giovedì 4 ottobre 2012

il Fatto 4.10.12
Nuova medaglia d’oro per l’Italia. Nell’evasione
Giampaolino, presidente della Corte dei Conti:
“Il fenomeno ci colloca ai primi posti nella graduatoria internazionale”
di Ste. Ca.


Siamo “ai primissimi posti della graduatoria internazionale”. Prendendo per buona la teoria dell’avvocato-senatore Longo secondo cui il Parlamento deve essere la “rappresentazione mediana del Paese”, molti colleghi avrebbero dovuto esultare a braccia alzate e pugni chiusi sentendo parlare di “primato internazionale”. Peccato che la disciplina sia l’evasione fiscale, gioire non sta bene.
A CONFERMARE ulteriormente ciò che per molti italiani è un dato acquisito, ci ha pensato ieri il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino in Senato: “Le dimensioni del complessivo fenomeno evasivo - dichiara Giampaolino ai senatori - continuano a essere particolarmente rilevanti e collocano il nostro Paese ai primissimi posti”. Una zavorra che pesa sulle tasche di chi le tasse le paga 46 miliardi di euro l’anno. Non solo: “Se l’evasione italiana dal 1970 - sostiene Giampaolino - fosse stata pari al livello statunitense (inferiore di 3 punti) il debito pubblico sarebbe stato, dopo 20 anni, molto più basso (76% del Pil invece di 108%) e l’aggiustamento necessario per riequilibrare la finanza pubblica molto meno impegnativo”. Come a dire, una pressione fiscale a livelli record (che dell’evasione è anche incentivo) grazie (soprattutto) ai professionisti dell’evasione. Analisi che pare confermata da un passaggio successivo della relazione di Giampaolino, secondo cui è necessario “destinare almeno parte dei recuperi della lotta all’evasione alla riduzione del prelievo complessivo; un modo per dare concretezza a una sorta di patto sociale, basato su un diffuso consenso nei confronti dell’azione di riduzione dell’evasione”. Più recupero dell’evasione fiscale, insomma, uguale meno tasse. Lo scenario attuale - secondo il presidente della Corte dei Conti - è un effetto domino: “Il passo iniziale è generalmente costituito dalla violazione dell’I-va (mancata emissione di fattura, scontrino o ricevuta fiscale) ; ad esso consegue una riduzione dell’imponibile dell’Irap, dell’Irpef (o Ires), delle imposte locali e dell’imponibile contributivo. Non di rado si conclude sul versante della spesa pubblica con un aggravio della spesa sociale: l’evasore fiscale, riesce spesso a collocarsi in posizione reddituale utile per conseguire, in aggiunta ai frutti diretti dell’evasione, anche i benefici dello stato sociale”.
DALLA RELAZIONE di Giampaolino si scopre che ci sono più evasori al Sud ma il grosso del danno si fa al Nord: “A livello territoriale, il Sud e le Isole si presentano come le aree a più alto tasso di evasione (40,1 per cento per l’Iva e 29,4 per cento per l’Irap), a fronte di una ‘devianza’ pressochè dimezzata nel Nord”. I valori assoluti invertono la graduatoria: “Il grosso dell’evasione - dice Giampaolino - si concentra nelle aree (Nord Ovest e Nord Est) in cui si realizza la quota più rilevante del volume d’affari e del reddito”. A stilare la classifica del nero ci pensa invece il Rapporto Eures (Servizi europei per l'impiego) 2012: oro alle ripetizioni scolastiche (89%), argento ai giardinieri (67,3%), bronzo ai falegnami (62,8%), medaglie di legno a idraulici (62%), fabbri (60,2%), muratori (60,1%), tappezzieri (57,3%) e elettricisti (57,1%). Staccati, ma con parziali di tutto rispetto, dentisti e medici specialisti (34%). l’Unità 4.10.12 Primarie. La mia risposta a Marino la lettera di Pier Luigi Bersani
La lettera di Marino, che ho apprezzato molto, mi offre l’occasione di chiarire un punto importante. Come candidato ma anche come segretario del Pd mi aspetto da tutti i democratici che intendono impegnarsi nelle primarie il riconoscimento e il rispetto per il lavoro programmatico svolto dal partito. Un lavoro fatto nelle assemblee, nei gruppi parlamentari, negli appuntamenti di riflessione e discussione organizzati negli ultimi anni. Questo lavoro, che è stata anche una straordinaria palestra di discussione e di confronto, è un patrimonio a cui tutti hanno dato il proprio contribuito, e Marino certamente, ciascuno secondo il proprio filone culturale. Naturalmente non sono stati compiutamente risolti tutti i problemi, e anche nei casi in cui sono state formulate proposte largamente condivise e considerate positive, l’evoluzione delle cose suggerisce di essere aperti ai cambiamenti necessari per affrontare le sfide che abbiamo di fronte con caratteri e intensità nuovi. Questo patrimonio sarà essenziale per arrivare ad avere un quadro di riferimento unitario insieme alle altre forze politiche della coalizione, anche grazie al contributo della nostra Carta d’Intenti. Sarà poi il candidato premier scelto con le primarie a organizzare in modo più specifico, in questo quadro generale, il programma di governo con il quale i progressisti si proporranno alla guida del Paese nelle prossime elezioni politiche. Ho già avuto modo di dire che, per quel che riguarda la mia sensibilità, prima ancora dei temi economici sono decisivi la riforma istituzionale, la riscossa civica, il rinnovamento morale e il rilancio dei diritti. Nella sua lettera Marino elenca molti di questi aspetti. Più in particolare, sui diritti ho già chiarito molte volte che se gli italiani affidassero ai progressisti il governo del Paese nella lista delle cose da fare subito, nei primi giorni, ci sono la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati, il riconoscimento giuridico delle unioni civili, la rilettura e la modifica della legge 40 per ovviare al caos che ne è seguito, l’umanizzazione del fine vita, la difesa della libertà di espressione e di organizzazione in ogni luogo, a cominciare dai luoghi di lavoro. I problemi economici che abbiamo di fronte sono gravi. Ma io credo che sia dalla riscossa civica e morale che possa venire l’energia che serve all’Italia per tornare a crescere e a riprendere il posto che le compete nel mondo. Noi democratici mettiamo al centro delle nostre preoccupazioni il lavoro e l’uguaglianza, che non è solo un valore, ma anche uno strumento per lo sviluppo. Questo Paese è troppo diviso, troppo diseguale, e l’esperienza dimostra che la disuguaglianza è un freno per la crescita. Da questa scelta discende forse la sfida più ardua per i riformisti. Noi intendiamo difendere e riformare il Welfare. Noi riteniamo che di fronte a scuola, sanità e sicurezza non ci debbano essere né poveri né ricchi. Noi pensiamo che il Welfare universalistico sia un elemento di civiltà. Ma proprio per questo dobbiamo fare in modo che il Welfare sia sostenibile, in particolare per quanto riguarda la sanità. È una sfida difficile, rispetto alla quale mi aspetto che Marino ci offra come sempre un contributo di esperienza, anche sul piano internazionale. Mi ha fatto piacere che Marino abbia apprezzato e pienamente recepito il senso delle nostre primarie: questa prova non è una sfida tra noi, ma il contributo coraggioso dei progressisti che si mettono in gioco apertamente per riavvicinare i cittadini alla politica, per parlare di Italia, per aprire tutti insieme una nuova stagione per il nostro Paese.

l’Unità 4.10.12
Primarie, no di Renzi a regole Pd
Scontro sulle regole per votare ai gazebo
Veltroni: Pd a rischio
Reggi: «Le nuove regole vergognose»
Stumpo: «Non sa di che parla». Polemica sull’assemblea
di M. Ze.


ROMA. Ormai è scontro aperto nel Pd in vista dell’Assemblea nazionale di sabato, convocata ad hoc per cambiare la norma che permetterà al sindaco di Firenze di candidarsi e stabilirà le regole interne per partecipare alla gara. E lo scontro ieri è diventato ancora più duro dopo le indiscrezioni sulla bozza di accordo tra i big del centrosinistra per le primarie di coalizione. Matteo Renzi grida all’attentato metaforicamente parlando -, mentre nel Pd tra i delegati all’Assemblea e molti parlamentari sale il malumore per quello che viene vissuto come l’ultimo sgarbo del primo cittadino fiorentino al suo stesso partito: non partecipare all’appuntamento di sabato perché impegnato con il suo camper. «Questa è mancanza di rispetto non tanto verso il gruppo dirigente del Pd che a Renzi non piace commenta in Transatlantico Rosa Villecco Calipari ma verso gli stessi delegati che sono stati eletti con le primarie». Annuisce Sabina Rossa, Rosy Bindi dice che quello che pensa al riguardo lo dirà sabato, mentre Antonello Giacomelli aggiunge che sarebbe meglio «se venisse così anche lui si renderebbe conto che tutta questa ostilità di cui parla in campagna elettorale non esiste». Beppe Fioroni provoca: «Se Renzi non viene allora rimandiamo l’assemblea». Renzi e il suo staff liquidano la vicenda con una notazione: non avendo diritto di voto non è necessaria la sua presenza. Punto.
Altra questione le regole delle primarie. La linea verso cui si va, quella su cui l’Assemblea sarà chiamata ad esprimersi (e per la quale sarà necessario il quorum del 50% più uno dei delegati, vale a dire circa 500) è quella di una soglia di circa il 10% delle firme dei delegati (vale a dire poco meno di cento) a sostegno della candidatura oppure del 3% degli iscritti (circa 17mila firme). Sulle regole di coalizione, invece, la bozza di accordo a cui si sta lavorando prevede un albo degli elettori del centrosinistra a cui ci si potrà iscrivere fino al giorno delle primarie, in appositi «uffici elettorali della coalizione», creati ad hoc, un doppio turno nel caso in cui nessun candidato raggiunga il 50% più uno dei voti e la sottoscrizione di un impegno che vincola tutti i candidati a sostenere il vincitore delle primarie. In più Bersani chiederà agli alleati che ci si impegni a rispettare le decisioni prese a maggioranza dei gruppi parlamentari nel caso di dissenso sui singoli provvedimenti.
Roberto Reggi, dal fronte Renzi, si infuria quando legge sui siti che la registrazione all’albo si chiuderebbe il giorno prima delle primarie. «Se la proposta di Stumpo (Nico Stumpo, responsabile organizzazione Pd, ndr) fosse confermata sarebbe una vergogna». Notizia infondata, replicano dal Nazareno. «Non è corretto cambiare le regole in corsa», incalza Renzi. Risponde secco Stumpo: «Vedo che Renzi chiede con insistenza perché si devono cambiare le regole. Vorrei fargli notare sommessamente che sabato riuniamo l’Assemblea nazionale del Pd per cambiare la regola dello statuto in modo da consentirgli di candidarsi alle primarie». E a Reggi: «Non ho ben capito a che cosa si riferisca Reggi quando parla di una mia vergognosa proposta. Dal momento che l’unica proposta da me avanzata oggi è stata quella di modificare lo Statuto nell’Assemblea nazionale del Pd di sabato prossimo per consentire a Renzi di partecipare alle primarie, o Reggi non sa di cosa parla, oppure ritiene vergognosa la modifica pro-Renzi dello Statuto. La mia impressione è che pur di alimentare qualsiasi polemica pretestuosa raschi il fondo del barile».
In realtà dal team del sindaco temono che tutto l’impianto sia contro Renzi: dall’iscrizione all’albo, che restringerebbe il campo degli elettori (e Renzi punta anche ai delusi del Pdl per le primarie); al doppio turno. Con la candidatura di Nichi Vendola è chiaro che in caso di ballottaggio Bersani-Renzi il segretario potrebbe contare sui voti del governatore pugliese.
La tensione è talmente alta che Walter Veltroni si dice addirittura «preoccupato della tenuta del Pd, che non si spacchi e per questo più che schierarmi mantengo come Prodi una posizione di riserbo». E come Bersani ritiene una «precondizione» la sottoscrizione di un accordo tra tutti i partecipanti alle primarie, per sostenere chi vince. «Le regole delle primarie come il doppio turno o l'albo degli elettori mi sembrano molto appropriate dice l’altro candidato centrista, Bruno Tabacci . È chiaro che dovranno essere vistate dai candidati che vi partecipano, non credo che possano essere fissate dal solo Pd. Io desidero partecipare a una consultazione aperta ma vera, non certo a liste ballerine. Quindi, chi vuole andare a votare deve metterci la faccia». Il via libera arriva anche da Sel, mentre Vendola ironizza con Fioroni (che non lo vuole come alleato): «Ci si può candidare solo con il permesso di Fioroni». E Marina Sereni invita a non diffondere false notizie perché «di proposte definitive non ce ne sono».

l’Unità 4.10.12
Matteo Renzi: «Norme assurde, così primarie finte»
Il sindaco di Firenze si scaglia contro l’ipotesi di un certificato di elettore del centrosinistra e contro il doppio turno: «È un clamoroso autogol»
di Vladimiro Frulletti


FIRENZE Questo è un boomerang. Bersani non lo può permettere. Non capisco perché il Pd deve aver paura di primarie libere e aperte. Tutti i sondaggi, al di là dei voti ai singoli nomi in corsa, su una cosa sono unanimi: il Pd sta crescendo. E sale grazie al confronto che s’è aperto con le primarie. Adesso invece le vogliono fare finte. Spero davvero che intervenga Bersani. Mi auguro che ci pensino bene, che prevalga la ragionevolezza». Il sindaco di Firenze Matteo Renzi arriva su una bicicletta in piazza Savonarola a Firenze. Deve scoprire una lapide in memoria di San Francesco. Scherza coi bambini che giocano a pallone («poi si fa’ due tiri») e si ferma con gli anziani che gli chiedono di mettere a posto la fontana che perde acqua. Gentile e sorridente. Ma il buonumore termina appena si parla delle norme sulle primarie, albo degli elettori e doppio turno, che sabato dovrebbero essere approvate dall’assemblea nazionale del Pd. A suo giudizio quei paletti sono così alti che non aiuteranno la partecipazione dei cittadini: «In tutto il mondo la sinistra si apre e qui invece si fa di tutto per far diminuire i votanti». E soprattutto sono stati messi all’improvviso, in mezzo alla sua corsa, per non farlo arrivare al traguardo. Bersani dice che chi vuole votare alle primarie deve dichiararsi elettore di centrosinistra. Per evitare incursioni dalla destra, per scongiurare che voti anche un Batman.
«Sono d’accordo con lui. È sempre stato così. Siamo tutti d’accordo che per votare alle primarie ci sia da aderire alla carta dei valori del centrosinistra». Allora cosa non va nell’albo pubblico? «Questa storia della pubblicità è discutibile. Perché suona stravagante che la stessa organizzazione di partito che non ha ancora reso pubblici i votanti delle scorse primarie voglia oggi rendere pubblici quelli che voteranno alle prossime primarie. Però se non ci sono problemi di privacy per me nulla osta». Per votare sembra che ci sarà da ritirare il certificato di elettore del centrosinistra.
«E questo è inaccettabile. Credo che Bersani interverrà. Ma stiamo scherzando? È una procedura che non si è mai vista. Una cosa è firmare l’albo degli elettori, dichiarare l’appartenenza, sottoscrivere la carta di intenti. Ma arrivare a dover ritirare una tessera non è accettabile. Sono curioso di capire se andranno avanti o avranno il buon senso di fermarsi prima. Tra l’altro ci stanno regalando la possibilità di fare le vittime. Non capisco. È stato Bersani a dire che voleva fare primarie libere e aperte. Ma davvero pensano che questo sia il modo giusto di presentarsi davanti agli elettori? Non si rendono conto del rischio boomerang che c’è per il Pd. Se devono fare le primarie che si facciano vere primarie, se vogliono farle finte lo dicano».
Cosa non la convince dell’eventuale ballottaggio (se nessun candidato la prima domenica prende più del 50% dei voti) a cui dovrebbe poter votare solo l’elettore che ha già votato al primo turno?
«È allucinante un doppio turno in cui può votare solo chi ha votato al primo. Se uno quella domenica stava male che fai? Non lo fai votare? È un clamoroso autogol per il Pd e il centrosinistra. Non capisco perché le regole che andavano bene per Prodi, per Veltroni, per Bersani, per Pisapia, per Fassino, per Vendola, per Zedda, per Doria non vadano più bene ora. Che è successo? Come mai non ci sono le stesse regole?» Lei come si risponde?
«Che sarebbe strano se alle primarie del centrosinistra si consentisse di correre a Tabacci e non al sindaco Pd di Firenze».
Cioè ritiene che queste regole siano state pensate contro di lei?
«Non capisco la logica. S’è detto fino a oggi che si facevano delle regole, poi improvvisamente si cambiano. Non capisco a chi giovi. Se è una mossa dettata dalla paura allora è meglio che non facciano le primarie. Ma che senso ha fare le primarie oggi in questo modo? Le primarie sono un altra cosa. Perché Bersani a Piacenza ha approvato delle regole delle primarie che adesso vogliono cambiare? Spero davvero che intervenga Bersani e che faccia prevalere la ragione. Insomma Bersani dovrà scegliere se le primarie le vuol fare o no. E io credo che le voglia fare per davvero».
Ma perché lei sabato non andrà all’assemblea nazionale del Pd?
«Non faccio parte dell’assemblea e ho pensato che la mia presenza potrebbe sembrare una provocazione. Non vado a creare motivi di divisione e scandalo».
L’accusa è che lei sta snobbando il Pd.
«Non mi pare che stia snobbando il partito. Ho fatto 32 feste de l’Unità e democratiche. Ho partecipato a decine di confronti come quello di Ferrara con Franceschini. Ho spiegato reiteratamente che nel caso in cui perda le primarie non ci sarà nessun tentativo di creare strani pasticci per il dopo. Questa accusa proprio non sta in piedi». Fioroni dice che l’assemblea andrebbe rinviata a quando lei sarà disponibile. «Mi sembra che Fioroni voglia alimentare un clima di tensione che non mi appartiene e che è dannoso per il Pd». L’assemblea deve votare la deroga che le consente di candidarsi. Ma per cambiare lo Statuto servirà il sì della metà più uno dei membri. Teme sorprese?
«No, mi fido di Bersani non ho dubbi sul fatto che abbia la maggioranza dell’assemblea. Che abbia anche quella degli elettori lo vedremo alle primarie, ma che abbia quella dell’assemblea lo do per scontato».
Se vince Renzi finisce il centrosinistra?
«È un’accusa umiliante per me, ma anche per chi lo dice. Se gli elettori del centrosinistra premiano un candidato diverso da quello che D’Alema o chi per lui immaginano non è che finisce il centrosinistra. Non è che il centrosinistra sta in piedi soltanto finché vince il candidato che appoggia lui».
Con Renzi vincente alle primarie però il nodo delle alleanze per il Pd resta. «Vorrei che le primarie fossero un confronto sui contenuti. E i contenuti decideranno anche i contenitori. È chiaro che nel momento in cui Vendola accetta di correre la partita si fa più chiara. Ora però aspetto che Vendola dica che sosterrà chiunque vinca le primarie». Se Vendola vince le primarie, lei poi lo sosterrà?
«Io sono uno che sta dentro le regole, per cui chi vince avrà il mio sostegno, mi auguro che anche gli altri facciano la stessa cosa».

il Fatto 4.10.12
Primarie per pochi intimi
Le regole anti-Renzi “riducono la partecipazione”
Veltroni: “Temo per la tenuta del partito”
di Wanda Marra

Sono preoccupato per la tenuta del Pd: il partito rischia di spaccarsi”. In mezzo a una giornata concitata, fatta di nervosismi sempre più evidenti, di annunci e smentite, l’impressione che circola ormai da giorni tra i Democratici (e non solo) la traduce in parole Walter Veltroni. Matteo Renzi ormai è a un’incollatura da Bersani in tutti i sondaggi e sabato si va all’Assemblea che dovrebbe approvare la modifica dello Statuto per permettergli di partecipare alle primarie in un clima di guerra e di incertezza. Da settimane ormai dal Nazzareno partono le telefonate per convocare i componenti dell’Assemblea. Perché quello che all’inizio sembrava uno spettro sta diventando un pericolo sempre più reale: sabato potrebbe mancare il numero legale (497 delegati su 950). Tant’è vero che per partecipare ai membri dell’assemblea assicura un rimborso spese di 185 euro. Ma alla fine è esplosa la questione delle regole: ne stanno discutendo da giorni, per i due principali sfidanti, Roberto Reggi, numero 2 di Renzi, e Nico Stumpo, responsabile Organizzazione del Pd, fedelissimo di Bersani.
LA BOZZA che il Pd intende presentare viene battuta dalle agenzie di stampa poco prima delle 18. Per presentarsi servono 17mila firme, se un candidato non prende il 50 per cento più uno ci sarà il doppio turno, ma soprattutto per votare bisognerà aderire al manifesto del centrosinistra, registrandosi a partire da tre settimane del voto, acconsentendo a confluire in un albo pubblico, i candidati dovranno firmare un patto di coalizione e impegnarsi a sostenere chi vince. Più varie ed eventuali: per esempio chi non vota al primo turno, non può votare neanche al secondo. O che bisogna registrarsi prima del 25 novembre. Solo un’ora prima Renzi aveva ribadito: “Non capisco perché bisogna cambiare le regole”. Il gioco è tutto lì, sull’albo degli elettori: più s’allarga, più Renzi - che pesca fuori dall’elettorato del Pd - ha possibilità di vincere, più si chiude, più Bersani pensa di tutelarsi. E con lui tutti i big del partito, che infatti in forma più o meno informale hanno approvato la griglia di regole. “L’unico scopo sembra limitare la partecipazione”, chiosa Paolo Gentiloni, montiano-frenziano del partito. E ci pensa Stumpo a puntualizzare: “Vorrei far notare a Renzi che le regole si fanno per farlo partecipare”. Ma nello staff del sindaco di Firenze la visuale non è esattamente questa. Reggi è furibondo: “Non è una concessione a Renzi farlo partecipare. Lo chiedono i cittadini. Pure per questo lui sabato all’Assemblea non ci viene: mica è grazia ricevuta. Ma vogliamo portare la gente a votare o no? Com’è possibile non capire che così si limita la partecipazione? Questi sono fuori dal mondo! E poi, la regola che chi non ha votato al primo turno, non può votare al secondo: è da trattamento sanitario obbligatorio”. Ma che farà Renzi con queste regole? Ancora Reggi: “Queste non possono essere le regole che vuole Bersani. Lui non può averle lette. Perché lui era a Piacenza con me quando abbiamo fatto le primarie lì, e sa benissimo che per evitare l’inquinamento bisogna allargare la partecipazione, non limitarla. Così chi dissuadi, il mio dentista o le truppe organizzate? ”. Chiosa Lino Paganelli, renziano dell’ultima ora: “Fatte così, le primarie non sono più quelle aperte che ha indicato Bersani”. In qualche modo, tutto sembra possibile: forse addirittura che Renzi si ritiri dal Pd e si presenti in proprio?
FATTO sta che Stumpo è costretto a smentirsi (parzialmente): “I criteri per le regole delle primarie saranno discussi nel-l’assemblea del 6 ottobre e definite concretamente insieme dalla coalizione. Non esiste nulla di prestabilito. L’ipotesi poi che si possa chiudere l’iscrizione degli elettori il giorno prima del voto è destituita di ogni fondamento”. In realtà ammette chel’albo degli elettori come il doppio turno sono punti fermi, parte di una griglia che sarà consegnata a Bersani per dettagliare le questioni. Insomma, una di quelle smentite che conferma. E se Renzi scrive su Facebook che di certo Bersani non ricorrerà a trucchetti, Reggi avverte: “Siamo pronti anche a fare ricorso. Rendere noti i nomi dei votanti è contro la legge sulla privacy”. Poi va oltre: “Così sono vergognose”. E Stumpo, sempre a mezzo agenzie di stampa: “Sta raschiando il fondo del barile”. Intanto, non manca neanche la polemica Fioroni - Vendola. Se il primo chiede un congresso straordinario anche per fermare la partecipazione del leader di Sel, il secondo batte su Twitter: “Ci si può candidare solo col permesso di Fioroni”. Qualcuno sui divanetti della Camera ieri commentava: “Chissà, magari il Pd si spacca pure prima di sabato”.

Corriere 4.10.12
Democratici in tensione tra sfida a sinistra e corsa per Palazzo Chigi
di Massimo Franco


L' incontro fra Mario Monti e Pier Luigi Bersani ha portato parole di lealtà da parte del Pd, ma non una tregua politica. Mentre la bozza di riforma elettorale del leghista Roberto Calderoli si squaglia fra diffidenze incrociate, i rapporti fra la sinistra e l'Udc rimangono tesi; anzi, si vanno incrinando ulteriormente. Bersani difende l'alleanza col Sel di Nichi Vendola. Definisce «pregiudizi» quelli a livello internazionale nei confronti di un governo di sinistra. E raffigura un Pier Ferdinando Casini «altalenante» nel modo in cui tratta Vendola. Ma il leader centrista replica piccato: in altalena non sono io, ma un segretario del Pd che loda palazzo Chigi ma teorizza l'alleanza con un Sel antimontiano.
Sembra difficile che i due possano trovare un punto di incontro, in questa fase. Sono divisi dalla riforma della legge elettorale, che Casini vuole proporzionale; dalle prospettive del dopoelezioni, perché Bersani non vuole e non può accettare un'investitura preventiva di Monti. E il segretario del Pd è costretto a concentrarsi sulle primarie che designeranno il candidato del partito a palazzo Chigi. La doppia concorrenza di Vendola e di Matteo Renzi, è una sfida che lo mette fra due fuochi. E quella col sindaco di Firenze assume i contorni di un duello. «Sono sicuro che Bersani non farà trucchetti», annuncia il sindaco. Ma non è chiaro con quanta convinzione lo dica.
Si fa strada l'ipotesi di un cambio in corsa delle regole, con l'idea di un doppio turno destinato, almeno nelle intenzioni, ad avvantaggiare Bersani. Il segretario del Pd sa che se alla fine si arrivasse a un ballottaggio con il sindaco di Firenze, probabilmente i sostenitori di Vendola si schiererebbero con lui e non con Renzi, considerato «di destra» e favorevole alla prosecuzione del governo Monti dopo le elezioni. Ma le trappole disseminate lungo il percorso della sinistra non finiranno con le primarie.
Il «no» di Casini a qualunque ipotesi di governo con Vendola sembra chiudere provvisoriamente il gioco delle parti fra leader dell'Udc e del Pd. Il problema di Bersani, tuttavia, è soprattutto quello degli estimatori di Monti all'interno del proprio partito. L'uscita dell'ex segretario Walter Veltroni, per il quale se non si fa attenzione il Pd potrebbe rompersi, evoca scenari cupi. E il suo invito al premier perché si ritagli un ruolo da protagonista in campagna elettorale, anche senza candidarsi formalmente, è una presa di distanze implicita dalla ambizioni di Bersani. Monti in campo, secondo Veltroni, «sarebbe una risorsa e una ricchezza».
Dicendolo, dà voce a quanti vedono con scetticismo un patto con Vendola e il segretario a palazzo Chigi. Il richiamo a quel «quaranta per cento di elettori di centrosinistra» che preferiscono Monti per «autorevolezza ed esperienza» suona come un avvertimento al segretario del pd. Non significa la riproposizione del governo dei tecnici dopo il voto del 2013. Ma certamente è una smentita delle tesi di chi ritiene necessario vincere e smantellare la sua agenda. Bersani nega che sia questo il suo obiettivo: vuole soltanto archiviare una parentesi che coincide con una «fase di eccezionalità». D'altronde, aggiunge, Monti è il primo a rendersene conto. Eppure, il ritorno alla normalità appare ancora molto lontano.

Corriere 4.10.12
Ma Veltroni evoca il bis «Pd a rischio distruzione»
Primarie, il no di Renzi a doppio turno e albo
di Monica Guerzoni


ROMA — Proprio quando potrebbe «segnare a porta vuota» e conquistare il governo, il Pd rischia di finire in pezzi: disintegrato dalle primarie e dalle tensioni tra sinistra e riformisti. In pieno scontro sulle regole delle primarie — con Renzi che accusa Bersani di averle cambiate in corsa — Walter Veltroni mette in guardia il segretario. Rivela la sua preoccupazione per la «tenuta» del partito che ha fondato (e che lui vede troppo sbilanciato a sinistra) e pone, come «precondizione», la firma da parte di tutti i candidati «di un impegno per cui chi vince sarà sostenuto dagli altri». Altrimenti «non si capisce più nulla», avverte l'ex segretario, «distruggiamo il Pd e la coalizione e facciamo l'Unione, e Dio solo sa quanto abbiamo già dato...».
Sul palco del Teatro de' Servi c'è Veltroni e c'è Pier Ferdinando Casini e l'occasione è la presentazione del libro edito da Marsilio L'Italia dei democratici, scritto da due campioni del montismo come Enrico Morando e Giorgio Tonini. Il convitato di pietra è Bersani, al quale il leader centrista rimprovera l'alleanza con Vendola («è un problema») e che Veltroni non nomina mai. Per chi voterà alle primarie non lo dice «per riserbo», ma poiché gli sta a cuore il futuro del Pd (e quello dell'Italia) rende pubblico il suo timore di queste ore: «Se Renzi tira dalla sua parte e i giovani turchi dall'altra c'è il rischio di tensioni identitarie, di spinte tali da divaricarlo». Se ci fosse ancora lui, alla guida del Pd, non siglerebbe un'alleanza con Vendola e non perché la parola «sinistra» non gli sia cara, ma perché ora il Paese ha bisogno di riformismo: «Se Monti fosse disponibile a scendere in campo, sarebbe una risorsa e una ricchezza». Ma è «inimmaginabile» pensare che un Monti bis si possa fare alleandosi col Pdl.
Veltroni e Casini non sono mai stati così in sintonia. E se Bersani accusa l'ex presidente della Camera di ragionare su Vendola «a giorni alterni», Casini ricorda che il programma di Sel è incompatibile col suo: «Non faremo i tappabuchi. Chiedo pari dignità tra progressisti e moderati, altrimenti la coalizione è un vestito impresentabile».
Stretto tra Renzi che minaccia lo strappo sulle regole, il pressing dei montiani e l'altolà di Casini, Bersani guarda con preoccupazione all'assemblea di sabato. Le regole della sfida sono pronte, ma il «patto» tra i big è a rischio. Sui social network impazzano le ironie, il che rivela le perplessità di buona parte del Pd. Chi vuole candidarsi deve raccogliere 17 mila firme di iscritti o 90 di delegati e i cittadini, per votare, devono sottoscrivere il Manifesto dell'Italia e accettare di finire in un pubblico albo degli elettori di centrosinistra. E poi, se nessuno dei candidati supera il 50 per cento, si va al doppio turno.
«È vergognoso, se è così noi siamo pronti a fare ricorso», prepara le barricate il responsabile della campagna di Renzi, Roberto Reggi. Il sindaco di Firenze sfoga la sua rabbia nella newsletter settimanale: «Non capisco perché non vadano bene le regole del passato, quelle di quando hanno vinto Prodi, Veltroni, Bersani... Mi pare un grave errore inserire un ballottaggio in cui possa votare solo chi ha votato al primo turno... Mi pare un errore cercare di restringere la partecipazione». Eppure Bersani si mostra tranquillo, convinto com'è che «Renzi non vince». La sua replica è affidata a Nico Stumpo, il quale «sommessamente» ricorda a Renzi che l'assemblea si fa per cambiare lo Statuto e «consentirgli di candidarsi alle primarie».

Repubblica 4.10.12
Pd, scontro sulle regole delle primarie alt di Renzi a doppio turno e albo
“Vogliono fermarmi”. I bersaniani: è vero il contrario
di annalisa Cuzzocrea


ROMA — Uno psicodramma collettivo. Che scoppia non appena da largo del Nazareno filtra la bozza delle nuove regole per le primarie. «Non capisco perché non vadano bene quelle del passato - scrive Matteo Renzi - quando hanno vinto Prodi, Veltroni, Bersani. Sono le stesse regole che hanno visto la vittoria di Pisapia e di Vendola a livello locale, per dire». È solo il primo round. Gli altri saranno più cruenti. Perché davanti al doppio turno, alla possibilità di votare la seconda volta solo per chi lo ha fatto la prima, all’obbligo di segnarsi in un albo pubblico di elettori di centrosinistra, e di registrarsi prima del giorno fatidico ottenendo una speciale tesserina, i sostenitori del sindaco di Firenze si fanno più aggressivi. «Non ci voglio credere - dice Roberto Reggi questa è discriminazione politica. Il segretario è una persona seria, se avalla una cosa del genere non è più la persona che conosco ». Invano, il responsabile dell’organizzazione pd Nico Stumpo fa «sommessamente» notare a Renzi che sabato si convoca l’assemblea nazionale del partito «per cambiare le regole dello statuto e consentirgli di candidarsi ». E che ci si può registrare anche il giorno stesso, sebbene non al banchetto, ma nell’apposito ufficio elettorale. Niente da fare, la macchina è partita, l’organizzatore della campagna dei rottamatori ventila il ricorso: «Non si possono pubblicare i nomi degli elettori alle primarie dice Reggi - è contro la privacy».
In realtà, ufficialmente il Pd ha deciso solo che all’assemblea di sabato il 50 per cento più uno degli aventi diritto dovrà dire sì al cambio dello statuto per far correre altri oltre al segretario. E che per candidarsi servono 90 membri dell’assemblea e 17mila firme in tutt’Italia, soglia inferiore rispetto alle precedenti. Il che agevola il percorso degli outsider Sandro Gozi e Laura Puppato. Tra i renziani, si narra di riunioni segrete al Nazareno in cui i garanti delle diverse correnti avrebbero preparato le norme capestro a tavolino. I dirigenti negano: Bersani ha detto più volte che le regole servono a tener lontana gente come Batman. Ricordano il caso dei brogli a Napoli. «Renzi avrebbe fatto così in ogni caso», è il refrain, «era pronto a protestare qualunque cosa si decidesse, tutta una tattica». Beppe Fioroni rilancia: «A questo punto l’assemblea va rinviata a quando Matteo Renzi, che si è candidato alle primarie, possa partecipare alla riunione». Il sindaco non ha intenzione di andarci, Reggi ha chiarito: «Non va a elemosinare con il cappello in mano» il cambio dello statuto. E però, sostiene Fioroni, a questo punto potremmo decidere di non cambiarlo affatto, lo statuto. Walter Veltroni guarda a tutto questo con estrema preoccupazione. Dagli endorsement all’uno o all’altro candidato si è tenuto lontano, ma è preoccupato per il Pd: «Tutti i partecipanti devono sottoscrivere l’impegno per cui chiunque vinca gli altri lo sostengono. Questa è la precondizione ». E poi: «Chi fa le primarie deve firmare un documento con dei contenuti, altrimenti rischiamo di distruggere il Pd, la coalizione e rifacciamo l’Unione ». Infine confessa: «La mia angoscia è che, sottoposto a tensioni estreme, il partito possa spaccarsi».

Repubblica 4.10.12
Primarie Pd, albo e doppio turno Renzi e Vendola non ci stanno
Ma il segretario vuole ancora evitare la guerra: “Niente conflitti sulle procedure”
L’incubo scissione e l’arma finale dei big “No alla deroga per far correre Matteo”
di Goffredo De Marchis


«NON voglio conflitti sulle regole». Con questa unica regola d’ingaggio Pier Luigi Bersani aveva incaricato i suoi sherpa Maurizio Migliavacca e Nico Stumpo di sbrogliare la matassa.

INVECE il conflitto è esploso. Devastante. E stavolta il gruppo dirigente non accetterà decisioni solitarie del segretario. Non gli consentirà una marcia indietro, col rischio di lasciarli in balia del Rottamatore. Le regole ci vogliono e sono quelle filtrate ieri sera. Punto. «Se Renzi vuole un comitato elettorale permanente, abbiamo già dato. Sono vent’anni che l’Italia vive in questa condizione. Anche lui deve mettersi in testa che prima viene il partito», avverte Francesco Boccia. Beppe Fioroni invita Bersani a non farsi intimidire: «Se ci spaventiamo per un buh di Renzi, allora è davvero arrivato il momento di cambiare partito».
Dall’area Letta a D’Alema a Bindi agli ex popolari a Franceschini viene un “caldo consiglio” al segretario: tirare dritto, non farsi condizionare dalla «canea pretestuosa» messa su dal sindaco di Firenze e dai suoi luogotenenti. Anche perché le correnti dispongono dell’arma nucleare: non votare all’assemblea di sabato la regola pro-Renzi che gli consentirà di partecipare alle primarie, vale a dire la cancellazione dalla Statuto della norma che identifica il segretario del Pd e il candidato premier del Pd. Bersani si faccia carico del problema, accetti il «conflitto” e trovi un’intesa con Renzi. Altrimenti è certo che in mancanza di un accordo politico preventivo, finirà male, molto male.
Bersani continua a muoversi sulla linea della “pace”. Ne è testimone diretto Fioroni che lo ha incontrato ieri sera alla sede di Largo del Nazareno. «Hai visto che è successo nel Lazio, Pierluigi? In un’ora abbiamo spostato Zingaretti dalla corsa al Campidoglio alla candidatura per la Regione. Con un accordo politico di ferro che coinvolge i centristi». In effetti, uno spot efficace contro le primarie. «Così deve funzionare un grande partito», ha chiosato Fioroni. Bersani però ha subito chiesto: «E quelli di Renzi non hanno fatto casino?». Fioroni ha sorriso: «Io non li ho visti. Magari hanno già cambiato partito».
L’assemblea di sabato si presenta senza rete. Può saltare offrire agli elettori l’immagine di un centrosinistra litigioso come ai tempi dell’Unione. A maggior ragione, occorre adesso un accordo politico preventivo. Ma è già una dichiarazione di guerra l’assenza di Renzi. E le parole dei renziani, il caso scatenato sulla rete dalle indiscrezioni sulle regole rendono molto complicato un patto. È molto probabile un colloquio a due. Al telefono o a quattr’occhi. A Largo del Nazareno ha cominciato a riprendere corpo il fantasma di una scissione studiata a tavolino da Renzi. Si monitora il suo camper che continua a girare l’Italia senza nemmeno un simbolino del Pd. Si osservano le sale piene dove non compare nemmeno una bandiera del partito. Come se il sindaco pensasse a una corsa solitaria da spendere comunque, primarie o no, sul tavolo della nuova offerta politica.
Il quartier generale bersaniano non capisce la battaglia dichiarata ieri da Renzi. L’albo pubblico c’è sempre stato, il doppio turno era previsto anche nelle primarie fiorentine vinte dall’attuale sindaco. E la pre-registrazione, vera pietra dello scandalo, serve soprattutto a evitare la confusione ai seggi. «Ci si può registrare anche la domenica del voto. Chi vuole lo fa prima. Tutto qua», spiega Migliavacca. «Mi sembrano regole di assoluto buon senso — dice Fioroni —. Ve la ricordate l’esperienza di Napoli? Io non voglio più vedere camion di cingalesi e pullman di cinesi portati ai gazebo».
Il clima è quello di un Pd già spaccato, già diviso. Ancora prima di conoscere l’esito delle primarie. In questi momenti sono in tanti a sussurrare all’orecchio del segretario: «Te l’avevo detto. Renzi vuole spaccare il centrosinistra. Lo sta facendo anche prima del previsto». Al pacifista Bersani ora tutti chiedono di imbracciare l’arma dello scontro. Ma le conseguenze di un conflitto sarebbero il de profundis del Pd.

Repubblica 4.10.12
Fassina: assurda la reazione di Matteo, deve sentirsi tutelato
“Troppi casi di brogli è giusto difendersi”


Fassina, volete fare uno sgambetto a Renzi con regole così rigide per le primarie?
«No, vogliamo solo precisare regole di garanzia. È incomprensibile la reazione di chi dovrebbe sentirsi tutelato».
Però avete voluto soglie alte di supporter per consentire la partecipazione.
«No, le soglie sono più basse di quelle previste per le candidature alle primarie di sindaco, presidente di Provincia e di Regione».
L’albo degli elettori, però, sembra una “restrizione”.
«Invece è una “precisazione” perché abbiamo una lunga esperienza di primarie e ci sono stati i casi di Napoli, di Palermo, di Lecce, e cioè il rischio di inquinamento».
Solo che a quell’albo bisogna registrarsi prima del voto, la procedura rende più difficile la partecipazione.
«Lo si può fare anche il giorno stesso del voto. Ripeto, è una garanzia per tutti. Comunque, vedremo come voterà l’Assemblea di sabato e poi la proposta del Pd sarà discussa con le altre forze della coalizione».
Al secondo turno delle primarie possono votare solo coloro che hanno votato già al primo, perché?
«Non stiamo andando a selezionate chi fa l’amministratore del condominio, ma chi si candida alla presidenza del Consiglio. Mi pare giusto».
«Spero di no. Il Pd cede sovranità nel momento in cui fa le primarie aperta e a questo deve corrispondere una assunzione di responsabilità. Ho fatto due campagne elettorali negli Usa e quando facevo il porta a porta mi davano l’elenco degli elettori democratici a cui chiedere sostegno. Chi sostiene il centrosinistra lo faccia in modo trasparente».
Con le primarie aperte cediamo sovranità, è giusto che chi si reca a votare si assuma delle responsabilità.

l’Unità 4.10.12
Ma la politica non è amministrazione
di Michele Ciliberto


MARIO MONTI È DA TEMPO, ORMAI, UN POLITICO IN SENSO PIENO: SECONDO L’ ETICA DELLA RESPONSABILITÀ propria dei politici ha misurato prima la dichiarazione americana di disponibilità ad un Monti bis e poi la successiva precisazione italiana («Saranno altri a guidare il Paese»). Ha certo voluto tranquillizzare i partner europei, e con essi anche la Bce e i mercati. Ma intanto in Italia ha deciso di entrare a suo modo nella campagna elettorale, mettendo in campo quella che si può definire la soluzione «tecnica» della crisi italiana.
Si tratta obiettivamente di una impostazione distante da quella proposta da Bersani e dal Pd. In America Monti si è rivolto consapevolmente alle forze sociali, economiche e politiche moderate, italiane ed europee, proponendo la sua linea politica. E lo ha fatto prospettando per sé, nella partita che si apre, una duplice funzione: da un lato leader di fatto di uno schieramento politico, dall’altro senatore a vita non obbligato a sottoporsi al giudizio popolare. Singolare situazione, certo, resa possibile dalle forme specifiche assunte dalla crisi italiana nell’ultimo anno e da un suo obiettivo tratto «extraparlamentare».
Comunque sia, le dichiarazioni «americane» di Monti contribuiscono, con una assunzione di responsabilità, al chiarimento e allo sviluppo del confronto politico oggi in Italia e al delinearsi di linee di soluzione alternative rispetto alla crisi del Paese e della democrazia italiana. Come appare chiaro dall’immediata presa di posizione di Montezemolo, lo schieramento moderato sembra aver trovato il suo nuovo capo e di conseguenza comincia a organizzarsi in vista delle elezioni. Di questo infatti si tratta: di una proposta strutturale di soluzione della crisi lungo le politiche messe in campo da Monti negli ultimi mesi. Una proposta che potremmo definire di tipo «amministrativo», facendo però attenzione a non contrapporre il concetto di «politica» con quello di «amministrazione».
Sono due strategie politiche distinte dalla differente concezione del rapporto tra «politica» e «amministrazione» e della incidenza dell’amministrazione dentro la politica. Distinzione antica, va aggiunto, non certo di questi giorni, elaborata in chiave antidemocratica dalla cultura politica e istituzionale di matrice conservatrice. Sta qui il discrimine essenziale tra l’una e l’altra: il che non vuol dire, sia chiaro, che nella cosiddetta Agenda Monti non vi siano orientamenti validi e importanti da valutare con attenzione, ma cogliendone funzione, e valore, in un progetto lungimirante e di segno assai preciso.
Sulla posizione di Monti non ci sono infatti dubbi: basta pensare a quanto ha detto, e ripetuto, sulla concertazione tra le parti sociali o alle critiche recentemente rivolte allo Statuto dei lavoratori: tutti aspetti di una ideologia che, muovendo da una precisa idea dell’Europa e della interpretazione del suo ruolo, propone una soluzione della crisi italiana imperniata sul primato politico della «tecnica», della amministrazione. È di qui che deriva una precisa visione della funzione delle parti sociali, del ruolo del Parlamento e dei partiti, del rapporto tra esecutivo e legislativo. Mi guardo ben dal dire che si tratti di una visione di tipo autoritario: osservo che essa sposta, rispetto a una ordinaria democrazia parlamentare, il centro della decisione politica, il rapporto tra i poteri e, in modo specifico, il rapporto tra governo e Parlamento.
Di questo occorre avere coscienza quando si discute della proposta di Monti, non casuale, non improvvisata, anzi radicata nella storia italiana, anche se in forme minoritarie, almeno finché sono esistiti solidi e ramificati partiti di massa. Oggi però la situazione è profondamente mutata, sia per un nuovo rapporto tra Italia ed Europa, sia per il diffondersi di sensi comuni anti-politici, anti-partito e anche anti-parlamentari, potenziati e amplificati dalle forze economiche e sociali che combattono la prospettiva di un cambio nel nostro Paese. Tute spinte che vengono agevolate, anzi rafforzate dal diffondersi di fenomeni di corruzione come quelli della Regione Lazio, eccezionale concime per la mala pianta dell’anti-politica. Scaturisce di qui, per contrasto, la nuova credibilità della proposta di Monti, e anche il largo consenso che riscuote e che viene estesa anche con sapienti iniziative parlamentari.
Se questo analisi ha un fondamento, la domanda diventa questa: la prospettiva politica della «tecnica», il primato politico dell’«amministrazione» risolve il problema della crisi della democrazia italiana, come ritiene il vasto e composito schieramento moderato che fa capo a Monti?
Certo, essa va discussa con cura. Ma tenendo conto di quello che Monti ha fatto in questi mesi, delle forze che si stanno ora raccogliendo intorno alla sua leadership, questa prospettiva coerente con l’idea e le politiche attuali dell’Europa appare insufficiente, non basta. Se il problema sul tappeto è quello della crisi generale della democrazia italiana, esso può essere affrontato e avviato, faticosamente, a soluzione muovendosi in una direzione assai diversa, impegnandosi anzitutto nella costruzione di un modello moderno di democrazia che allargandone, e non restringendone i confini sia in grado di dare voce a tutte le energie del Paese, anche a quelle attualmente ammutolite o ridotte in una condizione servile. E per poterlo fare bisogna, da un lato tener conto del profondo cambiamento della composizione demografica dell’Italia; dall’altro bisogna porre su nuove basi il problema delicatissimo del rapporto tra Stato nazionale e nuova identità dell'Europa, situando su questo terreno anche la questione della «riforma» della nostra democrazia.
Cerco di spiegarmi con un esempio. Per Monti la modernizzazione della democrazia italiana deve avvenire assumendo come pietra di paragone i parametri europei, quali essi siano, superando antiche arretratezze, ritardi che sarebbero caratteristici della nostra storia, secondo una tipica, e conosciuta, «ideologia dell’assenza». Ma è una visione assai ristretta sia dell’Italia che dell’Europa, e, quindi, anche del modello di democrazia che andrebbe costruito dopo la fine del berlusconismo. La storia nazionale italiana è un campo nel quale, oltre a miserie di cui occorre liberarsi una volta per tutte, ci sono, e persistono, elementi vitali e originali da riprendere e da far fruttificare proprio nel processo di costruzione della democrazia europea, che è il nostro comune orizzonte.
Bisogna saperlo: oggi si gioca una partita decisiva su molti campi. L’alternativa strategica tra «politica» democratica e «amministrazione» con tutto ciò che essa significa prefigura, infatti, a seconda di chi prevale, il futuro del nostro Paese nei prossimi decenni. Dichiarandosi disponibile a continuare a svolgere la funzione di presidente del Consiglio, sia pure in una situazione speciale e in un diverso quadro politico, Monti ha avuto il merito di renderla concreta agli occhi di tutti. Bisogna essergli grati.

l’Unità 4.10.12
Potere belluino
«Senza conflitto sociale non ha più controllo»
Lo storico Marco Revelli torna ai miti greci per spiegare l’attualità: ciò che manca oggi, in pieno paradigma neoliberista, sono lo specchio di Perseo e la fune di Ulisse, gli strumenti che tengono a bada l’egemonia
Il lavoro si è atomizzato, e il lavoratore singolo si trova impotente La crisi della politica è dentro la dissoluzione degli aggregati sociali
di Jolanda Bufalini


PIACENZA FESTIVAL DEL DIRITTO, ORGANIZZATO DAL COMUNE DI PIACENZA CON LA CASA EDITRICE LATERZA, COORDINATORE SCIENTIFICO STEFANO RODOTÀ: SONO STATI QUATTRO GIORNI DI INCONTRI GIOCATI SUL TEMA «SOLIDARIETÀ E CONFLITTI», NON UN CONVEGNO PER ADDETTI AI LAVORI MA UN FESTIVAL VERO E PROPRIO NEL QUALE SI RAGIONA, «SUI TEMI ESSENZIALI DEL PRESENTE». A cominciare dai «dettami della finanza percepiti dice Stefano Rodotà come leggi naturali» in grado di minacciare «le politiche di inclusione che hanno consentito l’integrazione delle masse nella democrazia». Marco Revelli, professore di Scienza della politica a Torino, ha appena pubblicato per Laterza I demoni del potere, è intervenuto con una lezione dal titolo Chi ha paura dei conflitti?
Professore, ne «I demoni del potere» lei parte dal «genocidio finanziario» della Grecia per avventurarsi in una ricognizione dei miti che accompagnarono la nascita della polis antica, la Medusa e Perseo, le sirene e Ulisse. Quale è il collegamento?
«È un esercizio di interpretazione sui simboli, le metafore, le allegorie della Grecia preclassica, nonostante i millenni che ci separano da quei miti, resiste il collegamento che ci aiuta a capire una attualità incandescente».
Il primo mito è quello della Gorgone o Medusa
«La Medusa è il simbolo di un potere belluino, dallo sguardo pietrificante. Lo scudo di Perseo nel quale quello sguardo si riflette, lo addomestica. Questo addomesticamento del potere è un pilastro dell’incivilimento che nasce con l’invenzione della città. Nel Novecento la funzione di addomesticamento del potere l’ha svolta il conflitto sociale, l’azione collettiva del movimento operaio ha tenuto sotto controllo i demoni del potere. È impressionante guardare le statistiche degli scioperi: le guglie fra gli anni Cinquanta e Settanta che sforano le 100.000 giornate di sciopero. È il periodo che Hobsbawm definisce l’età dell’oro del capitalismo contemporaneo, quando alla crescita dell’economia e del welfare si accompagnò un conflitto sociale esteso e potente. Quella azione collettiva teneva a
bada la forza belluina del potere, producendo al tempo stesso solidarietà sociale.
Poi il grafico precipita, la curva si fa piatta, si torna a grandezze ottocentesche, come se il Novecento, il secolo del lavoro, fosse stato una parentesi».
Cosa è successo?
«È stato infranto lo specchio di Perseo. Il paradigma neoliberista ha rimosso il conflitto sociale dall’orizzonte pubblico. Il lavoro, che la nostra Costituzione mette a fondamento della repubblica, si è atomizzato, privatizzato, il lavoratore singolo si trova nudo di fronte a questo potere enorme. Pensi al referendum della Fiat, dove l’alternativa era arrendersi o perire. Forse è proprio Marchionne la Gorgone. Oppure, l’alternativa, ancora più terribile, dell’Ilva di Taranto fra vita e lavoro. Credo che all’origine della svolta c’è una sconfitta storica del lavoro, i cui termini si possono pesare: lo studio di Luci Ellis e di Kathryn Schmit per la Banca dei regolamenti internazionali ha messo in evidenza che nei maggiori paesi industrializzati, i salari hanno perso in 30 anni 8 punti percentuali, Luciano Gallino ha calcolato, nel suo bellissimo La lotta di classe dopo la lotta di classe che in Italia 250 miliardi di euro si sono trasferiti dai salari ai profitti».
La famiglia mitologica del potere, scrive, non è molto simpatica: Krato è figlio di Stige, fratello di Bia (la forza), di Nike e Zelo. Di contro c’è la polis.
«La polis è il soggetto collettivo che, al riparo delle sue mura, produce la legge. Nel Novecento la fabbrica espresso questa identità collettiva. Non era un’arcadia, non era un mondo armonico, ma il conflitto si sviluppava fra forze alla pari, mentre ora c’è una gigantesca asimmetria, l’individuo si trova in competizione con un’infinità di potenziali nemici in concorrenza fra loro, allo stesso grado della piramide sociale. La crisi della politica è dentro questa dissoluzione degli aggregati sociali. I grandi poteri non hanno volto, non si sa dove siano ma si sentono quando cala la scure, come ad Atene, dove le maestre raccontano che gli allievi svengono in classe per la fame». Lei usa un altro mito, quello di Ulisse che con l’astuzia ascolta ma resiste al canto delle sirene. «Nell’orrore in cui siamo precipitati c’è la perdita del racconto. Ulisse trasforma le sirene da cantanti in canto, in una ricapitolazione di senso. È la parabola della civilizzazione che, con la storia, dice all’uomo chi è. Oggi il racconto non c’è più, al suo posto c’è uno zombie, qualcosa che assomiglia alla storia ma non lo è. Lo story telling che viene dall’alto non racconta l’esperienza del passato ma disegna i comportamenti futuri».
Viene in mente una canzone di Francesco De Gregori, «La storia siamo noi». Non è più così? «Con lo story telling è il potere che riconfigura la storia degli uomini, cominciò Ronald Reagan ad utilizzare questa tecnica del marketing. Con Bill Clinton sono arrivati gli spin doctors alla Casa Bianca. Nel libro ricordo la performance di Colin Powell alle Nazioni Unite, durante la presidenza di Bush Junior, che usò la menzogna delle armi di distruzione di massa per motivare l’attacco all’Iraq. E i media non sono innocenti, sono un pezzo di questo dispositivo, che usa simulacri, frammenti della storia, cose morte in funzione del potere».
Nell’ultimo capitolo del libro, il «Canto del potere», lei torna al Pasolini di «Salò».
«In «Salò» ogni stanza è introdotta da una maitresse, l’Omero pasoliniano è una maitresse, ventriloquo del potere. Anticipa ciò che il potere si appresta a fare, in assenza di una azione collettiva che lo contrasti. La Villa Triste dei repubblichini di Salò, noi l’abbiamo vista irrompere sugli schermi televisivi, con le immagini di Abu Graib, dell’Afghanistan, della Libia, della Cecenia, del teatro Dubrovka di Mosca».
Lei ragiona sulla polis ma il mondo si è fatto più grande, si è globalizzato
«La polis è lo spazio ordinato che respinge fuori dalle sue mura il caos esterno. Noi abbiamo giustamente gioito quando sono caduti tutti muri, compreso quello principale, con la M maiuscola. Ma abbiamo sottovalutato le conseguenze, l’irruzione del caos, il ritorno di forme primordiali del potere. I demoni del potere, che la Grecia antica conosceva bene e sapeva dominare: lo specchio di Perseo, le corde che legano Ulisse all’albero sono delle tecniche che pongono un diaframma fra noi e il potere nudo. Consentono di dominare il racconto anziché esserne dominati. D’altra parte il Novecento è disseminato di indizi, sulla fine del racconto. Fu Primo Levi a parlarci della Medusa. La fine del racconto è nella inenarrabilità dell’esperienza limite, di Auschwitz».

CHI È
Dal fondamentale «Oltre il Novecento» all’impegno sul sociale di uno studioso della politica
Marco Revelli è professore di Scienza della politica alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università del Piemonte Orientale. Ha presieduto la Commissione d’indagine sull’Esclusione sociale (Cies) e dirige il Centro interdipartimentale per il Volontariato e l’Impresa Sociale (Civis). Ha scritto su argomenti socio-politici, all’incrocio storiografia, filosofia politica e scienze sociali. Fondamentale il suo «Oltre il Novecento» (Einaudi). Tra le sue più recenti pubblicazioni: «Controcanto» (Chiarelettere); «Poveri noi...» (Einaudi); «Non solo un treno...» (con Livio Pepino, Gruppo Abele).

Repubblica 4.10.12
Montismo
Se il governo dei tecnici diventa un’ideologia
di Carlo Galli


C’è un’idea diffusa, di massa, secondo cui non deve andare perduta la discontinuità che questa esperienza ha marcato rispetto al berlusconismo
E c’è invece un’idea di élite che l’appoggia. Ed è il sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”

Se da vivi, mentre si gode ottima salute, e dopo un’ancor breve esperienza di potere, dal proprio cognome nasce una corrente di pensiero, o una tendenza politica — un “ismo” — significa che si è entrati nella storia. Non si parla di leninismo o di stalinismo, evidentemente, e neppure di andreottismo — per dare vita al quale Andreotti ha però speso quasi tutta una carriera — , ma dell’assai meno inquietante “montismo”: l’ultimo contributo italiano alla storia del pensiero politico — dopo il machiavellismo, il futurismo, il gramscismo, il fascismo — .
Di per sé, il montismo vuol essere la trasformazione dell’eccezione in normalità, e quasi in destino (non solo Monti bis, ma Monti for ever); è la prosecuzione di Monti — dello stile di Monti, delle finalità di Monti — con altri mezzi o addirittura con lo stesso mezzo: con Monti stesso, cioè; il quale dopo le elezioni dovrebbe essere a capo, o ricoprirvi una posizione dominante, di un governo non più tecnico ma politico (un esecutivo di larghe intese, oppure di maggioranza più limitata).
Montismo si dice in molti modi. Esiste un montismo maggioritario, di massa, che si fonda sull’idea che non deve andare perduta la discontinuità che esso marca rispetto al berlusconismo. Una discontinuità di stili e di tipi umani: da una parte l’industriale brianzolo divenuto tycoon — conservando i tratti plebei del parvenue — ; dall’altra il rappresentante quasi idealtipico della borghesia lombarda dei buoni studi, dei solidi matrimoni, delle vacanze signorili e poco appariscenti, delle professioni liberali, della cultura come habitus.
Una discontinuità che è stata accolta in patria e all’estero con stupore e favore, che è divenuta simbolo positivo di un’altra Italia, credibile e non più pittoresca; lontana dalla prima come il burlesque da un concerto per pianoforte e archi, come la buona educazione dalla cafonaggine, come il loden dalle paillettes.
Una discontinuità fra élites e populismo; non solo fra due stili, quindi, ma fra idee etico-estetiche della politica e della società.
Alla radice di questa discontinuità agisce però una continuità; l’archetipo della politica come autorità, non come mero potere. L’idea, cioè, che la politica sia affare serio, che deve essere gestito da persone serie, autorevoli, che incutono perfino un po’ di soggezione per il loro sapere e per la loro superiorità fondata sulla competenza e sulla saggezza; un’idea elitaria, certo, ma antidemocratica solo se per democrazia si intende la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico, che per aderire al “popolo” fa dell’incapacità ad articolare un argomento la propria cifra.
Il montismo è la politica come distanza, come autorevolezza — il contrario del potere populista e carismatico, che si propone come “uguale” alla “gente”, che ne esprime le pulsioni più profonde —; ed è la soddisfazione per l’arrivo di “quello che mette le cose a posto”, del leader severo che rovescia il mondo rovesciato. E’ insomma la sobrietà che (col relativo mal di testa) succede all’ebbrezza e ai suoi disastri; la medicina propinata, con piglio professorale, all’Italia, il “malato d’Europa”, perché guarisca senza tanti capricci.
Montismo è quindi la rivoluzionaria restaurazione di un’immagine della politica da tempo perduta; dell’idea che è bene essere governati da uno migliore di noi che non da uno come noi o peggiore di noi. E quindi il montismo esprime anche il desiderio diffuso di un vero e credibile “uomo del fare”, dopo che colui che si era presentato come tale si è rivelato invece l’uomo dell’apparire e dell’affabulare.
Ma c’è anche un altro montismo, questa volta d’élite. Per la destra Monti è di sinistra, mentre al contrario si tratta del ritorno della borghesia moderata — da tempo assente dalla politica in senso stretto, perché l’aveva appaltata all’homo novus, a Berlusconi, rivelatosi fallimentare —, che ora vuole riprendersi il controllo dei processi economici, delle spese e delle entrate, dei debiti e dei crediti. E lo fa attraverso un suo esponente — un professore d’economia, grand commiseuropeo — che sa parlare (anche in inglese) ma non sa “comunicare”, e che non vuole “piacere”; e che anzi col suo “fare” procura qualche robusto dispiacere ai cittadini (senza guardare tanto per il sottile). Una borghesia che però alla politica è ancora riluttante, e cerca di riprendersela, certo, ma sotto la forma della tecnica. Nel montismo quindi non c’è solo la nostalgia per la politica autorevole, e il plauso verso una politica fattiva: c’è anche il sospetto verso la politica da parte dei cosiddetti “poteri forti”. C’è l’idea che dopo tutto sia meglio lasciar governare chi è non politico, ma ha le competenze tecniche per affrontare il problema centrale del nostro tempo, cioè l’economia. E che quindi sia opportuno installare ai posti di comando i tecnici, che rispondono agli input dell’economia internazionale — cose serie —, piuttosto che i politici che rispondono a elezioni politiche nazionali. La politica, come Napoleone diceva dell’intendenza, seguirà. E allora si capisce perché il montismo sia anche la bandiera di modeste forze politiche di centro, che dei “poteri forti” (finanza, imprese, mondo economico cattolico) sono l’espressione, e che appoggiando Monti si collocano alla sua grande ombra, per trarne piccoli vantaggi.
Il montismo contiene quindi speranze e diffidenze, rischi e possibilità. Può essere un sinonimo di buona politica, oppure può essere rubricato come una forma insidiosa di tecnocrazia e di plutocrazia, suscitatrice, per reazione, di un altro “ismo”: il grillismo. E può quindi essere ascrivibile all’eccezione, alla perdurante crisi politica della Seconda repubblica, alle incertezze di un Paese la cui classe politica è ancora una volta tentata di affidarsi a un uomo della provvidenza — liberale e capace, questa volta — ; oppure può fungere da ostetrica nel parto doloroso ma fausto che darà vita alla Terza repubblica, a una politica finalmente normale.

Repubblica 4.10.12
Paolo Prodi racconta i suoi 80 anni e come è cambiato il lavoro dello storico:
“Dopo averlo legittimato, ora smascheriamo il trono vuoto”
Il potere
“Oggi lo Stato non esiste più, solo il mercato è sovrano”
di Michele Smargiassi


BOLOGNA Per secoli ha cercato il potere. Ora il compito dello storico è cercare dove il potere non è più. Smascherare il trono vuoto, “delegittimare il sovrano” dopo averne retto e cucito il manto. Ci vuole l’energia di uno studente ribelle per questi propositi, e Paolo Prodi ce l’ha. Entra nel suo studio di professore emerito di Storia moderna, una stanzetta con vista sull’antico carcere di San Giovanni in Monte, oggi una delle sedi dell’Università di Bologna, dove l’aula magna porta il nome del fratello Giorgio, e poggia su una sedia lo zainetto di jeans, portato con noncuranza sulla giacca grigia: «Con le borse da professore mi veniva il mal di schiena». Ieri ha compiuto ottant’anni e sembra guardarli incredulo con quegli occhi che si stringono ironici quando fa una battuta, un tratto di famiglia.
Era lui, il politico designato della grande famiglia di Reggio Emilia. Sette anni maggiore del fratello Romano, ancora bambino, Paolo aveva invece l’età giusta, nei primi anni del dopoguerra, per appassionarsi dell’“onorevole di Dio”, il suo conterraneo Giuseppe Dossetti, e cercare di calcarne le orme. Ma si fermò all’impatto con una Chiesa «rimasta alla Controriforma», e decise: «Il potere, è prudente studiarlo prima di praticarlo». Paolo Prodi è il più “tedesco” dei nostri storici. Per rigore, per scelta del campo di studio (il diritto e le istituzioni), per vicinanza intellettuale, amicizie, frequentazioni, maestri, come Hubert Jedin. I tedeschi lo hanno ricambiato assegnandogli nel 2007 il premio Von Humboldt, il Nobel germanico. Allievo di Delio Cantimori, ha dedicato la sua vita di studioso all’esplorazione del confine crepuscolare fra sovranità e sacro, dal potere temporale dei papi alla pratica del giuramento fino al recente studio sul tabù del furto come istituzione economica del mercato capitalistico.
Professore, in una sua recente lezione lei si è concesso un pessimismo quasi nicciano sulla funzione della storia: «Senza i libri di storia difficilmente i giovani europei avrebbero ucciso e si sarebbero fatti uccidere nelle trincee della Prima guerra mondiale». Il suo mestiere non serve più alla società? Niente più magistra vitae?
«Il mio mestiere, come dice lei, nasce per dare fondamento e legittimazione al potere. Nelle società antiche gli storici di corte stendevano genealogie di regnanti, edificavano spesso dal nulla il fondamento della legittimità dinastica. Per la cultura tedesca, del resto, il politico è semplicemente lo “storico pratico”, lo storico applicato. E questo è stato vero a lungo, fino a tempi recenti, non importa se al servizio del re di Prussia o dell’Italia democratica. I libri di testo che studiavo nel dopoguerra avevano ancora la struttura ideologica di quelli del fascismo, semplicemente cambiata di segno e di riferimento. Ma a un tratto è successo qualcosa».
Nella storiografia?
«Nel potere. È fuggito dai luoghi tradizionali, si è trasferito e si è nascosto. Gli storici oggi non sanno più dove cercarlo. Io ebbi un’autentica epifania di questa verità qualche anno addietro, mentre leggevo Il Sole 24 Ore.
Mi capitò l’occhio su un titolo che parlava di “fondi sovrani”. Feci un salto sulla sedia: io ho dedicato una vita allo studio della sovranità, ed ecco, la vedevo trasferita su un meccanismo finanziario del mercato “senza fissa dimora”. Nell’era della globalità non c’è più lo Stato, o quel che ne è rimasto non è più il vero potere. E il vero potere non ha più bisogno della storiografia per legittimarsi, preferisce altre discipline “senza storia”, il marketing, la sociologia, la comunicazione».
Fine della storia?
«Al contrario, liberazione dello storico. Siamo stati sollevati, forse oltre i nostri meriti, da un legame oppressivo, ora siamo del tutto senza potere, ma siamo liberi, e possiamo dedicarci alla nostra vera missione. Dopo aver legittimato il potere, ora dobbiamo de-legittimarlo».
La vicinanza al potere fa male allo storico? Lei ha avuto un fratello premier...
«(Ride) L’unico consiglio che diedi a Romano, il nome di un ministro per l’università, non andò a buon fine... Invece io penso che un’esperienza ravvicinata con la politica faccia bene allo storico. Anche io ho avuto la mia, abbastanza fulminea (fu deputato della Rete nel ’92, ma lasciò dopo pochi mesi per dissensi politici con Leoluca Orlando, ndr.), non rimpiango di averlo fatto. Come non rimpiango di esser stato nel ’72 il primo rettore di Trento, volevo farne un’università italo-germanica, ma erano anni caldi, anche se io presi al massimo qualche calcio... Chi non ha avuto un assaggio del potere non può scrivere di storia, chi si dedica solo alle carte non capisce la storia».
I politici cattolici non hanno più un partito, la dottrina sociale della Chiesa evoca più le ingerenze legislative che il magistero morale... Ha ancora un senso definirsi storico cattolico, sempre che lei ci tenga?
«La Chiesa cattolica come istituzione che ambiva ad essere societas perfecta è stata più che altro l’oggetto dei miei studi, ne ho seguito l’evoluzione fino alla crisi attuale, quando assieme alle sovranità nazionali esplode anche il concetto di chiesa nazionale e territoriale. Le mie ricerche sulla dialettica fra sacro e potere, certamente, sono animate da una certa vibratilità di partecipazione personale. Essere cattolico, anche nel senso più banale di far parte di una comunità, di una chiesa, credo però mi abbia dato soprattutto questo grande vantaggio, preservarmi dalle ideologie, in particolare il marxismo e il crocianesimo. Mi fa ridere chi mi ha classificato fra i catto-comunisti, io che nel ’48 attaccavo i manifesti contro il Pci... ».
Quando uscì il suo Settimo, non rubare, tanti pensarono a un saggio nato per reagire alla lunga crisi della moralità pubblica dopo Tangentopoli. In mezzo ai nuovi ancor più miseri scandali dei rimborsi spese dei politici, il tema torna di attualità?
«Per la verità non era uno studio sull’etica, ma sull’economia. Cercavo di dimostrare che il tabù del furto era una funzione necessaria alla nascita del mercato capitalistico, che il “non rubare” della nuova economia internazionale non era più l’interdetto morale contro il furto di una pecora o di una mela della società di sussistenza, ma il requisito per l’instaurazione di un sistema garantito di regole per gli scambi. Detto questo, che si profili di nuovo, sulla scena pubblica, il rubare nella sua accezione più tradizionale di allungare la mano sul denaro che non ti appartiene, credo tradisca un fatale regresso della società italiana a una condizione premoderna, di egoismi privati e di familismi, che è poi la radice storica della mentalità mafiosa. Spero ci siano ancora nella società italiana anticorpi politici, oltre che morali, per evitare il tracollo».

l’Unità 4.10.12
Lazio al voto, il Pd sceglie Zingaretti
Gasbarra: «È emergenza democratica, chiederò agli alleati di sostenerlo». Ok di Sel al presidente della Provincia
Campidoglio, si pensa a Riccardi. Alemanno, forse le dimissioni
di Jolanda Bufalini


ROMA Nicola Zingaretti in campo come candidato presidente alle regionali del Lazio. È la scelta compiuta dal Partito democratico, è la proposta che il Pd fa agli alleati. Il presidente della Provincia, fino a ieri candidato per il Campidoglio, ha dato la sua disponibilità «per spirito di servizio», il passo successivo è l’incontro con le forze di centrosinistra.
La svolta decisa dal Pd, ieri c’è stata una lunga telefonata fra Pier Luigi Bersani e Enrico Gasbarra, è maturata rapidamente e risponde a diverse esigenze nel rapido precipitare degli avvenimenti politici.
Nel Lazio si va al voto subito, almeno questo è lo scenario più probabile, è il convincimento del ministro Anna Maria Cancellieri, il soggetto istituzionale che, insieme alla presidente uscente, deve stabilire la data della consultazione. Il Lazio diventa dunque la consultazione più importante, insieme alla Sicilia, della tornata che si concluderà con le elezioni politiche.
Ma si va alle urne, per usare le parole di Renata Polverini, dopo un’alluvione di fango come quella del 1966 a Firenze. L’ingordigia del Batman di Anagni, al secolo Franco Fiorito, ha scoperchiato meccanismi che toccano tutti, alimentando il fiume dell’antipolitica. Zingaretti ha, in questa situazione, molte carte da giocare: è già in campo, anche se fino a ieri ha studiato da sindaco; è il più apprezzato fra i TQ, l’unico insieme a Matteo Renzi, ad avere una caratura e una popolarità nazionale. In più, quando è scoppiato lo scandalo della Pisana, è stato il primo a twittare «tutti a casa», la sua è una candidatura nel segno del rinnovamento in una regione sotto choc, mette tutti d’accordo, tagliando di netto con il totonomi fra autocandidature deboli e nomi che ritornano da tre lustri (Gentiloni e Touadi, Sassoli e Melandri). Last but not least, il Pd ha davanti a sé la questione aperta dell’allargamento delle alleanze.
Con il voto a dicembre non ci sono i tempi politici, prima ancora che di calendario, per stringere un patto con l’Udc. I centristi del Lazio hanno scelto di sostenere Renata Polverini e Luciano Ciocchetti, vicepresidente e assessore all’urbanistica, è stato accanto alla governatrice fino alla sera delle dimissioni e anche oltre. Inoltre, come ha subito sottolineato Luigi Nieri (Sel), è anche l’autore della peggiore legge sul piano casa che abbia visto la luce. Non sembra quindi proponibile un così rapido giro di valzer centrista. Discorso diverso potrebbe valere per il Campidoglio, una volta che Zingaretti, con «spirito di servizio» abbia lasciato il terreno. E il lavoro, avviato dal presidente della Provincia su Roma, con il «progetto strategico per l’area metropolitana», che punta welfare, urbanistica, mobilità, sviluppo sostenibile e ambiente, cultura, è in gran parte mutuabile anche dalla cabina regionale. Così come la riforma delle strutture della politica e degli apparati, a cominciare dalle società partecipate.
Dunque lo schema di gioco è «classico» per la Regione, con una alleanza di centrosinistra, mentre nel campo avverso si scalda i muscoli Giorgia Meloni, che punta sulla chance di ricompattare l’elettorato di destra (il filone ex An) forte soprattutto nelle province fuori Roma, da Viterbo, a Latina, a Rieti, a Frosinone.
A Roma, invece, dove si voterà in contemporanea con le politiche, potrebbero realizzarsi le condizioni dell’allargamento dell’alleanza al centro a cui si sta lavorando a livello nazionale. Se questa ipotesi si realizzerà, la figura di Andrea Riccardi, ministro del governo Monti, avrebbe il profilo alto di un candidato tecnico. «Roma ha bisogno di un nuovo Argan», ha detto il ministro in una intervista di qualche giorno fa al Corriere della Sera. Se gli sviluppi, sul piano nazionale, andassero diversamente, in ogni caso, la candidatura per lo scranno più alto dell’aula Giulio Cesare, sarebbe scelta in area cattolica.
Su Andrea Riccardi, nel Pd, insieme a Giuseppe Fioroni, che ne è stato sponsor molto convinto, puntano i veltroniani. Veltroni sindaco con Sant’Egidio ha stabilito un forte feeling, soprattutto nelle iniziative per la pace, volte a superare le barriere fra israeliani e palestinesi. Sull’allargamento delle alleanze per il Campidoglio c’è anche la sintonia del capogruppo romano, Umberto Marroni.
I prossimi passi saranno le consultazioni con gli alleati, Nieri ha posto la questione delle primarie e Gasbarra ha risposto che si faranno, anche se i tempi sono brevi, per Idv «prima viene il programma». Enrico Gasbarra, il cui nome era fra i papabili per la Regione Lazio, forte del successo dell’iniziativa da «elettrochoc» conclusasi con le dimissioni della Polverini, si trova bene nel ruolo di segretario che dovrà affrontare le tre elezioni a Roma e nel Lazio.
Intanto nel Pd romano si discute animatamente sui consiglieri uscenti. La linea è quella del rinnovamento, ma l’ex capogruppo Esterino Montino sostiene: «Sarebbe un errore grave non ricandidare nessuno degli uscenti. Non si può mettere sullo stesso piano Pd e Pdl». Roberto Morassut, intervenendo in direzione, ha posto un problema più generale, «l’errore politico ha origine nel come si fa opposizione».
Nel centrodestra vertice, ieri, da Alfano, con Alemanno e Renata Polverini. Si susseguono le voci sulle dimissioni del sindaco, lui nega ma è costretto a fronteggiare difficoltà che gli vengono dalla sua maggioranza, condite con lo scoppiare degli scandali sugli appalti per gli autobus. Le dimissioni gli aprirebbero la strada per il Parlamento.

il Fatto 4.10.12
Scandali in regione
Pd Lazio, processo a Montino: botte da orbi


Io non sono Batman! Hai capito, Miccoli? ”. Esterino Montino, fino alla settimana scorsa capogruppo del Pd nella regione Lazio travolta dallo scandalo Fiorito, ha le vene del collo gonfie. Parla con il fiatone e sbraita contro Marco Miccoli, seduto qualche metro più in là. Ha appena sentito l’intemerata del segretario romano del partito, che ha elencato le cose “inaccettabili” combinate dal gruppo dei consiglieri regionali. “Non chiamate ‘forcaiola’ l’iniziativa dei circoli di Roma”, dice Miccoli, facendo sua la rabbia della base che ha attaccato gli eletti in Regione dicendo che non vanno più ricandidati perchè hanno addirittura violato il codice etico del partito. “Loro lo sanno benissimo che tra noi non ci sono Batman, non vogliono nessuna epurazione - si infervora Miccoli - Ma è chiaro che c’è qualcosa di inaccettabile se mentre voi stavate in Consiglio, noi stiamo chiudendo i circoli, stiamo mettendo in cassa integrazione i lavoratori della federazione, non possiamo pagare le bollette, non possiamo fare manifesti! ”.
MICCOLI PARLA “di pancia”, diranno più tardi. Ma di applausi ne prende, anche quando spiega che il contributo del 10 per cento al partito vale se si fa il consigliere comunale a mille euro al mese, “ma quando se ne prendono 10 mila, si deve dare il 50 per cento al partito”. Montino non la manda giù. Lui, in particolare, sente che questa, più che una direzione regionale del Pd, è un processo. E ha sicuramente ragione, dicono dalla platea, quando si arrabbia perché si sente “buttare addosso la stessa responsabilità di Fiorito”. Frana, però, quando dice che quei soldi per il funzionamento del gruppo li ha presi perché ad agosto del 2010 la crisi non era quella di adesso, non c’era la spending review: “In un altro periodo avremmo avuto un atteggiamento diverso”. Mentre dice che tornerà al suo lavoro, che della politica non ha bisogno, il partito sta decidendo come costruire le prossime liste. Il segretario regionale, Enrico Gasbarra ha fatto la sua proposta: ha avuto già “tante disponibilità dai colleghi uscenti”, ma per “delineare il cambiamento” e evitare “il solo esercizio della forza delle preferenze” serve “una commissione” di valutazione della candidatura e la certificazione dei costi della campagna elettorale attraverso società esterne.
LA PROPOSTA sembra piacere a tutti, anche se gli scandali non possono cancellare il lavoro fatto fino ad adesso: “Io mi rimetto alle scelte del partito - dice Enzo Foschi, anche lui consigliere regionale uscente - ma voglio che anche i circoli possano giudicare il lavoro fatto in questi anni”. I tempi sono stretti. Nel Lazio, se tutto va come sembra, si voterà a dicembre, tra tre mesi scarsi. Ed è per questo che - archiviato il “processo” - ieri la notizia data da Gasbarra è soprattutto una: ha chiesto a Nicola Zingaretti di candidarsi alla guida della Regione. I piani dell’attuale presidente della Provincia erano altri, puntava al Campidoglio, ma questa è “un’emergenza” e, gli ricorda Gasbarra, “i legittimi percorsi e le aspirazioni personali devono venire dopo”. “Noooo! - l’urlo di un signore in camicia a quadretti e gilet lo interrompe - È un anno e mezzo che stiamo lavorando per porta’ Zingaretti al Comune di Roma”. Troppo tardi, sembra. Prima di “sacrificare” Zingaretti, Gasbarra ha sentito Pierluigi Bersani. Hanno deciso che il primo voto utile è quello da giocarsi bene, che poi servirà da volano alle amministrative, alle politiche, aiuterà a costruire l’accordo con l’Udc. Bisogna vincere, questa volta ancora di più. E, drammaticamente, i democratici si sono guardati intorno e hanno visto che, Campidoglio o Regione, adesso nel Pd Lazio di possibile vincente c’è solo lui, “Nicola”.
(pa.za.)

il Fatto 4.10.12
Severino: “Non ci sono le condizioni per l’amnistia”


AL MOMENTO non ci sono le condizioni parlamentari per votare un’amnistia”. La deduzione è del ministro Paola Severino: “L’amnistia non è legata alla volontà governativa di concederla o meno, dipende dal Parlamento e richiede una maggioranza qualificata”. Il Guardasigilli ha spiegato che “la stessa domanda mi è stata rivolta da due ragazzi che ho incontrato (nel carcere minorile di Napoli, ndr) . Ho detto loro che non bisogna restare con le mani in mano attendendo che ci siano le condizioni per l’amnistia”. Con le misure eccezionali, ha sottolineato Severino, “si devono fare interventi strutturali che consentano di mantenere il numero detenuti compatibile con il decoro, e insistere perchè le misure alternative alla detenzione diventino realtà operativa. Se si fa l’amnistia ma non c’è il mezzo per combattere la recidiva i numeri si raggiungeranno di nuovo. Serve un mix delle due misure, strutturali ed eccezionali”.

l’Unità 4.10.12
Stazzema, il governo tedesco: «Noi storicamente responsabili»


«Il governo federale continuerà ad assumersi la responsabilità storica» dei crimini commessi per mano dei tedeschi, «la legge non può rendere come non accaduto quanto è accaduto». Lo ha detto il ministro tedesco Michael Georg Link a Palazzo Chigi sulla decisione della magistratura tedesca di archiviare l’inchiesta su Sant’Anna di Stazzema. «Faremo tutto il possibile affinché i crimini compiuti per mano dei tedeschi non vengano dimenticati», ha aggiunto Link affrontando per primo l’argomento in una conferenza stampa dopo l’incontro con il ministro per gli affari europei, Enzo Moavero, senza attendere domande in merito. «Da un lato ci sono gli aspetti giuridici, dall’altro la sofferenza e il dolore», ha proseguito il ministro tedesco ribadendo che la magistratura tedesca ha agito in base alle leggi e ammettendo che «68 anni dopo l’eccidio è difficile chiarire gli eventi e fare giustizia».
Ieri, intanto, era arrivata la protesta ufficiale dell’Associazione nazionale partigiani sull’archiviazione dell’inchiesta da parte della magistratura tedesca sulla strage che fece 560 morti il 12 agosto del 1944. «Il provvedimento di archiviazione di Stoccarda, nei confronti di alcuni residui imputati della strage di S. Anna di Stazzema, è semplicemente inaudito e colpisce per la sua gravità, dimostrando che in Germania, insieme a persone che hanno “capito” (vedi i discorsi di Schultz a Marzabotto e a Sant’Anna) ce ne sono altre che ancora non vogliono arrendersi di fronte alla durezza della storia e della realtà», ha tuonato il presidente Carlo Smuraglia. ««Possibile che la giurisdizione di un Paese prescinda del tutto da quanto si è accertato (e in modo definitivo) in un altro Paese? Certo ha aggiunto -, non esiste un obbligo di legge di conformazione a quanto altrove accertato, anche se nella sede più alta, ma che si possa addirittura archiviare “per mancanza di prove” per una vicenda storicamente accertata e per la quale dieci cittadini tedeschi sono stati condannati in Italia, in tutti i gradi del giudizio, all’ergastolo, è veramente inaudito e incredibile, perché significa che non ci si è resi conto della orrenda tragedia compiuta per mano tedesca e fascista, nell’agosto 1944, e non si è pensato non solo alle ragioni imposte dal diritto ma neppure a quelle imposte dalla umanità».

il Fatto 4.10.12
La beffa della strage nazista e le scuse storiche di Berlino
Dopo l’annullamento del processo alle SS per l’eccidio di sant’Anna di Stazzema
la Germania rassicura l’Italia: un “risarcimento” solo morale
di Giampiero Gramaglia

Nell’anniversario della strage di Marzabotto, il più grave eccidio nazista in Italia, i governi di Roma e di Berlino cercano di chiudere in fretta la ferita delle atrocità della guerra, riaperta della decisione della procura di Stoccarda di archiviare il processo sul massacro di Sant’Anna di Stazzema. Italia e Germania vogliono spegnere una polemica che minaccia di intorbidire le relazioni, in un momento difficile nel contesto europeo. In visita a Roma nell’anniversario della riunificazione tedesca il ministro per gli affari europei Michael Geor Link affronta la questione di petto, senza attendere le domande dei giornalisti, dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il suo omologo Enzo Moavero. “Faremo tutto il possibile – dice - affinché i crimini compiuti per mano tedesca non vengano dimenticati. Il governo tedesco continuerà ad assumersene la responsabilità storica”, perché la legge “non può rendere non accaduto quanto accaduto”.
Il colloquio tra Moavero e Link doveva vertere sui problemi europei. Ma la vicenda di Stazze-ma non è rimasta ai margini. Il ministro tedesco distingue tra aspetti giuridici e “sofferenza e dolore”, ribadisce che la magistratura ha agito in base alle leggi e afferma che “68 anni dopo è difficile fare giustizia”.
MARTEDÌ, Link, che era già a Roma, era stato ricevuto alla Farnesina dal segretario generale, l’ambasciatore Michele Valenzise, che, su istruzioni del ministro Giulio Terzi, gli aveva manifestato “il profondo sconcerto e la rinnovata sofferenza degli italiani”. Valenzise gli aveva ricordato il comune impegno italo-tedesco, assunto nel 2008, “a un approfondimento comune sul passato di guerra” e alla “costruzione di una cultura della memoria comune”. Senza per questo rinunciare alla compensazione delle vittime avallata dalla Corte di Giustizia internazionale il 3 febbraio.
Dopo il passo di Valenzise – diplomaticamente inconsueto e forte - e l’esternazione pubblica di Link, in serata, all’ambasciata di Germania, i riti dell’amicizia italo-tedesca sono stati resi più intensi dalla presenza del premier Monti.

La Stampa 4.10.12
Siria-Turchia, scintille di guerra
Colpi di mortaio oltre confine: 5 morti. E Ankara attacca l’artiglieria di Assad. Poi Damasco si scusa
di Marta Ottaviani


Colpi di mortaio sulla Turchia, la replica con i bombardamenti in Siria, nella provincia settentrionale di Idbli, e poi il vertice urgente della Nato. La crisi siriana in poche ore, ieri, ha visto un’accelerazione importante, uscendo dai confini nazionali e diventando ancor più, se possibile, un caso internazionale.

A provocare l’escalation i colpi di mortaio lanciati dalla Siria che nel pomeriggio si sono abbattuti su un’abitazione nel Sud-Est della Turchia, nella città di Akcakale, uccidendo cinque persone (fra cui 4 bambini) e ferendone 13. Immediata è scattata la controffensiva. È stato l’ufficio del premier islamico-moderato della Mezzaluna Recep Tayyip Erdogan a spiegare la dinamica di quello che all’inizio poteva sembrare un tragico incidente - in realtà nemmeno l’origine degli spari era certa: provenivano dai ribelli o dall’esercito di Assad? - ma che in serata ha assunto toni più seri.

«Le forze turche hanno colpito alcuni obiettivi in territorio siriano per rappresaglia contro il lancio di proiettili di mortaio che ha causato cinque morti in territorio turco», ha dichiarato Erdogan. Il primo ministro ha anche aggiunto che la Turchia è pronta a colpire altri obiettivi in caso di ripetersi di attacchi. E nella notte sono stati uditi altri tiri di artiglieria verso la Siria, mentre oggi il Parlamento discuterà la richiesta del premier dell’autorizzazione per eventuali azioni oltre la frontiera di unità dell’esercito.
In tarda serata erano giunte le scuse di Damasco per i colpi di mortaio. Il regime ha porto le sue condoglianze e ha promesso «un’inchiesta sull’incidente». Ma ha anche chiesto che «i paesi confinanti cessino di appoggiare i terroristi». Evidentemente non è bastato. Da mesi Ankara aveva avvisato la comunità internazionale che la misura era colma e ieri il vicepremier turco, Besir Atalay, commentando la notizia dei morti di Akcakale aveva detto che «era stato passato il segno». Lasciando intendere che la Nato avrebbe dovuto farsi carico dell’attacco subito da un Paese membro. In serata gli ambasciatori dell’Alleanza invocavano l’Articolo 4 del Trattato, che «impegna i Paesi a riunirsi d’urgenza in caso di aggressioni».
Erdogan in serata ha riunito i suoi consiglieri e le alte cariche dell’esercito per analizzare la situazione, mentre gli alleati esprimevano solidarietà: il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, si definiva «oltraggiata» dall’attacco siriano. Poco dopo la Casa Bianca riaffermava che gli Usa erano vicini all’alleato turco ed era giunto il momento per Assad «di lasciare il potere».
Turchia e Siria erano già arrivate a un passo dalla crisi lo scorso giugno, quando un jet da ricognizione della Mezzaluna è precipitato in acque internazionali, ufficialmente abbattuto da un missile siriano. Rilievi condotti nelle settimane successive hanno messo in dubbio le prime ricostruzioni, tuttavia in quell’occasione Erdogan lanciò un ultimatum ad Assad, dicendo che la Turchia non avrebbe tollerato altri sconfinamenti sul territorio nazionale.
E ieri pomeriggio ha mostrato a tutti di essere passata dalle parole ai fatti. Che soluzione politica ha in mente?
«La Russia sta bloccando ogni via d’uscita condivisa, ma è sempre più isolata. Se l’opposizione diventerà abbastanza unita, e abbastanza forte sul piano militare, anche l’equazione politica potrebbe cambiare. Nel momento in cui Mosca si rendesse conto che la situazione sfugge al suo controllo, con il rischio della caduta di Assad seguita dal caos in Siria, potrebbe essere incentivata ad aiutare la comunità internazionale nel trovare una via d’uscita politica che preservi la sua stessa influenza sul Paese».
L’incidente di ieri come influenza questa strategia?
«Probabilmente darà argomenti a chi spinge affinché l’opposizione siriana sia sostenuta in maniera più sistematica, anche sul piano militare».
Quindi la comunità internazionale resterà ferma, fino a quando si creeranno le condizioni per questa svolta?
«Credo di sì, a meno che non avvengano altri incidenti peggiori, capaci di far davvero precipitare la situazione».

La Stampa 4.10.12
Erdogan chiama Bruxelles Vertice Nato straordinario “Un partner è stato colpito”
La Russia avverte: non cercate pretesti per intervenire
di Marco Zatterin


L’ articolo 5 Lo statuto dell’Alleanza Atlantica prevede che i Paesi associati intervengano in difesa di un Paese membro attaccato da uno Stato straniero

Alle 21,16 l’alto diplomatico risponde al telefono con una cortesia comprensibilmente spiccia. «Non posso parlare - spiega - sto entrando nel Consiglio Atlantico: andiamo a sentire la relazione dei turchi». La richiesta di convocazione presentata dell’ambasciatore di Ankara, Haydar Berk, era vecchia di pochi minuti, giusto il tempo per trasformare una giornata di routine in una di allarme rosso. Come vuole la procedura, la feluca ha invocato l’articolo 4 del trattato Nato. È stata una richiesta di consultazioni di uno stato membro dell’Alleanza che sente che la sua integrità territoriale è minacciata. Nel caso, dalla guerra civile siriana che sembra voler tracimare oltre il confine turco.
Luci accese sino a tardi nel quartier generale di Evere, alla periferia nord di Bruxelles. Preoccupazione dentro e fuori. I mortai siriani hanno colpito in territorio turco nel primo pomeriggio. Poco prima delle ventuno, il premier Erdogan ha annunciato di aver contrattaccato, bombardando oltre la frontiera siriana. Due atti di guerra consumati nello spazio di poche ore. Il segretario generale Anders Fogh Rasmussen, confermato per un anno proprio ieri mattina, ha trovato modo di condannarne uno solo. Per il secondo non c’è stato il tempo. E nemmeno la volontà. Alla fine, alle 10,30, l’Alleanza ha comunicato la sua «solidarietà» alla Turchia. Gli attacchi della Siria, dice l’Alleanza «sono una flagrante violazione della legge internazionale» e se ne chiede «l’immediata cessazione».
Rasmussen aveva avuto un contatto col ministero degli esteri turco Ahmet Davutoglu prima dell’attacco. È stato però lo stesso capo della diplomazia di Ankara a domandare l’incontro urgente. Una domanda presentata a un così alto livello, secondo un osservatore, potrebbe aprire la strada a un voto di ricorso all’articolo 5. Quello del «Tutti per uno» che si trova alle fondamenta dell’Alleanza.
Il quinto articolo del Trattato Atlantico afferma che «un attacco armato nei confronti di uno o più partner in Europa o Nord America debba essere considerato come un attacco contro tutti» e, conseguentemente, stabilisce che «qualora si verificasse un simile attacco, ognuno di loro, esercitando il diritto individuale e collettivo di difesa stabilita dall’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite, assistere la parte o le parti attaccate». In altre parole, se la Turchia - che è socio della Nato ma non dell’Unione europea - viene aggredita dalla Siria, la Nato è per diritto autorizzata a intervenire contro Damasco.
Possibile? Il protocollo prevede che ci sia un voto degli ambasciatori. In questo caso spetterebbe ai turchi chiederlo e il fatto verrebbe reso noto solo in caso di delibera positiva. In caso di richiesta e di esito negativo, argomenta un osservatore diplomatico, la Nato potrebbe comunque decidere di aiutare i turchi con l’invio di mezzi militari per il controllo delle frontiere.
Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha invitato il governo siriano a «rispettare l’integrità territoriale dei Paesi vicini» e ribadito come la militarizzazione del conflitto porta «risultati tragici». Sa bene che un’offensiva in tal senso dovrebbe dibattuta al Palazzo di Vetro ieri sera se ne è discusso al Consiglio di Sicurezza, che oggi verrà riunito per ricevere l’ambasciatore turco - dove la posizione negativa di Cina e Russia è ferma. «Abbiamo avvisato la Nato - ha detto il vice primo ministro russo Gennady Gatilov di non cercare pretesti per avviare scenari militari o iniziative come corridoi umanitari o zone cuscinetto». Il grosso guaio, si capisce, non è solo al confine fra Turchia e Siria.

il Fatto 4.10.12
Piazza Fontana, strage infinita
di Gianni Barbacetto e Silvia Truzzi


L’inchiesta a Milano. Nuove piste percorse dalla Procura dopo il libro di Cucchiarelli. Ma nessuna ha convinto i pm, che hanno chiesto l’archiviazione. Il giudice studia gli atti. Ecco cosa c’è nelle carte dell’ultima inchiesta, condotta dall’ultimo carabiniere che indaga, sull’attentato che fece perdere l’innocenza all’Italia Nuove strade (senza uscita?). Sono scoppiate due bombe e non una? Oppure il mandante è il finanziere Michelangelo Virgillito? Che ruolo ha avuto Ivano Toniolo, uno dei “ragazzi” del neonazista Franco Freda? Chi è il giovane di Milano che Giovanni Ventura ha indicato come l’esecutore materiale dell’eccidio nella banca?
LA TESI della doppia bomba è al centro del libro di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di piazza Fontana (Ponte alle Grazie, 2009), cui s’ispira liberamente il film del regista Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage (2011). L’uscita della pellicola innescò una polemica. Giampaolo Pansa accusò il film di aver ucciso Luigi Calabresi due volte e intervenne perfino, su Repubblica, Adriano Sofri, che per l’omicidio Calabresi è stato condannato. L’ex leader di Lotta continua ha pubblicato anche un instant book per attaccare le “tesi gratuite e assurde” del film. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, figlio del commissario, osservò che nel film non c’era traccia della campagna di linciaggio che portò all’omicidio del padre.
A CHE PUNTO è la notte? La storia infinita della bomba di piazza Fontana è ancora aperta, dopo dodici processi e nessun colpevole (tranne Carlo Digilio, che si è autoaccusato di aver contribuito alla preparazione dell’esplosivo). Le carte dell’ultima indagine della Procura di Milano sulla strage del 12 dicembre 1969 – 16 morti, 88 feriti – sono ora davanti al giudice delle indagini preliminari Fabrizio D’Arcangelo, che ha preso tempo per decidere se archiviare o avviare un nuovo processo. Ha domandato anche di poter avere l’archivio digitalizzato di tutte le inchieste sulla strage, migliaia di pagine, dalle prime indagini milanesi a quelle, via via, di Roma, Catanzaro, Bari, poi di Treviso e ancora di Milano. Gli atti dell’ultima inchiesta, mandati al gip nel maggio scorso dai pm Grazia Pradella, Maurizio Romanelli e Armando Spataro, sono quattro nuovi filoni aperti dopo la pubblicazione del libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di piazza Fontana. Al gip hanno chiesto d’archiviare, ritenendo che quelle quattro piste non portino da nessuna parte. Anzi: hanno espresso molto chiaramente perplessità sui metodi d’indagine usati dall’investigatore che ha battuto quelle piste, il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, che invece lamenta di non aver potuto concludere i suoi accertamenti (come quello sul casolare di Paese, indicato da Digilio come luogo utilizzato da Giovanni Ventura per depositare armi e esplosivi, ritrovato nel gennaio 2012 dagli investigatori che indagano a Brescia su Piazza della Loggia). “Assoluta inverosimiglianza” per la tesi della doppia bomba, una anarchica e una fascista, sostenuta da Cucchiarelli. Assurde le ricostruzioni di un nuovo testimone, Alfredo Virgillito. Inutili gli spunti forniti da due vecchi testimoni, Gianni Casalini e Giampaolo Stima-miglio. Così dicono i pm. Il legale dei famigliari delle vittime di piazza Fontana, Federico Sinicato, si è invece opposto all’archiviazione, sostenendo che almeno le ultime due piste varrebbe la pena di percorrerle.
Pista 1. La doppia bomba
Paolo Cucchiarelli, scrittore e giornalista, per raccontare “il segreto di piazza Fontana” è ripartito dalla vecchia analisi dell’esplosivo realizzata dal perito Fernando Trementini. Pur ammettendo che “i risultati non sono mai certi, anche se si agisce a scena calda”, Trementini osservò il cratere provocato dall’esplosione del 12 dicembre 1969 e concluse: “Quantificando tali danni, e rapportandoli al raggio di efficacia dell’ordito e al numero di vittime provocato, sono portato a ipotizzare che sia esplosa una carica di peso ragguardevole: presumibilmente non meno di sei chilogrammi, di una sostanza di potenziale esplosivo pari a quello della gelatina dinamite”. Sei chilogrammi, sostenne Trementini, non sarebbero stati nel contenitore utilizzato. La scatola metallica Juwel “aveva misure esterne di 30 x 24 x 9 centimetri, cui va sottratto lo spessore delle pareti metalliche e lo spazio occupato da timer, pile di alimentazione e detonatore”. Quindi: “La capienza utile rimanente per ospitare i candelotti esplosivi è tale da non poterne contenere più di circa quattro chilogrammi (consideriamo qui candelotti cilindrici di gelignite)”. Dunque in piazza Fontana esplosero due bombe. E sul palcoscenico del delitto si mossero più persone. Il sosia di un anarchico parzialmente inconsapevole, Pietro Valpreda, e l’attentatore, un neofascista. Forse, si spinge a ipotizzare Cucchiarelli, Claudio Orsi.
Pista 2. L’alta finanza
La figura più stramba di questa nuova indagine è Alfredo Virgillito: classe 1960, laureato in Scienze politiche, ultima professione lustrascarpe, attualmente disoccupato, ma collaboratore, a suo dire, dell’Fbi. Parente di Michelangelo Virgillito, il “finanziere pio” che dalla Sicilia sbarcò negli anni Venti a Milano, dove fece fortuna, assieme ad Antonino La Russa, padre di Ignazio e Romano: il padre di Alfredo Virgillito, Carmelo, è cugino del discusso finanziere. Al pm racconta anche la sua versione della strage di piazza Fontana. Dice di aver conosciuto negli Stati Uniti un collaboratore della Cia, chiamato Joe, che era stato in contatto con il Virgillito finanziere. “Mi raccontò di essersi recato a Milano precedentemente alla strage, in tre o quattro occasioni, nel settembre o nell’ottobre ‘69. In pratica Joe propose a Virgillito, paventandogli un guadagno attraverso le speculazioni in Borsa, di finanziare degli attentati a Milano in alcune banche, attentati che, a dire del Joe stesso al Virgillito, sarebbero dovuti avvenire in orario notturno e quindi senza arrecare danni alle persone. Joe stesso mi ha detto che la ragione spiegata a Michelangelo Virgillito non era in realtà il vero movente dell’operazione, che consisteva invece nella destabilizzazione della sinistra italiana e in particolare delle componenti del movimento studentesco presso l’università Statale di Milano e del sindacato in relazione alle quali gli americani erano letteralmente terrorizzati in quanto erano consapevoli della forza del Partito comunista italiano in ambito europeo. Joe mi disse che Michelangelo Virgillito volle sapere i nominativi degli esecutori materiali di questo progetto, dicendogli più o meno: ‘Se spendo soldi voglio sapere tutto’. Joe allora diede al Virgillito un foglio recante cinque nomi e un numero di telefono. Joe avrebbe dovuto fare da supervisore a queste persone e quindi il 12 dicembre era a Milano perché me lo ha specificato lui. Mi ha detto che la bomba utilizzata per piazza Fontana era stata custodita presso l’hotel Ambasciatori che a quell’epoca apparteneva allo stesso Virgillito”. Il finanziere disse a Joe che “avrebbe comunicato questo progetto eversivo a una cordata di speculatori finanziari da lui conosciuti, ovvero: Antonino La Russa, Michele Sindona e i Ligresti”. La bomba, dunque, avrebbe avuto anche una motivazione finanziaria. Joe è stato cercato dalla procura, ma risulta “persona ignota”. I pm hanno invece trovato all’ospedale Fatebenefratelli la documentazione medica dell’inizio degli anni 90 su Alfredo Virgillito, “da cui risultano condizioni di instabilità psichica”.
Pista 3. I ragazzi di Freda
Gianni Casalini è un neofascista di Padova del gruppo di Franco Freda. Nel 1969 partecipa agli attentati sui treni che preparano il grande botto finale di piazza Fontana. Ma è anche un informatore dei servizi segreti, come “fonte Turco”. Nel 1975 il generale del Sid Gian Adelio Maletti, preoccupato per quello che Casalini stava cominciando a raccontare, scrive un appunto a mano in cui annota che la “fonte Turco” voleva “scaricarsi la coscienza” e poi conclude: “Bisogna subito chiudere la fonte”. Vent’anni dopo, il giudice Guido Salvini scopre il rapporto di Maletti, individua Casalini e lo interroga. Ora, più di 30 anni dopo, la “fonte Turco” torna a parlare. Racconta di Ivano Toniolo, un altro dei ragazzi di del gruppo Freda. “Toniolo mi disse di farmi trovare alla stazione di Padova due giorni dopo”, dice riferendosi all’agosto del ’69, “perché saremmo andati a Milano ‘per fare dei botti’; io ho ovviamente capito che si doveva andare a Milano per piazzare degli ordigni esplosivi”. Segue racconto delle bombe messe alla stazione Centrale: “Un ordigno su un vagone sul binario 14”, “l’altro su un treno diretto a Venezia”, “proprio sul treno che poi abbiamo preso noi stessi per tornare a Padova”.
È nella casa padovana di Toniolo che si svolge la riunione del 18 aprile 1969, a cui partecipa anche Guido Giannettini, giornalista e agente del Sid: riunione cruciale, in cui si mette a punto la strategia delle bombe che culminerà con l’attentato di piazza Fontana. “Sarebbe interessante”, dice l’avvocato Sinicato, “indagare ancora su Toniolo e gli altri giovani del gruppo Freda”: Aldo Trinco, Pino Romanin, Marco Balzarini, Massimiliano Fachini... Già fatto in passato e senza risultati, risponde la procura. E poi, che credibilità processuale può avere un testimone che, scrive lo psichiatra Giovanni Carollo, è gravemente disturbato fin dalla adolescenza?
Pista 4. Il viaggio dal terrorista
Giampaolo Stimamiglio è uno dei ragazzi di Ordine nuovo di Padova. Negli ultimi anni ha raccontato che dentro il movimento (o accanto) esistevano correnti e gruppi più segreti, come quello chiamato “Scuola”, o come “Ananda Marga”, o come “Ludwig”... Rivela le confidenze ricevute da Giovanni Ventura, “nell’ultima occasione in cui lo vidi in Argentina”: “Presso la Banca dell’agricoltura aveva operato un ragazzo molto giovane di Milano che faceva parte del gruppo della Fenice e che aveva stretti rapporti con Massimiliano Fachini. Ventura aggiunse, se ben ricordo, che il padre di questo ragazzo era un funzionario di banca. A dire di Ventura, Delfo Zorzi (assolto nell’ultimo processo milanese, ndr) si era limitato a curare una parte del trasporto dell’ordigno... Ventura mi vincolò al silenzio su quanto mi aveva rivelato. Ora, morto Ventura, mi sento libero di poter riferire quanto da lui confidatomi”. “Perché non indagare in questa direzione?”, chiede Sinicato. “Chi è il ragazzo indicato da Stimamiglio come l’esecutore della strage?”. La parola ora passa al giudice.

il Fatto 4.10.12
Il romanzo nero di Milano
Storie di relitti di frontiera, soldati di una guerra a bassa intensità
combattuta imbracciando bottiglia e fucile, mescalina, foto nitide ed elementi verosimili
di Malcom Pagani


Fantasmi riparati in Angola. Uomini che sapevano troppo. Ingombranti emissari dei servizi segreti costretti al dogma dell’invisibilità che usano le abitazioni borghesi dei “militanti rivoluzionari” e relegano le famiglie nel letto a una piazza.
Le storie di chi orchestrò il dolore di quella milanese del 12 dicembre 1969, nelle testimonianze raccolte dal prezioso lavoro del colonnello Massimo Giraudo, riverberano un’aria sinistra. Erano fascisti. Sovvertitori dell’ordine costituito. Burattini di un sistema che aveva già scritto la pagina successiva. Ai piani alti, li facevano “giocare”.
Nuotare nel cono d’ombra tra struttura legalizzata e livello segreto e poi, inservibili, in attesa del disordine propedeutico all’ordine e del golpe che un giorno avrebbe oscurato il Sol dell’Avvenire, li abbandonavano al proprio destino. A volte con un passaporto, altre con un colpo in testa.
RELITTI DI FRONTIERA, camicie nere stinte, soldati di una guerra a bassa intensità da combattere imbracciando bottiglia e fucile, me-scalina e fotografie nitide, invenzioni ed elementi verosimili cui polvere, decenni, oblii e rimozioni non hanno permesso di dare un nome. Nulla è più vero dell’improbabile. Niente più fedele dell’autoanalisi. Davanti a Giraudo scorrono fotogrammi di biografie alla deriva. Abissi di infelicità concentriche. La gelignite nel portabagagli, Evola sul comodino, l’esilio volontario dalla comunità civile. Poi la follia. Il contrappasso. La paura. Gli psicofarmaci nella tasca per negarsi il presente o equivocarne tratti e curve a doppia velocità. Il coltello, per togliersi di mezzo, quando conciliazioni o perdoni postumi sono tramontati per sempre.
Il confine della solitudine fa parte dell’epica del vinto, ma lo sconfitto che emerge dai racconti di Alfredo Virgillito, Gianni Casa-lini e Giampaolo Stimamiglio, animato dal furore ideologico come dall’approssimazione, è l’autoritratto di una generazione. Più tragedia che farsa. Più assassinio che atto dimostrativo. Confusione. Attentatori che salgono sugli stessi treni su cui hanno depositato le bombe e funerali di Stato. Campi paramilitari e lezioni teoriche. Nello scatto, c’è spazio per criminali e illusi, cinici e bari, occulte “scuole” di eversione in cui traslare il verbo di René Guenon e Gladio in sonno costantemente all’erta. Il nemico comunista.
I profili di Guido Giannettini e Pino Rauti. Gli insegnanti giapponesi amanti di mistica e martirio. I gatti sacrificati dietro le tende di case veneziane per sperimentare solfati. E le cavie umane nella gabbia della colpa. Non si cancella. Non si lava. A certo sangue, capita così.

La Stampa 4.10.12
I “Magnacucchi”, tecnica di un massacro politico
In un libro la storia dei due parlamentari “eretici” messi al bando dal Pci nel 1951 come agenti del nemico
Togliatti: «Pidocchi nella criniera di un nobile cavallo». Roasio: «Dobbiamo farli odiare da tutti»
di Fabio Martini


Prima di loro, il peggior nemico politico era sempre stato fuori del partito; dopo di loro, quel riflesso così elementare cambierà. La vicenda di Valdo Magnani e di Aldo Cucchi, i due deputati del Pci che nel 1951 furono espulsi dal loro partito per aver espresso diffidenza verso l’Urss di Stalin, col passare degli anni ha finito col diventare non soltanto uno spartiacque storico-politico. Ma rappresenta soprattutto l’archetipo, la «madre» di tutte le intolleranze verso i dissidenti interni. Certo, mai più in Italia si ripeterà un tentativo così sistematico di demolizione politica e psicologica di dirigenti politici, eppure da quella vicenda traggono ispirazione molte delle tecniche di discredito successivamente adottate (anche di recente) da altri parti politiche: a destra, ma anche nel mondo della contestazione globale ai partiti.
Della storia dei due parlamentari torna a occuparsi un libro - L’eresia dei Magnacucchi sessant’anni dopo (Bononia University Press) - che raccoglie gli atti di un convegno e di una mostra svoltisi a Bologna nel 2011, arricchiti da ulteriori contributi. E tra i tanti motivi di interesse di quella vicenda, il libro aiuta a mettere a fuoco proprio la «tecnica di un massacro» morale e politico.
Tutto era iniziato il 19 gennaio 1951 a Reggio Emilia: Valdo Magnani (allora trentanovenne, già dirigente della Resistenza in Jugoslavia, uomo di grande cultura, cugino di Nilde Iotti), deputato e segretario della federazione provinciale del Pci, terminata la relazione introduttiva, rompe la ritualità: legge un possibile ordine del giorno nel quale si impegnavano i comunisti italiani a difendere i confini nazionali contro ogni aggressione esterna, da qualunque parte arrivasse e dicendo no a qualsiasi rivoluzione «importata su baionette straniere». Lo segue immediatamente un altro deputato del Pci, il bolognese Aldo Cucchi, leggendario eroe partigiano, medaglia d’oro al valor militare. Due strappi sostenuti da un coraggio che risulta difficile da comprendere se letto con i volubili occhi dell’ oggi: erano gli anni della guerra fredda, Stalin era ancora al potere, si combatteva la guerra di Corea, nei partiti vigeva un fideistico conformismo e dunque ogni dissenso interno risultava temerario, semplicemente inimmaginabile.
Scatta immediato l’isolamento verso i due, che si dimettono dal partito. Ma al Pci non piace che si siano messi fuori da soli: dopo una settimana Cucchi e Magnani - già ex - vengono formalmente espulsi. Un modo per sfregiarli. Come sparare su due corpi senza vita. Ma i due sono vivi e per loro inizia la persecuzione. Memorabile resterà la scomunica pronunciata da Palmiro Togliatti («anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa possono trovarsi due o tre pidocchi»), irrisorio il nomignolo inventato da Giancarlo Pajetta («Magnacucchi»), ma restano esemplari le raccomandazioni di alcuni dirigenti del Pci, a cominciare da quella di Antonio Roasio: «Dobbiamo farli odiare da tutti».
La parole chiave sono due, secondo una tecnica che Togliatti aveva importato dall’Urss staliniana: traditori e agenti del nemico. Ma siamo in democrazia e dunque Giuseppe Magnani, il padre di Valdo, si ritrova costretto a vivere in casa e a evitare alcuni parenti, mentre attorno ai due eretici il partito organizza un controllo sociale, che è stato raccontato da Mario Tobino, lo scrittore grande amico di Cucchi: «I compagni si davano il cambio, erano come agenti in borghese», in un «assedio che durava tutte le ventiquattr’ore» e che in città era alimentato da «insulti a fior di labbro, occhiate d’odio, ghigni di disprezzo», rendendo le loro case «come trincee circondate».
Certo, psicologicamente è rivelatrice la pagina del sofferto rientro di Magnani nel Pci, avversato non solo da Secchia, ma anche da Amendola e Ingrao e alfine concesso nel 1962: «Era un partito senza il quale Valdo non poteva vivere», ha raccontato più tardi la moglie Franca, corrispondente della tv tedesca, donna di grande finezza che - sposando il suo Valdo - aveva sfidato l’ostracismo della propria famiglia. Per desiderio della moglie Franca e dei figli Marco e Sabina non è mai stato rivelato il testo della lettera con la quale Magnani chiese a Togliatti di rientrare nel Pci. Segno di un rispetto, d’altri tempi, per la volontà di Magnani che, successivamente chiamato dal Pci alla guida della Lega Coop, morirà nel 1982, deluso - come ricorderà la moglie - «dalla emarginazione cui l’avevano tenuto i compagni di un partito che “perdeva tutti i treni”».

Corriere 4.10.12
Maria Bettetini, Quattro modi dell'amore
L’ombra di Narciso uccide la passione
di Gillo Dorfles


Che gli aspetti, le caratteristiche dell'amore siano quattro (o saranno una quarantina?) fatto sta che un argomento come questo non può che affascinare. Ed è con grande sottigliezza e coraggio che Maria Bettetini ha affrontato questo capitolo, a un tempo affascinante e pericoloso (Quattro modi dell'amore, Laterza, p.140, 14). Solo una studiosa della serietà e insieme dell'acutezza della Bettetini poteva avere il coraggio di compiere un viaggio a partire dall'antica Grecia (che le è particolarmente vicina) fino a giungere ai nostri giorni, analizzando i diversi autori che ne hanno trattato e soprattutto i diversi «personaggi» della lunga catena amorosa.
Se poi le «categorie amorose» siano davvero soltanto quattro nessuno potrà affermarlo o negarlo, giacché questo vocabolo vuoi nella sua versione maschile (amor, ljubav, love, eccetera) che in quella femminile (Liebe) (chissà perché questo diverso genere a seconda dei linguaggi?) non toglie che nessuna altra parola, anzi diciamo meglio nessun «sentimento», ha dato luogo ad altrettanta esaltazione, dispute, depravazioni. E non c'è dubbio che i «quattro modi», messi in luce dall'autrice ci dicono quante diverse sfumature presenti un termine che si adatta sia al dolce affetto materno sia a quello spesso invidioso fraterno, sia a quello orgoglioso del patriota, sia a quello morboso del nevrotico.
Che poi l'amore non possa essere analizzato senza indagarne gli aspetti materiali e sessuali appare un luogo comune ed è un lato positivo dell'analisi della Bettetini. Che, giustamente, ha proceduto senza servirsi degli ormai spesso tortuosi meandri di una psicoanalisi superata, né in quelli di morbosità sin troppo manovrate; con l'immancabile codazzo di omosessualità vuoi esaltate che vilipese.
Quello comunque che costituisce il maggiore pregio del saggio non è solo nell'aver fatto rinverdire i classici personaggi amorosi dell'antichità come dei nostri tempi — da Ulisse a Enea, da Adamo a Eva, da Ifigenia a Patroclo, da Menelao a Oreste — quanto di aver dato uno sguardo d'insieme ad alcune delle più note «sintesi amorose» della letteratura da Ovidio al Petrarca, da Omero a Proust, da Freud a Jung, da Saffo a Virginia Woolf.
Ma, giunti a questo punto, si potrebbe chiedersi se sia davvero lecito parlare di «quattro modi dell'amore», quando, anche nel più elementare degli stessi, le varanti sono infinite: si pensi soltanto entro i limiti della famiglia quale diversità amorosa esista tra l'amore materno e quello paterno, tra la amicizia quotidiana dei fratelli e le gelosie tra maschi e femmine d'una stessa covata. E, fuori dai limiti dell'amore familiare, si pensi alla camaraderie tra campioni sportivi, alla ambigua fratellanza degli atleti o dei professionisti; per giungere finalmente a quell'«amore per la divinità» di cui si è discusso come se fosse di dominio comune, mentre quasi sempre copre un lato patologico, la sua impostazione psicologica legata a dottrine e a culti ormai scaduti; ma spesso patologicamente recuperati.
Ma, accanto agli amori gioiosi e gaudiosi, e a quelli appassionati, ed esaltati, esiste tutta una serie di amori che vanno oltre il segno e che invadono l'ambito della patologia e si trasformano in delirio, martirio, crudeltà. Sono quelli che l'autrice definisce gli «amori estremi» e i «falsi amori».
Ne abbiamo, e ne abbiamo sempre avuti, esempi anche clamorosi: dalla spietata gelosia che trasforma la passione in segregazione e in carcere; dalla tenenza masochistica per la quale l'amore si accompagna alla sofferenza del partner; fino ai diversi gradi d'una passionalità che diventa minaccia.
Del resto anche l'amore per la divinità, quando si trasforma in autoflagellazioni o in altre forme di autotorture, dal digiuno alle sevizie autoimposte, non può certo essere considerato come appartenente a una vicenda amorosa, ma piuttosto come una delle tante derivazioni psicopatologiche della fede e del culto sacro.
Ma, da ultimo, tentiamo ancora un approccio all'«amore per noi stessi».
Non certo a imitazione del Narciso greco, ma piuttosto di quello del «Narcissum» freudiano. Certamente l'impulso all'autoerotismo ben noto; ma piuttosto che da un punto di vista sessuale, vorrei riferirmi a un amore platonico che ammira se stessi non solo con compiacenza ma con vera «passione».
Ebbene, ritengo che il numero degli individui per i quali il «se stesso» è al di sopra di quello d'ogni altra persona sia davvero preoccupante; l'importanza, la compiacenza rivolta alla propria persona, alle proprie qualità; persino ai propri difetti, è tale da obnubilare molto spesso una oculata visione del prossimo.
Un po' più di «amore per il prossimo» credo che sarebbe il vero «trionfo dell'amore».

La Stampa TuttoScienze 4.10.12
Il viaggio nell’altro Universo Quello che nessuno ha visto
di Antonio Masiero


ISTITUTO NAZIONALE DI FISICA NUCLEARE UNIVERSITÀ DI PADOVA

Il 4 luglio potrebbe rappresentare non solo la festa dell'indipendenza americana, ma il giorno di un'altra formidabile conquista per l'umanità. Infatti, quel giorno al Cern di Ginevra è stata annunciata la scoperta di una particella che ha tutte le caratteristiche che ci aspettiamo per il bosone di Higgs. Si tratta della misteriosa particella «annunciata» dalla teoria fondamentale della fisica, artefice della massa di tutte le altre particelle.
Ed ecco così che il 4 luglio l'umanità ha compiuto un grande passo per «capire» la materia, incluso ciò di cui noi stessi siamo fatti. Eppure siamo ben lontani dal «capire» la materia presente nell'Universo: infatti, abbiamo prove chiare ed indipendenti che più dell'80% di ciò che esiste nel cosmo non è affatto costituito dagli atomi di cui siamo fatti. E' la famosa «materia oscura», oscura di nome e di fatto.
Il «Chi l'ha visto» più appassionante e più importante di tutta la fisica diventa così, adesso, la caccia a queste nuove particelle «oscure». I fisici teorici si trovano disorientati davanti a questa «eccezione» del Modello Standard, teoria che riesce, invece, a render conto di quasi tutti i fenomeni che osserviamo. I fisici sperimentali stanno cercando questa nuova forma di materia ovunque, dalle profondità della Terra (succede nel laboratorio dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso) alla sommità delle montagne, sino allo spazio. Curiosamente, o forse per una profonda ragione di consistenza e bellezza, potrebbe essere proprio il bosone di Higgs a fare da «portale», aprendoci alla conoscenza (teorica e sperimentale) della materia oscura.
In una teoria che dia una visione unitaria di tutte le forze fondamentali della natura rimane un problema irrisolto: le proprietà del bosone di Higgs, ovvero la sua massa e il modo in cui interagisce con le altre particelle, risultano essere il frutto di una scelta accurata - anzi, incredibilmente troppo accurata - dei parametri liberi del Modello. Chi vuole trovare una teoria che «spieghi» che il valore di tali parametri non è frutto del caso o di un principio antropico viene spinto verso una nuova fisica, che si troverebbe al di là del Modello, ma a scale di energie che sono accessibili all’acceleratore più potente al mondo, l'Lhc del Cern.
Questa fisica aprirebbe le porte a una «teoria fondamentale» alla cui ricerca Einstein aveva dedicato (invano) i suoi ultimi anni. Una teoria che potrebbe basarsi su una formidabile simmetria della natura, la Supersimmetria. La più leggera delle nuove particelle supersimmetriche a cui abbiamo già attribuito un nome (anche se non sappiamo se esista) è il «neutralino», un parente del neutrino, e proprio il neutralino in queste teorie è destinato ad essere la «particella di materia oscura».
In questo decennio, nell’Lhc, abbiamo avuto e avremo urti tra particelle che ci riportano a quelli nel plasma primordiale di un Universo che aveva solo qualche miliardesimo di secondo di vita dopo il Big Bang. Negli urti dentro Lhc potremmo riuscire a produrre noi stessi la fantomatica particella di materia oscura, forse proprio il «neutralino». Al tempo stesso, nell'impressionante silenzio cosmico del Gran Sasso, una di queste particelle di materia oscura, dopo aver vagato nel cosmo per quasi 14 miliardi anni, dal Big Bang ad oggi, potrebbe urtare gli atomi degli apparecchi di misura che pazientemente la attendono e rivelarsi per quello che è.
Particelle prodotte artificialmente nei laboratori e particelle protagoniste della vita dell'Universo nei suoi primi e decisivi istanti potrebbero aiutarci a rispondere ad una domanda che ha da sempre accompagnato l'umanità: di cosa è fatto l'Universo? Al Festival della Scienza di Bergamo - il prossimo 6 ottobre - cercherò di illustrare come il bosone possa costituire un importante «indizio» per condurci al candidato o ai candidati della materia oscura. Magari stavolta la scoperta del neutralino (o chi per lui) potrebbe arrivare dal Cern o dal Gran Sasso, un 25 aprile...

La Stampa 4.10.12
Il rapporto Censis 2012
Su Internet sei italiani su dieci “Ora i media siamo noi”
I dati: sfondano web e social network, cambia la tv, giù la carta stampata
di Flavia Amabile


Chi non tocca il Web, muore. Nel mondo della comunicazione nessuno può immaginare di andare avanti senza fare i conti con Internet e con i social network, perché ormai è lì che passano le informazioni. Più di sei italiani su dieci navigano e uno su due ha Facebook.
Ma meno della metà ormai legge almeno un libro all’anno, come evidenza il decimo rapporto del Censis/Ucsi «I media siamo noi. L’inizio dell’era biomediatica».
È una rivoluzione in atto in tutto il mondo e l’Italia non fa eccezione, anzi. È iniziata anche qui l’era «biomediatica», quella in cui conta anzitutto condividere la propria vita via computer.
«L’utente diventa produttore, si confonde con il contenuto - spiega Giuseppe De Rita, presidente del Censis -. La tendenza a personalizzare l’accesso alle fonti e la selezione dei contenuti comporta però il rischio di conformismo come risultato dell’autoreferenzialità dell’accesso alle fonti d’informazione».
È su misura la tv per effetto della diffusione e del potenziamento delle tecnologie. A guardarla è la quasi totalità della popolazione, il 98,3%, dato ancora in aumento rispetto al 2011 dello 0,3%. Ma sono pochi ormai a usare la televisione di un tempo, oggi si guardano le tv satellitari (+1,6%), la Web tv (+1,2%) e la mobile tv (+1,6%).
Un quarto degli italiani collegati a Internet (il 24,2%) preferisce seguire i programmi sui siti Web delle emittenti televisive. Quattro italiani su 10 (esattamente il 42,4%) li cerca su You Tube per costruirsi i propri palinsesti su misura, percentuali che aumentano tra gli internauti di 14-29 anni, salendo rispettivamente al 35,3% e al 56,6%.
Anche la radio si è adeguata ai nuovi tempi e resta un mezzo a larghissima diffusione: l’ascolta l’83,9% della popolazione (+3,7% in un anno). Ma sono sempre più importanti le forme di radio che hanno un contatto con la rete: la radio ascoltata via Web tramite il pc (+2,3%) e per mezzo dei telefoni cellulari (+1,4%), che stanno soppiantando un mezzo digitale di prima generazione come il lettore portatile di file mp3 (-1,7%).
I telefoni cellulari sono utilizzati dall’81,8% degli italiani, percentuale che in un anno è aumentata del 2,3%. Gli smartphone sono nelle mani di più della metà (54,8%) dei giovani. E Internet è il mezzo di comunicazione più diffuso e anche con il maggiore aumento tra gli utenti nell’ultimo anno: è cresciuto del +9%, arrivando al 62,1% degli italiani rispetto al 27,8% di dieci anni fa. Gran parte del successo è dovuto ai social network, gli iscritti a Facebook passano dal 49% dello scorso anno all’attuale 66,6% degli internauti, ovvero il 41,3% degli italiani e il 79,7% dei giovani.
È in difficoltà, invece, la carta stampata. Gli italiani leggono meno quotidiani (i lettori calano del 2,3%) ma si informano di più sulle state online dove c’è un aumento del 2,1% dei contatti (20,3% di utenza). Meno della metà degli italiani legge almeno un libro all’anno: il 49,7%. In lieve crescita (1%) invece gli e-book.
La disaffezione è più forte soprattutto nei giovani: tra il 2011 e il 2012 i lettori di quotidiani di 14-29 anni sono diminuiti dal 35% al 33,6%, quelli di libri dal 68% al 57,9%. Non è il bisogno d’informazione a essere diminuito, ma le strade percorse per acquisire le notizie sono cambiate. «Nel settore dei libri penso che siano segnali confortanti. Con la declinazione dei contenuti su più device il tasso di crescita può essere positivo»: è la strategia individuata da Maurizio Costa, amministratore delegato di Mondadori, per affrontare la rivoluzione in corso nel mondo dell’editoria e della comunicazione.