessive circa il valore (vero o falso, vano o non vano) delle affermazioni medesime. Esse sì sono insensate. Una proposizione non è vera o falsa perché tale è detta da chi la pronuncia. Occorrerebbe un fondamento, un criterio esterno. Orbene, potrebbe essere tanto che Qohélet abbia ragione quanto che abbia torto. Ma, per poter dire una cosa o l’altra, dobbiamo cercare la verità fuori delle sue parole. Non c’è verità in Qohélet.
C’è molta suggestione e poesia, autocompiacimento d’un animo depresso, ideologia – qohéletite – tipica d’un tempo di crisi. C’è nelle sue parole “fame di vento”. O, forse, c’è la generalizzazione d’un’esistenza individuale di fallimenti. Ma perché dovremmo concedergli l’autorità di parlare per tutti e per sempre, e condannare come insensata in generale la ricerca di qualcosa che vale, e come illusoria l’azione rivolta a costruire, nella vita individuale e in quella collettiva, qualcosa che vana non sia?

Corriere 26.9.12
Facebook, le foto e le parole svelate E se fosse l'apocalisse della privacy?
I dubbi sulla segretezza dei dati mentre la società cede in Borsa
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Prima i cambiamenti senza preavviso del confine tra pubblico e privato nelle pagine che ogni utente mette su Facebook. Poi la concessione agli inserzionisti pubblicitari di un accesso privilegiato ai profili degli utenti a fini commerciali. Accantonati con fatica quei contenziosi, ecco la battaglia estiva, combattuta soprattutto in Europa, per impedire alla grande rete sociale californiana di introdurre unilateralmente nel proprio sito il sistema di riconoscimento digitale dei volti. Con l'impresa di Mark Zuckerberg che alla fine fa marcia indietro e si impegna a non compiere alcun passo senza un accordo con le autorità della Ue. Due giorni fa, infine, il caso Timeline, con gli utenti di mezzo mondo che hanno accusato Facebook di aver trasferito improvvisamente e senza autorizzazione nelle loro pagine pubbliche gli scambi di messaggi privati del 2008 e del 2009.
Giorni difficilissimi per il gigante dei «social network», anche se quest'ultimo caso verrà probabilmente derubricato a banale malfunzionamento della propria piattaforma: un problema causato da un «bug», le cui conseguenze dovrebbero essere piuttosto limitate. Ma la realtà è che Facebook si trova nel bel mezzo di una vera e propria tempesta della «privacy» da esso stesso scatenato.
Fino ad un certo punto l'azienda concepita in un dormitorio di Harvard è andata avanti con spavalderia, certa che il suo miliardo di utenti avesse ormai un forte vincolo affettivo col suo sito e che, abituato ai vantaggi di un dialogo in rete senza barriere, fosse pronto a rinunciare a proteggere la riservatezza dei suoi dati personali.
Ma la sensibilità degli utenti è man mano cambiata per una serie di incidenti che hanno fatto scendere in campo prima le «authority» di garanzia, poi gli stessi esperti della rete, allarmati dalle forzature di una società che, per far soldi, ha bisogno di sfruttare (e quindi di rendere pubblico) l'enorme patrimonio di informazioni personali che ha raccolto.
La quotazione in Borsa di Facebook, da questo punto di vista, non ha giovato: Zuckerberg, percepito dagli utenti della rete, soprattutto i più giovani, come una sorta di «compagno di banco», è divenuto improvvisamente un «tycoon» di Wall Street. E mentre le quotazioni in Borsa precipitavano (ieri il titolo valeva ancora poco più di 20 dollari, circa la metà dei 38 del collocamento dello scorso maggio), la società ha cominciato disperatamente a cercare modi nuovi di far fruttare il suo capitale di dati. Anche perché le entrate pubblicitarie hanno continuato ad avere un andamento meno soddisfacente del previsto.
Ma con tutti i riflettori improvvisamente puntati addosso, per Facebook è diventato più difficile vendere le informazioni che possono consentire a una società commerciale di conoscere in profondità i comportamenti di ogni singolo consumatore.
Un campo nuovo e promettente è proprio quello del riconoscimento dei volti. Col suo enorme archivio fotografico (300 milioni di immagini scaricate ogni giorno) e senza più nemmeno la concorrenza di Instagram (comprata qualche mese fa), Facebook è ormai in grado di riconoscere ed «etichettare» i volti che compaiono su tutte quelle immagini grazie al software di Face.com, una società israeliana che Zuckerberg ha acquistato tre mesi fa. Per la società si aprono nuove praterie inesplorate: il riconoscimento facciale può essere usato, ad esempio, per «schedare» tutti i clienti che entrano in un supermercato e per setacciare i loro acquisiti.
Ma è evidente che qui si entra in un campo delicatissimo dal punto di vista dei diritti individuali e anche della sicurezza. Dopo i primi esperimenti, Facebook ha messo il sistema in «stand-by» in attesa di perfezionarlo, ma nel frattempo è scoppiata la tempesta in Europa. La società Usa ha provato a resistere, ma si sono aperti troppi fronti, dalla Germania, all'Irlanda, alla Norvegia: Zuckerberg alla fine ha accettato di sottomettere il suo sistema di riconoscimento all'Unione Europea. Non può permettersi rotture, visto che da quest'area proviene un terzo del suo fatturato pubblicitario.
Negli Usa, dove la «privacy» è meno tutelata, si muoverà più liberamente, ma anche qui Congresso e società civile stanno cercando di mettere una serie di paletti.