venerdì 5 ottobre 2012

l’Unità 5.10.12
La lezione del ragazzo Ingrao


Cara Unità,
grazie a Spataro per l’articolo (da pelle d’oca), grazie a Vendemmiati per il film (che andrò a vedere), grazie soprattutto a Pietro Ingrao il ragazzo dai capelli bianchi per i 97 anni dedicati alla «speranza di cambiare il mondo». Come lui non ho mai creduto alle utopie ma alla forza di volontà, alla tenacia di chi ci mette la faccia, nel lavoro e nel tempo libero, in silenzio e con umiltà con assoluto disinteresse per la sola «voglia di cambiare il mondo», con piccoli gesti quotidiani. È la mia scelta di vita, quella di fare per mestiere il «cittadino militante», il «rompiscatole». Grazie Pietro per la tua ostinazione: è per me la conferma che sto facendo la cosa giusta; è per altri una «frustata» (speriamo salutare), in particolare per quelli che hanno fatto e fanno della politica, non un mezzo per raggiungere obiettivi nell’interesse di tutti, ma uno strumento (il fine) per soddisfare interessi personali sfruttando senza ritegno e vergogna la buona fede delle persone.
Claudio Gandolfi

ASCA 3.10.12
Giornali: continua calo lettori, li legge solo 45,5% italiani

(ASCA) Roma, 3 ott I quotidiani registrano un calo di lettori del 2,3% (li leggeva il 67% degli italiani cinque anni fa, oggi sono diventati solo il 45,5%), anche se le testate online contano il 2,1% di contatti in piu' (20,3% di utenza). E' quanto emerge dal 10° Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione, promosso da 3 Italia, Mediaset, Mondadori, Rai e Telecom Italia, presentato oggi a Roma presso la Sala Capitolare del Senato da Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma, Presidente e Direttore Generale del Censis, e da Renato Schifani, Presidente del Senato della Repubblica. La free press perde l'11,8% di lettori (25,7% di utenza), -1% i settimanali (27,5% di utenza), +1% i mensili (19,4% di utenza), -6,5% l'editoria libraria. Ormai meno della meta' degli italiani legge almeno un libro all'anno: il 49,7%. Anche se si segnala un +1% per gli e-book. E proprio tra i giovani la disaffezione per la carta stampata e' piu' grave: tra il 2011 e il 2012 i lettori di quotidiani di 14-29 anni sono diminuiti dal 35% al 33,6%, quelli di libri dal 68% al 57,9%. com-dab/sam/ 031047 OTT 12 NNNN
ricevuto da Giovanni Senatore

il Fatto 5.10.12
Sartori: “Doppio turno ridicolo, primarie inutili”
“Cambiare il Porcellum? Furbizie da sprovveduti: non sanno di cosa parlano”
di Silvia Truzzi


Se un sbaglio si ripete, diventa regola. Ed è sulle regole delle primarie che il Pd casca nel solito errore: la rissa. Giovanni Sartori, politologo e firma del Corriere della Sera non è molto ottimista: “Dovrei? Mica voglio prendere la patente d’imbecille”.
Professore, partiamo dal contestato albo degli elettori. Che ne pensa?
In questo non ci vedo nulla di strano. Forse c’è un problema di privacy, ma è una cosa risolvibile. I partiti hanno iscritti e sostenitori, ma non sono segreti.
E il doppio turno?
Questo sì che è stravagante. Anzi, abbastanza ridicolo. Gli americani, che io sappia, non hanno primarie a doppio turno. Eppure le hanno inventate.
Ridicole. Perché?
Il doppio turno è stato introdotto dai francesi per l’elezione del capo dello Stato: una cosa più importante dell’indicazione del candidato. Un sistema macchinoso ma buono, per elezioni importanti. Il gioco deve valere la candela: in questo caso è assurdo.
Perché hanno intenzione di introdurre questa regola, secondo lei?
Perché nemmeno le capiscono, le regole. Le primarie americane sono complicate, ma ci sono molti libri che le spiegano. Non so se i nostri politici sono diventati analfabeti, basterebbe informarsi un po’...
Il disamore per la politica aumenta, nutrito dagli scandali e dalla crisi economica. Le primarie potrebbero essere un’occasione d’inclusione.
Sì, ma le primarie aperte da noi però sono un rischio. A Napoli arrivarono gli autubus pieni di immigrati, c’è il rischio di falsarle. Negli Usa c’è molta più correttezza.
Che consiglio darebbe al Pd?
Non capisco perché si complicano la vita. Hanno fatto le primarie per eleggere Bersani, che secondo lo statuto avrebbe dovuto essere il candidato. Non ho grande stima per lui, però la procedura era stata rispettata. Tanto è vero che per Renzi hanno dovuto cambiare statuto... Veri gentiluomini inglesi, ma insomma che confusione!
Primarie inutili, quindi?
Non vedo per quale ragione fare tre elezioni, che poi quando vanno alle elezioni vere le perdono... Spendere le energie di un partito più o meno a pezzi a me sembra inutile: se lo vogliono fare lo facciano. Si perdono in mille discussioni quando lo scopo è vincere le elezioni.
Veltroni ha detto: proprio quando il Pd potrebbe segnare a porta vuota e conquistare il governo, rischia di disintegrarsi.
Ha ragione. Il partito di Berlusconi è molto indebolito, ma esiste ancora. Certo è molto frammentato, però il Pd, tra Vendola e Renzi, non mi pare un modello monolitico. I maggiori partiti tradizionali sono in crisi e quelli nascenti sarebbe meglio che non nascessero...
Radicale. Perché?
Il partito di Grillo è pieno di proteste e vuoto di programmi. Accusa, con un vocabolario più volgare del mio, le malefatte del sistema che abbiamo. Vabbè, che ci vuole? In questo siamo bravi tutti.
Litigare, si dice sempre, è il vizio genetico della sinistra.
Un po’ dipende da questa mania della grande coalizione. Ma è sempre stato così, da dopo la Rivoluzione francese la sinistra è sempre stata frazionata. Io dico: ogni sinistra corra per conto proprio. Il pastrocchio non paga.
Alla fine il suo consiglio è “non fate le primarie”?
Ma ormai le faranno! E sabato, all’assemblea per le nuove regole, il giovanotto di Firenze non ci sarà. Ma come, fanno tutto per lui e lui nemmeno si presenta? Non mi sembra serio.
Gli elettori sono molto disorientati: tutte queste discussioni fanno perdere ulteriormente credibilità?
Ma certo, per questo era sensato restare alla candidatura di Bersani, anche se, ripeto, l’uomo non m’incanta.
Renzi rivendica il diritto di pescare nell’elettorato del centrodestra. E fa la campagna elettorale senza il simbolo del Pd.
Infatti. Una ragione in più per non modificare lo statuto a suo beneficio. La strategia di andare a cercare gli lettori del Pdl fa comodo a lui, ma sta spaccando il Pd alleato con Vendola.
Si vota tra meno di un anno...
Soprattutto, non sappiamo ancora con quale sistema elettorale. Io sono contrario alle coalizioni prima del voto: ogni partito si dovrebbe presentare con la propria identità. Del resto si è visto quali magnifici risultati ha avuto quest’operazione con Prodi, sempre appeso ai voti dei senatori a vita.
Il porcellum: lo cambieranno?
Questa gente parla parla, però non ne sa granché. Fanno i loro calcoli miseri, ma sono furbizie di sprovveduti. Anche perché fanno supposizioni sulla base dei sondaggi, con un elettorato che per metà è silente, incerto, in bilico sul filo dell’astensione. Figuriamoci. Io sono sempre stato per il doppio turno alla francese. Ma tanto non mi danno retta.

l’Unità 5.10.12
La guerra sulle regole Si cerca la mediazione
Lettere-appello di parlamentari, pro e contro norme stringenti
Rischio fumata nera all’assemblea di domani
Veltroni nella sede Pd: “Trovate un accordo prima di sabato o effetti devastanti”
di Simone Collini


Faccia a faccia, telefonate, incontri riservati. Nel Pd si lavora per evitare che all’Assemblea nazionale di domani si vada senza rete, ma ancora i nodi da sciogliere e i punti d’attrito sono molti. E con essi, le incognite su come si chiuderà l’appuntamento convocato all’hotel Ergife di Roma. Oggi la commissione Statuto si riunirà per definire la norma transitoria che consentirà a Matteo Renzi di partecipare alle primarie (allo stato può infatti correre per la premiership soltanto il segretario) e gli indirizzi generali delle regole da approvare poi la prossima settimana insieme alle altre forze della coalizione (Sel, Psi, Api).
Per istruire la pratica ieri c’è stata una riunione ristretta dell’organismo, e se il fronte pro-Renzi ha fatto marcia indietro rispetto a quanto dichiarato fino a 48 ore fa e accettato albo pubblico e doppio turno, il fronte pro-Bersani ha messo in chiaro che ci si potrà registrare il giorno stesso (non al gazebo in cui si vota, che sarà esclusivamente «elettorale», ma magari in uno a fianco), che le firme per potersi candidare possono essere meno del previsto (finora si era parlato del necessario sostegno di 90 delegati dell’assemblea o 18 mila iscritti) e che non necessariamente potrà votare al secondo turno soltanto chi lo ha già fatto al primo. Basterà per assicurare domani un’Assemblea tranquilla? Non è detto. Da ambo le parti non mancano infatti ali più radicali, totalmente contrarie alle primarie o, all’opposto, a qualunque vincolo che possa restringere la partecipazione.
PRESSING SU BERSANI
Le pressioni che in un senso o nell’altro sta ricevendo Bersani non sono poche. Si va dalla lettera scritta da 29 parlamentari Pd (tra i quali Gentiloni, Ceccanti, Vassallo, Ichino, Morando, Tonini) in cui si chiede al segretario «di impedire assurde limitazioni burocratiche, foriere di probabili contestazioni diffuse», alla lettera scritta da 7 deputati ex-Ppi vicini a Fioroni in cutroni, è andato di persona alla sede del Pd per esprimere a Bersani la sua preoccupazione per come si sono messe le cose. Il senso del ragionamento che ha fatto al leader del Pd è questo: dovete trovare un accordo con Renzi prima di sabato, altrimenti all’Assemblea si rischiano tensioni devastanti, e poi bisogna garantire un’ampia partecipazione alle primarie.
CLIMA DI SOSPETTI
Bersani non intende dar seguito alle pressioni e continua a ritenere giusto, visto che «il Pd ha deciso di cedere sovranità» agli elettori del centrosinistra per la scelta del candidato premier, chiedere a questi stessi elettori di «assumersi una responsabilità nel sostegno al centrosinistra».
Ma nel gruppo dirigente del Pd c’è anche chi vorrebbe regole più stringenti e in questo clima i sospetti su ipotetici sabotatori per l’appuntamento di domani si sprecano. Al punto che la stessa lettera di convocazione spedita ai 950 delegati dalla presidente dell’Assemblea Pd Rosy Bindi (notoriamente contraria alla sfida ai gazebo per come è stata impostata) ha fatto scattare l’allarme in chi teme domani manovre che possano portare a una fumata nera: la missiva ai delegati ha escluso la ricetta più semplice, quella della deroga, per la quale sarebbe bastata la maggioranza semplice dei membri presenti dell’Assemblea. Bindi ha invece scritto nella lettera di convocazione che quelle di domani saranno «votazioni in ordine a modifiche statutarie e regole di accesso per la partecipazione di candidati del Pd alle primarie di coalizione». Per le quali è necessaria la maggioranza degli aventi diritto: domani dovranno cioè essere presenti e votare sì alla norma che permette a Renzi di correre almeno 476 delegati. E poi c’è un’altra incognita: il voto avverrà per alzata di mano o a scrutinio segreto?
LE USCITE DI VENDOLA E DI PIETRO
Le uscite di Renzi stanno provocando molti malumori tra il gruppo dirigente del Pd («non sono d’accordo a mettere limiti che diano il senso della paura del gruppo dirigente», ha detto ieri sera). Dice il membro della segreteria Davide Zoggia dopo aver saputo quanto detto da Renzi a Prato: «I cittadini e le cittadine che si riconoscono nel centrosinistra, sicuri di votare alle primarie, sono per Matteo Renzi “truppe cammellate”. Cosa intende dire con queste parole? Serve rispetto, soprattutto nei confronti degli elettori di centrosinistra, definirli “truppe cammellate” è un’offesa inaccettabile». E poi ci sono anche uscite extra-Pd che non aiutano a rasserenare il clima. Come l’annuncio di Antonio Di Pietro, che fa sapere che se saranno primarie di programma l’Idv parteciperà. Sul doppio turno chiuso a chi ha votato al primo turno dichiara invece Vendola: «Se fosse vero che può votare al secondo turno solo chi ha votato al primo mi sentirei più un candidato di un reality show che delle primarie».

il Fatto 5.10.12
Il Pd trema per la scissione
Sms di renzi a Bersani “Il nostro accordo finisce qui”. Domani l’assemblea
di Fabrizio d’Esposito


Più di uno psicodramma. Un incubo. Dalla vittoria annunciata alle prossime politiche all’autodistruzione del Pd. La guerra tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi sulle regole delle primarie ha un retropensiero che divora la scena della decisiva assemblea di domani. Questo, secondo un autorevole parlamentare vicino al segretario: “Renzi vuole un pretesto per andare via? Mi auguro di no ma temo di sì”. A spaventare la maggioranza bersaniana del Pd è un’eventuale scissione del sindaco di Firenze. Per l’oligarchia democrat la questione non è più derubricata a fantapolitica. Il camper di “Adesso” sta girando l’Italia senza simbolo di partito e una lista civica nazionale di Renzi sarebbe già stata testata tra il 10 e il 15 per cento. Quanto e più di Grillo. Del resto lo stesso rottamatore lo ha ribadito ieri a Prato: “Noi possiamo dire meglio le stesse cose di Grillo”. Matteo Renzi sta facendo perdere la testa al Pd e non vuole più fermarsi. Guerra vera, come conferma il messaggino telefonico che ieri mattina il sindaco di Firenze avrebbe inviato al segretario del “suo” partito: “Il nostro accordo finisce qui”. Niente più fair play. La partita è a tutto campo e i colpi bassi non sono più esclusi. A complicare il quadro già caotico del centrosinistra e delle primarie di coalizione si è aggiunto ieri il mezzo sì di Antonio Di Pietro a competere. Dipende dal programma e dal tipo di alleanza, premette il leader dell’Italia dei valori. Con lui, i “grandi” della sfida per la candidatura a premier salirebbero a quattro: Bersani, Renzi, Vendola e Di Pietro, con l’aggiunta dei “piccoli” Ci-vati, Puppato, Gozi, Tabacci, Spini.
Oggi, però, in vista dell’assemblea di domani, il pericolo numero uno di Bersani resta Renzi. Il rottamatore avanza come un rullo compressore e la ricerca di un compromesso sulle regole non è scontata. Sempre ieri a Prato, il sindaco di Firenze ha spiegato la sua linea: “Sì all’albo e al doppio turno ma no alla pre-registrazione. Così vogliono portare a votare solo le truppe cammellate perché hanno paura. Impedire a chi ieri ha votato Berlusconi di poter votare alle primarie del Pd è un capolavoro del tafazzismo. Fermatevi, stiamo sfiorando il ridicolo”. Renzi ha anche rinnovato la sua promessa di non fondare un altro partito in caso di sconfitta. Se le sue parole sono credibili, allora i timori dei bersaniani mischiano veleni e bugie. In ogni caso, lo psicodramma da incubo è autentico. Ed è per questo che nella convulsa giornata di ieri l’ex segretario Walter Veltroni ha avuto un colloquio di oltre un’ora con Bersani. In più, una trentina di parlamentari veltroniani hanno firmato un appello pro-Renzi per le primarie aperte, senza restrizioni. Tra questi: Mario Adinolfi, Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti, Pietro Ichino, Enrico Morando, Ermete Realacci, Giorgio Tonini, Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti. “Walter” mediatore per conto di “Matteo”? Veltroni vorrebbe che Bersani e Renzi si parlassero, e non è escluso che dopo l’sms i due si siano sentiti per telefono. Il punto però è un altro, a sentire i bersaniani di stretta osservanza: “Davvero crediamo che Walter possa fare presa su Matteo? Qua bisogna capire una volta per tutte che Renzi non guarda in faccia più nessuno”. Una rivoluzione copernicana che fa tremare gli oligarchi del Pd. Ieri, in difesa del segretario, parecchi esponenti democrat hanno usato toni durissimi contro Renzi. Due esempi, tra i tanti. Daniele Marantelli: “Renzi è un ipocrita, a Firenze l’albo c’era. Cosa c’è dietro questa opacità? Solo il desiderio di salvare quei commercialisti che hanno paura di perdere i loro clienti andando a votare ai gazebo del centro sinistra? ”. Oriano Giovanelli: “La pazienza ha un limite. Il Pd non è un giocattolo da far sfasciare a un bambino viziato”. Tra le prime file, Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd a Palazzo Madama, ha definito “bizzarro” Renzi. Poi: “Se il segretario avesse voluto restare fedele allo Statuto che prevede la sua candidatura automatica in caso di coalizione, avrebbe potuto farlo”.
La modifica allo Statuto dovrebbe avvenire oggi, salvo sorprese. Poi l’assemblea, circa mille persone, affiderà allo stesso segretario il mandato per studiare le regole delle primarie con gli alleati. Renzi non ci sarà. Domani, con il suo camper, sarà in Puglia.

l’Unità 5.10.12
Il Laboratorio progressista per Bersani


Il Laboratorio politico per la sinistra che si richiama alle culture socialiste, ecologiste e del solidarismo cattolico e a cui aderiscono iscritti e non iscritti al Partito democratico sosterrà Pier Luigi Bersani alle primarie dando vita anche a comitati elettorali in tutta Italia. Lo hanno annunciato in una conferenza stampa alla Camera dei deputati Sergio Gentili, Franco Lotito, Pietro Folena, Geppino Vetrano e Francesco Simoni.
«Crediamo che l’Italia sia a un bivio ha spiegato Gentili c’è bisogno di una svolta, che è nelle mani di una grande alleanza democratica e progressista». Secondo «Laboratorio politico», al centro dell’agenda del futuro governo di centrosinistra ci dovranno essere l’Europa, una riforma fiscale che istituisca la patrimoniale e contrasti con più vigore l'evasione.
«A Pier Luigi Bersani ora si chiede di volare alto, di non preoccuparsi degli equilibri interni ma del sentimento del Paese», ha detto Pietro Folena. Il rinnovamento, ha spiegato Francesco Simoni, non è appannaggio di Renzi ma va fatto su una linea politica chiara».
Il 9 ci sarà un’iniziativa pubblica sull’«agenda Bersani», a cui parteciperà anche Guglielmo Epifani. «Il documento politico e
programmatico presentato oggi dal Laboratorio politico per la Sinistra a sostegno della candidatura di Pier Luigi Bersani rappresenta un contributo importante alla formazione dell`alleanza progressista che il Pd intende costruire».
Lo afferma Roberto Speranza, coordinatore del Comitato Bersani. «Soltanto attraverso la mobilitazione delle energie politiche, sociali, civili ed intellettuali il centrosinistra potrà presentare una propria proposta efficace e credibile per il governo del Paese», aggiunge.

il Fatto 5.10.12
Primarie per tutti
di Paolo Flores d’Arcais


Primarie vere o primarie di nomenklatura? Quelle vere esigono un minimo di regole. Allo scopo di impedire l’obbrobrio dei voti comprati a cinque o dieci euro (immigrati ed emarginati) e l’indecenza delle truppe cammellate. Per il resto, le regole dovrebbero aver di mira la più ampia partecipazione possibile e lo scontro “ad armi pari” fra i contendenti. Quelle decise da Bersani e i capicorrente Pd hanno questi nobili scopi? Una sola, anzi mezza. Il doppio turno. Quando ci sono più candidati bisogna sempre avere un secondo turno tra i due più votati, se nessuno ha superato al primo il 50%. Solo così si incoraggia la pluralità delle candidature, altrimenti un candidato “moderato” rinuncia per non danneggiare un altro “moderato”, e analogamente tra i candidati “progressisti”. Al secondo turno, però, deve poter votare anche chi al primo è restato a casa. Scopo dichiarato delle primarie è infatti galvanizzare e mobilitare tutti i potenziali cittadini di uno schieramento, un ballottaggio più interessante o inedito del previsto può coinvolgere elettori fino ad allora apatici e disillusi.
Le altre regole sono invece “ad personam”, hanno l’unico scopo di scoraggiare potenziali vo-tanti per Renzi. Naturalmente si possono sempre trovare ragioni universali e sante, l’ipocrisia dei politici serve a questo, ma come stiano le cose lo sanno anche i sassi. C’è da chiedersi, piuttosto, perché a nessun “dirigente” del Pd sia venuta in mente una regola davvero d’oro: imporre che almeno nella fase finale (una, meglio due settimane) la campagna avvenga attraverso confronti fra i candidati, in cui ciascuno è costretto ad addurre argomenti e rispondere alle critiche, anziché “incantare” platee passive con le seduzioni di ben confezionati format, berlusconizzando vieppiù la politica (che dovrebbe essere serietà) in spettacolo.
Infine: perché mai le regole di primarie che devono essere di coalizione le decide un solo partito? E perché si pretende che chi si reca ai gazebo firmi una specie di giuramento sulla identità di tale coalizione, quando è evidente che la scelta dei contenuti programmatici e relativi confini delle alleanze spettano ai cittadini che partecipano alle primarie? Primarie vere o primarie di nomenklatura?

La Stampa 5.10.12
E il sindaco minaccia “Faccio saltare il banco”
Poi in campo i pompieri (Veltroni in testa) per evitare il disastro
di Federico Geremicca


E’ metà pomeriggio, e gli uomini e le donne dello staff di Matteo Renzi ascoltano il sindaco tratteggiare - per la prima volta dall’inizio della sua campagna per le primarie uno scenario preoccupante e cupo. Di sotto, il camper riscalda i motori ed è pronto per far rotta alla volta di Prato; di sopra, i presenti si interrogano sul significato di quell’espressione mai usata prima: far saltare il banco.
Matteo Renzi attende. Durante la mattinata ha scambiato una serie di sms con Pier Luigi Bersani, ma a ora di pranzo il bilancio è magro: albo degli elettori, una tessera per poter votare, doppio turno, niente voto al secondo turno per chi non è andato ai gazebo al primo e via discorrendo... Quasi nessuna delle richieste avanzate dal sindaco-candidato (due su tutte: niente tessera e pre-registrazione per poter votare e possibilità di voto per tutti anche al secondo turno) sembra voler essere accolta dalla maggioranza del Pd. «Stanno blindando le primarie - dice uno dei consiglieri di Renzi -. Se è così, inutile partecipare». E’ questo che vuol dire far saltare il banco? E cosa c’è dopo che il banco è saltato?
Alcuni, anche ai piani altissimi di Largo del Nazareno, sede della Direzione del Pd, sostengono che Matteo Renzi avrebbe già deciso da tempo un passo clamoroso: disertare le primarie accampando il pretesto di regole fatte ad hoc per far vincere Bersani. Questa sarebbe la prima mossa. La seconda - conseguente - consisterebbe nel rompere col Pd. E la terza - ecco il punto - nel presentare liste proprie alle elezioni di primavera. Il tragitto sarebbe stato definito dopo la prima settimana di campagna in giro tra Feste democratiche e teatri, di fronte al grande entusiasmo registrato, all’invito ad andare avanti fino alla fine, a sondaggi sempre migliori e incoraggianti. Mesi in giro per l’Italia, cinema e piazze stracolme e poi tutti a casa?
E’ uno scenario che ovviamente inquieta lo stato maggiore del Pd e che ieri, però, almeno a parole, è stato di fatto smentito da Renzi, che ha annunciato la sua disponibilità ad accettare praticamente tutte le regole proposte da Bersani, meno la pre-registrazione per poter votare alle primarie. Se non si tratta di posizionamenti tattici (il famoso gioco del cerino...) una intesa sulle regole, alla fine, dovrebbe esser dunque possibile. E’ su questo che si è speso, ieri, anche Walter Veltroni: che ha prima incontrato a lungo Bersani e poi sentito Renzi, invitando entrambi a ricercare un accordo che eviti di trasformare la seduta dell’Assemblea nazionale di domani in una resa dei conti dagli esiti potenzialmente disastrosi.
Del resto, qualunque esito delle primarie che non veda Pier Luigi Bersani vincitore, sembra destinato a scatenare una vera e propria apocalisse. Raffaele Lauro, navigato senatore Pdl vicino a Beppe Pisanu (e con lui in marcia verso il gruppo centrista di Pier Ferdinando Casini) non ha dubbi: «Se nonostante gli ostacoli Renzi vincerà le primarie, tutto lo scenario politico italiano cambierà di colpo». Profezie analoghe, d’altra parte, erano già arrivate da Pier Ferdinando Casini («Se vince Renzi il Pd si spacca») e Massimo D’Alema («Se vince Renzi il centrosinistra non esiste più»). L’errore, forse, è limitare gli effetti dell’apocalisse al solo centrosinistra, essendo evidente che la disarticolazione di un partito - o di una coalizione - non potrà non avere effetti anche sull’altra (si pensi solo alla nascita del Pd, subito seguita da quella del Pdl...).
Un quadro assai incerto, dunque. Zeppo di possibili variabili e di sorprese. E un ulteriore elemento di tensione è introdotto da un ragionamento che comincia a farsi spazio in parti della maggioranza che sostiene Bersani ma che è tutt’altro che convinta dell’opportunità della sfida col sindaco di Firenze. Se si va a primarie a doppio turno e al primo vince Renzi - si sostiene Bersani non può che dimettersi, perchè un segretario sorpassato da un sindaco nel gradimento dei suoi iscritti ed elettori non può andare avanti. La tesi è assai discutibile, certo: ma ottima per aggiungere veleno a veleno...

La Stampa 5.10.12
Primarie e regole Bersani e Renzi tentano l’accordo
Lo sfidante accetta doppio turno e albo dei votanti e il segretario l’iscrizione contestuale nei gazebo
di Carlo Bertini


Lo scontro sulle regole delle primarie è violentissimo e il clima di sospetti è tale che c’è da chiedersi come potranno convivere sotto lo stesso tetto le opposte tifoserie quando la partita sarà terminata. «Il fatto che non ci si fidi la dice lunga di quanto queste primarie, senza una piattaforma condivisa, rischino di produrre danni al Pd», ammette Walter Verini, braccio destro di Veltroni. Il quale è andato da Bersani per invitarlo a trovare un’intesa con Renzi che eviti lacerazioni perniciose per la vita stessa del Pd. E dunque per impedire che i cavilli diventino pretesti per rotture clamorose, ecco la possibile soluzione: Renzi accetta il doppio turno e l’albo degli elettori. E Bersani deve accettare che ci si possa iscrivere e votare lo stesso giorno e nello stesso luogo fisico. Solo in apparenza può sembrare un punto trascurabile, ma è lì che per tutto il giorno si concentra la tensione che rischia di mandare a monte le stesse primarie: una cosa è se sarà consentito iscriversi all’albo degli elettori e contestualmente votare negli stessi gazebo; altra cosa se invece si dovesse ritirare la tessera elettorale in un posto diverso, «l’effetto sulla partecipazione sarebbe devastante. La differenza è tra avere 700 mila o 4 milioni di votanti», spiega un renziano.
Ben sapendo che a Roma lo accusano di voler usare «i pullman del nemico per vincere», per la prima volta Renzi lancia alle correnti l’accusa di usare «le truppe cammellate» per truccare la partita. «Va bene l’albo degli elettori, va bene renderlo pubblico, mettiamo anche il doppio turno, ma la pre-registrazione proprio no. Un sistema per portare a votare le truppe cammellate, chi ha interessi, sempre gli stessi. È il sintomo della paura del gruppo dirigente», attacca Renzi. «Non soltanto fai la coda il 25 novembre e ti dichiari elettore, ti iscrivi all’albo, versi il quattrino, dimostri di aver letto la biografia di D’Alema e conosci le ultime tre strofe di Bandiera rossa, ma la domenica prima devi andare pure a preregistrarti per la domenica dopo! ».
Ma se per tutto il giorno i capicorrente ricordano l’immagine dei cinesi che sulla riva del fiume aspettano che passi il cadavere di Bersani o di Renzi è perché anche il segretario è stato messo alle strette: le correnti controllano il 90% dei delegati convocati sabato in assemblea con tanto di rimborso spese (pare 180 euro) ; e per far passare la deroga allo statuto che consente a Renzi di candidarsi serve il loro voto; condizionato, se così si può dire, alla difesa che farà il segretario di queste regole, più rigide che in passato «perché solo gli asini tirano dritti pure dopo aver fatto degli errori», spiega un bersaniano ricordando i casi di Napoli e Palermo.
Ma una trentina di parlamentari filo-renziani firma un appello per difendere le primarie aperte; altrettanti invece difendono albo e doppio turno, sostenendo che «in ogni caso Renzi sfrutta questa contesa per farsi la sua campagna elettorale e spararci addosso... ».
Lo sfidante se ne va in una ex sezione del Pci di Prato a ricordare che lui non dà «coltellate alle spalle» e a chiedere di «evitare capolavori di tafazzismo come impedire a chi ieri ha votato Berlusconi di votare alle primarie». Con un appello a Bersani dal Tg2: «Fermatevi prima che una risata vi venga incontro. Stiamo sfiorando il ridicolo». Ma anche dal comitato pro-Bersani non scherzano: «Ci fa piacere la marcia indietro di Renzi sulle regole delle primarie», dice Tommaso Giuntella. «Fino a ieri parlava di stravolgimento, di regole discriminatorie e ora, nel giro di 24 ore, riconosce che non sono così negative come gli erano sembrate a una prima, forse frettolosa, lettura.. ». "Il timore è che le tensioni possano produrre spaccature definitive all’interno del partito Un sistema macchinoso potrebbe scoraggiare molti elettori dall’andare ai seggi"

Corriere 5.10.12
L'assemblea dei mille, tra «ex» e grandi assenti
Domani l'appuntamento decisivo Il numero dei delegati è incerto e negli elenchi ci sono anche Penati e Lusi
di M. Gu.


ROMA — Il destino del Pd è nelle mani di una creatura misteriosa, una Gorgone politica le cui sembianze sfuggono persino ai dirigenti del partito. Può sembrare incredibile, ma alla vigilia del confronto cruciale sulle regole delle primarie nessuno al Nazareno ha un'idea certa e chiara di quanti siano, e soprattutto quali siano, i componenti dell'Assemblea nazionale.
Gli elenchi ufficiali dei Mille, che poi mille non sono ma (forse) 1.400, contengono infatti decine, se non centinaia, di esseri umani che dell'organismo presieduto da Rosy Bindi non fanno più parte. Spulciando l'interminabile lista di eletti con le primarie del 2009, quelle che incoronarono segretario Bersani, si scopre che domani all'hotel Ergife potrebbe teoricamente esserci una seggiola anche per Luigi Lusi. L'ex tesoriere della Margherita, eletto a L'Aquila in quota Franceschini, è ai domiciliari in un convento abruzzese per aver sottratto oltre venti milioni di rimborsi. Il senatore è stato cacciato dal Pd, eppure sul sito dei democratici risulta ancora in lista e non è dato sapere se sia stato sostituito oppure no. Stesso dicasi per Filippo Penati, eletto con Bersani nel collegio Milano 2 delle primarie: travolto dallo scandalo delle presunte tangenti a Sesto San Giovanni, l'ex braccio destro del leader si è autosospeso, eppure nessuno ha avuto cura di depennarne il nome. Come osserva Linda Lanzillotta, ex democratica transitata nell'Api per poi approdare nel gruppo Misto, «parliamo di un'altra era geologica». Lei si è sfilata, ma di quella assemblea fanno ancora parte «defunti e transfughi» e nessuno sa davvero cosa sia diventata: «Lo Statuto del Pd contiene norme un po' singolari e da lì discende questo organismo pletorico, pieno di persone preclare nominate per diritto divino». Per diritto non divino vi entrarono i parlamentari vicini a Rutelli, i cui nomi sono ancora tutti lì, negli elenchi dell'assemblea chiamata a modificare lo Statuto per consentire a Renzi di correre. L'onorevole Enzo Carra è ormai nell'Udc e così Renzo Lusetti, che si dice «sollevato di non dover contribuire a raggiungere il quorum». Il quorum, già. È uno degli enigmi che tormentano Bersani, visto che la votazione è valida se si raggiunge la metà più uno degli aventi diritto (e non dei presenti). Perché il Pd precipiti nel dramma basta allora che un delegato scontento si alzi, uno solo, e chieda la verifica del numero legale... I bersaniani aspettano con preoccupazione Arturo Parisi, che giudica queste primarie «un'arma di distrazione di massa» e che, in quanto ex ministro, può partecipare ma senza diritto di voto: «Il tema di cui si decide domani è serissimo e sui temi seri vale la pena di dividersi, anche a rischio di spaccarsi».
In tre anni la diaspora è stata ingente, ma quanti siano i «desaparecidos» nessuno lo sa. Riccardo Milana e Gianni Vernetti figurano ancora nei pubblici elenchi dei delegati, peccato che abbiano lasciato da tempo il Pd al seguito di Rutelli... Magari a Bersani riuscirà il miracolo di uscirne indenne, ma le premesse non sono buone. Per dirla con Beppe Fioroni, «siamo alla guerra atomica». Il parlamentino, che ora può apparire datato e svuotato di senso, era nato nel 2007 col partito stesso, voluto dal primo segretario Walter Veltroni per dare la misura della «vocazione maggioritaria» del Pd. La prima assemblea nazionale, ovvero la Costituente, contava infatti il numero choc di 2.800 componenti, il doppio rispetto a quella (del tutto rinnovata) di Bersani. Tra i delegati del Pd che fu, nel 2007 Veltroni volle i registi Ettore Scola e Michele Placido, trionfatori di una sfida che aveva visto scendere in campo quarantamila aspiranti. Politici, volti noti della cultura. L'archistar Massimiliano Fuksas, il matematico Piergiorgio Odifreddi, il regista Ferzan Ozpetek, il musicista Ennio Morricone... Sembra passato un secolo. Ora l'assemblea aspetta solo parlamentari, sindaci e amministratori locali, chiamati a obbedire come soldati agli ordini dei capicorrente.

Repubblica 5.10.12
I ragazzi che tifano Pier Luigi “Ha a cuore le cose che dice Matteo invece è uno di destra”
L’appello dei giovani: “Basta tecnici, ora la politica”
di Concita De Gregorio


IMOLA FRA loro c’è un boy scout tuttora in servizio effettivo, un’attrice di teatro della compagnia parrocchiale, un’appassionata di biomasse, il pr di una discoteca e un liceale diciottenne di eloquio e dita affusolate che ha, fra tutti, l’incarico più alto in grado essendo il più giovane: responsabile scuola dei Giovani Democratici dell’Emilia Romagna. La grande diatriba del giorno è se sia giusto o meno mettere paletti per l’accesso alle primarie — iscrizione all’albo; soglia di sbarramento per la candidatura; inibizione al secondo turno per chi non abbia votato al primo — e tutti convengono che sì, lo è, perchè «non si può lasciare che il leader del centrosinistra lo scelga qualcuno che viene dalla destra» e perchè in definitiva è «un onore, per chi milita appunto, iscriversi ad un albo e far parte di una comunità omogenea». Poi certo qualcuno ogni tanto leggermente dissente, forse si può immaginare di lasciare anche a chi non abbia votato al primo turno di votare al secondo, sempre iscrivendosi naturalmente, e via così. Francesca, Eleonora, Marco, Vanessa e gli altri sono una decina dei moltissimi Giovani Democratici di Imola e dintorni che hanno lanciato un appello in rete, la scorsa settimana, in sostegno della candidatura di Bersani alle primarie. “Giovani per Bersani”, si intitola il testo che si conclude con una citazione del segretario: «Guardando il mondo con gli occhi dei più deboli si costruisce un mondo migliore per tutti». Sono tanti, i nomi in calce, e sono molti anche di origine straniera: rumeni, magrebini, c’è la ragazza che ha tolto il velo l’anno scorso, ci sono due figlie di rifugiati politici cileni ché Imola, negli anni ‘70, fu una delle città in cui più numerosi arrivarono i sindacalisti
e i comunisti che scappavano da Pinochet. Vanessa Luna Navarrete, 22 anni, segretaria dei Gd di Imola, è una di loro. Sua madre è scappata nel ‘73, era una sindacalista. Lei è nata qui, ha studiato al professionale, i soldi per l’università non c’erano, lavori precari, politica da quando era poco più che bambina nella Sinistra giovanile. Di Bersani dice che «mi da fiducia, è una questione di come parla come si comporta, mi tranquillizza, ha qualcosa in più: qualcosa di calmo e di potente». Francesca Degli Esposti, 22, studia Economia a Bologna ed è la segretaria territoriale: Imola e dintorni. È lei che fa teatro coi “Ragazzi di San Giacomo”, la compagnia dell’oratorio, Alessandro Gassman il suo idolo. Cattolica, genitori comunisti, cresciuta nelle cucine delle Feste. «Mi sono iscritta quando è nato il Pd. Veltroni mi dava fiducia, mi piaceva quella visione. Ora però con Bersani è un’altra cosa: è come stare a casa. Ti parla e capisci quello che vuole, io sento che è sincero, ha a cuore le cose che dice, si ferma a parlare con tutti, è appassionato e forse un po’ timido». Arrivano gli altri, Nicola Marco Jessy Elisa Eleonora Silvia, parte subito la discussione sulle regole che oggi di questo si parla, e poi anche d’altro, sicuro: anche di Renzi che è di destra e di Grillo che «rappresenta la crisi della democrazia», di Vendola che piace molto a tutti e di Casini che invece non piace a nessuno. I ragazzi di Bersani — quelli di Imola, questi — sono, all’unanimità: «di sinistra» nel senso che è meglio Vendola di Renzi, non parliamo nemmeno di Casini. Europeisti, perchè «il futuro dell’Italia è nell’Europa» e dunque antigrillini viscerali. Contrari al Monti bis perchè «è ora di tornare alla politica, i tecnici hanno dato, hanno fatto bene ma ora basta, grazie». Alla domanda su quali siano i leader politici nei quali si riconoscono rispondono Matteo Orfini, Francesca Puglisi.
Marco Cavina, per esempio. 21 anni, perito elettronico («sono un patito delle scuole tecniche, saranno la nostra salvezza ») studia Giurisprudenza, fa il pr in discoteca, è responsabile Economia e Lavoro dei GD di Imola. «Io seguo Fassina e Orfini, sono giovani e preparatissimi, quello che serve». Silvia Pizzirani, anche: 21 anni, Storia contemporanea a Bologna e passione per l’ambiente, segretaria dei giovani
di Castel San Pietro, in politica da quando aveva 14 anni: «I miei riferimenti politici sono i miei genitori, i miei nonni: è da loro che ho imparato il valore del lavoro e della responsabilità individuale. Tra i dirigenti seguo Francesca Puglisi e quel che fa per la scuola». Eleonora Lorenzi, 22, studia ingegneria edile, vuole occuparsi di ristrutturazioni sismiche, gioca a pallavolo, è responsabile Organizzazione. Nicola Finocchiaro, 20, fa il boy scout e anche il segretario Gd del circolo di Mordano-Bubano. Elisa Camaggi, 24, si sta laureando in Lettere, vorrebbe insegnare. Jessy Simonini, 18, fa il liceo classico e nel tempo libero aiuta «i bambini non italiofoni a fare i compiti». Da quando è responsabile scuola dei giovani emiliani ha lasciato il ciclismo, non ha più tempo. Vorrebbe fare l’insegnante di lettere. Gli altri, nel cerchio, sorridono. Lui serissimo osserva che non c’è niente da ridere, non capisco cosa ci sia da ridere.
Dunque cerchiamo di capire se e quanto si debba limitare l’accesso alle primarie. Non è che troppi passaggi burocratici possono dissuadere chi vorrebbe votare? Eleonora: «Bisogna imparare a usarle le primarie. Sono uno strumento che stiamo imparando a utilizzare. Bisogna eliminare i disturbatori. Potrebbero voler far vincere il candidato più debole…». Elisa: «…o cercare di spostare la coalizione verso la propria area». Francesca: «Conosco persone di destra che verrebbero a votare alle primarie solo per votare Renzi…». Silvia: «... anche io, tante di destra». Ma conquistare elettori alla destra non sarebbe poi un male, no? Francesca: «Si, ma sono gli elettori che devono venire da noi, non il partito da loro. Non possiamo spostare il partito a destra per conquistare gli elettori di destra. Deve accadere il contrario». Silvia: «Non bisogna adeguarsi al clima di superficialità, ma al contrario educare alla responsabilità. Chi vuole decidere deve seguire delle regole, per ottenere le cose ci vuole fatica…». Jessy: «…e poi un albo è un riconoscimento. Da importanza al gesto di chi va». Marco: «Se qualcuno rinuncia vuol dire che non gli interessa abbastanza ». Una specie di esame, di prova-ostinazione? Eleonora: «Sì, però se magari uno al primo turno stava male e non è potuto andare? Allora si potrebbe fare che si iscrive all’albo anche chi vota per la prima volta al secondo turno…». Elisa: «…si ma solo se sono davvero di centrosinistra, però. È giusta la Carta di intenti».
Renzi lo liquidano come un populista, conservatore. Francesca: «La rottamazione e il merito non stanno insieme. Io non ho nessun merito ad avere 20 anni. Rispetto alle idee conta quanto essere biondi o essere mori». Vanessa: «Non mi è piaciuto su Marchionne». Sa dire solo io (Nicola), è un neoliberista conservatore (Silvia),
è «subalterno alla cultura che ha inquinato la sinistra in questi anni» (Jessy,
quello di 18).
Bersani invece ha un’ottica europea, lungimirante (Eleonora), un calibro diverso, le spalle larghe (Nicola) sa parlare di lavoro e di economia, ha ringiovanito la sua segreteria (Marco). Silvia: «Ha le tre doti principali di un politico: passione, lungimiranza e senso di responsabilità. È lui il nuovo, Renzi è il vecchio». Poi è credibile in Europa (Elisa).
Vendola piace a tutti, perchè è coerente (Nicola) di sinistra (Marco) anche se un pochino troppo populista (Silvia) e meno adatto di Bersani a governare (Elisa). Laura Puppato non la conoscono abbastanza. Elisa: «Perchè non ne parlano? Non capisco, è una dirigente del partito, può portare contenuti molto forti». Silvia apprezza anche Tabacci. In coro, tutti, disprezzano Grillo. Che poi, dice Francesca, «Grillo cresce più tra gli adulti che tra i ragazzi. Se penso ai giovani temo più l’astensionismo ». Di un Monti bis, della possibilità che si faccia un patto per sostenere politicamente un governo tecnico — ci fosse anche Bersani vicepresidente del consiglio — non vogliono sentir parlare. «Basta coi tecnici, ora va al governo chi vince». L’hanno detto anche Fassina e Orfini. Regole per il ricambio dei ministri e dei parlamentari, e torni la politica.

il Fatto 5.10.12
Al Senato
Annientata la legge anticorruzione
di Caterina Perniconi


Finalmente avremo una legge anticorruzione. Anzi, a favore. Dopo gli ultimi emendamenti del governo al ddl, che mercoledì varcherà la soglia dell’Aula del Senato, la sensazione è diventata una certezza: con questo provvedimento le cose cambieranno poco e resteremo lontanissimi da quel che ci chiede l’Europa.
DOPO L’ENNESIMA trattativa con i partiti di maggioranza, il Guardasigilli Paola Severino ha presentato tre modifiche: la prima riguarda la corruzione tra privati. Il ministro propone che si possa procedere solo se la persona offesa sporge querela, “salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi”. Tradotto: se io, amministratore di una società, causo un danno alla mia azienda per ricevere un favore personale, verrò punito solo se qualcuno avrà fatto una regolare denuncia perché i magistrati non potranno più procedere d’ufficio.
La seconda correzione riguarda il famoso “traffico di influenze illecite” su cui il Pdl ha fatto le barricate. La Severino ha ceduto a circoscrivere il campo di azione parlando di “atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”. Ovvero: se io chiedo un favore a un pubblico ufficiale che medierà per me in modo illecito, sarà punito solo se verrà meno a doveri d’ufficio, non se è riconosciuta “l’utilità” che ottiene con quel gesto, tipo lo scambi di benefici.
L’ultima modifica riguarda i magistrati fuori ruolo. A Montecitorio, l’ormai famoso emendamento firmato da Roberto Giachetti aveva stabilito che chi lascia la magistratura per ricoprire un incarico amministrativo pubblico lo può fare solo per cinque anni e poi deve tornare alle sue mansioni. Ora la Severino lo vuole allungare a dieci, anche continuativi. Non solo: quel limite ha delle eccezioni. Non si applicherà, infatti, a chi ricopre cariche elettive, o svolge il suo mandato presso gli organi di autogoverno, organi costituzionali come la Presidenza della Repubblica e le Camere o ha in carichi presso istituzioni europee, organismi internazionali, e anche rappresentanze diplomatiche. Quella che fu indicata, all’epoca dell’emendamento Giachetti, come la più penalizzata fu Augusta Iannini, la moglie di Bruno Vespa.
LEI, GIÀ A CAPO dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia e nominata membro dell’Autorità della Privacy, si difende: “Sono totalmente disinteressata alla sorte dell’emendamento governativo sulla durata della permanenza dei magistrati fuori ruolo e sulle relative eccezioni. Ho infatti già maturato i requisiti per essere collocata a riposo, potendo comunque continuare a ricoprire il mio attuale incarico presso l’Autorità Garante”. Insomma, alla Iannini ormai non serve più, ma a qualche suo collega sì, ed è proprio lei a denunciarlo: “Sono quindi altri, tutti facilmente individuabili in ognuna delle eccezioni previste nell’emendamento, di cui i media dovrebbero occuparsi”. Con chiaro riferimento ai magistrati che siedono nelle istituzioni che godranno del beneficio.
Il Partito democratico si è detto soddisfatto della mediazione della Severino e ha deciso di ritirare i suoi emendamenti. Molto meno entusiasmo nel Pdl. Bocciate dall’esecutivo le cinque norme “salva-Ruby” e l’emendamento “anti-Batman”. Le rivedremo mercoledì in aula? “Non lo so – risponde Gasparri - è prematuro parlarne. Stiamo valutando”. Ma i numeri per l’approvazione non ce l’hanno, anche la Lega è contraria a emendamenti a “sorpresa”. Cioè dell’ennesima legge ad personam.

il Fatto 5.10.12
Il traffico di influenze è una cosa seria
di Bruno Tinti


MONTI e Severino questo non lo debbono fare! Il traffico di influenze è una cosa seria e non deve essere svuotato con trucchi da mozzorecchi; e poi non sta bene prendere per il... naso i cittadini con una bufala. Eccola qui, nero su bianco.
Nella legge ci sono 6 reati: 2 di corruzione, 2 di concussione, 1 di corruzione tra privati; e il traffico di influenze. La corruzione consiste nel dare o promettere al pubblico ufficiale denaro o altra utilità perché faccia qualcosa che dovrebbe comunque fare (corruzione per atto d’ufficio – da 1 a 5 anni) o qualcosa che non dovrebbe fare (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio – da 4 a 8 anni). La concussione si ha quando il pubblico ufficiale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe (violenza o minaccia – da 6 a 12 anni) oppure induce (è tutto implicito, ti fa capire che in futuro ti sarà amico – da 3 a 8 anni) qualcuno a dare o promettere denaro o altra utilità; nel secondo caso, anche chi si fa indurre è punito. La corruzione tra privati si ha quando amministratori di società, direttori generali etc. violano il dovere di fedeltà verso l’ente che li paga in cambio di denaro o altra utilità.
In tutti questi reati, come si vede, accanto all’ipotesi della busta con il grano è previsto un premio più generico, l’“utilità”. In effetti, nella pratica, è ciò che avviene quasi sempre: un pubblico ufficiale si fa corrompere perché gli è promesso il trasferimento a cui ambisce da anni, la nomina a un ufficio prestigioso, ma non necessariamente meglio remunerato, cose così. Il compenso per la porcheria che gli si chiede può avere anche natura non patrimoniale. Lo stesso può avvenire per la concussione: quando B. spiega ai poliziotti che Ruby non deve andare in comunità e che deve essere affidata alla Minetti non sta promettendo danaro; sta facendo capire che l’amicizia di un potente può essere preziosa. In questo modo questi reati coprono tutte le condotte illecite possibili e costituiscono un concreto deterrente.
Chissà perché, nel nuovo ddl l’unico reato che fa eccezione a questa tecnica è il traffico di influenze. Qui l’“utilità” è sparita e al posto suo c’è la frase “altro vantaggio patrimoniale”. Sicché, quando i politici continueranno a dedicarsi agli accordi spartitori (un direttore a me e due consiglieri a te) non commetteranno alcun reato: oggi io aiuto te e domani tu aiuti me; di soldi non se ne parla.
A pensarci, questa cosa influirà su un orticello che mi è ancora vicino. Al Csm succede che la corrente bianca chieda alla corrente rossa di votare il suo candidato per il posto di Procuratore di Poggiofiorito; in cambio promette che, domani, quando si tratterà di votare per il posto di presidente di Pratoameno, concentrerà i suoi voti sul candidato della corrente rossa. Nessuno si preoccupa se i candidati non sono proprio dei Ciceroni. Non sarà bello, ma sarà lecito: niente soldi, solo reciproche promesse di aiuto fraterno. Peccato, mi sarebbe piaciuto vedere un piccolo rinnovamento.

il Fatto 5.10.12
Tra mafia e Chiesa i burocrati di Dio
È da oggi in libreria il numero di MicroMega dedicato alla Chiesa gerarchica e la Chiesa di Dio. Nel volume, le voci più autorevoli dell’“altra chiesa”.
Anticipiamo uno stralcio del dialogo tra monsignor Domenico Mogavero e il magistrato antimafia Roberto Scarpinato. I due presenteranno il volume a Marsala il 10 ottobre alle 17:15 presso il complesso San Pietro.


Roberto Scarpinato: La mia frequentazione coatta con i mafiosi è divenuta con il tempo il punto di partenza per una riflessione di carattere più generale il cui tema centrale è come sia possibile la coabitazione all’interno della stessa Chiesa del Dio dei carnefici e di quello delle vittime, e cioè la coabitazione non problematica di modi di relazionarsi con Dio e con la religione apparentemente incompatibili. La risposta che mi sono dato è che, poiché nella religione cattolica il rapporto con Dio è gestito da un «mediatore culturale» che è un sacerdote, ogni segmento sociale esprime dal proprio interno un mediatore culturale che consente di avere un rapporto non problematico con Dio. (…) E mi pare che questo pluralismo della mediazione culturale determini una sorta di occulto politeismo, nel senso che ognuno ha la possibilità di costruirsi un Dio a immagine della propria visione della vita.
Lo stesso ragionamento si può applicare alla mafia, a proposito della quale credo che si debba parlare di una pluralità di Chiese che convivono tra di loro. Abbiamo una Chiesa dei mafiosi, che è fatta di ecclesiastici che non sono mafiosi ma che sono talora imbevuti di una cultura paramafiosa perché magari vengono dallo stesso habitat culturale, dallo stesso segmento sociale. Sono numerosi i mafiosi doc che hanno cugini, parenti, zii vescovi e preti. Poi abbiamo una Chiesa dell’antimafia che esprime un padre Puglisi, un don Fasullo, don Cosimo Scordato e pochi altri, e poi abbiamo la Chiesa di quelli che padre Ernesto Balducci chiamava i “burocrati di Dio”, cioè quelli che non stanno né con la mafia né con l’antimafia, né con lo Stato né con l’antistato, né con la destra, né con la sinistra, né con il centro, ma stanno esclusivamente dalla propria parte. (...)
IL RAPPORTO con Dio viene quindi mediato culturalmente e qui si pone un problema non solo di occulto politeismo, ma di vero e proprio relativismo etico della cultura cattolica. (…) Il relativismo etico della cultura laica viene costantemente avversato dai vertici ecclesiastici che rivendicano di essere depositari di una verità assoluta senza se e senza ma e, per questo motivo, pretendono di condizionare talora la legislazione statale. Gli stessi vertici ecclesiastici sono tuttavia ben consapevoli che nella realtà delle Chiese e delle parrocchie di tutto il mondo, convivono una pluralità di mediazioni culturali cattoliche tra gli uomini e Dio, spesso tra loro incompatibili, per cui il vissuto culturale di Dio – il Dio ecclesiastico – e l’etica cattolica si relativizzano quasi balcanizzandosi. (…)
MONSIGNOR MOGAVERO: La sua è un’analisi che guarda con grandissima attenzione i fenomeni e li guarda dall’esterno. Li guarda nelle loro manifestazioni fenomeniche sulle quali non c’è granché da aggiungere perché i fatti non si possono contestare. Mi ha molto colpito, invece, il suo discorso sul ministro sacro visto come mediatore culturale, perché si ricollega con un interrogativo che mi pongo: quando nasce e come si determina la discrepanza tra il Dio unico e vero e il dio che il mafioso si costruisce a suo uso e consumo? E chi potrebbe avere delle responsabilità o un’influenza diretta e/o indiretta in questa devianza corruttiva dal concetto di Dio? (…) Per me parlare di un “Dio dei mafiosi” è l’uccisione di Dio, perché quel Dio non esiste, non può esistere. I mafiosi hanno abolito Dio creandosi un feticcio; quindi Dio è assente dal loro mondo. Il mafioso, di conseguenza, è un ateo, quali che siano le sue pratiche esteriori di religiosità. Infatti, non ci può essere una religiosità che vincola a Dio escludendo l’altro, l’altro che è mio fratello, mia sorella, mia madre, l’altro che è anche il mio concorrente, che, se intralcia i miei disegni, deve essere eliminato perché mi impedisce di perseguire i miei obiettivi.
ECCO, una religiosità che esclusivizza il rapporto con Dio e che rende la Chiesa, sia come istituzione sia come singoli soggetti, semplicemente mediatrice che mi consente di avere quegli avalli che mi interessano per poter andare avanti, una simile religiosità è ateismo pratico. Il mafioso che si è costruito questo feticcio ha distrutto Dio e quindi non è un cattolico, anche se esternamente continua a compiere gesti e pratiche che sembrerebbero attestarne l’appartenenza alla Chiesa cattolica.
Se poi a tutto questo si aggiunge la funzione di quello che lei, con una formula elegante, chiama il mediatore culturale, allora il discorso diventa assai problematico. Il vescovo che benedice Pinochet o Videla, il prete che avalla il mafioso, o che va addirittura a celebrare messa nel suo covo, o suggerisce di pentirsi davanti a Dio senza prescrivere le condizioni connesse con il vero pentimento – e cioè rinnegare tutto il passato, riparare il male fatto e pagare il debito di giustizia contratto con la società – hanno fatto un danno incalcolabile alla Chiesa cattolica. E se l’hanno fatto in buona fede il buon Dio forse avrà misericordia di loro. Ma se costoro hanno agito in mala fede non so quali conti dovranno pagare alla giustizia divina, perché Dio è misericordioso, ma è anche giusto.

Corriere 5.10.12
Napolitano e Ravasi confronto ad Assisi per il Cortile dei Gentili
di Armando Torno


Oggi, alle 17, nella Piazza Inferiore di San Francesco ad Assisi, si apre il Cortile dei Gentili dedicato a «Dio, questo sconosciuto». Il primo incontro è un dialogo, condotto da Ferruccio de Bortoli, tra il presidente Giorgio Napolitano e il cardinale Gianfranco Ravasi. Con esso prendono il via due giorni intensi che vedranno l'alternarsi di molteplici confronti sul tema che caratterizza questo Cortile posto sotto l'egida di Francesco. Napolitano e Ravasi hanno non poche cose da dire sull'argomento, anche perché la storia laica del primo e l'esperienza religiosa del secondo si ritrovano in parecchi valori. Ma, come si suol dire, saranno le loro stesse testimonianze a delineare il profilo di un dibattito particolarmente atteso. L'iniziativa che oggi si realizza ad Assisi ha un indiscutibile significato nell'Anno della Fede: gli incontri diventano sempre più rilevanti e le testimonianze di chi crede e di altri che non hanno le medesime certezze si trasformano in materia di riflessione per l'uomo di oggi. Sarà Ferruccio de Bortoli a porre le domande e a mettere in evidenza aspetti forse poco noti delle due personalità. Poi gli incontri continueranno con filosofi, scienziati, uomini di spettacolo, economisti, altre autorità. Senza mai dimenticare quel «Dio sconosciuto».

Repubblica 5.10.12
Malati terminali cercansi, l’ultima campagna shock
“Spot con persone che vogliono l’eutanasia”. Mina Welby: orrendo ma necessario. Subito polemica
di Caterina Pasolini


ROMA — «Cerchiamo malati terminali per ruolo da protagonisti. Fatevi vivi». Voce da spot pubblicitario e immagine fissa di un letto vuoto dove qualcuno poggia un contenitore col liquido che aiuterà per l’ultimo viaggio. Pubblicità choc, che colpisce come uno pugno allo stomaco. Volutamente. L’ha fatta l’associazione radicale Luca Coscioni, che ieri ha lanciato la sua campagna per rendere legale l’eutanasia. «Per impedire che siano altri a decidere per noi, in nome di Stati o religioni; per garantire libertà e responsabilità delle nostre scelte, drammatiche e felici. Fino alla fine ». Pochi secondi (verranno messi sul sito www.eutanasialegale. it, su You tube, social network e Ebay, ma sono pronti anche formati per giornali e radio) che hanno provocato polemiche e condanne bipartisan, da Beppe Fioroni del Pd a Eugenia Roccella del Pdl. Discussioni e dibattiti in questi giorni già tesi in cui si discute della legge sul testamento biologico, duramente contestata da laici e centrosinistra perché «non rispetta le volontà del malato e lascia l’ultima parola al medico».
«Cerchiamo malati terminali, ma anche attori disposti a recitare negli spot sulla libertà di scelta, perché il punto è sempre quello: il diritto di decidere sulla propria vita, su come essere curati e come morire». Filomena Gallo, presidente della Coscioni, annuncia l’avvio di una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sul diritto all’eutanasia e sul testamento biologico. «Siamo in uno Stato laico e non si può dover finire ogni volta in tribunale per vedere rispettati i propri diritti, violati per ignoranza o paura. Oggi chi aiuta un malato senza speranze a morire rischia dodici anni di carcere. Se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo darci da fare e farci sentire».
Già nel 2010 i radicali scelsero la via della provocazione mettendo in rete uno spot pro eutanasia girato dall’associazione Exit internazional. Immagini senza enfasi, senza toni da crociata: un attore raccontava la sua vita, fatta di scelte banali, quotidiane. Fino a quella finale. «Perché non ho scelto di essere un malato terminale, perché non posso mangiare, mi fa male come ingoiare lamette da barba, perché non ho scelto io che la mia famiglia viva questo inferno con me». Fotogrammi vietati in Australia, permessi in Canada e mai trasmessi in tv in Italia, dove provocarono dure reazioni.
Eugenia Roccella, Pdl, allora sottosegretario alla salute, sul nuovo spot è categorica: «C’è la libertà di drogarsi, guidare senza casco, uccidersi, ma non un diritto per legge, esigibile dal servizio sanitario. Questo annuncio mortifero non credo troverà clienti. I malati vogliono cure, assistenza, condivisione, solidarietà. Quasi sempre chi decide di farla finita si sente solo oppure un peso per gli altri. Dobbiamo aiutare i malati a vivere, non a morire».
Contrario all’iniziativa anche Fioroni del Pd: «Il tema della morte coinvolge in modo cosi profondo le persone che esige rispetto. Questo spot non è una provocazione, ma diventa offesa alle coscienze di molti. Io comunque dico no all’accanimento terapeutico come all’eutanasia».
Diversa la posizione di Mina Welby. Lei il dolore di lasciar andare una persona amata lo conosce bene, avendo rispettato con sofferenza il desiderio di suo marito Piergiorgio di staccare le macchine che lo legavano alla vita
dopo anni di completa paralisi, tranne un battito di ciglia che usava per comunicare. «Quando ho visto lo spot sono rimasta senza parole, non sono riuscita a dormite, tanto l’ho trovato duro. Poi ho pensato a quelli che mi chiamano, che vogliono farla finita
ma non hanno soldi per andare all’estero, che non ne possono più. E allora ho pensato che sì, anche questa comunicazione violenta ha un senso, perché se ne parli e si discuta di un problema reale e drammatico».

Corriere 5.10.12
Obama. Un presidente nell’angolo
di Sergio Romano


A giudicare dai sondaggi, oracoli delle società moderne, Mitt Romney è stato molto più convincente di Barack Obama. Ma non è chiaro se la maggioranza degli americani abbia creduto al suo programma o abbia soprattutto apprezzato la sua recitazione. La politica è sempre stata spettacolo e l'agorà fu, sin dagli inizi, un palcoscenico. Ma la democrazia di massa, il suffragio universale, la personalizzazione del potere, la televisione, i riflettori puntati sul volto dei contendenti e i tempi assegnati dall'arbitro ai loro interventi hanno trasformato il confronto delle idee in una gara in cui i giocatori vengono giudicati per il loro stile, la prontezza dei riflessi, la capacità di alternare fermezza e ironia, l'efficacia di una battuta usata come un colpo di fioretto.
Obama è uno straordinario oratore. Il suo primo successo politico nazionale fu il discorso che pronunciò alla Convenzione del Partito democratico il 27 luglio del 2004: una commovente combinazione di ricordi familiari e di idealismo americano. Il genere in cui eccelle è quello delle disquisizioni accademiche, appreso e praticato lungamente sulla cattedra dell'Università di Chicago. Ma preferisce parlare a una platea e non essere interrotto. Romney invece è disteso, rilassato, spontaneo. Le sue numerose gaffe sono il sottoprodotto di un'oratoria più affabile e naturale.
Sulle cose che faranno i due avversari non hanno detto alcunché di nuovo. In una diversa sede, di fronte a un centinaio di persone, il rigore di Obama sarebbe stato più convincente degli argomenti con cui Romney ha sostenuto che i ricchi sono tanto più bravi, nell'interesse del Paese, quanto meno vengono tassati. Ma di fronte a una platea composta da milioni di elettori la sua ricetta è parsa migliore di quella dell'avversario. La partita, tuttavia, non è finita. Molti spettatori si chiederanno a mente fredda per quale dei due contendenti convenga davvero votare e vi saranno ancora due dibattiti durante i quali Obama farà tesoro della lezione che gli è stata impartita a Denver. Ma non dovrà dimenticare che lo scontro televisivo per la Casa Bianca è ormai la versione moderna del giudizio di Dio. Non è un fenomeno recente. Si dice che Richard Nixon abbia perduto la sua gara contro Kennedy, nel 1960, perché i riflettori avevano spietatamente rivelato che sul suo volto vi era «l'ombra delle cinque del pomeriggio», quel velo nero che resiste alla più accurata delle rasature.
Al di là di queste riflessioni sulla politica come teatro, il duello di Denver sembra dimostrare che Romney, dopo una campagna impostata su temi che piacevano alla destra repubblicana e al movimento del Tea Party, vuole ora conquistare i voti del centro moderato. Quando annunciò che il candidato alla vice-presidenza sarebbe stato Paul Ryan, irriducibile avversario dei programmi sanitari di Obama, Romney parlava a tutti coloro per cui il presidente è un pericoloso socialista. Di qui al giorno delle elezioni, invece, dovrà parlare a chi non è necessariamente schierato da una parte o dall'altra. Sono questi gli elettori che decideranno il risultato dell'elezione. Per loro, probabilmente, i dati economici non sono meno importanti dei duelli televisivi. Se la politica monetaria della Federal Reserve (acquisto illimitato di titoli di credito a tasso zero per favorire la crescita) continuerà a segnalare qualche progresso, forse Obama ha ancora qualche possibilità di restare alla Casa Bianca.

Repubblica 5.10.12
Turchia-Siria chi cammina sull’orlo del cratere
di Bernardo Valli


SONO in tanti a camminare sull’orlo del cratere, ma tutti cercano di non perdere l’equilibrio. Pur alimentandola con armi, denaro e parole, nessuno vuole lasciarsi inghiottire dalla guerra civile siriana, che si calcola abbia fatto trentamila morti e un paio di milioni di profughi in un anno e mezzo. Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi, ma pur rispondendo con energia all’uccisione di una famiglia rimasta vittima dei tiri d’artiglieria dell’esercito siriano in una zona di confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar oltre una rappresaglia destinata soltanto a salvare la faccia. Non ha minacciato un vero intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante componente, ha espresso la sua solidarietà. Nulla di più. Il governo di Damasco, è vero, si è scusato.
Sono in molti ad auspicare la fine del regime di Bashar el Assad, giudicandolo una dittatura sanguinaria e senza avvenire, ma sono anche in molti a temere le conseguenze di quella fine.
È FORSE per questo che i sostenitori dei ribelli centellinano gli aiuti. Mentre l’esercito lealista, quello di Damasco, usufruisce della generosità dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano spilorci i primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli elicotteri governativi possono scorrazzare sui territori “liberati” senza imbattersi in un’antiaerea efficace, quindi bombardano e mitragliano senza correre grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più dotati soltanto di armi leggere, quando vogliono colpire le zone controllate dal regime devono ricorrere alle autobomba, spesso guidate da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze.
Non si intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non ci sono in vista né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità di una tregua, di un compromesso tra le parti. Anche perché l’Esercito siriano libero è in realtà un mosaico di movimenti e milizie di varie tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi difficile identificare un interlocutore valido. Pur essendo male armata e pur disponendo di meno uomini (un decimo dei più di trecentomila soldati lealisti) l’insurrezione appare in vantaggio sul campo di battaglia perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo pletorico esercito. Per impedire le diserzioni non vuole che esso venga a contatto con i ribelli o con la popolazione dei territori contesi. Si limita quindi a usare aerei, elicotteri e unità blindate (i T72 russi) che servono da artiglieria.
Insomma adotta sempre di più la guerra a distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione, ma che non favorisce il controllo del territorio. Le diserzioni sono state per più di un anno la grande risorsa in uomini e in armi dell’Esercito siriano libero. Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di un’unità ribelle nelle regioni del Nord, confessa che da alcuni mesi deve ricorrere a svariati espedienti per convincere i soldati lealisti a cambiar campo. Ha cominciato a praticare un’azione psicologica; a offrire vantaggi in denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del diavolo», ammette. E non è comunque facile. Anche perché la polizia di Damasco colpisce le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni terroristiche spengono la simpatia per l’insurrezione della gente, e quindi dei soldati richiamati alle armi. Consapevoli di questo, pochi giorni fa i gruppi ribelli operanti nella zona hanno cercato di attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso quaranta persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet al-Nusra) l’ha rivendicato.
Le milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono tuttavia nel vasto mosaico dell’insurrezione. La propaganda governativa ne esagera l’importanza per spaventare la popolazione, in particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da siriani per conto di vari organismi americani (International Republican Institute, Pechter Polls of Princeton, N. J., Carleton University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per quanto riguarda l’eventuale applicazione di principi islamici. Il riferimento alle democrazie occidentali è risultato frequente, e quindi il rispetto per le minoranze religiose. L’esempio del governo turco, dominato da un partito musulmano moderato, è stato il più citato.
A parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel resto del Medio Oriente, i paesi che appoggiano la ribellione siriana si distinguono per la loro ricchezza. Non certo per il clima di libertà che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti i principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto in quanto sunniti. Pur essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar, piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di petrodollari, era presente anche in Libia. Con il suo dinamismo politico-finanziario vuole evidentemente rimediare all’esiguità del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia Saudita.
Entrambi i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di quelli simili, la cui intensità islamica è variabile. Il loro fervore politico-religioso si è intiepidito negli ultimi anni. Ma, nella grande famiglia sunnita, la corrente wahabita (vale a dire saudita) resta più intensa di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del dissidio che spesso esplode tra i due paesi. Ed è allora che interviene la mediazione turca.
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli acrobatici sostenitori della ribellione siriana, che non vogliono correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono appunto in bilico sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che sono fermi nell’intenzione di plasmare la Siria del dopo-Assad. Essi sono appoggiati in questa loro azione dalle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono aiuti umanitari ai profughi e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora niente di più.
La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni fa nei Balcani. I conflitti etnici si confondono con quelli religiosi. Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è tra sunniti e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione dell’Islam ma anche dalla Storia e nel presente dalla lotta per l’influenza nella regione. La Siria, benché a maggioranza sunnita, è governata dalla minoranza alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la grande nazione sciita. La quale è direttamente implicata a fianco di Bashar al Assad. Non solo perché gli fornisce armi e munizioni attraverso l’Iraq, dove c’è un governo dominato dagli sciiti, ma perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi cecchini. La prova? Di recente sarebbe stato sepolto con tutti gli onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco. E gli Stati Uniti, ancora presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno a non lasciar passare nel suo spazio aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a bordo armi e soldati. Se gli Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia rifornisce di armi e munizioni il regime di Assad. E’ un frammento dimenticato della guerra fredda.
La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran.
La più importante dopo la guerra che ha opposto negli anni Ottanta l’Iran di Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la linea di resistenza” all’imperialismo. La resistenza agli Stati Uniti, che impone le sanzioni, e a Israele, che vorrebbe distruggere le centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana riassume cosi altri conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti, per la sua indisciplina nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta si è svalutata del quaranta per cento nell’ultima settimana rispetto al dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime dopo quelle soffocate nel 2009, l’anno delle elezioni truccate. Se l’insurrezione siriana dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il loro grande alleato in un momento critico. Rimarrebbero isolati. Gli hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro Israele, sarebbero ancora più lontani. Per Teheran si annuncia una possibile grande sconfitta. Anche qui, in Libano, con gli hezbollah in casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione a un futuro che potrebbe essere molto vicino.

l’Unità 5.10.12
La leggenda
di Eric Hobsbawn di Pino Arlacchi

Europarlamentare Pd

OLTRE TRENT’ANNI DI AMICIZIA PERSONALE E DI ANIMATO SCAMBIO INTELLETTUALE MI LEGANO A ERIC HOBSBAWM. Non sono stato suo allievo, anche se Eric mi riteneva un po’ una sua creatura per via di una specie di passaporto da lui firmato sulla copertina di un volume pubblicato nel 1983 da Cambridge University Press. Mafia, Peasants and Great Estates era il suo titolo. Il volume l’aveva scritto un ragazzino calabrese che aveva studiato in America, il sottoscritto, ed era già uscito tre anni prima in Italia senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Il lavoro poteva ben restare un dettaglio della pubblicistica di scienze sociali se non fosse capitato sotto gli occhi di un insaziabile cultore del dettaglio, Eric Hobsbawm appunto, che ne fu entusiasta fino al punto da proporne la traduzione inglese e firmarne un giudizio lapidario in copertina: «Si tratta della migliore analisi sulla mafia in Calabria e di una delle migliori sulla mafia in
assoluto».
Eric era già da tempo il re degli storici inglesi, e queste parole furono appunto il mio passaporto per il mondo accademico internazionale. Il volume divenne un testo usato in vari corsi di dottorato negli Usa, ed Eric ironizzava sul curioso destino di certi “leftist” europei che avevano più fortuna nel Regno del Capitale che a casa propria. La scrittura maestosa e profonda come solo i classici della lingua inglese sanno produrla, e la capacità di unire il particolare, la microstoria, l’aneddoto alla sintesi di respiro globale, sono stati i due talenti che hanno reso Hobsbawm tradotto e ammirato in tutto il mondo.
Chi se non Eric poteva nel 1959 occuparsi di un fenomeno marginale come la mafia nell’Italia del Sud e legarlo al tema universale della forme primitive di rivolta sociale? Il suo volumetto su I ribelli è ancora oggi una godibile lettura, a dispetto della data e della tesi (errata peraltro per alcuni versi) sulla mafia siciliana e calabrese come forza di opposizione al potere dominante. La sua curiosità intellettuale era leggendaria. Non c’era argomento che non lo interessasse o sul quale Eric non avesse una posizione, una battuta, un ricordo o un pettegolezzo interessante.
Le due grandi passioni di Eric sono state senza dubbio il comunismo e la vita. Comunista convinto, mai completamente ortodosso (i suoi volumi non furono mai tradotti nell’Urss) e mai dissidente. Professore non accademico, attratto dalla grande storia fino al punto da definirsi uno studioso dell’Ottocento, ma affascinato anche dalle figure eccentriche. Nel suo libro del 1968, Uncommon People, il bandito Giuliano e il Jazzista Dizzie Gillespie stanno fianco a fianco.
Nel 1994 era uscito uno dei suoi capolavori, noto in Italia con il titolo Il secolo breve. La caduta del comunismo consentiva di porsi le domande più pesanti, e una delle mie più frequenti punzecchiature verso Eric riguardava la sua mancata fuoriuscita dal Partito comunista dopo i misfatti staliniani e l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. La mia puntura preferita era quella di accomunarlo alla posizione di Giorgio Napolitano e dei «miglioristi» del Pci. L’insinuazione sulla mancanza di coraggio era sfacciata, e la sua risposta era altrettanto pepata: «Tu non puoi capire queste cose perché sei un sessantottino anarchico che si è innamorato di Braudel, uno storico più grande di me, comunista come me ma non marxista e privo di fede. Io non ho mai, in realtà, tentato di sminuire i fatti spaventosi che sono accaduti in Russia dopo la rivoluzione. E forse ho taciuto su cose di cui avrei dovuto invece parlare. Ma credevo nella forza del progetto comunista e da storico sapevo che un nuovo mondo non poteva nascere senza lacrime, sangue e orrore: le rivoluzioni, le guerre civili e le carestie hanno sempre camminato di pari passo. Tu non capisci nulla degli anni 30. Io c’ero. Eravamo tutti convinti che il capitalismo sarebbe crollato e ci illudevamo che l’esperimento comunista, per quanto brutali fossero i suoi inizi, si sarebbe rivelato migliore del capitalismo. Migliore per tutti, non solo per quella classe operaia della quale voi sessantottini ve ne fregate».
Dai toni della risposta si capiva che la disillusione per la grande speranza della sua vita lavorava ancora nel profondo. Questo trauma si trasformò in un velo che copriva di malinconia la sua visione del futuro. Ho un vivido ricordo della nostra ultima discussione nel salotto della sua modesta casa nella semiperiferia di Londra. La tesi del mio ultimo libro non lo convinceva.
«Tu vedi una possibile fine della guerra come istituzione e conti sulla forza della pace che ha fatto progredire la sicurezza internazionale a livelli prima sconosciuti. Ma io non ho la tua fiducia nel progresso. Kant con la sua pace perpetua non mi seduce. Hai ragione quando dici che la guerra nel prossimo secolo non sarà così assassina come ai miei tempi, ma la violenza armata ci sarà ancora. Ci sarà in larga parte del mondo, e sarà spinta dalle crisi internazionali».
Questo era Eric Hobsbawm: seduto sempre, senza boria né disincanto, sugli angoli taglienti dell’universo.

Corriere 5.10.12
Stesi sul lettino nei Paesi dell’Islam
di Silvia Vegetti Finzi


Lo scorso 26 settembre, di fronte al numeroso corpo consolare insediato a Milano, Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera», sottolineava l'urgenza di «progredire nella pace e nel dialogo in una società multietnica». Per una coincidenza tanto casuale quanto indicativa dell'attualità di questi propositi, domani si terrà all'Università di Pavia, nella storica sede del Collegio Ghislieri, un seminario internazionale dal titolo «Geografie della psicoanalisi». La metafora rinvia al confronto e al dialogo tra le molte psicoanalisi operanti oggi nel mondo. Una prospettiva coraggiosa per un sapere nato all'inizio del Novecento, nell'ambito della minoranza ebraica viennese in cerca d'identità e integrazione.
Come spesso accade nella storia del pensiero scientifico, dallo scandaglio del particolare sono emersi paradigmi ritenuti universali. Il primato dell'Inconscio, il complesso di Edipo, il disagio della civiltà e la pulsione di morte, insieme alle regole per lo svolgimento della cura, hanno costituito, sotto la tutela dell'IPA, la Società internazionale di Psicoanalisi, un corpus teorico e clinico sostanzialmente stabile e omogeneo. Ma ora l'intensificarsi di relazioni multietniche induce a chiedersi: «Che cosa sopravvive della psicoanalisi, una volta messa a dimora in culture estranee e lontane?
Dalla rivista «Psiche», cui il seminario s'ispira, sono state anticipate alcune questioni. Ad esempio, si può trasferire la prassi del lettino in contesti, come quello islamico, caratterizzati dalla intransigente affermazione della superiorità maschile?
Per lo psicoanalista Gehad Mazarweh dell'Università di Teheran, intervistato da Daniela Scotto di Fasano, la posizione frontale è preferibile soprattutto per la paziente donna, che ne trae una conferma della sua emancipazione. A una conclusione analoga giunge la psicoanalista Gohar Homayounpour osservando che, in Iran, un uomo non si sdraierebbe mai dinnanzi a un'analista donna.
Anche il fine della terapia è diverso: nel mondo occidentale si tratta di ricomporre un individuo frammentato rimettendolo in contatto con le parti rimosse della sua identità e con i rapporti sociali spezzati dall'affermazione narcisistica di sé. In società ad alto indice di collettività si chiede invece alla psicoanalisi di sostenere l'emancipazione dai condizionamenti familiari e ambientali, l'acquisizione di spazi di libertà personale.
Nei nuovi rapporti culturali e professionali Lorena Preta teme possano emergere atteggiamenti neocolonialisti, improntati a una presunta superiorità della cultura occidentale. Una tentazione evitabile privilegiando la psicoanalisi della domanda, cogliendo le provocazioni dell'alterità, sopportando l'ansia del dubbio e la fatica della ricerca, accettando la reciprocità e il cambiamento.
Non dimentichiamo che l'esilio impronta la storia e la teoria della psicoanalisi, fondata sul decentramento dell'Io e l'interpretazione dell'Inconscio. Il seminario si svolgerà attraverso colloqui tra psicoanalisti italiani e stranieri che studiano e lavorano in paesi islamici, mentre Livio Boni, dell'Università di Tolosa, affronterà il contatto con l'India, un subcontinente che suscita in noi contrastanti fantasie di «origine assoluta e irriducibile alterità».
Perché questa straordinaria avventura di traduzioni e ibridazioni reciproche s'inaugura a Pavia? Perché in quell'ateneo gli studi psicoanalitici sono sempre stati aperti alla storia e al confronto con le altre discipline, tra cui una intensa collaborazione con la psichiatria e l'antropologia.
In linea generale, dalla geografia della psicoanalisi ci si attende un contributo alla comprensione di chi, proveniente da paesi lontani, pur vivendo accanto a noi, ci rimane estraneo.
E, in modo specifico, una riflessione su tecniche e saperi minacciati, come sempre accade, dall'irrigidimento delle tradizioni e dal conservatorismo delle istituzioni.

Corriere 5.10.12
Principi solidi per dialogare con l'Islam
di Antonio Puri Purini


Non esistono scorciatoie al dialogo fra Islam ed Europa. È evidente. Tuttavia, nelle settimane scorse sono avvenuti fatti di una gravità inaudita che obbligano a rifare qualche conto. La rabbia degli integralisti contro l'Occidente scatenata dall'insensato film sul profeta Maometto ha raggiunto livelli di guardia. Non facciamoci illusioni: è stata sfiorata la catastrofe, la fiamma del fanatismo rimane accesa, la reazione americana all'uccisione dell'ambasciatore Stevens non tarderà. Non si riflette abbastanza sul disastro dell'estremismo fondamentalista insinuato nelle pieghe della primavera araba, sui danni provocati dalla rimozione della questione palestinese da qualsiasi agenda politica, sulle esitazioni europee nei confronti del dramma siriano. Il dialogo non è solo una questione di realismo politico. Investe la nostra vita giornaliera perché il mondo musulmano ha una doppia dimensione: esterna in quanto spartiamo un confine culturale ancora più che fisico; interna in ragione delle comunità che vivono e giungono nei nostri Paesi con pregiudizi spesso radicati. Gli europei fanno male a pensare che i nemici dell'estremismo salafita siano solo gli Stati Uniti, a sfuggire alle responsabilità, a credere che l'economia metterà tutto a posto. Noi italiani abbiamo subito un attacco al nostro consolato a Bengasi due anni orsono. Mentre il Mediterraneo dovrebbe essere un bacino comune, sta diventando simbolo di un legame problematico fra Europa e Islam, accentuato dall'incapacità europea di presentarsi come comunità di valori e dalle ambiguità che, insieme a tante speranze, accompagnano la primavera araba. Occorre quindi stare in guardia, riconoscere che il rapporto con il mondo islamico si è radicalizzato e che richiede una coraggiosa revisione.
Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha parlato di una linea rossa intoccabile rappresentata dall'intangibilità della figura di Maometto e dai principi sacri dell'Islam. Di fatto, ha suggerito un compromesso strategico fondato sul sano principio di reciprocità. Tocca anche a noi stabilire linee rosse altrettanto nitide. Se non provvederemo alla svelta, scivoleremo in un'ambiguità senza fine che porterà al vero scontro di civiltà. Ci sarà pure una ragione se la convivenza fra cristiani, musulmani, ebrei — un tempo parte integrante della vita mediterranea — sia diventata pressoché impossibile. Le linee rosse irrinunciabili per gli europei sono diverse: ben venga l'accettazione della diversità dell'Islam ma non fino a tollerare violazioni evidenti dei diritti umani. La violenza contro gli occidentali va impedita, non è negoziabile, mentre il personale diplomatico operante in quei Paesi deve svolgere il proprio lavoro in totale sicurezza. Le persecuzioni dei cristiani, dall'Egitto alla Nigeria, non devono essere subite: perché inaugurare moschee in ogni angolo d'Europa quando la costruzione di una chiesa cattolica in un Paese musulmano è impossibile? Non dimentichiamo infine le difficoltà di convivenza con le comunità insediate nel vecchio continente. Dovremmo mettere in chiaro che i musulmani sono ben accetti ma che non pensino di entrare in un'area geografica dove ognuno fa quello che vuole. Benvenuti dunque a condizione che principi, valori, leggi del comune spazio europeo siano rispettati. Questo comporta una responsabilità aggiuntiva per i governi cui spetterebbe stabilire un quadro omogeneo di norme e comportamenti. Purtroppo le politiche in materia d'immigrazione rimangono largamente nazionali. Queste linee rosse sono dunque indispensabili perché rafforzerebbero le forze moderate che esistono nei Paesi arabi e musulmani e indebolirebbero i movimenti xenofobi nei Paesi europei. Esistono segnali incoraggianti, ma non sappiamo ancora se la primavera araba farà maturare un'autentica società civile. E, anche in questo caso, è difficile immaginare che il diritto d'espressione e la tolleranza potranno esprimersi con la trasparenza che caratterizza le nostre società. Tanto vale accettare la diversità come un contrassegno di coesistenza, d'identità, non d'antagonismo e contrapposizione.
Il Mediterraneo come luogo di rispetto reciproco rimane la meta comune. L'appello suona però a vuoto. Non si fa grande politica da tempo: la Libia è un'eccezione, la Siria una conferma. Guai a contraddire Israele. È drammatico che una visione strategica di respiro sia al momento impossibile. L'Unione europea è assorbita dall'emergenza finanziaria. L'Italia, assillata da una crisi, economica e morale, può gestire a malapena la normalità diplomatica di relazioni e contatti. Eppure dovrebbe avere la forza per tornare a svolgere un ruolo che la storia le ripropone continuamente. In passato, i governanti (senza contare il ruolo esercitato dall'Eni di Enrico Mattei), da Amintore Fanfani a Romano Prodi, hanno parlato senza soggezione ad arabi e israeliani. Non si sono fermati alla registrazione delle posizioni di Gerusalemme o del Cairo. Quello spirito va recuperato. Le società che si affacciano sulle diverse sponde del Mediterraneo pongono sfide inedite. Vanno affrontate con coraggio, concretezza, autorevolezza. L'Europa non può essere sempre sul banco degli accusati. Mohamed Morsi non ha voluto farci un favore quando si è trincerato dietro una linea rossa. Senza volerlo, ci ha aperto gli occhi. Nel governo italiano vi sono personalità consapevoli che si è aperto un nuovo fronte. Se solo il presidente del Consiglio non fosse assillato dalla emergenza quotidiana.

Corriere 5.10.12
Un laico nel mistero dell'entropia
Il viaggio di Scalfari alle radici della conoscenza filosofica
di Giulio Giorello


Ai protagonisti della nuova fisica, che constatavano che a seconda dell'ordine in cui si eseguono le misure il mondo risultava fatto di onde oppure di corpuscoli («Se cerchi prima le onde, vedi solo onde. Se cerchi invece le particelle, vedi solo particelle»), Wolfgang Pauli (1900-1958), che vinse il Nobel nel 1945, tra l'altro per la scoperta dell'elusiva particella poi diventata nota come neutrino, ribatteva che se le cose stavano davvero così, «era meglio andare al cinema».
Rigoroso esponente di una scienza basata sull'osservazione e sull'esperimento, il fisico viennese ha attratto l'interesse di Eugenio Scalfari, che gli ha dedicato (12 agosto 2006) un articolo sulla «Repubblica», perché amava scandagliare ciò che non pare osservabile e sperimentabile con le procedure scientifiche: l'abisso che sottende la nostra consapevolezza, il mare oscuro entro cui fluttuano i simboli destinati a emergere nei grandi miti o nelle grandi religioni. E di fronte alla diffusione del male nel mondo, che viene commesso fin troppo spesso in nome del bene, annotava in un testo che cercava il nesso tra Psiche e natura: «Se Cristo e il Diavolo sapessero che sono diventati così simmetrici!».
La razionalità scientifica forniva così una metafora per una realtà ben più complessa, in cui l'irrazionale reclamava il proprio posto. E tutto era il prodotto di quella entità impalpabile che è la nostra mente. Però, commentava Scalfari, questa non era altro che «il prodotto immateriale di uno strumento materiale», il cervello. È un po' come «la musica che emana da un pianoforte. Se questo si rompe, la musica cessa».
Materialismo o idealismo? Scalfari non ha mai dimenticato la lezione del suo amico Italo Calvino: nelle Città invisibili Kublai Khan chiedeva a Marco Polo che cosa mai consentisse a un ponte di stare sull'abisso; si sentiva rispondere che è la forma ad arco che consente questo; ma allora i mattoni non contano niente? «Senza i mattoni non c'è il ponte», gli ribatteva Marco Polo.
Tra le molte sorprese che riserva al lettore il Meridiano Mondadori dedicato a un'ampia scelta degli scritti scalfariani, c'è la possibilità di un percorso ideale dagli interventi sull'«Espresso» e sulla «Repubblica», miranti a fare il punto sulle virtù (poche) e i vizi (molti) della politica italiana, alle considerazioni «metafisiche» che costituiscono la trama di alcuni dei libri che Eugenio Scalfari stesso chiama (nel Racconto autobiografico scritto espressamente come ouverture del volume) «i miei libri più importanti», quelli «veri», che sembrerebbero aver poco a che fare con l'attività giornalistica.
Eppure da non pochi degli articoli presenti nell'antologia risulta chiaro come la Passione dell'etica (così suona il titolo) tragga alimento proprio dalle denunce dei mali d'Italia e dalla ricerca di una spiegazione razionale per luci e ombre di più di mezzo secolo di storia; viceversa, è «il viaggio nella psicologia del profondo, sorta di discesa agli Inferi», che permette di ritrovare un qualche senso in vicende politiche piene di urla e furore.
Il viaggio di Scalfari è un'odissea nel nostro Io, questo insieme di «architetture mentali» che inesorabilmente vien meno quando il corpo si dissolve, proprio come il ponte scompare se gli vengono sottratti i mattoni. E noi siamo fatti di tempo (per dirla con un'espressione cara a Carlo Maria Martini) ed è per questo che alla ghigliottina di Crono è impossibile sfuggire. L'Io è fragile e fragili sono le stesse istituzioni che produce, in un intreccio contorto di umiltà e di prepotenza. Il potere è triste, dice ancora Scalfari; ma proprio per questo «scuote l'anima mia Eros», cioè un amore che non è solo desiderio della bellezza corporea, ma anche la forza «che muove il Sole e le altre stelle».
Il mondo moderno, quello «della necessità professionale della divisione del lavoro», spinge forse a farci accantonare «le domande ultime», però «non le cancella»: esse risorgono tutte le volte che il nostro sguardo si solleva verso il firmamento. Ma per Eugenio Scalfari ciò avviene non nella chiave delle religioni tradizionali, bensì in quella della libertà filosofica: «Quelli che non si accontentano hanno fatto della conoscenza la passione dominante del proprio vissuto». Un tempo sognavano «di volare con ali di Icaro verso il Sole», oggi si impegnano piuttosto a «decifrare i misteri della termodinamica, dell'entropia, delle particelle elementari e del Big Bang».
Allora come oggi la conoscenza non ha riguardi per i valori della tradizione, poiché non esita a trasgredirli quando è il caso. E per questo ci vuole coraggio, conclude Scalfari: quello più difficile, il coraggio di una mente che «non si rassegna e combatte e continua a interrogarsi producendo, in virtù della morte, conoscenza e vita».

Il libro: Eugenio Scalfari, «La passione dell'etica. Scritti 1963-2012»; saggio introduttivo di Alberto Asor Rosa; notizie sui testi e bibliografia a cura di Angelo Cannatà; Meridiani Mondadori, pagine CLXXVIII-1797, 60

Corriere 5.10.12
A teatro la follia di Breivik ha la voce di un'attrice turca
Il regista Rau: le sue tesi xenofobe sono assai diffuse


Sul palco nudo, solo una scrivania. Un'attrice di origini turche (Sascha Soydan, classe 1972) è al centro della scena. Pochi elementi per uno spettacolo che colpisce con la violenza di uno schiaffo. Breivik's Explanation è l'ultima regia di Milo Rau, 35enne regista svizzero di cinema e teatro con la passione della militanza civile, autore, tra gli altri, di uno spettacolo sul genocidio del Rwanda (Hate Radio) e di uno sul processo-farsa che nel 1989 condannò a morte il dittatore Ceausescu e a sua moglie (The Last Hour of Elena and Nicolae Ceausescu).
Rau ha adattato il suo spettacolo (che debutterà a Weimer e Berlino rispettivamente il 19 e il 27 ottobre) alla registrazione audio del discorso che Anders Behring Breivik, l'estremista norvegese responsabile dell'uccisione di 77 persone in due attentati a Oslo e sull'isola di Utoya il 22 aprile 2011, ha tenuto lo scorso 17 aprile davanti ai giudici del tribunale di Oslo. Un discorso in cui il killer (che si è detto «pentito di non aver ucciso molte più persone») non ha solo esplicitato le ragioni del suo folle gesto, ma solidarizzato con al Qaeda, col divieto della Svizzera di costruire minareti, col manifesto del National Socialist Underground (cellula neonazista responsabile in Germania dell'uccisione di almeno 10 persone), oltre a teorizzare la caduta dell'Europa a causa dell'immigrazione e del multiculturalismo.
«Se le azioni di Breivik sono quelle di un pazzo — spiega Rau —, l'ideologia che lo guida è assai diffusa in società democratiche come Svizzera e Germania. Il suo discorso avrebbe potuto benissimo essere pronunciato dal 60 per cento del popolo svizzero. Basti pensare al referendum contro i minareti promosso dalla destra nazionalconservatrice (passato con il 57% dei voti, ndr)».
Per evitare che l'aula del tribunale di Oslo si trasformasse in una piattaforma da cui diffondere le idee xenofobe di Breivik, solo pochi frammenti del suo discorso sono stati resi noti: non c'è il rischio che lo spettacolo pregiudichi lo sforzo fatto per «censurarne» le parole? «Un lavoro artistico-intellettuale non è mai pericoloso — chiarisce il regista — tanto più che le idee di Breivik, interpretate da un'attrice turca proprio per allontanare il "personaggio" e le sue azioni dall'ideologia che lo muove, sono fin troppo diffuse. Semmai, il pericolo è nell'ideologia stessa e nella maggioranza che la sostiene. Al centro del mio lavoro non c'è il killer, ma le sue idee. Che, come sostiene il politologo Kirsten Simonsen, "rappresentano il distillato della crisi culturale che attraversa l'Europa e si manifestano in un crescente populismo xenofobo"». Nella sua «difesa», Breivik paragona il suo gesto all'Olocausto, «sgradevole ma necessario». «Sì. Anche nel Terzo Reich a uccidere furono uomini "normali" (la «banalità del male» che Hannah Arendt riferì a Eichmann). Per questo penso che sia importante che Breivik sia stato dichiarato sano di mente dai giudici norvegesi. Perché non è quello che ha detto o pensato a essere folle, ma la totale brutalità del suo gesto».
Laura Zangarini

Repubblica 5.10.12
Il nuovo saggio di Revelli spiega come i modelli di “storia”, “legge” e “polis” usati per addomesticare brutalità e violenza siano stati travolti dalla finanza
Civiltà barbarica
Perché l’Occidente non controlla più il lato selvaggio del potere
di Roberto Esposito


Il nuovo libro di Marco Revelli, I demoni del potere, appena edito da Laterza, si apre e si chiude su due immagini estreme dell’attuale crisi greca. All’inizio quella di un uomo, con un megafono in spalla e una tanica di benzina in mano, che si dà fuoco – il tutto sullo sfondo di un’Atene ridotta alla fame come il Biafra o il Burkina Faso. E alla fine, la notizia, altrettanto devastante nella sua oscena abnormità, di un principe del Qatar che ha comprato, per il prezzo stracciato di 5 milioni di euro, Oxia, una delle più belle isole dell’arcipelago delle Echinadi, ad appena 38 chilometri da Itaca. Già questa sinistra corrispondenza restituisce la potenza drammatica di un testo capace di scuotere la coscienza del lettore, spingendolo a diretto contatto con la vita offesa dei nostri giorni. Ma esso non si limita a rappresentare la crisi in forma orizzontale, sincronica – mettendo a confronto tragiche istantanee. Revelli compie un periplo più ampio e profondo, interrogandola anche da un punto di vista verticale, che ne riporta in superficie la genealogia nascosta.
Al centro del libro campeggia infatti il fenomeno, già riconosciuto da Benjamin e, diversamente, da Freud, della riemergenza dell’arcaico nel contemporaneo o dell’estraneo nel familiare. Quanto più la storia contemporanea accelera i propri ritmi, emancipandosi dal passato e rimuovendolo, tanto più questo, ad un tratto, sfonda la parete del presente per riapparirci in forma spettrale – come un fantasma della violenza senza limiti da cui proveniamo e che, nonostante tutti i salti di civiltà, non ci siamo mai del tutto lasciata alle spalle. Nel saggio di Revelli, essa assume il volto, minaccioso e sinistro, di due miti fondativi, quello della Medusa, poi sconfitta da Perseo e quello delle Sirene, ingannate da Ulisse – forse mai indagati con una pari capacità di coglierne gli echi attualissimi. Sia il volto accecante della Gorgone sia il corpo ammaliante delle Sirene costituiscono una rappresentazione icastica dei demoni che non soltanto bussano alla nostra porta, ma nascono dentro di noi, come l’ombra lunga che sottende la nostra esperienza quotidiana.
Entrambe situate sul confine tra uomo e animale, entrambe simboli di un potere che schiaccia gli uomini sulla dimensione della cosa, la Medusa e le Sirene differiscono per lo strumento omicida che usano – lo sguardo la prima e la voce le seconde. Se la Medusa pietrifica chi la guarda, proiettando sul suo viso l’immobilità della propria maschera, le Sirene prosciugano la soggettività di chi le ascolta, dissolvendola nel loro canto di morte. Eppure, in questa simmetria, già traspare una prima, significativa, differenza. Piuttosto che la violenza bruta della Gorgone, le Sirene esercitano un potere più sottile e seducente. Esse non pongono direttamente le mani insanguinate sulla vittima, ma la attirano da lontano nel gorgo. Proprio per questo Ulisse può sfuggire alla loro presa con un artificio tecnico, facendosi legare all’albero della nave senza perdere le note letali del loro canto. Come già per la Medusa, Revelli ripercorre le grandi interpretazioni del mito – da Adorno e Horkheimer, a Blanchot, a Kafka – cogliendone il nucleo di senso. Accettando, e vincendo, la sfida con le sirene, Ulisse fa della loro presenza mitica un racconto, traversando la soglia epocale che conduce dall’universo muto e barbarico del mito al mondo aperto e narrabile della storia.
In questa prospettiva l’autore introduce un parallelo tra l’origine del racconto e quella del diritto. Del resto il processo di civilizzazione, coincidente con l’istituzione della polis,
nasce nel doppio segno del Logos e del Nomos, della Parola e della Legge. Contro la violenza indifferenziata di Kratos – il volto bestiale e demoniaco del potere – le mura della città costituiscono una barriera protettiva che gli uomini si impegnano a non infrangere. Naturalmente ciò non vuol dire che la violenza scompaia. Essa viene assunta e incorporata dallo Stato, che si riserva di adoperarla solo contro coloro che dovessero contravvenire al giuramento di ubbidienza al sovrano. L’immagine, non meno spaventosa, del Leviatano di Hobbes – un mostro marino, di origine biblica, protetto da una corazza fatta di scaglie umane – rappresenta questo passaggio dalla violenza scatenata alla violenza trattenuta e finalizzata al controllo sociale. La costruzione di quel ius publicum europaeum che per almeno quattro secoli ha garantito l’ordine all’interno degli organismi statali, ne costituisce l’esito insieme prezioso ed ambivalente. Prezioso perché ha consentito uno sviluppo senza precedenti alla civiltà occidentale. Ambivalente perché non solo è stato costruito al prezzo di infinite guerre che hanno rovesciato all’esterno degli Stati la violenza dominata al loro interno, ma soprattutto perché, nel cuore del Novecento, ha visto schizzare fuori dal suo fondale una violenza in camicia bruna più primitiva di quella mitica.
E’ allora che, insieme alle trama del diritto, ha rischiato di spezzarsi anche quella della memoria storica, ripiegata su stessa in un incubo da cui è stato arduo risvegliarsi. Mai come tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso i demoni del potere sono tornati ad affacciarsi, rendendo pietre, o polvere, decine di milioni di uomini. Che si sia trattato di una parentesi, richiusa una prima volta alla fine della guerra calda e una seconda alla fine di quella fredda, oppure dell’annuncio di qualcosa di ancora più devastante, resta per adesso incerto. Le pagine drammatiche scritte da Pasolini sul mutamento antropologico in atto non solo nel nostro Paese – come le immagini insostenibili di Salò-Sade – pongono forti dubbi sul nostro futuro. Ma ancora più problematica si presenta la condizione di quel mondo globale che ha sfondato le mura della politica moderna, aprendolo alla libera circolazione dei flussi demografici, tecnologici, finanziari. Molti hanno puntato sulle sue potenzialità emancipative, prima che qualcosa di arcaico come i conflitti etnici e religiosi abbia prodotto uno sgradevole risveglio dalle prime illusioni. Come accade quando qualcosa che sembrava sepolto ritorna a interpellarci, essa presenta connotati diversi da quelli che aveva. Così oggi la sovranità non appare più il potere supremo di fare la legge, ma semmai quello di disattivarla, aprendo continui spazi di eccezione all’interno del diritto vigente.
Ora è come se la crisi economica avesse spinto questa procedura al suo estremo esito biopolitico, legando le condizioni della nostra esistenza ad ogni turbolenza dello spread. Quanto più la sovranità confonde i propri tratti nel potere anonimo dei mercati finanziari, tanto più la vita di interi popoli resta non solo offesa, ma anche denudata, esposta allo sguardo pietrificante della nuova Gorgone.

l’Unità 5.10.12
L’altra Italia su due ruote
Oggi gli stati generali della bicicletta a Reggio Emilia
Fa bene a chi la usa e all’ambiente, è tornata di moda e permette di sperimentare anche nuove forme di economia Perché la vendita di bici ora ha superato quella delle auto
di Flore Murard-Yovanovitch


ROMA IL 2012 È STATO BATTEZZATO ANNO DELLA BICICLETTA, DELLA SUA RISCOPERTA COME MEZZO DI TRASPORTO URBANO. È ora che questo risveglio delle coscienze diventi realtà: le città italiane finalmente ciclabili. Ecco la missione degli Stati Generali della Bicicletta che si riuniranno oggi e domani a Reggio Emilia, promossi da Legambiente, Anci, Fiab e #salvaiciclisti. L’iniziativa ha ricevuto l'adesione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che invita «l’Italia a colmare il grave ritardo in materia di ciclabilità».
Siamo infatti il Paese d’Europa con la più alta densità di automobili rispetto agli standard europei: 36 milioni di auto, 65 automobili in media per ogni 100 abitanti. Il traffico veicolare, che si concentra nelle città, assorbe l'1% del Pil in inefficienza mentre il 2% è sprecato per i costi dell’incidentalità; la qualità dell'aria è spesso bollettino rosso e la sicurezza rimane il punto nero delle strade italiane con centinaia di vittime e di feriti. In dieci anni sono stati 2.556 i ciclisti uccisi, più del doppio di quelli del Regno Unito). Un anacronistico e incivile stato di cose, che le amministrazioni locali devono superare, promuovendo soluzioni innovative e concrete. «Serve cambiare strada, il tempo è maturo», auspica Graziano Delrio, presidente dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, uno dei promotori degli Stati Generali. Lo scopo? Fare nascere impegni vincolanti per le amministrazioni: modifiche del codice della strada, moderazione del traffico (zone 30, Ztl, Ztm), reti ciclabili e politiche competitive già adottate dalle maggiori città europee e mondiali.
Intanto una soluzione immediata, propongono gli organizzatori dell’evento, è l’introduzione del limite dei 30 chilometri orari in città. Come afferma Alberto Fiorillo, Responsabile Aree Urbane di Legambiente: «Abbassare di venti chilometri orari la velocità dei mezzi a motore in città. Riduce vittime, rumorosità e inquinamento: comporta esclusivamente vantaggi. Basta una semplice delibera di giunta». Come mai non ci si è pensato prima? Per inerzia, per rassegnazione, perché la questione chiave è il famoso nodo culturale italiano, come pensano gli organizzatori: quello di una cultura rassegnata che non crede al cambiamento possibile. Va trasformata, inserendo la bicicletta nel dibattito pubblico, nella formazione, persino nei curricula delle facoltà di ingegneria e architettura, dove oggi la bici è totalmente dimenticata, riportandola al cuore della progettazione urbanistica, per inventare uno stile di vita sostenibile e le città del futuro.
Un esempio di mobilità riuscita lo offre proprio Reggio Emilia dove uno studio del Comune ha dimostrato che percorrendo 5 chilometri in bici (in circa 12 minuti, ndr) si possono raggiungere due punti qualsiasi della città, grazie alla rete di piste ciclabili che innerva il tessuto urbano. Nel contesto urbano, la bici sfreccia ormai più veloce dell’anacronistica macchina che non supera in media i 15 km/h, comel’antica carrozza.
L’Italia è il primo produttore in Europa di bici ma è solo al 4 posto delle vendite. Con incentivi specifici potrebbe diventare un settore chiave dell’economia. Lo dicono da anni gli esperti della green economy, che si uscirà dalla crisi in sella. Anche perché nel Paese è già boom di vendite di biciclette, nel 2011 hanno persino superato le automobili per la prima volta dal dopoguerra. Le cifre ufficiali parlano di 1.748.143 automobili contro 1.750.000 biciclette.
Il cambiamento è in atto, dal basso, spontaneo. A testimoniarlo i ciclisti sempre più numerosi che lasciano a casa le macchine e inforcano la bici. Soprattutto al nord, dove come rivela un sondaggio realizzato da Irp Marketing l’uso delle due ruote nei giorni feriali è più che triplicato negli ultimi 10 anni.
Aria dei tempi tra il nuovo attivismo ciclistico e il successo del movimento #salvaiciclisti che esige più sicurezza sulle strade e una mobilità diversa. Una rivoluzione che sta silenziosamente attraversando la penisola. La bici diventa così moda, “motus symbol”. Soprattutto fucina di idee e invenzioni, come il “bicibus” dove i ciclisti pedalano in gruppo a orari e fermate fisse, la rete delle ciclofficine popolari di riparazioni gratis in tutto il Paese o ancora l’esempio di Terni, dove la gestione del bike renting, con un progetto Arci, è stata affidata a profughi libici per la loro integrazione sociale.
La bici tesse nuovi relazioni umane e migliora la qualità della vita per tutti, pedoni compresi. La riconquista della strada come bene comune è iniziata ma, come succede spesso in Italia, ai mille fermenti locali risponde l’indifferenza del governo centrale.
Lo ricorda Delrio: «Le città sono spesso laboratori di innovazione decisivi ma serve una convergenza strategica a tutti i livelli istituzionali perché la mobilità sostenibile e la ciclabilità siano adottate come scelte portanti». Il pericolo per il neofita ciclista è quello di rimanare schiacciato tra automobili impazzite e immobilità della politica. Ma intanto l’Italia che vuole cambiare strada è già in sella. A Reggio Emilia.