mercoledì 3 ottobre 2012

l’Unità 3.10.12
«Non mi avete convinto»
La lezione del ragazzo Ingrao
di Pietro Spataro


Sembra quasi un paradosso, oggi che si parla di rottamazione, ascoltare le parole di un vecchio di 97 anni. Eppure Pietro Ingrao appare sullo schermo come un ragazzo, con la vitalità di chi ha combattuto e ancora oggi si ostina a «volere la luna». Sembra quasi un paradosso, oggi che infuria lo scandalo dei fondi rubati dal Pdl, ascoltare quell’uomo difendere il Parlamento che, dice, è il luogo della rappresentanza politica e non quello dei privilegi. Ingrao sa parlare a noi, sa insinuare i dubbi, riesce a mettere a nudo le nostre debolezze e ci spinge a ritrovare quella passione che è il cuore della democrazia e della politica.
La proiezione del film «Non mi avete convinto», ieri alla Camera dei deputati, è stata come una frustata. A seguire il filo di una storia lunga, che è poi la storia di quella straordinaria esperienza che è stato il Pci, erano tantissimi, molti coi capelli bianchi ma anche molti che non avevano nemmeno vent’anni. C’erano Bersani, Fausto Bertinotti, un altro ragazzo di quasi 90 anni come Giovanni Berlinguer e amici, familiari, vecchi compagni di strada. È un film di una bellezza struggente quello di Filippo Vendemmiati, che in un gioco tra ieri e oggi, nel rapporto tra il leader comunista e un giovane studente affascinato da un suo discorso, ripercorre la storia politica di Ingrao e quella dell’Italia. Ma non c’è solo questo nelle immagini. C’è il cinema, il mito di Charlotte e Roma città aperta, c’è la poesia, ci sono i racconti, così pieni di amore, della sorella Giulia e c’è il grande amore per la moglie Laura. È il racconto di una scelta di vita, della politica come politica di tutti e non delle oligarchie, della voglia di cambiare il mondo e con il mondo se stessi e gli altri. Perché, come diceva Enrico Berlinguer, ci si salva tutti insieme e non ciascuno per conto proprio. Non sono mai stato un utopista, avverte Ingrao, ho solo combattuto per tenere viva la speranza di cambiare il mondo. È la bella lezione del «ragazzo Pietro».

l’Unità 3.10.12
Bersani-Casini, lite su Vendola
Vendola scioglie la riserva e si candida alle primarie di coalizione: corro per vincere contro il Monti-bis
Il leader Pd risponde alle accuse del segretario Udc che definisce «orrenda» un’alleanza con Sel: tu eri alleato con Berlusconi
Ancora polemiche sulle regole. Bersani a Renzi: «Stalinismo? Così si fa negli Stati Uniti»
di Maria Zegarelli


È scontro tra Bersani e Casini su Vendola. Il segretario dell’Udc spara a zero: quella tra il Pd e Sel è un’alleanza orrenda. Bersani risponde a tono: Casini non può dimenticare che lui era alleato con Berlusconi. Il leader di Sel rompe gli indugi e si candida alle primarie di coalizione: corro per vincere, dice, contro un Monti-bis. Per Bersani è una buona notizia e dice no a qualsiasi ipotesi di governissimo. Sulle regole per le primarie intanto il leader Pd replica a Renzi: «Stalinismo? Queste regole si usano negli Stati Uniti».
Per il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, ieri è stata una «bella giornata», resa tale dall’annuncio di Nichi Vendola di candidarsi alle primarie. Per Beppe Fioroni, al contrario, è stata piuttosto grigia: dal suo punto di vista, meglio un congresso Pd che un’alleanza con Vendola. Ed è meglio guardare ai moderati alla Pier Ferdinando Casini che puntano sul Monti bis che alla foto del Palazzaccio. Quello stesso Casini che ieri ha confessato di «inorridire» all’idea che il futuro possa essere contraddistinto da un’alleanza con il governatore Sel, «inadatto a governare». La risposta di Bersani è arrivata via internet nel corso di un web talk con iscritti ed elettori, trasmesso da Youdem: «Ha detto che è rispettoso verso di me, ma che Vendola è un problema. Capisco che Casini debba fare il suo mestiere, però certe parole sono un po’ forti: inorridire... In un contesto di centrosinistra, noi abbiamo portato l’Europa nell’euro, mentre Pier Ferdinando inorridiva assieme a Berlusconi in quel momento lì. Penso che in Europa se lo ricordino. Credo possano essere rassicurati sulla barra saldamente europeista ma rigorosa e riformatrice che vogliamo tenere».
Sarà perché si avvicina la campagna elettorale delle primarie anche per il segretario formalmente inizierà dopo l’assemblea di sabato ma i toni sono meno sfumati, le posizioni più nette. Con Vendola, con Casini e con quanti brigano per il Monti-bis sia nel suo partito sia fuori dal recinto del centrosinistra. Non ci sta il leader Pd a «maggioranze risicate» pensate già da ora per chiedere poi a tutti i partiti di formare la grande coalizione dopo il voto del 2013, «perché io non sto in maggioranza con il Pdl, piuttosto mi riposo e penso che sia così anche per il Pd».
Che sia così per «tutto» il Pd non è affatto scontato, come dimostrano Fioroni, Gentiloni, tanta parte di veltroniani e anche qualche lettiano. Ma per Bersani queste primarie si giocano anche su questa prospettiva del futuro: «Dobbiamo uscire dall’eccezionalità italiana. Abbiamo il diritto di avere una maggioranza politica solida. La figura di Monti corrisponde all’esigenza di fare argine al populismo e alla deriva antieuropa ha risposto ieri ai militanti Pd -. Ricordo che Monti lo abbiamo voluto noi al governo, ma l’Italia deve avere un governo politico come tutti gli altri paesi d’Europa». Quello che cerca di fare il segretario è uscire dalla morsa che si sta stringendo attorno al suo partito, e alla sua leadership, per mano dei centristi e dei cosiddetti montiani per portare il Pd a fare una campagna elettorale inedita: chiedere il voto agli italiani non per un governo politico ma per riproporre un governo guidato dall’attuale premier. Senza, però, farlo scendere in campo durante le elezioni, per non scalfire la sua immagine «bipartisan» e promuovendo in campagna elettorale l’agenda Monti. «Dobbiamo restituire la parola alle elezioni», ripete ad una iscritta Pd, per dare al Paese «un governo politico e una maggioranza solida» con un proprio programma politico che nel solco del rigore di impronta montiana sia però centrato su equità, sviluppo, crescita, lavoro e diritti.
LE PRIMARIE
Segnali ai (sempre meno) probabili alleati come Casini, ma messaggi anche in casa propria, quella democratica, in subbuglio per le primarie, alla vigilia di un’Assemblea importantissima che dovrà decidere regole e tempi e aprire la strada in maniera ufficiale alla candidatura di Matteo Renzi. «La cosa che mi infastidisce di più è ipotizzare che se mettiamo la regola che per votare qualcuno debba pronunciarsi per il voto al centrosinistra, Bersani deve mettere delle barriere», dice replicando a chi le regole non le vorrebbe. «Vogliamo mettere barriere a gente che non c’entra. Batman se ne stesse a casa. Mentre io e noi cediamo sovranità ai cittadini, i cittadini si prendano la responsabilità di dichiarare che sono elettori di centrosinistra». E direttamente a Roberto Reggi , che dallo staff di Renzi lo aveva accusato di stalinismo: «Non credo che sia stalinismo o non so cosa si potrebbe dire delle primarie degli Usa».
E se basta con Batman non se ne può più neanche degli Scilipoti. Ecco perché Bersani punta i paletti sulla legge elettorale: no al cambio di gruppo; no alle preferenze; si alla parità di genere e alla governabilità.

il Fatto 3.10.12
La mischia
Primarie, adesso c’è anche Vendola A chi fa paura?
Il governatore pugliese sfida il Pd ma spacca già il futuro centrosinistra
di Paola Zanca


Il giorno in cui Nichi Vendola annunciò la sua candidatura alle primarie era settembre, ma di due anni fa. Aveva appena vinto (per la seconda volta, solo contro tutti) quelle “regionali” per la guida della Puglia. Ma guardava già al governo della nazione. All’epoca, si arrabbiarono praticamente tutti. Oggi invece sembrano tutti contenti. Vendola annuncia che sabato comincia ufficialmente la sua sfida per la guida del centrosinistra. E l’unico a “inorridire” è Pierferdinando Casini: proprio quello che, per il momento, nel centrosinistra non c’è e che Bersani sta provando a conquistare.
Lo staff del governatore pugliese invita gli sfidanti a non illudersi che la partita sia già scritta: Nichi per ora ha solo scaldato i motori, aspettate di vederlo in pista. Massimo riserbo sugli slogan, sul tour elettorale, sui pilastri su cui costruirà la campagna. Non bisogna rovinare la sorpresa di sabato. Vendola parlerà dal museo archeologico virtuale di Ercolano: sullo sfondo gli antichi teatri e perfino la ricostruzione del Vesuvio che erutta, per dare l’idea di un Paese distrutto, ma pronto a rinascere.
PER LA VERITÀ, Vendola aveva detto che prima di candidarsi voleva aspettare di capire due questioni: quali fossero le regole delle primarie e quale la sua posizione nel processo che lo vede accusato di abuso d’ufficio per le nomine nella sanità pugliese. Invece non ha aspettato nessuna delle due: per le regole (che in parte si decideranno sabato, all’assemblea nazionale democratica) ha già avuto rassicurazioni sul fatto che non saranno un congresso camuffato del Pd. Per il processo, ha capito che se aspetta i tempi della giustizia, nemmeno la campagna elettorale del 2013 è la volta buona per fare il grande salto. Aveva chiesto il rito abbreviato, ma la gup non gli ha ancora risposto perché deve prima valutare la richiesta di Lea Cosentino, Lady Asl, che ha chiesto di riunire il procedimento a quello a carico, tra gli altri, del senatore Alberto Tedesco.
Ma a far “accelerare” la scelta di Vendola, spiega Gennaro Migliore (ex capogruppo alla Camera per Rifondazione, oggi uno degli uomini più vicini al governatore) c’è il pressing di una parte della politica sul Monti-bis: “Noi siamo la garanzia contro ogni grande coalizione”. Lo stesso “no” che ieri Bersani è tornato a ribadire: “Se si pensa di ovviare con risicate maggioranze, dove io dovrei stare con Berlusconi, si sbagliano”. Ce l’ha con l’ipotesi di un accordo tra Lega e Pdl sulla riforma elettorale, da affidare nientemeno che a Roberto Calderoli, già autore del porcellum, stavolta in pista per fare una legge che non faccia vincere nessuno.
In attesa di scoprire con quale legge andremo a votare, la partita delle primarie è ancora l’unica “disperata speranza di democrazia” che ci rimane. La chiama così Fausto Bertinotti che ieri si è presentato alla Camera per presentare un film-intervista su Pietro Ingrao. Nessun commento sulla candidatura di Vendola (“Questione di stile - dice - il padre di Nichi non parla di Nichi”), ma ha scherzato a lungo sul suo braccio sinistro fasciato: messo male, come la sinistra del resto.
EPPURE NEL PD sono convinti che la candidatura di Vendola alla sinistra possa servire: porterà a votare, spiegano, molte più persone di quelle che sarebbero andate a scegliere tra Renzi e Bersani. La pagina Face-book di Nichi, a dire il vero, è piena di commenti di suoi sostenitori che gli dicono che ha sbagliato a mettersi in mezzo, che favorirà il rottamatore, che prima li doveva consultare: “E se fosse Renzi a vincerle? - domanda Simona - Saresti disposto a fare da gregario a quell'ipocrita liberista o, a quel punto, violando le regole delle primarie, abbandoneresti la coalizione? Ti stai lasciando imbrigliare come uno sprovveduto in una battaglia persa in partenza”. Il partito è piuttosto in subbuglio: sabato scorso decine e decine di amministratori e militanti si sono visti a Roma per chiedere a Vendola di “non affogare nella vecchia politica” l’esperienza di SeL. C’è anche chi crede che il nome di Vendola sia una ciambella di salvataggio per Bersani. Se le regole delle primarie confermeranno l’ipotesi del doppio turno (un secondo voto se nessun candidato raggiungerà il 50%) i voti di Vendola si riverseranno su Bersani. Qualcuno maligna che al segretario del Pd sia utile anche prima: con Nichi candidato può permettersi di moderare un po’ i toni della campagna anti-Renzi. Senza Vendola, pur di marcare le differenze con il sindaco di Firenze, rischiava di sembrare troppo di sinistra.

La Stampa 3.10.12
Con Vendola le primarie diventano vere
L’ultimo profeta di un comunismo dal volto umano sfida Bersani e Renzi puntando su diritti e Stato
di Fabio Martini

qui

Repubblica 3.10.12
La battaglia delle regole
Il ricordo dell’Unione e la paura di Pierluigi “Evitiamo di diventare un’armata Brancaleone”
L’ipotesi di una federazione di gruppi per decidere a maggioranza
di Goffredo De Marchis


IL TERRORE di ripetere l’Unione – con le sue liti, con i suoi ricatti, con i veti incrociati – agita Pier Luigi Bersani. Le polemiche di ieri hanno già scattato la foto di un’alleanza impazzita.
IL RESTO lo può fare l’assemblea di sabato chiamata a cambiare le regole delle primarie. «È un passaggio complicato », ammette il segretario del Pd. Qualcuno può avere la tentazione di far saltare il banco chiedendo la verifica del numero legale. Matteo Renzi ha già annunciato che non si farà vedere («ci saranno i miei»). Una mossa furba: se nascesse una bagarre, lui ne sarebbe fuori. «Ma la regola principale — ripete Bersani ai suoi interlocutori — è quella contro il ritorno dell’Unione ». Ossia dell’armata Brancaleone. «In caso di vittoria, formeremo una federazione dei gruppi parlamentari. Ognuno dovrà cedere una quota di sovranità, le decisioni verranno assunte a maggioranza. E questo patto dovrà firmarlo chi partecipa alle primarie». Nel patto è compresa la futura intesa con i moderati, con l’Udc.
La partecipazione di Vendola fa delle primarie una vera competizione di centrosinistra. È quello che voleva il leader del Pd Bersani. Il candidato Bersani però fa i conti con la new entry: quanti voti può portargli via il governatore pugliese. «I sondaggi sulla corsa interna sono poco attendibili. Vendola ha una posizione di sinistra che può sovrapporsi alla nostra — spiega Bersani —. Ma altre ricerche dicono che sono Renzi e Vendola a disputarsi i consensi di chi cerca le facce più nuove». Insomma, la speranza dello staff bersaniano è che gli outsider finiscano per ostacolarsi a vicenda. Poi, c’è l’incognita ballottaggio. Al primo turno ci sarà un vincitore solo in caso se prende il 50 per cento più uno. La necessità di un secondo passaggio appare dunque scontata. Vendola, a quel punto, potrebbe dirottare i voti su Bersani. Con il pericolo di un’ipoteca pesantissima sulla linea politica.
Il segretario del Pd pensa di essere al riparo dai “ricatti” futuri grazie al vincolo di maggioranza. Per altri bersaniani il potere di condizionamento del leader di Sel è invece un nuovo motivo di terrore. «Nichi è un uomo di governo. Ma certi patti sappiamo che possono diventare carta straccia — dice il lettiano Francesco Boccia —. Non è da escludere che Vendola ci schiacci sulla linea del no a Monti. E sulle posizioni della Cgil o peggio della Fiom».
Con Vendola in campo, l’assemblea può trasformarsi in una bolgia. I riflettori del quartier generale di Bersani sono puntati su veltrioniani, franceschiniani, filo-Monti e Rosy Bindi che non fa mistero di essere contrariata per l’iter seguito dal vertice. Beppe Fioroni arriva all’appuntamento con intenti bellicosi. «Almeno la gioiosa macchina da guerra era ordinata. Perdente ma ordinata. Qui invece stiamo facendo le primarie di Babilonia, è un caos assoluto. Ma come facciamo ad allearci con Vendola che dice Monti mai, Casini mai? Non avevamo escluso l’Unione? Agli italiani abbiamo detto questo, non dobbiamo tradirli. Altrimenti restiamo nani pure in assenza dell’avversario». Parole che prefigurano una scissione? Fioroni nega: «Combatto nel Pd». Ma si presenterà alla riunione di sabato chiedendo a Bersani una spiegazione pubblica sulle mosse del Pd. Se non sarà soddisfatto, basta poco per far saltare l’assemblea. I componenti del parlamentino Pd sono 950. Maggioranza e numero legale necessari per cambiare lo statuto coincidono: 476 membri. È sufficiente che uno si alzi per chiedere di contare i partecipanti e il meccanismo va in tilt. I veltroniani sono inquieti. Alla Camera qualcuno sussurra che potrebbero disertare. Walter Verini, braccio destro di Veltroni, spiega: «Ci saremo. Ma siamo molto preoccupati. Il percorso era: legge elettorale, programma, coalizione e infine primarie.
Con Vendola in campo, l’assemblea può trasformarsi in una bolgia. I riflettori del quartier generale di Bersani sono puntati su veltrioniani, franceschiniani, filo-Monti e Rosy Bindi che non fa mistero di essere contrariata per l’iter seguito dal vertice. Beppe Fioroni arriva all’appuntamento con intenti bellicosi. «Almeno la gioiosa macchina da guerra era ordinata. Perdente ma ordinata. Qui invece stiamo facendo le primarie di Babilonia, è un caos assoluto. Ma come facciamo ad allearci con Vendola che dice Monti mai, Casini mai? Non avevamo escluso l’Unione? Agli italiani abbiamo detto questo, non dobbiamo tradirli. Altrimenti restiamo nani pure in assenza dell’avversario». Parole che prefigurano una scissione? Fioroni nega: «Combatto nel Pd». Ma si presenterà alla riunione di sabato chiedendo a Bersani una spiegazione pubblica sulle mosse del Pd. Se non sarà soddisfatto, basta poco per far saltare l’assemblea. I componenti del parlamentino Pd sono 950. Maggioranza e numero legale necessari per cambiare lo statuto coincidono: 476 membri. È sufficiente che uno si alzi per chiedere di contare i partecipanti e il meccanismo va in tilt. I veltroniani sono inquieti. Alla Camera qualcuno sussurra che potrebbero disertare. Walter Verini, braccio destro di Veltroni, spiega: «Ci saremo. Ma siamo molto preoccupati. Il percorso era: legge elettorale, programma, coalizione e infine primarie.

il Fatto 3.10.12
Renzi il ciociaro: Batman e popcorn
Il camper non si ferma neanche sabato per l’assemblea Pd: il rottamatore non va
di Wanda Marra


Prima sono venuti da me Marco e Emiliano... eccoli lì... cercavano la solidarietà per Anagni”. Applauso. Matteo Renzi si guarda intorno. Fa una pausa. Esita, sembra indeciso. La gente applaude di nuovo, più forte. Lui riprende il microfono, più convinto: “Ah, l’applauso è per la solidarietà”. Eccolo qui Renzi, a Frosinone, nel cuore della Ciociaria, il giorno dell’arresto di Batman. Eccolo, mentre tasta la platea, cerca di capire chi c’è, per evitare scivoloni. Condanna “gli scandali del Lazio”, ma passa subito oltre, avanti con il suo show. Uno show perfetto nei tempi e nei gesti scenici. Il luogo prescelto è la Multisala Sisto, cinema all’americana, odore predominante, i pop-corn. La gente ad aspettarlo è tanta. Dai vertici locali del Pd, ai fuoriusciti, ai curiosi, ai delusi alla politica, ai pidiellini.. Appuntamento per le 18, lui arriva (dopo la tappa di Palestrina) alle 18 e 15. Si fermano due camper. I giornalisti si assiepano davanti al primo. La porta non si apre subito. Suspense. Poi, eccolo, scende con un saltello, quasi fosse preso di sorpresa. Jeans scoloriti, camicia bianca, stropicciato al punto giusto, si cala nella folla. “Matteo, eccomi, sono il segretario Pd della provincia di Frosinone, ti faccio votare”. “Ti porto i voti civici”. “Ti ricordi, eravamo insieme nella gioventù popolare? ”. “Io sono di destra, ma a te ti voto”. Un sorriso per tutti, e mentre evita di sbattere contro dei paletti la battuta spontanea: “Attenti ai gioielli, eh” (espressione che indica gli attributi maschili, ndr).
SALE SUL PALCO, la sala (circa 400 posti) è piena. Annuncia programmi, contenuti, proposte. In realtà offre uno spettacolo confezionato benissimo. Va sul sicuro con il video da “Non ci resta che piangere”, con il magistrale “Ricordati che devi morire”. Perché la politica, dice lui, “ci deve far venire la voglia di vivere”. Perché “la felicità, il benessere sono più importanti dei soldi”. Annuncia un pacchetto rottamazione: dimezzare i parlamentari, abolire i finanziamenti ai partiti e ai gruppi regionali, riformare i vitalizi. Parla di cambiare il modo in cui vengono gestiti fondi e progetti europei. S’è portato le diapositive con tabelle e numeri. Va su e giù per il palco, accarezza il microfono, ogni tanto si sistema la cintura. Lo smartphone è ben visibile in tasca, ma lontano dalle telecamere televisive non lo tira fuori, non cerca i consigli di Gori. È una tappa minore, il copione lo conosce, è un animale da palco e la platea se l’è presa. Sulla faccia stravolta di D’Alema a Otto e Mezzo, alla domanda della Gruber: “E se vince Renzi? ”, la sala si entusiasma. Il giovane Matteo perde qualche minuto a spiegare quella che in effetti è l’unica idea concreta che illustra: “Bisogna dare 100 euro in più al mese a chi ne guadagna meno di 2000. Con quei 100 euro si dà un po’ di vento all’economia: potete fare una spesa nella quarta settimana o comprare uno zainetto ai vostri figli”. Sul palco, c’è anche la bandiera del Pd. A un certo punto la accarezza pure. Ma all’assemblea di sabato, quella che deve cambiare lo Statuto, neanche ci va. Una battuta per Vendola. “Sono sinceramente contento che partecipi. Però, gli vorrei dire: Nichi non è che se ci siamo io e Bersani è una faida, se ci sei tu è il trionfo dell’amicizia”. Chiude con Obama che declama: “L’America dev’essere all’altezza delle aspettative dei nostri figli”. E lui: “E’ arrivato il tempo di mettersi in gioco. Fatelo anche voi: non importa chi votate il 26 novembre, basta che votiate”. “Ti dò il voto”, urlano. Ha parlato meno di un’ora. Ed è un successo. La gente si accalca, lo abbraccia, gli porta i bambini. “Una foto, facciamo una foto”. Ne fa decine mentre si avvicina al camper. “Questo è un altro linguaggio. Così si cambia”, si sente commentare. Nelle retrovie si fanno proseliti: “Volete fondare un comitato? Ci vogliono dieci persone”. Perché il viaggio in Italia funziona così: il comitato “centrale” individua dei referenti sul campo, organizza l’evento nella città prescelta. Spesso all’ultimo momento. I referenti spargono la voce, portano le persone. Poi, a discorso avvenuto, si organizza il territorio, si fanno i comitati. Una scommessa. “Matteo, attento a non farti abbindolare: ci sono tanti adulatori, tanti che si vogliono solo riciclare”, gli dice un signore. Lui lo guarda, annuisce, non si scompone. Risale sul camper. Alle 21 dev’essere a Latina. Lo spettacolo continua.

Corriere 3.10.12
Enrico Letta
«Nessun passo indietro sull'agenda Monti. Grande coalizione? Si decide dopo il voto»
di Monica Guerzoni


ROMA — «Con queste premesse il nostro comune viaggio rischia di non cominciare nemmeno. Vendola sappia che il Pd non farà nessun passo indietro rispetto alle riforme di Monti, perché sarebbe un errore drammatico».
Promessa impegnativa, vicesegretario Enrico Letta. Come farete a non spaccare il partito tra chi lavora per un bis di Monti e chi vorrebbe bruciare la sua agenda?
«Faremo in modo che nella prossima legislatura ci sia una conferma rigorosa dell'agenda Monti più due "s", speranza e sociale, perché solo così può ripartire la crescita. E voglio rivendicare il fatto che in questi mesi il bastone tra le ruote del governo lo ha messo il Pdl, non il Pd. Noi siamo quelli che hanno aiutato a trovare le soluzioni, tanto che sull'anticorruzione io chiedo al governo di andare avanti e di porre la fiducia».
Bersani ha preso distanze dal Monti bis e ha definito il governissimo una «coltellata» al Paese.
«Nella prossima legislatura non possiamo governare con un patto politico con Berlusconi. Ha distrutto il lavoro di Alfano per rendere il Pdl un normale partito conservatore europeo e l'ha fatto tornare alla logica di Arcore, per noi inaccettabile».
Come pensate di tenere unite la sinistra bersaniana e l'area montiana?
«Ma il Paese ha bisogno di Monti e Bersani, insieme e non alternativi tra di loro. La chiarezza l'ha fatta Monti stesso, confermando di non candidarsi alle elezioni e di non voler diventare un leader di parte. Quindi non vedo perché dovremo dividerci tra noi. Potremmo dire che tutto il Pd è montiano».
Bersani lo vedrebbe meglio al Quirinale. E lei?
«Io non escludo nulla, il risultato è nelle mani degli elettori. Monti ha detto ai mercati, ai governi stranieri e agli italiani che non tornerà alla Bocconi e sarà un protagonista della prossima legislatura. E noi lavoreremo in quella direzione».
Molti pensano che Casini, Fini e Montezemolo lo stiano strumentalizzando. Condivide?
«Fanno la loro parte, non mi sento di criticarli. Con la sua saggezza Monti non si è fatto trascinare dentro l'agone politico. Le elezioni devono esprimere un governo legittimato dal voto, oltre che dal consenso del Parlamento. E l'idea che la prossima legislatura veda l'establishment politico a sostegno di Monti, contro il resto del mondo, è sbagliata. Sarebbe il miglior regalo a Grillo».
Come si batte l'antipolitica?
«Cambiando la legge elettorale, come chiede Napolitano, tagliando i costi della politica e con un confronto tra centrosinistra e centrodestra. Se facessimo la grande ammucchiata Grillo avrebbe un'autostrada spianata, sarebbe una scelta esiziale per l'Italia».
E se dalle urne non esce una maggioranza solida?
«Il giorno dopo valuteremo il risultato che gli elettori ci avranno consegnato. Se tra Bersani e Berlusconi gli italiani non scelgono bisognerà trovare una soluzione. In Germania nessuno si candida per la grande coalizione, dopodiché tutti sanno che lì, se non c'è la maggioranza, si fa la grande coalizione. Ma solo dopo aver ascoltato gli elettori. A me piacerebbe che funzionasse così anche in Italia».
Tra Bersani e Casini è scontro su Vendola e la futura alleanza rischia di restringersi.
«La frammentazione e il proliferare di liste stanno polverizzando il sistema politico. Lo sforzo principale di Bersani deve essere quello di unire, un Pd che riesce a comporre le distinzioni al suo interno è un bene per tutto il sistema politico. Anche per questo chiedo a Penati un gesto di generosità. Le dimissioni sarebbero cosa saggia, altrimenti l'inchiesta in cui è coinvolto verrà usata dalla destra contro Bersani, con danni evidenti al leader e al partito».
Fioroni denuncia il rischio di una scissione e chiede un congresso straordinario.
«Io penso invece che dobbiamo tenere unito il Pd. Se tutti lavoriamo per l'interesse generale, se facciamo primarie aperte e rispettiamo il risultato il Pd sarà il baricentro della prossima legislatura. L'assemblea di sabato è importante».
Matteo Renzi ha già detto che non verrà.
«Spero che ci ripensi, farebbe un errore a non partecipare. Renzi può svolgere un suo ruolo da protagonista. Hillary Clinton dopo il duello con Obama è rimasta nella squadra e io spero che sia questo il clima».
Se vince, che ne sarà del Pd?
«Se vince Renzi sarà lui il candidato per Palazzo Chigi ed è ovvio che le conseguenze andranno gestite. Le primarie sono così».
E lei, per chi vota? La dipingono in avvicinamento a Renzi...
«In questa polverizzazione politica il centrosinistra ha bisogno di un leader che unisce, di un leader che mette la sua competenza e il suo impegno a costruire alleanze politiche e sociali. Bersani ha queste caratteristiche e lo sostengo».
Se sabato in assemblea Bersani non avrà i voti per far approvare le regole delle primarie, dovrà dimettersi?
«L'assemblea è cosa complessa, perché abbiamo uno Statuto rigoroso e un po' cervellotico. Bisogna che tutti ci mettano buon senso. L'emergenza italiana non è finita e lo sfascio non serve a nessuno».

l’Unità 3.10.12
Le primarie che vorrei: diritti, giovani e futuro
di Ignazio Marino


Nelle primarie è giusto crederci e io ci credo. Sono un’ottima occasione per elaborare idee, confrontarsi, coinvolgere. E con una società piagata dalla corruzione e una politica che disgusta gli italiani, dobbiamo considerarle uno strumento per non fare precipitare tutti, in particolare i più giovani, nella repulsione per l’impegno civico o, peggio, nel disinteresse totale.
Questa volta il voto servirà per scegliere il candidato del centrosinistra alla Presidenza del Consiglio: una donna o un uomo che, se vinceremo le elezioni, deve avere ricca preparazione tecnica ma anche personale autorevolezza nazionale ed internazionale per affrontare la più grave crisi economica dal 1930. Prima ancora di vincere, quel candidato dovrà lavorare per convincere gli italiani ad andare a votare, e a votare centrosinistra, in un clima di antipolitica dilagante.
Considerato l’obiettivo, va riconosciuto un coraggio fuori dall’ordinario a coloro che si dichiarano pronti per questa competizione ed è anche per questo che la sfida deve svolgersi sui contenuti, in modo che ogni elettore possa fare la propria scelta sulla base di programmi chiari e non della simpatia, dell’affinità generazionale o dei vantaggi personali. La responsabilità dei candidati sarà anche misurata con la loro capacità di proporre squadre di donne e uomini che non appartengano alla classe dirigente del secolo scorso, che ci avvicinino al resto dell’Europa e propongano idee all’altezza delle sfide di questi tempi. Su alcuni temi sarebbe importante conoscere da subito il punto di vista dei candidati perché sono argomenti qualificanti di una proposta politica che si preoccupa del futuro dell’Italia in Europa. Sono temi che sollecito da anni e che pongo ancora una volta in forma di riflessioni e domande.
Penso in primo luogo al tema del lavoro. Quali misure propongono i candidati per rilanciare l’occupazione? Cosa fare per estirpare quel tumore che si chiama nepotismo o assenza di merito, che mina nel profondo la salute civica del nostro Paese e garantire invece criteri meritocratici e trasparenti nel mondo del lavoro, della ricerca e anche nella politica?
Penso poi alla salute. La sostenibilità del servizio sanitario nazionale non riguarda solo le questioni di bilancio ma anche il livello di civiltà di un Paese. Che fare dopo 21 miliardi di tagli negli ultimi tre anni, con sette regioni commissariate, con un sud dove la sanità pubblica è solo una parola teorica priva di concretezza? Che fare contro gli scandali nella gestione della sanità, che divorano risorse in modo criminale? Sono d’accordo i candidati alle primarie ad eliminare il controllo della politica nei meccanismi di nomina di direttori generali e primari? E ad individuare strumenti di valutazione seri ed indipendenti, per cancellare l’epoca dei tagli lineari e combattere gli sprechi senza pesare sui cittadini e premiando chi lavora meglio?
Ma il grado di civiltà e di democrazia si misura anche dalla capacità di ascoltare la società, comprenderne i cambiamenti e adottare delle leggi nell’interesse delle persone. Il tema della cittadinanza è forse il più impellente quando facciamo riferimento all’esigenza concreta di nuovi diritti sociali e civili. L’Italia è lontana dall’Europa su molti altri temi dalle unioni civili, alle norme per il fine vita, alla procreazione assistita, sino alla ricerca così promettente sulle cellule staminali embrionali. Sono d’accordo i candidati nel riconoscere che chi nasce in Italia è italiano? Sono d’accordo nel garantire alle coppie di fatto, etero e gay, il pieno e pubblico riconoscimento civile dei propri diritti? E sono d’accordo nel sostenere una legge sul testamento biologico che permetta a ognuno di noi di decidere con i propri affetti quali cure riteniamo appropriate per noi stessi e quali no? In altre parole, si impegneranno a rispettare, e fare rispettare da tutti, i principi di laicità della Costituzione italiana?
L’Italia inoltre è arretratissima in quanto a rappresentanza femminile nelle istituzioni e più in generale nel mondo produttivo. Sono pronti i candidati a lavorare per la parità di genere nelle istituzioni e nel mondo del lavoro? Infine, uno sguardo al futuro: sappiamo che non ci sarà sviluppo né crescita se non si punterà su ricerca e innovazione. Da dove passa la strada dell’innovazione?
Abbiamo disperatamente bisogno di una classe dirigente che guardi all’Italia del 2030 e che sappia scegliere e promuovere i migliori; che sappia sradicare la gramigna dalla politica per piantare semi nuovi. Solo dando speranza e visione ai tanti giovani impegnati e brillanti che, spesso scoraggiati e sfiduciati, non provano nemmeno a mettersi in gioco e scappano all’estero, potremo creare le basi per dare una nuova opportunità di crescita all’Italia. Pongo oggi alcuni temi e domande. Altre se ne aggiungeranno, sull’ambiente o la scuola, ma l’importante è che le risposte arrivino puntuali e chiare, scacciando via ogni residua ambiguità e dimostrando il coraggio di chi ritiene di essere pronto a guidare l’Italia per restituirle crescita, orgoglio e sicurezza.

il Fatto 3.10.12
In Italia i diritti solo ai cattolici
risponde Furio Colombo


HO LETTO il suo commento sull'ora di religione. Francamente mi aspettavo da una persona di cultura una valutazione diversa. Perché non riconoscere la rilevanza che il cristianesimo/cattolicesimo ha avuto nel nostro Paese?
Ivan

COME I LETTORI immaginano, la lettera è più lunga e ben argomentata. Ivan mi dice che in molti Paesi la religione del luogo è materia obbligatoria, e che chi non conosce la religione cristiana e la Bibbia non può capire autori come Dante e Manzoni. Evidentemente c'è un fraintendimento. Nei Paesi europei in cui l'insegnamento della religione (che non esiste negli Stati Uniti) è obbligatorio, il curriculum si basa sulla storia e non sul culto e la dottrina delle chiese locali. Mentre in Italia si parla di dogmi e di specifiche decisioni della Cei e del Papa. O qualcuno vorrà mandarmi lo schema di un programma scolastico per dimostrare che mi sbaglio? Purtroppo, come dimostra la triste battuta di Bossi (un ex ministro, un ex capo partito, un autonominato sostenitore della fede cristiana, secondo cui “Alessandro Manzoni è il primo traditore dei lombardi”), l'ora di religione culturalmente serve. Gli sarebbe servito di più un buon insegnante di italiano, ma a quanto pare gli è mancato anche quel privilegio. Però dico allo scrivente che l'equivoco si basa su due sue osservazioni che trovo difficile condividere. La prima è di immaginare che l'ora di religione nelle scuole italiane sia un programma di cultura, una sorta di introduzione per o di commento di canti della Divina Commedia. Non lo è. Salvo rari bravi e rari insegnanti, non c'è rapporto con letteratura e poesia e arte cristiana. C'è solo stretto insegnamento della dottrina del momento. (Penso all’ossessione degli embrioni che non viene dai secoli). Il secondo equivoco è che tutti i pregi che possiamo voler riconoscere alle radici cristiane della cultura italiana (ma senza dimenticare roghi, processi, inquisizioni, trattamento degli eretici, uso del potere e leggi razziali) non cancellano la necessità di riconoscere che abbiamo adesso nelle scuole italiane bambini islamici (non pochissimi) e di altre religioni che sono parte di grandi culture. Non dimentichiamo che, dall'Unità d'Italia, sia nel Regno sia nella Repubblica, la scuola pubblica italiana non si è mai occupata dei bambini ebrei, e le Comunità hanno dovuto dotarsi delle proprie scuole. Ora ci accingiamo allo stesso trattamento per le nuove minoranze. Dicevo che è sbagliato. E dicevo che mi meraviglio che non siano autorevoli religiosi e credenti cattolici a chiedere per primi insegnamento per i bambini di altre religioni. Ringrazio per la lettera che mi dà l'occasione di confermare e chiarire quanto avevo già scritto.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

Corriere 3.10.12
Legge elettorale. Ora si parla di un accordo

Ma la mediazione dilata i problemi dei democratici
Se davvero esiste, è un'intesa misteriosa e controversa. Il tamtam di ieri assicurava che il leghista Roberto Calderoli fosse riuscito a trovare un compromesso sulla legge elettorale capace di mettere d'accordo tutti: almeno in teoria. Sarebbe l'estremo tentativo di evitare che la riforma si affronti in Parlamento, al buio: con il pericolo di un nulla di fatto, o di forzature foriere di un avvelenamento dei rapporti politici. Ma non si capisce perché dovrebbe essere possibile un accordo adesso, dopo che questi mesi l'hanno lasciato in bilico, e ultimamente allontanato. L'unico risultato immediato è lo scontro virulento fra due alleati in pectore: Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, divisi sulla riforma. Il partito di Silvio Berlusconi, invece, appare ben disposto. Ma è spaccato: forse perfino sull'orlo di una scissione fra l'antica componente di FI e quelli di An. E riflette i contrasti tra fautori del maggioritario e del sistema proporzionale. Il Pd teme un colpo di mano confezionato per impedire la creazione di maggioranze chiare dopo il voto; e dunque o un ritorno o la permanenza di Mario Monti a Palazzo Chigi, seppure alla guida di un governo politico.
«Non voglio una legge elettorale che mette il Paese nella palude», scandisce Bersani. «L'eccezionalità deve finire, lo sa anche Monti». Scetticismo e diffidenza, dunque, rimangono profondi. E la confusione aumenta dopo che il presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, ha previsto un testo unitario entro domani. Era appena finita la riunione della Commissione dove Calderoli aveva illustrato la sua proposta. «Un filo di speranza mi pare esserci», ha commentato Finocchiaro. Anche se poi ha spiegato che il suo possibilismo era di metodo. La domanda è se il segretario del Pd sia pronto alla mediazione.
La sua contrarietà non è totale. L'intesa sarebbe benvenuta, a patto di rispettare quelli che chiama «i nostri paletti». C'è il «no» del Pd alle preferenze, che invece l'Udc di Casini vuole. E c'è l'esigenza di sapere chi governa dopo il voto. Insomma, Bersani rifiuta l'idea di un sistema proporzionale che «balcanizza» il Parlamento. D'altronde, sembra convinto di poter vincere alleandosi col Sel di Nichi Vendola. È pronto a marcare le differenze anche con Casini, che si è definito «inorridito» per la prospettiva di una maggioranza di sinistra di quel tipo. Ma Casini, lo rimbecca Bersani, «inorridiva con Berlusconi» mentre «noi facevamo l'euro». Insomma, se l'intesa c'è, come minimo i protagonisti fingono di ignorarla. Anche perché ognuno è consapevole delle resistenze non solo fra ma nei due maggiori partiti. Nel Pd, la riforma elettorale si sovrappone e si intreccia con le primarie sul candidato a Palazzo Chigi; e nel Pdl con la prospettiva sempre più contrastata della leadership berlusconiana e con conati scissionistici che gli scandali nelle Regioni incoraggiano. «Troppo ottimismo», sentenzia Bersani. Eppure, proiezioni alla mano, l'eventualità che alla fine nessuno riesca a governare resta alta: con qualunque legge elettorale. È quanto il Quirinale cerca di far capire, spiegando le incognite, anzi i pericoli di altre coalizioni risicate: soprattutto a livello internazionale.

l’Unità 3.10.12
La Cassazione: «Con la Diaz Italia screditata nel mondo»
di Luciana Cimino


ROMA Dopo 11 anni l’Italia trova le parole per descrivere ciò che avvenne a Genova nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. «Pura violenza», «sadismo», «massacro ingiustificabile», «tortura». Questo è stata l’irruzione nella scuola Diaz secondo la V Sezione penale della Cassazione che in 186 pagine di motivazione spiega le condanne del 5 luglio scorso nei confronti degli allora vertici della polizia. Secondo la Cassazione gli operatori presenti quella notte hanno avuto «carta bianca» per pestare a sangue i ragazzi del social forum innocui e disarmati, giustificando il blitz con prove false.
Molti di quei manifestanti sarebbero poi finiti nella caserma di Bolzaneto, a subire altre violenze verbali (come gli inni al Duce) e fisiche. Oggi i relatori della sentenza Piero Savani e Stefano Palla scrivono: «Tutta l’operazione si è caratterizzata per il sistematico e ingiustificato uso della forza da parte degli operatori che hanno fatto irruzione nella scuola Diaz e la mancata indicazione, per via gerarchica (da Canterini a Fournier fino agli operatori), di ordini cui attenersi». Una «mancata indicazione» che si sarebbe poi tradotta in «una sorta di “carta bianca” assicurata all’operazione». Cioè le forze dell’ordine quella sera furono «libere di usare la forza ad libitum». E ancora oggi le parole più realistiche rimangono quelle pronunciate da Michelangelo Fournier, allora capo del settimo nucleo. «Macelleria messicana», dichiarò Fournier in udienza e la Cassazione definisce questa locuzione «quanto mai significativa e fotografica».
È l’esordio del famigerato «tonfa», il manganello speciale in uso in quei giorni ai Carabinieri: «Si erano scagliati sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero immobili con le mani alzate, colpendo tutti con i manganelli (detti «L’assoluta gravità sta nel fatto che le violenze si sono scatenate contro persone inermi (...) così da potersi dire che si era trattato di violenza non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». La cassazione ricalca dunque la Corte d’Appello di Genova allorquando, nel 2010, scrisse che la polizia aveva tenuto una «condotta cinica e sadica». E si sofferma pure sull’«odiosità» del comportamento di quei comandanti che nei mesi successivi si adoperarono per una «una scellerata operazione mistificatoria». In altre parole il comportamento delle forze dell’ordine in quei giorni del 2001 ha «gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero».

Repubblica 3.10.12
La verità e la vergogna
di Adriano Prosperi

collaboratore di LEFT

SULLA notte genovese della Scuola Diaz la sentenza numero 3885 fa finalmente chiarezza. La condotta della polizia nell’irruzione, dice la sentenza, «fu un puro esercizio di violenza». E questo lo sapevamo. Lo disse subito questo giornale che non ha più cessato di ricordarlo. Da allora la vigilanza dell’informazione democratica ha permesso che la coscienza dell’enormità dell’accaduto si facesse strada a forza nello spazio della vita civile vincendo l’incredulità più o meno faziosa e i maldestri tentativi di minimizzare.
Quel giorno ci svegliammo all’improvviso, straniati, in un Paese irriconoscibile. La scuola Diaz è diventata il luogo simbolo di una alterazione intollerabile delle regole di convivenza tale da farci vergognare di essere italiani. Dura da quella notte il senso di una mutazione del sistema Italia. “Scuola Diaz” è diventato un promemoria capace di segnare meglio di ogni altro il punto di passaggio a un diverso ciclo storico della nostra repubblica. Certo, anche nei decenni precedenti c’erano state manganellate e spari. Ma non quella macelleria senza limiti, non quei corpi e quelle teste sanguinanti, non quelle ossa rotte, non lamenti e preghiere di giovani inermi aggrediti con spaventosa violenza nel sonno e nella quiete di una notte genovese. La vita italiana fece allora un balzo verso dimensioni ignote e spaventevoli, che si faticò a definire se non col solito rinvio al nostro peggiore passato, il fascismo. Per misurare quanto diverso fosse diventato il panorama del Paese bastava pensare a quel che era accaduto negli stretti spazi dell’antica città di mare nel luglio 1960 quando da lì era venuto il segno di un rifiuto senza appello al governo clericofascista di Tambroni e al tentativo di riportare indietro un Paese ormai cresciuto nella libertà. Ma quella che si era annunciata col pestaggio della Diaz era una fase nuova e inaudita, dove lo scontro non era tra masse vigili, determinate, aggressive di manifestanti e le cariche di “alleggerimento” delle forze di polizia, ma tra uomini in divisa ebbri di violenza contro persone giovani, inermi, indifese come può esserlo chi giace nell’abbandono fiducioso del sonno. Le parole della sentenza sono proprio queste: «Le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni ». Su quelle persone, dormienti o sedute, supplici, sottomesse, fiduciose, si esercitò una violenza «non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». La sentenza va oltre questa denunzia: ci dice come e perché, e per colpa di chi, avvenne il massacro che lasciò 87 feriti anche molto gravi e insanguinò le pareti e i pavimenti di quella scuola. Leggiamola attentamente, perché una volta di più abbiamo l’occasione per imparare qualcosa sui comportamenti della polizia e sulle regole che governano corpi speciali sempre esposti per loro natura a subire l’attrazione dell’arbitrio e dell’illegalità. Sapevamo già che gli agenti erano apparsi al prefetto La Barbera in preda a un certo nervosismo, tanto da fargli pensare che si preparavano cose gravi perché, come lui disse, “ognuno conosce gli animali suoi”. Attenzione però: animali quegli uomini lo erano diventati non per la forza di un istinto naturale ma per effetto di un ordine: c’era stata l’esortazione del comandante Giovanni De Gennaro a “riscattare l’immagine della Polizia”. Dunque quei poliziotti erano stati caricati deliberatamente di un’aggressività obbligata, nutrita di senso del dovere, potenziata dall’idea dell’impunità di un corpo non soggetto alla legge, libero di superare il confine dell’illegalità perché c’era chi gli garantiva il privilegio dell’impunità. E fu proprio chi aveva la funzione del comando a creare verbali menzogneri “funzionali a sostenere così gravi accuse”, tali da giustificare arresti di massa e a indurre i pubblici ministeri a chiedere la convalida di quegli arresti.
Questo è il punto nuovo e importante che la sentenza chiarisce. Qui si sposta finalmente l’attenzione verso l’alto, verso i vertici finora lasciati in ombra e sfuggiti col silenzio o con la copertura omertosa alle loro responsabilità. E si entra nella dinamica dei corpi scelti e delle logiche dell’obbedienza che possono trasformare gli individui più banalmente normali in macellai di carne umana. Sappiamo di quali imprese furono capaci nel Terzo Reich quei buoni borghesi di Amburgo che un ordine dall’alto e una divisa fecero diventare assassini professionali, capaci di straordinaria efficienza nell’eliminare intere comunità di ebrei. E basterebbero gli esperimenti di laboratorio sui meccanismi dell’obbedienza per spiegare quali effetti possa avere un ordine impartito da un comandante di polizia a un corpo militarizzato. Sulle loro spalle gravava il compito di “riscattare l’immagine” di tutta e intera la polizia italiana. C’era stata la giornata precedente, la devastazione, i saccheggi, una gestione dell’ordine pubblico talmente disastrosa e insipiente da far pensare addirittura a una pianificazione deliberata del disordine. Fu per rimediare e cancellare errori e mancanze vergognose che De Gennaro spedì centinaia di uomini in assetto militare a compiere qualcosa di ben più vergognoso: qualcosa che, invece di riscattare l’immagine della polizia l’ha resa ancora più sporca, tanto da porre con urgenza a chi di dovere il compito di provvedere alle sanzioni opportune e necessarie. Anche perché stavolta c’è qualcosa di più importante dell’immagine di un corpo dello Stato: quel che fu compiuto allora – nota la sentenza della Cassazione – “ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. Forse, grazie anche ai magistrati della Cassazione, si può finalmente cominciare a uscire dalla notte genovese della democrazia.

Repubblica 3.10.12
Gianni De Gennaro
“Ora si dimetta da sottosegretario” sinistra e radicali tornano alla carica


ROMA — La sinistra radicale chiede la dimissioni dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, oggi nel governo Monti sottosegretario alla Sicurezza con delega ai Servizi. È l’allora portavoce del Genoa Social Forum, il medico Vittorio Agnoletto, ad attaccare: «Le motivazioni della Cassazione sulla scuola Diaz sono quasi più importanti della sentenza stessa. Chiamano in causa De Gennaro che come capo della polizia invitò gli agenti ad arresti di massa.
Le sue indicazioni hanno prevalso sul rispetto della legalità, per questo si deve dimettere ». Sostiene Agnoletto: «La Cassazione con queste motivazioni apre un’altra questione: è impensabile che il capo della polizia abbia potuto dare ordini senza consultare o almeno informare i responsabili politici e, quindi, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell’Interno Claudio Scajola. Sono loro le responsabilità politiche di quella notte». In una nota, il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, scrive: «La cosa più vergognosa è che l’allora capo della polizia Gianni De Gennaro goda ancora della fiducia della politica e rivesta ancora ruoli istituzionali di primo piano». Per i Radicali «era già parsa inopportuna la nomina dell’ex capo della polizia», scrive Marco Perduca, co-vicepresidente del Senato, «ma dopo le motivazioni della Cassazione sulla sentenza Diaz mi pare difficile che De Gennaro possa restare dov’è».

il Fatto 3.10.12
La legge anticorruzione è un’asta al ribasso
Il ministro annuncia di voler ritoccare il provvedimento sul traffico d’influenze illecite come vogliono i pidiellini
di Caterina Perniconi


Negli ultimi anni vanno di moda su internet le aste al ribasso: chi offre di meno, vince. De-v’essere questo nuovo metodo di trattativa ad aver ispirato il ministro Paola Severino quando ha deciso di reintervenire sul ddl anti-corruzione.
L’offerta del Pdl è di cancellare il traffico d’influenze illecite. Chi offre di meno? Un salva-Ruby per il Pdl. Chi offre di meno? Cinque salva-Ruby per il Pdl. Mediazione aggiudicata. Niente legge per Berlusconi, ma avete vinto la modifica del traffico d’influenze illecite. É da qui infatti che potrebbe partire la stesura del maxiemendamento del governo che per la prima volta non è più un tabù.
DOMANI la Severino darà i pareri sugli emendamenti e proporrà le correzioni su alcuni reati, come la vendita delle proprie conoscenze per ottenere favori, sulle quale ieri ha aperto: “C’è l’impegno per rimodulare le fattispecie del traffico di influenze illecite e della corruzione tra privati” ha detto il Guardasigilli, aggiudicando l’offerta al Pdl che non le ha fatto mancare un plauso. “Sulle norme equilibrate vi è l’impegno per un testo migliore ” ha chiosato il ministro, lasciando intendere che ce ne sono anche di “non equilibrate”, con esplicito riferimento alla cancellazione del reato di concussione chiesto con i cinque emendamenti detti “salva-Ruby”, nel senso di “salva Berlusconi dal processo Ruby”. Ma questo non è sufficiente a rassicurare l’esistenza di annacquare un provvedimento già molto diluito. Il traffico d’influenze illecite, secondo i magistrati, è asse portante di un provvedimento anticorruzione, norma avversata dai lobbysti che vedono a rischio la loro attività. Comunque questa potrebbe non essere l’unica modifica al disegno di legge. Ieri le due commissioni Giustizia e Affari costituzionali hanno cominciato ad esaminare gli emendamenti. Il relatore del Pd, Stefano Ceccanti, prima della fine della riunione è uscito dalla saletta del piano terra di Palazzo Madama e se n’è andato: “Non ho mica tutto questo tempo da perdere – ha detto scappando in aula – illustrano queste modifiche come fossero cose serie, non sono credibili”. É rimasta invece Silvia della Monica, anche lei Pd: “Nonostante tutto sono stati sottotono quelli del Pdl – ha spiegato – davanti al ministro non avevano scelta”.
Ieri sera seduta notturna, oggi la fine dell’esame degli emendamenti e domani il parere del ministro. Il presidente del Senato vorrebbe chiudere la partita entro due settimane, contando in un maxiemendamento e a quel punto nella fiducia. Ma la posizione ufficiale del Pd non è conciliante:
“Leggo che il Pdl dice sì ad accelerare i tempi di approvazione del ddl anticorruzione perchè il governo acconsentirebbe ad alcune modifiche. Sia chiaro che non ci facciamo prendere in giro” ha dichiarato senza tanti giri di parole la presidente dei senatori democratici, Anna Finocchiaro, che poi ha insinuato un dubbio lapalissiano: “Mi chiedo se il vero problema per cui il Pdl è così ostile a questo testo sia davvero nel traffico di influenze illecite o se invece la questione centrale non sia nel regime di incandidabilità e incompatibilità per coloro i quali hanno i problemi con la giustizia”.
Ancora più dura l’Idv con il capogruppo Felice Belisario: “Sarebbe criminale fare un regalo a corrotti e corruttori approvando un testo non solo del tutto inefficace, ma addirittura pro corruzione”.
LA METAFORA del leader dell’Italia dei valori, Antonio Di Pietro, spiega il peso del provvedimento: “Assomiglia alla classica montagna che ha partorito il topolino. Nel ddl mancano infatti il reato di autoriciclaggio e quello di corruzione tra privati. Inoltre, vogliono eliminare la concussione per induzione, vale a dire il reato tipico dei politici e dei pubblici ufficiali, ridurre i tempi della prescrizione e non è stata prevista la reintroduzione della norma sul falso in bilancio”. Una lista che delinea all’orizzonte un traguardo assai lontano da quello che ci chiede l’Europa.

l’Unità 3.10.12
Il Pd e le alleanze per l’Europa federale
di Pier Virgilio Dastoli

Presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo

DOPO MOLTE INCERTEZZE, IL PD HA PRESO NETTAMENTE POSIZIONE ATTRAVERSO IL SUO SEGRETARIO PER LA TRASFORMAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA IN UNO STATO FEDERALE, optando per il ruolo costituente del Parlamento europeo. L’ha fatto nella «carta di intenti» e l’ha confermato nel discorso che Pier Luigi Bersani ha rivolto il 28 settembre a Bruxelles ai militanti del Pd dal titolo significativo «i democratici per gli Stati Uniti d’Europa». La via verso gli Stati Uniti d’Europa è tuttavia disseminata di ostacoli e occorre dotarsi di attrezzi adeguati per superarli uno dopo l’altro. In primo luogo, il Pd deve essere convinto che la scelta dell’Europa federale come progetto e del ruolo costituente del Parlamento europeo come metodo rappresenta una priorità strategica sulla quale occorre creare alleanze governative e parlamentari già a partire dalle elezioni legislative in Italia nella prossima primavera. Se una scelta è strategica, essa deve coinvolgere tutte le istanze del Pd, in Italia e in Europa, sapendo come ha scritto Giuliano Amato che non si può continuare a far procedere l’Europa con la maschera sul viso «arrivando zitti zitti a renderla più o meno federale senza che nessuno se ne accorga».
Si tratta di una scelta politica e non tecnica, destinata a dividere i partiti e dunque l’opinione pubblica anche in Italia e la coesione convinta del Pd su questo terreno è essenziale nei rapporti con le altre forze politiche. I conservatori che s’identificano nel Pdl e nella Lega insieme agli altri gruppuscoli di destra ed estrema destra cavalcheranno il populismo nazionalista e questa è una ragione discriminante per respingere in partenza l’ipotesi di un rinnovamento della «strana» maggioranza che sostiene oggi il governo Monti.
Ma questo discorso vale anche per una parte importante delle forze economiche e culturali che si stanno muovendo per il prolungamento nella prossima legislatura della «agenda Monti». Che alleanza è mai possibile con il gruppo «liberale» di Oscar Giannino convinto che il declino si ferma e la crescita si garantisce solo all’interno dei confini nazionali? Sappiamo poi che nella «agenda Monti» non ha trovato per ora posto la scelta federale europea e che anzi lo stesso Monti ha ripetuto a più riprese che essa non fa parte delle priorità del suo governo. Ha scritto Eugenio Scalfari che Monti non è disponibile per qualsiasi maggioranza ma per quella «sin d’ora schierata per un futuro Stato federale europeo» e non sappiamo da quale atto del governo o da quale dichiarazione Scalfari abbia tratto questa convinzione ma saremo naturalmente felici di essere smentiti. Questa maggioranza è tutta da costruire ed è auspicabile che, come avviene in altri Paesi europei, lo schieramento degli innovatori-federalisti sia più ampio di quello che sosterrà il futuro governo italiano comprendendo anche i radicali di Emma Bonino e la galassia dei verdi che si riconoscono nell’eredità politica di Alex Langer e Adelaide Aglietta fino a una parte della sinistra radicale e dei movimenti cattolici.
Ancora più difficile appare la costruzione delle alleanze in Europa conoscendo le divisioni nelle famiglie politiche europee socialista, popolare, liberale, verde e di sinistra radicale. Il Movimento europeo ha condiviso e anzi ha stimolato le forze politiche e le organizzazioni della società civile ad abbracciare la causa dell’elezione a suffragio universale e diretto di un’assemblea costituente e questa scelta è stata sostenuta nel Pd da Gianni Pittella e Sandro Gozi insieme a Monica Frassoni fra i Verdi. Appare evidente che essa non sarà fatta propria dai governi foss’anche quelli dell’eurozona o ancor meno dall’insieme dei cinque governi a guida socialista nell’Unione europea essendo tutti i ventisette governi convinti che essi sono i «padroni» dei trattati. Il movimento per un’assemblea costituente deve nascere dal basso ed è già importante che molte organizzazioni della società civile intendano cogliere l’occasione di «Firenze 10+10» dall’8 all’11 novembre per coniugare democrazia sovranazionale e assemblea costituente.
Il silenzio assordante del Parlamento europeo con rare eccezioni sul rilancio a breve termine del processo costituente europeo e la convinzione diffusa fra i deputati europei che si dovrà accettare un vuoto d’iniziativa politica costituente fino alla primavera del 2015 lasciando ai governi il compito di decidere su integrazione bancaria, fiscale ed economica non è un certo un buon segnale. Questo vuoto rischia di essere riempito da progetti molto simili al «fiscal compact» o da pericolose scorciatoie prive di legittimità democratica come l’idea tutta tedesca di un bilancio centrale dell’eurozona con risorse finanziarie incerte, assenza di governance sovranazionale e disprezzo del principio «no taxation without representation». Se la strada dell’elezione diretta dell’assemblea costituente fosse inesorabilmente sbarrata, occorrebbe iniziare un percorso che ci conduca ad attribuire al Parlamento europeo che sarà eletto nel giugno 2014 un ruolo costituente ispirandosi alle idee di Altiero Spinelli e ricordando che il neo-deputato europeo Willy Brandt era convinto che esso fosse un’assemblea costituente permanente. Gli innovatori europei dovrebbero avviare una riflessione e poi un’iniziativa urgente su questo percorso che potrebbe seguire o la strada solitaria imboccata dall’Italia con il referendum consultivo del 1989 o le assise interparlamentari sul futuro dell’Europa preconizzate da François Mitterrand alla vigilia della caduta del Muro di Berlino e poi svoltesi a Roma nel novembre 1990 o la Convenzione prevista dal Trattato di Lisbona con il compito limitato alla definizione politica del quadro costituzionale su cui dovrà poi lavorare il Parlamento europeo eletto nel 2014.

Corriere 3.10.12
Costituzione egiziana I diritti delle donne nel mirino dei religiosi
di Cecilia Zecchinelli

Che «i musulmani odino le donne» è un'affermazione perlomeno azzardata: la teoria sostenuta (anche) dalla discussa blogger americana-egiziana Mona Eltahawy è stata respinta perfino da molte femministe arabe. Ma che i salafiti nostalgici dei tempi di Maometto vogliano cancellare decenni di conquiste femminili è altrettanto evidente. Quanto sta avvenendo in Egitto lo dimostra al di là di ogni interpretazione: la commissione costituente che sta discutendo la nuova Carta, mesi dopo la soppressione di quella «di Mubarak», è diventata teatro di uno scontro mai visto sul Nilo. Gli estremisti islamici non sempre violenti ma comunque fautori della sharia nell'interpretazione più retriva, vogliono imporre una serie di norme che vanno dall'abolizione del minimo di 18 anni per il matrimonio delle ragazze alla depenalizzazione delle mutilazioni genitali femminili, da considerare una «questione privata». Non perseguibili devono essere le molestie sessuali alle donne («Stiano a casa»). Soprattutto: l'obbligo per lo Stato di «cercare la parità dei diritti tra i sessi» va cancellato, perché «anti-islamico».
I resoconti delle riunioni della costituente di 100 membri, in cui salafiti e Fratelli musulmani sono maggioranza, hanno causato indignazione sui media, dimissioni avvenute o minacciate di esperti, proteste (anche ieri). E come le manifestazioni violente anti-Usa per il video sul Profeta, sostenute sempre dai salafiti, stanno creando serie difficoltà al raìs-fratello musulmano Mohammed Morsi che ha promesso moderazione e rispetto delle «minoranze» (donne e cristiani). Ma che non riesce a gestire, o così pare, la crescente forza degli integralisti. «Una situazione sgradevole», ha dichiarato diplomaticamente Ahmed Maher, leader del 6 aprile ovvero il più importante movimento di Tahrir, che pur di cambiare sistema aveva votato per Morsi. Ma poi ha aggiunto che intende lasciare la costituente con almeno altri sei «membri laici».
L'offensiva dei salafiti non sorprende: già all'indomani della caduta di Mubarak, febbraio 2011, molte voci s'erano levate contro le «leggi di Suzanne». L'ex first lady, odiata dalla rivoluzione quanto il marito, sul fronte dei diritti di donne e bambini aveva però fatto molto. Oltre alle leggi contro le spose bambine e le mutilazioni, era riuscita a introdurre norme soprattutto a favore delle divorziate, alzando ad esempio a 15 anni l'età dell'affido dei figli alle madri. Con l'alibi che fu voluto da Suzanne Mubarak, ora tutto questo rischia di venir cancellato. Ma non solo questo.
La costituente, che l'Alta Corte potrebbe dissolvere il 9 ottobre per complicate questioni legali, sta dibattendo norme restrittive sulla libertà d'espressione, di ricerca scientifica e di culto, andando perfino contro alle posizioni di Al Azhar, la massima autorità religiosa. «È un'involuzione scioccante — ha commentato Mohamed Salmawy, noto scrittore e direttore del Comitato per la difesa della libertà d'espressione —. Questa gente è perfino più arretrata di quelli al potere con Mubarak».

Corriere 3.10.12
L’uso troppo inflazionato della parola terrorismo

risponde Sergio Romano

Ho letto e condiviso gran parte della sua risposta alla lettera sul terrorismo islamico. Ma sono stato colpito dall'elenco dei terroristi «non islamici». Lei parla delle Br italiane e tedesche, Ira ed Eta, giapponesi con il veleno nella metropolitana e i serbi di Mladic. Se escludiamo i terroristi giapponesi e i serbi, vengono citate tutte o quasi tutte sigle che compivano atti contro il sistema occidentale. Si dimentica di alcuni altri terroristi chiaramente razzisti e di destra quali Oas francese, i Nar di Fumagalli, Gladio, solo per citare i più noti. Inoltre non so come lei giudichi gli atti terroristici compiuti da militari appartenenti a uno Stato: la politica di Israele; gli interventi Usa nelle aree che interessano per il petrolio o per il controllo geopolitico del globo (ad esempio gli eccidi con i «droni» in Afghanistan e Pakistan).
Carlo Amodeo

Caro Amodeo,
Non volevo compilare una lista completa delle maggiori organizzazioni terroristiche, ma in effetti avrei potuto citare, insieme ai Nar (Nuclei armati rivoluzionari), l'Oas, Organisation de l'Armée secrète, costituita da alcuni uomini politici e ufficiali delle forze armate francesi che si erano ribellati alla politica algerina del generale De Gaulle. Il suo principale attentato ebbe luogo il 22 agosto 1962, pochi mesi dopo gli accordi di Évian con cui la Francia aveva riconosciuto l'indipendenza dell'Algeria. Gli attentatori (un commando composto da una dozzina di persone e guidato da un tenente colonnello) aprirono il fuoco contro la vettura che portava De Gaulle e sua moglie all'aeroporto militare di Villacoublay. La vettura fu ripetutamente colpita, ma l'autista riuscì, con un colpo d'acceleratore, a raggiungere l'aeroporto. Il regista dell'attentato, Jean-Marie Bastien-Thiry, fu arrestato, condannato a morte e passato per le armi.
Quanto a Gladio, caro Amodeo, aspetto che qualche storico ci dica con precisione e distacco quale fu il ruolo di questa formazione segreta in quella che venne definita «strategia della tensione». Nelle intenzioni dei fondatori era il nucleo dei corpi partigiani che avrebbero combattuto contro le forze del Patto di Varsavia se queste fossero riuscite a penetrare in un Paese dell'Alleanza.
Non avrei mai incluso nella lista, invece, gli «Stati terroristi». Se lei pensa alle violenze subite dalle popolazioni civili durante la Seconda guerra mondiale, devo ricordarle che nessuna delle maggiori potenze si astenne dal bombardare «a tappeto» le città del nemico. Se lei allude al brutale trattamento dei prigionieri di guerra e alla politica genocida perseguita contro gruppi etnici o religiosi, questi sono crimini di guerra che dovrebbero essere perseguiti come tali. Se lei si riferisce alle operazioni «coperte» dei servizi d'intelligence contro uno Stato nemico (uccisioni mirate, operazioni di guerra cibernetica, sabotaggio di servizi pubblici e azioni provocatorie di varia natura), non credo che bastino a definire terroristici gli Stati da cui sono compiute. Qualche anno fa, dopo l'11 settembre, uno studioso americano, Walter Laqueur, scrisse un libro (Il nuovo terrorismo, Corbaccio 2002) in cui spiegò che esistono circa centocinquanta definizioni di terrorismo. L'uso della parola, quindi, è molto inflazionato; e l'espressione «Stato terrorista», in particolare, è ormai l'etichetta frequentemente usata, anche dagli Stati Uniti, per screditare e disumanizzare il Paese con cui esistono divergenze apparentemente insormontabili. Qualcosa del genere è accaduto per «fascista», una parola tuttofare che rendeva inutile qualsiasi ulteriore analisi delle ragioni del contrasto e consentiva a chi se ne serviva di trattare il nemico come una belva contro la quale tutto è lecito.

l’Unità 3.10.12
Il futuro? Va riscritto
L’ideologia del presente ci porterà alla rovina
Si va verso un’oligarchia planetaria a tre classi: chi possiede, chi consuma, gli esclusi. Ma si può cambiare ispirandosi alla scienza che apre continuamente nuove prospettive
di Marc Augé


PARIGI OGGI VIVIAMO IN UN MONDO GOVERNATO IN APPARENZA DALL’ISTANTANEITÀ E DALL’UBIQUITÀ. UN COMPITO URGENTE PER NOI TUTTI SAREBBE QUELLO DI IMPARARE DI NUOVO A PENSARE IL TEMPO E, DUNQUE, A RISCOPRIRE UNA PRECISA IDEA DI FUTURO. CERTO, SENZA CEDERE ALLE ILLUSIONI UTOPICHE DEL XXI SECOLO, ma resistendo anche agli effetti deleteri dell’attuale «ideologia del presente».
L’illusione della «fine della storia» (Francis Fukujama) costituisce senza dubbio l’ultima illusione, l’ultima «grande narrazione», tipo quelle del XIX secolo. In effetti, questa visione della democrazia planetaria come combinazione della democrazia rappresentativa e del libero mercato non corrisponde né alla situazione attuale né alle tendenze che vediamo svilupparsi. Ci incamminiamo, piuttosto, verso un’oligarchia planetaria a tre classi: coloro che possiedono, coloro che consumano e gli esclusi. L’accesso all’agiatezza economica e alla conoscenza è confiscato da un élite planetaria. Tra l’altro anche le dittature politiche si adattano bene al libero mercato.
Cosa fare? Resistere tanto alle dottrine che ci chiudono nel passato quanto a quelle che fantasticano sul futuro. Resistere alle illusioni dell’istantaneità. Pensare sia il presente che il futuro ricordandosi che la nostra azione quotidiana ha esito positivo solo se apre prospettive ad un avvenire possibile. Ispirarsi in tutti i campi alla umiltà della scienza, che sposta continuamente le frontiere dell’ignoto. Immaginare un esistenzialismo politico capace di non cedere alla tentazione di applicare modelli preconcetti. E conservare, con l’ideale di universalità, la capacità di non perdere di vista la triplice dimensione dell’uomo: individuale, culturale, generico. Solo una rivoluzione dell’educazione per tutti permetterebbe di realizzare pienamente un tale progetto. È un’utopia, ma può aiutare a definire delle priorità e a lottare per la loro realizzazione.
Non si può dire né che i diritti dell’uomo siano appannaggio di un solo paese o di una particolare cultura anche se la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino è datata, e storicamente collegata alla Rivoluzione francese né che essi siano comunque riconosciuti e rispettati da ciascuna cultura e da qualsiasi regime politico. Nessun regime politico ne realizza completamente l’ideale. Ma, evidentemente, ci sono delle notevoli differenze da questo punto di vista: tra i diversi regimi, tra l’importanza che essi danno alle tradizioni religiose o culturali, tra queste stesse tradizioni e, ancor di più, tra le interpretazioni e gli usi che di esse sono stati fatti. Tutto questo diventa evidente nel momento in cui si considera la libertà formalmente riconosciuta e concretamente garantita a tutti gli individui, indipendentemente dal sesso, dalla loro origine e dalle loro opinioni.
Tutto ciò rimanda a un compito non facile, poiché vi sono potenti personalità gli oligarchi della globalità che incarnano oggi il successo politico, economico o mediatico e le forme di resistenza che ad essi si oppongono passano spesso attraverso dei riferimenti culturali o adesioni religiose alienanti.
Un circolo vizioso dunque, imputabile al fatto che in entrambi i casi è l’uguaglianza tra individui ad essere fondamentalmente negata, anche se è l’unica garanzia della loro sovranità e l’unica spinta alla loro libertà.
Traduzione di Anne-Marie Bruyas

Dal 4 a Napoli domande e risposte sul domani
Marc Augé, etnologo, antropologo e studioso di scienze sociali, terrà domani una lectio magistralis dal titolo Cosa sarà dell’uomo? (qui ne anticipiamo un brano) in apertura dei lavori de I comandamenti per il XXI secolo, due giorni di dibattiti sul futuro prossimo del pianeta. Gli incontri, a cui Augé partecipa grazie a Le Grenoble Institut Français de Naples, si svolgono alla Città della Scienza di Napoli e fanno parte della 26a edizione di Futuro Remoto (fino al 4 novembre) quest’anno dedicata alla ricerca aerospaziale. Insieme a Augé saranno presenti personalità del mondo della cultura, della scienza, dell’imprenditoria per cercare di rispondere ai quesiti che l’accelerazione della storia ci pone: quale sarà il futuro del pianeta? Come si svilupperà la società umana? Vivremo finalmente in pace o i conflitti aumenteranno? Come andrà l’economia? E, soprattutto, cosa possiamo fare per costruire un futuro desiderabile?

Corriere 3.10.12
La via solitaria di Riccardo Bauer
di Sergio Romano


Dopo la fine della guerra, quando Milano liberata fu per parecchi mesi un frenetico laboratorio di idee e progetti democratici, una delle persone in cui mi imbattevo più frequentemente, passando dalla lettura di un giornale a un pubblico dibattito, si chiamava Riccardo Bauer.
Era nato nel 1896, era stato volontario nella Grande Guerra, aveva collaborato a «La Rivoluzione liberale», la rivista di Piero Gobetti, e fondato con Carlo Rosselli, nel 1924, un settimanale antifascista, «Il Caffè». Dopo l'avvento del regime aveva organizzato la fuga di Filippo Turati in Francia, fondato con Rosselli il movimento Giustizia e Libertà e impiegato una buona parte degli anni seguenti passando da un carcere all'altro, da un confino all'altro. Liberato nel 1943, era divenuto uno dei maggiori esponenti del Partito d'Azione e aveva diretto la giunta militare del Comitato di liberazione nazionale.
Poche persone possedevano allora, in tale misura, tutti gli ingredienti necessari per una brillante carriera politica nello Stato repubblicano: cultura, esperienza, talento organizzativo, una penna polemica, doti oratorie, passione. Ebbene, quest'uomo che sembrava destinato a un ruolo parlamentare e a incarichi di governo, decise di uscire dalla fila. Non rinunciò alla politica, ma decise di farla «dal basso» scrivendo, animando molte battaglie riformiste e soprattutto dirigendo la Società Umanitaria, cuore della cultura positivista e democratica milanese sino all'avvento del fascismo. È probabile che una delle ragioni della scelta fosse il fallimento del Partito d'Azione, in cui aveva riposto le sue speranze. Ma Bauer avrebbe potuto imitare quegli azionisti del gruppo dirigente che si sparpagliarono fra gli altri partiti della sinistra democratica. Scelse invece un'altra strada, più libera e solitaria. I motivi della scelta sono in una raccolta di scritti inediti pubblicati presso le edizioni Raccolto per iniziativa di un comitato scientifico di cui fanno parte Piero Amos Nannini, Arturo Colombo, Morris L. Ghezzi, Daniele Vola. S'intitola Pesci in faccia perché questa è la frase con cui Bauer definiva lo stile del polemista a cui non piace tirare di scherma con i fioretti che hanno un bottone di cuoio sulla punta. In un Paese nuovamente democratico ma come sempre incline ad accordi di convenienza, patteggiamenti e compromessi, Riccardo Bauer avrebbe parlato chiaro.
Dalla scelta degli argomenti a cui dedicò le sue note polemiche fra il 1951 e il 1958, il lettore concluderà rapidamente che l'Italia, come andava prendendo forma dopo le elezioni del 1948 e del 1953, non era quella delle sue aspettative. Non gli piaceva che la Chiesa si servisse della Democrazia cristiana per estendere la sua influenza sulla società nazionale. Non gli piaceva lo stile di De Gasperi, a suo giudizio troppo morbido e accomodante. Non gli piaceva che la questione di Trieste risvegliasse gli umori nazionalisti del Paese. Non gli piaceva che il Partito comunista avesse la sua casa madre fuori dell'Italia e che riservasse a Stalin una «feticistica esaltazione». Ma non gli piaceva neppure l'America conservatrice di Dwight Eisenhower e Richard Nixon, eletti alla presidenza e alla vicepresidenza nel 1952. La sua maggiore indignazione, tuttavia, è riservata agli scandali, come il caso Montesi, ai misteri, come quello della morte di Salvatore Giuliano, agli esempi sempre più frequenti di affarismo, corruzione, voti conquistati con favori clientelari. Vi sono pagine in cui il lettore dimentica la data degli avvenimenti commentati da Bauer e ha l'impressione di leggere cronache contemporanee. Suggerisco, in particolare, la lettura di una nota dedicata alla discussione della Camera e del Senato su una legge che si proponeva di rendere incompatibile la funzione dei legislatori con quella di «amministratori di enti sottoposti al controllo dello Stato o riceventi dallo Stato finanziamenti e contributi». Molti parlamentari obiettavano che una tale legge avrebbe gettato sul Parlamento un'ombra di dubbio, lo avrebbe umiliato e screditato. Il problema affrontato dalla legge era di costume morale: meglio quindi lasciare la questione alla sensibilità morale dei singoli parlamentari.
Riccardo Bauer commentò: «Chi così argomenta però non si piglia la briga di misurare il grado della sensibilità morale dei nostri parlamentari, di vedere sino a che punto quell'invocato costume sia effettivo». La nota porta la data del 28 gennaio 1953, quasi sessant'anni. Vi sono state da allora alcune leggi sull'incompatibilità, ma l'Italia è ancora il Paese in cui l'avvocato parlamentare può continuare a fare l'avvocato, magari del presidente del Consiglio. Bauer redivivo non avrebbe da aggiungere nulla alle sue parole di allora.

Corriere 3.10.12
Il mercato ama la stabilità (ma non sempre)
di Salvatore Bragantini


Sui mercati vige da cinque anni una legge marziale: la stabilità prima di tutto. Non ci sono alternative, ma le conseguenze sono rilevanti, nelle banche e nelle società. Speriamo che l'Europa — cui tale ruolo naturalmente spetta — riesca a far nascere, anche grazie al suo rapporto Liikanen uscito ieri, un assetto nuovo.
Riassunto delle puntate precedenti: dopo lo sconquasso del fallimento Lehman lo Stato non deve più esser chiamato a salvare chi è troppo grande per fallire (Tgpf). Si è perciò deciso di innalzare i livelli di capitale delle banche, il che è logico ma anche paradossale; perché non si sia costretti a salvare i giganti Tgpf, il loro capitale deve essere così grande da non poter fallire... Ciò può anche aumentare i rischi: chi truccasse bene i coefficienti di ponderazione dell'attivo farebbe un botto ancora peggiore.
Sono però strumentali i pianti delle banche. È falso che esse non possano remunerare nuovi capitali, se costrette a ridurre la leva finanziaria; comunque, finché non si cambia assetto, nell'interesse pubblico non si può far altro. Lo scenario muterebbe se si riuscisse a spezzare i giganti bancari ingovernabili (e ingovernati) e ad evitare che i depositi garantiti dagli Stati finanzino qualsiasi scommessa. Anche su questi temi interviene il rapporto Liikanen. È poi essenziale che parta l'assicurazione europea sui depositi (oggi solo nazionale), concordata nel Vertice di fine giugno, ma di cui non si parla più: deve finire la sceneggiata delle mezze decisioni dei Vertici, prese all'alba quando bisogna chiudere (tanto ci sarà tempo per rimangiarsi tutto). Oggi è imperativo alzare il capitale delle banche; la legge marziale privilegia la stabilità, ma la cura ha seri effetti collaterali. Un vasto corpus di norme, pur vigente, è «in sonno», subordinato all'imperativo: si parla poco, ormai, di correttezza degli intermediari (banche e gestori), trasparenza di assetti proprietari, diritti degli azionisti, governo societario. Per evitare oneri agli Stati si abbassa la guardia su come le banche costruiscono e collocano i titoli con cui si finanziano; i manager agitano il rischio di scalate ostili (per loro); si coartano i diritti degli azionisti; le Offerte pubbliche d'acquisto sono un optional fuori moda; la maggior partecipazione dei Fondi comuni in assemblea, favorita da modifiche di legge indotte dalla Ue, fa paura.
Le norme «in sonno», però, sono essenziali a un'economia di mercato; essa è minata alla base se, non potendo gli intermediari fallire, perde la sua sanzione. Sarà il capitale la nuova «variabile indipendente»? Noi invece vogliamo l'economia di mercato; questa s'ammala se i prezzi degli asset possono andare solo su, e quando scendono devono subito risalire. Un conto è la deflazione, un altro la normale dinamica di mercato. Una finanza ottusa costringe le banche centrali ad immettere liquidità. Incapace di distinguere, il gregge va a strappi: oggi risk on e compra tutto, domani risk off e vende tutto, senza cercare quel che è bene comprare anche se tutti vendono, o viceversa. Se il mercato non discerne, si allestisce da solo cocenti delusioni; è per cercare di pararle che le banche centrali sono costrette in ruoli inusuali. Ciò congela l'assetto sociale e ne frena il ricambio, già di per sé lento. La stabilità tende a scivolare nell'immobilità, il che è pure costoso, dati certi pingui emolumenti. Ce lo ricorda la Banca d'Italia, che chiede anche migliori controlli sui vertici delle popolari (tanti li occupavano già quando al Cremlino c'era Andropov).
Dall'imperativo della stabilità derivano anche altre conseguenze: le banche devono avere attività molto liquide e con prezzi non volatili. Ciò ridurrà il loro sostegno alle Pmi, spina dorsale dell'economia europea. Anche assicurazioni, Fondi comuni e Fondi pensione sempre più investiranno nelle blue chip, velocemente liquidabili (o così si crede), e meno nelle Pmi; ne soffriranno, nel tempo, anche i rendimenti per investitori e assicurati.
L'immissione di liquidità in diversi Stati — ora anche in Cina — induce molti, come il ministro brasiliano Mantega a vederci intenti di svalutazione, utili a una guerra protezionistica, e minaccia ritorsioni. Chissà, magari fra qualche anno, appunto come dopo una guerra, i Paesi sviluppati, tutti superindebitati, ne usciranno con un poco (nelle intenzioni) d'inflazione in più, buttando avanti la palla per digerire a tassi ragionevoli e a scadenze lunghe l'eccesso di debito accumulato. Manifestazione suprema, e finale, di repressione finanziaria.
Mancano per ora alternative praticabili, e difatti il presidente della Bundesbank, contrario a tutto, si rifugia in citazioni faustiane. Spetta naturaliter alla leadership europea un compito infernale: sbrogliare la matassa, riportando i mercati al loro compito, scegliere quali imprese e famiglie finanziare. In questa direzione spinge anche il rapporto Liikanen. Se non ci riuscirà, l'avversione al rischio, che il perdurare indefinito della legge marziale porta con sé, ci farà male.

Corriere 3.10.12
Lo Stato «buono» divora i figli
La denuncia di Minogue: l'etica del welfare uccide la libertà
di Paolo Valentino


Aveva probabilmente ragione Winston Churchill, quando argomentava che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora. Ma il grande premier britannico non avrebbe mai immaginato che il suo livello qualitativo sarebbe sceso così in basso, al punto da metterne in discussione le fondamenta. E forse Churchill avrebbe condiviso molte delle critiche incendiarie e delle preoccupazioni, che Kenneth Minogue, professore emerito di Scienze politiche alla London School of Economics, formula in La mente servile. Come la democrazia erode la vita morale, uscito due anni fa in Gran Bretagna e Stati Uniti, ora finalmente pubblicato in Italia da Ibl Libri, con una prefazione di Franco Debenedetti.
Minogue, che intervistai su questi temi per il «Corriere» l'anno scorso, ha bisogno di una piccola introduzione. La sua denuncia del progressismo radicale data infatti dal 1963, quando in totale controtendenza allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, mise in guardia dalla «nozione che la storia richieda il perfezionamento della società umana». In The Liberal Mind (disponibile in Italia presso Liberilibri col titolo La mente liberal) lo studioso ammoniva: «Una popolazione che affidi il suo ordine morale ai governi, per quanto impeccabile la motivazione, diventerà dipendente e servile».
È passato mezzo secolo e Minogue vede avverata la sua profezia. La mente servile, scrive l'autore, è «un'inchiesta sul carattere delle illusioni in politica o almeno nelle moderne democrazie». Il problema di Minogue è molto specifico: «Mentre democrazia significa un governo che risponde all'elettorato, oggi i nostri governanti pretendono che siamo noi a rispondere a loro. Quasi tutti gli Stati occidentali non vogliono che fumi, che mangi alimenti poco sani, che vada alla caccia alla volpe o beva troppo». Ai cittadini viene rimproverato di fare troppi debiti, di essere intemperanti verso persone di altra razza, cultura o religione, di non essere buoni educatori dei figli. Riassumendo, «vivere in una democrazia nel XXI secolo significa ricevere una serie di messaggi "educativi" da parte dell'autorità costituita», che delibera per nostro conto, pretende di dirci come vivere in modo politicamente corretto, vuole risolvere i problemi per noi.
L'interrogativo sollevato da Minogue è inquietante: può la vita morale sopravvivere alla democrazia? Dove per vita morale l'autore intende «la dimensione dell'esperienza interiore in cui stabiliamo quali siano i nostri doveri nei confronti di genitori, figli, datori di lavoro, sconosciuti, organizzazioni di beneficienza, società sportive, realtà che compongono il nostro mondo». Il cruccio dello studioso è che oggi questo elemento della nostra umanità «sia espropriato dallo Stato», producendo un effetto disumanizzante che egli definisce appunto «la mente servile».
Nel racconto di Minogue, nulla ha contribuito di più alla cristallizzazione di questa forma mentis della creazione del Welfare State, frutto dell'idealismo politico, cioè della «convinzione di poter cambiare la società e del dovere politico-morale di farlo per renderla più egualitaria in termini di reddito disponibile e socialmente più giusta». Come scrive Debenedetti nella sua prefazione, «con il welfare, l'individuo si spoglia della responsabilità personale di provvedere come crede al proprio futuro e di assicurarsi contro gli eventi negativi della vita e la delega allo Stato». Assistiamo quindi a una sorta di baratto scellerato e illusorio: meno libertà e meno capacità di giudizio morale in cambio di più diritti per i cittadini. Più potere e competenze invasive in cambio di più oneri, alla lunga insostenibili, per gli Stati.
Minogue non ha ricette, si limita a descrivere una deriva che considera perniciosa e progressivamente distruttiva: «Attenzione, la nazionalizzazione della vita morale è il primo passo verso il totalitarismo». Condivisibile o meno, la sua è l'analisi onesta di un grande conservatore. Il quale però non risparmia nessuno. «L'idealismo politico non è solo di sinistra — aveva detto nell'intervista —, ne esiste anche una versione di destra, che consiglia di concedere più benefit, mentre quella di sinistra pretende di individuare e soddisfare bisogni essenziali. In entrambi i casi, più lo Stato concede, più aumenta il suo controllo. Prenda le università, ben felici in passato di ricevere fondi, espandersi, assumere altri docenti, creare nuovi insegnamenti. Oggi lo Stato le controlla e dice loro che cosa e come insegnare».
Per Minogue, l'idealismo politico, premessa intellettuale dello Stato sociale, è la causa profonda della crisi dell'Europa, che lui riassume nelle tre «D»: debito, demografia, democrazia.

il Fatto 3.10.12
Galileo, il più grande scrittore italiano
La sua lezione: Poesia e conoscenza non si escludono a vicenda
di Piergiorgio Odifreddi


Anticipiamo parte della lectio magistralis con cui il matematico Piergiorgio Odifreddi inaugurerà domani l’Internet Festival di Pisa

Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza. Peccato però che l’affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste. Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: “Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore”. Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica”. Il secondo, esterno, notava che “Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto”, e che “Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte”. In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un’ideale linea di forza della nostra letteratura. Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un’interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna. Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo : “quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e intrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo’”.
La “scrittura rampante” del Dialogo sui massimi sistemi
Nelle ultime righe del Barone rampante si legge “Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”. E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del
Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Benigni declama i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l’altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo? In fondo, “a voler dir lo vero”, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche della Commedia a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico. Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano. La nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperi-menti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista.
Sulla Luna prima di Leopardi. E sulle leggi dell’universo prima di Einstein
Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell’elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro. Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d’evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell’uso che Galileo fa della Luna. Prima di lui, e fino all’Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d’acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all’ippogrifo dell’Orlando Furioso.
Portiamo pure a teatro Dante. Ma insieme a Newton e Galileo
Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né Keplero hanno avuto bisogno di andarci di persona per capire come si sarebbe vista la Terra dalla Luna, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica. I poeti dell’inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c’`e. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo continuava a scrivere nel 1819 che la Luna “da nessuno cader fu vista mai se non in sogno”, benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che “la Luna cade continuamente verso la Terra”, ma aveva anche calcolato esattamente di quando essa cade. . Che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell’Universo: una poesia che “intender non la puo’ chi non la prova”, e che “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritta”.

Corriere 3.10.12
«La vita sulla Terra portata da meteoriti»
Lo studio sulle origini della vita «Arrivò sulla Terra dallo spazio»
Nacque su altri pianeti, poi viaggiò attraverso i meteoriti
di Massimo Piattelli Palmarini


Scoperta rivoluzionaria da parte di un gruppo di astrofisici: microorganismi trasportati sulla Terra da frammenti di meteoriti provenienti da altri pianeti possono essere stati il germe primigenio della vita sul nostro pianeta.

Al Congresso europeo di Scienza planetaria che è tenuto in questi giorni a Madrid, un gruppo di astrofisici dell'Università di Princeton, dell'Università dell'Arizona e del Centro spagnolo di Astrobiologia ha presentato una scoperta che possiamo veramente considerare rivoluzionaria. Detto in modo molto succinto, microorganismi trasportati sulla Terra da frammenti di meteoriti provenienti da altri pianeti possono essere stati il germe primigenio della vita sul nostro pianeta.
Uno degli autori di questa scoperta, la professoressa Renu Malhotra, titolare della cattedra di Scienze planetarie e presidente del programma di Astrofisica teorica all'Università dell'Arizona, mi dice: «Il Sole si è formato circa quattro miliardi e mezzo di anni orsono, entro un ammasso stellare comprendente poche migliaia di stelle. Tale ammasso si è poi disperso in stelle singole alcune centinaia di milioni di anni fa. Con i nostri lavori, corredati da calcoli, abbiamo concluso che delle rocce proiettate all'esterno da un sistema planetario hanno viaggiato nello spazio con velocità molto diverse le une dalle altre. Alcune di queste rocce interplanetarie (poche, ma in una percentuale non trascurabile, circa l'uno per mille) viaggiavano a velocità modeste. Proprio grazie alla loro ridotta velocità avevano alta probabilità di essere catturate da un sistema planetario vicino, quando ancora l'ammasso stellare e i pianeti erano in stato nascente». Usa un termine lungo e complesso, ma che cattura l'immaginazione: litopanspermia. Ovvero la disseminazione ovunque nello spazio di spore di vita trasportate da rocce. Tale idea, in realtà piuttosto antica, era stata fino ad adesso quanto meno ricevuta con notevole scetticismo. La studiosa, infatti, ribadisce: «I precedenti studi di astrofisica avevano escluso che un simile scambio inter-planetario di rocce avesse potuto verificarsi. Ma si basavano sulla velocità media delle rocce, piuttosto elevata, non sulla bassa velocità di alcune di queste». Fino a pochissimi anni fa, infatti, si escludeva che un pianeta potesse, con la sua sola forza gravitazionale, attirare e catturare grossi frammenti proiettati nello spazio da un altro sistema planetario. I calcoli attuali, però, danno un risultato diverso. La Malhotra insiste su questo punto: «I nostri calcoli ci dicono che le rocce a bassa velocità subiscono un processo di cattura planetaria molto diverso da quello contemplato fino ad adesso. Subentra la teoria del caos e una teoria matematica chiamata "bordi di debole stabilità" (weak stability boundary theory, in sigla Wsb). La probabilità di cattura per una roccia a bassa velocità (circa 100 metri al secondo) risulta essere circa un miliardo di volte superiore a quella di una roccia di media o alta velocità».
Iniziata nel 1925 dall'ingegnere tedesco Walter Hohman e presto applicata alle dinamiche delle orbite nello spazio, questa teoria matematica si applica ai deboli trasferimenti di energia tra le masse. La invito a riassumere, in termini semplici, il significato di questa scoperta per quanto riguarda l'origine della vita sulla Terra. Non esita e così risponde: «La durata dell'ammasso stellare di cui dicevo sopra si sovrappone con il lasso di tempo durante il quale si formò il nostro sistema solare, quando esso proiettava molti frammenti rocciosi nello spazio inter-stellare. E questo si sovrappone con l'era geologica durante la quale si formò la vita sulla Terra. Plausibilmente, altri sistemi planetari simili al nostro coesistevano e quantità non trascurabili di frammenti rocciosi possono ben essere stati scambiati tra tali giovani sistemi planetari». I loro calcoli suggeriscono che tali scambi di resistentissime spore possano essere avvenuti circa 300 milioni di volte. Le faccio notare che il compianto Francis Crick, premio Nobel con James Watson per la scoperta della celeberrima doppia elica del Dna, aveva sostenuto con vigore l'origine extraterrestre della vita sul nostro pianeta, ricevendo occhiate scettiche. Sorride e aggiunge: «L'idea è molto più antica, addirittura presente nella cultura della Grecia classica e in studiosi ottocenteschi. Un'idea affascinante che adesso trova appoggio nei nostri calcoli».
In conclusione, le chiedo se questi dati possono avere anche dei risvolti applicativi. «Sono ancora irrisolti molti problemi di sopravvivenza biologica (nello spazio, dopo un atterraggio brusco e così via). Ritengo che i nostri lavori possano incitare a proseguire in queste ricerche, in stretta collaborazione con i biologi. Per gli astrofisici e gli scienziati planetari si aprono prospettive di applicazione della teoria Wsb a passati scambi, in ambedue le direzioni, entro il nostro sistema planetario (tra la Terra e Marte, tra la Terra e le lune di Giove, per esempio). La sfida dei prossimi anni è quella di trovare segni affidabili di forme di vita nello spazio e in pianeti diversi dal nostro». Naturalmente, sulla Terra dovevano esistere condizioni climatiche e termiche capaci di far prosperare le spore trasportate dei frammenti spaziali. La presenza di acqua si rivela essenziale. I loro calcoli confermano che tutto torna. Ma insistono su un punto, doveroso: questa non è la conferma che la vita sulla Terra proviene dallo spazio, è solo la conferma che si tratta di una reale possibilità.

La Stampa 2.10.12
L’ultima intervista su La Stampa a Eric Hobsbawm:
«Il nostro mondo è in crisi perchè nessuno decide»
«La globalizzazione funziona in campo scientifico, culturale economico ma non politico»
di Alain Elkann

qui

Repubblica 3.10.12
Così gli scienziati truccano le ricerche

La scienza con il trucco così i test di laboratorio si ritoccano al photoshop
di Elena Dusi


NON sempre camice bianco è sinonimo di mani pulite. Un censimento delle pubblicazioni scientifiche in medicina e biologia ha rivelato l’aumento di esperimenti macchiati da frode, falsificazione dei dati, visite a pazienti immaginari, ritocco delle immagini di laboratorio. Il fenomeno è nel complesso modesto.
Un censimento delle pubblicazioni mostra una crescita allarmante di frodi, truffe e piraterie nelle ricerche Quasi cento su un milione vengono ritrattate. La concorrenza impone di arrivare sempre primi. E c’è chi bara
Dei 25 milioni di articoli pubblicati su riviste mediche dal 1940 al maggio 2012, quelli ritrattati (cioè ritirati per errori gravi o frodi) sono 2.047. In percentuale però il numero di studi depennati è quasi decuplicato tra 1976 e 2007. Allora lo stigma della ritrattazione colpiva 10 articoli su un milione. Oggi si è arrivati a 96. E quel che è più grave, secondo il censimento di Proceedings of the National Academy of Sciences, è che solo uno studio su tre viene ritirato per uno sbaglio commesso in buona fede. In due terzi dei casi è con l’intento di ingannare che i dati scientifici vengono manipolati. L’obiettivo, come nello sport, è arrivare primi per aggiudicarsi credito in un mondo della scienza sempre più competitivo e a corto di fondi.
Le note pubblicate dalle riviste per annunciare una ritrattazione sono spesso generiche, scritte in modo confuso per non far trasparire l’inganno. Così i tre ricercatori dell’Albert Einstein di New York e dell’Università di Washington autori del censimento hanno deciso di scavare a fondo in ogni singolo caso. E si sono trovati di fronte a molta meno buona fede di quanto si aspettassero. Nel 67,4% di ritrattazioni dovute a cattiva condotta, il 43,4% è stato causato da frode vera e propria (casi concentrati in superpotenze della scienza come Usa, Giappone, Germania). Il 14,2% è un articolo che riproduce dati prodotti dalla stessa équipe, ma già pubblicati su un’altra rivista. Il 9,8% è un copia e incolla di risultati di altri scienziati (soprattutto in paesi emergenti come India e Cina).
Tra i colpevoli, molti sono i truffatori seriali. L’anestesista giapponese Yoshitaka Fujii si è visto ritrattare la cifra record di 193 studi su 23 riviste diverse. L’ultima moda è il ritocco delle immagini al microscopio.
Ma non mancano le tecniche più sofisticate, come quella del sudcoreano Hyung-In Moon. Poiché ogni articolo scientifico, prima di essere pubblicato, deve essere sottoposto al giudizio di un panel di altri esperti, Moon è riuscito a “piratare” gli indirizzi mail dei suoi revisori, inviando alla rivista giudizi lusinghieri. Scoperto il trucco, 35 suoi articoli sono stati depennati dall’archivio mondiale della scienza. In quella poi che il direttore della rivista The Lancet nel 2006 definì “la più grande truffa condotta da un singolo scienziato”, l’oncologo norvegese Jon Sudbo inventò i dati di ben 900 pazienti. Anche se la maggior parte delle truffe riguarda casi isolati e settori specialistici, non mancano le frodi che causano danni gravi ai pazienti o alla reputazione della scienza. Il “mago” delle staminali Hwang Woo-suk, autore nel 2004 dell’annuncio shock della clonazione di un uomo, fu cacciato dall’università di Seul nel 2006 per aver falsificato i risultati. Un metodo rivoluzionario messo a punto dalla Duke University sempre nel 2006 per scegliere la cura contro il tumore al polmone fu usato 4 anni negli Usa, prima di scoprire che era basato su dati falsi.

Repubblica 3.10.12
Conflitto e potere, l’età biopolitica
Una raccolta di interviste a Roberto Esposito su questi temi filosofici
di Maurizio Ferraris


Nelle interviste raccolte nel volume Dall’impolitico all’impersonale (Mimesis), Roberto Esposito, tra i filosofi italiani più conosciuti all’estero, ricapitola il suo percorso degli ultimi dieci anni, concentrato intorno alla nozione di “vita”, e lo articola secondo tre direttrici.
La prima è per l’appunto l’elaborazione teorica della nozione di “biopolitica”, ereditata da Foucault ma sviluppata secondo percorsi originali. Dopo l’età del liberalismo e della borghesia, nello scenario che si apre con i totalitarismi, ma non si chiude con essi, siamo entrati in una fase biopolitica, quella di un potere che si esercita direttamente sulla vita. Rispetto alla impostazione di Foucault, tuttavia, Esposito propone una biopolitica “affermativa”, che non consiste soltanto nel controllo e nella censura, al limite nel diritto di vita o di morte, ma è piuttosto l’espressione della vita che fa valere i propri diritti nella politica.
In questa affermatività si inserisce una seconda ipotesi, che Esposito ha articolato più di recente, e che riguarda i caratteri originali della filosofia italiana, considerata come “pensiero vivente”. Seguendo una linea che da Machiavelli, attraverso Bruno, Campanella, Vico, Croce, giunge a Gramsci e all’operaismo, il pensiero italiano si sarebbe caratterizzato per un peculiare interesse per la politica in quanto espressione di un conflitto vissuto come un elemento positivo (vitale, appunto), e che non trova composizione nell’ideale di uno stato.
Questo carattere di lungo periodo sta, secondo Esposito, alla base di un fenomeno recente, affrontato in più di una delle interviste, e cioè il successo internazionale di una “Italian Theory”, di matrice principalmente politica, che sembra aver preso il posto della “French Theory” che ha furoreggiato negli Stati Uniti, nei dipartimenti di letteratura comparata e di studi politici nell’ultimo trentennio del secolo scorso. Quella che viene a disegnarsi è una filosofia della storia meno iperbolica di quella tracciata nell’Ottocento da Bertrando Spaventa, ma più credibile. Per Spaventa la filosofia, cacciata dall’Italia dai roghi dell’Inquisizione, era migrata in Europa fecondandone il pensiero, sicché quello che tornava nell’Italia dell’Ottocento, la filosofia di Hegel, non era che una metamorfosi della filosofia italiana, una restituzione. Più modestamente, con Esposito, potremmo osservare che la tradizione di filosofia civile italiana si è rivelata particolarmente adatta a dare una forma esplicitamente politica alle tesi del post-strutturalismo francese.
Tuttavia, se portiamo sul terreno concreto una nozione come quella di “biopolitica”, emerge un problema. A ben vedere, è proprio nelle primissime forme di potere che la natura biopolitica dell’autorità si manifesta allo stato puro. Il re era anzitutto chi controllava i depositi dei beni, basti pensare che l’etimo di “tiranno” è il capo della fattoria, colui che controlla la produzione del formaggio (tyròs), e lo scettro evolve del tutto naturalmente dal bastone del pastore. E un sistema di governo che è risultato modellizzante per millenni, quello dei faraoni (raffigurati anche come animali feroci), trae la sua origine dallo sfruttamento delle alluvioni periodiche del Nilo. Senza ovviamente dimenticare la biopolitica negativa, cioè la tanatopolitica, che si dispiega nelle ecatombi rituali degli Aztechi.
Che queste ecatombi abbiano potuto riproporsi nel cuore del Novecento e al centro di un’Europa che si riteneva civilizzata fornisce certo ottimi argomenti per mostrare la persistenza della biopolitica. Ma dubito che questa constatazione di fatto possa in qualche modo risolversi in una legittimazione di diritto. Certo, c’è un senso in cui, come nelle tragedie di Shakespeare, la biopolitica sembra non solo il nucleo originario, ma anche l’essenza, del politico. Ma c’è anche un senso in cui lo sforzo della politica deve consistere nell’allontanarsi da questa origine. Insomma, più che l’essenza della nuova politica post-liberale, la biopolitica mi sembra essere il periodico riemergere di una forza arcaica, di un dionisiaco con cui fare i conti, ma a cui è sempre possibile, e doveroso, contrapporre l’apollineo della forma, della struttura, della norma.
Lo stesso Esposito, del resto, osserva a giusto titolo che la vita non è mai “nuda vita”, ha sempre una forma, che la protegge da se stessa e dagli altri o, nella terminologia di Esposito, la “immunizza”. Vorrei conclusivamente suggerire quale, a mio avviso, sia la forma principale di questa immunizzazione. Nel momento in cui il faraone cessa di venir rappresentato come un animale feroce si fa avanti la figura dello scriba, del contabile, del burocrate. È la nascita dei documenti, un evento, nella storia delle società umane, di cui difficilmente si può sopravvalutare l’importanza, perché segna il sorgere di una sfera istituzionale fatta di norme, di leggi, di contratti che regolamentano la vita. Certo, si potrà sempre obiettare che anche attraverso i documenti si può esercitare la violenza, e la storia è piena di testimonianze in questo senso. Resta che si tratta dell’unico modo con cui le società umane hanno provato a vestire la “nuda vita”, dando forma alla forza, e difendendo la vita dalla sua bulimia.