lunedì 1 ottobre 2012

La Stampa 1.10.12
La nuova corsa al centro
di Marcello Sorgi


Contrariamente a quel che gli chiedono due su tre dei suoi principali alleati, Mario Monti non deve affatto chiarire le sue vere intenzioni, né candidarsi alle prossime elezioni, in alternativa a Bersani (se vincerà le primarie del Pd) e a Berlusconi (se alla fine sceglierà di scendere di nuovo in campo). Dopo quel che ha detto a New York tre giorni fa, il presidente del Consiglio, per fare il bis a Palazzo Chigi, deve solo continuare a governare, limitando allo stretto necessario, come fa sempre, le sue esternazioni.
Quando è all’estero - e gli capita sovente, viste le dimensioni globali della crisi -, Monti, si sa, parla soprattutto ai suoi interlocutori stranieri e ai mercati, che gli chiedono sempre cosa sarà dell’Italia dopo di lui. In questo quadro, è bastato che dichiarasse la sua disponibilità a restare al suo posto anche dopo le elezioni del 2013, per provocare un terremoto politico dalla portata imprevedibile.
Basta solo rivedere cosa è successo nei fatidici tre giorni seguiti all’intervento al Council of Foreign Relations. A cominciare dalla novità di Montezemolo, che dopo un’attesa durata troppo a lungo, ha sciolto finalmente la sua riserva. E invece di scendere in campo in prima persona, ha deciso di schierarsi per il bis dell’attuale premier. Già prima che il presidente della Ferrari si pronunciasse, tuttavia, lo schieramento centrale che punta a un rassemblement dei moderati a sostegno di Monti era nato e cresciuto, e da ieri si presenta piuttosto affollato.
Quando Casini, il 7 settembre, aveva cominciato a dire chiaramente che non c’era altra strada, più di uno aveva arricciato il naso. Anche la fondazione «Italia futura», che fa capo a Montezemolo, aveva criticato l’accelerata centrista, in mancanza di un vero rinnovamento del personale politico. Ma adesso, dopo la disponibilità manifestata da Monti, sono in tanti a prendere atto che aveva ragione Pierferdy, e con il mestiere politico che tutti gli riconoscono, aveva colto subito il mutar del vento.
Così che oggi lo schieramento montiano può contare su Fini, sul suo Fli e sui nuovi movimenti di Oscar Giannino e Ernesto Auci. Altri probabilmente verranno nei prossimi giorni. E c’è perfino chi si chiede cosa succederebbe se Renzi, battuto nelle primarie, dovesse tuttavia raggiungere un risultato che gli consenta di influire sulla linea del Pd.
Quelle, simmetriche, di Bersani e Alfano, sono infatti al momento le resistenze che minacciano di ostacolare il successo dell’operazione. Dato che si tratta di posizioni meditate, conviene analizzarle e approfondirle: perché si tratta certamente di atteggiamenti coincidenti, ma frutto di percorsi diversi. Non va dimenticato che Bersani, oltre ad essere impegnato nelle primarie - e quindi impossibilitato, come possibile candidato premier, a farsi da parte in favore di Monti -, aveva già rinunciato a novembre 2011 a elezioni anticipate che lo avrebbero visto favorito e avrebbero colto Berlusconi nel suo momento più basso. Quindi il «no» del leader del Pd al bis è meditato e in qualche modo obbligato.
Il quadro del Pdl invece è differente. Pur sapendo che è impossibile, Alfano sfida Monti a candidarsi alle elezioni, e non esclude che il Pdl possa appoggiarlo. Sotto sotto, questo è il retropensiero di Berlusconi, che non a caso, seppure sollecitato dal suo partito, aspetta a dirsi pronto a riscendere in campo. Magari alla fine lo farà: ma se Monti, come ha fatto già capire, dovesse dichiarare che è disponibile a restare, se anche la larga maggioranza che lo sostiene sarà confermata, c’è da giurare che l’atteggiamento del Cavaliere potrebbe cambiare.
Stiamo insomma assistendo a una sceneggiata. Il leader del Pd e quello del Pdl sanno benissimo che una parte dei loro elettori non vogliono né il bis né restare alleati di quelli che considerano i loro avversari. Ma sanno altrettanto bene che gli toccherà farglieli digerire dopo il voto. Adesso è il momento dei sogni. Dopo verrà l’ora di fare i conti con la realtà.

Corriere 1.10.12
Fioroni
«Il premier trovi il modo di candidarsi e sia il ponte tra Bersani e i moderati»
di Monica Guerzoni


ROMA — Montezemolo ha deciso di «guidare la macchina dai box», come dice Bersani?
«No, ha deciso con molta serietà di affidare la macchina del Paese a Monti. La dichiarazione di disponibilità del premier è un dato positivo, ma serve un passo in più».
Onorevole Beppe Fioroni, il premier è senatore a vita, non si può candidare...
«Per questo mi auguro che faccia un altro regalo all'Italia, trovi cioè prima del voto i modi e le forme che ritiene opportuni per essere presente alle prossime elezioni».
Monti leader di un'alleanza?
«Il Monti bis ci sarà solo con un passaggio democratico e non grazie all'inciucio di una legge elettorale che non consente a nessuno di vincere. Mi auguro che Monti diventi il punto di riferimento per tutti quegli italiani che, delusi dalle scelte populistiche di Berlusconi, non vanno più a votare».
Tifa per la lista Monti?
«Penso a quell'area moderata che ha bisogno di trovare una sintesi armonica, perché composta da tanti solisti capaci, però privi di un direttore d'orchestra».
Il problema è che Bersani non la pensa come lei. Cosa farà il leader del Pd? Sosterrà Monti o correrà alle primarie con Vendola?
«Prima dei veti e dei diktat di Vendola, Bersani aveva delineato con chiarezza l'alleanza tra riformisti e moderati per cambiare assieme l'Italia».
Ora però Vendola non vuole stare con Casini, e viceversa...
«Il Pd non può essere prigioniero di Vendola, che per partecipare alle primarie ci chiede contemporaneamente di rinunciare all'accordo con i moderati e di pronunciare un'abiura sul nome di Monti. La novità è la metamorfosi di Matteo Renzi, che ha tirato fuori un dirompente antimontismo. E questo è grave, perché le primarie decideranno il candidato premier e le alleanze».
Teme per la tenuta del Pd?
«Arroccarsi in una posizione antimontiana ci fa correre il rischio del 1994 e della gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Non possiamo dire che non ci alleeremo mai coi moderati e che siamo contrari all'agenda Monti».
Antonio Polito suggerisce a Renzi di lasciare a Monti, in caso di vittoria alle primarie e alle politiche...
«Qui non servono colpi di teatro, ma il buon senso di costruire un ponte verso il futuro che veda insieme Monti, Bersani, i riformisti e i moderati. Non farlo sarebbe un errore. Premesso che qualunque scelta dovrà essere frutto di una coalizione politica, saranno le elezioni a stabilire se il capo del governo sarà l'attuale premier oppure Bersani, l'unico del Pd che è legittimato a farlo in quanto capo del primo partito».
Sta chiedendo a Renzi di fare un passo indietro, o a Bersani di rinunciare alle primarie?
«Tanti candidati alle primarie si dovrebbero rendere conto che pensare di sostituire Monti, con Monti in campo, è una cosa molto complessa. Chiedere agli elettori di scegliere tra un'Italia governata da Monti e un'Italia governata dal coraggio dell'incoscienza è come sintonizzarsi su Scherzi a parte».
Bersani è nell'angolo, come ne esce?
«Il 6 ottobre c'è l'Assemblea nazionale e le cose da fare sono chiare. Renzi sottoscriva il programma del Pd, che anche lui ha votato. E Vendola firmi una stringente carta d'intenti e un programma compatibile, senza pregiudiziali sulle alleanze con i moderati. Altrimenti tanto vale che il Pd vada da solo e faccia il congresso, invece delle primarie. Perché con questa tipologia di soggetti la gente non ci capisce».
Con quale stato d'animo voterà alle primarie?
«Spero che Monti in campo convinca tutti a riflettere. Il mio terrore è che il secondo turno delle primarie faccia esplodere la conflittualità tra un'area che ricorda la sinistra di tanti anni fa e un'altra, che ricorda la vecchia Forza Italia».
Teme la scissione?
«Il rischio è una implosione del Pd, che costringa una parte a fare altre scelte. Renzi non può dire "chi vince impone il programma", perché se in una coalizione c'è chi impone, agli altri non resta che andarsene».

Repubblica 1.10.12
Fassina: “Con lui poteri forti non c’è solo la sua agenda”
I poteri forti sono per un governo di larga coalizione condizionato da Berlusconi


Stefano Fassina i supermontiani li capisce: «Il Professore è una persona seria, il suo impegno per il Paese è emerso in netto contrasto con il livello infimo di credibilità raggiunto da Berlusconi». E però, il responsabile economico del Pd crede che dietro la corsa a Monti ci sia una ragione più preoccupante.
«La convinzione che l’agenda Monti sia l’unica agenda possibile in quanto frutto di un pensiero unico. Invece, l’agenda mercantilista che prevale nell’eurozona sta portando all’aumento del debito pubblico, a un aggravamento della recessione e della disoccupazione».
«Una parte dei poteri più forti di questo Paese spera in un governo di larga coalizione condizionato dal centrodestra berlusconiano, per evitare di contribuire ai costi dell’aggiustamento che l’Italia è chiamata a fare».
«Credo che tutti coloro che sono nel Pd accetteranno il risultato delle primarie. Poi, bisogna che tutti guardino ai fatti laicamente: l’anno prossimo avremo un debito pubblico più elevato di quello del 2011. Il saldo strutturale - che Monti ha richiamato come indicatore di successo per il 2013 - è inferiore a quello che il ministero dell’Economia aveva previsto nel 2011. Dopo la profonda recessione di quest’anno, lo saremo ancora l’anno prossimo. La disoccupazione, soprattutto giovanile, avrà fatto un balzo di diverse centinaia di migliaia di uomini e donne. Per questo noi proponiamo un’agenda progressista, contro l’avvitamento austerità recessione

Repubblica 1.10.12
Perché votare Un dilemma italiano
di Ilvo Diamanti


VOTARE per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma.
Amplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti, che ha confermato l’intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l’ipotesi di «dare una mano, se fosse richiesto ». Per proseguire nell’impegno avviato da quasi un anno. Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato, infine, la sua “discesa in campo”. A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto un “cartello elettorale”. Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire – come premier al di sopra delle parti e dei partiti.
Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale.
Investito dalla volontà di un’ampia maggioranza del Parlamento. L’idea, d’altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la “disponibilità” annunciata da Monti si traduca in decisione. Ma il fatto stesso che l’ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D’altronde, l’unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell’elettorato (dati Ipsos). Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.
Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto “non serve” a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che “serve” votare? E com’è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?
Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale – e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra “anomalia”.
In fondo, per quasi cinquant’anni il sistema politico italiano è apparso “bloccato”. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un “bipartitismo imperfetto”, per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l’opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte. Questa “anomalia” è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant’anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire. Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l’80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali.
Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.
Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l’anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi. Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I
Partiti, nell’insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa – partecipazione e governo – possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento “antipartitico” e sostiene, in alternativa all’attuale sistema, la democrazia diretta – attraverso
rete.
Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell’area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i “canali” della rappresentanza democratica.
Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione – elettorale – e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica “in un cerchio chiuso in se stesso”, come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso, “la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio”. E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.

l’Unità 1.10.12
Il problema grave delle primarie è che le fa solo il Pd
C’è una grande domanda di partecipazione e di politica. Ma non ci sono risposte di sistema
di Carlo Buttaroni
, presidente Tecné

Voterò alle primarie della sinistra dando la mia preferenza a Matteo Renzi (...). Se alla fine Renzi risulterà vincitore, alle prossime elezioni voterò per il Pd; se i vincitori saranno Bersani o Vendola me ne guarderò bene.(...)? È scandaloso tutto ciò? In molti ritengono di sì.(...). Eppure, quel diritto io ritengo di possederlo». Sofia Ventura, giornalista ed editorialista, è l’autrice dell’articolo uscito sul Foglio da cui è tratto il virgolettato. Un articolo che ha fatto discutere, perché la Ventura è un’intellettuale di destra e interpreta un sentimento diffuso tra gli elettori della sua area politica. Un elettorato, per molti versi, orfano di leader e partiti capaci di perimetrare un campo politico, che intende partecipare alle primarie del centrosinistra anche per sopperire alla sensazione d’impotenza che nasce dal non poter compiere una scelta analoga all’interno della loro area.
Non sono pochi, infatti, gli elettori di destra che la pensano come la Ventura, delusi della degenerazione che ha segnato il crepuscolo berlusconiano, e da cui lo stesso Berlusconi sembra prendere ora le distanze. Alcuni di questi si stanno attivando per partecipare, in modo organizzato, alle primarie del centrosinistra. Non per inquinare la competizione, come alcuni temono, ma semplicemente per dire la loro.
La Ventura si chiede se questo comportamento sia scandaloso. E la risposta, sotto questo punto di vista, non può che essere negativa. Non è scandaloso perché questo tipo di scelta non prefigura una categoria morale. Semmai, ciò che occorre chiedersi è se è legittimo. È possibile, cioè, che un partito scelga il proprio leader e la propria politica, con il contributo, magari decisivo, di chi la pensa diversamente, tanto da collocarsi su un campo politico opposto? E se gli elettori di destra contribuiscono a scegliere il leader della sinistra (e viceversa) non c’è il rischio che, alla fine, i leader somiglino sempre meno agli elettori che sono chiamati a rappresentare? Non sarebbe più corretto, invece, che fossero espressione d’idee e valori che interpretano la società nello stesso modo e guardano il futuro con le stesse ottiche, trovando forma compiuta in un progetto politico? Non sarebbe più giusto che un progetto politico ottenga il consenso anche di elettori di destra ma solo dopo la sua nascita, al momento del voto politico, anziché alle primarie? Sono queste le domande che solleva l’intervento di Sofia Ventura. Sarebbe stato del tutto normale se avesse annunciato il suo voto al Pd nel caso di vittoria di Matteo Renzi. Ma annunciare il contrario, cioè di votare alle primarie Renzi e, solo in caso di successo di quest’ultimo, il conseguente voto al Pd, non ha nulla a che fare con la dimensione morale, ma apre la discussione sul funzionamento di un sistema che ambisce a governare i processi politici e che fonda la legittimità delle azioni sulla dialettica democratica e sulle scelte che ne conseguono.
LEADERSHIP E DEMOCRAZIA
Certo è che il ragionamento della Ventura è espressione di una visione individuale della partecipazione, dove tutto è trasferito al leader e dove tutto si risolve nell’esercitare il voto. Mentre nel mezzo c’è l’entropia che si alimenta del nichilismo di un pensiero debole, che ha messo in dissolvenza la forza della partecipazione collettiva e della rappresentanza sociale, che caratterizzavano le organizzazioni politiche di massa del Novecento. Al posto delle visioni totalizzanti, figlie d’ideologie immutabili, si è affermato il loro contrario: un palinsesto simbolico perennemente provvisorio che si è nutrito di politiche fast food, dove sono contati gli aggettivi anziché i sostantivi. Non a caso “nuovo” è stata la parola evocativa della Seconda Repubblica. A prescindere da ciò che doveva qualificare, e senza sottintendere né cosa, né come, sarebbe stato realmente il “nuovo”.
Se le prossime primarie del centrosinistra e del Pd devono rappresentare una svolta anche in questo senso e non limitarsi a offrire l’occasione per scegliere il leader del partito o della coalizione occorre un cambio di prospettiva. Perché la vera cifra del rinnovamento non la restituisce il tasso di ricorso alla società civile (che per sua natura non è né buona né cattiva), o lo stato anagrafico dei leader e degli staff ma la qualità delle idee e dei pensieri. Cioè, la politica e la declinazione delle sue azioni. È sotto questo punto di vista che le parole della Ventura pongono più domande di quante siano le risposte. Perché prima ancora di quali leader, bisogna chiedersi quali politiche. E poi quali partiti. E ancora quale organizzazione interna deve trovare corpo in un processo di selezione delle leadership. Solo così le primarie hanno un senso partecipativo non ambiguo rispetto a un modello di partito, a un’idea di società, a una visione politica più generale.
È qui il punto fondamentale che riguarda le prossime primarie del centrosinistra. Perché in gioco c’è anche la capacità di dar vita a processi di democrazia interna orientati a una logica unitaria, governati da un soggetto politico che vuole mantenere il suo carattere di attore organizzativo. E che nel fare questo assume le primarie come uno strumento consapevole della propria strategia di rapporto con un’area politica che ha pensieri e visioni comuni.
Le primarie finora hanno assolto efficacemente alla funzione di restituire una legittimazione alle leadership che il circuito interno non avrebbe potuto garantire, di sollecitare una mobilitazione che i tradizionali canali non sarebbero stati in grado di attivare. Ma, oggi, questo non è più sufficiente. E ciò che è la forza delle primarie rischia anche di essere il suo limite, nel momento in cui l’arena competitiva deregolata rischia di far degenerare le primarie da strumento democratico di un’area politica (che conserva la propria identità e il proprio profilo), a un campo su cui si scaricano le tensioni interne ed esterne, che riflettono la crisi più generale di sistema. Perché mai, altrimenti, elettori convintamente di destra, dovrebbero scegliere un progetto e un leader dello schieramento opposto?
IL RUOLO DEI PARTITI
Il modo migliore per cercare delle risposte a questa domanda è chiedersi se il ruolo che i partiti hanno storicamente svolto, oggi sia effettivamente esaurito, o se piuttosto non debba, in qualche modo, essere ripreso e reinterpretato. E le risposte non possono che essere in questa seconda opzione. Seppur in forme completamente diverse dal passato, il Paese ha bisogno di partiti dotati di un’ampia base associativa, capaci di riprendere tutte le funzioni che storicamente hanno svolto, come l’aggregazione e l’integrazione degli interessi sociali, il reclutamento del personale politico, l’integrazione sociale, la mobilitazione e la partecipazione, la formazione delle politiche pubbliche. Alcune delle ragioni che hanno portato al deficit attuale di queste funzioni sono storiche, altre contingenti. Ma tra le cause vi è anche il progressivo disgregarsi dei legami organizzativi.
Si può anche ritenere irreversibile un sistema politico, come quello attuale, che guarda con diffidenza al livello di competenza dei cittadini. Ma se si vuole invertire la direzione di marcia che ha condotto i partiti a svolgere un ruolo prevalentemente elettorale, allora anche le primarie devono essere declinate diversamente. Ed è in questa prospettiva che il ragionamento della Ventura non troverebbe spazio. Perché gli elettori del centrodestra dovrebbero aspirare alle loro primarie. Ed è paradossale che ciò non sia ancora avvenuto, perché la Ventura e con lei quanti pensano che la destra in Italia abbia un futuro da incontrare ha tutto il diritto
di scegliere un leader e un progetto politico. Affinché le primarie siano la leva di un rinnovamento effettivo del sistema occorre che tutti i partiti non solo il Pd o il centrosinistra – iscrivano nel proprio dna le regole della partecipazione democratica. E per fare questo è necessario che la politica riprenda il suo ruolo, perché senza politica non ci sono campi su cui investire, ma solo leader da legittimare.

l’Unità 1.10.12
Regole uguale boicottaggio: strana idea di democrazia
di Michele Prospero


ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA DENUNCIA NEL PD UNA CONGIURA DEGLI APPARATI CONTRO UN SIMPATICO GIAMBURRASCA CHE HA IL VOLTO DI MATTEO RENZI. La sua tesi è che, in vista delle primarie, «il predisporre un sistema di regole equivale a un boicottaggio» del sindaco. Che le regole non gli piacciano è noto. Lo storico auspica infatti da tempo l’accensione di una risorsa carismatica che preferisce luoghi fluidi, momenti di incantamento senza argini, situazioni di incertezza in cui ogni coinvolgimento emozionale può esplodere.
Perciò Della Loggia attacca come usurpatori chi costruisce griglie per le primarie ed esalta invece quali paladini della libertà chi respinge ogni garanzia.
Nessuna organizzazione complessa segue però la sua miscela anarchico-carismatica e per ben funzionare preferisce dotarsi di procedure. Quando Galli della Loggia si cimenta con la questione delle regole è sempre originale.
Qualche mese fa recuperava a sproposito la categoria di Carl Schmitt di «stato di eccezione», ovvero di sospensione in nome dell’emergenza di ogni regola costituzionale, per inquadrare la condotta del capo dello Stato. Dopo aver assaporato l’inferno sulla terra repubblicana dominata dall’eccezione (solo immaginaria) imposta dal Quirinale, Della Loggia si rivolgeva al cielo per dettare almeno lì delle ottime regole da utilizzare per l’elezione del vicario di Cristo.
E, dall’alto della sua ingegneria teologica comparata, partoriva la ricetta miracolosa per la designazione del papa: il doppio turno. Per le cose del cielo, il doppio turno gli pareva un congegno sfiorato dalla grazia che orienta verso il bene. Abbandonato il regno celeste e tornato sulla terra, Della Loggia trova però peccaminosa la pretesa del Pd di svolgere le primarie con il metodo del doppio turno.
«Nelle segrete stanze del Pd», una mano assassina prepara la congiura. E infatti per boicottare il sindaco affiora «la rabbia partigiana dei vecchi leoni delle oligarchie» che, guarda un po’, per linciare l’indifeso Renzi mutano lo statuto che non consente altre candidature oltre quella del segretario. Sempre per rovinare Renzi, il Pd pensa persino di modificare la legge che impone le dimissioni dei sindaci sei mesi prima delle consultazioni politiche. Non contento di corteggiare il ridicolo con la sua arte del sospetto, per cui dietro ogni regola opera «qualche intenzione poco chiara», Della Loggia afferma che, per dissipare ogni dubbio, ci vorrebbe una competizione ad un solo turno che aggiudica la vittoria a chi, tra molte, ormai troppe, candidature si piazza per primo, con qualsiasi percentuale. Per non meritare l’epiteto di usurpatore, nessuno deve quindi invocare lo stesso canone usato dai socialisti francesi, imbroglioni che si avvalgono di «una regola capestro».
La preoccupazione politica di conferire il mandato di leader della coalizione a chi ottenga la maggioranza dei votanti per Della Loggia è scandalosa. Lo vada però a raccontare ai partiti americani se non conta nulla conquistare la maggioranza dei consensi in una estenuante battaglia interna. E chieda pure se è consentito a un elettore repubblicano votare nelle primarie democratiche.
Solo a uno storico metafisico verrebbe in mente di celebrare le primarie senza neppure avvalersi di liste predefinite ma di fogli del tutto elastici, aperti tra un turno e l’altro ad ogni passante casuale. La snodata democrazia dei curiosi che Della Loggia auspica contro ogni «albo pubblico» urta però contro la certezza del corpo elettorale che in nessuna istituzione può fluttuare in maniera arbitraria. Il corpo elettorale è un dato, non una costruzione in divenire. Altrimenti il gioco è falsato.
Ogni competizione per essere valida deve postulare la conoscibilità dell’universo coinvolto. E anche il popolo delle primarie, non essendo una entità ontologica, altro non può essere che una costruzione operata dalle regole che definiscono i criteri per il voto. È del tutto insensato denigrare un albo pubblico predefinito degli elettori come istigazione al boicottaggio di Giamburrasca. È forse un boicottaggio impedire a quelli di Casa Pound di decidere le sorti della Sinagoga o ai seguaci di Borghezio di orientare la vita di una Moschea?

l’Unità 1.10.12
Primarie, 20mila firme e doppio turno
Si delineano le regole da sottoporre all’Assemblea Pd di sabato
a cominciare dalla deroga che permetterà a Renzi di candidarsi. Per votare sarà necessario sottoscrivere la carta valoriale. Tetto alle spese: 250mila euro
di Simone Collini


Ventimila firme per candidarsi. Una sola, a sottoscrizione del «Manifesto per l'Italia», per poter partecipare. La consegna di una tessera elettorale di «sostenitore del centrosinistra» che dà diritto a votare, come strumento per evitare infiltrazioni di «Batman» vari. E il doppio turno, nel caso nessuno sfidante ottenesse il 50% dei consensi, per poi andare alla partita per Palazzo Chigi con una forte investitura popolare. Sabato l'Assemblea nazionale del Pd metterà ai voti le regole per le primarie da cui uscirà il candidato premier della coalizione dei progressisti. Per essere approvate, il parlamentino democratico dovrà essere in numero legale, dovranno cioè votare la metà più uno dei membri elettivi (sono in tutto poco meno di mille). E in queste ore dal Nazareno è partita non solo una selva di telefonate per garantire quante più presenze possibili, ma anche un'opera di convincimento nei confronti di quanti (soprattutto tra i «Democratici davvero» di Bindi e gli ex-ppi che fanno capo a Fioroni) sono tentati di far mancare il quorum per fermare sul nascere una sfida ai gazebo che ritengono più dannosa che utile.
Una parte delle norme da approvare riguarda soltanto il Pd: si voterà una misura transitoria che consentirà a Matteo Renzi di correre (in pratica una deroga allo Statuto che prevede sia soltanto il segretario a poter partecipare alla sfida per la premiership), più una norma per evitare il moltiplicarsi incontrollato di candidature (per scendere in campo bisognerà incassare 300 firme tra i membri dell'Assemblea o il 3% di sottoscrizioni tra gli iscritti al Pd, che sono poco più di 600 mila). Ma sabato, nella riunione convocata all'Hotel Ergife di Roma, si dovrà anche dare mandato a Bersani, Renzi ed eventuali altri candidati del Pd di andare a trattare con gli altri sfidanti in campo (verosimilmente Vendola e Tabacci) per andare alle primarie con norme condivise.
La proposta che verrà fatta dal fronte bersaniano prevede il doppio turno (e quindi si dovrebbe votare il 25 novembre con eventuale seconda chiama il 2 dicembre) per evitare il ripetersi di situazioni come quelle registrate alle primarie di Napoli o di Palermo, la possibilità di far votare sedicenni e stranieri (era così anche nelle precedenti consultazioni, come fa notare il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo rispondendo all'editoriale del Corriere della sera di ieri), un tetto alle spese della campagna (250 mila euro) e, per poter votare ai gazebo, la sottoscrizione di un manifesto «Per l'Italia bene comune» che sarà in pratica la carta valoriale con cui la coalizione dei progressisti andrà alle elezioni di primavera. Chi firmerà questo documento, che verrà poi pubblicato on-line insieme ai nomi di chi lo ha sottoscritto, riceverà una tessera elettorale di «sostenitore del centrosinistra» che darà diritto a votare alle primarie. Entrambe le pratiche si svolgeranno il giorno della consultazione ai gazebo.
Con questo viene definitivamente archiviata l'ipotesi di dar vita a un albo pubblico a cui registrarsi nei giorni precedenti le primarie, fermamente contrastata dal fronte pro Renzi, ma è tutt'altro che detto che all' Assemblea nazionale di sabato ci sia un via libera con ampia maggioranza. Roberto Reggi, che parteciperà all'appuntamento (il sindaco di Firenze il prossimo fine settimana si muoverà tra la Calabria e la Puglia), fa sapere che «non c'è motivo per cambiare le regole osservate fin qui». Doppio turno e diritto a votare per chi sottoscrive il manifesto e prende la tessera elettorale sono però norme che, stando a preliminari contatti, sono condivise anche da Sel e Api. Renzi dice di fidarsi di Bersani e del fatto che «il Pd saprà cogliere l'occasione per allargare i suoi confini». Bersani spiega che le norme «non sono contro Renzi ma contro Batman (Fiorito, ndr) e le sue 30 mila preferenze». A metà mese verranno coinvolti anche Vendola e Tabacci, ma intanto sabato ci sarà la prima conta.

Corriere 1.10.12
Bersani: le regole non sono anti Renzi
Primarie, il segretario respinge le critiche. Il sindaco: allargare i confini
di M. Gu.


ROMA — Pier Luigi Bersani non ha paura di «Gianburrasca», non teme che Matteo Renzi possa portargli via il partito o sedersi, al posto di Mario Monti, sulla poltrona di presidente del Consiglio. Dalla prima pagina del Corriere di ieri Ernesto Galli della Loggia si è detto stupito per «il tentativo di boicottare in tutti i modi» la candidatura del sindaco di Firenze, con un sistema di regole che il politologo giudica «fatte apposta» per ostacolarne la vittoria. Una interpretazione che il segretario, chiudendo a Lamezia Terme la conferenza nazionale del Pd per il Mezzogiorno, ha respinto con forza, sdegnato e offeso: «Non tollero che, se mettiamo le regole, diventino contro Renzi... Io piuttosto sono contro Batman e le sue trentamila preferenze».
E poiché si è stufato di sentirsi chiedere se davvero non si è pentito di aver aperto la competizione a uno sfidante interno, il leader dei democratici affida a una battuta il suo stato d'animo: «Non ci sto a passare per il buono e anche un po' coglione». Perché lui la sfida che lo attende non la vede a tinte fosche, bensì «positivamente», convinto com'è che «se non le avessimo fatte staremmo mangiando pane e primarie tutti i giorni sui giornali» e che, il lunedì dopo i gazebo, sarà lui a cantar vittoria: «Potremo dire che non ci ammazza più nessuno... C'è bisogno del Pd, basta autoflagellazione».
Bersani che sprona i suoi alla riscossa. Bersani che promette di «far girare la ruota» al congresso del 2013, lasciando finalmente spazio ai giovani. Non è di Gianburrasca insomma, che il segretario ha paura. E non è dunque per fermarne la corsa di Renzi verso Palazzo Chigi che gli «sherpa» del leader stanno modificando le regole delle primarie 2005, quando Romano Prodi fu incoronato leader dell'Unione. «Un minimo di regole — chiede Bersani, confermando l'idea di un albo degli elettori —. Io ti cedo sovranità, tu dimmi chi sei». L'idea del registro dei progressisti non piace però a Renzi, il quale ieri è approdato in camper a Grosseto e ha riempito le mille sedie del Teatro Moderno: «Io mi fido di Bersani e del fatto che il Pd sappia cogliere l'occasione delle primarie per allargare i propri confini». Un modo diplomatico per dire no all'albo e a qualunque altra norma che rischi di restringere la platea degli elettori. Ma poiché il segretario vuol togliere al sindaco ogni argomento che possa rivelarsi un boomerang, al tavolo delle regole Maurizio Migliavacca spinge perché gli elettori si registrino il giorno stesso del voto e non una settimana prima.
Resta la grande paura di «Batman». Il timore cioè che dirigenti del centrodestra provino a condizionare l'esito delle primarie. «Io sono napoletano — racconta Marco Di Lello, al tavolo delle regole per i socialisti —. E vorrei evitare che si ripeta a livello nazionale quel che accadde alle primarie per il sindaco della mia città, quando ci furono fenomeni di infiltrazione malavitosa». Tanto che Bersani vorrebbe far votare al secondo turno solo gli elettori che si sono iscritti a tempo debito e hanno partecipato alla prima fase della competizione. «Non vedo perché dovrei consentire al Pdl di scegliere il mio candidato alla guida del Paese», spiega ancora Di Lello. Per partecipare si verserà un obolo, probabilmente tre euro: una cifra pensata per evitare le file di cinesi «prezzolati», come qualcuno denunciò a suo tempo. Sulla quantità di firme per potersi candidare, Nichi Vendola chiede di abbassare la soglia e l'asticella dovrebbe fermarsi a ventimila, raccolte in almeno dieci regioni.

Corriere 1.10.12
La religione nelle scuole e le responsabilità dello Stato
risponde Sergio Romano


Il ministro Profumo fa una proposta davvero singolare. Sostiene che, poiché ci sono molti immigrati, bisogna modificare l'ora di religione. È esattamente vero il contrario. La società di oggi vive di diversità e si arricchisce con esse. Nel momento in cui un popolo rinuncia alle sue tradizioni viene meno alla sua identità.
Delio Lomaglio, Napoli

La proposta del ministro Profumo contro l'ora di religione cattolica, perché ormai la scuola è multietnica, è certo tra le migliori che siano venute fuori dal governo dei tecnici. Che l'Italia debba uscire dall'asfissiante tutela che la Chiesa cattolica esercita ancora in fatto di educazione religiosa, è il pio desiderio dei laici veri, che non hanno mai gradito che l'insegnamento della religione fosse stato appaltato alla gerarchia ecclesiastica cattolica. Nonostante la Costituzione, la revisione del Concordato del 1929 firmata da Craxi nel 1984 e le sentenze della Corte di Strasburgo che mettevano in discussione la liceità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, l'insegnamento della religione (cattolica) resta ancora appannaggio dei vescovi che nominano i loro insegnanti, pagati però coi soldi dello Stato. È una furbata dalla quale si dovrebbe finalmente uscire, sicché lo Stato dovrebbe esso provvedere all'istituzione di una disciplina come «storia delle religioni», insegnata da docenti nominati dallo Stato stesso e non dai vertici di qualsiasi gerarchia religiosa.
Paolo Fai

Cari lettori,
L' insegnamento della religione cattolica è previsto dal secondo comma dell'art. 9 del nuovo Concordato, firmato il 18 febbraio 1984, ed è regolato da un protocollo addizionale in cui si legge che «nelle scuole materne ed elementari detto insegnamento può essere impartito dall'insegnante di classe, riconosciuto idoneo dall'autorità ecclesiastica, che sia disposto a svolgerlo». Ma il ministro della Pubblica istruzione ha fatto bene a constatare che la società italiana è alquanto cambiata e che quelle norme andrebbero riviste. I musulmani che vivono in Italia sono circa un milione e mezzo, gli ortodossi (romeni, ucraini, bielorussi) superano il milione; e lo Stato nel frattempo ha firmato intese concordatarie con i rappresentanti di tredici culti fra cui i valdesi, gli avventisti del Settimo giorno, gli ebrei, i luterani, gli ortodossi, i buddisti e gli induisti. È giusto che in un Paese ormai pluriconfessionale la sola religione insegnata nelle scuole sia quella cattolica e il suo insegnamento sia monopolio delle diocesi vescovili della penisola? So che la scelta dell'ora di religione è facoltativa, ma l'autorità della Chiesa, insieme a quella combinazione di pigrizia e conformismo che caratterizza la religiosità italiana, la rendono di fatto semi obbligatoria. Credo che alla scuola italiana, in queste circostanze, convenga essere uno spazio neutrale in cui il problema religioso viene affrontato, tutt'al più, in una prospettiva storica e non da un docente nominato dal vescovo.
Ancora una osservazione. Il vero obbligo dello Stato non è quello di riservare alla Chiesa cattolica un posto privilegiato nel sistema educativo della Repubblica. La sua maggiore responsabilità è quella di garantire alle coscienze di esprimersi liberamente, ai fedeli di praticare il culto, a tutte le Chiese di diffondere i loro principi e le loro verità. La Chiesa cattolica, in particolare, dispone in Italia della sua più capillare organizzazione nel mondo: più di trecento vescovadi, migliaia di parrocchie e oratori, numerose scuole, un gran numero di associazioni, giornali, riviste, case editrici e poco meno di un miliardo di euro assicurato dalla tassa ecclesiastica dell'8 per mille. In materia d'educazione può certamente fare da sé.

La Stampa 1.10.12
“Lazio subito alle urne Il voto entro 90 giorni”
Il ministro Cancellieri scioglie i dubbi: no all’election day
di Grazia Longo


No all’election day, meglio elezioni entro Natale. È il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri ad annunciare che «entro 90 giorni» i cittadini laziali dovranno tornare a votare.

«Prima si va alle urne e meglio è» afferma il numero uno del Viminale, tanto più che le regioni non possono essere commissariate. Si allontana così la possibilità di un accorpamento delle regionali alle politiche e le comunali nella prossima primavera. E il Lazio si candida a diventare il laboratorio politico nazionale, il banco di prova per future alleanze in previsione o meno del Monti bis. E mentre si scalda la macchina organizzativa delle elezioni regionali, si scatena anche il totocandidati. In un’atmosfera sicuramente non facile all’indomani dello scandalo nel Pdl regionale - con l’accusa di peculato all’ex capogruppo Franco Fiorito e i suoi due capi segreteria che potrebbe sfociare nell’associazione a delinquere - che ha travolto la giunta Polverini.
Si intravedono equilibri precari sia nel centro-destra, sia nel centro-sinistra. Unico punto fermo, l’intenzione in entrambi gli schieramenti di non candidare i consiglieri regionali uscenti. Nel Pd il candidato naturale sembra essere il segretario regionale Enrico Gasparra, che pare tuttavia orientato a preferire un ruolo da «regista». In pole position, almeno per ora, c’è David Sassoli, capogruppo del Pd a Strasburgo e giornalista Rai. Anche i veltroniani stanno valutando di puntare su un proprio uomo di riferimento: l’ex assessore capitolino alla Sicurezza e deputato dem, Jean Leonard Touadi, già ribattezzato «l’Obama della Pisana». Spiccano però anche i nomi di Paolo Gentiloni, dell’ex ministro Giovanna Melandri e dell’eurodeputata Silvia Costa (sostenuta dai parlamentari vicini a Dario Franceschini).
Nel Pdl - dove il segretario nazionale Angelino Alfano ha rimarcato la distanza dall’inquisito Fiorito escludendo la possibilità di candidare i consiglieri uscenti - la situazione è più caotica. Oggi potrebbe addirittura arrivare un commisario per il partito regionale, da anni coordinato da quel Vincenzo Piso, rimasto in sella anche dopo il caso del «panino di Milioni», da cui discende tutta l’instabilità della Regione. C’è anche aria di guerra: da una parte l’asse Tajani-Rampelli, dall’altra quello AlemannoSammarco. Il mini-rimpasto finale della governatrice (che ha defenestrato tajanisti e rampelliani) li ha spezzati. Difficile
I partiti e il toto-candidati trovare un nome di corrente su cui convergere.
I rumors - al di là del sospetto di perdere la competizione elettorale - danno per meno probabili sia la candidatura dell’influente Andrea Augello, sia quella di Giorgia Meloni, rampelliana doc. Meglio, semmai, puntare su un volto come Luisa Todini, imprenditrice nel cda Rai (che nel 2010 fu scavalcata dalla prescelta Polverini) o anche sull’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, Tra gli altri nomi, Beatrice Lorenzin deputata Pdl e l’ex governatore Francesco Storace, segretario de La Destra.
Per quanto riguarda la scadenza elettorale, invece, ecco lo scenario. I tre mesi scadono il 28 dicembre. Ma in base alla legge, la dimissionaria Renata Polverini deve far trascorrere necessariamente almeno 45 giorni tra il decreto e la data del voto. Il tempo, insomma, stringe. Anche perché, per via delle festività, gli ultimi giorni dei tre mesi sono poco praticabili. Se per ipotesi la Polverini (che non ha nascosto di preferire l’accorpamento del ricorso alle urne in un unico giorno) emanasse il decreto oggi, la prima data utile sarebbe il 16 novembre, che però è un venerdì. La domenica immediatamente successiva è il 18 novembre.
Le domeniche successive sono il 25 novembre e il 2 dicembre. Domenica 9 dicembre è in pieno ponte dell’Immacolata, e sembra poco indicata. E infine c’è domenica 16, perché la successiva è il 23 dicembre. Oltre, si supera il limite di 90 giorni voluto dal ministro Cancellieri.

La Stampa 1.10.12
Sinistra in piazza contro Hollande
In 80 mila a Parigi dopo i maxi-tagli: non ti abbiamo votato per questo
di Paolo Levi


Era abituata a manifestare contro la destra di Nicolas Sarkozy. Ma ad appena cinque mesi dalla grande festa della Bastiglia - che ha visto tutta la sinistra riunita per la vittoria all’Eliseo -, la gauche francese torna in piazza per protestare questa volta contro uno di famiglia: l’attuale presidente François Hollande. Nel mirino della manifestazione - cui hanno partecipato 50 mila persone (80 mila per gli organizzatori), prova dello sciopero generale proclamato dai sindacati per l’8 ottobre -, l’austerità e il fiscal compact, che il Parlamento comincerà a discutere domani. «Non ti abbiamo eletto per questo», hanno scandito i manifestanti, delusi dal presidente socialista. Mentre un grande striscione sintetizzava in modo lapidario il motivo del dissenso: «Abbiamo votato per il cambiamento, non per la continuità».
A promuovere il corteo parigino - che si è mosso da Place de la Nation e Place d’Italie, in una splendida giornata di sole, che forse ha contribuito all’elevata partecipazione - è stato il Front de gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che sembra essersi risollevata dopo la batosta elettorale e il trionfo di un partito socialista che non ha esitato a lasciarli fuori dalla porta. «Questa manifestazione - ha avvertito Mélenchon - rappresenta l’arrivo del movimento del popolo francese al fianco degli altri popoli che protestano contro l’austerità. È una protesta di massa, la nostra scommessa è vinta! ». «Ora il partito socialista è obbligato ad ascoltarci», gli ha fatto eco uno dei suoi fedelissimi, Eric Coquerel.
All’appello di Mélenchon hanno risposto una sessantina di organizzazioni sindacali e politiche, che si sono riunite al grido di «No al trattato Merkozy» e «No al Trattato dell’austerità». Tra i partecipanti, moltissimi non nascondono di aver votato Hollande al secondo turno presidenziale. «L’ho votato con convinzione - dice Corentin, un giovane manifestante -, ma ora siamo delusi. Hollande ha subìto le pressioni della Germania. Noi siamo qui per mettergli pressione dall’altra parte». «Vogliamo un’Europa sociale e non un’Europa delle finanze. Hollande aveva promesso di modificare il patto di bilancio, che invece verrà votato senza alcun cambiamento. La piccola appendice sulla crescita che è stata aggiunta non basta - osserva Marie-Thérèse, che lavora a France Telecom ed è iscritta al sindacato CGT -. Ormai è sicuro, il trattato verrà ratificato... ma con i voti della destra. C’è poco da rallegrarsi». Mélenchon ha ripetuto che la manifestazione non era contro Hollande, ma contro l’austerità. Ma il faccione del presidente, ormai a picco nei sondaggi, campeggiava su tutti i manifesti appesi lungo il percorso con la scritta: «Ricercato per fare i conti con la democrazia».

La Stampa 1.10.12
Netanyahu deve parlare agli iraniani
di Abraham B. Yeoshua


Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene un discorso davanti all’assemblea delle Nazioni Unite si rivolge solitamente a tre o quattro diversi gruppi di ascoltatori: innanzi tutto ai cittadini e al governo degli Stati Uniti, in secondo luogo agli ebrei americani che prestano grande attenzione alle sue parole, in terzo luogo ai rappresentanti dei paesi più o meno amici di Israele in Europa, in Sud America e in Asia e, infine, alla popolazione del suo Paese (benché abbia anche altre occasioni di rivolgersi a noi israeliani). A giudicare dal suo recente discorso all’Onu risulta comunque chiaro che Netanyahu non aveva nessuna intenzione di includere fra i suoi ascoltatori anche il popolo iraniano, l’opinione pubblica di quel Paese o i suoi alleati, nonostante sapesse che, in un mondo di rapide e intense comunicazioni come il nostro, il suo discorso avrebbe potuto facilmente arrivare ai ceti colti dell’Iran e dei Paesi arabi.
Sembra infatti che Netanyahu e i suoi consiglieri considerino perduta in partenza la battaglia per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica iraniana, e questo contrariamente alla tradizione politica sionista che, fin dai suoi albori, si è rivolta ai cittadini arabi e ha continuato a farlo anche negli anni in cui la stampa scritta ed elettronica veniva bloccata dai regimi totalitari dei loro Paesi e del blocco sovietico.
I leader e i portavoce israeliani si indirizzavano alle popolazioni arabe per spiegar loro nel miglior modo possibile il retroterra storico del popolo ebraico, le sue battaglie, la sua presenza in passato in questa regione e molto altro ancora. E nonostante il perdurare di un muro di ostilità sembra che qualcosa sia filtrato nelle loro coscienze se si è giunti non solo agli accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania ma anche a quelli di Oslo e di Ginevra con i palestinesi.
Io non sono un esperto dei trucchi propagandistici della leadership iraniana ma ho l’impressione che ultimamente sia passata dall’ignobile negazione della Shoah al totale disconoscimento del passato storico degli ebrei in Medio Oriente. Il nostro primo ministro, però, forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si è dato la pena di citare concreti fatti storici. Ancora una volta ha optato per i cliché del Regno di Davide, delle promesse divine fatte nella Bibbia al popolo ebraico e del legame spirituale di quest’ultimo con la terra di Israele.
Non gli è venuto in mente, per esempio, di parlare dell’editto di Ciro, re di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadinejad e suscitato forse un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla profonda coscienza storica). Non gli è venuto nemmeno in mente di parlare della presenza millenaria di comunità ebraiche nelle nazioni del Medio Oriente tra cui, naturalmente, l’Iran, e di lodare persino l’atteggiamento di relativa tolleranza e rispetto dimostrato da questo Paese verso gli ebrei suoi residenti. Non gli è venuto in mente di parlare del riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Iran e della Turchia, due potenze musulmane, dopo la sua fondazione e del mantenimento dei rapporti diplomatici con esso per più di trent’anni. Non gli è venuto in mente di parlare degli israeliani di origine iraniana che hanno occupato, e ancora occupano, posizioni di primo piano nell’amministrazione civile e militare israeliana. E ai suoi consiglieri non è venuto in mente di suggerirgli di parlare della delegazione israeliana guidata da Lova Eliav rimasta per due anni nella regione iraniana di Qazvin negli Anni 60 per prestare soccorso alle vittime di un terribile terremoto.
Informazioni di questo tipo avrebbero potuto rappresentare una novità non solo per decine di rappresentanti di nazioni africane, sudamericane e asiatiche ma anche per gli stessi iraniani e per i palestinesi rimasti ad ascoltare le parole di Netanyahu. Informazioni di questo tipo avrebbero forse aiutato a confutare le affermazioni iraniane sulla nostra estraneità alla regione, più di riferimenti a promesse divine e al Regno di Davide.
E, in generale, perché assumere sempre il ruolo della vittima costretta a seminare minacce e avvertimenti? E perché rivolgersi soprattutto agli americani, come se Israele fosse davvero una loro succursale o, secondo le parole di uno dei ministri del Likud, una portaerei americana in Medio Oriente?
L’eccessiva «americanizzazione» del primo ministro israeliano è ormai più dannosa che utile.

Repubblica 1.10.12
L’incubo dell’Apocalisse. La bomba che fa paura
Lo show all’Onu di Netanyahu contro il nucleare in Iran, l’ingresso nel club dell’Atomica di paesi sempre più instabili
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Credevamo di averla esorcizzata o almeno rinchiusa nella cripta degli incubi di una generazione, ma l’arma della fine del mondo è sempre qui con noi. Quella Bomba che torna ad allungare la propria ombra sul nostro tempo, proiettata oggi dall’Iran, non ci lascerà mai e non potrà essere mai “disinventata”.
La sera del 6 agosto 1945, quando esordì nella storia polverizzando Hiroshima, il presidente americano Harry Truman «ringraziò Dio» per averla «data a noi invece che ai nostri nemici» e pregò perché quello stesso Dio «ci guidasse a usarla per i Suoi fini». È una tragica ironia se oggi coloro che la vorrebbero, e forse la stanno producendo, invochino di nuovo il nome di un Dio che somiglia a quella divinità che uno sconvolto Robert Oppenheimer, guardandola esplodere, definì «il distruttore di mondi».
Dalla “Jornada del Muerto”, il viaggio del morto come si chiamava il deserto del New Mexico nel quale esplose il prototipo, alla cruda illustrazione dei possibili progressi iraniani fatta da Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite giovedì scorso, la “Bomba” è il filo rosso, il fiume di lava sotterraneo che da ormai quasi settant’anni lega la nostra storia e corre sotto la crosta delle tante, piccole guerre, senza eruttare. L’umanità, dopo averne visti gli effetti su due città giapponesi, aveva capito, come tutti i “War Games”, le simulazioni, avevano dimostrato, che nessuno può vincere una guerra atomica. Ma la tentazione dell’onnipotenza che il possesso dell’atomica genera è stato più forte della ragione.
Quell’arma che anche Albert Einstein implorò Franklin Delano Roosevelt di costruire, nel 1939, prima che ci riuscisse Hitler, si è diffusa come una pestilenza che nessun Trattato anti-proliferazione, nessun accordo fra i primi detentori, Usa e Urss, nessuna agenzia internazionale sono mai riusciti a circoscrivere. Se ora i rottami dell’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno ridotto la demenziale quantità di testate dal picco di 60mila raggiunto alla fine della Guerra Fredda a un totale — pur sempre insensato — di 10mila totali, il “Club Atomico” ha continuato ad accogliere nuovi e sempre più instabili membri.
La “Bomba” è da tempo negli arsenali di Cina, Francia e Regno Unito, le sole tre nazioni, oltre a Russia e Usa, autorizzate a possederne. Ma ne hanno a dozzine l’India e il Pakistan, con i vettori balistici necessari per lanciarle, Israele, molto probabilmente la Corea del Nord e, se il premier israeliano ha ragione, fra meno di un anno anche l’Iran. Tentarono di produrla, o di acquisirla, la Siria del vecchio Assad, la Libia di Gheddafi e l’Iraq di Saddam Hussein, prima del 1991.
Di fronte al gonfiarsi del fiume di lava radioattiva sotterranea, e ai rivoli che affiorano dalla crepe della crosta, aperte sempre e naturalmente per “legittima difesa” secondo i proprietari, oggi fa quasi tenerezza rivedere le immagini, e rivivere i ricordi, dei decenni nei quali noi tutti “figli dell’Atomica” siamo cresciuti. I filmetti di propaganda internazionale e interna prodotti dal Pentagono e dall’Agenzia per l’energia nucleare americana riflettono prima il sussiego della potenza che si credeva monopolista della Bomba nel nome di Dio e poi raccontano il panico, di fronte alla scoperta che appena quattro anni dopo Hiroshima e Nagasaki, esplose nel 1949 “Pervaya Molniya”, il “Primo Fulmine”, la copia di “Fat Boy”, l’ordigno che annientò Nagasaki. Nei cartoni animati proiettati nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche americani, bambini e adulti erano invitati dalla tartaruga Bert a fare come lei, a cercare rifugio, in mancanza di guscio, sotto i letti, i banchi, le scrivanie. “Duck and Cover”, abbassati e copriti, divenne la colonna sonora per milioni di americani cresciuti nella certezza che i “rossi” volessero annientarsi. Duecentoventi modelli diversi di rifugi anti-atomici, da semplice cassoni individuali foderati di piombo a mini- bunker di cemento armato che padri di famiglia con la vanga e madri alla betoniera costruivano in giardino, offrivano l’effimera speranza di sopravvivere almeno per qualche giorno all’attacco. Senza pensare a che cosa avrebbero trovato quando sarebbero usciti. I più fortunati, fu detto all’epoca, sono quelli che moriranno subito, in un attacco nucleare.
La psicosi da annientamento atomico fu il prezzo che l’Europa occidentale, e l’America, pagarono come contrappasso alla propria ritrovata prosperità. Attori nei panni di medici spiegavano che l’ansia da bomba era “atomite”, una forma di paranoia che ingigantiva gli effetti della radiazioni. Ammiragli spiegavano agli abitanti dell’atollo di Bikini, dove fu testata la ancora più micidiale, prima bomba all’idrogeno, che tutto era fatto per il loro bene. Nel documentario del 1982, Atomic Cafè si vede la sequenza commovente degli indigeni di Bikini che se ne vanno, deportati su una nave della Marina americana cantando in coro “You are my sunshine”, “Tu sei il mio sole”. Certamente ignorando che quella bomba avrebbe raggiunto e superato la luminosità e il calore proprio del Sole. Fu dopo l’incontro fra Reagan e Gorbaciov, prima a Ginevra nel 1985 quando i due leader si appartarono soltanto con gli interpreti in una casetta nel bosco e soprattutto a Reykjavik, in Islanda, dove Reagan sbigottì il russo, e i propri generali, proponendo l’Opzione Zero, la distruzione dell’intero arsenale, che la lava sarebbe tornata a scorrere sotto la superficie. Finalmente si poteva esalare, dopo avere trattenuto il fiato per quarant’anni, quando tre volte il mondo era arrivato a pochi minuti dallo scenario Stranamore, dallo scontro nucleare.
Avevamo sfiorato il volto di Armageddon nella Corea dove lo stesso Truman aveva ipotizzato l’uso di armi atomiche per fermare i cinesi, prima di ripensarci e di licenziare in tronco il generalissimo MacArthur, che insisteva. Lo vedemmo sogghignare nelle acque del Caribe nel 1963, dove l’invasione americana di Cuba era già pronta, prima che le navi di Krusciov invertissero la rotta, e gli americani ignoravano che reparti sovietici sull’isola già possedevano piccole testate tattiche antisbarco. Ai pezzi grossi della Casa Bianca erano già stati distribuiti i “pass”, le chiavi magnetiche, per entrare nella caverne predisposte sui monti Catoctin del Maryland. E pochi seppero che nel 1980, nelle ore della ribellione polacca che avrebbe demolito l’impero sovietico, una manovra di routine delle forze Nato fu fraintesa dai generali russi come la preparazione di un assalto in forze. La risposta nucleare preventiva era già pronta, prima che una disperata spia russa nel quartiere generale proprio della Nato a Evere, in Belgio, riuscisse a convincere Mosca che erano soltanto manovre.
Per quasi vent’anni, dalla morte di Breznev nel 1982 al 2001, l’ombra di Hiroshima era sembrata rimpicciolirsi, il fiume lavico raffreddarsi, quando anche la Cina della Rivoluzione Culturale si era convertita al «fate i soldi, non la guerra». Ma in un giorno di settembre a Manhattan, l’isola che dette il nome al progetto atomico, in un’altra mattinata chiara come quella di agosto sopra Hiroshima, i piazzisti della ennesima guerra santa hanno riaperto il timore che qualcuno, incurante di vite e di morti, possa riprendere in mano quel filo rosso. Le lancette di quell’orologio della fine del mondo che dal 1947 i fisici dell’Università di Chicago, dove Enrico Fermi lavorò, regolano, si sono rimesse in movimento e la mezzanotte non era mai stata così vicina. Il dottor Stranamore è emigrato, ma continua a lavorare.

Repubblica 1.10.12
Quella mostruosità oltre l’immaginazione dell’agosto 1945
di Piergiorgio Odifreddi


Nel corso dei secoli, i detrattori della scienza hanno prefigurato gli scenari più catastrofici sui suoi possibili sviluppi.
L’apprendista stregone di Goethe, il Frankenstein di Mary Shelley, Il Dottor Jekill e Mister Hyde di Stephenson, Il dottor Moreau di Wells, mettevano tutti in guardia sul pericolo che le scoperte scientifiche potessero scappare di mano agli scienziati e provocare guai inimmaginabili. Talmente inimmaginabili, che l’immaginazione dei letterati non riuscì a immaginare qualcosa anche solo lontanamente paragonabile alla mostruosità delle due bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti sul Giappone nell’agosto 1945. Si trattò di un crimine contro l’umanità: 300mila esseri umani svanirono in due funghi atomici in un paio di secondi.
Per una macabra prefigurazione del contrappasso di mezzo secolo dopo, l’impresa atomica di Los Alamos si chiamava Progetto Manhattan. Il suo direttore, il fisico Oppenheimer, citò la Bhagavad Gita per descrivere lo «splendore di mille soli» che si era levato nel cielo, e dichiarò che i fisici avevano «conosciuto il peccato». Il matematico Von Neumann, a cui si ispirò Kubrick per la figura del Dottor Stranamore, commentò cinicamente che «a volte qualcuno confessa un peccato per prendersene il merito ».
A costruire gli ordigni, comunque, gli scienziati alleati c’erano andati quasi tutti, con la scusa del pericolo che Hitler potesse arrivare prima di loro alla bomba. Le uniche eccezioni degne di note erano state Einstein, Wiener e il nostro Rasetti: uno dei ragazzi di via Panisperna, che per non sporcarsi le mani abbandonò addirittura la fisica, e passò alla biologia.
E praticamente tutti quelli che c’erano andati, ci rimasero: anche dopo la fine del 1944, quando i servizi segreti erano ormai certi che i tedeschi alla bomba non ci stavano lavorando. L’unico che “fece il gran rifiuto” fu Rotblatt: all’epoca guardato con gran sospetto e trattato da spia, ma nel 1995 vincitore del premio Nobel per la pace per non “aver tradito la propria professione”, alla stregua del Galileo di Brecht. Quanto agli scienziati nazisti, da Heisenberg a Hahn, nell’agosto del 1945 erano prigionieri degli inglesi, in una villa vicino a Cambridge piena di microfoni. E le registrazioni documentano il loro sgomento alla notizia che gli scienziati alleati avessero osato fare ciò che loro avevano rifiutato.

l’Unità 1.10.12
Antonio Gramsci e le sue tre donne
Le sorelle Schuct con cui si lega a staffetta, centrali nel libro di Vacca
Le novità storiografiche esaltano i ruoli di Eugenia, Tatiana e Giulia. Sono tre protagoniste indispensabili per comprendere idee, dilemmi, misteri della sua sopravvivenza in carcere
Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne e questo libro finalmente ne da conto
di Cristina Comencini


LA VITA E I PENSIERI DI ANTONIO GRAMSCI, DAGLI ANNI IMMEDIATAMENTE PRECEDENTI L’ARRESTO E PER I DIECI DELLA SUA DETENZIONE, FURONO INTRECCIATI INTIMAMENTE E POLITICAMENTE ALL’ESISTENZA DI TRE DONNE RUSSE. Non figure secondarie a servizio di un uomo grande, chiuso in cella e separato dal suo destino politico, ma tre caratteri femminili fondamentali, tre sorelle, che a staffetta corrispondono, si legano, interagiscono, amano e odiano anche l’italiano geniale che la comune passione politica porta nella loro famiglia. Il libro di Giuseppe Vacca (Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937) vuole tenerle al centro della vicenda umana e politica di Gramsci. Eugenia, Tatiana e Giulia Schuct diventano nel libro di Vacca tre protagoniste indispensabili alla comprensione delle idee, dei dilemmi, dei misteri, della sopravvivenza intellettuale, fisica e affettiva di Gramsci.
Nella famiglia delle tre sorelle Schuct circolano idee rivoluzionarie dalla fine dell’Ottocento. Sia il padre che la madre si sono appassionati agli ideali rivoluzionari, sono amici del fratello maggiore di Lenin e poi di Lenin stesso e della Krupskaja. Le figlie di Apollon Schuct sono convinte sostenitrici della rivoluzione: Eugenia partecipa attivamente alla guerra civile, Giulia lavora negli organi di sicurezza interna. Rivoluzione e musica sono le passioni delle sorelle, e anche l’Italia perché negli spostamenti continui della famiglia, vivono e studiano arte e musica a Roma. Per nessuna delle tre, come per Gramsci, i sentimenti privati e famigliari saranno divisi dall’impegno politico che sta cambiando il mondo. Come scrive anche Gramsci di sé: «Io non sono molto sentimentale e non sono le questioni sentimentali che mi tormentano. Anche le questioni sentimentali mi si presentano, le vivo, in combinazione con altri elementi (ideologici, filosofici, politici) così che non saprei dire fin dove arriva il sentimento e dove incomincia invece uno degli altri elementi, non saprei dire forse neppure di quale di tutti questi elementi precisamente si tratti tanto essi sono unificati in un tutto inscindibile e una vita unica». La storia personale e la Storia grande è una vita unica e questo libro ci restituisce questo intreccio, attraverso le lettere, i codici, i silenzi tra i protagonisti che svelano, come in un romanzo, più delle parole scambiate.
SI PARTE DALLA CLINICA RUSSA
Il libro parte non a caso dall’incontro con Eugenia nel 1922, nella clinica russa dove Gramsci si era ricoverato dopo i lavori del Komintern. La sorella più forte, più preparata politicamente, lo interessa molto e lei probabilmente si innamora di lui. Così quando poco tempo dopo appare sulla scena la sorella minore, Giulia, la più bella, la violinista, si consuma tra i tre un tradimento che alimenterà molte incomprensioni, drammi e sofferenze. In una notte passata insieme nella clinica, di nascosto alla sorella maggiore, Antonio e Giulia parlano di gufi sulla veranda e di Dante: «... poi parlammo di tante cose generali, ma specialmente di un verso di Dante che dice “Amor che a nullo amato, amar perdona”, poi dovevamo dormire e c’era un letto solo e allora io ti feci piangere, cinicamente. Ti feci piangere, proprio apposta, perché ero proprio cattivo; ti volevo molto bene e ti avrei voluto baciare gli occhi, ma non credevo che tu potessi volermi bene e allora ti volevo far del male, perché ero molto cattivo».
Che meraviglia e che coraggio citare una lettera così, far parlare con queste parole il nostro grande pensatore politico! Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne, e questo libro finalmente ne da conto. Giulia e Antonio si desiderano fisicamente, tradendo la sorella maggiore, come Paolo e Francesca tradiscono il fratello di lui. Il loro amore ha una forte componente erotica alla quale nessuno dei due è preparato. Lei piange, lui la fa piangere, lui ha paura di non essere amato ma la vuole. Nel carcere, tutti questi sentimenti torneranno ad accompagnare l’isolamento politico e umano di Gramsci. Amore e rivoluzione, come il titolo del libro di Adele Cambria, si alterneranno nell’anno e mezzo in cui gli amanti riusciranno a strappare alla politica delle ore per loro stessi, per procreare il loro primo bambino in Russia, il loro secondo in Italia. Gramsci vuole assolutamente avere figli, come fosse una traccia concreta, corporea di un amore che non può avere futuro. L’arresto di Gramsci spezza la vita dei due, fa ammalare Giulia e chiude l’attività politica sul campo di un capo che era nato per questo, che non ha mai disgiunto il pensiero dall’azione. Amputati, lui, lei, lontani. Lei in Unione Sovietica dove i due schieramenti lottano per il potere dopo la morte di Lenin, e nelle mani della sorella tradita, ostile a Gramsci e molto più forte di lei. Lui chiuso in carcere subito dopo aver mandato una lettera «inopportuna» al Komintern, come la giudica Togliatti, in cui sostiene la maggioranza capeggiata da Stalin ma lo fa criticamente.
I termini della partita tragica ma anche molto prolifica che si giocherà nei dieci anni del carcere sono già presenti al momento dell’arresto: ricerca di nuove strade da parte di Gramsci per costruire consenso e vittoria del socialismo, disaccordo serpeggiante con Togliatti e con la sua adesione obbligata alle posizione del Komintern, sospetti di tradimento da parte del suo partito, di boicottaggio della sua liberazione, che investiranno, nel punto più alto della tragedia, anche la moglie lontana. Nel carcere, lontano dal mondo, Gramsci regalerà alle generazioni future categorie nuove di pensiero politico e culturale, capirà meglio di chi sta fuori i momenti che si preparano, dissentirà su questo con i compagni dentro e fuori dal carcere, non avrà per ragionarci che se stesso.
Ma tra lui e Giulia, esuli che incarnano la segregazione stessa delle idee che avevano sconvolto il mondo, appare la terza donna, la sorella rimasta in Italia, meno impegnata politicamente e che, come succede nella Storia, sarà quella a cui noi tutti dobbiamo la sopravvivenza di Gramsci e del suo pensiero. Tania è il messaggero tra Gramsci, Sraffa e il partito, il messaggero d’amore e di disamore tra lui e Giulia. Di nuovo i termini privati si intrecceranno in questa fase al lavoro politico fuori e dentro il carcere, nell’Italia fascista, in Unione Sovietica, nella Francia degli esuli. Tra i silenzi di Giulia che lui prenderà per abbandono, delle lettere non pervenute, delle risposte non conosciute, nella lontananza dei figli, nella costruzione di codici per sfuggire alla censura, quella fascista e quella sovietica, nei tentativi di liberazione falliti, si svolge la seconda parte del libro, fino alla morte.
Tania si attacca a Gramsci non solo per fedeltà alla causa, e neanche solo perché è il compagno della sorella lontana e il padre dei suoi nipoti, si lega a lui seguendo un destino femminile di amore e protezione per un uomo fuori dal comune, difficile, solo, diffidente, brusco che cerca disperatamente di continuare a pensare e a fare politica. «Andavo ogni settimana a trovarlo, eppure il tempo mi pareva sempre interminabile tra una mia visita e l’altra, poi egli riceveva da me due volte al giorno il soccorso, col mio scritto, metteva la sua firma e un saluto sulla distinta, era come una comunione tra lui e i suoi cari».
NELL’AMBASCIATA SOVIETICA
Tania lavora all’ambasciata sovietica, questo le garantisce l’extraterritorialità e una possibilità di comunicazione rapida con i famigliari ma anche con il partito russo. Anche qui le missive private, i sentimenti di dolore per la lontananza dei figli e di Giulia, sono annodati alle nuove elaborazioni politiche dal carcere, alle analisi che Gramsci fa della situazione politica italiana e internazionale. Tania copia le lettere di Sraffa frutto dei colloqui con Togliatti e il partito, inoltra relazioni sullo stato di Gramsci, sulle sue condizioni di salute, sulle sue esigenze, trasmette le lettere di Giulia. Qualche volta decide di non inoltrare lettere di Gramsci a Giulia e viceversa, quando la lontananza, i sospetti di lui e il clima di paura in cui vive Giulia in Unione Sovietica, rendono quelle lettere particolarmente indecifrabili per l’uno o per l’altra. Gramsci si irrita con Tatiana di alcuni toni delle sue lettere che potrebbero lasciare pensare a Mussolini che lui sia pronto a chiedere la grazia. Tatiana è testimone del crescere dei sospetti del prigioniero, che si sente abbandonato e tradito da Togliatti e dal partito, soprattutto dopo la lettera di Grieco che gli sembra affermare la volontà dei suoi compagni di tenerlo in carcere. Gramsci non può concepire la verità: è soprattutto l’Unione Sovietica, l’unica che avrebbe forse la possibilità di liberarlo, a non intraprendere nessun passo serio e vincente, per le sue posizioni politiche eterodosse, in contrasto con la linea del Komintern. Ma per Gramsci al contrario l’Unione Sovietica resta la meta da raggiungere una volta liberato, per lui è ancora la patria del comunismo e il Paese dove vivono Giulia e i due figli.
La tragedia politica si rispecchia fino alla fine nella tragedia personale. Così scrive Tatiana a Giulia: «Tu vivi la vita di un grande paese, che sta costruendo il futuro di tutto il mondo, tu sarai per lui una risorsa unica, ma non pensare che questa sua convinzione si basi sul fatto che si aspetti da te delle relazioni scientifiche, no, non è questo, brama solo di sentire il pulsare della vita dello Stato bolscevico, durante semplici e infinite conversazioni con te. Vive di questo». Tatiana raccoglie fino all’ultimo respiro, nella clinica romana dove Gramsci sta morendo, liberato infine ma mai libero, gli assilli del prigioniero: le accuse ai compagni, il lascito dei Quaderni che Antonio vuole nelle mani fidate delle donne della sua vita. Le tre sorelle, ricongiunte in Unione Sovietica, tenteranno invano, scrivendo direttamente a Stalin, di toglierli dalle mani del nuovo capo del Partito italiano a cui saranno invece affidate proprio da Stalin stesso. Nelle parole finali del suo libro, Vacca nomina a questo proposito la eterogenesi dei fini, che potrebbe essere usata anche per interpretare il senso profondo del suo libro, non nel senso manzoniano dell’inutilità delle azioni umane a produrre gli effetti voluti, ma nell’idea che spetta alla Storia portare alla luce il disegno complesso, contraddittorio, le conseguenze non intenzionali delle azioni degli uomini e delle donne, i cui legami e sentimenti sono spesso sottovalutati e lasciati nell’ombra.

Corriere 1.10.12
Solo un demiurgo ci può salvare
di Arturo Colombo


Chi ha letto il dialogo Timeo, ricorda che Platone usa il termine «demiurgo», per definire una sorta di divinità, di creatore e artefice del mondo; ma ormai questa parola è pochissimo usata.
Anche se a recuperarla e rimetterla in circolazione è stato, negli anni 30-40 del secolo scorso, un singolare umanista e scienziato, Filippo Burzio, un piemontese vissuto dal 1891 al 1948 (direttore de «La Stampa» negli ultimi tre anni), cui adesso Paolo Bagnoli dedica un lungo e impegnativo profilo biografico dal titolo Una vita demiurgica (Utet, pp. XIV-296, 18).
Infatti, Il demiurgo e la crisi occidentale, apparso nel 1933, non è solo l'opera maggiore di Burzio; è anche «il punto di arrivo di un'idea lungamente incubata», sostiene nel suo libro Paolo Bagnoli, spiegando che «il demiurgo si propone di essere la risposta all'insieme della crisi alla stregua di un'idea-forza che è, al contempo, anche un ideale pratico: due fattori che, da una parte, interpretano la crisi in atto e, dall'altra, ne prospettano le vie risolutorie».
Per Burzio la crisi dell'Occidente è tanto più grave, perché costituisce il risultato di un duplice fallimento, nel campo della filosofia e in quello della scienza, che ha finito per ostruire, o addirittura cancellare — a danno dei singoli e della collettività — qualunque prospettiva di felicità. Invece, ogni essere umano — insiste Burzio — ha bisogno, per essere felice, «di gusto della vita e di fede nell'azione»: con la conseguenza, anzi la certezza per Burzio, che il mondo in cui viviamo acquisterebbe un notevole valore migliorativo, se si riuscisse a rendere operante l'esigenza del demiurgo — esatta «antitesi rispetto all'individuo collettivizzato dal comunismo sovietico e all'individuo massificato dal consumismo americano», come precisa Valerio Zanone nella presentazione.
Nonostante l'indubbia originalità, però, questa tesi burziana non ha avuto finora una grande fortuna. Semmai, molto più nota e, soprattutto, più aderente alla situazione politico-sociale, è un'altra opera, che Filippo Burzio pubblicò all'indomani del crollo del fascismo, che lo aveva visto avversario rigoroso («granitico» lo definisce Paolo Bagnoli) fin da quando, nel 1925, era stato tra i firmatari del manifesto promosso da Croce in risposta a quello degli intellettuali fascisti, preparato da Gentile. Essenza ed attualità del liberalismo si intitola questo saggio, apparso nel 1945, che riflette bene la forma mentis di Burzio, un liberale di ascendenza cavouriano-giolittiana, e che nel contempo insiste a sottolineare il ruolo fondamentale svolto dalle élite, ossia dalle minoranze attive che costituiscono la vera classe politica, soprattutto all'indomani di una disastrosa esperienza autoritaria. Soltanto un regolare, periodico avvicendarsi delle élite al potere costituisce a suo giudizio, come logica conseguenza, un'autentica garanzia per qualunque democrazia liberale.
Converrà non dimenticarlo mai, nemmeno ai giorni nostri.

Corriere 1.10.12
In un mare di vuoto
Ubertini, il cacciatore di buchi neri
«Spio quello enorme della Via Lattea»
di Giovanni Caprara


Un massiccio buco nero è incastonato nel cuore della nostra galassia, la Via Lattea, alla cui periferia noi abitiamo. «Teniamo gli occhi bene aperti aspettando che divori qualche astro delle vicinanze e così possiamo rubargli altri segreti», racconta Pietro Ubertini dell'Istituto nazionale di astrofisica, celebre cacciatore dei mostri celesti. E intanto ci anticipa qualche dettaglio dell'appassionante ricerca di cui parlerà sabato 6 ottobre a BergamoScienza.
Pietro Ubertini è un astrofisico delle alte energie, cioè si occupa dell'universo violento dove si manifestano gli eventi cosmici più impressionanti. Tra questi ci sono i buchi neri, protagonisti di primo piano sia nella teoria che nell'osservazione, grazie anche agli strumenti che ora permettono di indagarli con interessanti risultati. Ubertini ha progettato e costruito, assieme al francese François Lebrun Ibis, un rilevatore imbarcato sul satellite Integral dell'Esa per raccogliere i raggi gamma generati da sorgenti cosmiche e in grado di mostrare quello che accade lontano dalla Terra. «È stato così — spiega lo scienziato — che, scrutando il centro galattico nella direzione della radiosorgente Sagittario A, abbiamo messo insieme l'identikit del buco nero le cui caratteristiche erano prima incerte».
Gli scandagli incominciarono dieci anni fa, poco dopo il lancio di Integral, esattamente nell'ottobre 2002, e alla fine si capì che il «mostro» aveva una taglia pari a 3,7 milioni di volte la massa del Sole. «Considerevole, ma tutto sommato non era gigantesco rispetto a quello che avremmo scoperto dopo altrove. Però nella sua attività divoratrice aveva fatto piazza pulita di tutte le stelle circostanti».
Quindi ora appare solitario in un grande vuoto, ma sempre pronto a esercitare la sua mortale attrazione gravitazionale la quale, essendo fortissima, è capace di accalappiare altri astri non vicinissimi. «Ogni decina o centinaia d'anni può accadere — aggiunge — e quindi lo scrutiamo in continuazione per non lasciarci sfuggire un'importante occasione di studio».
La Via Lattea è un'isola di stelle (se ne contano circa trecento miliardi); anzi, fa parte di un gruppo di isole stellari tra cui c'è anche Andromeda, destinata a scontrarsi con noi fra quattro miliardi di anni. Dopo aver scandagliato il cuore galattico l'osservatorio Integral è stato puntato su numerose altre zone. «E abbiamo individuato centinaia di buchi neri dispersi nel grande territorio, compresi i bracci che escono dall'area centrale. Sono piccoli, da dieci a cinquanta volte la massa del Sole, ma rappresentano una popolazione diffusa».
Negli ultimi anni lo sguardo è andato oltre la Via Lattea, verso galassie più remote. E qui è arrivata la sorpresa trovando, sempre al centro, buchi neri davvero mostruosi con masse addirittura dieci miliardi di volte superiori a quelle del Sole.
«Dopo un decennio di ricognizioni — nota Ubertini — ci siamo resi conto di come fosse comune la presenza di un buco nero in un cuore galattico. E sono nate tante domande. Inizialmente pensavamo che grandi galassie avessero enormi buchi neri e invece non è così e la risposta ancora non la conosciamo. Inoltre sappiamo che dall'universo primordiale di idrogeno si sono formati dei filamenti nei quali gli atomi si aggregavano, arrivando passo dopo passo ai buchi neri addensando sempre più materia. Ma per capire i passaggi bisognerebbe riuscire a spiegare bene come si sono formate le prime stelle, perché è dalle loro caratteristiche e dalla loro evoluzione che poi scaturivano i buchi neri. Se riuscissimo a veder stelle vecchie di 12-13 miliardi di anni, sicuramente ci aiuterebbero a sciogliere quei misteri delle origini».
Perché le stelle diventino dei buchi neri alla fine della loro vita, cioè quando hanno esaurito l'idrogeno che le alimenta, devono avere una massa almeno tre volte quella del Sole, secondo una regola generale risalente ancora al grande fisico americano Robert Oppenheimer. Poi collassano fino a non lasciar sfuggire nemmeno un raggio di luce. Ma la questione è ben più complicata. «E oggi sappiamo che questi mostri celesti sono diffusi dovunque, non sono delle eccezioni nell'universo, ma fanno parte della sua evoluzione», sottolinea Pietro Ubertini.
Mentre si discute di materia oscura che riempie buona parte del cosmo c'è anche chi si chiede se non esistano dei buchi neri diversi, appunto costituiti di questa materia oscura che si sa presente ma la cui natura non è stata ancora decifrata. Un mistero nel mistero.

Corriere 1.10.12
Vauro lascia «il manifesto» e passa al «Fatto»
di P. Co.


ROMA — Tristissimo addio di Vauro a il manifesto che approda al Fatto. Niente polemiche. E nemmeno recriminazioni. Ma un filo di angoscia, sì. Basta leggere le righe di ieri in prima pagina: «La decisione di Vauro di lasciarci ci sorprende. E ci amareggia. Perché riguarda una persona che ha contribuito a scrivere la storia del nostro giornale. Comprendiamo la sua scelta. Il manifesto sta attraversano il momento più difficile della sua esistenza quarantennale. La direzione, la redazione, i tecnici, tutte e tutti sanno di avere un futuro incerto perché siamo «"in liquidazione" e del doman non v'è certezza», Spiega Norma Rangeri, direttore responsabile: «Capisco la scelta di Vauro, siamo in pesantissima difficoltà. Ma non la condivido. Siamo sul fronte di una battaglia finale e in certe situazioni si compiono scelte di vita oltre che professionali. Come Vauro scrive nel commiato, non ci sono certo motivi politici o legati ai contenuti».
Infatti Vauro se ne va con un saluto oggettivo, affettuoso soprattutto verso Valentino Parlato: «Ho il debito di una libertà mai "concessa" ma sempre scaturita dal confronto, dalla discussione anche aspra sulle idee e sul modo di scriverle o disegnarle. Un debito che sento in maniera particolare nei confronti di Valentino. Vecchio compagno che in questi tempi di rampanti "giovani" rottamatori continua a spendere tutto se stesso con passione, dolore e ostinazione...». Nelle righe di addio a Vauro, c'è solo un punto che va oltre l'amarezza: «Ci siamo illusi che il confronto anche aspro, ma sempre franco, la passione per la battaglia politica fossero una garanzia per poter continuare a combattere. Forse ci siamo in parte illusi. L'uscita di Vauro lo conferma». Vauro, forse, a sua volta capisce: «Dire addio è sempre un po' penoso, lo è ancora di più dopo aver vissuto insieme per trent'anni la splendida e tormentata avventura de il manifesto, tanto penoso che sarei stato tentato di andarmene zitto zitto, quatto quatto. Ma non me lo sarei mai perdonato...».

domenica 30 settembre 2012

il Fatto 30.9.12
“Non ricandidateli, sono stati zitti”
Il circolo del Pd di Trastevere scrive al partito:
Mai più quei consiglieri del Lazio
di Andrea Managò

Giovedì scorso, a poche ore dalle dimissioni di Renata Polverini, si riunisce il comitato direttivo del circolo Pd di Trastevere. In una vecchia sezione di partito, di quelle con le pareti odorose di muffa, quella sera va in scena un incontro diverso dalle solite riunioni per pochi intimi. Dopo tre ore di discussione si decide di prendere carta e penna e scrivere una lettera al segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani, a quello regionale Enrico Gasbarra e al romano Marco Miccoli.
GIÀ L’ESORDIO è tombale: “I consiglieri regionali del nostro partito hanno accettato passivamente che negli ultimi tre anni i finanziamenti ai gruppi consiliari aumentassero vertiginosamente”. Gli stessi fondi che sulla sponda Pdl hanno causato il “terremoto” alla Regione Lazio. Poi l’affondo: “Riteniamo i nostri consiglieri siano venuti meno agli obblighi previsti dal codice etico degli eletti, non possono essere più ricandidati a nessuna carica politica o amministrativa”. Duecento tesserati, maggioranza in favore del bindiano Giovanni Bachelet alle ultime primarie per il segretario regionale, il circolo Pd Trastevere chiede di fare tabula rasa del gruppo democratico alla Pisana. Politici navigati: su 14 eletti nessuna new entry rispetto alla precedente legislatura. “Riteniamo che le dimissioni della Polverini siano una grande vittoria, merito anche del Pd, ma si tratta di un successo macchiato dal fatto che i nostri consiglieri hanno accettato passivamente l’aumento dei fondi ai gruppi” spiega il segretario trasteverino Giancarlo Ricci. “Qui non ci sono né correnti né bande – prosegue - abbiamo deciso all’unanimità”. Prima il segretario lancia l’idea di realizzare un volantino con la richiesta, poi si decide per una lettera aperta ai massimi dirigenti del partito nazionale e locale. “Ci è sembrata la scelta più efficace” aggiunge.
IERI MATTINA tutti in strada a volantinare nella vicina piazza San Cosimato per diffondere la lettera. “Tantagenteèvenutaadirci che stiamo facendo la cosa giusta, anche la nostra casella di posta elettronica è stata riempita da messaggi di incoraggiamento” rivendica Ricci. Sostegno è arrivato anche da altri segretari di circolo romani. E i dirigenti del partito cosa dicono? “Per ora non abbiamo avuto nessuna risposta ufficiale, qualche cenno in maniera informale” prosegue. È probabile che qualcosa accadrà durante la prossima settimana. Intanto da Trastevere parte un nuovo appello: “Primarie per scegliere i candidati al nuovo Consiglio regionale”.

il Fatto 30.9.12
Il suicidio perfetto
Come finiscono i partiti
di Furio Colombo

In questa tribù, quando sentono venire la fine, i partiti si uccidono da soli. Lo fanno in modo complicato e grottesco con modalità che non lasciano scampo neppure per un decoroso ricordo. Si salvano a volte, e saltano nella presunta “nuova epoca” persone singole con l'espediente di aggrapparsi a una istituzione che, si suppone, dura più a lungo. Le procedure di distruzione sono strane e non prive di senso dello spettacolo, come farsi trovare nell'atto di impossessarsi di grandi somme di fondi pubblici esattamente nel momento in cui si sa che tutti stanno guardando. Ognuna delle due parti ha i suoi colpi esclusivi, in modo da essere malvisto nel proprio ambito naturale.
PER ESEMPIO, il Pd fa sapere che considera sbagliato partecipare a una manifestazione in difesa del lavoro, perché si tratta di iniziative non adatte a un partito di governo. In tal modo si allontana da ogni effettiva possibilità di governo per un partito che dovrebbe cercare nel lavoro gran parte dei voti. Per esempio, il Pdl vuole tornare a non si sa quali origini, coltivando l'idea dell'ex Forza Italia di espellere l’ex An, e il proposito dell'ex An di prendere le distanze da ciò che fu e che resta di Forza Italia. Quanto alla Lega Nord per l'indipendenza della Padania, quel partito, dopo avere sottratto risorse pubbliche praticamente sotto gli occhi di tutti, ha espulso se stessa (ovvero il fondatore) e si è dichiarata “nuova”, cioè inesistente. Quanto al centro, dove molti promettenti leader si erano fatti trovare, anche abbandonando buone postazioni altrove, pronti ad assumere la guida di un mega partito di centro (o del Paese), non si è presentato nessuno. A tutto ciò, già abbastanza disorientante per cittadini di normale equilibrio psichico, si aggiungono due tipi di feste, di gusto e livello molto diverso, ma entrambe inspiegabili. Una è la serie di “Toga parties” (uso il nome che gli studenti peggiori delle università americane usano per le loro feste peggiori) lanciata da persone, gruppi e partiti di destra, evidentemente per celebrare vantaggi e guadagni, con un curioso esibizionismo di ciò che ai tempi di Mani Pulite si tentava di fare in segreto. Il carattere speciale di queste feste, con odalische, maiali e gladiatori, non sta nell'estremo cattivo gusto di quegli eventi, costumi, linguaggi e circostanze. Piuttosto, nell’esibizione e nel carattere pubblico di eventi ovviamente poco graditi e poco apprezzati dall'opinione pubblica, destra inclusa. In una curiosa simmetria troviamo le cosiddette elezioni primarie del Partito democratico. Non l'iniziativa, ma le modalità. Un primo carattere destinato a disorientare, irritare e allontanare gli elettori consiste nella confusione di regole, di tempi, di persone, con la forte impressione che ciascuno partecipi con motivi diversi e sempre personali. Io non confonderei l'innegabile successo del tour di Renzi inteso come spettacolo dall'evento che riguarda il Partito democratico. Infatti, lo spettacolo ha successo, ma il Partito democratico perde prestigio, credibilità e punti nelle intenzioni di voto. Infatti Renzi dimostra che in quella casa (il Pd) non comanda nessuno, che ci scorrazzi dentro quando vuoi e come vuoi, che spingi via facilmente chi ci è seduto dentro (o almeno lo spintoni senza pagare i danni). Dimostri che, con un po' di energia, invadenza e vitalità te ne puoi impossessare. Ma di che cosa? Della cosa non c'era definizione da chi era già seduto in casa. E non c'è alcun tentativo di descrizione (prima ancora che di definizione) dell'oggetto conteso mentre qualcuno lo sta conquistando. In realtà Renzi vuole un partito, non QUEL partito, ha bisogno di uno spazio per parcheggiare, non per abitare. La casa d'altri non gli interessa e tutti i suoi spettacoli parlano d'altro. Parla d'altro anche la disinvoltura con cui Renzi sta partecipando a primarie che non ci sono, seguendo regole che si è dato da solo.
E VIENE accolto dagli aggrediti con deboli sorrisi e deboli dinieghi che ci segnalano che lo spazio partitico (ormai un ex spazio partitico) si può occupare in modo facile e lieto. Interessante il progetto con cui gestire il nuovo dominio. È di rottamazione. Ma non, come ci viene detto, di poche persone attempate o troppo radicate nei ruoli. Infatti Renzi ha avuto la lucidità e il coraggio di capire e far capire che intende buttare all'aria la casa e togliere, finalmente, l'ultima tappezzeria della sinistra, qualunque cosa essa sia nelle varie storie e significati. I "ragazzi" vengono, col naturale impeto dell'età, a svuotare la casa dei vecchi mobili perché, essi sanno, col Muro di Berlino è crollato ben altro che i regimi dell'Est. È crollata anche la più mite socialdemocrazia, il più moderato mutuo soccorso. Renzi guida le sue truppe a occupare gli spazi vecchi di un nuovo gioco. Tutto il gioco si gioca a destra, e questa non è una accusa a Renzi di essere un infiltrato di destra. Invece interpreta con la consapevolezza deitempiunnuovoruolo, unruolo che si svolge solo in questo nuovo grande contenitore di una destra mondiale che ha i suoi buoni e i suoi cattivi, i suoi estremismi e le sue moderazioni. Racconta Concita De Gregorio su Repubblica (26 settembre): “Finalmente uno che non parla il linguaggio della Fiom”. Diciamo che nessuno lo parlava da un pezzo (salvo, a volte, Fassina) dentro il Pd. Ma qui il progetto è chiaro, rottamare. Muoiono i partiti, viva i partiti. Un cosa sappiamo: è tutta destra. Eppure questa non è un’accusa politica. È una constatazione. Controprova: “Se il Pd volesse davvero scongiurare un Monti bis dovrebbe paradossalmente fare proprio il programma di Monti, proporsi esso stesso come il bis. E infatti c’è un’ala consistente di quel partito che lo chiede. Nel Pd si fanno invece le primarie. Ma dietro la gara tra Bersani e Renzi si intravede il convitato di pietra. È su Mario Monti e sulla sua eredità che il Pd è chiamato a decidere” (Antonio Polito Corriere della Sera 29 settembre). Ovvero, l’alternativa è di non esistere.

Corriere 30.9.12
Il premier promosso dall'80% degli elettori Pd
Giudizi positivi da metà dei cittadini. Ma il 53% chiede una nuova linea
di Renato Mannheimer


Mario Monti ha espresso la sua disponibilità a servire il Paese, se necessario, accettando eventualmente un nuovo invito delle forze politiche ad accedere a posizioni di governo, se ciò gli fosse richiesto. La dichiarazione è stata rilasciata anche in seguito alle numerose richieste e pressioni in questo senso manifestate già da tempo dalla gran parte dei vertici politici e finanziari europei e americani. Come ha dichiarato lo stesso presidente del Consiglio, il suo annuncio è servito a rassicurare i mercati, molto preoccupati per l'eventualità di un'inversione di tendenza dell'Italia rispetto alla linea di rigore — e ad una rinnovata credibilità internazionale — impresse da Monti.
Ma cosa ne pensano gli italiani? Anche la gran parte dei nostri concittadini stima molto, sul piano personale, il presidente del Consiglio. Piacciono il suo aplomb, la sua serietà e la differenza, nel linguaggio, nei comportamenti e negli atteggiamenti, dalla maggioranza dei politici tradizionali. Tanto che il 51% degli elettori continua ad assegnargli un giudizio positivo: un livello di consenso raramente ottenuto in passato dai suoi predecessori, anche se inferiore a quanto rilevato qualche mese fa (63% nel gennaio scorso). L'opinione varia tuttavia significativamente in relazione al partito votato: tra gli elettori del Pd, addirittura l'80% valuta positivamente Monti, mentre tra quelli del Pdl il consenso si attesta grossomodo alla metà.
Ma se passiamo dal giudizio personale a quello sulle politiche condotte dal governo, l'orientamento muta. Molti cittadini si dichiarano contrari all'uno o all'altro dei provvedimenti promossi dall'esecutivo (lo aveva rilevato anche Diamanti su Repubblica del 10 settembre). Beninteso, molti tra i critici esprimono un giudizio positivo sulla persona del premier, ma ne contestano la linea politica e le scelte concretamente adottate. Tanto che il 54% auspica che il prossimo governo agisca in modo radicalmente diverso da quello attualmente in carica. È la reazione, forse inevitabile, ai sacrifici richiesti.
Alla luce di questa situazione non sorprende che metà (53%) degli italiani auspichi un mutamento sia della linea del governo, sia dello stesso presidente del Consiglio. Secondo diversi osservatori, una posizione siffatta non tiene conto della difficile situazione economica nazionale e internazionale: resta il fatto che essa è espressa da una buona parte dei cittadini. Come era facile aspettarsi, il mutamento radicale è assai più richiesto (58%) dagli elettori del Pdl (e dagli indecisi), mentre è assai più attenuato (36%) tra quelli del Pd.
Si tratta nell'insieme di una grande quantità di elettori, ma molto divisa al suo interno. In altre parole, l'opposizione ad un nuovo governo Monti non costituisce un partito e raccoglie un variegato coacervo di posizioni, dall'estrema destra all'estrema sinistra, che mai potrebbe agire in modo univoco.
Per contro, il 42% auspica il proseguimento della presidenza Monti o della sua linea politica. Anche questo gruppo di cittadini è differenziato al suo interno: quasi uno su cinque (18%) auspica un nuovo governo Monti con la stessa linea politica e un altro 10% desidera il mantenimento di quest'ultima, pur cambiando il Presidente del Consiglio. C'è chi (14%), infine, vorrebbe la permanenza di Monti, stimato personalmente, ma gli chiederebbe un mutamento degli indirizzi seguiti sin qui, sostenendo quanto richiesto da Ricolfi (su La Stampa 21 settembre), che mostra di apprezzare il «format Monti», senza condividerne tuttavia i contenuti.
In definitiva, se è vero che buona parte dei cittadini vorrebbe sostituire il presidente del Consiglio e la sua politica (ma è frammentata riguardo alla linea da seguire), una quota inferiore, ma quasi altrettanto consistente, la pensa all'opposto e suggerisce di proseguire con Monti e/o la sua impostazione. Come è spesso accaduto, il Paese appare, anche in questo caso, fortemente diviso.

Corriere La Lettura 30.9.12
Barroso e Van Rompuy, Monti e Draghi, Clinton e Castro: tutti si sono formati alla stessa scuola, un impero nel mondo. «Formiamo leader con la missione del servizio»
L'Internazionale dei gesuiti
di Maria Antonietta Calabrò


Ai vertici dell'Europa c'è una «Internazionale gesuita». Lo ha detto, scherzando, ma non troppo, il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, che ha ricordato di aver studiato dai gesuiti, come i premier di Italia e Spagna, Mario Monti e Mariano Rajoy, e come anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi.
E se la frase «Internazionale gesuita» Van Rompuy l'ha pronunciata come se fosse una battuta, resta un dato di fatto incontestabile: il destino dell'euro non è solo nelle mani di Goldman Sachs, ma di chi è stato educato dai seguaci di sant'Ignazio di Loyola. Chris Lowney, che è stato in un seminario dei gesuiti per sette anni prima di essere nominato managing director di JPMorgan mentre era ancora trentenne, ha definito «leader per vocazione» quelli cresciuti nel vivaio dei gesuiti. E ha spiegato i principi della leadership secondo i gesuiti nel suo primo libro Heroic Leadership: Best Practices from a 450-Year-Old Company that Changed the World, cioè la Compagnia di Gesù, fondata appunto 450 anni fa. Un libro che è stato tradotto in dieci lingue, tra cui l'italiano.
Europa, dunque, ma non solo Europa. Manuel Barroso dal 2004 è presidente della Commissione europea (in passato primo ministro del Portogallo), ma ha frequentato la prestigiosa Università Georgetown di Washington. Georgetown ha avuto e continua ad avere un grande impatto culturale negli Stati Uniti. Otto scuole, un ospedale e molti programmi ad altissimo livello, cinque campus sparsi nella città di Washington e in Virginia. Il fiore all'occhiello è, probabilmente, la School of Foreign Service-Qatar. Qui si formano i diplomatici del dipartimento di Stato. Ed esperti di strategia e geopolitica, forse tra i migliori al mondo. Un ex presidente americano, Bill Clinton, ha studiato fra queste mura. Ma ce ne sono altri, di leader, che sono stati formati nei suoi campus.
In ogni caso, quaranta ex alunni dei gesuiti siedono attualmente al Congresso degli Usa, compreso il senatore John Kerry. Altri ex alunni famosi sono il giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia, Vicente Fox, ex presidente del Messico, Fidel Castro, leader di Cuba, più il defunto François Mitterrand, presidente francese dal 1981 al 1995. Ma anche la rockstar Sting, l'attore Denzel Washington, le star dell'Nba Patrick Ewing e Bill Russell, Vince Lombardi, leggendario allenatore di football. E il maestro del cinema Alfred Hitchcock. E gesuita era il cardinale di Milano Carlo Maria Martini, che è stato a un soffio dal diventare Papa.
«Le nostre scuole tendono a formare leader, ma l'obiettivo è l'azione nel mondo come "servizio". C'è una spinta alla "dedizione" che fa parte del Dna dell'educazione dei gesuiti», spiegano i seguaci di Sant'Ignazio, citando quanto propugnato da Pedro Arrupe, generale dei gesuiti per vent'anni: «Noi intendiamo formare dei "leader" nel servizio — ha scritto Arrupe —, uomini e donne che abbiano competenza, coscienza e passione per l'impegno».
E sembrano esserci riusciti. Guardiamo all'Italia. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha studiato dalle elementari al liceo presso l'Istituto gesuita Leone XIII di Milano. Hanno frequentato l'Istituto Massimiliano Massimo, nel quartiere Eur di Roma, oltre al presidente della Bce, Draghi, il presidente Bnl Luigi Abete, il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, il sociologo Giuseppe De Rita, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni De Gennaro, il presidente della Ferrari e di ItaliaFutura Luca di Montezemolo. Un altro ex alunno è Francesco Rutelli. A Torino, all'Istituto sociale, hanno studiato Cesare Pavese, Mario Soldati e poi il sindaco Piero Fassino, Giovanni Minoli, l'ex ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick. A Brescia, al Collegio Ricci, frequentato dal futuro papa Paolo VI, è stato — dall'asilo al liceo — il filosofo Emanuele Severino: «Ora quella scuola, che offriva un ottimo insegnamento scientifico, matematica in particolare, non è più dei gesuiti. Come non esiste più il prestigioso liceo dei gesuiti Pennisi, ad Acireale, di cui furono rettori due miei zii».
Perché tanto successo, dopo quasi cinque secoli, del modello educativo che trae origine dal pensiero e dalla pratica di vita di Ignazio di Loyola? Condensata in una formula, si tratta di «una pedagogia del desiderio, del desiderio di apprendere, legata all'esperienza». Scriveva infatti sant'Ignazio: «Non è il molto sapere che sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose interiormente».
Spiega padre Antonio Spadaro che, prima di essere chiamato a dirigere «La Civiltà Cattolica», nel 2011, è stato docente al Massimo di Roma (e a sua volta alunno del collegio di Messina): «Puntiamo sulla "molla" dell'apprendimento: il desiderio. Un allievo non impara bene e non apprende se non ciò di cui ha "sete" e dunque riesce poi a gustare interiormente, perché lo ha desiderato». E ancora: «Il momento dell'esperienza è il momento dell'ingresso nel mondo, nella storia, negli avvenimenti, nei fatti, gustandone la gioiosità e l'amarezza con tutti i sensi (vedere, udire, odorare, assaporare, toccare)». Conoscere la vita, leggerla e capirla non è sufficiente: «Ignazio pensa a un uomo che innanzitutto reagisce affettivamente». E che ha uno sguardo ampio, ma anche una grande capacità di analisi e di dettaglio. I gesuiti annoverano tra loro grandi scienziati, addirittura dei pionieri dell'astrofisica. Ma anche economisti come il predecessore di Spadaro alla «Civiltà Cattolica» per quindici anni, padre Giampaolo Salvini, coautore con Luigi Zingales e Salvatore Carrubba de Il buono dell'economia, edito dalla Bocconi, su etica e mercato.
«Il mondo è la nostra casa» è stato il motto scelto per un incontro tenuto a fine luglio nel magnifico campus del Boston College, l'università dei gesuiti a Boston. Più di quattrocento persone da oltre cinquanta Paesi, a rappresentare l'universalità del carisma di sant'Ignazio nell'educazione. Dall'Italia, ha partecipato un altro gesuita illustre, padre Federico Lombardi, portavoce della Sala stampa vaticana, che nella sua relazione ha descritto lo stupore di Benedetto XVI durante il collegamento con gli astronauti della stazione spaziale internazionale.
La cosa più sorprendente è che il successo ignaziano si è confermato nell'ultimo mezzo secolo anche nel Vecchio Continente, dove l'egemonia, nella didattica e nella pedagogia, dell'impostazione marxista, costruttivistica e neopositivistica ha lasciato sul terreno, insieme a utili strumenti di analisi, un deserto pedagogico, sfociato o nella violenza della prassi (fino al terrorismo) o nel soggettivismo più chiuso e meschino. Senza essere cioè in grado di generare personalità capaci di impegnarsi in un progetto di ampio respiro. Al contrario dell'impostazione educativa di quell'uomo d'armi diventato santo, Ignazio di Loyola, che si è trovata così sorprendentemente contemporanea con lo sviluppo di un'epistemologia liberata dalla camicia di forza del positivismo e al tempo stesso con il fondamento del pensiero classico, Aristotele, che nella Metafisica scriveva: «L'inizio della conoscenza è lo stupore».

l’Unità 30.9.12
Primarie, la frenata dei montiani del Pd: resti lui al governo
Tonini: «La maggior parte della gente è favorevole al Monti bis. Mentre il Pd oggi è al 25 per cento»
di Tullia Fabiani

ROMA La sintesi la fa Stefano Ceccanti. Seduto in prima fila, mentre riordina appunti e cose. Primo pomeriggio, ieri, l’incontro dei “montiani” del Pd appena concluso: «Noi proponiamo Monti come candidato premier». E le primarie? Le battaglie a sostegno di questo strumento? «Se Bersani e Renzi rinunciassero allo schema di gioco della premiership si potrebbe anche decidere di non farle. Mancano due mesi, il primo turno sarebbe il 25 novembre. C’è il tempo per cambiare linea. È una situazione di emergenza. La percezione che ha il Paese è che la politica non sia in grado di decidere nulla. Il Pd ha la responsabilità di lavorare per vincere le elezioni e garantire una maggioranza coesa senza il Pdl, e una continuità con l’agenda Monti. Se c’è qualcuno in grado di fare questo, bene, ma non c’è...».
Il Tempio di Adriano, piazza di Pietra, Roma, si svuota rapidamente; Enrico Morando ha finito il suo intervento da pochi minuti. Paolo Gentiloni si trattiene a spiegare perché il Monti bis sia un dato inevitabile, oltre che un suo auspicio manifestato già in mattinata a Omnibus su La7: «Mi auguro che dopo le elezioni nasca una maggioranza politica di centrosinistra molto larga che chieda a Monti di guidare il governo». Pietro Ichino, soddisfatto dell’iniziativa («Serve a costringere il Pd a entrare in sintonia con la maggioranza degli italiani, che considera prioritaria la scommessa europea dell'Italia»), viene fermato da alcuni dei presenti che gli chiedono delle politiche sul lavoro. Marco Follini saluta e sorride sornione: «Come ha detto il segretario Bersani, dall’agenda Monti non si torna indietro, bisogna vedere chi è disponibile a fare un ragionamento di lunga lena». Fuori capannelli di partecipanti e ospiti come Andrea Romano di Italia futura, Linda Lanzillotta e Benedetto Della Vedova, commentano quanto ascoltato dentro, durante l’assemblea.
Proposte, interventi, dichiarazioni di intenti affinché il Pd si faccia promotore e garante dell’agenda Monti nella prossima legislatura: già a luglio un appello, e quindici firmatari. Ora la conferma e il rilancio. Mario Monti si dice disponibile a un secondo mandato. «Il fatto che l’abbia dovuto dire è perché nessuno crede che ci possa essere un’alternativa valida», commenta Ceccanti, senatore del Pd e costituzionalista. Chiediamocelo, gli fa eco Giorgio Tonini, anche lui senatore dei Democratici. «Chiediamoci perché Monti alla fine sia stato costretto a dirsi disponibile a un secondo mandato da premier». Ecco, perché? «Perché ha visto la delusione e la preoccupazione dei suoi interlocutori internazionali, oltre che quella degli italiani, circa il futuro del Paese, in uno scenario di assoluta incertezza della politica. La sua disponibilità è un elemento che movimenta il quadro politico». E su questo elemento si vuole investire. «La maggior parte della gente è favorevole al Monti bis,e il Pd oggi è al 25%.Non è questa la sede e il luogo per parlare delle primarie, sempre che si facciano, ma certo è necessario invertire l’ordine dei fattori: decidere prima cosa si vuole fare, quale programma di governo; qual è l’ordine del giorno, per noi questo è il tema. Noi giudicheremo tutti i candidati sulla base dell’agenda Monti e sulle intenzioni espresse al riguardo. Se avessimo preso questa strada da tempo oggi il Pd sarebbe a livelli elettorali più alti».
Bocciata ovviamente l’alleanza con Vendola, perché propone di capovolgere l’agenda del governo; nessuna apertura a Di Pietro, salvo conversioni sulla via di Monti; unico metro di misura per le alleanze, come pure per le primarie, è la scelta di continuità. «Non ci sarà un nostro candidato...», dice Ceccanti. Qualcuno lo vorrebbe. Il liberal Morando è uno di questi; sottolinea la necessità di un congresso prima del voto e non dopo, poi evoca le primarie come occasione straordinaria in mancanza di, e precisa: «La nostra iniziativa non è volta a sostenere questo o quel candidato, né ad aprire la strada a nuovi candidati che pure potrebbero esserci, ma ha l’ambizione di fissare l’asticella che i candidati devono saltare». Matteo Renzi è il favorito, per lo più. «Ha fatto passi avanti superando gli argomenti della rottamazione», dicono. «L’ottanta per cento di noi lo vota».
Marco Follini e Antonello Cabras no: scelgono Bersani. Paolo Gentiloni, ha già detto di preferire Renzi. Ma se Monti è indicato come candidato premier, qual è la scelta in ballo alle primarie? Chi votano i cittadini, per cosa votano? «La disponibilità di Monti è ottima cosa e va apprezzata – replica Gentiloni – ma non assolve il Pd dalla responsabilità che ha di creare le condizioni perché ci sia una maggioranza politica. Chi vincerà la sfida delle primarie guiderà il campo del centrosinistra alle prossime elezioni ma non sarà automaticamente il premier. Questo non vuol dire dunque rinunciare a esprimere una maggioranza politica, ma serve farlo nel segno di una continuità con l’agenda Monti per non vanificare i sacrifici fatti dal Paese in questi dieci mesi. Altrimenti ci sarà una resa dei partiti che avranno promesso l’impossibile in campagna elettorale e saranno costretti a chiamare un commissario per celebrare il funerale della politica».
Il Tempio di Adriano ha chiuso le porte, fuori i turisti fanno foto ricordo. I “montiani” del Pd si danno appuntamento alla prossima. All’assemblea mancava Walter Veltroni, leader di riferimento per molti di loro: «È all’estero, però mercoledì sarà a Roma per presentare il libro di Morando e Tonini, ci ritroviamo là», assicura Ceccanti. E non solo.

La Stampa 30.9.12
Il Pd scosso dai veleni
I “montiani” rovinano la festa a Bersani Il sospettato è Veltroni
“Chi tifa per il bis lavora contro Pier Luigi”
di Carlo Bertini


ROMA Se i «supermontiani» del Pd di fede veltroniana si trovano a convegno per caldeggiare un bis riveduto e corretto senza i voti dei berluscones, subito i fedelissimi di Bersani se la prendono con colui che ritengono l’ispiratore della cospirazione, cioè Veltroni. Poco importa che Veltroni non si faccia vedere al tempio di Adriano al think thank organizzato da Gentiloni, Morando, Tonini, Vassallo e Ceccanti insieme a varia intellighenzia di area finiana, montezemoliana, casiniana e non solo. L’ex leader del Pd si guarda bene dal mettervi piede, se non altro perché sa che l’occasione sarà letta dai media come un’implicita benedizione a Renzi da cui lui si vuol accuratamente tener fuori.
E quando Gentiloni argomenta che «la positiva disponibilità di Monti non vuol dire per noi un bis del governo tecnico sostenuto da una grande coalizione ABC», bensì una coalizione larga che non comprenda forze incompatibili con un discorso riformatore, dalle parti di Bersani sentono solo odor di tradimento. «Perché Pierluigi sostenne Veltroni in modo limpido andando in giro a fare i comizi, anche se poteva essere un competitor di quelle primarie». Come a dire, guardate con che moneta lo ripaga Walter... Il quale però non avrà certo dimenticato quella minaccia di candidarsi contro di lui che precedette a suo tempo il convinto sostegno di Bersani. Vecchie ruggini che non si rimuovono facilmente e che possono però dare un’idea di come i dissapori tra leader siano sempre sotto il pelo dell’acqua nel magico mondo del Pd.
Dove il tema più scottante in queste ore è che succederà nella partita a scacchi della legge elettorale: perché di fronte al sospetto che Pdl e Udc abbiano stretto già un accordo per comprimere il premio del 55% dei seggi del porcellum, tutti si chiedono cosa farà alla fine Bersani per non restare schiacciato senza rinunciare all’unica labile garanzia di una vittoria ai punti che lo metta al riparo dal Monti bis. «La nuova legge elettorale deve dare la possibilità a chi vince di governare», ripete il segretario, aggiungendo che «la frantumazione e la balcanizzazione con un proporzionale secco sarebbe un disastro per il paese»; senza chiarire se con quel «secco» non intenda aprire ad una qualche formula più liquida e più digeribile, tutta da scoprire.
Ma basta il refrain individuabile dietro la sfilza degli interventi al convegno dei montiani (la ex rutelliana Linda Lanzillotta, il finiano Della vedova, l’economista Zanella di «Fermare il declino» di Oscar Giannino, Andrea Romano di Italia Futura, l’ex segretario dei chimici della Cgil, Morsella e vari parlamentari) per rovinare il compleanno a Bersani. Che sa bene come il plot andato in scena possa avere la forza contundente di una zeppa sul percorso verso Palazzo Chigi: soprattutto se un folto gruppo trasversale dentro e fuori dal Parlamento lavora affinché vi sia «una coalizione esplicita senza il Pdl che prima del voto indichi Monti premier».
Nell’ottica di Gentiloni, battersi «perché il Pd si proponga al centro di un’alleanza con la piattaforma Monti e confini chiari» vuol dire chiedere ai candidati alle primarie «un impegno solenne a proseguire e a non smontare il lavoro di Monti». Ma tutti sanno bene che questo impegno solenne uno lo fa proprio cioé Renzi e uno no...
E se poi ci si interroga da dove possa nascere una maggioranza che sostenga Monti e la continuità del suo lavoro, se non da una vittoria di Renzi alle primarie, si capisce la stizza di Bersani verso chi nel Pd scommette sulla vittoria di Matteo; e sulla nascita nei prossimi giorni di una configurazione dell’area moderata più competitiva: un listone che punti al 10-15% con cui allearsi. E che magari abbia «un copyright, se pur non autorizzato e solo criptico» del premier. «Quando vedranno che Monti non ci sarà», ribattono gli uomini di Bersani, allora si chiederanno «e ora che facciamo? »

l’Unità 30.9.12
Bersani: il voto non è un optional
La conferenza del Pd sul Mezzogiorno
«Solo se regge il Sud c’è possibilità di rcostruzione per l’Italia»
di Simone Collini


Renzi, che lo sfida alle primarie, Berlusconi, che a giorni alterni si candida e intanto quotidianamente lavora per una legge elettorale che impedisca a chiunque di governare, più tutti quelli che puntano comunque a un Monti-bis quasi che le elezioni fossero un optional. Bersani deve fare i conti con più di un avversario, nella corsa verso Palazzo Chigi. E mentre da Lamezia Terme, dove è in corso la conferenza del Pd sul Mezzogiorno, spegne le candeline per il suo sessantunesimo compleanno, si fa il regalo di lanciare qua e là qualche frecciatina. A Berlusconi, che compie gli anni (76) nello stesso giorno: «Ha già dato, adesso si riposi un po». E a Renzi, che mentre gli manda gli auguri via twitter ironizza sul fatto che i due compiano gli anni contemporaneamente («vi immaginate cosa sarebbe successo se fossi nato io lo stesso giorno? dice il sindaco fiorentino ironizzando sulle critiche per la visita ad Arcore e tutto il resto mi è andata di extralusso»): «Fino a qualche anno fa al massimo facevo un brindisi a casa mia, quando non mi dimenticavo del compleanno», dice Bersani davanti a una torta di trenta chili preparata a sorpresa dai militanti del Pd calabrese. «Poi sono rimasto vittima del personalismo berlusconiano, si è sparsa la voce e non vivo più, oltre agli auguri via sms c'è perfino qualcuno che li mette su twitter... Ma gli anni non sono passati invano. L'anno scorso c'era Berlusconi al governo. Adesso non più, grazie a noi, che invece siamo ancora qua». E se la citazione finale è dichiarata (Vasco Rossi), ogni riferimento a Renzi sarà anche puramente casuale, ma tant'è.
Anche Enrico Letta gioca la carta dell' «orgoglio del Pd» e rivendica al partito il merito di aver lavorato per chiudere la fase berlusconiana e permettere l'insediamento del governo Monti. E se Renzi insiste sulla linea della «rottamazione» il vicesegretario del Pd fa notare che «di rottura in rottura avremo soltanto macerie», e se Gentiloni, Morando, Tonini e altri si schierano a favore del Monti bis come unica soluzione per il futuro, Letta chiude la prima giornata di lavori della conferenza titolata «Con il Sud, ricostruiremo l'Italia», dice che dopo le spaccature prodotte da un ventennio berlusconiano e leghista «Bersani può riunire, ricostruire», dopo la fase di emergenza gestita da Monti.
LA TELEFONATA DI MONTI
L'attuale premier di per sé non è tra gli avversari diretti di Bersani, com'è chiaro anche da toni e contenuti della telefonata che interrompe il pranzo del leader Pd. Monti lo chiama per fargli gli auguri di compleanno, poi la discussione passa sui temi di attualità, con Bersani che racconta al capo del governo le preoccupazioni per il futuro raccolte il giorno precedente a Bruxelles, in una riunione con i leader dei partiti progressisti europei. Il segretario democratico rimane tanto convinto che Monti sia una «risorsa» quanto del fatto che senza un governo sostenuto da una maggioranza politica chiara non si potrà uscire dall'emergenza, non si potranno cioè approvare quelle riforme finalizzate a creare più occupazione, una reale redistribuzione delle ricchezze, una maggiore uguaglianza sociale, che con una maggioranza composta da avversari com'è quella attuale sarebbero impossibili da realizzare.
Per questo Bersani, mentre mette in chiaro che «la nuova legge elettorale deve dare la possibilità a chi vince di governare» (un modo per avvertire chi cerca attraverso la nuova legge elettorale di creare le condizioni per una grande coalizione, ma anche per alludere al fatto che per governare bisogna essere eletti) dice anche che con l'Udc non c'è nessun tentativo di alleanza e invece sta lavorando per «organizzare il campo dei progressisti», mantenendo contemporaneamente una «proposta aperta al confronto con i moderati e con tutti coloro che sono europeisti e che intendono contrastare ogni forma di populismo». E il fatto che Casini sia tra quanti dicono di auspicare continuità rispetto all'attuale fase non impensierisce il leader Pd. Né si mostra preoccupato per il fatto che tra gli stessi democratici ci sia chi punta a un reincarico per l'attuale presidente del Consiglio.
«Non è che ogni giorno possiamo mangiare pane e Monti-bis», risponde Bersani a chi lo avvicina mentre a Roma è in corso la riunione degli ormai cosiddetti «montiani» del Pd. «Adesso basta parlarne». La questione non è tra quelle di cui il leader democratico vuole discutere. «Siamo qui per parlare di Sud e questo faremo». Dice il commissario del Pd calabrese Alfredo D'Attorre che «parlando del sud parliamo del destino dell'Italia e del suo futuro in Europa», che «solo se regge il sud c'è una possibilità di ricostruzione per l'Italia». Concetto su cui insiste anche il responsabile per il Mezzogiorno del Pd Umberto Ranieri, per il quale «è indispensabile una nuova strategia per condurre una battaglia per il sud». A chiudere i lavori sarà oggi Bersani.

l’Unità 30.9.12
Nencini: Pse e Psi con Bersani


È il segretario del Pd Pierluigi Bersani il candidato premier alle primarie del centrosinistra sostenuto dal Partito Socialista Europeo. Lo ha annunciato a Bruxelles, dove è riunito il summit dei leaders socialisti europei, il segretario del Partito socialista italiano Riccardo Nencini. «Abbiamo condiviso con il presidente dell'Internazionale Socialista, George Papandreou e con il presidente del PSE, Sergei Stanishev ha affermato in una dichiarazionela proposta di sostenere Bersani. Si è ritenuto che i partiti che si richiamano al socialismo europeo sostengano, in piena autonomia, unitariamente, la candidatura attorno alla quale costruire un programma coerente con le idee del Pse, perché l'Italia torni ad essere protagonista con un esecutivo che operi all'insegna di equità, rigore, laicità, innovazione In Italia si presenta la concreta possibilità del ritorno al governo di una coalizione dalla forte impronta riformatrice nell'anno decisivo per il futuro dell' Europa».
«Nel 2013 ha ricordato andranno al voto, oltre all'Italia, Austria e Germania, e si inizierà la nostra campagna per un candidato presidente 'europeò individuato direttamente dai cittadini». Nencini ha poi discusso a lungo con il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, e con il segretario del partito socialista spagnolo, Alfredo Rubalcaba, della vittoria di Francois Hollande in Francia e del progetto della sinistra europea per superare questa difficile fase economica. «L'Italiaha detto ancora Nenciniè investita da quattro crisi: politica,economica,morale e di missione. E con il governo Monti ha recuperato credibilità nel contesto internazionale. Necessita ora di un governo forte, del consenso cittadino e che sappia coniugare lo sviluppo alla responsabilità». Nel suo intervento, Nencini ha aggiunto: «In Italia rischiano di rimanere fuorilegge le elezioni libere e segrete, perchè taluni non vorrebbero accettarne il risultato. Per trovare nella storia d'Italia un periodo così buio, dobbiamo tornare alla fine dell'ottocento».
L’annuncio del segretario socialista è stato accolto con soddisfazione dal comitato per Bersani. Apprezzo molto la scelta dei socialisti di sostenere la candidatura di Pier Luigi Bersani alle primarie per la leadership del centrosinistra», afferma il coordinatore Roberto Speranza. Che aggiunge: «Si rafforza la prospettiva di costruire una proposta politica autorevole e credibile che metta al centro le grandi questioni dell'Italia. L'opzione dei socialisti conclude Speranza rende ancora più visibile il profilo che unisce Bersani con le grandi forze del cambiamento che sono presenti in Europa e nel mondo».

Repubblica 30.9.12
Come arrivare al dopo Monti in buona salute
di Eugenio Scalfari


LA DICHIARAZIONE di Monti sul dopo-Monti, fatta a New York e riconfermata a Roma dopo il suo rientro dall’assemblea dell’Onu, è esattamente quanto si aspettavano le Cancellerie dei paesi alleati, i mercati e soprattutto i cittadini responsabili del nostro paese. Monti non parteciperà alla campagna elettorale e non ha posto una sua candidatura ad alcuna specifica carica elettiva. Ha semplicemente detto che qualora dopo le elezioni che si svolgeranno nel prossimo aprile il Parlamento e le forze politiche che usciranno vittoriose da quella consultazione avranno bisogno dell’opera sua, lui sarà disponibile.
Qual è la vera novità di questa dichiarazione, fatta ora per allora? La novità sta tutta nel linguaggio che in casi come questo è al tempo stesso forma e sostanza: un linguaggio non politico ma istituzionale, così come è istituzionale la sede dalla quale Monti ha parlato. È da undici mesi il capo dell’Esecutivo e si è rivolto al futuro Parlamento e al futuro presidente della Repubblica. Saranno nel prossimo aprile queste istituzioni a valutare se ci sarà bisogno di lui.
Il prossimo governo sarà certamente politico, ma anche questo lo è perché anche questo vive sulla fiducia che il Parlamento gli esprime. È composto da tecnici, ma lo stesso Monti offrì ai politici di parteciparvi. La partecipazione non vi fu perché il Pd la rifiutò e bene fece mettendo in tal modo la “strana maggioranza” nella giusta dimensione richiesta dall’emergenza.
L’emergenza purtroppo continuerà anche nella prossima legislatura ma la maggioranza sarà quella che gli elettori avranno scelto. In questo senso il nuovo Parlamento potrà esprimere una maggioranza non più “strana” ma portatrice d’una visione coesa del bene comune. È implicito che l’elemento di fondo di quel bene comune è costituito dagli impegni che lo Stato italiano – attenzione, lo Stato non solo il governo – ha preso nei confronti dell’Unione europea. Quegli impegni consentono una limitata ma importante discrezionalità; possono accentuare il tema dell’equità e dell’eguaglianza einaudiana delle condizioni di partenza tra i cittadini oppure affidarsi alla diseguaglianza come stimolo dell’efficienza. Spetta al popolo sovrano scegliere tra queste due diverse opzioni nei limiti, come già detto, della loro compatibilità con gli impegni verso l’Europa.
Monti sa bene che la nuova maggioranza non sarà più “strana” ma effettiva e coesa. Questo non significa che Monti sia disponibile per qualsiasi maggioranza, ma a quella sin d’ora schierata per un futuro Stato federale europeo con la sua moneta comune e con una Banca centrale che abbia i poteri di tutte le Banche centrali di uno Stato. Questa è la maggioranza alla quale il nostro premier ha offerto las ua disponibilità e la sua credibilità internazionale, che di quella disponibilità rappresenta il tassello più importante  difficilmente sostituibile.
* * *
Restano comunque cinque mesi di lavoro al governo attuale e alla maggioranza che lo sostiene. I problemi che attendono soluzione sono i seguenti:
1 - Una nuova legge elettorale.
2 - La legge contro la corruzione.
3 - Una legge costituzionale che riesamini il titolo V della Costituzione per quanto riguarda le competenze tra Stato e Regioni.
4 - Il taglio della spesa corrente e la riduzione delle accise e delle imposte sui lavoratori e sulle imprese, cioè una riqualificazione fiscale nell’ambito del poco tempo disponibile.
5 - Ammortizzatori sociali capaci di attenuare le rabbie accese dalle crisi aziendali.
Sono cinque tematiche da far tremare le vene e i polsi, ma non possono essere eluse perché costituiscono il nucleo centrale dell’emergenza. Accoppiano rigore e crescita. Puntano su un accordo con le parti  sociali per l’aumento della produttività.
Il contratto dei chimici ha rappresentato una buona partenza ed è molto deludente che la Cgil, dopo essere stato firmato dal segretario della categoria, l’abbia disconosciuto come Confederazione. La Camusso conosce bene le condizioni in cui si trovano l’Italia, l’Europa, l’Occidente. Un contratto che aumenta le ore di lavoro e quindi il salario per i giovani e le diminuisce per gli anziani rappresenta un patto generazionale che non accresce il rigore ma l’equità. Questa è la strada alla quale non ci sono alternative e va seguita per i molti altri contratti in scadenza se non si vuole che non siano rinnovati, con quanto ne seguirebbe sul potere d’acquisto dei lavoratori.
Il governo può e deve arbitrare questi conflitti se le parti sono disponibili al negoziato. La logica può cambiare quando cambiano le condizioni; pretendere che il cambiamento avvenga prima significa abbaiare alla luna.
* * *
Nel nucleo dell’emergenza c’è anche un altro tema e questo è eminentemente tecnico: il governo dello “spread”. La contraddizione, apparente, riguarda il diverso andamento delle aste e del mercato secondario. Le aste vanno bene anche quella dei Bpt a 5 e a 10 anni, il secondario invece va male e influisce negativamente sul tasso di interesse praticato dalle banche con la clientela. Dipende dal contagio che proviene dalla Grecia e soprattutto dalla Spagna la quale, nei prossimi giorni, dovrà decidere se ricorrere all’aiuto del fondo salva-Stati e all’intervento della Bce.
Questa decisione probabilmente verrà presa nella prossima settimana.
Che cosa faranno Monti e Grilli a quel punto? Due scuole di pensiero si confrontano in proposito: c’è chi pensa che l’intervento della Bce in Spagna scoraggi la speculazione e si ripercuota favorevolmente anche sul mercato italiano; ma c’è invece chi sostiene esattamente il contrario. Personalmente credo che questa seconda tesi sia la più probabile; la speculazione abbandonerà la Spagna e si riverserà sull’Italia. La logica porta a questo, la speculazione, cioè le grandi banche d’affari e i fondi che puntano sul rischio realizzano i loro profitti giorno per giorno. Se abbandonano la Spagna sotto il randello di Draghi, si riverseranno probabilmente sul mercato italiano fino a quando anche noi chiederemo l’intervento dell’Esm e della Bce. Ma in quell’intervallo di tempo balleremo la rumba e non sarà un bello spettacolo. Sicché, se s’ha da fare è meglio farlo il giorno dopo la Spagna.
La questione è certamente opinabile, la logica no.
* * *
Restano alcuni problemi che si riassumono in tre nomi: Polverini, Formigoni, Renzi.
Polverini si è dimessa. Era ora.Adesso deve indicare la data delle elezioni che debbono avvenire entro tre mesi. Così recita la legge. L’interpretazione estensiva secondo la quale entro tre mesi deve essere indicata la data delle elezioni che non avrebbe alcun limite di tempo, è del tutto insostenibile anche se così fece Montino che subentrò a Marrazzo e fissò la data a parecchi mesi di distanza dalle dimissioni del governatore. Allora nessuno fiatò, ma è un caso che non può fare precedente. Se lo facesse potrebbe avvenire che il presidente dimissionario alla fine del terzo mese indica una data elettorale a un anno di distanza e governa da solo senza Consiglio regionale. È sostenibile un’ipotesi  di questo genere?Evidentemente no. Le elezioni debbono essere fatte entro tre mesi dalle dimissioni del Consiglio e del presidente della giunta. Se la Polverini si rifiutasse di seguire questa procedura il governo può nominare un commissario che stabilisca la data elettorale nei tre mesi previsti dalla legge.
Il caso Formigoni è altrettanto chiaro: un governatore già indagato di gravi reati non può guidare una Regione come la Lombardia. I consiglieri d’opposizione dovrebbero dimettersi subito e creare i presupposti di una crisi e di nuove elezioni. Non si capisce che cosa aspettino. Il precedente del Lazio è un pessimo precedente e c’è da augurarsi che i partiti della sinistra a cominciare dal Pd non ripresentino alle prossime elezioni nessuno dei consiglieri uscenti.
Renzi. Per quanto riguarda il suo programma politico, per il poco che risulta dalle sue carte e dalle sue prolusioni, si tratta di un’agenda generica che enuncia temi senza svolgerli. I temi sono quelli che campeggiano da mesi sui giornali, le soluzioni però Renzi non le indica. Quindi il suo programma è carta straccia.
Una sola cosa è chiara: Renzi sa parlare e richiama molto abilmente l’attenzione sotto l’oculata gestione di Gori, ex dirigente di Fininvest. Renzi piace perché è giovane. È un requisito sufficiente? Politicamente è molto più di centrodestra che di centrosinistra. Se vincerà le primarie il Pd si sfascerà ma non perché se ne  andrà D’Alema o Veltroni
o Franceschini, ma perché se ne andranno tutti quelli che fin qui hanno votato Pd come partito riformista di centrosinistra.
Non a caso Berlusconi loda Renzi pubblicamente;non a caso i suoi sponsor sono orientati più a destra che a sinistra e non a caso lo stesso Renzi dice che queste due parole non hanno più senso. Hanno un senso, eccome. Nell’equilibrio tra i due fondamentali principi di libertà e di eguaglianza la sinistra sceglie l’eguaglianza nella libertà e la destra sceglie la libertà senza l’eguaglianza. Questa è la differenza e non è cosa da poco.
Io sono liberale di sinistra per mia formazione culturale. Ho votato per molti anni per il partito di Ugo La Malfa. Poi ho votato il Pci di Berlinguer, il Pds, i Ds e il Pd. Se i democratici andranno alle elezioni con Renzi candidato, io non voterò perché ci sarà stata una trasformazione antropologica nel Pd, analoga a quella che avvenne nel Partito socialista quando Craxi ne assunse la leadership, senza dire che Craxi aveva una visione politica mentre Renzi non pare che ne abbia alcuna salvo la rottamazione. Francamente è meno di niente.

l’Unità 30.9.12
Camusso: il Paese è impaurito, ripartire dai giovani
La leader Cgil sostiene l’urgenza di un nuovo Piano del lavoro come quello di Di Vittorio
di giuseppe Caruso


MILANO «Basta parlare solo di tagli e rigore». Susanna Camusso, aprendo ieri il convegno per il 106esimo anniversario della Cgil, ha chiesto una svolta al governo e più in generale al mondo politico, dopo mesi di lacrime e sangue. Lo ha fatto ricordando la figura del primo segretario della Cgil, quel Giuseppe Di Vittorio che fu un personaggio centrale nel periodo della ricostruzione economica e sociale dell’Italia, dopo la seconda guerra mondiale. In modo particolare il segretario della Cgil ha citato il Piano del lavoro, con cui all’inizio della ricostruzione il suo sindacato sollecitò le classi dirigenti sul tema delle riforme di struttura con un programma che prevedeva la nazionalizzazione dell'energia elettrica e l’incremento dei lavori pubblici nell’edilizia e nell’agricoltura.
LA RICOSTRUZIONE
La Camusso ha spiegato come in questo momento l’Italia sia «un Paese impaurito e impoverito, quindi non si può continuare a raccontargli che ci sono solo tagli e rigore in agenda. Bisogna dare delle prospettive alla gente. Serve una grande proposta e non c'è titolo migliore che parlare di Piano del lavoro, un grande momento della storia italiana . La differenza tra il piano di oggi e quello di allora è che ai tempi di Di Vittorio riguardava il popolo italiano in generale, mentre oggi dobbiamo partire dai giovani».
«Per questo motivo» ha continuato il segretario «abbiamo dedicato il 106esimo anniversario della Cgil al rilancio della parola lavoro. Per questo pensiamo che sia giusto provare a rilanciare il Piano del lavoro, come quello del dopoguerra. Per fortuna oggi manca la guerra, ma come necessità di ricostruzione non siamo lontani da allora. Noi non siamo certo giovanissimi, eppure non abbiamo memoria di una crisi così difficile per tempi tanto prolungati. Non c'è nessun settore che va bene, non c'è nessuna regione in cui il tema non sia quello della crisi».
La Camusso ha poi spiegato che i giovani dovranno per forza essere al centro di questo piano, perchè sono loro ad essere stati toccati con maggior durezza dalla crisi. Quelli che devono fare i conti con un tasso di disoccupazione da record per gli under 24 e con salari che vanno a picco nel corso dei mesi con una velocità impressionante.
Il segretario della Cgil si è rivolto proprio a quello che al momento è il segmento della società più debole dal punto di vista economico ed ha spiegato come oggi proprio i giovani vivano «un’età infinita perché non raggiungono mai una certezza. La risposta da dare è difficile, visto che per loro si costruiscono vie parallele e precarie. Ma oggi la politica deve dare una prospettiva che non insegua i lavoretti o la precarietà. Dobbiamo invece cercare risposte che diano certezze, strade alternative a quelle percorse fino ad oggi. E bisogna fare in fretta, perchè la situazione attuale lo richiede».
LE FERITE
«Oggi l’Italia è un Paese ferito e pieno di cerotti» ha detto ancora la Camusso «e non mi riferisco soltanto all’aspetto economico. L’Italia è ferita anche e soprattutto dal punto di vista ambientale e del dissesto idrogeologico. Sono ferite che hanno bisogno di essere curato e c'è una relazione tra il dare lavoro ai giovani e l'idea di una cura del paese. Il centro della nostra idea, su cui stiamo lavorando è la cura del paese e il coinvolgimento dei giovani». Un piano necessario in un Paese come il nostro, in cui ben cinque milioni di persone vivono sotto il costante rischio di frane ed alluvioni, frutto del dissesto idrogeologico a cui è stato sottoposto il territorio.

l’Unità 30.9.12
Hanan Ashrawi: «La mia Palestina non alzerà mai bandiera bianca»
«La comunità internazionale si è arresa senza combattere i falchi israeliani ma noi continuiamo a lottare per il nostro Stato»
«Intorno a me vedo crescere la rabbia, rischia di esploderenin un futuro non lontano»
di Umberto De Giovannangeli


Per anni gli anni della prima Intifada e dei negoziati di Washington è stata la «voce» internazionale della «causa palestinese». Per anni gli anni della speranza poi naufragata dell’autonomia palestinese ha rappresentato la coscienza critica della leadership di Yasser Arafat. Prima donna a ricoprire l’incarico di portavoce della Lega Araba, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), paladina dei diritti umani nei Territori ed oggi esponente del Comitato esecutivo dell’Olp: è Hanan Ashrawi. A l’Unità racconta chi ha ucciso il «sogno di libertà del mio popolo». Il suo è un lucido, appassionato, dolente j’accuse a una dirigenza israeliana che «ha fatto di tutto per affossare il negoziato e rendere priva di qualsiasi significato concreto la parola “dialogo». La sua è anche una dura requisitoria contro una Comunità internazionale che «si è arresa senza “combattere” al governo dei falchi al potere in Israele». La sua è anche una dolorosa ammissione di «colpa»: «Avevo sperato dice in Barack Obama. La sua elezione aveva suscitato speranza ed anche entusiasmo nel mondo arabo, e tra noi palestinesi. Pensavamo ad una svolta rispetto alla precedente Amministrazione: quattro anni dopo, le sue sono restate solo parole». Ciò che non viene meno, però, è un bisogno di libertà che «nessuno potrà mai cancellare dalle nostre menti. Non alzeremo bandiera bianca. Questa è la nostra terra, la Palestina».
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netayahu, e il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, hanno attaccato pesantemente il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen) per il suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite».
«La loro furia non mi sorprende, semmai m’indigna. Di fronte ai leader di tutto il mondo, Abu Mazen ha raccontato la verità delle cose: Israele vuole distruggere la soluzione “due Stati”, svuotando di ogni significato concreto la parola “dialogo”. Alla luce del fallimento del processo di pace e dell’incapacità della Comunità internazionale di ritenere Israele responsabile dell’occupazione illegale dei Territori palestinesi e delle innumerevoli violazioni del diritto internazionale e umanitario, i palestinesi insisteranno nel tentativo di essere riconosciuti, in ambito Onu e in ogni organismo internazionale, come Stato. Parlare di pace con l’attuale governo israeliano mi sembra un andare contro natura, significa non voler prendere atto della logica che sottende ogni loro azione».
Di quale logica si tratta?
«Quella militarista, colonizzatrice, impastata di fondamentalismo religioso e nazionalismo. La logica di chi non contempla il compromesso, di chi continua a sfidare le leggi internazionali». Come rispondere?
«Isolandoli. Facendo intendere loro, con i fatti, che il tempo dell’impunità non può durare all’infinito. Quando parlo di fatti, penso agli accordi economici e militari che molti Paesi, gli Stati Uniti e non solo, hanno con Israele. Penso a pressioni diplomatiche, a manifestazioni di protesta. Il silenzio è complicità con questi falchi animati da un delirio di onnipotenza».
C’è il rischio che si ritorni ai tempi, tragici, della seconda Intifada, l«Intifada dei kamikaze»?
«Intorno a me vedo crescere di giorno in giorno frustrazione, disincanto. E soprattutto rabbia. Una rabbia che rischia di esplodere, non oggi, forse, ma in un futuro non lontano. Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che la militarizzazione dell’Intifada sia stato un grave errore che non dobbiamo ripetere. Tra gli “shahid” e la rassegnazione esiste una terza via».
Quale?
«La vita della rivolta popolare, non violenta, che recuperi lo spirito della prima Intifada, che fu davvero rivolta di popolo che portò la questione palestinese al centro dell’interesse del mondo».
La forza d’Israele non sta anche nella debolezza della dirigenza palestinese? «Come lei sa, non ho mai rinunciato all’esercizio della critica, anche a costo di pagarne prezzi personali. Troppe volte, gli interessi di fazione hanno prevalso su quelli del popolo. Così come non ho mai accettato l’idea per cui il dover fra fronte all’occupazione israeliana giustificasse misure liberticide da parte delle autorità palestinesi. Di errori ne abbiamo commessi, eccome. Ma ciò non “assolve” Israele. In questa storia, c’è un oppresso e un oppressore, e gli errori del primo non possono giustificare in alcun modo i crimini del secondo».
Tra gli organismi Onu, c’è l’Unesco, che tre mesi fa ha accolto fra i siti «Patrimonio dell'Umanità» la chiesa della Natività e la via del pellegrinaggio da Gerusalemme a Betlemme. È la prima volta che un sito palestinese viene accolto nella lista. Da palestinese, e da cristiana ortodossa, come valuta questa decisione? «Non solo io, ma l’intero popolo palestinese ha accolto con gioia questa decisione. come un momento di orgoglio nazionale e una conferma dell’unicità e della ricchezza della propria identità e del proprio retaggio».
Nel suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente Usa, Barack Obama, ha riproposto l’obiettivo di una pace fondata sul principio «due popoli, due Stati». «L’elezione di Barack Obama, quattro anni fa, aveva suscitato grandi speranze e aspettative nel mondo arabo, tra noi palestinesi. Obama aveva affermato di voler riportare al centro della sua agenda internazionale, la “questione palestinese”. Quattro anni dopo, il minimo che si possa dire è che alle parole, importanti, non sono seguiti i fatti. E in questi quattro anni, Israele ha portato avanti, attraverso l’opera di colonizzazione, quella politica dei fatti compiuti che azzera la prospettiva di uno Stato palestinese che sia ben altra cosa da una sorta di bantustan mediorientale. Uno Stato è una entità compatta territorialmente, con una piena sovranità su ogni zolla del proprio territorio. Uno Stato indipendente deve avere pieno controllo dei suoi confini e delle sue risorse idriche. Altrimenti è uno “Stato-farsa”. Una farsa a cui non possiamo partecipare».
Alla luce di queste amare considerazioni, le chiedo: la parola Pace è una parola impronunciabile in Terrasanta?
«No, è una parola che va riempita di contenuti, alla quale legare un’altra parola-chiave, altrettanto importante: Giustizia. Quella che da decenni il mio popolo reclama invano, per la quale continueremo a batterci».

Corriere 30.9.12
Grass celebra il «traditore» Vanunu niente Tregua tra il Poeta e Israele
di Paolo Lepri


Günther Grass torna all' attacco. Nella sua ultima raccolta di testi, versi e acquerelli, intitolata Eintagsfliegen, elogia come un «eroe del nostro tempo» l'ex tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu, condannato a diciotto anni di reclusione nel suo Paese, e sottoposto dopo la scarcerazione a rigide misure di isolamento, per aver rivelato nel 1986 informazioni sui piani di armamenti atomici dello Stato ebraico. Il governo di Gerusalemme lo ha sempre ritenuto una minaccia pericolosa per la propria sicurezza, mentre il premio Nobel per la Letteratura 1999 lo definisce «un esempio». «Si chiama eroe — scrive — chi sperava di servire il proprio Paese portando alla luce la verità».
Sembra abbastanza, tutto questo, per riaprire le ferite provocate dalla poesia Quello che deve essere detto pubblicata in aprile dalla Süddeutsche Zeitung in cui Grass attaccava duramente Israele e lo definiva la principale minaccia alla pace mondiale. I versi scatenarono furibonde polemiche, sia in Germania che nel mondo, e lo scrittore di Danzica fu dichiarato persona non gradita nello Stato ebraico. Uno scontro frontale, che il tempo non ha fatto dimenticare. Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy parlò di «un antisemitismo nuovo, che ha la possibilità di ridiventare udibile e, prima di essere udibile, dicibile, solo se riesce a identificare "l'essere ebreo" con l'identità cosiddetta criminale dello Stato di Israele, pronto a lanciare le sue saette sull'innocente Stato iraniano».
Nel suo nuovo libro, il cui titolo è dedicato agli effimeri, gli insetti che volano un giorno solo, lo scrittore ha inserito anche la poesia contro Israele che provocò quel terremoto. Ma in una versione leggermente modificata. L'oggetto della sua ira non è «Israele potenza nucleare», ma «l'attuale governo di Israele potenza nucleare». Una precisazione, questa, che Grass aveva già fatto nei giorni successivi alla sua «provocazione» ma che non sembra destinata a cambiare di molto i giudizi di allora. Sempre in Eintagsfliegen c'è una «dichiarazione di amore» per la Germania che si chiama Nonostante tutto. Ci si attenderebbe da lui, forse, qualche «nonostante» anche su Israele.

La Stampa 30.9.12
Lord Chris Patten Ultimo governatore di Hong Kong
“Il futuro è nelle mani della Cina”


Lord Chris Patten, lei che è stato per cinque anni, dal 1992 al 1997, l’ultimo governatore di Hong Kong prima dell’annessione alla Cina, come pensa possa essere il futuro della Cina stessa? E, soprattutto, ritiene che possa scoppiare una guerra tra Cina e Giappone?
«Non penso ci sarà un conflitto, ma le tensioni sono le conseguenze del fallimento di un riavvicinamento tra i due Paesi. In un futuro ragionevole la Cina, che dovrà comunque cambiare i modelli economici e lottare contro la corruzione, diventerà la maggior potenza economica del mondo. Una parte dei cinesi sono conservatori, altri moderati. I primi sostengono che il partito che controlla l’economia prima o poi perderà lo Stato, mentre i moderati dicono che se non verrà mantenuto il controllo dello Stato si andrà incontro ad una disoccupazione crescente».
A Hong Kong le cose sono cambiate, negli ultimi tempi?
«No. È un po’ più cinese, ma mescola il meglio dell’Asia con le migliori qualità della comunità atlantica. In pratica è ancora una società libera con un forte senso di cittadinanza».
Cosa pensa della politica inglese?
«In considerazione del mio incarico di cancelliere all’Università di Oxford e di presidente del Bbc Trust, dovrei stare al di fuori della politica. In ogni caso credo che ogni governo eletto in Europa debba confrontarsi con i problemi democratici e cioè ridurre il debito attraverso alcuni programmi di austerità: eccetto olandesi, tedeschi e finlandesi, siamo tutti sulla stessa barca. La nostra classe politica ha bisogno che la crisi in Europa si risolva in modo soddisfacente. Qualunque risoluzione comporterà cambiamenti fiscali e politici che avranno profonde implicazioni. E in Inghilterra c’è il solito dibattito sulla necessità di rafforzare i rapporti con l’Europa, ma ciò non deve andare a scapito di quelli con gli Stati Uniti... ».
E per quanto riguarda il Medio Oriente?
«Dodici anni fa un gruppo di lavoro di politici, giornalisti, intellettuali e politici arabi ha evidenziato come i Paesi arabi stessi siano quelli che hanno meno successo economico nel mondo malgrado i loro giacimenti petroliferi. Il gruppo di lavoro ha concluso che le ragioni erano varie: da un lato autoritarismo, repressione e mancanza di diritti, ma anche carenza nel sistema educativo e modalità con cui vengono trattate le donne, tagliate fuori dall’educazione e quindi da successive opportunità di lavoro. Con la Primavera araba ci si è sbarazzati di un governo autoritario grazie a coloro che non avevano nessuna speranza, alle classi medie che volevano essere più coinvolte e all’Islam. Finchè c’era uno stato autoritario, l’Islam era l’unico modo di opporsi al regime».
E per quanto riguarda la Siria?
«È il caso di un regime corrotto, autoritario, di una minoranza contro un’altra minoranza. C’è una grandissima difficoltà a buttar giù gli insorti, e viceversa gli insorti hanno grande difficoltà a buttar giù il regime, ma il mondo esterno non è preparato a quanto succede in Siria».
Lei è amico dell’Italia e del Presidente Monti. Come giudice il nostro Paese?
«Gli ammiratori come me dell’Italia, che ha un’economia sofisticata, non capiscono come sia possibile che il Paese da dieci anni sia a crescita zero. Spero che sul lungo termine le riforme di Mario Monti abbiamo un effetto positivo, anche perché l’Italia è uno tra i Paesi europei che gli inglesi da sempre amano di più».
Lord Patten, ma la Bbc nella quale lei ricopre un incarico così importante funziona bene?
«È la migliore televisione pubblica del mondo, è tecnologicamente avanzata e produce bellissimi programmi. Abbiamo dieci canali televisivi e altrettanti radio. Siamo visti dal 96% della popolazione e anche i nostri programmi internazionali hanno grande successo. Sono fiero di come la Bbc ha seguito i recenti giochi olimpici».
C’è molta competizione con Sky o con altri canali televisivi?
«Noi non abbiamo pubblicità perchè ognuno paga il canone, Sky ha successo soprattutto per il calcio, ma la gente guarda soprattutto i nostri programmi».
Lei è anche cancelliere, e cioè rettore, della Università di Oxford.
«Sono eletto da tutti i laureati che hanno il diritto di votare. Si è eletti a vita, come il Papa o il Dalai Lama, è come essere un monarca costituzionale che fa discorsi e partecipa a cerimonie. La nostra è tra le prime cinque facoltà del mondo, forte soprattutto nelle discipline umanistiche, Matematica e Biomedicina. I nostri professori e gli studenti, circa 20 mila, provengono da ogni parte del mondo. Sono fiero di aver dato una laurea ad honoris causa a due presidenti italiani, il presidente Carlo Azeglio Ciampi e a Giorgio Napolitano, oltre che a Giuliano Amato».
Qual è il segreto dell’Inghilterra?
«Il mio romanzo preferito è “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, specie laddove dice “tutto cambia affinché nulla cambi”. Per molti versi Londra negli anni è diventata la capitale d’Europa perchè è una città molto cosmopolita e multietnica: e lo ha dimostrato durante i giochi olimpici».

l’Unità 30.9.12
Tutta colpa della borghesia
Gli idealisti contro la scienza alla base della crisi italiana
«Contro il materialismo» di Pierpaolo Antonello analizza come da noi sia stato sminuito in modo sistematico il pensiero scientifico
di Pietro Greco


NON È COLPA DEGLI IDEALISTI, SOSTIENE ANNA TARQUINI GIÀ NEL TITOLO DI UN SAGGIO APPARSO DI RECENTE SULLA RIVISTA «IL MULINO». Non è colpa dell’«idealismo italiano» di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, sostiene la storica in forza all’università La Sapienza di Roma, se l’Italia da decenni ha fatto a meno della scienza per alimentare la propria cultura e la propria economia. Le colpe vanno ricercate altrove. Non è solo colpa solo di Croce e Gentile, sostiene Pierpaolo Antonello, docente di Letteratura italiana contemporanea a Cambridge, Gran Bretagna, in un libro, Contro il materialismo, in uscita in questi giorni per l’editore Nino Aragno. Ma è colpa anche di tanti altri idealisti che, a destra come a sinistra, hanno sminuito, in maniera sistematica e persino deliberata, il valore culturale della scienza e, nel medesimo tempo – sottolinea il Senior Lecture dell’università inglese, nel poderoso volume (oltre 400 pagine) in cui rifà il «bilancio di un secolo» di confronto tra le «due culture» in Italia – la portata di quel «materialismo volgare» che si fonda sulla profonda e ineludibile componente biologica dell’uomo.
Il libro di Pierpaolo Antonello farà certo discutere. Perché è (sanamente) scomodo. Anche per la sinistra italiana. Anche per la comunità scientifica. La tesi di fondo è molto diversa – persino opposta – a quella di Anna Tarquini. Gli idealisti sono colpevoli, eccome. Ma il punto di partenza e il punto di approdo delle due analisi sono i medesimi. Il punto di partenza è una constatazione di fatto: l’Italia è un paese di nuovo in fase di declino perché nel corso del XX secolo e di questo primo scorcio del XXI non ha quasi mai saputo fare i conti con la modernità. Perché continua a «rifiutare la scienza».
Il punto di approdo è il medesimo. Colpevole di questa storica incapacità è, soprattutto, la borghesia italiana, piccina e provinciale, che nel nostro paese, a differenza che in Inghilterra o in Francia, non è mai riuscita a fare la sua rivoluzione. Nel mezzo c’è il ruolo, controverso, degli intellettuali. Anna Tarquini, in buona sostanza, li assolve. Se l’Italia «rifiuta la scienza», la colpa non è dei filosofi, ma dei produttori. Non è dell’idealismo ma del «modello di sviluppo senza ricerca» fatto proprio, unica in occidente, da una borghesia produttiva di corte vedute. La tesi di Pierpaolo Antonello è invece diversa. Molto netta e ben documentata. Anche i filosofi idealisti, anche i letterati hanno la loro buona parte di colpa. Tutta l’Europa nel corso del Novecento ha vissuto lo scontro di quelle che Charles Percy Snow ha definito «le due culture»: quella umanistica e quella scientifica. Ma solo in Italia – attraverso quattro diverse ondate, lunghe ciascuna una trentina di anni, l’ultima delle quali dura tuttora – hanno prevalso sempre e regolarmente gli «umanisti». Determinando l’anomalia italiana, che è culturale oltre che economica. Pierpaolo Antonello ha analizzato in dettaglio due componenti (più una) della cultura italiana del XX secolo e della prima parte del XXI secolo: quella filosofica e quella letteraria. In entrambe non solo si è scavato un solco tra le «due culture». Ma «quel solco è stato deliberatamente scavato in profondità e difeso strategicamente» da una parte prevalente dei nostri intellettuali. Nella componente letteraria, in realtà, il confronto tra «umanisti» e «scientifici» è stato abbastanza ricco e ha avuto un esito non sempre a senso unico. Figure come Italo Calvino, Primo Levi, Carlo Emilio Gadda e, aggiungiamo noi, Gianni Rodari hanno rinnovato la «vocazione profonda» della letteratura italiana, che – da Dante a Leopardi – è quella del confronto con la «filosofia naturale». In ambito filosofico, invece, non c’è stata partita. Hanno sempre vinto gli idealisti. E, sostiene Antonello riprendendo esplicitamente una tesi espressa da Sebastiano Timpanaro nel saggio Sul materialismo del 1970, hanno sempre perso i materialisti.
PROVINCIA DEL REICH FILOSOFICO
Nel corso di tutto il Novecento e in questi primi anni del XXI secolo, l’Italia è stata, come sosteneva Lucio Colletti, «una provincia del Reich filosofico germanico». La vittoria ha arriso agli idealisti non solo negli ambienti culturali conservatori, quelli di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, per intenderci, che hanno esercitato una forte egemonia nella prima parte del XX secolo, sia negli anni dell’Italia liberale sia in quelli, oscuri, dell’Italia fascista. Ma un certo idealismo antiscientifico – una vena adorniana che si è rifiutata sia di guardare all’uomo come portatore anche di bisogni materiali «volgari»; sia di guardare alla scienza come fonte di conoscenza; sia di guardare alla tecnica come fonte possibile di emancipazione e non solo come fonte di preoccupazione – ha prevalso anche nella cultura cattolica e nella cultura della sinistra che hanno dominato la seconda parte del XX secolo. Qui, forse, la tesi di Pierpaolo Antonello diventa più scomoda. Perché sostiene che la gran parte degli intellettuali della sinistra italiana, ha rinunciato all’approccio materialista e illuminista, per abbracciare la retorica antiscientifica, apocalittica e adorniana. Anche a sinistra ha prevalso un certo idealismo, che ha continuato a scavare un solco tra le due culture che, scrive Antonello, è servito «soprattutto agli umanisti per mantenere il loro residuo prestigio sociale...andando contro, da un punto di vista marxiano, agli interessi di quelle classi che avrebbero dovuto difendere e promuovere, disattendendo le stesse indicazioni gramsciane». Dunque l’idealismo crociano, l’idealismo cattolico e l’idealismo di sinistra hanno (avrebbero) avuto sempre partita vinta. Un paese che non sa fare i conti con la modernità e che oggi, con un declino economico e non solo economico che dura da almeno vent’anni, ne paga il conto. Una scuola senza cultura scientifica. Un’industria senza innovazione di prodotto. Un mondo politico che fa a meno, anche in Parlamento, degli scienziati che altrove – dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti – sono parte decisiva della classe dirigente.
Ad aiutare questa egemonia dell’idealismo antiscientifico, sostiene Antonello, ha contribuito anche la comunità scientifica italiana. Che è stata spesso divisa e quasi mai è riuscita ad affermare il proprio ruolo. Anche se molte sono state le figure degli scienziati italiani con una lucida visione dei rapporti tra scienza e società e, in alcuni casi queste figure sono riuscite a produrre effetti di così straordinaria importanza (i computer Olivetti, lo sviluppo dell’aerospazio, della farmaceutica, della chimica dei polimeri) da sembrare sul punto di cambiare la fisionomia del paese. Ma è tempo di giungere all’approdo. E di chiederci: come mai i diversi tipi di idealismo hanno vinto sistematicamente per un secolo e più? Come mai il paese da 120 anni non riesce a fare i conti con la modernità? La risposta sta, probabilmente, lì dove la cercava Antonio Gramsci. Nella natura peculiare della nostra borghesia produttiva. Quasi sempre provinciale e piccina piccina. Spesso eversiva.

Corriere 30.9.12
Quel Mausoleo alla crudeltà che non fa indignare l'Italia
Il fascista Graziani celebrato con i soldi della Regione Lazio
di Gian Antonio Stella


L'11 agosto scorso è stato inaugurato ad Affile (Roma) un sacrario «al Soldato M.llo d'Italia Rodolfo Graziani». L'opera è stata finanziata dalla Regione Lazio, con fondi in principio destinati al completamento del parco in cui l'opera è stata costruita, ed è costata circa 127 mila euro. Il deputato Pd Jean Leonard Touadi ha firmato una interrogazione parlamentare sull'opportunità della costruzione. SEGUE DALLA PRIMA
Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc, ma non sia riuscita a sollevare un'ondata di indignazione nell'opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
Francesco Storace è arrivato a dettare all'Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.
È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò...) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all'Etiopia l'estradizione di Graziani richiesta per l'uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l'anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d'Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
Per non dire dell'indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l'uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell'Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l'inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».
«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall'Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l'Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all'intiero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica».
Fu lui, l'«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui a scatenare nel '37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l'attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L'inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s'abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C'era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d'un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».
C'è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un'agonia che durò ore. Fra i colpiti c'erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».
Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull'iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell'imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un'interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l'assenza d'una reazione da parte dell'Italia.
Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant'Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.

La Stampa 30.9.12
Cosa insegna la lezione dei Santi folli
di Enzo Bianchi, priore di Bose


In simbiosi con gli alberi, braccia issate verso il cielo
san Francesco Ribadiva d’essere «pazzus in Christo, simplex et idiota»
NELL’ORIENTE CRISTIANO hanno originato una vera e propria categoria di santità
UOMINI E DONNEVissero lo slancio estremo di fede verso il Cristo crocifisso"

Nella storia del monachesimo, alcuni uomini e donne hanno caratterizzato il loro stile di vita ascetica attraverso forme di abdicazione alla normalità, di follia agli occhi dei loro contemporanei. Siamo capaci di ascoltare il riso dei santi “folli”?

Dagli stiliti siriani del IV secolo a San Basilio di Mosca la storia della Chiesa è ricca di “innamorati pazzi” di Gesù. Persone fuori dalla norma che hanno molto da dirci ENZO BIANCHI San Daniele stilita, miniatura dal Martirologio di san Basilio Il fitto programma della giornata conclusiva dell’edizione 2012 di Torino Spiritualità dedicata alla Sapienza del sorriso si apre questa mattina alla Cavallerizza con un seminario del priore di Bose Enzo Bianchi sul tema I santi folli. Pubblichiamo uno stralcio del suo intervento. Fra gli altri ospiti della giornata Gustavo Zagrebelsky, Michele Serra, Haim Baharier, Roberta de Monticelli, David Le Breton L’incontro con George Steiner è stato annullato per le condizioni di salute del critico francese
Non per protagonismo eccentrico, ma per opporre la stoltezza della croce a quanti di questa croce hanno fatto un labaro, un’insegna trionfante, un emblema dell ’imperium ecclesiale sul mondo. A volte, in una chiesa fatta di sapienti, di intellettuali, di arconti, di istituzioni ordinate e allineate non è stato possibile testimoniare la «follia della croce» di cui parla l’apostolo Paolo se non assumendo la forma della pazzia, dell’eccesso, della non-normalità. Questi testimoni amavano definirsi «semplici, idioti, pazzi» e sceglievano di confondere «ciò che è» attraverso la debolezza di «ciò che non è» (cf. Prima Lettera ai Corinti 1,28) in nome di un amore folle per il Crocifisso, il Disprezzato, l’Alienato fino alla morte e alla morte di croce.
Il corpo di questi uomini e queste donne, «fratello asino», rivestendo la forma della follia è divenuto segno efficace di quella stoltezza di Dio che confonde la sapienza umana: a volte si è spogliato nudo, altre volte ha mostrato un eccesso di stravaganza oppure si è mescolato ai trasgressori dell’ordine costituito, si è reso familiare alle bestie, ha assunto la forma del peccatore, preferendo dimorare nei postriboli piuttosto che tra le colonne delle chiese affollate di cristiani ipocriti e formalisti...
Quello che altri innamorati folli di Cristo hanno consegnato ai fratelli attraverso gli scritti e la predicazione, costoro lo hanno impresso nel proprio corpo, mettendo in scena un dramma e vivendo un mimo somatico capaci di trasmettere un messaggio efficace. Fin dal IV secolo, nel deserto della Siria appaiono i folli stiliti, autoconfinati in cima a una colonna, e i dendriti, che vivevano in simbiosi con gli alberi, come braccia issate verso il cielo; il mondo greco-bizantino ha conosciuto i «pazzi», così come quello russo secoli dopo ha visto apparire i «folli»: immagini del Crocifisso, questi vagabondi, dimentichi di sé, disprezzati dalla gente comune, hanno ricordato la «follia della croce» a una chiesa ben installata tra i potenti e i saggi di questo mondo. Ma anche in occidente, nonostante il diritto romano e la prudente legislazione ecclesiastica che rendevano attenti al «principio delle realtà e del senso comune», i folli in Cristo non sono mancati: questa insania evangelica è riuscita addirittura a influenzare un santo come Ignazio di Loyola, che definiva la sua compagnia una «societas di stolti e di professanti la stoltezza», senza dimenticare Francesco d’Assisi che ribadiva costantemente la sua qualità di pazzus in Christo, simplex et idiota. Ma è nell’oriente cristiano che la figura dei folli in Cristo è stata talmente frequente da originare una categoria vera e propria di santità: persone definite nei calendari liturgici come «quelli che, spinti dall’amore di Dio e del prossimo, hanno adottato una forma di pietà cristiana che si chiama follia per amore di Cristo. Costoro rinunciano volontariamente non solo alle comodità e ai beni della vita terrestre, ai vantaggi della vita sociale ma accettano in più di assumere l’apparenza di un pazzo che misconosce le regole della convenienza e del pudore e si permette sovente di commettere azioni scandalose. Costoro non temono di dire la verità ai potenti di questo mondo, accusando quelli che hanno dimenticato la giustizia di Dio e consolando quelli che, pur disprezzati, temono Dio in tutta umiltà». Come non citare una figura tra tante, quella di san Basilio di Mosca che nella sua apparente follia protestò contro la crudeltà di Ivan il Terribile offrendogli come pasto carne cruda in tempo di Quaresima? Al rifiuto scandalizzato, il folle in Cristo chiese allo zar come mai avesse scrupoli a mangiare carne di animali durante la Quaresima proprio lui che in ogni stagione dell’anno non esitava a mettere a morte cristiani e persone innocenti. Del resto, basta leggere l ’Idiota di Dostoevskij o Il maestro e Margherita di Bulgakov per capire come la figura del «folle» abbia informato tutta la cultura russa, fino ai pazzi per Cristo descritti in Le mie missioni in Siberia da Spiridione, cappellano nei gulag zaristi all’inizio del XX secolo. Né a questa santità particolare mancano i riferimenti a figure bibliche decisive: il re David non solo si finse pazzo intonando un salmo «Io sono folle nel Signore, chi è umile ascolti e si rallegri... », ma di fronte all’arca della presenza di Dio si abbandonò nudo a una danza sfrenato, pazzo di gioia per Dio. Persino Gesù fu considerato «fuori di sé» dai suoi familiari che volevano fermarne la predicazione, ritenuta scomoda a causa delle folle che riusciva ad entusiasmare (cf. Marco 3,20-21). E che dire di san Paolo che a più riprese esortava i cristiani di Corinto a sopportare la sua pazzia e a ritenerlo pure un pazzo, fino a confessare apertamente: «Sì, sono diventato pazzo! ».
Al di là di affermazioni dogmatiche e confessioni di fede dettate da un’inappuntabile razionalità, questi uomini e queste donne hanno vissuto lo slancio estremo della fede, vivendo costantemente rivolti verso il Cristo crocifisso, il solo «sapiente» che han voluto conoscere in questa vita. Malati di mente? Forse. Di certo malati di Dio. Ibn Arabi, il grande mistico sufi poteva dire – forse proprio per aver incontrato qualcuno di questi folli: «Colui la cui malattia è Gesù non guarirà mai più! ». Gesù non ha forse detto di essere «venuto a portare il fuoco sulla terra»? Questi folli hanno lasciato che quel fuoco bruciasse fino a consumare la razionale sapienza di chi si ritiene saggio. Siamo capaci di ascoltarne il riso ammonitore?

Corriere 30.9.12
Nella favola dei tre anelli tutti figli dello stesso dio
risponde Sergio Romano


Ci indigniamo per il film blasfemo sul Profeta, ma è dalla notte dei tempi che circolano testi e libelli che vedono da angolazioni non sempre lusinghiere i fondatori delle religioni rivelate: basti pensare al medievale Trattato dei tre impostori: Mosé, Gesù e Maometto, attribuito a Federico II, ma anche al musulmano Averroè Rappresentazioni irriverenti e libertine ce ne sono sempre state, solo che oggi non rimangono relegate a ristretti cenacoli.
Filippo Testa

Caro Testa,
La lista dei possibili antichi autori dei libello citato nella sua lettera è molto più lunga, ma la sua notorietà risale soprattutto al Settecento quando divenne un classico dello scetticismo e per molti, addirittura, una piccola bibbia dell'ateismo. Lo scopo del libro è evidente in questa affermazione del suo misterioso autore sul ruolo dei grandi profeti nella storia delle religioni: «Tra i tanti l'Asia ne ha visti nascere tre, che si sono distinti sia per le leggi e i culti che hanno istituito, che per la nozione che essi hanno dato della divinità e del modo in cui essi se ne sono serviti per far recepire la loro idea e rendere sacre le loro leggi. Mosè fu il più antico. Gesù Cristo, venuto dopo, lavorò in accordo con il piano di Mosè conservando la base delle sue leggi ed abolendo tutto il resto. Maometto, che è apparso per ultimo sulla scena, ha preso dall'una e dall'altra religione quanto serviva per comporre la sua e, in seguito, si è dichiarato il nemico di tutte e due. Vediamo le caratteristiche di questi tre legislatori, esaminiamo la loro condotta, al fine di poter decidere quali hanno i migliori fondamenti, oppure ciò che li rivela come uomini divini o quello che li riduce a furbi e impostori».
A me sembra tuttavia, caro Testa, che la storia più adatta alle vicende di queste ultime settimane sia la favola che il saggio Nathan, facoltoso mercante ebreo nella Gerusalemme delle Crociate, raccontò al Saladino quando questi, un giorno, gli chiese: «Quale è la religione, quale la legge che ti ha maggiormente persuaso?». Nathan parlò di uno splendido anello fatto con un «opale iridescente di cento colori» che aveva la segreta virtù di rendere amabile di fronte a Dio il suo proprietario. Questi lo lasciò in eredità al figlio prediletto e così fecero, di figlio in figlio, i suoi successori sino a quando l'anello toccò a un uomo che aveva tre figli e li amava dello stesso amore. Per evitare una scelta dolorosa e ingiusta, l'uomo, quando fu vicino alla morte, fece segretamente fabbricare da un orafo altri due anelli identici al primo. Lo scandalo scoppiò quando ciascuno dei tre figli, alla morte del padre, sostenne di essere l'erede preferito. Vi fu un processo, ma il giudice avanzò l'ipotesi che il padre avesse voluto premiare tutti i suoi figli e che a questi spettasse ora il compito di rispettare la volontà paterna e gareggiare fra di loro nel mettere in evidenza le virtù dell'anello. Commosso e sorpreso, il Saladino strinse la mano di Nathan e la tenne a lungo fra le sue.
La favola dei tre anelli era già stata raccontata da Boccaccio nella prima giornata del Decameron. Ma la versione che ho appena riassunto è in Nathan il saggio, un piccolo capolavoro teatrale del romanticismo tedesco. L'autore è un ebreo, Gotthold Ephraim Lessing, e il personaggio storico a cui si ispirò per creare la figura di Nathan è Moses Mendelsohn, filosofo e protagonista dell'Illuminismo tedesco, capostipite di una famiglia che si convertì in buona parte al cristianesimo. La tomba del Saladino è nella grande moschea di Damasco; e ciò che sta accadendo intorno a lui non gli sarebbe piaciuto.

Corriere La Lettura 30.9.12
Picasso, l'arte
Arte, fotografia, architettura, design, mercato
«Non dipingo per decorare case» La pittura è testimonianza civile
di Arturo Carlo Quintavalle


«L'arte astratta è soltanto pittura… L'arte astratta non esiste. Si deve sempre partire da qualcosa. Si può togliere, dopo, qualsiasi apparenza di realtà, ma l'idea dell'oggetto avrà comunque lasciato il suo segno inconfondibile». Così, nel 1935, Picasso «realista». «Che cosa credete che sia l'artista — scrive nel 1945 —, un imbecille che ha solo gli occhi, se è un pittore… no, egli è anche un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo… La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico».
Sta forse in queste affermazioni la chiave per capire una vicenda altrimenti inspiegabile. Come mai un pittore di genio, longevo come pochi nella storia, creatore fecondo come nessuno prima di lui, abbia trasformato il modo di dipingere e di pensare l'arte nella società dell'Occidente. Perché Picasso, fin dagli inizi, è un artista «impegnato» e i due periodi blu e rosa, malamente contrapposti sul piano formale, coi loro «vecchi ebrei», coi mendicanti, con Célestine, con gli angosciati saltimbanchi di circhi di periferia, muovono dalle grafie di David e di Ingres ma anche da una consapevolezza civile, dalla riflessione del socialismo riformatore, quello di Proudhon.
È vero, sarà Matisse a scoprire l'arte negra attorno al 1906-07 ma è lui, Picasso, ora in mostra a Milano — un'esposizione che vale la visita — a porsi il problema delle «culture altre», e a trasformare la propria ricerca ben prima de Il cavaliere Azzurro (1912) e di molte altre avanguardie. Le demoiselles d'Avignon (1907) diventano così, da scena di una «casa» con marinai e prostitute, un dipinto che cambia il modo di pensare la funzione della pittura. Quindi l'artista inventa la scomposizione delle figure del «cubismo analitico» pensando alle foto di Marey e Muybridge ma evocando anche l'idea del tempo, della memoria, della durata, di Henri Bergson. «Si è cercato di spiegare il cubismo con la matematica, la trigonometria, la chimica, la psicoanalisi… tutto ciò non è stato che letteratura, per non dire "non senso"» dichiara nel 1923 l'artista. E proprio il cubismo di Picasso e di Braque viene ripreso in tutta Europa: dai Futuristi, su un piano formale, dagli artisti della Russia sovietica, anche dal primo Klee, e un poco ovunque da pittori e scultori fra le due guerre.
Ma intanto Picasso, che dialoga con i maggiori scrittori, poeti, artisti della Parigi di quegli anni, trasforma ancora la propria ricerca: va nel 1917 a Roma, dove inizia il grande sipario per Parade (1917), e propone un ritorno al «classico», alla figurazione, dialogando con de Chirico e Carrà. Picasso, negli anni 20 e 30, è figura guida dell'arte in Europa e negli Stati Uniti, ma arte è per lui impegno e la guerra di Spagna mette a confronto modi diversi di essere artista, i molti che si rifugiano nella propria ricerca e Picasso, che, con altri, si impegna per la Spagna repubblicana. Emblematica la storia di Guernica, il dipinto della strage nazista nel paese basco, che, dopo la Esposizione di Parigi nel 1937, andrà in esilio al Moma di New York per tornare a Madrid solo alla fine della dittatura di Francisco Franco. Un impegno che ritroviamo in altre opere importanti: La Guerra e la Pace (1952) per Vallauris e ancora Massacro in Corea (1951). «Il conflitto spagnolo è la lotta della reazione contro il popolo, contro la libertà» dichiara nel 1937 l'artista, e anche la sua iscrizione al Partito comunista nel 1944 nasce da una consapevolezza: «Ho coscienza d'aver sempre lottato, con la mia pittura, da vero rivoluzionario», dichiara allora.
Non c'è artista, fra le due guerre e nel dopoguerra, che non abbia dialogato con Picasso, da Jackson Pollock, che disegna i propri sogni evocando lo spagnolo, a De Kooning; da Max Ernst a Jacques Lipchitz; dai nostri Birolli, Cassinari, Morlotti, Vedova a Estève e Manessier in Francia; da Henry Moore a Graham Sutherland in Inghilterra. Nel 1939 Picasso dipinge La notte pescando ad Antibes, sogno di una pace presto perduta, e questo quadro, e le nature morte coi bucrani, saranno modelli per la nuova pittura europea.
Ma Picasso nel dopoguerra si isola, nonostante il consenso mondiale, e torna al dialogo con gli artisti più amati; ecco i grandi cicli dedicati al Delacroix di Le donne di Algeri (1954), al Velázquez di Las meninas (1957), al Manet del Déjeuner sur l'herbe (1960), ma è Il pittore e la modella (1964) il racconto forse più amaro, metafora della propria solitudine. Un lungo dipingere che si concluderà nel 1973 con la morte.
Il senso di un impegno che ha cambiato la storia dell'arte di un intero secolo viene forse dal finale di una pièce del 1941, Il desiderio preso per la coda: «Accendiamo i voli delle colombe contro le pallottole e chiudiamo a doppia mandata le case demolite dalle bombe». Le colombe: appunto, la pace.

Corriere La Lettura 30.9.12
Picasso, il brand
Come Disney, come la Nike o Dalí Si punta sul «potere della marca»
di Vincenzo Trione


Picasso, Milano. Muoviamo dalla retrospettiva ora a Palazzo Reale. Una mostra, curata da Anne Baldessari, che raccoglie opere del Musée Picasso di Parigi e arriva in Italia dopo aver toccato 15 musei. Un défilé privo di ambizioni critiche, che aggiunge poco alla conoscenza del Michelangelo del XX secolo. Caratterizzato da un allestimento sobrio, l'itinerario espositivo disegnato risulta poco sorprendente: si è seguito un criterio meccanicamente cronologico, che non rivela assonanze tra creazioni di epoche diverse. Si tratta di un evento in cui gli organizzatori sembrano aver puntato innanzitutto sul «potere della marca». Ovvero, su Picasso come brand. Anzi, come uno tra i brand più efficaci del nostro tempo. Come Disney, come la Nike.
Perché ormai Picasso, sempre più spesso, viene percepito non solo come l'icona dell'avanguardia, «l'unico uomo dopo Shakespeare che ha espresso il mondo e se stesso in modo totale» (secondo Italo Calvino), ma soprattutto come un prodotto. Tra i maggiori responsabili di questa deriva, sono gli stessi eredi del maestro spagnolo, come è stato raccontato da Michel Guerrin in un articolo uscito su «Le Monde» (e ripreso su «Il Giornale dell'Arte»). In particolare, il figlio Claude, il quale dal 1989 è alla guida della Picasso Administration, la cui missione è curare l'eredità e l'immagine dell'inventore del cubismo. Che è stato tra gli artisti più prolifici di tutti i tempi: 1.885 dipinti, 7.089 disegni, 2.800 ceramiche, 1.228 sculture, 10.000 tra incisioni e litografie. Senza dimenticare le opere ancora non schedate (lo scorso anno si sono ritrovati 270 disegni nel baule di un elettricista).
La Picasso Administration emette certificati di autenticità. Gestisce la riproduzione dei quadri e delle sculture su libri, giornali, poster, cartoline. Inoltre, vuole tutelare il «grande anatomista» (per dirla con Apollinaire) da quanti accostano il suo nome a prodotti come vernici, biancheria, tappeti, ceramiche, tende. Infine, mira a controllare le ricostruzioni e gli adattamenti televisivi e cinematografici non graditi, perché irrispettosi.
Famoso come un divo del cinema o una rockstar, Picasso è un longseller, celebrato da 7 musei monografici. Solo nel 2012 gli sono state dedicate 69 mostre e 40 libri. Provare a salvaguardarne l'identità dalle strumentalizzazioni possibili è un'attività impegnativa e ricca di ostacoli. A volte, però, la Picasso Administration non è stata rigorosa. Si pensi a quanto è accaduto nel 1999, quando ha stipulato con la Citroën un contratto per la nuova Xsara: la Picasso, appunto. Un modo per trasformare irrimediabilmente un artista in un bene di consumo, commentò Jean Clair. «Nella società del terzo millennio, si dirà "un Picasso" per indicare un autoveicolo».
Un analogo trattamento è toccato ad altri protagonisti del Novecento: da Dalí a Warhol, ad Haring. La loro «memoria» oggi è custodita da fondazioni che si consegnano a strategie piuttosto ambigue. Per un verso, dichiarano di volerne «difendere» la grandezza. Per un altro verso, si affidano a una logica di tipo aziendale. Quasi adeguandosi alla filosofia di Warhol — «la Business Art è il gradino subito dopo l'arte» — si immolano sull'altare del profitto. Ricorrendo a un affarismo privo di moralità, agiscono con disinvoltura e cinismo. Il loro principale obiettivo: arricchirsi. In molti casi, speculano sui prestiti delle opere. Pronte a stipulare scellerati patti con il marketing, tendono a vedere il patrimonio che hanno il compito di conservare, di promuovere e di far conoscere e apprezzare soprattutto nell'ottica dello sfruttamento finanziario a fini non culturali. In questo modo, rischiano addirittura di «violentare» la forza, il destino e la ricezione dell'opera di artisti come Picasso o Dalí, che vengono trattati alla stregua di marchi da usare senza scrupoli. Sono società per azioni, che seguono la filosofia dell'entertainment. E che, spesso, investono poco sulla ricerca archivistica seria, rivolta a svelare territori poco esplorati.
Siamo dinanzi a una degenerazione. Che sta contagiando molti settori dell'arte. I beni culturali, sovente, vengono descritti non come una risorsa etica e civile, ma come un salvadanaio. Sempre più frequentemente, si considerano «importanti» solo gli artisti che raggiungono quotazioni stellari. Si confondono valore mercantile e significato, prezzo e qualità estetica delle opere. In maniera ossessiva, il dibattito mediatico si sofferma soprattutto sulle cifre raggiunte dalle provocazioni di Hirst o di Koons. Vittime di un effimero «economicismo», siamo costretti a vivere, come ha scritto Robert Hughes, in un panorama di «stupidità umana, spazzatura e volgarità (…) manovrato da Sotheby's e Christie's». Ma anche da aziende come la Picasso Administration o la Fundación Dalí, le quali, per servirci delle parole di Marc Fumaroli, spesso non si comportano da istituzioni autorevoli, ma tendono a «conformare la valutazione delle cose dello spirito a quella in uso per i prodotti commerciali».
Come reagire a questi abusi della memoria? In un solo modo. Ricominciando a pensare la grande arte come qualcosa che non ha prezzo: come qualcosa di inestimabile. Perché le cose che davvero contano — nell'arte e nella vita — sono meravigliosamente inestimabili.

Corriere La Lettura 30.9.12
Haiku, la cura di Zanzotto Da Pieve di Soligo la sua lezione di stile e ricerca
e poesie della stagione più cupa. In inglese «Cercavo il grado zero di una lingua»
di Marzio Breda


«Chi teme di soffrire soffre già di ciò che teme». Nelle pause che gli concedevano i suoi malanni, da ogni punto di vista leggendari, Andrea Zanzotto a volte scherzava su se stesso citando l'aforisma dedicato da Montaigne agli ipocondriaci. Certo, non erano pause durature. Tra attacchi allergici o gastrici e insonnie (lo teneva desto lo scorrere del sangue nelle vene, che gli rimbombava in testa «come lo scroscio di una cascata», tanto da fargli scrivere, in un verso di autodiagnosi, «veglio in iperacusia»), quella catena di traumi, acciacchi, mezze fisime e nevrosi era davvero invalidante. Ma ci fu una stagione nella quale la famiglia e gli amici si preoccuparono seriamente, per lui: gli anni tra il 1982 e l'84. Quando, all'ingresso nella cosiddetta terza età, si ritrovò schiacciato da una depressione tenebrosa, che lo spinse a vari ricoveri in ospedale e a entrare in analisi. Per inciso, un'analisi plurale, con specialisti di diverse scuole.
«Una pesante sfiducia mi assediava... mi sentivo minacciato dal senso di un'irrealtà di tutto e da una sterile panfobia», scrisse tempo dopo, sfogandosi nelle cartoline postali che usava per la corrispondenza con gli interlocutori più intimi o aprendo squarci rivelatori in qualche colloquio e intervista. Paterno e fraterno insieme, dato che aveva il genio dell'amicizia, ammoniva sui rischi del disagio e del disordine psichico così come li aveva verificati sulla sua pelle. Confessava che quella sofferenza, tra spossatezza e passività, lo aveva portato sull'orlo dell'inaridimento, dell'afasia. «È stato un momento cupissimo, come se fossi stato immerso in una palude limacciosa, anzi una fogna, e le parole — pochissime, all'inizio simili a crampi verbali — mi venivano fuori alla stregua di bolle. Gargarizzavo un flusso di frammenti e variazioni, ritorni e ripensamenti, con ibridazioni linguistiche... oscillavo tra il mutismo e un balbettio di pochi vocaboli, drenando degli pseudo-haiku che, in una specie di effetto calamita, si congegnavano a gruppi, a coroncine...
«Li componevo in un inglese ridotto quasi al grado zero, minimo e minimalista, perché quella lingua la conoscevo poco ma mi piaceva esplorarla. Di rado affioravano anche formazioni in dialetto o mi aggrappavo a intarsi in un italiano lucente, forse per un inconsapevole omaggio alla lingua di Dante, Petrarca e Ariosto, e più probabilmente per notificarmi presente a me stesso con un bip-bip vitale... Ma, nel mio stato patologico, a prevalere erano quelle stille che spesso esprimevo in un neoinglese "petèl", cioè il linguaggio vezzeggiativo che utilizzano le madri e le nutrici cullando i figli ancora nel nido della pre-infanzia... un tuffo nell'oralità perpetua... Versi che non possono forse dirsi "inglesi" e che tuttavia in qualche modo lo sono».
Un capitolo piuttosto misterioso nella sua vasta opera, la gemmazione degli haiku di Zanzotto tra la primavera e l'estate del 1984. Il poeta vi alludeva, ma conservando i testi in un cassetto. Da lì, negli ultimi tempi, ne faceva saltar fuori qualcuno, detriti della sua storia da regalare a ricercatori e studiosi.
Raccontava che ispirarsi «in libertà» (ecco perché li chiamava pseudo-haiku) ai codici della tradizione giapponese — 17 sillabe, ripartite in tre versi dei quali due quinari alternati a un settenario — gli aveva permesso di superare la fase forse più critica dell'esistenza. Era stato uno strumento di auto-aiuto. Aggiungeva di averne ricavato — con il diario che aveva ripreso a tenere — una prova del principio freudiano per cui il nevrotico è un malato che si cura con la parola, anzitutto la propria, e infatti per lui la poesia era «una forma di particolarissima autoanalisi». Cioè «ferita e farmaco», in un processo di continui ondeggiamenti, slogature e prospezioni dentro l'inconscio (e per lui dentro le ragioni fondanti della letteratura) più che un semplice «pensare contro se stessi», secondo la convenzione di Jacques Lacan. «Scrivevo, e non mi ponevo il problema se ciò che facevo contasse qualcosa. Mi lasciavo andare a una deriva più o meno pigra che a volte si trasformava in un "dittar dentro" somigliante anche a un "diktat", a qualcosa di impositivo e di cui non mi potevo liberare...».
Spiegava che la parentesi di allora rappresentava, oltre a una riabilitazione a scrivere, «una cerniera» nel suo percorso creativo, uno scatto stilistico, un passo laterale verso le poesie di Meteo. Anticipava che — fedele al canone nipponico — in quella sperimentazione tutta giocata su densità e brevità, freschezza, sottigliezza e rapidità del pensiero, incalzavano «elementi di paesaggio e di natura» e altre «suggestioni effimere», legate ai lampi cromatici del mutare del clima e alle fioriture di alcune piante selvatiche. Ad esempio i papaveri e i topinambur «che infiorano i fossi come raggi di sole su un piatto di stagno». E spesso contestualizzava quei vaghi cenni con confronti tra l'italiano e l'inglese. Mantenendo sullo sfondo il suo dialetto del Piave, base verbale in cui si riconosceva, quasi un fossile idiomatico irto di apocopi («ho dit, ho fat, son 'ndat...»): un campo da dissodare a parte, per chi voglia capirlo, e che comunque, grazie a lui, ha reso Pieve di Soligo «un piccolo grande cuore del mondo», come ha detto Claudio Magris.
Dell'italiano aureo di Dante e Petrarca, «illustre e monumentale», avvertiva «le seduzioni e altezze del canto interno alla lingua». Mentre di quello contemporaneo, «esangue e traballante», coglieva sintomi di usura e di smottamento nel parlato e nella scrittura in prosa, e soprattutto lo urtavano le «atrocità fonico-ritmiche» e il «costoso» polisillabismo. Questo insieme gli procurava l'impressione di un'iperdiafania, «come quando si fanno delle radiografie e un'iperdiafania svela che un tessuto si è sfilacciato».
Dell'inglese lo incuriosivano «le ricchezze allitteratorie e l'educazione al monosillabismo di cui noi siamo deprivati», e anche per questo gli pareva (nonostante «la pappa lessicale» in cui si era ridotto, nella sua versione esperantizzata tra canzoni, aeroporti, economia, scienza e tecnica) «rapido, fiammeggiante, guizzante». Perciò adatto al «baluginio di piccoli atomi» che era emerso dagli strati profondi e antichi della sua psiche. Riflessioni allargate a quelli che chiamava gli «stati caotici di Babele, della torre bla-bla-bla» che, «per castigo di Dio, ci ha privati di un idioma universale». Da «giardiniere e botanico delle grammatiche» in grado di destreggiarsi in almeno quattro o cinque lingue, condivideva con amici e anglisti (tra questi Sergio Perosa) dubbi o incertezze nella revisione dei testi e nella loro traduzione. Sì, perché un po' di anni dopo — superando le ansie del tradurre/tradire, ossia del trasferire un sistema fonetico in un altro e quindi decostruire e aggiornare, imitare — Zanzotto decise di auto-tradursi in italiano. Producendo «versioni parallele e semiautonome». Spiazzanti.
Ne è nata una raccolta bilingue pubblicata ora negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (Haiku for a season, The University of Chicago Press, a cura di Anna Secco e Patrick Barron), che è l'ultimo libro dal lui licenziato in vita. Una preziosità assoluta. Alla quale si aggiunge la ristampa (per l'editore Einaudi) di Filò, elegia in dialetto sulla fine del dialetto, del 1976, nato a margine di una collaborazione con Federico Fellini per il film Casanova, corredato pure da una «cantilena» e un «recitativo» composti per la pellicola. Non sono le sole novità che lo riguardano. Altri studi e convegni sulla sua opera sono in cantiere. A dimostrazione che quello che, per «Le Monde», è stato nel Secondo Novecento «le plus moderne, plus savant, plus émouvant poète italien» e più volte vicino al Nobel, continua a parlarci.
Tra poco ricorre il suo 91° compleanno (il 10 ottobre, come preferiscono ricordare in famiglia) e il primo anniversario della scomparsa (il 18 ottobre 2011). Dietro la casa alle cui finestre Zanzotto si appoggiava con mani fragili per guardare ancora una volta «le sublimerie» del labirinto di boschi, colline e prealpi trevigiane, oggi stanno tirando su un palazzo destinato a oscurare l'orizzonte. Tutto regolare, per carità, con le carte bollate, i timbri e le licenze previsti dalla legge. Ma a nulla vale il fatto che, forse per scusarsi dell'incoerenza o forse per apparentarsi (con il pretesto di un ossequio abusivo) alla sensibilità del poeta per la bellezza del suo paesaggio e per l'epopea contadina della sua terra, abbiano voluto battezzarlo «condominio Filò».
Preclusioni, barriere. Di sicuro Zanzotto ne sarebbe umiliato e sconfortato. Si sentirebbe in gabbia e senza respiro. In esilio a casa propria. Magari sarebbe slittato in un'altra fase di drammatica e stremata malinconia, simile a quella riassunta — tra nausea e fecondità — nelle pagine di Haiku for a season.
Versi che affiorano da quella lontana parentesi di sofferenza e che aveva steso sentendoli poi echeggiare come un mugolio della mente, tra il frusciare delle foglie e il rumore dei suoi passi, durante le passeggiate nei boschi. Commoventi rivelazioni a se stesso, e a noi. «Delicate makeup of silk / in reflections of far distances — / all simple thought is near» («Delicato belletto di seta / nel riflesso di grandi distanze — / ogni pensiero semplice è vicino»). O, più ancora, questi altri versi: «Lost-shy petals of panels,/ clipped minitalks, past thoughts — / little bitter teeth biking» («Timidi-perduti petali sui vetri / mini-discorsi spezzettati, pensieri passati — / mordenti asprigni dentini»). «Parallel worlds, roots / of vitreous deep languages — / bubbles weep in throats» («Mondi paralleli, radici / di vitrei profondi linguaggi — / bolle piangono in gole»).
Immagini dalle quali sono lievitate le sue poesie ultime, del 2009, riunite in Conglomerati. Come quella, straordinaria, intitolata «Papaveri»: «Fiammelle qua e là per prati / friggono luci disperate ognuna in sé / quelle siamo noi, racimoli del fuoco / che pur disseminando resta pari a se stesso / è zero che dona, da zero, il suo vero».