martedì 2 ottobre 2012

l’Unità 2.10.12
Strage di Stazzema, la Germania salva le SS
Berlino ha deciso di non processare i responsabili
La Procura archivia il procedimento contro i nazisti per insufficienza di prove
A Sant’Anna morirono 560 persone
Il governatore Rossi: «Tra loro c’erano rei confessi»
I parenti: «Restituiamo la medaglia d’oro»
Il procuratore militare: «L’impianto accusatorio era solido. In Italia le condanne confermate»
di Maria Vittoria Giannotti


FIRENZE La magistratura tedesca rinuncia a fare giustizia sulla strage di Sant’Anna di Stazzema. Con un comunicato stampa, la procura di Stoccarda ha annunciato l’archiviazione dell’inchiesta aperta dieci anni fa per dare un nome e un volto ai responsabili del massacro di 560 innocenti, tra cui 107 bambini. Era il 12 agosto del 1944 quando i soldati della 16a divisione della Waffen-SS Reichsfuehrers-SS aprirono il fuoco su contadini, donne e minori: il più piccolo, tra loro, aveva appena venti giorni. Una strage atroce compiuta nell’arco di poche ore. Ma il processo, in Germania, non si farà. E così gli 8 gerarchi delle Ss ancora in vita ma gli indiziati erano in tutto 17 non dovranno neppure comparire davanti a un giudice.
Il motivo della decisione, destinata a riaprire una ferita mai chiusa, è drammaticamente banale: insufficienza di prove. «Dalle indagini, condotte in maniera ampia ed estremamente approfondita insieme all’ufficio criminale del Baden-Wuertemberg spiega la magistratura tedesca è emerso che non è possibile dimostrare una partecipazione degli indiziati agli avvenimenti del 12 agosto 1944, punibile con una pena che non sarebbe prescritta». Gli inquirenti, in sostanza, non sono riusciti a dimostrare che il massacro compiuto dai 17 militari della divisione di granatieri corazzati Reichsfuehrer Ss sia stato programmato sin dall’inizio come «un’azione di sterminio contro la popolazione civile».
La Procura ipotizza che «obiettivo dell’azione militare originariamente fosse la lotta contro i partigiani e la cattura di uomini abili al lavoro per una deportazione in Germania e che l’uccisione della popolazione civile sia stata comandata solo quando si era reso chiaro che quell’obiettivo non poteva essere raggiunto». La sola appartenenza alla divisione protagonista del massacro per i procuratori tedeschi non basta: per ciascuno degli indagati si sarebbe dovuto poter «dimostrare una responsabilità individuale», cosa «non riuscita». Nell’impresa, però, era riuscito, nel 2005, il Tribunale militare della Spezia che aveva già condannato dieci appartenenti, tutti ultraottantenni, al gruppo delle SS, poi finito sotto inchiesta da parte dei colleghi d’Oltralpe. «Il nostro impianto accusatorio era solido si limita a osservare Il procuratore militare di Roma Marco De Paolis visto che la sentenza è stata confermata dalla Corte militare d’appello e poi dalla Cassazione. Alle condanne si è giunti non solo sulla base di precise prove documentali e testimoniali, ma ci sono stati alcuni imputati rei confessi, non solo con i magistrati, ma addirittura con i giornalisti». La procuratrice capo di Stoccarda, Claudia Krauth, che ha coordinato le indagini, non sembra avere rimpianti: «Mi sento di assicurare ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime che abbiamo fatto tutto il possibile. Anche qui sentiamo il peso della nostra responsabilità».
ogni ragionevole dubbio le responsabilità dei dieci imputati che furono infine condannati» tuona Michele Silicani, il sindaco del comune arroccato sulle Apuane. «Nei prossimi giorni dichiara assumerò una iniziativa forte nei confronti del ministro degli Esteri e del ministro della Giustizia affinché inizi un percorso di dialogo tra la Germania e l’Italia per il riconoscimento delle sentenze emesse dai rispettivi tribunali».
Ma queste parole non bastano a placare l’ondata di indignazione che la decisione presa Oltralpe ha suscitato a Stazzema e in tutto il Paese. «Questa archiviazione è un’offesa non solo alle vittime e ai loro familiari e quindi a tutti noi, ma al lavoro svolto dal Tribunale militare della Spezia che aveva provato oltre ogni ragionevole dubbio le responsabilità dei dieci imputati che furono infine condannati tuona Michele Silicani, il sindaco del comune arroccato sulle Apuane. “Nei prossimi giorni - dichiara - assumerò una iniziativa forte nei confronti del ministero degli Esteri e del ministro della Giustizia affinché inizi un percorso di dialogo tra la Germania e l’Italia per il riconoscimento delle sentenze emesse dai rispettivi tribunali”.
Trasudano rabbia e incredulità anche le parole di Cesira Pardini: quel maledetto 12 agosto, a soli 18 anni, vide morire la madre e due sorelle, ma riuscì a salvarne altre due insieme a un neonato: per quel coraggio, ha ricevuto la medaglia d’oro. «Non è giusto dice è una decisione che non ha nessuna logica». «Punire i responsabili di tanta brutalità è un dovere che deve essere sentito sia dall’Italia che dalla Germania» scrivono i senatori Pd Vannino Chiti e Felice Casson. Anche il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, esprime il suo sconcerto: «Tra gli indagati c’erano rei confessi, che hanno raccontato di aver sparato con la mitragliatrice su donne inermi. Nessuno cerca vendetta, ma un massacro come quello di Sant’Anna reclama giustizia e questo verdetto la nega». «Sono sinceramente sbalordita dalla sentenza tedesca a fronte di sentenze italiane che hanno individuato i colpevoli» dichiara Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd. Per Fabio Evangelisti, segretario Idv in Toscana, è «una decisione scandalosa». «L’archiviazione è un colpo duro all’accertamento della verità giudiziaria e un gesto sbagliato che non fa onore a quel Paese. Dopo decenni di oblio per il vergognoso e colpevole insabbiamento, ora quella storia è stata ricostruita, i colpevoli individuati» conclude Walter Veltroni, deputato del Pd.

il Fatto 2.10.12
“Arrivano le SS scortate dai fascisti”: poi il massacro
I bimbi fucilati e le donne incinte finite con le baionette, l’orrore di quel giorno nel racconto dei sopravvissuti
di Maurizio Chierici


Il museo di Sant’Anna di Stazzema non assomiglia a nessun museo. Non solo immagini di bambini che fanno il girotondo davanti alla scuola, o le donne sedute nell’erba, occhi che ormai non sanno piangere figli e mariti stesi ai loro piedi come fagotti. Il racconto di uno schermo acceso dal mattino alla sera raccoglie le voci dei testimoni sopravissuti. “ Io sono questa”: la signora cerca col dito una bambina del girotondo. “Le altre le hanno uccise”. Dall’estate della Versilia risalgono famiglie tedesche in vacanza. Nelle loro facce impossibile leggere il dolore di chi è cresciuto in un paese diverso, solo la meraviglia di una vergogna che non riescono a sopportare. Visite brevi e se ne vanno. Estate anche allora, 12 agosto 1944. Il macellaio attraversa le quattro case del paese alle 6 del mattino. I partigiani se ne sono andati e la gente respira: forse la guerra si allontana e gli americani stanno per arrivare. Il macellaio ha visto dall’altra parte del monte le strisce dei razzi che si alzano dalle prime colline. “Arrivano da tre parti diverse, chissà cos’hanno in mente”.
AVVISA gli uomini al lavoro nelle campagne e corre al paese per avvertire: sta succedendo qualcosa, spargete la voce. Padri e figli ormai grandi scompaiono nel bosco. Donne e bambini in casa, il parroco si inginocchia all’altare. Paura hanno paura ma in fondo sono tranquilli: inermi, non pericolosi, cosa possono fare? Verso le 7 le prime raffiche. Spuntano le SS guidate da fascisti dalla parlata toscana ma chi spia fra le imposte ha un respiro di sollievo: “I tedeschi sono quasi tutti sono ragazzi”. Ma non etrano tedeschi: battaglione reclutato in Ungheria agli ordini di sottufficiali dall’esperienza glaciale. La storia di un ragazzo di San-t’Anna conferma che la speranza non era fuori luogo. Racconta nelle mille interviste Enrico Pieri: “Siamo stati portati verso la piazza ma a mezza strada un contrordine ci ha chiusi nella cucina della famiglia Pierotti. Grazia, una delle ragazze Pierotti aveva paura e s’era rifugiata nel ripostiglio in fondo alla stanza, sottoscala dove finivano damigiane e bottiglie vuote. Mi ha chiamato con la mano e mi sono nascosto. Arrivano 13, 14 persone accompagnate dai tedeschi con le pistole puntate: subito cominciano a sparare”. Pieri vede la sorella disperata, la vede per un minuto perché un minuto è morta. Poi un militare finisce i feriti che sussultano, dà fuoco alla paglia e se ne va. Di fronte alla cucina della nonna del ragazzo che crede di impazzire c’è una pianta di fagioli raccolti nella forma di un capanno. I due bambini si nascondono e aspettano non sanno cosa. Un altro ragazzo – Ennio Mancini – viene incolonnato assieme agli amici, fila indiana su un sentiero che si arrampica nel bosco. Paralizzati dallo spavento faticano a camminare con l’arma degli accompagnatori che preme le spalle. L’ufficiale grida un ordine ad un ragazzo in divisa e risale la colonna per sveltire la sveltire la marcia dei primi.
ALLORA IL RAGAZZO guardiano comincia a parlare. Dice qualcosa, ma loro non capiscono. Allora comincia coi gesti: dito sulla bocca, silenzio, e la mano che si apre per dire “scappate “. Sono scappati. Nascosti nei cespugli hanno visto la recita del ragazzo che sparava in aria. Intanto su un poggio le SS piazzano una mitragliatrice. Ma i bambini non sono proprio spaventati. Una signora rassicura: che ai bambini non si fa del male: “Vogliono solo prendere le fotografie”. Invece cominciano a sparare. A Cesare Pardini si velano gfli occhi quando ricorda della pistola puntata alla testa della mamma che lo abbracciava.. “Mi è venuto il suo cervello addosso”. Suonano le campane. Il parroco guidava le preghiere. Entrano gli ufficiali: gli danno 15 minuti per indicare dove nasconde i banditi. “Se ne sono andati “, prova a convincerli. Lo ascoltano in silenzio, 15 minuti dopo l’ufficiale dà l’ordine di uccidere. La testimonianza del libro di Toaff, rabbino capo di Roma (Perfidi giudei, fratelli maggiori) racconta l’impresa del capitano SS Anton Galler, ex fornaio. Entrano nella casa di Evelina Belletti. Incinta, spettava la levatrice. I militari si incaricano di prenderne il posto. Aprono il ventre di Evelina con la baionetta e lanciano il feto in aria, bersaglio per il loro tirassegna.
NEL PICCOLO MUSEO la memoria non invecchia, l’orrore resiste. Volti nomi, racconti che non smettono mai, storia di 560 persone uccise mentre chiedono di risparmiare almeno i più piccoli e le persone malate. L’ufficio informazioni della quattordicesima armata tedesca fa il punto sull’operazione Sant’Anna di Stazzema. Ne bruciano perfino il nome. Diventa “paese 183 barra 30”. Assicura che è stato ridotto in cenere, depositi di munizioni fatti saltare. Un deposito nascosto nella chiesa. Un mese dopo, 28 settembre, i primi americani salgono a Sant’Anna. Tornano a Pietrasanta per dire che il paese non esiste più. Case bruciate attorno alla piazza della chiesa, resti carbonizzati non sanno spiegare di quante persone. “Abbiamo avuto l’impressione che qualcuno spiava dal bosco”.

il Fatto 2.10.12
L’intervista
Franco Giustolisi “L’Italia accetta in silenzio, questo è il vero schiaffo”
di Davide Vecchi


Marco De Paolis, il procuratore militare di Roma che istruì il processo ai dieci ex militari tedeschi condannati all’ergastolo per la strage di Sant'Anna di Stazzema, ha ricordato che alcuni erano rei confessi

Le pratiche giudiziarie sulla strage di Sant’Anna di Stazzema furono chiuse a chiave in un armadio rovesciato contro il muro nella sede della Procura militare in via Acquasparta a Roma. L’armadio della vergogna fu poi “aperto” da Franco Giustolisi, inviato storico dell’Espresso, che in otto anni di lavoro l’ha riportato in un libro, pubblicato nel 2004 con Nutrimenti, in cui ricostruisce gli eccidi dei nazisti e dei fascisti di Salò. Documenti nascosti, sostiene Giustolisi, per proteggere i carnefici. “E oggi con l’archiviazione è stata seppellita di nuovo la verità e noi facciamo la figura dei peracottari”.
Cosa si aspettava?
Che le nostre sentenze fossero rispettate. E invece anche oggi sento solo silenzio, il silenzio più assoluto. C’è stata anche un’interrogazione al governo firmata da 106 senatori del Pd, nessuno ha risposto. Ma da chi siamo rappresentati? Perché non intervengono con la Germania? Quale segreto c’è dietro a questa omertà? Noi abbiamo sempre accolto le richieste tedesche, ci hanno raccontato che il colonnello Klapper, carnefice delle fosse Ardeatine, era fuggito dall’ospedale del Celio. E più volte il nostro governo ha concesso la grazia ai loro, in cambio sputano nelle nostre sentenze. Su un lavoro certosino svolto dai carabinieri Romano e Schulz, dal pm De Paolis dopo. Assurdo.
E la sentenza di condanna di primo grado è stata confermata integralmente dalla Corte militare d’appello e poi dalla Cassazione. Capisce? Dall’armadio della vergogna alla vergogna dell’armadio. Lo schiaffo maggiore arriva dall’Italia, che rimane in silenzio. L’Anpi in primis è immobile. Perché? Quale è l’inconfessabile segreto? Non lo sapremo mai, probabilmente. Ma io non mollo. E il 5 andrò al tribunale militare per la sentenza di convalida per uno degli assassi di Cefalonia, reo confesso. Dobbiamo andare in molti, far vedere che a noi interessa la verità. E che la Germania deve rispettare la giustizia e il nostro Paese.

l’Unità 2.10.12
Addio Shlomo, l’ultimo sopravvissuto di Auschwitz
di Oreste Pivetta


182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto –scrisse – con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili... Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.
Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline. Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.
Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era. Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo... Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda. Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.
Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia – scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio. Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno – disse – ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorresse, perché era certo che i giovani dovessero sapere.

l’Unità 2.10.12
L’ADDIO
Il secolo lungo di Hobsbawm
È scomparso a Londra il grande storico inglese
Produzione sterminata e vita avventurosa dello studioso nato in Egitto nel 1917 e divenuto uno dei massimi storici britannici e mondiali. Al centro dei suoi interessi la storia delle classi subalterne e Marx
E un legame tutto particolare con Gramsci e l’Italia
di Bruno Gravagnuolo


NOVANTACINQUE ANNI E UNA MOLE STERMINATA DI OPERE. CON DUE CHIODI FISSI: MARX E LE CLASSI SUBALTERNE. A volerlo raccontare «solo» in due righe, posto che sia possibile, era questo Eric Hobsbawm, il più grande storico marxista del dopoguerra. Senza dubbio uno dei più grandi storici del Novecento. È scomparso ieri mattina a Londra al Royal Free Hospital, dove era ricoverato per una malattia che non lo aveva più abbandonato. E ne ha dato la notizia al Guardian la figlia Julia, quella avuta dalla seconda moglie Marlene Schawrz, sposata in seconde nozze e dalla quale ebbe anche un altro figlio, Joshua (in prime nozze aveva sposato Muriel Seaman). Una biografia a suo modo fascinosa. Che comincia nel 1917 ad Alessandria d’Egitto, dove nasce da una famiglia ebraica, e si conclude nella capitale londinese, nella Gran Bretagna dove era approdato negli anni trenta, in fuga prima da Vienna e poi da Berlino, dopo essere rimasto orfano prima del padre e poi della madre, tra il 1929 e il 1931.
Furono lo zio paterno e la zia materna a mettere in salvo con sé medesimi Hobsbawm e la sorella, trasferendosi a Londra, dalla Berlino in mano nazista. Particolare curioso: Hobsbawm si chiamava «Obstbaum». Ma l’amministrazione inglese in Egitto sbagliò il nome, e i fedeli sudditi britannici Obstbaum si tennero l’errore. Per dire quanto intrinseco fosse, alla cultura britannica e dall’inizio, l’ebreo laico cosmopolita e poi comunista Eric Hobsbawm. A Cambridge studia storia e viene ammesso nell’esclusivo circolo intellettuale degli «Apostoli». Lì conseguirà il dottorato, con una tesi sulla Fabian Society. In seguito presta servizio nel genio militare britannico e nel 1947 ottiene l’incarico di lettore al Birbeck College di Londra. Nel dopoguerra Hobsbawm è già entrato nell’empireo degli storici marxisti di Past and Present, con i grandissimi: Cristopher Hill, storico della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell’imperalismo. Nel 1970 è professore ordinario, nel 1978 entra a far parte della British Academy dove insegna fino al 1982. E tra le varie infinite nomine provvisorie c’è anche quella alla Nuova Scuola per le Ricerche Sociali di Manhattan. Conclude la sua carriera da professore emerito proprio a Manhattan, dopo essere diventato Presidente del Birbeck dove ebbe il primo incarico.
Fin qui le tappe biografiche, con tre segni forti che tornano anche nelle pagine autobiografiche: la tragedia europea degli anni trenta, l’Inghilterra e il comunismo, e poi l’Italia. Sì, l’Italia dove approda negli anni 50 con un biglietto di presentazione al Pci di Sraffa, per studiare il contado e uno strano personaggio: Davide Lazzaretti. Mistico ribelle del Monte Amiata il cui nome Hobsbawm ritroverà nelle pagine di un autore che muterà la sua visione del mondo: Antonio Gramsci. Frattanto però è già partito il ciclo delle sue grandi opere, dissodati i cantieri d’archivio tra i quali era di casa. Eccone quattro decisive: Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 (Il Saggiatore, 1963), Il trionfo della borghesia 1848-1875 (Laterza 1976), L’età degli imperi 1875-1914 (Laterza 1987), Il secolo breve (Rizzoli 2005). Formano una tetralogia che abbraccia tutta la storia contemporanea, dalla rivoluzione francese ad oggi. Ad essa vanno aggiunti i libri su banditi e ribelli, sulle forme pre-capitalistiche entro cui andavano còlte le rivolte contadine dei ceti trascinati dalla forza del modo di produzione capitalista, «forma» globale. Perciò, rivolte contadine e operaie, in un contesto mondiale ineguale, che Hobsbawm, sulla scia anche di Lenin, insegue con sguardo d’insieme. Attento a vita materiale e quotidianità. E scrisse anche una storia del Jazz, musica nera dei subalterni, firmata Frank Newton, tromba di Billie Holiday.
Ma è proprio Gramsci (anche lui cita il Jazz) che «sposta» il suo marxismo, predisposto ad assumere un certo punto di vista. Di lì viene ad Hobsbawm l’idea delle rivoluzioni come processi chimici, fluidi, variegati. Fatti di forze che si compongono e si rifrangono. Sotto onde d’urto internazionali, che si riversano nei contesti nazionali. Sotto forma di rivoluzioni «attive» e «passive». E con arretramenti, esplosioni, e avanzamenti sotterranei o improvvisi.
E qui c’è l’Hobsbawm «italiano», comunista britannico che sposa la «linea» del Pci e il suo metodo politico. Per Einaudi infatti diresse una Storia del Marxismo dove parla di «marxismi» e dove il marxismo italiano brilla per originalità e anti-fatalismo. E anche per «revisionismo». Benché, prima dell’89, Hobbsbawm «revisionista» non sia mai stato. L’ultima sua grande opera, Il Secolo breve, in questa chiave (gramsciana) è esemplare. Il sottotitolo recita: «Età degli estremi». Tra massacri di massa, tecnica, e benessere e diritti. Tra barbarie ed emancipazioni collettive. Con in mezzo «l’età d’oro» del Welfare, aiutato per Hobsbawm dal comunismo. Secolo culminato con il crollo del socialismo reale. «Breve» è il secolo, perché va dalla catastrofe imperialista del 1914 generativa dell’«Ottobre» fino all’ammaina-bandiera al Cremlino. E però l’ultimo Hobsbawm che passa da Kinnock a Blair per ripudiarli entrambi recupera in extremis la «lunghezza» del 900. Che si protrae e si riallunga ai suoi occhi. Con le guerre americane, i conflitti inter-etnici e le esplosioni generazionali arabe. Con il fondamentalismo e il trionfo del capitalismo finanziario. Le ultime parole chiave di Hobsbawm stanno nell’ultima pagina del suo ultimo libro del 2001: Come cambiare il mondo (Rizzoli). Eccole: «È ora di prendere di nuovo Marx sul serio».

l’Unità 2.10.12
Comunista a vita
L’autobiografia, la sua ultima impresa intellettuale
Lo studioso ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci del Novecento, tra vicende personali e grande politica
di Silvio Pons


ROMA L’AUTOBIOGRAFIA CHE HA COSTITUITO L’ULTIMA IMPORTANTE IMPRESA INTELLETTUALE DI ERIC HOBSBAWM («INTERESTING TIMES») È PROBABILMENTE DESTINATA, NEGLI ANNI CHE VERRANNO, AD ATTRARRE PIÙ LETTORI DELLA SUA CELEBRE NARRAZIONE DEL «SECOLO BREVE». Perché Hobsbawm ci ha consegnato un racconto vivo e lucido degli intrecci tra vicenda personale e grande politica, tra elaborazione della memoria e visione storica, che contiene una chiave di accesso al Novecento più sfaccettata e multidimensionale di una sintesi storiografica. Il suo sguardo retrospettivo può essere talvolta troppo coerente e persino indulgente, ma permette di capire motivi e implicazioni dell’appartenenza marxista e comunista anche a generazioni la cui esperienza è estranea alle passioni politiche e intellettuali del secolo scorso. Generazioni che potranno valutare quei motivi, come è giusto che sia, con un necessario distacco e forse con minore indulgenza.
Divenuto comunista nella Germania del 1932, pochi mesi prima dell’avvento di Hitler al potere, all’età di soli quindici anni, Hobsbawm rievoca un clima storico, quello dell’Europa tra le due guerre vissuto nell’epicentro della sua tragedia, e un orizzonte esistenziale segnati a fuoco dall’invasività della politica e dell’ideologia. Un nesso inscindibile che alimenta le scelte estreme compiute allora come scelte di vita, per lui come per molti altri. Impensabile l’opzione nazionalista per un giovane impregnato di identità ebraica, britannica e cosmopolita, Hobsbawm diviene «un comunista a vita» e riconosce che senza quell’identità la sua stessa narrazione autobiografica perderebbe ogni significato. È a partire da qui che il racconto di Hobsbawm si articola e si arricchisce in una lunga declinazione politica e intellettuale dell’identità comunista e marxista, una tradizione rivoluzionaria rivolta alla conquista del potere e dotata di una visione totalizzante della politica.
È costante in Hobsbawm l’accento sulla peculiarità della soggettività comunista, rispetto ad altre esperienze che si sono rappresentate come rivoluzionarie e sovversive, soprattutto quelle del ’68. Organizzazione, antiretorica, etica del sacrificio, fede nella scientificità del marxismo, internazionalismo sono, nel suo ricordo, gli ingredienti veramente essenziali dell’esperienza comunista, il suo nocciolo duro forgiato dal bolscevismo ed elevato a canone dallo stalinismo. I tratti di una setta religiosa tenuti insieme da una psicologia collettiva fondamentale: quella costituita dall’idea di combattere «una guerra onnipresente». Un’etica della durezza che comportò colpevole cecità dinanzi ai crimini di Stalin, spiegabile ma non giustificabile con l’impressione che il capitalismo liberale avesse storicamente fallito.
La maturazione intellettuale di Hobsbawm, avvenuta in prevalenza a Cambridge, non è mai slegata dalla passione politica. Anzi, l’identità antifascista gioca un ruolo decisivo negli anni della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, anche per consolidare la lealtà all’Urss. Ma è soprattutto il peso specifico della guerra fredda ad acquistare centralità, sebbene non sempre in forma diretta. Con un caratteristico understatement, egli sostiene che la guerra fredda non interferì più di tanto nel lavoro degli storici, ma riconosce di aver operato una forma di autocensura evitando di affrontare la storia del Novecento, perché ciò lo avrebbe posto dinanzi a temi scomodi, a cominciare dalla storia dell’Urss (un’autocensura destinata a durare a lungo, e liquidata soltanto dopo la fine dell’Urss). Inevitabile osservare che la presenza dell’Urss resta ai margini dello stesso racconto autobiografico, pur incombendo in gran parte del libro. Quasi che Hobsbawm abbia trasferito nelle pagine dell’autobiografia una rimozione che caratterizzò i comunisti europei, anche se non tutti gli intellettuali marxisti, una volta cadute le mitologie sovietiche.
Come per molti altri comunisti, anche per Hobsbawm i nodi vennero al pettine nel 1956, un anno vissuto «sull’orlo dell’equivalente politico di un esaurimento nervoso collettivo». Tuttavia, né il «rapporto segreto» di Chruscev né l’invasione sovietica dell’Ungheria lo indussero ad abbandonare il partito, una scelta diversa da quella di altri intellettuali, che egli spiega alla luce della guerra fredda e del suo specifico legame generazionale con l’Urss. Di qui un’evoluzione intellettuale e politica disincantata rispetto alle nuove infatuazioni e alle mobilitazioni degli anni Sessanta, viste come un ribellismo culturale di stampo individualistico. Ma anche, si direbbe, una difficoltà a narrare la disgregazione dell’identità comunista, che proprio il ’68 doveva mettere a nudo.
Nella percezione di Hobsbawm, il collasso dell’Urss e del comunismo europeo non appare un evento liberatorio ma una componente decisiva della generale «frana» della civilizzazione.
Sarebbe davvero troppo chiedergli un punto di vista diverso. È lui stesso ad ammettere che, pur avendo abbandonato «il sogno della rivoluzione d’ottobre» dopo il 1989, non è mai stato capace di obliterarlo. In queste parole traspare un senso critico e una dignità intellettuale che costituiscono parte essenziale della sua eredità di storico.

l’Unità 2.10.12
«Il suo sogno? Fare una Storia totale»
Parla Rosario Villari suo amico per sessant’anni: «Aveva una visione universale. Nella biblioteca ho visto i suoi libri tradotti in tante lingue»
di Umberto De Giovannangeli


UN’AMICIZIA DURATA OLTRE SESSANT’ANNI. Fatta di una reciproca stima professionale, di lunghe e appassionate conversazioni che spaziavano dalla cultura alla politica; un’amicizia cementata dalla condivisione di una visione «universalistica» della Storia: Eric Hobsbawm visto dal suo amico: lo storico Rosario Villari.
Professor Villari quali ricordi ha di Eric Hobsbawm?
«Lo conoscevo dal 1950. Quando mi trovavo per lavoro a Londra spesso ero suo ospite. L’ho rivisto recentemente, il suo fisico era provato, ma fino all’ultimo ha mantenuto una grande lucidità ed è sempre stato aperto alle cose del mondo. Fino all’ultimo. S’interessava molto alle cose italiane, era informato, attento, curioso, stimolante.
Vede, in Eric ho sempre apprezzato il suo modo di pensare la Storia in termini mondiali. Il suo quadro di riferimento nella riflessione storica era il mondo. Da questo punto di vista era davvero eccezionale».
Qual è, dal punto di vista una storiografia sociale, un tratto distintivo della straordinaria produzione di Eric Hobsbawm?
«Il suo interesse, sempre vivido, alla storia delle classi popolari. Più in generale, la sua caratteristica peculiare era quella di analizzare i singoli avvenimenti, le questioni particolari, in un orizzonte sempre molto ampio. In questo senso, Hobsbawm si può definire lo storico del Novecento che ha dato una impronta universale al suo lavoro. E questa universalità della sua visione ha ricevuto un riconoscimento generale: dal presidente del Brasile a Giorgio Napolitano, che è stato un suo amico personale: ovunque Hobsbawm ha ricevuto un’accoglienza culturale e civile veramente straordinaria. Credo che sia stato l’autore più tradotto tra gli storici del Novecento. Nel suo studio, a casa sua, ho visto una quantità eccezionale di suoi libri tradotti nelle lingue più diverse». Tra le sue opere più conosciute al mondo c’è la «Storia del marxismo», da lui diretta. Cosa resta di questa storia nel Terzo millennio?
«Hobsbawm ha sempre concepito la storia in primo luogo come storia sociale, il che vuol dire che aveva interessi molto vari che spaziavano dall’economia alla sociologia, e ha investito campi amplissimi delle attività umane. La sua curiosità umana e intellettuale era “insaziabile”. Tra l’altro, ha scritto anche un libro sulla storia del jazz. Spesso avevamo parlato di quanto sarebbe stato importante fare una “Storia totale”. Ma questa discussione finiva sempre con la constatazione dell’impossibilità di una impresa del genere. Ma questa esigenza resta viva per la ricerca. Un “sogno” che Eric ha accarezzato e che spero un giorno possa essere realizzato anche in sua memoria».
Eric Hobsbawm e la sinistra. Se dovesse sintetizzare in un concetto, in una parola chiave, l’essere di sinistra di Hobsbawm...
«È un discorso molto complesso, dalle varie sfaccettature...Quello che posso dire è che per lui l’idea fondamentale, sul piano politico, era la conquista dell’eguaglianza in senso generale, a cominciare dai diritti sociali».
Questa nostra conversazione ha intrecciato un piano «professionale» alla testimonianza personale. E in ultimo vorrei che tornassimo su questo secondo aspetto. Cosa ricorda di questa amicizia, professor Villari?
«I ricordi si accavallano in questo momento di dolore. Ricordo l’ultima volta che ci siamo incontrati, nel maggio scorso a Londra. Eric voleva sapere della situazione in Italia, e non solo nei suoi complessi aspetti politici. Poi abbiamo parlato del mio lavoro, era da poco uscito il mio ultimo libro sul ‘600. Poi mi ha chiesto quali progetti avevo. Allora, gli confidai che avrei voluto raccogliere in un libro la mia esperienza culturale, un percorso di vita. Gli dissi che c’era la possibilità di farlo attraverso un libro-intervista con un giovane ricercatore. Gli chiesi un consiglio. Lui, come al solito, non si sotrasse. E sorridendo mi ha detto: “Rosario, o lo fai così o non lo farai”. Quelle parole furono il nostro commiato».

La Stampa 2.10.12
Nessuna salvezza al di fuori della Politica
Come costruire una società giusta prescindendo dalla natura e da Dio
di Giovanni De Luna


«Invenzione della tradizione», «gente che lavora», «gente non comune«, «secolo breve»; sono titoli di alcuni libri di Hobsbawm, ma soprattutto sono concetti diventati pilastri della storiografia contemporanea. Tutti insieme ci aiutano a capire i tratti profondi del nostro tempo. Perché questa è la grandezza di Hobsbawm: con il suo lavoro ha disegnato una sorta di mappa che ci consente di percorrere gli intricati itinerari della storia dell’umanità negli ultimi due secoli.
Prendiamo L’invenzione della tradizione. Nel libro del 1983, curato insieme con Terence Ranger, Hobsbawm si confrontava con la «nazione», un tema ritornato di grande attualità in questi anni di declino della sovranità degli Stati nazionali. «Per ”tradizione inventata”», scriveva nell’introduzione, «si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità con il passato». Dietro questa definizione c’è la negazione di ogni fondamento etnico o biologico come base dell’esistenza della nazione, insistendo, piuttosto, su un fondo comune di uniformità di comportamenti e di valori, su una omogeneità di rivendicazioni e di interessi su cui si innestano le appartenenze simboliche e l’intero repertorio culturale (inni, bandiere, cerimonie pubbliche, eroi e monumenti) che confluisce, appunto, nell’«invenzione della tradizione».
La nazione è in questo senso una costruzione concettuale, una incessante invenzione di simboli e di memorie, e lo Stato ha continuamente bisogno di strumenti e metodi autocelebrativi per darsi significato e per diffondere nella società il senso di appartenenza caratterizzato dalla selezione di quanto si eredita dal patrimonio politico e culturale precedente e dall’invenzione di nuovi miti che devono essere immediatamente riconoscibili dalla maggioranza della popolazione, la quale deve essere coinvolta nel nuovo «sentimento nazionale».
Inventate, e quindi false, artificiose, cariche di incongruenze (che è compito degli storici smascherare), le «tradizioni» a cui si riferisce Hobsbawm sono tuttavia dinamiche, costruite attraverso un meccanismo creativo che restituisce interamente alla Politica e alle istituzioni la capacità di proporre riti e simboli che diventano un potente fattore spirituale di integrazione sociale. Una Politica che non è in grado di produrre simboli si riduce alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente; è una Politica esangue, senza anima, destinata a soccombere soprattutto in quelle fasi di discontinuità e di rottura in cui si è sollecitati non a gestire le vecchie tradizioni inventate da altri, ma a produrne di nuove, in grado di confrontarsi efficacemente con le rotture che attraversano il sistema politico, garantendo la continuità dei legami sociali.
C’è una forte passione civile dietro queste pagine. Molte tradizioni inventate sono patacche: si pensi al caso italiano della Lega Nord e alla sua «invenzione» delle ampolle, di Pontida, delle ascendenze celtiche; un’accozzaglia di simboli raccolta saccheggiando le guide turistiche delle Pro Loco prealpine. Ma tutto questo non esime una classe politica dalla necessità di legittimarsi anche sul piano simbolico, proponendo nello spazio pubblico della cittadinanza valori e appartenenze non legate al solo fatto di condividere tutti gli stessi interessi.
Hobsbawm credeva molto nella politica. Il suo marxismo, ribadito fino all’ultimo ( Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, 2011) era in fondo questo: una grande fiducia nella capacità della politica e delle sue istituzioni di costruire una società più giusta prescindendo dalla natura e da Dio, proponendo all’uomo un nuovo ordine artificiale in cui riassorbire le ferite delle contese religiose e quelle della sua ferinità «naturale». Scrivendo del Novecento, il suo «secolo breve» ( Il secolo breve, Rizzoli, 1995), Hobsbawm ha scritto essenzialmente di questa grande illusione e soprattutto di se stesso.

Repubblica 2.10.12
Lo storico che ha fatto la storia inventando “il secolo breve”
di Guido Crainz


Un grandissimo storico, capace di sintesi eccellenti, di ampi sguardi comparativi e al tempo stesso di profondi lavori di scandaglio. Dotato di una scrittura avvincente e suggestiva, sorretta da una mole enorme di riferimenti culturali. Uno studioso straordinariamente e felicemente onnivoro, con un talento nello spaziare nei più diversi campi: attento alla società e ai grandi processi economici, ai simboli e ai rituali, alle utopie e agli orizzonti mentali del quotidiano. “Testimone” altissimo della possibile fecondità di un marxismo aperto, svincolato dalle ortodossie, ma al tempo stesso dei suoi interni limiti. Questo e molto altro è stato Eric Hobsbawm, che con i drammi del secolo ha fatto i conti sin dall’inizio della sua vita. Nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei — la madre proveniva dall’Austria asburgica, il padre da Londra, ove era giunto dalla Polonia russa — cresce poi nell’Austria impoverita e mutilata del primo dopoguerra. Orfano giovanissimo, si trasferisce a Berlino nell’ultimo, tragico periodo della Repubblica di Weimar, aderendo al partito comunista e abbandonando la Germania per Londra dopo l’ascesa al potere di Hitler. Sarà poi militante del piccolo e settario partito comunista inglese sino al 1956: vi rimarrà iscritto ma diventerà semmai – per usare le sue parole – “una specie di membro spirituale del partito comunista italiano, molto più consono alla mia idea di comunismo”.
La gran mole dei suoi studi sul movimento operaio è innovativa sin dall’inizio, sin nel suo porre al centro la storia sociale e culturale della classe operaia, non le sue organizzazioni. E nell’indagare anche, nei suoi primi lavori, le forme primitive di rivolta sociale, da I ribelli del 1959 a I banditi, di dieci anni dopo. Taluni limiti che questi libri mostrano oggi sono in qualche modo connessi al loro stesso fascino: alla sfida, cioè, di ricondurre fenomeni diversissimi ad alcune grandi chiavi generali, utilizzando anche fonti largamente trascurate sin lì dagli storici (poesie, ballate e così via). In comune con l’“ortodossia” rimane naturalmente l’idea che siamo qui ad una sorta di preistoria, e che solo lo sviluppo industriale permetterà l’affermarsi di un movimento operaio ideologicamente robusto, capace di dar vita a organizzazioni solide. A questa fase sono dedicati i saggi raccolti in Studi di storia del movimento operaio e poi in Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, di vent’anni dopo: saggi che testimoniano la finezza delle sue analisi e il crescere progressivo della sua attenzione agli aspetti culturali e alle mentalità delle classi subalterne. Non manca di partecipare, infine, a una monumentale Storia del marxismo a più voci promossa dall’Einaudi. È questo uno dei filoni principali dei suoi studi, attraversati al tempo stesso da incursioni non usuali: dalla Storia sociale del jazz a un volume curato assieme a Terence Ranger, L’invenzione della tradizione.
Al centro di esso vi sono le forme di “invenzione della tradizione” che si collocano fra Ottocento e Novecento (e all’Europa nel suo insieme è dedicato il suo saggio): processi
culturali volti a costruire o ricostruire le identità collettive di fronte allo sgretolarsi delle società precedenti, e ai quali concorrono canzoni popolari e cerimonie pubbliche, pratiche sportive e modi di vestire, e così via.
Sono aspetti minori ma non marginali del suo impegno di storico, legato largamente a due progetti complessivi. In primo luogo la trilogia dedicata a un “lungo Ottocento”, che ha avvio all’inizio degli anni sessanta con Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, dedicato alla rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale inglese (di cui fortemente sottolinea – qui e altrove – i costi sociali). L’Ottocento di Hobsbawm si presenta prima di tutto come Il trionfo della borghesia ( 1848-1875), per citare il titolo italiano della seconda opera. Segue poi L’età degli imperi, 1875-1914, nella quale inizia a inoltrarsi in “quella ‘zona crepuscolare’ fra storia e memoria che si colloca fra il passato come archivio generale (...) e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali”. Era inevitabile il passo successivo, il confronto a tutto tondo con il Novecento: The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, per citare il titolo originale del suo libro più famoso. Da noi diventa Il secolo breve, con la sottolineatura dall’arco temporale proposto: dalla prima guerra mondiale al crollo dell’impero sovietico. Scandito dall’“età della catastrofe”, fra le due guerre mondiali; dall’“età dell’oro” iniziata nel 1945 e interrotta dalla crisi petrolifera del 1973; e infine dalla “frana” dei due decenni successivi. Si concentrano in questo volume i tantissimi pregi del suo lavoro, dalla straordinaria ricchezza dei riferimenti culturali alla affascinante sfida di una interpretazione complessiva, disertata sin lì dagli storici del Novecento (e Hobsbawm ricorda di esser stato piuttosto storico dell’Ottocento). Vi affiorano però anche alcuni limiti connessi alla sua impostazione di fondo, pur vissuta in modo aperto: di qui l’idea di un ruolo sostanzialmente progressivo, nonostante tutto, della rivoluzione d’ottobre, che condiziona i giudizi stessi sulla “guerra fredda” e sulle fasi successive. Ancora qualche anno dopo nella sua affascinante autobiografia, Anni interessanti, scriverà: “Il sogno della Rivoluzione d’ottobre è ancora dentro di me da qualche parte”. Questo era Eric Hobsbawm, uno dei più grandi intellettuali del Novecento.

Repubblica 2.10.12
L’intervista inedita
“Perché essere obiettivi è una utopia”
di Enrico Franceschini


In questo colloquio, il pensatore spiegava le difficoltà del mestiere e di come fosse arduo fare il punto sul concetto di Europa: siamo tutti condizionati

Professor Eric Hobsbawm, pensa sia possibile scrivere una storia comune dell’Europa del ventesimo secolo, non dal punto di vista di una nazione o di uno storico, bensì quale storia
«Innanzi tutto siamo troppo vicini al ventesimo secolo per poter avere un accordo generale fra i paesi europei sugli avvenimenti che lo hanno caratterizzato. L’Europa del Novecento è stata in larga misura un continente così diviso, politicamente ed ideologicamente, che sarebbe molto difficile trovare un terreno comune per raccontarla. Ma non dico che ciò sarebbe impossibile. Dico che non sarebbe affatto semplice».
È stato Günter Grass a proporre qualche anno fa agli storici un progetto di questo genere. A dispetto delle difficoltà, lei sarebbe d’accordo con l’idea?
«Sì, sono d’accordo, simpatizzo con la sua esortazione e credo di capire cosa intendesse. Penso che Grass abbia voluto esortare a dare un taglio netto alle ricostruzioni storiche interamente nazionalistiche, oppure interamente occidentali
od orientali. L’esigenza di superare questa divisione tra la storia vista da est e la storia vista da ovest è legittima, realistica, e io la appoggio in pieno. Però non sono sicuro che sia possibile tradurla nella pratica in un libro di storia».
Dove comincia e dove finisce, il concetto di Europa?
«Il concetto odierno di Europa è più vasto dei paesi che costituivano l’Europa nel 1914. Più vasto, anche, dei paesi che oggi sono membri dell’Unione europea. La Russia, naturalmente, dovrebbe farne parte. Qualche storico, d’altra parte, potrebbe obiettare che un simile concetto è ingannevole, e che l’Europa è soltanto un’espressione geografica».
Lei ha sottolineato le differenze ideologiche che sopravvivono nel continente. Ma quali sono invece i legami più stretti, le caratteristiche più comuni della storia
«La cultura, la scienza, la tecnologia, sono tutti campi in cui è esistito un senso comune di appartenenza. Ma anche in questo campo possono nascere divergenze. Anni fa l’Unesco provò a compilare una storia comune del mondo: fu un fiasco totale, perché ogni nazione della terra pretendeva di avere uguale spazio, uguali meriti, uguali riconoscimenti».
Ma uno storico non dovrebbe raccontare la storia in modo obiettivo?
«In teoria sì, ma esistono innegabili condizionamenti. Perciò dico che l’idea di una storia comune mi piace. Ma se si può scrivere davvero, una simile storia d’Europa, non lo so».
Anche lei pensa di aver subito “innegabili condizionamenti”?
«Sono stato condizionato dall’epoca in cui ho vissuto, segnata dalla Seconda guerra mondiale, dalle grandi rivoluzioni, da un mondo diviso dalla guerra fredda, dalle lotte operaie e sindacali per rendere più umano il lavoro, tutti fattori che hanno inevitabilmente influito sul mio pensiero e sulle mie opere».
Hanno condizionato anche il suo giudizio positivo del comunismo?
«È inevitabile. Lo storico totalmente obiettivo è un’utopia, è sempre condizionato nei suoi giudizi, sia che riguardino un passato lontano, sia che tocchino un passato più vicino».

l’Unità 2.10.12
Nel Pd crescono i malumori «Non ricandidare gli uscenti»
Marco Miccoli: «Non è possibile che il convento sia povero e i frati ricchi, metà dell’indennità vada al partito non ai comitati elettorali»
di Jolanda Bufalini


Il sasso nello stagno l’ha gettato il circolo Pd di Trastevere con una lettera aperta a Bersani e Gasbarra: «I consiglieri del Pd alla Regione, senza alcuna eccezione, scrivono i trasteverini sono venuti meno al Codice Etico e al Codice di responsabilità degli eletti democratici», la richiesta è «un provvedimento esemplare», «non siano più ricandidati a nessuna carica politica o amministrativa». Spiega Giancarlo Ricci, il segretario: «Mentre si tagliavano posti letto e assistenza crescevano le risorse per i gruppi e il gruppo Pd ha accettato passivamente e taciuto su ciò che avveniva». Usa le stesse argomentazioni la Velina rossa: «Per essere credibile il Pd deve adottare la linea dura con i suoi». Il sasso ha messo in movimento anche altre realtà della capitale, ieri sera si riunivano i circoli del primo municipio, Salario-Trieste sta preparando l’assemblea degli iscritti, domani la discussione si sposta nella direzione regionale. La pressione per un rinnovamento radicale viene anche da gruppi della maggioranza del partito, per Ugo Sposetti «lo scandalo dei fondi Pdl ha danneggiato in modo gravissimo l'istituzione regionale e i partiti. I consiglieri possono tornare alle precedenti occupazioni. Non muore mica nessuno». È d’accordo Giovanni Bachelet: «Ci vuole un organismo esterno che verifichi i finanziamenti ai gruppi, va posto un tetto alle spese elettorali, e ci vogliono persone nuove».
Accanto all’esigenza del rinnovamento, però, c’è la preoccupazione di un calderone in cui, alla fine, tutto cambi per non cambiare nulla. Tutti precisano: fra noi non ci sono i Fiorito. Valentina Caracciolo, 39 anni, segretaria del circolo Trieste-Salario: «Ci vuole un segnale di cambiamento ma evitiamo di fare tribunali del popolo, non tutti i consiglieri si sono comportati allo stesso modo, c’è chi ha detto no al proliferare delle commissioni». Giacomo Marchese, 30 anni, segretario di Fontenuova (Roma): «Sarebbe stato più opportuno non avallare decisioni prese dalla maggioranza della Polverini ma la valutazione del gruppo non si fa su un singolo episodio». Fiorenzo De Simone, segretario del circolo di Vicovaro (Roma): «Sono a favore del rinnovamento ma di tutta la classe dirigente del partito. I due anni e mezzo della Polverini sono stati il governo peggiore nel Lazio e la nostra opposizione doveva essere più incisiva».
Fra i dirigenti romani c’è chi è completamente contrario a «fare di tutta l’erba un fascio», Eugenio Patanè (presidente del Pd romano): «Mi fa orrore che si paragoni il Pdl al Pd, in aula il gruppo ha sempre votato contro, mentre nelle delibere della presidenza non poteva interferire. Fare posto al rinnovamento è giusto, per questo si può rinunciare alle deroghe per la terza candidatura. Ma dire a Mario Perilli, la persona più per bene del mondo, che non si deve ricandidare per lo scandalo dei fondi Pdl non mi sta bene. C’è un limite al grillismo, non si può mettere sullo stesso piano Enzo Foschi, che rinuncia al vitalizio, con Batman Fiorito».
A una direzione regionale che si annuncia incandescente, il segretario romano Marco Miccoli, chiede «una discussione serena e seria». Ma vuole partire dal fatto che il «tutti a casa» di Zingaretti, «l’elettroshock» di Gasbarra e «l’autocritica di Montino» non giustificano «eccessi di giustizialismo». Prima delle «epurazioni», sostiene il segretario romano del Pd, «bisogna discutere cosa si è sbagliato in vent’anni perché la sequenza Storace, Marrazzo, Polverini la dice lunga». «Oggi il spiega capo segreteria del presidente della Regione è più potente del segretario di un partito, basti dire che la Polverini aveva 12 milioni sul suo bilancio personale per la comunicazione». Il Consiglio regionale deve dimagrire, «costare 8 anziché 18 euro a cittadino del Lazio, allineandosi all’Emilia Romagna». Il rinnovamento ci vuole: «È assurdo che l’unica donna, Daniela Valentini, sia entrata perché purtroppo è morto Mario Di Carlo», ci vogliono «giovani, pluralismo e territorio» ma anche il bilancio personale dei consiglieri deve fare la dieta: «Il 10% dell’indennità dato al partito va bene se si guadagnano 1500 euro ma, se l’indennità è 12.000 euro, allora al partito deve andare la metà», i circoli sono in difficoltà, le federazioni fanno sacrifici e invece «prosperano i comitati elettorali», «non è possibile che il convento sia povero e i frati ricchi».

La Stampa 2.10.12
Regole Pd, un referendum su Bersani
Primarie, sabato si decide. Il nodo della liberatoria. I renziani dicono no
di Carlo Bertini


Un amante delle sintesi ad effetto come il «blogger-deputato» Mario Adinolfi lo definisce «un voto di fiducia per Bersani». Certo sarà un test significativo quello che andrà in scena sabato all’Ergife di Roma dove i delegati del Pd dovranno esprimersi sulla deroga allo statuto per far sì che altri candidati oltre al segretario (cioè Renzi) possano gareggiare alle primarie di coalizione. E il primo scoglio per la nomenklatura sarà garantire il numero legale (la maggioranza più uno dei mille aventi diritto) perché altrimenti tutto l’impianto delle primarie salterebbe con un colpo durissimo alla leadership di Bersani.
In camera caritatis c’è chi si chiede quali garanzie possa offrire in queste ore il segretario ai capicorrente impensieriti dal dover fare i conti con Renzi il giorno dopo le primarie, anche su temi scottanti come «quote» nei posti apicali e liste elettorali. Ma a parte questi «dettagli», l’assemblea dovrebbe pure votare i vincoli per le candidature dei membri del Pd e lì si celano altre insidie: oltre alle 20 mila firme in 10 regioni richieste a tutti i candidati della coalizione (ancora da formare), quelli del Pd dovranno procurarsi anche quelle di un centinaio di delegati: l’effetto scrematura lascerebbe sul campo solo Renzi e Bersani, con Vendola e Tabacci.
Ma dopo settimane di battibecchi sulle regole, nei contatti riservati tra gli staff lo scontro non è sul doppio turno, gradito anche a Renzi, bensì sulla modalità con cui costruire l’albo degli elettori: l’ultima trovata è che per accedere ai gazebo si dovrà firmare un appello pubblico a votare centrosinistra alle elezioni; iscrizioni aperte prima del 25 novembre e fino al secondo turno del 2 dicembre. Ma sarà chiesto anche di firmare una liberatoria per l’utilizzo dei dati personali e questo è il vero punto del contendere. Renzi non ne vuol sapere di questa violazione della privacy che scoraggerebbe chi per ragioni varie non voglia far sapere come la pensa; e i renziani, che in queste ore lievitano di numero anche tra i mille delegati, sconsigliano vivamente tutte le formule che abbiano «un sapore di blocco della partecipazione spontanea, perché non convengono a nessuno in questo momento».
Insomma, tutta questa trattativa influirà non poco sulla tenuta dell’assemblea di sabato e sulla possibilità per Bersani di uscirne indenne. Perché il «sentiment» diffuso tra le correnti che sulla carta lo sostengono nella disfida contro Renzi, è che il segretario debba garantire paletti che riducano il rischio inquinamento da parte di simpatizzanti di centrodestra e quello di una sconfitta che farebbe deflagrare il partito.
Anche perché gli ultimi sondaggi ormai fotografano una rincorsa sempre più ravvicinata: quello di Ipr Marketing lanciato ieri sera dal Tg3, vede Bersani al 39%, Renzi al 34% e Vendola distaccato al 18%.
E se non è un mistero che i maggiorenti del partito son sempre stati perplessi su queste primarie aperte, decise prima di sapere se la legge elettorale conterrà o meno un premio di coalizione, ecco perché non è così improprio dire, come fa Adinolfi, che quello di sabato sarà un voto di fiducia sul segretario. «Prevedo un sì al cloroformio, con un’assemblea anestetizzata, ma se si aprono le danze potrebbe succedere di tutto...».

l’Unità 2.10.12
È la modernità la sfida della classe dirigente
L’Italia deve capire in che modo andare verso la formazione del super-Stato europeo
di Alfredo Reichlin


La sinistra non è contenta di se stessa. Si lamenta, si divide. Per tante ragioni comprensibilissime ma (a mio parere) per una sopra tutte: perché troppi leggono il mondo con gli occhi del passato. Perché il consenso per Renzi ci sorprende? Su questo tema veramente cruciale del rinnovamento, che se non ha una guida può portare l’Italia a una crisi di regime, vorrei dire qualcosa. Parto dalle cose di oggi. Dalla drammatica situazione in cui l’Italia continua a essere immersa. Un Paese che da un lato è sotto il peso di una crisi economica epocale, che non è congiunturale ma che lo rimette in discussione come grande Paese industriale e società del benessere. Dall’altro che non riesce a fare il salto nella modernità. Perché di questo si tratta. La modernità. Cioè non il «nuovo» (il banale cambiamento delle cose) ma quella rara vicenda in cui si apre una nuova storia e la politica se non lo capisce diventa vana chiacchiera condita con ostriche e champagne per le mezze calze. Io credo che di questo si tratta. Siamo rimasti indietro di venti anni (la imperdonabile colpa di Berlusconi) e se la gente non ha più fiducia nella politica non è perché è qualunquista, ma perché sente che la stanno tagliando fuori dal mondo nuovo che avanza.
Di questo si tratta. Così a mio modesto parere dovrebbe parlare il capo della sinistra. Noi vogliamo governare non per sete di potere ma perché sentiamo la responsabilità di evitare che l’Italia faccia la fine del ’600. Si formava allora l’Europa moderna delle grandi monarchie continentali e noi divisi tra venti staterelli stupivamo il mondo con il lusso delle piccole corti e le invenzioni dei grandi avventurieri: i Casanova, i Cagliostro. Così di nuovo accadde 20 anni fa con Berlusconi. Così potrebbe accadere oggi. Il problema che sta di fronte agli italiani è di una chiarezza assoluta. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un nuovo grande balzo nel moderno. Parlo della formazione di una sorta di super-Stato europeo il cui potere sulle nostre vite quotidiane è già enorme. Ce ne siamo accorti? Come va l’Italia a questo appuntamento? Con quale idea di sé e del suo destino, con quale raggruppamento di forze politiche e sociali? Con quale asse di governo, cioè con quale patto politico capace di tenere insieme il meglio delle sue risorse, che alla fin fine sono quelle del lavoro e dell’impresa, del saper fare e della solidarietà sociale? Ecco perché sono molto preoccupato. Perché questo è il tema che rischia di essere smarrito nella confusione delle primarie del Pd e nelle dispute sull’agenda Monti. Cerchiamo di non smarrire il tema delle grandi scelte e quindi delle vere alternative tra vecchio e nuovo che stanno davanti al Paese. L’altro giorno ero all’assemblea Svimez. Lo stato del Mezzogiorno che usciva da quelle analisi era semplicemente catastrofico: dalla chiusura delle ultime grandi fabbriche, alla metastasi della corruzione, al collasso della vita civile (legalità, diritti, scuola, servizi sociali) fino ormai a un impoverimento tale del tessuto umano per cui un milione e mezzo di persone, soprattutto giovani e ceti acculturati sono emigrati negli ultimi anni. Hanno abbandonato la terra dei loro padri. Il problema che balzava agli occhi era chiarissimo, ed era straordinariamente politico; non era il deficit di trasferimenti ma il rischio che il Mezzogiorno finisca sempre più ai margini della nuova Europa che, di fatto, sta già ridisegnando le sue frontiere non soltanto economiche. Dentro o fuori? Stiamo attenti, si stava parlando del 40 per cento del Paese, dei luoghi della civiltà greco-romana, di Napoli e di città come Siracusa dove migliaia di anni fa la gente andava la sera al teatro per ascoltare la tragedia di Sofocle mentre il popolo padano viveva ancora nei boschi e adorava il dio Po. In quella mattinata gli economisti ci sommersero di cifre e di tabelle e il ministro fu bravissimo nel dire come qualcosa si poteva fare subito. Ma i politici tacquero. Che cos’è una classe dirigente se non è in grado di rispondere a interrogativi come questi dai quali dipende davvero il futuro dell’Italia?
Mario Monti si è dichiarato disposto, se richiesto, a non abbandonare il suo impegno politico. Il che non mi sembra una cattiva notizia, trattandosi dell’uomo che grazie a noi e insieme a noi ha lavorato per evitare all’Italia la bancarotta. Comunque si vedrà, decideranno gli elettori. Ma ciò che mi chiedo è perché parliamo tanto di Monti e non parliamo di noi? Noi non siamo l’ultima propaggine della vecchia sinistra che difende la sua residua identità facendo opposizione a Monti. La nostra «agenda» è più ricca di quella di Monti. Basti pensare che noi siamo un pezzo della formazione di una nuova cultura politica europea. Cioè di quella corrente politica e ideale alla quale spetta sgombrare il campo dalle macerie dell’orgia speculativa di questi anni e indicare le nuove vie dello sviluppo. Qualcosa che va oltre l’«agenda Monti». Conosco le enormi difficoltà, mi tengo cara la collaborazione delle grandi tecnostrutture europee ma io parto dall’idea che, finalmente, i grandi irrisolti problemi italiani (ne cito tre, essenziali: la corruzione, la caduta della produttività del sistema, il rischio che la metà meridionale del Paese si stacchi dall’Europa) vanno ormai chiamati col loro nome. Non sono problemi tecnici ma nodi storico-politici che richiedono nuovi patti sociali, formazione di classi dirigenti, e quindi larghe alleanze. Il Pd collabora con Monti, ne ha grande stima ma porta dentro di sé ben altre storie. Per esempio quella di Di Vittorio. L’Italia unita non l’hanno fatti i tecnici dell’Ocse ma uomini come questi. Di Vittorio era un grande uomo di governo perché ha dato ai lavoratori italiani il senso della loro missione e delle loro responsabilità nazionali, ma anche perché aveva una idea moderna della politica. La politica come nuova soggettività anche sociale perché solo la politica può unire questo Paese e dare voce anche agli ultimi, a quelli che stanno sempre sotto.
Come si può ricostruire un Paese come l’Italia se non si forma una nuova classe dirigente che abbia un pensiero autonomo sulla nazione e una sua visione dello sviluppo? E come si può formare questa classe dirigente se la politica, sia pure con facce nuove, è sempre la stessa cosa. L’eterno ritorno del sempre uguale: i mercati governano, i tecnici eseguono, i politici vanno in televisione a esibire se stessi. Il popolo resta sempre sotto.

La Stampa 2.10.12
“Per conservare l’euro serve un’Europa-nazione”
Guy Verhofstadt «Il risanamento sta uccidendo Grecia e Spagna»
di M. Zat.


Un libro per cambiare la storia. Un manifesto «Per l’Europa», come recita il titolo. Guy Verhofstadt, il primo dei due autori, il liberale ex premier belga, lo introduce come «un attacco alla classe politica continentale, scritto con rabbia». L’altro, Daniel CohnBendit, il leader rosso del ‘68 parigino divenuto capogruppo verde a Strasburgo, giura che si tratta del solo antidoto alla crisi permanente. «I mercati hanno distrutto la sovranità degli stati europei - dice l’eurodeputato francotedesco -. L’unico modo per riconquistarlo è attraverso il rafforzamento dell’Europa».
Non è il momento migliore per parlare di federalismo, ma è proprio questo che spinge la «Strana coppia» a giocare all’attacco. E’ il ritorno degli euroscetticismi e dei populismi che li spaventa, c’è bisogno di spingersi oltre e di farlo bene. «Ci siamo detti che così non poteva andare avanti», sbotta Verhofstadt, capo del Libdem al parlamento Ue. «Le ricette sono tutte sbagliate, quello che si chiede a Spagna e Grecia è tanto inumano quanto pericoloso», aggiunge Daniel il Rosso. «A queste condizioni - insiste Madrid non uscirà dalla crisi». E Atene, prosegue, ha bisogno di più tempo: «Ricordate il Congresso di Versailles, dopo la Grande guerra? La Germania è stata schiacciata e questo ha aperto la strada al nazismo. Con la cura applicata sinora stiamo mettendo in pericolo la sostanza democratica della società greca. La spingiamo in mani ai nazionalisti».
«Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria» è scritto a quattro mani. Esce in sette lingue, per ora. L’edizione italiana (Mondadori, 10 euro) sarà presentata oggi a Roma alla presenza del premier Monti. In Grecia, i due autori hanno ottenuto la diffusione gratuita: «E’ importante passare il messaggio ed è ora che il popolo ellenico smetta di pagare per l’Europa».
Il volume difende l’approccio rigorista, ma invita a non esaltarlo e punta sulla solidarietà. Dice Verhofstadt che «Monti e Rajoy sono nelle stesse condizioni; metà dell’immenso lavoro di riforma viene mangiato dall’esigenza di pagare tassi elevati a investitori che vivono fuori dall’Europa». Il problema, continua il fiammingo, è la liquidità: «La Slovenia ha il debito sotto il 60%, il deficit prossimo al 3 eppure va sul mercato al 5% perché manca la liquidità. Bisogna riscrivere lo slogan di Clinton. Non “è l’economia, stupido”. E’ la liquidità! ».
La soluzione proposta è che il prossimo parlamento Ue, quello che voteremo nel 2014, sia costituente e disegni una nuova Europa coesa davvero, con una «legge fondamentale, semplice, senza possibilità di esenzioni». O tutto, o niente. «Non è possibile conservare l’euro senza cambiare gli Stati-Nazione - ammettono Verhofstadt e Cohn-Bendit - O nasce uno stato federale europeo oppure la moneta unica scomparirà. Nessuna via intermedia può essere presa in esame». C’è l’Unione che fa la forza, oppure la disgregazione. A Altiero Spinelli sarebbe piaciuto assai.

l’Unità 2.10.12
C’è tanta differenza tra destra e sinistra
di Nicola Cacace


IL PREMIO NOBEL JOSEPH STIGLITZ, NEL SUO ULTIMO LIBRO, THE PRICE OF INEQUALITY (IL PREZZO DELLA DISEGUAGLIANZA) ha evidenziato come le diseguaglianze nel mondo globalizzato siano alla base della crisi di molti Paesi. Egli riconferma il dato che nella società della conoscenza mentre il capitale è mobile, la risorsa umana resta locale e questa si conferma il primo fattore di successo di imprese e Paesi e di attrazione degli investimenti. Emblematico il caso della Svezia, Paese ad alta pressione fiscale e dal costoso welfare universale, tra i primi paesi occidentali per eguaglianza ed attrazione di Ide, investimenti diretti esteri, sino al 30% degli investimenti fissi (Italia è al 3%).
Stiglitz cita il caso degli Stati Uniti, Paese ad alta diseguaglianza dove, negli ultimi decenni, da Reagan in poi, la ricchezza si è accumulata a favore dell’1% delle famiglie, col restante 99% che ha perso potere d’acquisto. L’effetto delle diseguaglianze sullo sviluppo è ancora più evidente in Europa, data la ricchezza di dati significativi, in particolare l’indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, con valori che vanno da 0 (Paesi teoricamente a perfetta parità di redditi) ad 1 (Paesi col massimo di diseguaglianze). Questi dati confermano ancora una volta che i Paesi a più alta diseguaglianza, indice di Gini superiore a 0,3, sono quelli più in crisi e il cui reddito è cresciuto meno. In particolare i principali Paesi a maggior diseguaglianza dell’Eurozona sono Portogallo (Gini 0,36), Grecia (0,33) e Italia (0,32), mentre i Paesi con distribuzione dei redditi più equa sono Germania (0,29), Francia (0,28), Olanda e Belgio (0,27), Austria e Finlandia (0,26).
Non è un caso che i Paesi meno diseguali, siano cresciuti molto più dei secondi: nei 6 anni 2005-2010 il tasso cumulato di crescita del Pil è stato del 5% in Francia, dell’8% in Germania, Belgio e Finlandia, del 9% in Olanda ed Austria, mentre è stato del 4% in Grecia, del 3% in Portogallo e del -0,1% in Italia. I Paesi europei più «eguali» sono cresciuti più dei Paesi più «diseguali», con due eccezioni che confermano la regola, Spagna ed Irlanda, Paesi ad alta diseguaglianza (Gini 0,32) il cui Pil nel sessennio è cresciuto molto (8%), grazie solo alle Bolle immobiliare e finanziaria, che successivamente questi Paesi stanno pagando duramente con recessione e disoccupazione.
Ho ricordato questi dati per spiegare due assunti: A) esistono ancora oggi differenze nette tra destra e sinistra, differenze diverse da quelle classiste di una società che non c’è più, ma differenze giustificate da nuove stratificazioni sociali tra vertice e base della società. Una destra che chiede libertà senza eguaglianza e una sinistra che chiede libertà con eguaglianza; B) un governo politico di centrosinistra è da preferire ad un governo tecnico-bis, essendo il primo teso a mantenere gli impegni con l’Europa sia pure in un quadro di maggiore equità sociale, a differenza del secondo.
I casi della politica fiscale seguita in Francia dal presidente Hollande più tasse ai ricchi, Tobin tax per la finanza, etc.e quella seguita anche in Italia da Monti Imu sulla casa senza alcuna progressività per i multiproprietari, astensione a Bruxelles sulla Tobin tax anche per i condizionamenti della destra, sono esempi concreti di differenze politiche significative. Ecco perché il Pd non può non rifiutare l’ipotesi di un governo Monti bis, a priori e senza vaglio elettorale, pur riconoscendo al professore tutti i meriti acquisiti, tra cui quello di aver tirato il Paese fuori dal baratro in cui Berlusconi lo aveva avviato.
A prescindere da questioni di forma non marginali la farsa di una manifestazione elettorale con un candidato premier virtuale contro candidati in carne e ossa un governo tecnico-bis non potrebbe perseguire gli obiettivi di eguaglianza del centrosinistra. Questi alcuni significativi motivi per rifiutare l’ipotesi di un Monti-bis, definito a priori prima di una eventuale emergenza di ingovernabilità, oltre che per il rispetto degli elettori e dello stesso professor Monti, la cui nota coerenza di democratico e liberale, sono sicuro, lo sottrarrà all’abbraccio interessato di liste, movimenti e partiti, tesi solo, strumentalizzando la sua credibilità, ad evitare una sconfitta annunciata. Appoggiare Monti a priori, come chiedono anche alcuni amici e compagni del Pd, oltre a umiliare elettori e politica, significherebbe distruggere l’anima e il corpo dell’unico partito che vuole eguaglianza nella libertà.

Repubblica 2.10.12
La scomparsa del popolo
di Alberto Asor Rosa


L’ONDATA d’indignazione e di condanna seguita alla pubblicizzazione dei dati (certo impressionanti) sulla corruzione regionale laziale – molto commendevole, anche se in ritardo – ha lasciato in ombra un tentativo di analisi sociale del fenomeno.
Prima di lasciar la parola agli esperti, esporrei la mia tesi: e cioè che degrado, deperimento dei valori e corruzione (non più eccezionale, ormai, ma endemica, diffusa e resistente) affondino le radici in un vero e proprio spappolamento socio-economico del popolo italiano.
Io sono uno che, molti anni fa, ha creduto che dalla classe operaia sarebbero scaturite le nuove élite, destinate a guidare verso altri traguardi i destini nazionali. Ciò, come è evidente, non è accaduto: la classe operaia, oggi, lotta prevalentemente, e spesso con vera disperazione, per la propria fisica sopravvivenza. Ma non è neanche accaduto che le fonti tradizionali di formazione delle élite (i partiti, le classi sociali dominanti) abbiano continuato, come per un certo periodo era accaduto, a farlo. Dov’è stata la borghesia, c’è stata una borghesia in Italia in tutti questi anni?
È endemica l’assenza di compattezza e di consapevolezza da parte del popolo italiano (endemica in questo caso vuol dire: secolare). In Italia niente mai che abbia interpretato il ruolo di le peuple o di das Volk (magari anche con gli aspetti retorici e reazionari che essi a casa loro hanno talvolta assunto, ma al tempo stesso con gli innegabili vantaggi che ne sono derivati, dentro e fuori i confini statuali). Fra la Liberazione e, grosso modo, gli anni ’70 ha sopperito l’azione dei grandi partiti di massa (sopperito, si badi bene, non sostituito). Quando tale azione è venuta meno, è cominciata l’opera di sfarinamento, su di un soggetto in partenza assai debole, di cui vediamo oggi gli esiti ultimi. Se le classi tradizionali e i cosiddetti “ceti intellettuali” (professionisti, insegnanti, persino imprenditori) si sono ritirati sullo sfondo, a contemplare, più allibiti che critici, più passivi che attivi, lo sfascio dilagante, cosa resta al centro della scena?
Recentemente si è tornati a parlare, anche a sinistra, anche dai miei vecchi sodali operaisti, di popolo. Ma la categoria, e soprattutto la realtà, ne sono profondamente mutati. Popolo è concetto nobile, non merita d’essere banalmente assimilato all’uso che se ne fa nelle pur giuste polemiche antipopuliste.
All’inizio del degrado ci sono la crisi della politica e la catastrofe dei partiti di massa fra gli anni ’80 e i ’90. Le ha aperto la strada, e proprio nello specifico senso che stiamo usando, la precorritrice, devastante avventura craxiana. Poi è intervenuta, partendo esattamente da lì dentro (anche in senso strettamente sociologico) e fornendo al tempo stesso alla populace una miriade di modelli assolutamente simpatetici e imitabili, la lunga fase berlusconiana. Infine, più recentemente, è sopravvenuta, in maniera forse inaspettata ma non irrilevante, una forte componente neo-veterofascista: il fascismo, quello autentico, è sempre stato portatore di una disponibilità corruttiva profonda. Il risultato è stato devastante: il popolo italiano si è disgregato in una serie di frammenti, spesso contrapposti fra loro e ognuno alla ricerca della propria personale, individuale e/o settoriale ricerca di affermazione, di denaro e di potere (esiste anche una variante localistica di tale dissoluzione, gravida tuttavia anch’essa di fattori di corruttela: il leghismo ne rappresenta il frutto e l’interprete più autentico).
Dallo spappolamento e dalla scomposizione della “figura popolo”, e di coloro che per un certo periodo di tempo avevano più o meno legittimamente preteso di assumerne la rappresentanza, è emerso un nuovo ceto sociale, il residuo immondo che sopravvive quando tutto il resto è stato digerito e consumato. Il vero, grande protagonista della corruzione italiana è questo ceto sociale, una classe tipicamente interstiziale, frutto dello spappolamento o dell’emarginazione o del volontario mutismo delle altre, priva assolutamente di cultura e di valori, ignara di progetto, deprivata all’origine e secolarmente di ogni potere, oggi famelicamente alla ricerca di un indennizzo che la risarcisca della lunga astinenza (oltre che i consigli regionali riempie freneticamente gli outlet, inonda le autostrade di Suv, aspira ad una visibilità da ottenere con qualsiasi mezzo, non teme per questo né il grottesco né l’osceno, parla una lingua che non è più l’italiano ma una sua bastarda, ridicola caricatura). Insomma, come in un incubo notturno il sogno berlusconiano ha preso corpo.
Tale classe, non solo promossa ma anche furibondamente corteggiata da alcuni, ma anche autopromossa in numerosi altri casi, ha cominciato a invadere la politica nazionale, si affaccia qua e là nei gruppi dirigenti di taluni partiti, siede ormai in abbondanza nelle aule parlamentari. Ma ha preso già direttamente il potere in numerose realtà regionali, sotto e sopra la linea delle palme, a testimonianza del fatto che il fenomeno è effettivamente nazionale, non locale. La precisazione che a questo punto ne facciamo induce forse a pensare che l’istituzione regionale abbia a che fare con la crescente affermazione di tale classe in politica e nella gestione del potere in Italia? Non avrei dubbi a rispondere affermativamente.
In un Paese come il nostro dove le peuple non è quasi mai realmente esistito e l’idea di nazione è sempre stata così fragile e precaria (può esistere una nazione senza un popolo? può esistere un popolo senza una nazione?), la regionalizzazione ha aggravato le resistenze al processo unitario e ha spinto in avanti un ceto politico improvvisato e parassitario. Siamo ancora in tempo: invece di abolire le province, che sono innocue, bisognerebbe abolire le Regioni e tornare allo Stato unitario (meno ceto politico, enormemente meno spese, rafforzamento utile e conseguente dell’istituzione comunale, l’unica veramente italiana).
Se queste considerazioni fossero minimamente fondate, ci vorrebbe ben altro per battere l’abominevole classe emergente che una campagna (del resto molto, molto tardiva) di moralizzazione, diciamo così, di tipo pecuniario. Bisogna combattere e cancellarla in re, cioè nei suoi motivi sostanziali di sopravvivenza e di... fioritura. La situazione è tanto grave che persino una parte del movimento soi disant d’opposizione assume modi, linguaggi e richieste dell’abominevole classe (Grillo, ovviamente, ma non solo). Ricomporre il popolo, pur nella diversità delle opinioni politiche, dandogli una prospettiva strategica che punti innanzi tutto all’isolamento, alla sconfitta e alla cancellazione dell’abominevole classe emergente, è il compito di questo grande momento che sta di fronte ai nostri politici sani: moralità, sì, ma al tempo stesso contegno e cose e sostanza – insomma, la riforma intellettuale e morale, ma accompagnata da un serio programma economico. Chi avrà il coraggio e la forza di assumerselo fino in fondo?

l’Unità 2.10.12
Cie di Lamezia sbarre senza salute
di Flore-Murard Yovanovitch


GABBIE GIALLE E FRESCHE DI PITTURE, MA GABBIE LO STESSO. MIGRANTI RINCHIUSI DIETRO IL FILO SPINATO E IL MURO DI SILENZIO. UN TEAM DI «MEDICI PER I DIRITTI UMANI» è entrato nel Centro di Identificazione e Espulsione (Cie) di Lamezia Terme, situato in località Pian del Duca e gestito fin dalla sua apertura nel 1998 dalla cooperativa «Malgrado Tutto», e ha scattato foto. In questo documento, si vede la serie di recinzioni alte 6 metri, il filo spinato, le stanze con i letti di metallo fissati a terra e senza lenzuola, il cortile senza pallone e le stanze di isolamento.
Il Cie di Lamezia Terme era stato già a molte riprese definito come uno dei peggiori d'Italia poiché privo dei minimi requisiti di vivibilità. Come riassumono gli medici di Medu, «la struttura appare del tutto inadeguata a garantire la permanenza dignitosa dei migranti trattenuti. Alcune pratiche francamente sconcertanti e lesive della privacy della persona rendono la struttura priva dei requisiti minimi di vivibilità in condizioni di capienza a regime».
Dal reportage a Lamezia, emergono, infatti, strane «invenzioni» ad hoc dell’ente gestore quando non pure e semplici pratiche di umiliazione dei detenuti. Come la gabbia (gialla) apposita per radersi la barba esposta alla vista di tutti, forze dell’ordine, altri trattenuti e staff, in violazione di ogni privacy resa già nulla dalle camere di sorveglianze accese 24ore su24. Prima dell’uscita dall’«abitacolo» devi depositare la lametta in un apposito contenitore. Perché la lametta, la potresti ingerire, succede ogni giorno nei Cie, per tentare la fuga, per attirare l’attenzione dei sanitari o semplicemente per disturbo psicologico e autolesionismo diffuso. Perché qui si impazzisce. Come ricordava già un rapporto recente del Senato.
In un’altra foto spunta l’immagine di un detenuto che nonostante la richiesta di effettuare un controllo ortopedico, per via di una grave forma di infezione (osteomielite) del femore che ha reso necessario il posizionamento di una protesi all’anca, si è inventata una fisioterapia «fai da te» con una bottiglia di plastica riempita d’acqua a legata alla gamba. L’ente gestore ha riferito agli operatori di Medu di non aver potuto acquisire la sua cartella clinica.
La violazione del diritto alla salute è una realtà denunciata da Medu in vari rapporti recenti. Queste strutture chiuse in assenza di un presidio dell’Asl garantiscono solo un’assistenza da primo livello, e per pazienti affetti da patologie più gravi che e necessitano diagnosi o cure specialistiche in strutture esterne, casi di non accesso alle cure non sono rari. Come sostiene un medico del Cie, «nostro compito è di limitare il più possibile questi trasferimenti all'esterno». Pure rispetto alle sue cosiddette «funzioni» di contrasto all’immigrazione cosiddetta irregolare il centro di Lamezia presenta le solite falle. Secondo il direttore dell’ente gestore circa il 90% dei trattenuti proviene da un istituto di pena. Persone, dunque, che avrebbero potuto e dovuto essere identificate durante il periodo di detenzione carceraria. Meno della metà (il 41% nel 2011) dei migranti trattenuti è effettivamente espulso. Il reportage di Medu esce appena dieci giorno dopo che il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks, a seguito della sua visita a Roma dal 3 al 6 luglio 2012, aveva presentato un rapporto in cui esortava «a eliminare gradualmente la pratica della detenzione amministrativa dei migranti irregolari in strutture simil-carcerarie, favorendo piuttosto misure alternative più idonee». Il Rapporto è rivolto alle autorità italiane.

Corriere 2.10.12
«Quando (al Ministero) imparai a confezionare circolari incomprensibili»
di Antonio Pascale


Il primo giorno di lavoro è come il primo bacio. Il primo giorno da ministeriale, quello, è stato ancora più importante. Al concorso, tra le varie domande, avevo risposto sugli art. 97 e 98 della Costituzione. Bellissimi. «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione». Il 98 invece: «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Insomma sarei stato un civil servant. E con questa ambizione entrai al Ministero.
Poi un vecchio direttore il primo giorno di lavoro, mi chiamò: legga questa circolare esplicativa ancora in bozze e mi dica con tutta sincerità cosa capisce. Mi ritirai nella mia stanza, in mano la famosa matita rosso blu e cominciai a leggere. Ora, sarà stato per le subordinate che si inseguivano senza tregua, per i rimandi snervanti, per una serie di punti numerati con A) a) A1 aa1 e via dicendo, io pensai che solo una mente alienata potesse aver prodotto quel documento. Così andai dal vecchio direttore e balbettando dissi: non ho capito niente. E lui rispose con un mezzo sorriso: bene, allora è perfetta! Ne parlai con i colleghi e alla fine, chi più chi meno, scoprii, tutti avevano letto una circolare simile. Nel lontano 1989, quella fu una piccola lezione. Le leggi non devono mai essere chiare, perché se lo sono, con la chiarezza forniamo potere a chi legge. Il Superiore Ministero deve mantenere la possibilità della interpretazione autentica. Ero scettico ma poi cominciai a partecipare alle riunioni con membri di varia provenienza, regionali, provinciali, confederazioni varie e notai come ognuno di loro si sentiva parte dello Stato solo quando doveva ricevere soldi e contro lo Stato — assumevano venature anarchiche — quando era il momento di prendersi responsabilità statali. E allora nel momento del massimo fracasso, quando le opinioni si scontravano con clamori e cigolii, arrivava il vecchio direttore, si sedeva vicino a me, salutava tutti e diceva: leggiamo cosa dice in proposito la circolare esplicativa. Calava il silenzio. E il vecchio direttore si rilassava sulla poltrona e suggeriva l'interpretazione autentica.
Cominciai a scrivere anche io circolari con molte subordinate e un'infinita varietà di punti, e avrei potuto facilmente abituarmi allo stile se non fosse arrivata la legge sulla trasparenza. La 241/90. Per fortuna. Non c'era più la (superiore) Amministrazione e l'amministrato, ma Stato e Cittadino. Compito di chi fa le leggi sarà quello di esporle in maniera chiara e trasparente. Sentivo che le cose sarebbero migliorate da un giorno all'altro. Mi sbagliavo. Come scrittore andai a Francoforte. Davanti a un pubblico misto, italiano e tedesco, tradotto in simultanea, dissi le parole: condono edilizio. La traduttrice mi sussurrò: non abbiamo la parola per tradurre condono edilizio. Ah no? No! Allora cominciamo dal principio: si costruisce là dove non si può costruire. E un tedesco subito alzò la mano: e allora perché costruite? Cominciai a balbettare: perché? e... e... perché è abusivo. E perché non abbattete? E perché? A fine presentazione il tedesco mi chiese: ma se volessi costruire una casa davanti al Colosseo, potrei farlo? No, dissi. No? Boh? Non ci capivo più niente, rispetto al resto dell'Europa eravamo in netto svantaggio. Troppi anni di vecchi direttori e di interessi privati avevano creato un linguaggio pubblico opaco.
Tuttavia, i tempi stanno per cambiare e non ho mai perso fiducia nella pubblica amministrazione, ha un ruolo di fondamentale importanza nella giusta allocazione delle risorse, e poi i suoi mali sono i mali della comunità. Da funzionario che ne ha viste abbastanza di circolari opache, suggerirei di spingere ancora di più la linea della trasparenza. È il momento giusto, e poi le innovazioni tecnologiche consentono di far partecipare alle scelte dello Stato i cittadini, e chiedere loro non opinioni astratte ma qualificate collaborazioni. Il vecchio discorso del presidente americano Pierce (1850) è valido. A un signore che passando vicino al Casa Bianca gli chiese: che bella casa, si può visitare? Pierce rispose: ma mio buon signore, certo che potete entrare, questa non è casa mia, ma è la casa della gente.

l’Unità 2.10.12
L’autista di Kubrick
Emilio D’Alessandro gli fu vicino fino alla morte
di Alberto Crespi


ROMA «DI TANTO IN TANTO MI CHIEDEVA DI ACCOMPAGNARLO A FARE LA SPESA... ACQUISTAVA SEMPRE LE STESSE COSE: PORRIDGE, MUESLI E CEREALI PER LA COLAZIONE, SUCCO D’ARANCIA E DI ANANAS, NESCAFÈ, FILETTO DI MANZO, MARMELLATA DI CILIEGIE, COCA-COLA, HOT DOG, A CUI SI AGGIUNSERO TONNELLATE DI SALMONE, PESCE SPADA E ALTRE QUALITÀ DI PESCE QUANDO SCOPPIÒ IL CASO “MUCCA PAZZA”. Quando acquistava qualche cibo nuovo era per provare a cuocerlo nel forno a microonde, l’elettrodomestico che adorava di più in assoluto. Se poi il prodotto era di suo gradimento il giorno dopo mi faceva trovare sulla scrivania l’etichetta ritagliata insieme a una nota: compra sei di queste, grazie».
L’uomo che faceva la spesa e adorava i forni a microonde era anche, nel tempo libero, uno dei più grandi artisti del Novecento: Stanley Kubrick. Questi e altri numerosissimi dettagli della sua vita quotidiana (attenzione: quotidiana, non privata. Niente gossip!) vengono da un libro a suo modo strepitoso appena pubblicato dal Saggiatore: Stanley Kubrick e me, di Emilio D’Alessandro (scritto in collaborazione con Filippo Ulivieri, 354 pagine che si leggono d’un fiato, 17 euro benissimo spesi). Emilio D’Alessandro, cassinate emigrato a vent’anni in Inghilterra per sfuggire al servizio militare, non è un semplice «biografo» di Kubrick. È l’uomo che gli è stato vicino, forse più di chiunque altro, dal 1972 fino alla morte (con un intervallo di un paio d’anni prima delle riprese di Eyes Wide Shut).
L’INCONTRO
Inizialmente era il suo autista: lavorava per una compagnia di taxi privati a Londra e gli capitò di fare dei servizi per la Hawk Film, la casa di produzione di Arancia meccanica. Kubrick lo conobbe, gli piacque il suo stile di guida, lo interrogò sul funzionamento delle automobili (era un fanatico della tecnologia, di qualunque tecnologia: dai forni a microonde alle astronavi), fu soddisfatto delle sue risposte e lo assunse. D’Alessandro veniva da una buona scuola: appena arrivato in Inghilterra, negli anni ’60, era stato un pilota di Formula Ford, pare piuttosto bravo. Ben presto, da autista diventò una specie di factotum, al quale Kubrick affidava incarichi di qualunque tipo, dallo scarrozzare gli attori con i quali lavorava al gestire, per esempio, le centinaia di chiavi che aprivano le altrettanto numerose porte della tenuta di Childwickbury dove la famiglia Kubrick viveva. Stanley lavorava «round the clock»: 24 ore su 24. Ed Emilio doveva essere a sua disposizione sempre, fino al punto di avere ben poca privacy (ed era sposato, con figli). Come la sera in cui Stanley gli telefonò a casa per dirgli che non trovava il suo anello nuziale: «My wedding ring is missing, mi disse. La sua tipica costruzione della frase: non “ho perso la fede”, ma “la mia fede è sparita”. Puoi venire a svuotare l’aspirapolvere e vediamo se è finita lì dentro?».
Erano le 11 di sera ed Emilio, come gli accadeva di continuo, riuscì a non uscire di casa: «teleguidò» Kubrick al telefono, dicendogli di frugare bene in tutte le tasche, e alla fine la fede saltò fuori. «Non lo dire a Christiane, per carità!», fu la supplica finale del regista. Christiane era (è) la moglie.
Stanley Kubrick e me è forse il libro più importante mai scritto su questo regista. Perché regala un ritratto privato «caldo», addirittura commovente nelle ultime pagine dedicate alla scomparsa di Kubrick. E perché ottiene un effetto paradossale: fa piazza pulita di tutte le leggende un po’ idiote che per anni sono circolate su Kubrick, ma per certi versi le rinfocola, e ne crea di nuove. Il regista è descritto come un uomo sempre concentratissimo sul lavoro, capace di succhiare il sangue ai collaboratori, ma anche umanissimo, simpatico, generoso, spiritoso. Emilio deve aver patito le pene dell’inferno, in certi momenti, ma si capisce dal libro che rifarebbe tutto. E, attenzione: non per cinefilìa! I passaggi forse più spassosi sono quelli in cui Kubrick lo tampina per capire se ha visto i suoi film, e D’Alessandro gli confessa candidamente che vede solo film western («Quando girerai un western, lo vedrò»: peccato non sia successo). Quando Emilio, prima di Eyes Wide Shut, torna per un paio d’anni nella natìa Cassino finisce per rivelare agli amici d’infanzia che, in tutti questi anni trascorsi a Londra, ha lavorato «per un regista cinematografico, Stanley Kubrick»: quelli cascano ovviamente dalla sedia, esclamano «Kubrick?! Il genio?!? Tu conosci Stanley Kubrick?», ed Emilio sembra quasi domandarsi che cavolo abbia mai fatto, questo Kubrick, per essere così famoso. Il rapporto fra i due è di lavoro, ma soprattutto di amicizia, di reciproca dipendenza e, col tempo, di grande affetto.
E proprio l’affetto rende «calde» anche le pagine in cui Emilio, forse senza volerlo, smantella la leggenda. Scopriamo così che il geniale Kubrick, ossessionato dal controllo sui suoi film, era smemorato e pasticcione. Come quel giorno in cui volle collaudare un nuovo forno a microonde... «Emilio, vieni su, è successo un disastro! Varcata la soglia del suo appartamento, trovai il forno avvolto da una nuvola di fumo, Stanley in piedi lì accanto, impietrito, lo sportello del forno a cinque metri di distanza e pezzi di uova ovunque». L’uomo che aveva mandato gli astronauti «su Giove e oltre l’infinito» aveva tentato di cucinare nel forno a microonde delle uova sode, non sapendo che le uova intere, in quegli aggeggi, esplodono. Avrebbe dovuto chiederlo a Hal 9000: ma chissà se il perfido computer gli avrebbe detto la verità.

Giorno dopo giorno trent’anni di amicizia con un genio del cinema
In trent’anni di sodalizio professionale e umano con il regista Stanley Kubrick, Emilio D'Alessandro scopre i segreti della settima arte, un mondo fantasmagorico, lontanissimo dalle sue origini, che lui vive da protagonista. Emilio D’Alessandro, insieme a Filippo Ulivieri, racconta la sua esperienza straordinaria, grazie anche a un’inedita documentazione fotografica e alla raccolta delle lettere e dei messaggi che Kubrick gli ha inviato. Gesti quotidiani, drammi familiari, partenze e ricongiungimenti, chiacchiere davanti a una tazza di caffè americano, lunghi viaggi in auto in cerca di location. Giorno dopo giorno, Emilio diventa indispensabile per Stanley e Stanley per Emilio. «Stanley Kubrick e me» (pagine 354, euro 17,00, Il Saggiatore) è la cronaca della carriera di un genio del cinema raccontata attraverso gli occhi del suo assistente personale, ma anche la storia di una profonda amicizia e di una meravigliosa avventura.

Repubblica Salute 2.10.12
Arriva in Italia il libro di Kirsch (Harvard) che scatenò le polemiche
Depressione. Risultati migliori se la psicoterapia integra le pillole
di Francesco Bottaccioli


«Come la maggior parte delle persone pensavo che gli antidepressivi funzionassero ». Così inizia il libro di Irving Kirsch, professore di psicologia ad Harvard e a Plymouth, ora disponibile in italiano (Tecniche Nuove editore) col titolo I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Dalle pillole della felicità alla cura integrata.
Pagina dopo pagina, con la forza dei numeri, Kirsch chiarisce come sia giunto alla conclusione che i farmaci antidepressivi, se paragonati al placebo, hanno un modesto grado di efficacia, documentabile solo nelle forme gravi di depressione, una piccola minoranza delle manifestazioni della malattia.
Il libro ha scatenato un putiferio, tutt’ora in pieno sviluppo. Sono scesi in campo, da un lato, Marcia Angell, già direttore del New England Journal of Medicine, che ha preso spunto dal libro per tracciare un’analisi impietosa della psichiatria americana giudicata al carro dell’industria farmaceutica (negli ultimi 20 anni il consumo di antidepressivi è aumentato del 400 per cento!), dall’altro lato Peter D. Kramer, il capo della taskforce incaricata di redigere la quinta edizione del DSM, il Manuale diagnostico della psichiatria internazionale, che ha difeso gli antidepressivi. In mezzo, Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health, che su Psychiatric Timesha dichiarato che, in effetti, il vantaggio sul placebo è riscontrabile solo nelle forme gravi di depressione e che quindi è vero che molte persone non rispondono al trattamento farmacologico. Secondo le meta-analisi di Kirsch, la differenza tra farmaci e placebo oscilla tra il 16 e il 18% a favore dei farmaci, con una riduzione di appena due punti della scala Hamilton, che è lo strumento di misura dei sintomi depressivi. Insomma poca roba, tra l’altro ricca di effetti collaterali, che non giustifica imperniare la cura della depressione nel trattamento farmacologico. Nel capitolo finale Kirsch riassume gli approcci alternativi esistenti: psicoterapia, meditazione, attività fisica, fitoterapia. Alla fine di luglio, un gruppo internazionale di ricerca di cui fa parte Kirsch, su Plos ha pubblicato una dettagliata analisi su oltre 100 studi controllati esaminando l’efficacia di psicofarmacologia, psicoterapia e terapie alternative. I dati confermano che tra farmaci e psicoterapia non c’è alcuna differenza. Modesta quella tra loro e il placebo, mentre non c’è differenza statisticamente significativa con le terapie alternative (attività fisica e agopuntura). Una certa differenza positiva di efficacia è riscontrabile dalla combinazione di farmaci e psicoterapia. Insomma, l’integrazione delle cure è la strada giusta. Kirsch ne parlerà a Milano al convegno sulla depressione (24 novembre, www. sipnei. it ).
* Presidente on. Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia

Repubblica Salute 2.10.12
Anche un breve corso di meditazione riduce sintomi e ormoni dello stress


In questo quadro di confronto tra trattamenti farmacologici, psicoterapici e non convenzionali anche la meditazione si dimostra uno strumento utile. Un nostro recente studio - sottoposto per la pubblicazione a una qualificata rivista internazionale e presentato nella seconda edizione di Meditazione psiche e cervello (Tecniche Nuove editore, in libreria in questo mese) - dimostra che un breve corso di quattro giorni riduce la sintomatologia depressiva di quasi tre volte. Lo studio, realizzato da un gruppo interdisciplinare comprendente psicologi della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia e ricercatori e docenti delle facoltà di Medicina di Ancona e di Farmacia di Urbino, è stato condotto su 125 persone partecipanti ai nostri corsi di meditazione.
La forte riduzione della sintomatologia sia di tipo ansioso che depressivo, in genere associate insieme, si è registrata alla fine del corso. Inoltre, alla riduzione dei sintomi si è avuta anche un’altrettanta netta riduzione, con miglior regolazione della scarica di cortisolo nel sangue, che è il principale ormone dello stress, sempre alterato nelle sindromi di tipo depressivo.
(f. b.)

lunedì 1 ottobre 2012

La Stampa 1.10.12
La nuova corsa al centro
di Marcello Sorgi


Contrariamente a quel che gli chiedono due su tre dei suoi principali alleati, Mario Monti non deve affatto chiarire le sue vere intenzioni, né candidarsi alle prossime elezioni, in alternativa a Bersani (se vincerà le primarie del Pd) e a Berlusconi (se alla fine sceglierà di scendere di nuovo in campo). Dopo quel che ha detto a New York tre giorni fa, il presidente del Consiglio, per fare il bis a Palazzo Chigi, deve solo continuare a governare, limitando allo stretto necessario, come fa sempre, le sue esternazioni.
Quando è all’estero - e gli capita sovente, viste le dimensioni globali della crisi -, Monti, si sa, parla soprattutto ai suoi interlocutori stranieri e ai mercati, che gli chiedono sempre cosa sarà dell’Italia dopo di lui. In questo quadro, è bastato che dichiarasse la sua disponibilità a restare al suo posto anche dopo le elezioni del 2013, per provocare un terremoto politico dalla portata imprevedibile.
Basta solo rivedere cosa è successo nei fatidici tre giorni seguiti all’intervento al Council of Foreign Relations. A cominciare dalla novità di Montezemolo, che dopo un’attesa durata troppo a lungo, ha sciolto finalmente la sua riserva. E invece di scendere in campo in prima persona, ha deciso di schierarsi per il bis dell’attuale premier. Già prima che il presidente della Ferrari si pronunciasse, tuttavia, lo schieramento centrale che punta a un rassemblement dei moderati a sostegno di Monti era nato e cresciuto, e da ieri si presenta piuttosto affollato.
Quando Casini, il 7 settembre, aveva cominciato a dire chiaramente che non c’era altra strada, più di uno aveva arricciato il naso. Anche la fondazione «Italia futura», che fa capo a Montezemolo, aveva criticato l’accelerata centrista, in mancanza di un vero rinnovamento del personale politico. Ma adesso, dopo la disponibilità manifestata da Monti, sono in tanti a prendere atto che aveva ragione Pierferdy, e con il mestiere politico che tutti gli riconoscono, aveva colto subito il mutar del vento.
Così che oggi lo schieramento montiano può contare su Fini, sul suo Fli e sui nuovi movimenti di Oscar Giannino e Ernesto Auci. Altri probabilmente verranno nei prossimi giorni. E c’è perfino chi si chiede cosa succederebbe se Renzi, battuto nelle primarie, dovesse tuttavia raggiungere un risultato che gli consenta di influire sulla linea del Pd.
Quelle, simmetriche, di Bersani e Alfano, sono infatti al momento le resistenze che minacciano di ostacolare il successo dell’operazione. Dato che si tratta di posizioni meditate, conviene analizzarle e approfondirle: perché si tratta certamente di atteggiamenti coincidenti, ma frutto di percorsi diversi. Non va dimenticato che Bersani, oltre ad essere impegnato nelle primarie - e quindi impossibilitato, come possibile candidato premier, a farsi da parte in favore di Monti -, aveva già rinunciato a novembre 2011 a elezioni anticipate che lo avrebbero visto favorito e avrebbero colto Berlusconi nel suo momento più basso. Quindi il «no» del leader del Pd al bis è meditato e in qualche modo obbligato.
Il quadro del Pdl invece è differente. Pur sapendo che è impossibile, Alfano sfida Monti a candidarsi alle elezioni, e non esclude che il Pdl possa appoggiarlo. Sotto sotto, questo è il retropensiero di Berlusconi, che non a caso, seppure sollecitato dal suo partito, aspetta a dirsi pronto a riscendere in campo. Magari alla fine lo farà: ma se Monti, come ha fatto già capire, dovesse dichiarare che è disponibile a restare, se anche la larga maggioranza che lo sostiene sarà confermata, c’è da giurare che l’atteggiamento del Cavaliere potrebbe cambiare.
Stiamo insomma assistendo a una sceneggiata. Il leader del Pd e quello del Pdl sanno benissimo che una parte dei loro elettori non vogliono né il bis né restare alleati di quelli che considerano i loro avversari. Ma sanno altrettanto bene che gli toccherà farglieli digerire dopo il voto. Adesso è il momento dei sogni. Dopo verrà l’ora di fare i conti con la realtà.

Corriere 1.10.12
Fioroni
«Il premier trovi il modo di candidarsi e sia il ponte tra Bersani e i moderati»
di Monica Guerzoni


ROMA — Montezemolo ha deciso di «guidare la macchina dai box», come dice Bersani?
«No, ha deciso con molta serietà di affidare la macchina del Paese a Monti. La dichiarazione di disponibilità del premier è un dato positivo, ma serve un passo in più».
Onorevole Beppe Fioroni, il premier è senatore a vita, non si può candidare...
«Per questo mi auguro che faccia un altro regalo all'Italia, trovi cioè prima del voto i modi e le forme che ritiene opportuni per essere presente alle prossime elezioni».
Monti leader di un'alleanza?
«Il Monti bis ci sarà solo con un passaggio democratico e non grazie all'inciucio di una legge elettorale che non consente a nessuno di vincere. Mi auguro che Monti diventi il punto di riferimento per tutti quegli italiani che, delusi dalle scelte populistiche di Berlusconi, non vanno più a votare».
Tifa per la lista Monti?
«Penso a quell'area moderata che ha bisogno di trovare una sintesi armonica, perché composta da tanti solisti capaci, però privi di un direttore d'orchestra».
Il problema è che Bersani non la pensa come lei. Cosa farà il leader del Pd? Sosterrà Monti o correrà alle primarie con Vendola?
«Prima dei veti e dei diktat di Vendola, Bersani aveva delineato con chiarezza l'alleanza tra riformisti e moderati per cambiare assieme l'Italia».
Ora però Vendola non vuole stare con Casini, e viceversa...
«Il Pd non può essere prigioniero di Vendola, che per partecipare alle primarie ci chiede contemporaneamente di rinunciare all'accordo con i moderati e di pronunciare un'abiura sul nome di Monti. La novità è la metamorfosi di Matteo Renzi, che ha tirato fuori un dirompente antimontismo. E questo è grave, perché le primarie decideranno il candidato premier e le alleanze».
Teme per la tenuta del Pd?
«Arroccarsi in una posizione antimontiana ci fa correre il rischio del 1994 e della gioiosa macchina da guerra di Occhetto. Non possiamo dire che non ci alleeremo mai coi moderati e che siamo contrari all'agenda Monti».
Antonio Polito suggerisce a Renzi di lasciare a Monti, in caso di vittoria alle primarie e alle politiche...
«Qui non servono colpi di teatro, ma il buon senso di costruire un ponte verso il futuro che veda insieme Monti, Bersani, i riformisti e i moderati. Non farlo sarebbe un errore. Premesso che qualunque scelta dovrà essere frutto di una coalizione politica, saranno le elezioni a stabilire se il capo del governo sarà l'attuale premier oppure Bersani, l'unico del Pd che è legittimato a farlo in quanto capo del primo partito».
Sta chiedendo a Renzi di fare un passo indietro, o a Bersani di rinunciare alle primarie?
«Tanti candidati alle primarie si dovrebbero rendere conto che pensare di sostituire Monti, con Monti in campo, è una cosa molto complessa. Chiedere agli elettori di scegliere tra un'Italia governata da Monti e un'Italia governata dal coraggio dell'incoscienza è come sintonizzarsi su Scherzi a parte».
Bersani è nell'angolo, come ne esce?
«Il 6 ottobre c'è l'Assemblea nazionale e le cose da fare sono chiare. Renzi sottoscriva il programma del Pd, che anche lui ha votato. E Vendola firmi una stringente carta d'intenti e un programma compatibile, senza pregiudiziali sulle alleanze con i moderati. Altrimenti tanto vale che il Pd vada da solo e faccia il congresso, invece delle primarie. Perché con questa tipologia di soggetti la gente non ci capisce».
Con quale stato d'animo voterà alle primarie?
«Spero che Monti in campo convinca tutti a riflettere. Il mio terrore è che il secondo turno delle primarie faccia esplodere la conflittualità tra un'area che ricorda la sinistra di tanti anni fa e un'altra, che ricorda la vecchia Forza Italia».
Teme la scissione?
«Il rischio è una implosione del Pd, che costringa una parte a fare altre scelte. Renzi non può dire "chi vince impone il programma", perché se in una coalizione c'è chi impone, agli altri non resta che andarsene».

Repubblica 1.10.12
Fassina: “Con lui poteri forti non c’è solo la sua agenda”
I poteri forti sono per un governo di larga coalizione condizionato da Berlusconi


Stefano Fassina i supermontiani li capisce: «Il Professore è una persona seria, il suo impegno per il Paese è emerso in netto contrasto con il livello infimo di credibilità raggiunto da Berlusconi». E però, il responsabile economico del Pd crede che dietro la corsa a Monti ci sia una ragione più preoccupante.
«La convinzione che l’agenda Monti sia l’unica agenda possibile in quanto frutto di un pensiero unico. Invece, l’agenda mercantilista che prevale nell’eurozona sta portando all’aumento del debito pubblico, a un aggravamento della recessione e della disoccupazione».
«Una parte dei poteri più forti di questo Paese spera in un governo di larga coalizione condizionato dal centrodestra berlusconiano, per evitare di contribuire ai costi dell’aggiustamento che l’Italia è chiamata a fare».
«Credo che tutti coloro che sono nel Pd accetteranno il risultato delle primarie. Poi, bisogna che tutti guardino ai fatti laicamente: l’anno prossimo avremo un debito pubblico più elevato di quello del 2011. Il saldo strutturale - che Monti ha richiamato come indicatore di successo per il 2013 - è inferiore a quello che il ministero dell’Economia aveva previsto nel 2011. Dopo la profonda recessione di quest’anno, lo saremo ancora l’anno prossimo. La disoccupazione, soprattutto giovanile, avrà fatto un balzo di diverse centinaia di migliaia di uomini e donne. Per questo noi proponiamo un’agenda progressista, contro l’avvitamento austerità recessione

Repubblica 1.10.12
Perché votare Un dilemma italiano
di Ilvo Diamanti


VOTARE per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma.
Amplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti, che ha confermato l’intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l’ipotesi di «dare una mano, se fosse richiesto ». Per proseguire nell’impegno avviato da quasi un anno. Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato, infine, la sua “discesa in campo”. A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto un “cartello elettorale”. Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire – come premier al di sopra delle parti e dei partiti.
Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale.
Investito dalla volontà di un’ampia maggioranza del Parlamento. L’idea, d’altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la “disponibilità” annunciata da Monti si traduca in decisione. Ma il fatto stesso che l’ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D’altronde, l’unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell’elettorato (dati Ipsos). Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.
Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto “non serve” a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che “serve” votare? E com’è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?
Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale – e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra “anomalia”.
In fondo, per quasi cinquant’anni il sistema politico italiano è apparso “bloccato”. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un “bipartitismo imperfetto”, per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l’opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte. Questa “anomalia” è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant’anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire. Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l’80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali.
Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.
Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l’anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi. Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I
Partiti, nell’insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).
Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l’anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell’anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la “fede” ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.
Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa – partecipazione e governo – possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento “antipartitico” e sostiene, in alternativa all’attuale sistema, la democrazia diretta – attraverso
rete.
Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell’area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i “canali” della rappresentanza democratica.
Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione – elettorale – e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica “in un cerchio chiuso in se stesso”, come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso, “la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio”. E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.

l’Unità 1.10.12
Il problema grave delle primarie è che le fa solo il Pd
C’è una grande domanda di partecipazione e di politica. Ma non ci sono risposte di sistema
di Carlo Buttaroni
, presidente Tecné

Voterò alle primarie della sinistra dando la mia preferenza a Matteo Renzi (...). Se alla fine Renzi risulterà vincitore, alle prossime elezioni voterò per il Pd; se i vincitori saranno Bersani o Vendola me ne guarderò bene.(...)? È scandaloso tutto ciò? In molti ritengono di sì.(...). Eppure, quel diritto io ritengo di possederlo». Sofia Ventura, giornalista ed editorialista, è l’autrice dell’articolo uscito sul Foglio da cui è tratto il virgolettato. Un articolo che ha fatto discutere, perché la Ventura è un’intellettuale di destra e interpreta un sentimento diffuso tra gli elettori della sua area politica. Un elettorato, per molti versi, orfano di leader e partiti capaci di perimetrare un campo politico, che intende partecipare alle primarie del centrosinistra anche per sopperire alla sensazione d’impotenza che nasce dal non poter compiere una scelta analoga all’interno della loro area.
Non sono pochi, infatti, gli elettori di destra che la pensano come la Ventura, delusi della degenerazione che ha segnato il crepuscolo berlusconiano, e da cui lo stesso Berlusconi sembra prendere ora le distanze. Alcuni di questi si stanno attivando per partecipare, in modo organizzato, alle primarie del centrosinistra. Non per inquinare la competizione, come alcuni temono, ma semplicemente per dire la loro.
La Ventura si chiede se questo comportamento sia scandaloso. E la risposta, sotto questo punto di vista, non può che essere negativa. Non è scandaloso perché questo tipo di scelta non prefigura una categoria morale. Semmai, ciò che occorre chiedersi è se è legittimo. È possibile, cioè, che un partito scelga il proprio leader e la propria politica, con il contributo, magari decisivo, di chi la pensa diversamente, tanto da collocarsi su un campo politico opposto? E se gli elettori di destra contribuiscono a scegliere il leader della sinistra (e viceversa) non c’è il rischio che, alla fine, i leader somiglino sempre meno agli elettori che sono chiamati a rappresentare? Non sarebbe più corretto, invece, che fossero espressione d’idee e valori che interpretano la società nello stesso modo e guardano il futuro con le stesse ottiche, trovando forma compiuta in un progetto politico? Non sarebbe più giusto che un progetto politico ottenga il consenso anche di elettori di destra ma solo dopo la sua nascita, al momento del voto politico, anziché alle primarie? Sono queste le domande che solleva l’intervento di Sofia Ventura. Sarebbe stato del tutto normale se avesse annunciato il suo voto al Pd nel caso di vittoria di Matteo Renzi. Ma annunciare il contrario, cioè di votare alle primarie Renzi e, solo in caso di successo di quest’ultimo, il conseguente voto al Pd, non ha nulla a che fare con la dimensione morale, ma apre la discussione sul funzionamento di un sistema che ambisce a governare i processi politici e che fonda la legittimità delle azioni sulla dialettica democratica e sulle scelte che ne conseguono.
LEADERSHIP E DEMOCRAZIA
Certo è che il ragionamento della Ventura è espressione di una visione individuale della partecipazione, dove tutto è trasferito al leader e dove tutto si risolve nell’esercitare il voto. Mentre nel mezzo c’è l’entropia che si alimenta del nichilismo di un pensiero debole, che ha messo in dissolvenza la forza della partecipazione collettiva e della rappresentanza sociale, che caratterizzavano le organizzazioni politiche di massa del Novecento. Al posto delle visioni totalizzanti, figlie d’ideologie immutabili, si è affermato il loro contrario: un palinsesto simbolico perennemente provvisorio che si è nutrito di politiche fast food, dove sono contati gli aggettivi anziché i sostantivi. Non a caso “nuovo” è stata la parola evocativa della Seconda Repubblica. A prescindere da ciò che doveva qualificare, e senza sottintendere né cosa, né come, sarebbe stato realmente il “nuovo”.
Se le prossime primarie del centrosinistra e del Pd devono rappresentare una svolta anche in questo senso e non limitarsi a offrire l’occasione per scegliere il leader del partito o della coalizione occorre un cambio di prospettiva. Perché la vera cifra del rinnovamento non la restituisce il tasso di ricorso alla società civile (che per sua natura non è né buona né cattiva), o lo stato anagrafico dei leader e degli staff ma la qualità delle idee e dei pensieri. Cioè, la politica e la declinazione delle sue azioni. È sotto questo punto di vista che le parole della Ventura pongono più domande di quante siano le risposte. Perché prima ancora di quali leader, bisogna chiedersi quali politiche. E poi quali partiti. E ancora quale organizzazione interna deve trovare corpo in un processo di selezione delle leadership. Solo così le primarie hanno un senso partecipativo non ambiguo rispetto a un modello di partito, a un’idea di società, a una visione politica più generale.
È qui il punto fondamentale che riguarda le prossime primarie del centrosinistra. Perché in gioco c’è anche la capacità di dar vita a processi di democrazia interna orientati a una logica unitaria, governati da un soggetto politico che vuole mantenere il suo carattere di attore organizzativo. E che nel fare questo assume le primarie come uno strumento consapevole della propria strategia di rapporto con un’area politica che ha pensieri e visioni comuni.
Le primarie finora hanno assolto efficacemente alla funzione di restituire una legittimazione alle leadership che il circuito interno non avrebbe potuto garantire, di sollecitare una mobilitazione che i tradizionali canali non sarebbero stati in grado di attivare. Ma, oggi, questo non è più sufficiente. E ciò che è la forza delle primarie rischia anche di essere il suo limite, nel momento in cui l’arena competitiva deregolata rischia di far degenerare le primarie da strumento democratico di un’area politica (che conserva la propria identità e il proprio profilo), a un campo su cui si scaricano le tensioni interne ed esterne, che riflettono la crisi più generale di sistema. Perché mai, altrimenti, elettori convintamente di destra, dovrebbero scegliere un progetto e un leader dello schieramento opposto?
IL RUOLO DEI PARTITI
Il modo migliore per cercare delle risposte a questa domanda è chiedersi se il ruolo che i partiti hanno storicamente svolto, oggi sia effettivamente esaurito, o se piuttosto non debba, in qualche modo, essere ripreso e reinterpretato. E le risposte non possono che essere in questa seconda opzione. Seppur in forme completamente diverse dal passato, il Paese ha bisogno di partiti dotati di un’ampia base associativa, capaci di riprendere tutte le funzioni che storicamente hanno svolto, come l’aggregazione e l’integrazione degli interessi sociali, il reclutamento del personale politico, l’integrazione sociale, la mobilitazione e la partecipazione, la formazione delle politiche pubbliche. Alcune delle ragioni che hanno portato al deficit attuale di queste funzioni sono storiche, altre contingenti. Ma tra le cause vi è anche il progressivo disgregarsi dei legami organizzativi.
Si può anche ritenere irreversibile un sistema politico, come quello attuale, che guarda con diffidenza al livello di competenza dei cittadini. Ma se si vuole invertire la direzione di marcia che ha condotto i partiti a svolgere un ruolo prevalentemente elettorale, allora anche le primarie devono essere declinate diversamente. Ed è in questa prospettiva che il ragionamento della Ventura non troverebbe spazio. Perché gli elettori del centrodestra dovrebbero aspirare alle loro primarie. Ed è paradossale che ciò non sia ancora avvenuto, perché la Ventura e con lei quanti pensano che la destra in Italia abbia un futuro da incontrare ha tutto il diritto
di scegliere un leader e un progetto politico. Affinché le primarie siano la leva di un rinnovamento effettivo del sistema occorre che tutti i partiti non solo il Pd o il centrosinistra – iscrivano nel proprio dna le regole della partecipazione democratica. E per fare questo è necessario che la politica riprenda il suo ruolo, perché senza politica non ci sono campi su cui investire, ma solo leader da legittimare.

l’Unità 1.10.12
Regole uguale boicottaggio: strana idea di democrazia
di Michele Prospero


ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA DENUNCIA NEL PD UNA CONGIURA DEGLI APPARATI CONTRO UN SIMPATICO GIAMBURRASCA CHE HA IL VOLTO DI MATTEO RENZI. La sua tesi è che, in vista delle primarie, «il predisporre un sistema di regole equivale a un boicottaggio» del sindaco. Che le regole non gli piacciano è noto. Lo storico auspica infatti da tempo l’accensione di una risorsa carismatica che preferisce luoghi fluidi, momenti di incantamento senza argini, situazioni di incertezza in cui ogni coinvolgimento emozionale può esplodere.
Perciò Della Loggia attacca come usurpatori chi costruisce griglie per le primarie ed esalta invece quali paladini della libertà chi respinge ogni garanzia.
Nessuna organizzazione complessa segue però la sua miscela anarchico-carismatica e per ben funzionare preferisce dotarsi di procedure. Quando Galli della Loggia si cimenta con la questione delle regole è sempre originale.
Qualche mese fa recuperava a sproposito la categoria di Carl Schmitt di «stato di eccezione», ovvero di sospensione in nome dell’emergenza di ogni regola costituzionale, per inquadrare la condotta del capo dello Stato. Dopo aver assaporato l’inferno sulla terra repubblicana dominata dall’eccezione (solo immaginaria) imposta dal Quirinale, Della Loggia si rivolgeva al cielo per dettare almeno lì delle ottime regole da utilizzare per l’elezione del vicario di Cristo.
E, dall’alto della sua ingegneria teologica comparata, partoriva la ricetta miracolosa per la designazione del papa: il doppio turno. Per le cose del cielo, il doppio turno gli pareva un congegno sfiorato dalla grazia che orienta verso il bene. Abbandonato il regno celeste e tornato sulla terra, Della Loggia trova però peccaminosa la pretesa del Pd di svolgere le primarie con il metodo del doppio turno.
«Nelle segrete stanze del Pd», una mano assassina prepara la congiura. E infatti per boicottare il sindaco affiora «la rabbia partigiana dei vecchi leoni delle oligarchie» che, guarda un po’, per linciare l’indifeso Renzi mutano lo statuto che non consente altre candidature oltre quella del segretario. Sempre per rovinare Renzi, il Pd pensa persino di modificare la legge che impone le dimissioni dei sindaci sei mesi prima delle consultazioni politiche. Non contento di corteggiare il ridicolo con la sua arte del sospetto, per cui dietro ogni regola opera «qualche intenzione poco chiara», Della Loggia afferma che, per dissipare ogni dubbio, ci vorrebbe una competizione ad un solo turno che aggiudica la vittoria a chi, tra molte, ormai troppe, candidature si piazza per primo, con qualsiasi percentuale. Per non meritare l’epiteto di usurpatore, nessuno deve quindi invocare lo stesso canone usato dai socialisti francesi, imbroglioni che si avvalgono di «una regola capestro».
La preoccupazione politica di conferire il mandato di leader della coalizione a chi ottenga la maggioranza dei votanti per Della Loggia è scandalosa. Lo vada però a raccontare ai partiti americani se non conta nulla conquistare la maggioranza dei consensi in una estenuante battaglia interna. E chieda pure se è consentito a un elettore repubblicano votare nelle primarie democratiche.
Solo a uno storico metafisico verrebbe in mente di celebrare le primarie senza neppure avvalersi di liste predefinite ma di fogli del tutto elastici, aperti tra un turno e l’altro ad ogni passante casuale. La snodata democrazia dei curiosi che Della Loggia auspica contro ogni «albo pubblico» urta però contro la certezza del corpo elettorale che in nessuna istituzione può fluttuare in maniera arbitraria. Il corpo elettorale è un dato, non una costruzione in divenire. Altrimenti il gioco è falsato.
Ogni competizione per essere valida deve postulare la conoscibilità dell’universo coinvolto. E anche il popolo delle primarie, non essendo una entità ontologica, altro non può essere che una costruzione operata dalle regole che definiscono i criteri per il voto. È del tutto insensato denigrare un albo pubblico predefinito degli elettori come istigazione al boicottaggio di Giamburrasca. È forse un boicottaggio impedire a quelli di Casa Pound di decidere le sorti della Sinagoga o ai seguaci di Borghezio di orientare la vita di una Moschea?

l’Unità 1.10.12
Primarie, 20mila firme e doppio turno
Si delineano le regole da sottoporre all’Assemblea Pd di sabato
a cominciare dalla deroga che permetterà a Renzi di candidarsi. Per votare sarà necessario sottoscrivere la carta valoriale. Tetto alle spese: 250mila euro
di Simone Collini


Ventimila firme per candidarsi. Una sola, a sottoscrizione del «Manifesto per l'Italia», per poter partecipare. La consegna di una tessera elettorale di «sostenitore del centrosinistra» che dà diritto a votare, come strumento per evitare infiltrazioni di «Batman» vari. E il doppio turno, nel caso nessuno sfidante ottenesse il 50% dei consensi, per poi andare alla partita per Palazzo Chigi con una forte investitura popolare. Sabato l'Assemblea nazionale del Pd metterà ai voti le regole per le primarie da cui uscirà il candidato premier della coalizione dei progressisti. Per essere approvate, il parlamentino democratico dovrà essere in numero legale, dovranno cioè votare la metà più uno dei membri elettivi (sono in tutto poco meno di mille). E in queste ore dal Nazareno è partita non solo una selva di telefonate per garantire quante più presenze possibili, ma anche un'opera di convincimento nei confronti di quanti (soprattutto tra i «Democratici davvero» di Bindi e gli ex-ppi che fanno capo a Fioroni) sono tentati di far mancare il quorum per fermare sul nascere una sfida ai gazebo che ritengono più dannosa che utile.
Una parte delle norme da approvare riguarda soltanto il Pd: si voterà una misura transitoria che consentirà a Matteo Renzi di correre (in pratica una deroga allo Statuto che prevede sia soltanto il segretario a poter partecipare alla sfida per la premiership), più una norma per evitare il moltiplicarsi incontrollato di candidature (per scendere in campo bisognerà incassare 300 firme tra i membri dell'Assemblea o il 3% di sottoscrizioni tra gli iscritti al Pd, che sono poco più di 600 mila). Ma sabato, nella riunione convocata all'Hotel Ergife di Roma, si dovrà anche dare mandato a Bersani, Renzi ed eventuali altri candidati del Pd di andare a trattare con gli altri sfidanti in campo (verosimilmente Vendola e Tabacci) per andare alle primarie con norme condivise.
La proposta che verrà fatta dal fronte bersaniano prevede il doppio turno (e quindi si dovrebbe votare il 25 novembre con eventuale seconda chiama il 2 dicembre) per evitare il ripetersi di situazioni come quelle registrate alle primarie di Napoli o di Palermo, la possibilità di far votare sedicenni e stranieri (era così anche nelle precedenti consultazioni, come fa notare il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo rispondendo all'editoriale del Corriere della sera di ieri), un tetto alle spese della campagna (250 mila euro) e, per poter votare ai gazebo, la sottoscrizione di un manifesto «Per l'Italia bene comune» che sarà in pratica la carta valoriale con cui la coalizione dei progressisti andrà alle elezioni di primavera. Chi firmerà questo documento, che verrà poi pubblicato on-line insieme ai nomi di chi lo ha sottoscritto, riceverà una tessera elettorale di «sostenitore del centrosinistra» che darà diritto a votare alle primarie. Entrambe le pratiche si svolgeranno il giorno della consultazione ai gazebo.
Con questo viene definitivamente archiviata l'ipotesi di dar vita a un albo pubblico a cui registrarsi nei giorni precedenti le primarie, fermamente contrastata dal fronte pro Renzi, ma è tutt'altro che detto che all' Assemblea nazionale di sabato ci sia un via libera con ampia maggioranza. Roberto Reggi, che parteciperà all'appuntamento (il sindaco di Firenze il prossimo fine settimana si muoverà tra la Calabria e la Puglia), fa sapere che «non c'è motivo per cambiare le regole osservate fin qui». Doppio turno e diritto a votare per chi sottoscrive il manifesto e prende la tessera elettorale sono però norme che, stando a preliminari contatti, sono condivise anche da Sel e Api. Renzi dice di fidarsi di Bersani e del fatto che «il Pd saprà cogliere l'occasione per allargare i suoi confini». Bersani spiega che le norme «non sono contro Renzi ma contro Batman (Fiorito, ndr) e le sue 30 mila preferenze». A metà mese verranno coinvolti anche Vendola e Tabacci, ma intanto sabato ci sarà la prima conta.

Corriere 1.10.12
Bersani: le regole non sono anti Renzi
Primarie, il segretario respinge le critiche. Il sindaco: allargare i confini
di M. Gu.


ROMA — Pier Luigi Bersani non ha paura di «Gianburrasca», non teme che Matteo Renzi possa portargli via il partito o sedersi, al posto di Mario Monti, sulla poltrona di presidente del Consiglio. Dalla prima pagina del Corriere di ieri Ernesto Galli della Loggia si è detto stupito per «il tentativo di boicottare in tutti i modi» la candidatura del sindaco di Firenze, con un sistema di regole che il politologo giudica «fatte apposta» per ostacolarne la vittoria. Una interpretazione che il segretario, chiudendo a Lamezia Terme la conferenza nazionale del Pd per il Mezzogiorno, ha respinto con forza, sdegnato e offeso: «Non tollero che, se mettiamo le regole, diventino contro Renzi... Io piuttosto sono contro Batman e le sue trentamila preferenze».
E poiché si è stufato di sentirsi chiedere se davvero non si è pentito di aver aperto la competizione a uno sfidante interno, il leader dei democratici affida a una battuta il suo stato d'animo: «Non ci sto a passare per il buono e anche un po' coglione». Perché lui la sfida che lo attende non la vede a tinte fosche, bensì «positivamente», convinto com'è che «se non le avessimo fatte staremmo mangiando pane e primarie tutti i giorni sui giornali» e che, il lunedì dopo i gazebo, sarà lui a cantar vittoria: «Potremo dire che non ci ammazza più nessuno... C'è bisogno del Pd, basta autoflagellazione».
Bersani che sprona i suoi alla riscossa. Bersani che promette di «far girare la ruota» al congresso del 2013, lasciando finalmente spazio ai giovani. Non è di Gianburrasca insomma, che il segretario ha paura. E non è dunque per fermarne la corsa di Renzi verso Palazzo Chigi che gli «sherpa» del leader stanno modificando le regole delle primarie 2005, quando Romano Prodi fu incoronato leader dell'Unione. «Un minimo di regole — chiede Bersani, confermando l'idea di un albo degli elettori —. Io ti cedo sovranità, tu dimmi chi sei». L'idea del registro dei progressisti non piace però a Renzi, il quale ieri è approdato in camper a Grosseto e ha riempito le mille sedie del Teatro Moderno: «Io mi fido di Bersani e del fatto che il Pd sappia cogliere l'occasione delle primarie per allargare i propri confini». Un modo diplomatico per dire no all'albo e a qualunque altra norma che rischi di restringere la platea degli elettori. Ma poiché il segretario vuol togliere al sindaco ogni argomento che possa rivelarsi un boomerang, al tavolo delle regole Maurizio Migliavacca spinge perché gli elettori si registrino il giorno stesso del voto e non una settimana prima.
Resta la grande paura di «Batman». Il timore cioè che dirigenti del centrodestra provino a condizionare l'esito delle primarie. «Io sono napoletano — racconta Marco Di Lello, al tavolo delle regole per i socialisti —. E vorrei evitare che si ripeta a livello nazionale quel che accadde alle primarie per il sindaco della mia città, quando ci furono fenomeni di infiltrazione malavitosa». Tanto che Bersani vorrebbe far votare al secondo turno solo gli elettori che si sono iscritti a tempo debito e hanno partecipato alla prima fase della competizione. «Non vedo perché dovrei consentire al Pdl di scegliere il mio candidato alla guida del Paese», spiega ancora Di Lello. Per partecipare si verserà un obolo, probabilmente tre euro: una cifra pensata per evitare le file di cinesi «prezzolati», come qualcuno denunciò a suo tempo. Sulla quantità di firme per potersi candidare, Nichi Vendola chiede di abbassare la soglia e l'asticella dovrebbe fermarsi a ventimila, raccolte in almeno dieci regioni.

Corriere 1.10.12
La religione nelle scuole e le responsabilità dello Stato
risponde Sergio Romano


Il ministro Profumo fa una proposta davvero singolare. Sostiene che, poiché ci sono molti immigrati, bisogna modificare l'ora di religione. È esattamente vero il contrario. La società di oggi vive di diversità e si arricchisce con esse. Nel momento in cui un popolo rinuncia alle sue tradizioni viene meno alla sua identità.
Delio Lomaglio, Napoli

La proposta del ministro Profumo contro l'ora di religione cattolica, perché ormai la scuola è multietnica, è certo tra le migliori che siano venute fuori dal governo dei tecnici. Che l'Italia debba uscire dall'asfissiante tutela che la Chiesa cattolica esercita ancora in fatto di educazione religiosa, è il pio desiderio dei laici veri, che non hanno mai gradito che l'insegnamento della religione fosse stato appaltato alla gerarchia ecclesiastica cattolica. Nonostante la Costituzione, la revisione del Concordato del 1929 firmata da Craxi nel 1984 e le sentenze della Corte di Strasburgo che mettevano in discussione la liceità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, l'insegnamento della religione (cattolica) resta ancora appannaggio dei vescovi che nominano i loro insegnanti, pagati però coi soldi dello Stato. È una furbata dalla quale si dovrebbe finalmente uscire, sicché lo Stato dovrebbe esso provvedere all'istituzione di una disciplina come «storia delle religioni», insegnata da docenti nominati dallo Stato stesso e non dai vertici di qualsiasi gerarchia religiosa.
Paolo Fai

Cari lettori,
L' insegnamento della religione cattolica è previsto dal secondo comma dell'art. 9 del nuovo Concordato, firmato il 18 febbraio 1984, ed è regolato da un protocollo addizionale in cui si legge che «nelle scuole materne ed elementari detto insegnamento può essere impartito dall'insegnante di classe, riconosciuto idoneo dall'autorità ecclesiastica, che sia disposto a svolgerlo». Ma il ministro della Pubblica istruzione ha fatto bene a constatare che la società italiana è alquanto cambiata e che quelle norme andrebbero riviste. I musulmani che vivono in Italia sono circa un milione e mezzo, gli ortodossi (romeni, ucraini, bielorussi) superano il milione; e lo Stato nel frattempo ha firmato intese concordatarie con i rappresentanti di tredici culti fra cui i valdesi, gli avventisti del Settimo giorno, gli ebrei, i luterani, gli ortodossi, i buddisti e gli induisti. È giusto che in un Paese ormai pluriconfessionale la sola religione insegnata nelle scuole sia quella cattolica e il suo insegnamento sia monopolio delle diocesi vescovili della penisola? So che la scelta dell'ora di religione è facoltativa, ma l'autorità della Chiesa, insieme a quella combinazione di pigrizia e conformismo che caratterizza la religiosità italiana, la rendono di fatto semi obbligatoria. Credo che alla scuola italiana, in queste circostanze, convenga essere uno spazio neutrale in cui il problema religioso viene affrontato, tutt'al più, in una prospettiva storica e non da un docente nominato dal vescovo.
Ancora una osservazione. Il vero obbligo dello Stato non è quello di riservare alla Chiesa cattolica un posto privilegiato nel sistema educativo della Repubblica. La sua maggiore responsabilità è quella di garantire alle coscienze di esprimersi liberamente, ai fedeli di praticare il culto, a tutte le Chiese di diffondere i loro principi e le loro verità. La Chiesa cattolica, in particolare, dispone in Italia della sua più capillare organizzazione nel mondo: più di trecento vescovadi, migliaia di parrocchie e oratori, numerose scuole, un gran numero di associazioni, giornali, riviste, case editrici e poco meno di un miliardo di euro assicurato dalla tassa ecclesiastica dell'8 per mille. In materia d'educazione può certamente fare da sé.

La Stampa 1.10.12
“Lazio subito alle urne Il voto entro 90 giorni”
Il ministro Cancellieri scioglie i dubbi: no all’election day
di Grazia Longo


No all’election day, meglio elezioni entro Natale. È il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri ad annunciare che «entro 90 giorni» i cittadini laziali dovranno tornare a votare.

«Prima si va alle urne e meglio è» afferma il numero uno del Viminale, tanto più che le regioni non possono essere commissariate. Si allontana così la possibilità di un accorpamento delle regionali alle politiche e le comunali nella prossima primavera. E il Lazio si candida a diventare il laboratorio politico nazionale, il banco di prova per future alleanze in previsione o meno del Monti bis. E mentre si scalda la macchina organizzativa delle elezioni regionali, si scatena anche il totocandidati. In un’atmosfera sicuramente non facile all’indomani dello scandalo nel Pdl regionale - con l’accusa di peculato all’ex capogruppo Franco Fiorito e i suoi due capi segreteria che potrebbe sfociare nell’associazione a delinquere - che ha travolto la giunta Polverini.
Si intravedono equilibri precari sia nel centro-destra, sia nel centro-sinistra. Unico punto fermo, l’intenzione in entrambi gli schieramenti di non candidare i consiglieri regionali uscenti. Nel Pd il candidato naturale sembra essere il segretario regionale Enrico Gasparra, che pare tuttavia orientato a preferire un ruolo da «regista». In pole position, almeno per ora, c’è David Sassoli, capogruppo del Pd a Strasburgo e giornalista Rai. Anche i veltroniani stanno valutando di puntare su un proprio uomo di riferimento: l’ex assessore capitolino alla Sicurezza e deputato dem, Jean Leonard Touadi, già ribattezzato «l’Obama della Pisana». Spiccano però anche i nomi di Paolo Gentiloni, dell’ex ministro Giovanna Melandri e dell’eurodeputata Silvia Costa (sostenuta dai parlamentari vicini a Dario Franceschini).
Nel Pdl - dove il segretario nazionale Angelino Alfano ha rimarcato la distanza dall’inquisito Fiorito escludendo la possibilità di candidare i consiglieri uscenti - la situazione è più caotica. Oggi potrebbe addirittura arrivare un commisario per il partito regionale, da anni coordinato da quel Vincenzo Piso, rimasto in sella anche dopo il caso del «panino di Milioni», da cui discende tutta l’instabilità della Regione. C’è anche aria di guerra: da una parte l’asse Tajani-Rampelli, dall’altra quello AlemannoSammarco. Il mini-rimpasto finale della governatrice (che ha defenestrato tajanisti e rampelliani) li ha spezzati. Difficile
I partiti e il toto-candidati trovare un nome di corrente su cui convergere.
I rumors - al di là del sospetto di perdere la competizione elettorale - danno per meno probabili sia la candidatura dell’influente Andrea Augello, sia quella di Giorgia Meloni, rampelliana doc. Meglio, semmai, puntare su un volto come Luisa Todini, imprenditrice nel cda Rai (che nel 2010 fu scavalcata dalla prescelta Polverini) o anche sull’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, Tra gli altri nomi, Beatrice Lorenzin deputata Pdl e l’ex governatore Francesco Storace, segretario de La Destra.
Per quanto riguarda la scadenza elettorale, invece, ecco lo scenario. I tre mesi scadono il 28 dicembre. Ma in base alla legge, la dimissionaria Renata Polverini deve far trascorrere necessariamente almeno 45 giorni tra il decreto e la data del voto. Il tempo, insomma, stringe. Anche perché, per via delle festività, gli ultimi giorni dei tre mesi sono poco praticabili. Se per ipotesi la Polverini (che non ha nascosto di preferire l’accorpamento del ricorso alle urne in un unico giorno) emanasse il decreto oggi, la prima data utile sarebbe il 16 novembre, che però è un venerdì. La domenica immediatamente successiva è il 18 novembre.
Le domeniche successive sono il 25 novembre e il 2 dicembre. Domenica 9 dicembre è in pieno ponte dell’Immacolata, e sembra poco indicata. E infine c’è domenica 16, perché la successiva è il 23 dicembre. Oltre, si supera il limite di 90 giorni voluto dal ministro Cancellieri.

La Stampa 1.10.12
Sinistra in piazza contro Hollande
In 80 mila a Parigi dopo i maxi-tagli: non ti abbiamo votato per questo
di Paolo Levi


Era abituata a manifestare contro la destra di Nicolas Sarkozy. Ma ad appena cinque mesi dalla grande festa della Bastiglia - che ha visto tutta la sinistra riunita per la vittoria all’Eliseo -, la gauche francese torna in piazza per protestare questa volta contro uno di famiglia: l’attuale presidente François Hollande. Nel mirino della manifestazione - cui hanno partecipato 50 mila persone (80 mila per gli organizzatori), prova dello sciopero generale proclamato dai sindacati per l’8 ottobre -, l’austerità e il fiscal compact, che il Parlamento comincerà a discutere domani. «Non ti abbiamo eletto per questo», hanno scandito i manifestanti, delusi dal presidente socialista. Mentre un grande striscione sintetizzava in modo lapidario il motivo del dissenso: «Abbiamo votato per il cambiamento, non per la continuità».
A promuovere il corteo parigino - che si è mosso da Place de la Nation e Place d’Italie, in una splendida giornata di sole, che forse ha contribuito all’elevata partecipazione - è stato il Front de gauche, l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che sembra essersi risollevata dopo la batosta elettorale e il trionfo di un partito socialista che non ha esitato a lasciarli fuori dalla porta. «Questa manifestazione - ha avvertito Mélenchon - rappresenta l’arrivo del movimento del popolo francese al fianco degli altri popoli che protestano contro l’austerità. È una protesta di massa, la nostra scommessa è vinta! ». «Ora il partito socialista è obbligato ad ascoltarci», gli ha fatto eco uno dei suoi fedelissimi, Eric Coquerel.
All’appello di Mélenchon hanno risposto una sessantina di organizzazioni sindacali e politiche, che si sono riunite al grido di «No al trattato Merkozy» e «No al Trattato dell’austerità». Tra i partecipanti, moltissimi non nascondono di aver votato Hollande al secondo turno presidenziale. «L’ho votato con convinzione - dice Corentin, un giovane manifestante -, ma ora siamo delusi. Hollande ha subìto le pressioni della Germania. Noi siamo qui per mettergli pressione dall’altra parte». «Vogliamo un’Europa sociale e non un’Europa delle finanze. Hollande aveva promesso di modificare il patto di bilancio, che invece verrà votato senza alcun cambiamento. La piccola appendice sulla crescita che è stata aggiunta non basta - osserva Marie-Thérèse, che lavora a France Telecom ed è iscritta al sindacato CGT -. Ormai è sicuro, il trattato verrà ratificato... ma con i voti della destra. C’è poco da rallegrarsi». Mélenchon ha ripetuto che la manifestazione non era contro Hollande, ma contro l’austerità. Ma il faccione del presidente, ormai a picco nei sondaggi, campeggiava su tutti i manifesti appesi lungo il percorso con la scritta: «Ricercato per fare i conti con la democrazia».

La Stampa 1.10.12
Netanyahu deve parlare agli iraniani
di Abraham B. Yeoshua


Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tiene un discorso davanti all’assemblea delle Nazioni Unite si rivolge solitamente a tre o quattro diversi gruppi di ascoltatori: innanzi tutto ai cittadini e al governo degli Stati Uniti, in secondo luogo agli ebrei americani che prestano grande attenzione alle sue parole, in terzo luogo ai rappresentanti dei paesi più o meno amici di Israele in Europa, in Sud America e in Asia e, infine, alla popolazione del suo Paese (benché abbia anche altre occasioni di rivolgersi a noi israeliani). A giudicare dal suo recente discorso all’Onu risulta comunque chiaro che Netanyahu non aveva nessuna intenzione di includere fra i suoi ascoltatori anche il popolo iraniano, l’opinione pubblica di quel Paese o i suoi alleati, nonostante sapesse che, in un mondo di rapide e intense comunicazioni come il nostro, il suo discorso avrebbe potuto facilmente arrivare ai ceti colti dell’Iran e dei Paesi arabi.
Sembra infatti che Netanyahu e i suoi consiglieri considerino perduta in partenza la battaglia per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica iraniana, e questo contrariamente alla tradizione politica sionista che, fin dai suoi albori, si è rivolta ai cittadini arabi e ha continuato a farlo anche negli anni in cui la stampa scritta ed elettronica veniva bloccata dai regimi totalitari dei loro Paesi e del blocco sovietico.
I leader e i portavoce israeliani si indirizzavano alle popolazioni arabe per spiegar loro nel miglior modo possibile il retroterra storico del popolo ebraico, le sue battaglie, la sua presenza in passato in questa regione e molto altro ancora. E nonostante il perdurare di un muro di ostilità sembra che qualcosa sia filtrato nelle loro coscienze se si è giunti non solo agli accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania ma anche a quelli di Oslo e di Ginevra con i palestinesi.
Io non sono un esperto dei trucchi propagandistici della leadership iraniana ma ho l’impressione che ultimamente sia passata dall’ignobile negazione della Shoah al totale disconoscimento del passato storico degli ebrei in Medio Oriente. Il nostro primo ministro, però, forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si è dato la pena di citare concreti fatti storici. Ancora una volta ha optato per i cliché del Regno di Davide, delle promesse divine fatte nella Bibbia al popolo ebraico e del legame spirituale di quest’ultimo con la terra di Israele.
Non gli è venuto in mente, per esempio, di parlare dell’editto di Ciro, re di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadinejad e suscitato forse un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla profonda coscienza storica). Non gli è venuto nemmeno in mente di parlare della presenza millenaria di comunità ebraiche nelle nazioni del Medio Oriente tra cui, naturalmente, l’Iran, e di lodare persino l’atteggiamento di relativa tolleranza e rispetto dimostrato da questo Paese verso gli ebrei suoi residenti. Non gli è venuto in mente di parlare del riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Iran e della Turchia, due potenze musulmane, dopo la sua fondazione e del mantenimento dei rapporti diplomatici con esso per più di trent’anni. Non gli è venuto in mente di parlare degli israeliani di origine iraniana che hanno occupato, e ancora occupano, posizioni di primo piano nell’amministrazione civile e militare israeliana. E ai suoi consiglieri non è venuto in mente di suggerirgli di parlare della delegazione israeliana guidata da Lova Eliav rimasta per due anni nella regione iraniana di Qazvin negli Anni 60 per prestare soccorso alle vittime di un terribile terremoto.
Informazioni di questo tipo avrebbero potuto rappresentare una novità non solo per decine di rappresentanti di nazioni africane, sudamericane e asiatiche ma anche per gli stessi iraniani e per i palestinesi rimasti ad ascoltare le parole di Netanyahu. Informazioni di questo tipo avrebbero forse aiutato a confutare le affermazioni iraniane sulla nostra estraneità alla regione, più di riferimenti a promesse divine e al Regno di Davide.
E, in generale, perché assumere sempre il ruolo della vittima costretta a seminare minacce e avvertimenti? E perché rivolgersi soprattutto agli americani, come se Israele fosse davvero una loro succursale o, secondo le parole di uno dei ministri del Likud, una portaerei americana in Medio Oriente?
L’eccessiva «americanizzazione» del primo ministro israeliano è ormai più dannosa che utile.

Repubblica 1.10.12
L’incubo dell’Apocalisse. La bomba che fa paura
Lo show all’Onu di Netanyahu contro il nucleare in Iran, l’ingresso nel club dell’Atomica di paesi sempre più instabili
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Credevamo di averla esorcizzata o almeno rinchiusa nella cripta degli incubi di una generazione, ma l’arma della fine del mondo è sempre qui con noi. Quella Bomba che torna ad allungare la propria ombra sul nostro tempo, proiettata oggi dall’Iran, non ci lascerà mai e non potrà essere mai “disinventata”.
La sera del 6 agosto 1945, quando esordì nella storia polverizzando Hiroshima, il presidente americano Harry Truman «ringraziò Dio» per averla «data a noi invece che ai nostri nemici» e pregò perché quello stesso Dio «ci guidasse a usarla per i Suoi fini». È una tragica ironia se oggi coloro che la vorrebbero, e forse la stanno producendo, invochino di nuovo il nome di un Dio che somiglia a quella divinità che uno sconvolto Robert Oppenheimer, guardandola esplodere, definì «il distruttore di mondi».
Dalla “Jornada del Muerto”, il viaggio del morto come si chiamava il deserto del New Mexico nel quale esplose il prototipo, alla cruda illustrazione dei possibili progressi iraniani fatta da Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite giovedì scorso, la “Bomba” è il filo rosso, il fiume di lava sotterraneo che da ormai quasi settant’anni lega la nostra storia e corre sotto la crosta delle tante, piccole guerre, senza eruttare. L’umanità, dopo averne visti gli effetti su due città giapponesi, aveva capito, come tutti i “War Games”, le simulazioni, avevano dimostrato, che nessuno può vincere una guerra atomica. Ma la tentazione dell’onnipotenza che il possesso dell’atomica genera è stato più forte della ragione.
Quell’arma che anche Albert Einstein implorò Franklin Delano Roosevelt di costruire, nel 1939, prima che ci riuscisse Hitler, si è diffusa come una pestilenza che nessun Trattato anti-proliferazione, nessun accordo fra i primi detentori, Usa e Urss, nessuna agenzia internazionale sono mai riusciti a circoscrivere. Se ora i rottami dell’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno ridotto la demenziale quantità di testate dal picco di 60mila raggiunto alla fine della Guerra Fredda a un totale — pur sempre insensato — di 10mila totali, il “Club Atomico” ha continuato ad accogliere nuovi e sempre più instabili membri.
La “Bomba” è da tempo negli arsenali di Cina, Francia e Regno Unito, le sole tre nazioni, oltre a Russia e Usa, autorizzate a possederne. Ma ne hanno a dozzine l’India e il Pakistan, con i vettori balistici necessari per lanciarle, Israele, molto probabilmente la Corea del Nord e, se il premier israeliano ha ragione, fra meno di un anno anche l’Iran. Tentarono di produrla, o di acquisirla, la Siria del vecchio Assad, la Libia di Gheddafi e l’Iraq di Saddam Hussein, prima del 1991.
Di fronte al gonfiarsi del fiume di lava radioattiva sotterranea, e ai rivoli che affiorano dalla crepe della crosta, aperte sempre e naturalmente per “legittima difesa” secondo i proprietari, oggi fa quasi tenerezza rivedere le immagini, e rivivere i ricordi, dei decenni nei quali noi tutti “figli dell’Atomica” siamo cresciuti. I filmetti di propaganda internazionale e interna prodotti dal Pentagono e dall’Agenzia per l’energia nucleare americana riflettono prima il sussiego della potenza che si credeva monopolista della Bomba nel nome di Dio e poi raccontano il panico, di fronte alla scoperta che appena quattro anni dopo Hiroshima e Nagasaki, esplose nel 1949 “Pervaya Molniya”, il “Primo Fulmine”, la copia di “Fat Boy”, l’ordigno che annientò Nagasaki. Nei cartoni animati proiettati nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche americani, bambini e adulti erano invitati dalla tartaruga Bert a fare come lei, a cercare rifugio, in mancanza di guscio, sotto i letti, i banchi, le scrivanie. “Duck and Cover”, abbassati e copriti, divenne la colonna sonora per milioni di americani cresciuti nella certezza che i “rossi” volessero annientarsi. Duecentoventi modelli diversi di rifugi anti-atomici, da semplice cassoni individuali foderati di piombo a mini- bunker di cemento armato che padri di famiglia con la vanga e madri alla betoniera costruivano in giardino, offrivano l’effimera speranza di sopravvivere almeno per qualche giorno all’attacco. Senza pensare a che cosa avrebbero trovato quando sarebbero usciti. I più fortunati, fu detto all’epoca, sono quelli che moriranno subito, in un attacco nucleare.
La psicosi da annientamento atomico fu il prezzo che l’Europa occidentale, e l’America, pagarono come contrappasso alla propria ritrovata prosperità. Attori nei panni di medici spiegavano che l’ansia da bomba era “atomite”, una forma di paranoia che ingigantiva gli effetti della radiazioni. Ammiragli spiegavano agli abitanti dell’atollo di Bikini, dove fu testata la ancora più micidiale, prima bomba all’idrogeno, che tutto era fatto per il loro bene. Nel documentario del 1982, Atomic Cafè si vede la sequenza commovente degli indigeni di Bikini che se ne vanno, deportati su una nave della Marina americana cantando in coro “You are my sunshine”, “Tu sei il mio sole”. Certamente ignorando che quella bomba avrebbe raggiunto e superato la luminosità e il calore proprio del Sole. Fu dopo l’incontro fra Reagan e Gorbaciov, prima a Ginevra nel 1985 quando i due leader si appartarono soltanto con gli interpreti in una casetta nel bosco e soprattutto a Reykjavik, in Islanda, dove Reagan sbigottì il russo, e i propri generali, proponendo l’Opzione Zero, la distruzione dell’intero arsenale, che la lava sarebbe tornata a scorrere sotto la superficie. Finalmente si poteva esalare, dopo avere trattenuto il fiato per quarant’anni, quando tre volte il mondo era arrivato a pochi minuti dallo scenario Stranamore, dallo scontro nucleare.
Avevamo sfiorato il volto di Armageddon nella Corea dove lo stesso Truman aveva ipotizzato l’uso di armi atomiche per fermare i cinesi, prima di ripensarci e di licenziare in tronco il generalissimo MacArthur, che insisteva. Lo vedemmo sogghignare nelle acque del Caribe nel 1963, dove l’invasione americana di Cuba era già pronta, prima che le navi di Krusciov invertissero la rotta, e gli americani ignoravano che reparti sovietici sull’isola già possedevano piccole testate tattiche antisbarco. Ai pezzi grossi della Casa Bianca erano già stati distribuiti i “pass”, le chiavi magnetiche, per entrare nella caverne predisposte sui monti Catoctin del Maryland. E pochi seppero che nel 1980, nelle ore della ribellione polacca che avrebbe demolito l’impero sovietico, una manovra di routine delle forze Nato fu fraintesa dai generali russi come la preparazione di un assalto in forze. La risposta nucleare preventiva era già pronta, prima che una disperata spia russa nel quartiere generale proprio della Nato a Evere, in Belgio, riuscisse a convincere Mosca che erano soltanto manovre.
Per quasi vent’anni, dalla morte di Breznev nel 1982 al 2001, l’ombra di Hiroshima era sembrata rimpicciolirsi, il fiume lavico raffreddarsi, quando anche la Cina della Rivoluzione Culturale si era convertita al «fate i soldi, non la guerra». Ma in un giorno di settembre a Manhattan, l’isola che dette il nome al progetto atomico, in un’altra mattinata chiara come quella di agosto sopra Hiroshima, i piazzisti della ennesima guerra santa hanno riaperto il timore che qualcuno, incurante di vite e di morti, possa riprendere in mano quel filo rosso. Le lancette di quell’orologio della fine del mondo che dal 1947 i fisici dell’Università di Chicago, dove Enrico Fermi lavorò, regolano, si sono rimesse in movimento e la mezzanotte non era mai stata così vicina. Il dottor Stranamore è emigrato, ma continua a lavorare.

Repubblica 1.10.12
Quella mostruosità oltre l’immaginazione dell’agosto 1945
di Piergiorgio Odifreddi


Nel corso dei secoli, i detrattori della scienza hanno prefigurato gli scenari più catastrofici sui suoi possibili sviluppi.
L’apprendista stregone di Goethe, il Frankenstein di Mary Shelley, Il Dottor Jekill e Mister Hyde di Stephenson, Il dottor Moreau di Wells, mettevano tutti in guardia sul pericolo che le scoperte scientifiche potessero scappare di mano agli scienziati e provocare guai inimmaginabili. Talmente inimmaginabili, che l’immaginazione dei letterati non riuscì a immaginare qualcosa anche solo lontanamente paragonabile alla mostruosità delle due bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti sul Giappone nell’agosto 1945. Si trattò di un crimine contro l’umanità: 300mila esseri umani svanirono in due funghi atomici in un paio di secondi.
Per una macabra prefigurazione del contrappasso di mezzo secolo dopo, l’impresa atomica di Los Alamos si chiamava Progetto Manhattan. Il suo direttore, il fisico Oppenheimer, citò la Bhagavad Gita per descrivere lo «splendore di mille soli» che si era levato nel cielo, e dichiarò che i fisici avevano «conosciuto il peccato». Il matematico Von Neumann, a cui si ispirò Kubrick per la figura del Dottor Stranamore, commentò cinicamente che «a volte qualcuno confessa un peccato per prendersene il merito ».
A costruire gli ordigni, comunque, gli scienziati alleati c’erano andati quasi tutti, con la scusa del pericolo che Hitler potesse arrivare prima di loro alla bomba. Le uniche eccezioni degne di note erano state Einstein, Wiener e il nostro Rasetti: uno dei ragazzi di via Panisperna, che per non sporcarsi le mani abbandonò addirittura la fisica, e passò alla biologia.
E praticamente tutti quelli che c’erano andati, ci rimasero: anche dopo la fine del 1944, quando i servizi segreti erano ormai certi che i tedeschi alla bomba non ci stavano lavorando. L’unico che “fece il gran rifiuto” fu Rotblatt: all’epoca guardato con gran sospetto e trattato da spia, ma nel 1995 vincitore del premio Nobel per la pace per non “aver tradito la propria professione”, alla stregua del Galileo di Brecht. Quanto agli scienziati nazisti, da Heisenberg a Hahn, nell’agosto del 1945 erano prigionieri degli inglesi, in una villa vicino a Cambridge piena di microfoni. E le registrazioni documentano il loro sgomento alla notizia che gli scienziati alleati avessero osato fare ciò che loro avevano rifiutato.

l’Unità 1.10.12
Antonio Gramsci e le sue tre donne
Le sorelle Schuct con cui si lega a staffetta, centrali nel libro di Vacca
Le novità storiografiche esaltano i ruoli di Eugenia, Tatiana e Giulia. Sono tre protagoniste indispensabili per comprendere idee, dilemmi, misteri della sua sopravvivenza in carcere
Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne e questo libro finalmente ne da conto
di Cristina Comencini


LA VITA E I PENSIERI DI ANTONIO GRAMSCI, DAGLI ANNI IMMEDIATAMENTE PRECEDENTI L’ARRESTO E PER I DIECI DELLA SUA DETENZIONE, FURONO INTRECCIATI INTIMAMENTE E POLITICAMENTE ALL’ESISTENZA DI TRE DONNE RUSSE. Non figure secondarie a servizio di un uomo grande, chiuso in cella e separato dal suo destino politico, ma tre caratteri femminili fondamentali, tre sorelle, che a staffetta corrispondono, si legano, interagiscono, amano e odiano anche l’italiano geniale che la comune passione politica porta nella loro famiglia. Il libro di Giuseppe Vacca (Vita e pensieri di Antonio Gramsci. 1926-1937) vuole tenerle al centro della vicenda umana e politica di Gramsci. Eugenia, Tatiana e Giulia Schuct diventano nel libro di Vacca tre protagoniste indispensabili alla comprensione delle idee, dei dilemmi, dei misteri, della sopravvivenza intellettuale, fisica e affettiva di Gramsci.
Nella famiglia delle tre sorelle Schuct circolano idee rivoluzionarie dalla fine dell’Ottocento. Sia il padre che la madre si sono appassionati agli ideali rivoluzionari, sono amici del fratello maggiore di Lenin e poi di Lenin stesso e della Krupskaja. Le figlie di Apollon Schuct sono convinte sostenitrici della rivoluzione: Eugenia partecipa attivamente alla guerra civile, Giulia lavora negli organi di sicurezza interna. Rivoluzione e musica sono le passioni delle sorelle, e anche l’Italia perché negli spostamenti continui della famiglia, vivono e studiano arte e musica a Roma. Per nessuna delle tre, come per Gramsci, i sentimenti privati e famigliari saranno divisi dall’impegno politico che sta cambiando il mondo. Come scrive anche Gramsci di sé: «Io non sono molto sentimentale e non sono le questioni sentimentali che mi tormentano. Anche le questioni sentimentali mi si presentano, le vivo, in combinazione con altri elementi (ideologici, filosofici, politici) così che non saprei dire fin dove arriva il sentimento e dove incomincia invece uno degli altri elementi, non saprei dire forse neppure di quale di tutti questi elementi precisamente si tratti tanto essi sono unificati in un tutto inscindibile e una vita unica». La storia personale e la Storia grande è una vita unica e questo libro ci restituisce questo intreccio, attraverso le lettere, i codici, i silenzi tra i protagonisti che svelano, come in un romanzo, più delle parole scambiate.
SI PARTE DALLA CLINICA RUSSA
Il libro parte non a caso dall’incontro con Eugenia nel 1922, nella clinica russa dove Gramsci si era ricoverato dopo i lavori del Komintern. La sorella più forte, più preparata politicamente, lo interessa molto e lei probabilmente si innamora di lui. Così quando poco tempo dopo appare sulla scena la sorella minore, Giulia, la più bella, la violinista, si consuma tra i tre un tradimento che alimenterà molte incomprensioni, drammi e sofferenze. In una notte passata insieme nella clinica, di nascosto alla sorella maggiore, Antonio e Giulia parlano di gufi sulla veranda e di Dante: «... poi parlammo di tante cose generali, ma specialmente di un verso di Dante che dice “Amor che a nullo amato, amar perdona”, poi dovevamo dormire e c’era un letto solo e allora io ti feci piangere, cinicamente. Ti feci piangere, proprio apposta, perché ero proprio cattivo; ti volevo molto bene e ti avrei voluto baciare gli occhi, ma non credevo che tu potessi volermi bene e allora ti volevo far del male, perché ero molto cattivo».
Che meraviglia e che coraggio citare una lettera così, far parlare con queste parole il nostro grande pensatore politico! Le idee non sono staccate dai corpi, questa è una intuizione politica delle donne, e questo libro finalmente ne da conto. Giulia e Antonio si desiderano fisicamente, tradendo la sorella maggiore, come Paolo e Francesca tradiscono il fratello di lui. Il loro amore ha una forte componente erotica alla quale nessuno dei due è preparato. Lei piange, lui la fa piangere, lui ha paura di non essere amato ma la vuole. Nel carcere, tutti questi sentimenti torneranno ad accompagnare l’isolamento politico e umano di Gramsci. Amore e rivoluzione, come il titolo del libro di Adele Cambria, si alterneranno nell’anno e mezzo in cui gli amanti riusciranno a strappare alla politica delle ore per loro stessi, per procreare il loro primo bambino in Russia, il loro secondo in Italia. Gramsci vuole assolutamente avere figli, come fosse una traccia concreta, corporea di un amore che non può avere futuro. L’arresto di Gramsci spezza la vita dei due, fa ammalare Giulia e chiude l’attività politica sul campo di un capo che era nato per questo, che non ha mai disgiunto il pensiero dall’azione. Amputati, lui, lei, lontani. Lei in Unione Sovietica dove i due schieramenti lottano per il potere dopo la morte di Lenin, e nelle mani della sorella tradita, ostile a Gramsci e molto più forte di lei. Lui chiuso in carcere subito dopo aver mandato una lettera «inopportuna» al Komintern, come la giudica Togliatti, in cui sostiene la maggioranza capeggiata da Stalin ma lo fa criticamente.
I termini della partita tragica ma anche molto prolifica che si giocherà nei dieci anni del carcere sono già presenti al momento dell’arresto: ricerca di nuove strade da parte di Gramsci per costruire consenso e vittoria del socialismo, disaccordo serpeggiante con Togliatti e con la sua adesione obbligata alle posizione del Komintern, sospetti di tradimento da parte del suo partito, di boicottaggio della sua liberazione, che investiranno, nel punto più alto della tragedia, anche la moglie lontana. Nel carcere, lontano dal mondo, Gramsci regalerà alle generazioni future categorie nuove di pensiero politico e culturale, capirà meglio di chi sta fuori i momenti che si preparano, dissentirà su questo con i compagni dentro e fuori dal carcere, non avrà per ragionarci che se stesso.
Ma tra lui e Giulia, esuli che incarnano la segregazione stessa delle idee che avevano sconvolto il mondo, appare la terza donna, la sorella rimasta in Italia, meno impegnata politicamente e che, come succede nella Storia, sarà quella a cui noi tutti dobbiamo la sopravvivenza di Gramsci e del suo pensiero. Tania è il messaggero tra Gramsci, Sraffa e il partito, il messaggero d’amore e di disamore tra lui e Giulia. Di nuovo i termini privati si intrecceranno in questa fase al lavoro politico fuori e dentro il carcere, nell’Italia fascista, in Unione Sovietica, nella Francia degli esuli. Tra i silenzi di Giulia che lui prenderà per abbandono, delle lettere non pervenute, delle risposte non conosciute, nella lontananza dei figli, nella costruzione di codici per sfuggire alla censura, quella fascista e quella sovietica, nei tentativi di liberazione falliti, si svolge la seconda parte del libro, fino alla morte.
Tania si attacca a Gramsci non solo per fedeltà alla causa, e neanche solo perché è il compagno della sorella lontana e il padre dei suoi nipoti, si lega a lui seguendo un destino femminile di amore e protezione per un uomo fuori dal comune, difficile, solo, diffidente, brusco che cerca disperatamente di continuare a pensare e a fare politica. «Andavo ogni settimana a trovarlo, eppure il tempo mi pareva sempre interminabile tra una mia visita e l’altra, poi egli riceveva da me due volte al giorno il soccorso, col mio scritto, metteva la sua firma e un saluto sulla distinta, era come una comunione tra lui e i suoi cari».
NELL’AMBASCIATA SOVIETICA
Tania lavora all’ambasciata sovietica, questo le garantisce l’extraterritorialità e una possibilità di comunicazione rapida con i famigliari ma anche con il partito russo. Anche qui le missive private, i sentimenti di dolore per la lontananza dei figli e di Giulia, sono annodati alle nuove elaborazioni politiche dal carcere, alle analisi che Gramsci fa della situazione politica italiana e internazionale. Tania copia le lettere di Sraffa frutto dei colloqui con Togliatti e il partito, inoltra relazioni sullo stato di Gramsci, sulle sue condizioni di salute, sulle sue esigenze, trasmette le lettere di Giulia. Qualche volta decide di non inoltrare lettere di Gramsci a Giulia e viceversa, quando la lontananza, i sospetti di lui e il clima di paura in cui vive Giulia in Unione Sovietica, rendono quelle lettere particolarmente indecifrabili per l’uno o per l’altra. Gramsci si irrita con Tatiana di alcuni toni delle sue lettere che potrebbero lasciare pensare a Mussolini che lui sia pronto a chiedere la grazia. Tatiana è testimone del crescere dei sospetti del prigioniero, che si sente abbandonato e tradito da Togliatti e dal partito, soprattutto dopo la lettera di Grieco che gli sembra affermare la volontà dei suoi compagni di tenerlo in carcere. Gramsci non può concepire la verità: è soprattutto l’Unione Sovietica, l’unica che avrebbe forse la possibilità di liberarlo, a non intraprendere nessun passo serio e vincente, per le sue posizioni politiche eterodosse, in contrasto con la linea del Komintern. Ma per Gramsci al contrario l’Unione Sovietica resta la meta da raggiungere una volta liberato, per lui è ancora la patria del comunismo e il Paese dove vivono Giulia e i due figli.
La tragedia politica si rispecchia fino alla fine nella tragedia personale. Così scrive Tatiana a Giulia: «Tu vivi la vita di un grande paese, che sta costruendo il futuro di tutto il mondo, tu sarai per lui una risorsa unica, ma non pensare che questa sua convinzione si basi sul fatto che si aspetti da te delle relazioni scientifiche, no, non è questo, brama solo di sentire il pulsare della vita dello Stato bolscevico, durante semplici e infinite conversazioni con te. Vive di questo». Tatiana raccoglie fino all’ultimo respiro, nella clinica romana dove Gramsci sta morendo, liberato infine ma mai libero, gli assilli del prigioniero: le accuse ai compagni, il lascito dei Quaderni che Antonio vuole nelle mani fidate delle donne della sua vita. Le tre sorelle, ricongiunte in Unione Sovietica, tenteranno invano, scrivendo direttamente a Stalin, di toglierli dalle mani del nuovo capo del Partito italiano a cui saranno invece affidate proprio da Stalin stesso. Nelle parole finali del suo libro, Vacca nomina a questo proposito la eterogenesi dei fini, che potrebbe essere usata anche per interpretare il senso profondo del suo libro, non nel senso manzoniano dell’inutilità delle azioni umane a produrre gli effetti voluti, ma nell’idea che spetta alla Storia portare alla luce il disegno complesso, contraddittorio, le conseguenze non intenzionali delle azioni degli uomini e delle donne, i cui legami e sentimenti sono spesso sottovalutati e lasciati nell’ombra.

Corriere 1.10.12
Solo un demiurgo ci può salvare
di Arturo Colombo


Chi ha letto il dialogo Timeo, ricorda che Platone usa il termine «demiurgo», per definire una sorta di divinità, di creatore e artefice del mondo; ma ormai questa parola è pochissimo usata.
Anche se a recuperarla e rimetterla in circolazione è stato, negli anni 30-40 del secolo scorso, un singolare umanista e scienziato, Filippo Burzio, un piemontese vissuto dal 1891 al 1948 (direttore de «La Stampa» negli ultimi tre anni), cui adesso Paolo Bagnoli dedica un lungo e impegnativo profilo biografico dal titolo Una vita demiurgica (Utet, pp. XIV-296, 18).
Infatti, Il demiurgo e la crisi occidentale, apparso nel 1933, non è solo l'opera maggiore di Burzio; è anche «il punto di arrivo di un'idea lungamente incubata», sostiene nel suo libro Paolo Bagnoli, spiegando che «il demiurgo si propone di essere la risposta all'insieme della crisi alla stregua di un'idea-forza che è, al contempo, anche un ideale pratico: due fattori che, da una parte, interpretano la crisi in atto e, dall'altra, ne prospettano le vie risolutorie».
Per Burzio la crisi dell'Occidente è tanto più grave, perché costituisce il risultato di un duplice fallimento, nel campo della filosofia e in quello della scienza, che ha finito per ostruire, o addirittura cancellare — a danno dei singoli e della collettività — qualunque prospettiva di felicità. Invece, ogni essere umano — insiste Burzio — ha bisogno, per essere felice, «di gusto della vita e di fede nell'azione»: con la conseguenza, anzi la certezza per Burzio, che il mondo in cui viviamo acquisterebbe un notevole valore migliorativo, se si riuscisse a rendere operante l'esigenza del demiurgo — esatta «antitesi rispetto all'individuo collettivizzato dal comunismo sovietico e all'individuo massificato dal consumismo americano», come precisa Valerio Zanone nella presentazione.
Nonostante l'indubbia originalità, però, questa tesi burziana non ha avuto finora una grande fortuna. Semmai, molto più nota e, soprattutto, più aderente alla situazione politico-sociale, è un'altra opera, che Filippo Burzio pubblicò all'indomani del crollo del fascismo, che lo aveva visto avversario rigoroso («granitico» lo definisce Paolo Bagnoli) fin da quando, nel 1925, era stato tra i firmatari del manifesto promosso da Croce in risposta a quello degli intellettuali fascisti, preparato da Gentile. Essenza ed attualità del liberalismo si intitola questo saggio, apparso nel 1945, che riflette bene la forma mentis di Burzio, un liberale di ascendenza cavouriano-giolittiana, e che nel contempo insiste a sottolineare il ruolo fondamentale svolto dalle élite, ossia dalle minoranze attive che costituiscono la vera classe politica, soprattutto all'indomani di una disastrosa esperienza autoritaria. Soltanto un regolare, periodico avvicendarsi delle élite al potere costituisce a suo giudizio, come logica conseguenza, un'autentica garanzia per qualunque democrazia liberale.
Converrà non dimenticarlo mai, nemmeno ai giorni nostri.

Corriere 1.10.12
In un mare di vuoto
Ubertini, il cacciatore di buchi neri
«Spio quello enorme della Via Lattea»
di Giovanni Caprara


Un massiccio buco nero è incastonato nel cuore della nostra galassia, la Via Lattea, alla cui periferia noi abitiamo. «Teniamo gli occhi bene aperti aspettando che divori qualche astro delle vicinanze e così possiamo rubargli altri segreti», racconta Pietro Ubertini dell'Istituto nazionale di astrofisica, celebre cacciatore dei mostri celesti. E intanto ci anticipa qualche dettaglio dell'appassionante ricerca di cui parlerà sabato 6 ottobre a BergamoScienza.
Pietro Ubertini è un astrofisico delle alte energie, cioè si occupa dell'universo violento dove si manifestano gli eventi cosmici più impressionanti. Tra questi ci sono i buchi neri, protagonisti di primo piano sia nella teoria che nell'osservazione, grazie anche agli strumenti che ora permettono di indagarli con interessanti risultati. Ubertini ha progettato e costruito, assieme al francese François Lebrun Ibis, un rilevatore imbarcato sul satellite Integral dell'Esa per raccogliere i raggi gamma generati da sorgenti cosmiche e in grado di mostrare quello che accade lontano dalla Terra. «È stato così — spiega lo scienziato — che, scrutando il centro galattico nella direzione della radiosorgente Sagittario A, abbiamo messo insieme l'identikit del buco nero le cui caratteristiche erano prima incerte».
Gli scandagli incominciarono dieci anni fa, poco dopo il lancio di Integral, esattamente nell'ottobre 2002, e alla fine si capì che il «mostro» aveva una taglia pari a 3,7 milioni di volte la massa del Sole. «Considerevole, ma tutto sommato non era gigantesco rispetto a quello che avremmo scoperto dopo altrove. Però nella sua attività divoratrice aveva fatto piazza pulita di tutte le stelle circostanti».
Quindi ora appare solitario in un grande vuoto, ma sempre pronto a esercitare la sua mortale attrazione gravitazionale la quale, essendo fortissima, è capace di accalappiare altri astri non vicinissimi. «Ogni decina o centinaia d'anni può accadere — aggiunge — e quindi lo scrutiamo in continuazione per non lasciarci sfuggire un'importante occasione di studio».
La Via Lattea è un'isola di stelle (se ne contano circa trecento miliardi); anzi, fa parte di un gruppo di isole stellari tra cui c'è anche Andromeda, destinata a scontrarsi con noi fra quattro miliardi di anni. Dopo aver scandagliato il cuore galattico l'osservatorio Integral è stato puntato su numerose altre zone. «E abbiamo individuato centinaia di buchi neri dispersi nel grande territorio, compresi i bracci che escono dall'area centrale. Sono piccoli, da dieci a cinquanta volte la massa del Sole, ma rappresentano una popolazione diffusa».
Negli ultimi anni lo sguardo è andato oltre la Via Lattea, verso galassie più remote. E qui è arrivata la sorpresa trovando, sempre al centro, buchi neri davvero mostruosi con masse addirittura dieci miliardi di volte superiori a quelle del Sole.
«Dopo un decennio di ricognizioni — nota Ubertini — ci siamo resi conto di come fosse comune la presenza di un buco nero in un cuore galattico. E sono nate tante domande. Inizialmente pensavamo che grandi galassie avessero enormi buchi neri e invece non è così e la risposta ancora non la conosciamo. Inoltre sappiamo che dall'universo primordiale di idrogeno si sono formati dei filamenti nei quali gli atomi si aggregavano, arrivando passo dopo passo ai buchi neri addensando sempre più materia. Ma per capire i passaggi bisognerebbe riuscire a spiegare bene come si sono formate le prime stelle, perché è dalle loro caratteristiche e dalla loro evoluzione che poi scaturivano i buchi neri. Se riuscissimo a veder stelle vecchie di 12-13 miliardi di anni, sicuramente ci aiuterebbero a sciogliere quei misteri delle origini».
Perché le stelle diventino dei buchi neri alla fine della loro vita, cioè quando hanno esaurito l'idrogeno che le alimenta, devono avere una massa almeno tre volte quella del Sole, secondo una regola generale risalente ancora al grande fisico americano Robert Oppenheimer. Poi collassano fino a non lasciar sfuggire nemmeno un raggio di luce. Ma la questione è ben più complicata. «E oggi sappiamo che questi mostri celesti sono diffusi dovunque, non sono delle eccezioni nell'universo, ma fanno parte della sua evoluzione», sottolinea Pietro Ubertini.
Mentre si discute di materia oscura che riempie buona parte del cosmo c'è anche chi si chiede se non esistano dei buchi neri diversi, appunto costituiti di questa materia oscura che si sa presente ma la cui natura non è stata ancora decifrata. Un mistero nel mistero.

Corriere 1.10.12
Vauro lascia «il manifesto» e passa al «Fatto»
di P. Co.


ROMA — Tristissimo addio di Vauro a il manifesto che approda al Fatto. Niente polemiche. E nemmeno recriminazioni. Ma un filo di angoscia, sì. Basta leggere le righe di ieri in prima pagina: «La decisione di Vauro di lasciarci ci sorprende. E ci amareggia. Perché riguarda una persona che ha contribuito a scrivere la storia del nostro giornale. Comprendiamo la sua scelta. Il manifesto sta attraversano il momento più difficile della sua esistenza quarantennale. La direzione, la redazione, i tecnici, tutte e tutti sanno di avere un futuro incerto perché siamo «"in liquidazione" e del doman non v'è certezza», Spiega Norma Rangeri, direttore responsabile: «Capisco la scelta di Vauro, siamo in pesantissima difficoltà. Ma non la condivido. Siamo sul fronte di una battaglia finale e in certe situazioni si compiono scelte di vita oltre che professionali. Come Vauro scrive nel commiato, non ci sono certo motivi politici o legati ai contenuti».
Infatti Vauro se ne va con un saluto oggettivo, affettuoso soprattutto verso Valentino Parlato: «Ho il debito di una libertà mai "concessa" ma sempre scaturita dal confronto, dalla discussione anche aspra sulle idee e sul modo di scriverle o disegnarle. Un debito che sento in maniera particolare nei confronti di Valentino. Vecchio compagno che in questi tempi di rampanti "giovani" rottamatori continua a spendere tutto se stesso con passione, dolore e ostinazione...». Nelle righe di addio a Vauro, c'è solo un punto che va oltre l'amarezza: «Ci siamo illusi che il confronto anche aspro, ma sempre franco, la passione per la battaglia politica fossero una garanzia per poter continuare a combattere. Forse ci siamo in parte illusi. L'uscita di Vauro lo conferma». Vauro, forse, a sua volta capisce: «Dire addio è sempre un po' penoso, lo è ancora di più dopo aver vissuto insieme per trent'anni la splendida e tormentata avventura de il manifesto, tanto penoso che sarei stato tentato di andarmene zitto zitto, quatto quatto. Ma non me lo sarei mai perdonato...».