lunedì 8 ottobre 2012

l’Unità Lettere 8.10.12
Szasz, l’antipsichiatria, la malattia e quella lettera...
di Stefano Carta



Caro direttore, poiché, con il massimo rispetto per la Cassazione, non sono in grado di smettere di pensare per forza di legge, vorrei replicare alla lettera (pubblicata su l’Unità del 27 settembre a pagina 16 dal titolo La malattia non è un’invenzione) seguita alla mia recensione dell'opera di Thomas Szasz (pubblicata su l’Unità del 22 settembre a pagina 20 dal titolo Il «bombarolo» della psichiatria). Innanzitutto, Szasz (o io, figurarsi!) non ha mai negato l’esistenza di forme di condotta che chiamiamo, per esempio, «schizofreniche», per cui su ciò vorrei tranquillizzare gli estensori della lettera. Per Szasz il problema era essenzialmente quello di evitare un etichettamento delle condotte psico-pato-logiche (i trattini dovrebbero essere mantenuti sempre) che le assimilerebbe, attraverso un processo medicalizzante riduzionistico, al biologico e al somatico. Il senso di questa critica è a mio parere molto cogente proprio perché difforme dalla maggior parte della psichiatria; ed è per questo che credo che Szasz sarebbe un autore da prendere comunque in considerazione e a cui andrebbero date le risposte che merita, ovviamente come si usa nella ricerca scientifica anche per non confermarne le tesi. Perciò affermare di «non raccogliere la sfida» (la sua, non la mia, che non sono Szasz) è semplicemente un peccato, sia dal punto di vista della riflessione e della discussione che su quello dei possibili esiti positivi sui «nostri» pazienti.
Che esistano forme di vita che chiamiamo psicotiche, depresse, anoressiche, ecc., è un’ovvietà. Per Szasz il rischio era quello di assimilarle a entità simil-organiche. Al contrario, Szasz riteneva corretto epistemologicamente ed eticamente mantenere l’analisi delle condotte (con le loro possibili motivazioni situate entro matrici intersoggettive e sociali), in quanto espressioni appartenenti allo psicologico, entro la dimensione psicologica. Dall’equivoco sull’esistenza e la serietà delle condizioni psico-pato-logiche nasce l’errata opinione degli estensori della lettera per cui Szasz si disinteresserebbe alla cura. Al contrario, per quanto si possa non essere d’accordo, la posizione di Szasz implicava una «psicoterapia» non coercitiva e situata nella consapevolezza delle matrici intersoggettive e sociali evolutive dei soggetti sofferenti. Insomma, proprio quella psicoterapia che, rispetto all'intervento farmacologico (che, a differenza di Szasz, io non demonizzo) è, nei Servizi pubblici, purtroppo, del tutto sottofinanziata.
Vorrei sottolineare un altro punto criticato nella risposta al mio articolo, e relativo alla presenza di scopi nelle condotte, siano esse sintomatiche o meno. Tutti, e quindi anche lo schizofrenico, agiamo mossi da cause e orientati verso scopi, se non altro perché ogni sistema complesso è potenzialmente comprensibile solo se l'analisi delle cause del suo funzionamento viene messa in rapporto con i suoi scopi ipotizzabili. Questo rapporto cause/scopi diviene, per esempio, evidente e mostra la sua rilevanza nel momento in cui si riconosce che, se è legittimo affermare che un comportamento è «causato dal cervello» (cioè dallo strato biologico), non è possibile affermare che anche i suoi scopi si riferiscano ed esauriscano nel cervello stesso. Gli scopi delle condotte umane, infatti, sono ipotizzabili solo se iscritti nel regno delle relazioni, dei significati e dei valori, per cui negare l’esistenza di piani e scopi delle condotte umane comporta il rischio di negare contemporaneamente l’umanità di coloro che tali condotte mettono in atto. Tutto ciò, ovviamente, non significa condividere tali scopi (come uccidere qualcuno allo scopo di tacitare una voce che te lo impone), poiché il «comprendere» non comporta certo il «giustificare», o tantomeno il celebrare! (Vedi la critica all’antipsichiatria).
Ma ciò che nella lettera mi ha più colpito è stata l’evocazione della schizofrenica che uccide la figlia, brandita per discutere delle tesi sulle quali non si concorda. Questo tipo di rappresentazioni generalizzanti della «malattia» mentale non rendono un buon servizio agli schizofrenici, né a nessun altro perché, così evocato, il «malato mentale» sembrerà un povero mostro spaventoso e, inconsapevolmente, cattivo (Persecutore) da cui qualcuno (Salvatore) proteggerà noi (Vittime), sempre che non si sollevino mai dubbi, riflessioni, alternative. Altrimenti: anatema!

l’Unità 8.10.12
La corsa di Bersani partirà dal Cern
Il segretario del Pd critica Renzi: «Si fida di me? Si fidi anche del partito. E all’Assemblea avrebbe dovuto esserci»
Il via alla campagna sarà il 19 da Ginevra Poi tappa a L’Aquila
di Simone Collini


«Fai attenzione, Pier Luigi, la sua strategia è separarti dal partito e personalizzare la competizione». «Stai tranquilla, Rosy, non glielo permetterò, né questo né di nascondersi dietro la mia credibilità». E infatti dopo che si sono scambiati queste battute, Bersani e Bindi hanno commentato praticamente con le stesse parole sia l’insistenza con cui Matteo Renzi dice «mi fido di Bersani» che la sua mancata partecipazione all’Assemblea nazionale del Pd. «Anch’io mi fido di me ma vorrei che si fidasse, se ci tiene un po’, del collettivo, del partito di cui fa parte e delle sue regole», dice il segretario del Pd parlando in televisione a Che tempo che fa il giorno dopo l’approvazione della norma che permette al sindaco di Firenze di candidarsi alle primarie. A quella riunione, convocata ad hoc a Roma per dare di fatto il via alla competizione ai gazebo per la scelta del candidato premier del centrosinistra, Renzi non si è fatto vedere.
Raccontano al Nazareno, sede nazionale del Pd, che l’ufficio di presidenza lo avesse anche espressamente invitato, benché il sindaco fiorentino sia membro di diritto dell’Assemblea nazionale. «Avrei gradito che ci fosse, mi sarebbe piaciuto confessa ora Bersani- e non si  dica che non è un membro del partito perché lo è, bisogna che partecipi anche alle occasioni in cui dice qualcosa e si senta rispondere, il fatto che non sia venuto è una cosa che ha colpito molti, qualcuno è venuto anche con attaccata una flebo, senza fare nome e cognome».
Ma ora Bersani guarda alle prossime settimane, alla definizione delle regole delle primarie insieme alle altre forze della coalizione progressista (Sel e Psi) e all’avvio della campagna per la sfida ai gazebo.
Nel fine settimana, insieme a Nichi Vendola, Riccardo Nencini e Bruno Tabacci, il leader de Pd siglerà la «carta d’intenti» (che dopodomani illustrerà ai rappresentanti di diverse associazioni e movimenti), fisserà la data delle primarie (25 novembre con eventuale secondo turno il 2 dicembre) e definirà le regole della competizione (al tavolo della coalizione proporrà che al secondo turno possa votare soltanto chi si è registrato entro il giorno del primo turno).
Poi domenica, per il quinto compleanno del Pd (le primarie che elessero Walter Veltroni segretario si svolsero il 14 ottobre 2007), sarà a Bettola. Qui è nato, qui c’era la pompa di benzina e l’officina del padre, e tornando qui per l’anniversario del Pd Bersani vuole mandare un messaggio piuttosto preciso: «Chi si candida a governare il Paese deve dire chi è, da dove viene, e io non vengo dalla comunicazione o dalla politica ma da un’officina». E ogni riferimento a chi è figlio di un dirigente Dc, è stato giovane segretario provinciale del Ppi e poi coordinatore della Margherita forse non è tutt’altro che casuale. Come a dire: chi è il vero atipico?
IL VIA DAL “LABORATORIO DI PACE”
Ma è con la prima tappa della campagna per le primarie che Bersani vuole lanciare un messaggio ancora più preciso. Venerdì 19 il leader del Pd sarà al Cern di Ginevra, luogo scelto per più motivi: perché è un simbolo dell’eccellenza anche italiana (come dimostrano molte scoperte degli ultimi anni), perché qui lavorano fianco a fianco ricercatori di tutto il mondo, anche di Paesi in guerra tra loro (l’esempio che spesso viene fatto rinvia a israeliani e palestinesi), e perché a Ginevra ci sono le sedi del Wto, ovvero l’Organizzazione mondiale del commercio), quella delle Nazioni unite e quella dell’Ilo, ovvero l’Organizzazione internazionale del lavoro, dove Bersani andrà successivamente alla tappa al laboratorio di fisica delle particelle.
Dopo i luoghi dell’eccellenza però, dopo il riferimento al fatto che «l’Italia ha le forze per reagire», il leader del Pd visiterà nel corso della sua campagna per le primarie anche i luoghi della crisi. E un appuntamento su cui investe molto è quello che farà a fine mese a L’Aquila, città simbolo dell’emergenza e della ricostruzione, delle promesse non mantenute dalla destra, dell’obbligo per le forze progressiste, una volta al governo, di rimontare anche i ritardi che si sono accumulati per colpe non proprie. «Il liberismo ha fatto dei danni, io sono quello delle liberalizzazioni, che sono una cosa diversa», dice non a caso a Che tempo che fa a proposito del «liberismo da rottamare» evocato da Nichi Vendola.
MESSAGGIO BERLUSCONIANO
Bersani non si stanca di ripetere che queste primarie sono l’occasione per discutere dei problemi dell’Italia e che il vero avversario è la destra. Il leader del Pd è infatti convinto che un confronto all’insegna della personalizzazione non sarebbe utile. Convinzione condivisa da Bindi, che nel corso della trasmissione In 1/2 ora smentisce che Renzi rappresenti una minoranza. «Tutt’altro, in qualche modo rappresenta la maggioranza silenziosa e ormai chiassosa all’insegna del “tutti uguali e tutti a casa”», dice la presidente del Pd rispondendo a Lucia Annunziata. «Farci una campagna senza riuscire a dire niente sul futuro dell’Italia è una mossa di comunicazione molto furba, ma non risolve i problemi del Paese, anzi li aggrava. Noi non abbiamo paura, ma questo messaggio è berlusconiano». Anche per Bindi, come per Bersani, il sindaco di Firenze «si dovrebbe fidare di tutto il partito» e avrebbe fatto bene a partecipare all’Assemblea del Pd convocata per modificare lo statuto e permettergli di correre. «Io sosterrò Bersani e lavorerò perché Renzi venga sconfitto», fa sapere Bindi nel caso non si fosse capito abbastanza.

Corriere 8.10.12
Primarie vere giochi aperti
di Angelo Panebianco


Bloccando chi voleva imporre regole per le primarie così penalizzanti per Matteo Renzi da trasformare il sindaco di Firenze in un martire, facendogli in questo modo un grande, involontario favore politico, Pier Luigi Bersani, come tanti osservatori hanno rilevato, ha mostrato intelligenza e fiuto. E si è anche impegnato in una partita — le primarie — che se risultasse per lui un trionfo, lo emanciperebbe dal vecchio gruppo dirigente, gli darebbe una preminenza personale indiscutibile dentro il partito. Adesso è libero di concentrarsi sulla sfida con un avversario pericoloso come Renzi. Un avversario che difficilmente potrà vincere ma che potrebbe comunque imporre una forte ipoteca sul partito, condizionarne futuri equilibri e azioni.
Gli osservatori pro Bersani dicono che Renzi sia solo un abile propagandista di se stesso e che il suo «programma» non vada al di là della proposta della rottamazione: una sfida generazionale senza contenuti. Ciò è vero ma non del tutto. Ci sono comunque accenni di programma nella campagna di Renzi ed hanno diversi punti di contatto con quel discorso del Lingotto con cui Walter Veltroni, nel 2007, avviò la navigazione del Partito democratico. Chi ricorda quel (notevole) discorso sa che Veltroni vi delineava il progetto di un forte rinnovamento, di una significativa discontinuità, rispetto alla tradizione della sinistra italiana. Poi, come spesso succede nelle cose di questo mondo, quella visione innovativa si scontrò con la dura realtà quotidiana della politica, e si perse per strada. Bersani è l'opposto del Veltroni del Lingotto: uno che non predica discontinuità ma che propone piuttosto l'adattamento della tradizione alle circostanze presenti.
Date certe affinità, che esistono, c'è da chiedersi come mai Veltroni non abbia appoggiato Renzi. A maggior ragione, se si tiene conto della distanza che lo separa da Bersani, per tacere di D'Alema. Se lo avesse fatto, probabilmente, le chance di vittoria di Renzi nelle prossime primarie sarebbero cresciute. Si può azzardare una ipotesi: Veltroni non ha appoggiato Renzi perché, comprensibilmente, non ha voglia di fare la fine che fece il socialista Giacomo Mancini all'epoca del Midas (1976), quando l'emergente Bettino Craxi sbaragliò la vecchia oligarchia (dei De Martino, Lombardi, eccetera). In quel frangente, fu Mancini il king maker, colui che favorì la vittoria dell'emergente. Ma, dopo un breve lasso di tempo, venne egli stesso emarginato dalla nuova dirigenza del Psi.
Se Renzi perde «bene», se Bersani vince ma solo di misura, allora la navigazione per il suo partito, dato per favorito alle prossime elezioni, diventerà ancor più perigliosa di quanto già non sia. Perché un Renzi forte non può non accentuare le difficoltà di quel partito nel predisporre una plausibile agenda di governo. L'eredità del governo Monti diventerà un peso del quale, per il Pd, non sarà facile sbarazzarsi. Un Renzi forte creerà problemi al segretario, e potenziale premier, Bersani su tutti i fronti. All'interno del partito, per la distanza che c'è fra Renzi e l'entourage del segretario. Nei rapporti con l'alleato Vendola, perché questi vuole azzerare scelte del governo Monti che Renzi difende strenuamente. E nei rapporti con la Cgil, per la stessa ragione.
Queste sono le prime «vere», competitive, primarie nazionali del Partito democratico (in precedenza, ci si era limitati a fare plebiscitare un leader già deciso dal gruppo dirigente). Proprio perché sono vere lasceranno un forte segno.

Corriere 8.10.12
Franco Marini
«Al ballottaggio la destra tenterà di far fuori Bersani Rischiamo lo choc»
intervista di Aldo Cazzullo


Franco Marini, com'è andata l'assemblea di sabato?
«Bene. All'insegna dell'unità. Anche troppo. Infatti, per paura di dividerci, abbiamo commesso un errore».
Quale?
«Non è stato chiarito in modo definitivo un punto fondamentale: al ballottaggio possono votare solo coloro che hanno partecipato al primo turno delle primarie. So che l'interpretazione della segreteria è questa. Ma bisognava votare e chiudere la questione. Temo invece che la questione si trascinerà. E questo è pericoloso».
Dov'è il pericolo? Più ampia la partecipazione, più forte sarà il vincitore delle primarie.
«Ipotizziamo che al primo turno Bersani e Renzi siano vicini. Una destra allo sbando sarà tentata di intromettersi nelle nostre vicende, per far perdere il nostro segretario. Lo choc sarebbe fortissimo».
Il Pd si sfascerebbe?
«Non dico questo. Ma certo se un leader come Bersani, che ci ha guidati in momenti drammatici, che ha sostenuto il governo Monti facendo scelte anche dolorose, venisse sconfessato da un voto popolare, le ripercussioni sarebbero molto gravi».
Per voi, sicuramente. Renzi non vi vuole.
«Io dal Pd non me ne vado. Resterò come semplice iscritto. Mica mi straccerà la tessera? E poi Renzi non è uno sciocco, sa che qui c'è gente di valore».
Lei sabato ha commentato a caldo che "Renzi non è furbo come sembra, altrimenti sarebbe venuto qui". Conferma?
«Certo. Non venendo all'Ergife, Renzi ha commesso un errore grave e controproducente. Non è solo un'incredibile mancanza di riguardo verso un'assemblea che stava cambiando lo statuto per permettergli di correre alle primarie. È un segno di debolezza. Un autogol. Renzi non troverà un militante su un milione che sia d'accordo con lui su questo punto».
A dire il vero, i militanti guardano con insofferenza la nomenklatura e affollano i suoi comizi.
«Ma Renzi non può pensare di conquistare un partito e poi un Paese girando l'Italia a mettere in scena i format che gli ha preparato Gori. Altrimenti il suo camper diventa il carro di Tespi, senza neppure la fantasia della commedia dell'arte, visto che il canovaccio è sempre lo stesso: arriva, sale sul palco in camicia, recita una parte mandata a memoria, prende gli applausi, chiude il microfono e riparte. No, la democrazia è più complicata di così. Venga a confrontarsi con noi. Risponda alle critiche. Di sicuro trova pure qualcuno che la pensa come lui. Ma venga».
Anche lei dovrebbe pensarla come lui. Renzi viene dal Ppi di cui lei è stato segretario.
«Renzi è un giovane di grande qualità. Per questo gli consigliai di aspettare. Gli dissi proprio così: "Il futuro è tuo. Non ti bruciare in una corsa solitaria contro tutti. Fatti le ossa a Firenze. Dopo nessuno ti potrà fermare". Non mi ha dato retta. Peccato. Non capisce che il tempo dell'uomo solo al comando è finito».
C'è qualcosa di berlusconiano in Renzi, secondo lei?
«Dicono sia berlusconiano perché è andato ad Arcore. Una sciocchezza. Ma con la sua tournée teatrale Renzi è oltre il berlusconismo. È vittima della malattia generale della visibilità e del leaderismo. In nessun Paese del mondo si sceglie un candidato in questo modo. Piuttosto facciano un bel confronto pubblico all'americana».
Ma è Bersani che non lo vuole.
«Davvero? Gli consiglierò di farlo. Sono sicuro che lo vince».
Perché?
«Perché il momento è talmente grave che non conta la brillantezza, ma la sostanza. La politica industriale, la contrattazione aziendale, la riforma dello Stato e della pubblica amministrazione. Non mi pare che Renzi abbia un programma definito al riguardo».
Dica la verità: a Renzi non perdonate il linguaggio. La rottamazione.
«Si figuri se si fa spaventare dal linguaggio uno come me, che viene dai monti del Gran Sasso. Mio padre, operaio alla Snia Viscosa con sette figli, ha fatto molti sacrifici per farmi studiare, ma non ha potuto mandarmi a Oxford. Parlar franco mi piace. Però "rottamare" non è parlar franco; è una provocazione, che poteva essere fatta con maggiore attenzione. Comunque è legittimo che Renzi ci voglia mandare tutti a casa. Secondo me sbaglia: il Pd è l'unico partito rimasto in piedi proprio perché non è la corte di un capo, ma una comunità. Però non mi scandalizzo».
Cosa farà?
«Alla mia età non ho nulla da chiedere alla politica. Potrei dare un contributo di riflessione. Oppure resterò a guardare i brillanti successi di Renzi a Palazzo Chigi».
Insomma, queste primarie era meglio non farle.
«Sento dire che le primarie sono nel Dna del partito democratico. Ma è una fesseria. Il nostro Dna è l'incontro tra cattolici e laici, la conciliazione tra libertà e giustizia sociale. Le primarie sono un metodo, non l'essenza».

Corriere 8.10.12
E sui soldi è l'ora dei sospetti
Le voci tra gli anti-Renzi: soldi da Israele e Usa Bersani però sposa la raccolta online e Vendola lancerà una sottoscrizione
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non bastavano le liti sulle regole. Ora nel centrosinistra infuriano anche le polemiche sui finanziamenti delle primarie.
A dare il la a questa nuova diatriba in casa democratica è stato l'ex tesoriere Ugo Sposetti che ha accusato Matteo Renzi di aver già speso 2 milioni e 35 mila euro e di prendere anche soldi dall'estero. Precisamente da dove? A domanda Sposetti non risponde.
Le chiacchiere che girano tra i detrattori del sindaco di Firenze sono intrise di teorie da complotto giudo plutaico massonico: i finanziamenti arrivano da Israele e dalla destra americana. Perché mai Romney e Netanyahu dovrebbero pagare il sindaco di Firenze? A domanda i detrattori non rispondono.
Ovviamente a voci come queste Renzi non replica. Però il primo cittadino di Firenze è pronto a querelare l'ex tesoriere dei Ds, qualora insistesse con la storia dei milioni: «Voglio proprio divertirmi».
In compenso replica a Sposetti l'uomo che ha in mano la cassaforte della campagna di Renzi: Alberto Bianchi. E specifica che le entrate e i nomi dei finanziatori che hanno dato l'autorizzazione sono sul sito del sindaco. Così è: finora sono stati raccolti quasi 60 mila euro.
Tra oggi e domani verranno messe in rete anche le spese che, a dire la verità sono poche, perché tranne qualche eccezione come Verona e Roma, sono i comitati pro Renzi locali a spendere i soldi dell'affitto delle sale. Gli alberghi il sindaco li paga di tasca propria. Tra l'altro, Renzi non ha voluto nemmeno del personale del Pd per la sua campagna, come gli era stato offerto, perché ritiene che per le primarie non si debbano usare mezzi, soldi e strutture del partito.
Sposetti però insiste: «Con 60 mila euro possono pagare giusto le merendine. Io ho fatto questo mestiere e so quel che dico: andate a indagare voi giornalisti».
Ma a indagare si scopre che i camper a Renzi volevano darglieli gratis ed è stato lui che ha voluto pagare, che la sua campagna la fanno volontari (vengono dati solo due stipendi per il personale dell'ufficio stampa) e che il sito è stato allestito da un gruppo di ragazzi: la meticolosità del sindaco su queste cose rasenta la mania.
Del resto, anche gli altri due principali candidati alle primarie stanno attentissimi a non fare passi falsi. Temono l'ira dell'elettorato che dopo gli scandali delle regioni non perdonerebbe. Tanto meno se venisse a sapere che la campagna viene finanziata con i soldi dei partiti, cioè con i soldi degli italiani. Ragion per cui la sobrietà e la trasparenza sono d'obbligo.
Pier Luigi Bersani, per esempio, ha deciso di fare come il suo avversario Renzi e lancerà una raccolta di fondi "online", rendicontando tutto.
Ma qualche sostenitore del sindaco di Firenze si chiede se il segretario del Pd non utilizzerà veramente i mezzi e le strutture del partito. Bersani giura di no. Il suo comitato non ha ancora nemmeno i computer (se non i propri) e lui è da mesi che non usa più l'auto messagli a disposizione dal Pd: tagliata per sobrietà e per arginare i costi. Resta solo la macchina di scorta che, fanno sapere dallo staff del segretario, è obbligatoria.
Precisissimo anche Nichi Vendola. Il governatore della Puglia ha spiegato di avere poco o niente in cassa. Per questa ragione a breve lancerà una sottoscrizione. I creativi che gli cureranno la campagna per le primarie sono volontari. Massima sobrietà, è la parola d'ordine del leader di Sel, che l'altro ieri ha aperto la sua campagna a Pompei e ha fatto la fila per pagare il biglietto di ingresso agli scavi, nonostante fosse stato accolto con tutti gli onori dal sovrintendente e da alcune autorità locali. Se l'è addirittura conservato quel biglietto, per dimostrare che l'ha pagato di tasca sua. Qualche finanziamento, però, Vendola sarà costretto a trovarlo perché l'iniziativa dell'altro ieri per quanto sobria qualcosa è costata. Ottomila euro per l'esattezza: 800 più Iva per l'affitto della sala, 50 per i manifesti, 4 mila per il service audiovideo, e così via, fatture alla mano.

Repubblica 8.10.12
L’incognita primarie per il partito liquido
di Ilvo Diamanti


IL PD. Un partito in cerca di. Leader, programma, identità, alleanze… Tanto più dopo l’uscita dal campo di gioco di Berlusconi e la scomposizione del Pdl. Che hanno dissolto la principale frattura del sistema partitico della Seconda Repubblica.

Il dibattito sulle primarie ha risentito e risente di questo senso di precarietà. Perché le primarie, per il Pd, non costituiscono solo un metodo di scelta del candidato alle cariche più importanti, a livello nazionale e locale. Sono il “mito fondativo” (come l’ha definito Arturo Parisi) del Partito Unico di Centrosinistra. Istituzionalizzato e sperimentato, nel 2005, dall’Ulivo. L’Unione di Centrosinistra. Più che competizione, l’investitura quasi plebiscitaria riservata a Romano Prodi, in vista delle elezioni del 2006. In seguito le primarie sono state utilizzate in diverse occasioni. In ambito nazionale: nel 2007 e nel 2009. In entrambi i casi: non per eleggere il candidato premier, ma il segretario nazionale. Veltroni, nel 2007 e Bersani nel 2009. Usate, cioè, come un equivalente del congresso. Nel 2009, in particolare, attraverso un percorso complesso. Prima, mediante il voto dell’Assemblea dei delegati eletti dagli iscritti, a livello di circolo. Poi, con il ballottaggio fra i primi tre. Attraverso primarie aperte agli elettori. Combinando, quindi, il “partito di iscritti” (fondato sull’appartenenza) e quello “americano” (presidenziale, a identità leggera). In effetti, nel Pd – e prima nell’Ulivo – la distanza fra questi due modelli è sempre stata limitata. Perché il Pd è un partito di ex e di post. Democristiani e comunisti. Che, del passato, ha conservato la memoria e la nostalgia della partecipazione di massa. Oltre alla cerchia dei gruppi dirigenti.
Per questo, fino ad oggi, le primarie non sono state un agone, competitivo e incerto. Ma, piuttosto, una procedura dall’esito – più o meno – scontato. Hanno, invece, funzionato come metodo di mobilitazione sociale. Al di là e oltre gli iscritti. Per risvegliare la domanda di coinvolgimento e di partecipazione – sempre elevata – fra gli elettori di centrosinistra. In alternativa all’identificazione personale, promossa da Berlusconi, attraverso la televisione e il marketing. Con successo. Visto che milioni di elettori hanno partecipato alle primarie. Nonostante la delusione crescente, prodotta dal sistema partitico, in generale, ma anche dal Pd. A sua volta implicato nella “politica come marketing”, imposta dal Berlusconismo. E nelle crescenti spinte oligarchiche, che hanno coinvolto, in diversa misura, i partiti. Anche nel novembre 2009, quando è stato eletto segretario Bersani, quasi tre milioni di persone si sono recate ai seggi e ai gazebo allestiti dal Pd, in tutto il territorio nazionale. Prima di tutto: per rispondere al bisogno di “partecipare”.
Di esserci. Non è detto che il “miracolo” si ripeta anche questa volta. Nonostante che la domanda si confermi elevata. Metà degli elettori, senza distinzione di parte e di partito, si dice “disponibile a partecipare alle primarie per eleggere il candidato premier” (Sondaggio Demos, settembre 2012). Un orientamento che raggiunge i valori più elevati, non a caso, a centrosinistra. Fra gli elettori del Pd e di Sel. Ma anche del M5S. Anche nella base dell’Idv, della Lega e del Pdl la voglia di primarie appare ampia. Ma, appunto, molto meno che nella Sinistra e nel Pd. Dove, ormai, le primarie sono un rito assimilato. Fonte e fattore di identità. Tuttavia, per votare occorre sapere perché. A che fine, in che modo e in che campo. Fra quali candidati e programmi. Il che, francamente, non è chiaro.
In primo luogo, perché non si sa con che legge elettorale si voterà. Ove venisse approvata una legge di tipo proporzionale, le primarie perderebbero significato. Sicuramente, non avrebbe senso promuoverle a livello di coalizione. Mentre l’Assemblea del Pd, non a caso, ha fissato limiti e regole (in verità, molto flessibili) in base a cui il segretario, Bersani possa “negoziare” con gli altri partiti alleati. Ma quali? La Sinistra? Il Centro? L’Idv? Oppure tutti quanti
insieme? Su questo punto, la struttura e i confini della coalizione, non c’è chiarezza né coerenza. Ciò, ovviamente, non dipende solo dal Pd. Perché le distanze fra Udc e Polo di Centro, Sel, Idv restano ampie. In alcuni casi, incolmabili. C’è, poi, il ruolo di Monti. Infatti, anche nel Pd, immaginano che dopo Monti debba governare ancora Monti. Ma se il candidato premier, fosse già pre-definito, “a prescindere”, per citare Totò, le primarie: a che servono?
Per questo, dietro al dibattito di questi e dei prossimi mesi, c’è una questione di fondo, elusa e rimossa. Ad arte o per disattenzione. Precede e va oltre gli argomenti che animano il dibattito politico e mediatico. Per prima: l’alternativa fra Bersani e Renzi. Fra il “Rottamatore” e “l’Usato sicuro”, come ha osservato, con efficacia, Adriano Sofri. In questione è il Pd. Non più Unione, non più Partito Unico della Sinistra. Diviso sugli obiettivi e sulle parole d’ordine. Ma anche sulle alleanze. Tra Vendola, Di Pietro e Casini. I suoi elettori: il 75% dei quali d’accordo con Monti e il 65% contrari alle sue politiche. Il Pd, senza Berlusconi alle porte, mentre affronta le primarie, appare disorientato e disancorato. Per echeggiare Bauman: un “partito liquido”.

Repubblica 8.10.12
Il tetto massimo è stato portato a 15 anni. E possono esserci anche le eccezioni
Allargato il limite di tre mandati i Democratici ora tutti ricandidabili
di Riccardo Di Grigoli


ROMA — Rottamazione, ricambio, innovazione. Nel Pd sembra non si parli d’altro. Ma in teoria alle prossime elezioni politiche quasi tutti i parlamentari del partito potrebbero candidarsi di nuovo. La norma sul limite dei mandati di deputati e senatori prevista dallo statuto è infatti stata scavalcata. Nel regolamento democratico si dice che, salvo deroghe, chi ha fatto tre mandati non è ricandidabile. Ma sulla locuzione “tre mandati” c’erano due possibili interpretazioni: 3 legislature sic et simpliciter, oppure tre mandati “pieni”, ovvero 15 anni in Parlamento. Si scopre però che il problema interpretativo è stato risolto nell’assemblea del 14 luglio scorso, approvando frettolosamente un ordine del giorno della presidenza (letto da Marina Sereni), in cui si parla esplicitamente di 15 anni: ciò permetterebbe alla maggior parte dei parlamentari di mettersi in salvo. Di fatto oltre il 90 per cento dei deputati e senatori democratici, grazie a questo odg, ora risulta ricandidabile. Dei 309 parlamentari del Pd, solamente in 28 resterebbero fuori. E questo numero, già di per sé piuttosto basso, potrebbe essere ulteriormente ridotto in funzione di una deroga che può “essere concessa — per statuto — su richiesta esclusiva degli interessati, per un numero di casi non superiore al 10% degli eletti del Pd nella corrispondente tornata elettorale precedente”. Tradotto in cifre, fino a un massimo di 31 parlamentari potrebbero usufruire della deroga. A conti fatti quindi nessuno, in teoria, sarebbe costretto a rinunciare al proprio scranno. Se si andasse a votare con l’attuale sistema elettorale, in virtù delle cosiddette “liste bloccate” i vertici del partito, se lo volessero, potrebbero confermare tutti i parlamentari.
Già nel 2011 l’Espresso aveva affrontato la questione della “interpretazione della norma”, definita «volutamente ambigua» da chi presiedette la commissione che diede vita alla prima versione dello statuto, Salvatore Vassallo. Il problema era apparso fin da subito evidente: molti degli eletti attuali erano in Parlamento anche durante la legislatura segnata dall’ultimo governo Prodi, che però ebbe vita breve, appena due anni (2006 - 2008). Lo stesso segretario del Pd Pierluigi Bersani rischiava di restare tagliato fuori; per lui tre legislature ma 11 anni in Parlamento. Caso simile anche per Dario Franceschini. Ora entrambi non sforano il limite dei 15 anni. E, con le deroghe, potrebbero tornare anche Rosy Bindi, Walter Veltroni e Massimo D’Alema: tre che siedono in Parlamento da ben più di 15 anni.

Repubblica 8.10.12
D’Alema, Veltroni e la tentazione ritiro “Ma la decisione spetta al partito”
Il segretario: ricambio con poche deroghe, senza umiliazioni
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Quella di Renzi è un aggressione». Massimo D’Alema consegna questa frase con l’aria non dell’offeso ma di chi sottolinea un dato di fatto. A questo tipo di “rottamazione” il presidente del Copasir non offrirà mai la sponda di un’analisi seria sul rinnovamento. Ma nei colloqui con Bersani l’atteggiamento è molto diverso. «Se affrontiamo il ricambio come una questione politica, il Pd può e deve gestire il problema», dice D’Alema. È l’apertura a un eventuale non ricandidatura, è il rimettersi alle scelte del partito secondo le regole di una scuola antica.
Alcuni dicono che l’ex premier vorrebbe essere difeso di più dal gruppo dirigente, soprattutto quando l’attacco è personale. Che rimproveri all’inner circle bersaniano, composto in larga parte di ex dalemiani di ferro come Vasco Errani, una ingenerosa freddezza. Ma questa versione non sembra coincidere con il carattere del personaggio. A Renzi nessuna risposta, al partito e a se stesso sì: questa è la posizione di D’Alema. D’altra parte il sindaco di Firenze non fa nulla per smentire la simbologia che attribuisce al più importante leader della sinistra degli ultimi 18 anni: «Se io vinco le primarie non finirà il centrosinistra, certamente finirà la carriera parlamentare di D’Alema», ha ripetuto anche ieri a Matera. Lo fa, sera dopo sera, in tutte le piazze italiane, recitando un copione teatrale che sembra non deludere la platea. Molto diverso è il ricambio al quale pensa Pier Luigi Bersani. Non meno profondo, ma senza strappi.
Il segretario e l’ex premier ne hanno parlato a lungo in molti colloqui riservati. Nelle sue chiacchierate con i colleghi di partito alla Camera D’Alema oscilla tra una posizione altezzosa e una orgogliosa. «Se la legge elettorale cambia e ci sono le preferenze, penso di candidarmi nel 2013. E di avere buone chance», dice con un ghigno ricordando la corsa delle Europee nel 2004 e gli 800 mila voti personali presi in una sola circoscrizione. Altre volte, indispettito, prevede un passo indietro: «Potrei stupire tutti e andarmene». Immaginando per lui, già premier, già ministro degli Esteri, un ruolo politico da protagonista anche fuori dal Parlamento. Come quello che svolge Giuliano Amato, per dire. Con Bersani però la riflessione non ha niente di umorale.
I due discutono partendo dalla stessa disciplina. «La questione del rinnovamento è politica. I nostri successi, i nostri errori, le nostre storie. Come tale va gestita dal partito», è la posizione di D’Alema. Sarà quindi compito del segretario e degli organismi dirigenti trovare una soluzione. «È necessario — ha spiegato Bersani a D’Alema — dare l’impronta di un ricambio. Ma non bisogna umiliare nessuno». Per questo il leader del Pd ha visto e vedrà tanti dirigenti finiti nel mirino dei proclami di Renzi. Ma che anche Bersani non nasconde di voler mettere di lato.
Walter Veltroni ha incontrato Bersani venerdì scorso prima dell’assemblea del Pd. Nel Pantheon dei rottamandi disegnato da Renzi c’è anche il suo nome. La sua posizione è speculare a quella di D’Alema: è il partito a decidere come e quando si fanno i passi indietro. Ad alcuni la sintonia dei due suggerisce la solita immagine di “Walter” e “Massimo” che si marcano stretto, che osservano l’uno le mosse dell’altro. Per capire chi farà per primo l’eventuale gesto di un ritiro volontario, guadagnando naturalmente un vantaggio su tutti gli altri. Malignità che nascono in un clima di veleni ma anche di rivoluzione. Anna Finocchiaro ha confidato agli amici di essere «amareggiata» per le voci che si addensano sulla sua lunga carriera parlamentare. Pensa di non meritare il trattamento da “dinosauro”. È stata una dirigente leale al gruppo storico, ha messo a disposizione la sua figura anche nelle cause perse rischiando la faccia. E adesso il capogruppo del Pd al Senato non sente di meritare lo scaricamento anche dei vertici.
Franco Marini e Rosy Bindi si rimettono alle decisioni del partito. Ma senza rinunciare alla guerra contro Renzi, alla difesa di una storia e di un ruolo. La presidente del Pd anche ieri a In Mezz’ora non ha rinunciato a denunciare il rinnovamento generazionale. «Basta vedere il giovane Fiorito». «Quello del tutti a casa, tutti uguali, è un messaggio molto berlusconiano. Nella nomenklatura viene inserito anche Beppe Fioroni. Che per reagire si affida al peso della sua corrente. Sui territori, raccontano, sta dividendo le truppe tra Bersani e Renzi. Per giocarsi una fiche al secondo turno.
Bersani lo ha detto anche in assemblea: «Io ascolto tutti, conosco le perplessità di molti». Ma ha chiesto coraggio. E nei colloqui con i big avverte: «Ci saranno pochissime deroghe al limite dei mandati. Non più di 4 o 5, per le figure istituzionali». E alla Camera spingerà perché venga discussa al più presto la proposta di legge Ginefra che sancisce il limite di 3 legislature per i parlamentari. Una legge vale più dello Statuto interno.

Repubblica 8.10.12
L’intervista
Sposetti: con l’assemblea di sabato è cominciato il Concilio Democratico II
“Dopo le elezioni io farò il nonno ma l’innovatore è Pier Luigi non Matteo”
Gli innovatori sono quelli che hanno radici profonde, non chi vuole mettersi al posto di due o tre persone


Sposetti, lei ha votato per la deroga che permette a Renzi di partecipare alle primarie?
«Avrei votato come ci ha chiesto il segretario Bersani, che ha fatto in Assemblea il miglior discorso da quando lo conosco. D’altra parte con l’Assemblea del partito di sabato è come se fosse cominciato il Concilio Vaticano II, cioè il Concilio Democratico II».
«È la lotta tra innovatori e tradizionalisti, e gli innovatori sono quelli che hanno profonde radici...»
Innovatori sono i “rottamatori” guidati da Renzi.
«Niente affatto. Innovatori non sono quelli che lo dicono a parole, o peggio che sostengono: “Togliti tu, che mi ci metto io”».
«Bersani ha innovato: poteva tenersi stretto lo Statuto, invece ha aperto la sfida per le primarie. L’innovazione è salvare questo paese, avvicinarsi alla gente, ascoltarne i bisogni. Il Pd ha cambiato le regole, e Renzi gira in camper senza simbolo di partito... una vergogna».
«Ho detto che è coraggioso, però non è un innovatore. In fondo cosa vuole cambiare? Due o tre persone, non il paese. Quali sono le sue proposte per dare un futuro ai giovani e fare star meglio i poveracci? A quale nuovo patto sociale pensa?»
La nomenklatura del partito non vuole farsi da parte?
«Ma non stiamo parlando dell’amministrazione delle Ferrovie dello Stato... stiamo discutendo di assemblee elettive, dove ci vuole professionalità, capacità, spirito di sacrificio e poi bisogna prendere i voti».
«Sono un iscritto, chiamato solo a fare il tesoriere dei Ds».
Ora è deputato, e nella prossima legislatura cosa fa?
«Farò il nonno, se mia figlia vorrà. Intanto il mio obiettivo è collocare tutti i dipendenti dei Ds e salvare il patrimonio, in modo trasparente».
«Ma quando mai. Qualcuno avrebbe voluto che l’Assemblea del partito finisse male, allora avrebbe stappato champagne. Non è accaduto, e si apre un’altra questione. Bersani non vuole scaricare nessuno»
Sminuisce il tema del rinnovamento e del ricambio?
«La classe dirigente del Pd si sta ringiovanendo».

Repubblica 8.10.12
La deputata del Pd lancia domani la sua Fondazione Uman: “Vogliamo insegnare a investire nel sociale”
La sfida della Melandri: “Politica addio ora farò della filantropia un’impresa”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Dal volantino ti squadra il volto stilizzato di un uomo, ispirato alle statue dell’isola di Pasqua. Uman, o anche youman (per il gioco di parole in inglese), è un’associazione che vuole “dare e innovare”. In altre parole, vuole portare in Italia quel capitalismo filantropico che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna è già una realtà, e che da noi è poco meno di un sentito dire. Giovanna Melandri si è innamorata dell’idea due anni fa, a Oxford, al Jeff Skoll World Forum. Per capirci, Jeff Skoll è il fondatore di e-bay, è diventato multimiliardario con l’algoritmo che consente di comprare online, e ha deciso di usare molti dei suoi soldi per fare imprenditoria sociale. E per fare incontrare esperienze innovative che, insieme, possono fare la differenza. «Sono tornata da lì con un doppio rammarico – racconta oggi il deputato pd – perché nella cartografia della filantropia mondiale l’Italia risulta non pervenuta, nonostante la generosità dei nostri imprenditori e la straordinarietà del nostro terzo settore. E perché nel nostro Paese manca totalmente una discussione su un nuovo tipo di Welfare». Da lì, è scoccata la scintilla: l’idea di connettere le imprese innovative italiane e il mondo del volontariato e della cooperazione sociale. Per poi portare tutto questo in una dimensione internazionale nuova. Cambia vita, Giovanna Melandri. Riparte da un appartamento disordinato di viale delle Milizie: memo attaccati ai muri con lo scotch, ragazzi scalzi che litigano con un Mac, stampanti posate a terra e scatoloni ovunque. Sulla scrivania il libro dell’economista Dambisa Moyo La carità che uccide. «Io lo chiamo caos entropico», dice sorridendo del suo nuovo ufficio. E della sua nuova vita. Domani pomeriggio Uman sarà presentata al mondo a un convegno che vedrà la partecipazione del premier Mario Monti e del ministro alla Cooperazione Andrea Riccardi, ma soprattutto, di gente come Bunker Roy, il filantropo indiano fondatore dei Barefoot College; di Pamela Hartigan, direttore dello Skoll Centre per l’impresa sociale; di Molly Melching, che – tra le altre cose – è uno dei consiglieri di Hillary Clinton. Persone che sono nell’advisory board di Uman
insieme al premio nobel Yunus, l’inventore del microcredito, a Jacques Attali che in Francia ha creato qualcosa cui Uman si ispira, PlaNet Finance, fino all’americano John Podesta, del Center for American Progress, e agli italiani Giuliano Amato, padre Giulio Albanese, Stefano Zamagni.
«No, non è una delle tante fondazioni del Pd», scandisce chiaro lei. «Noi vogliamo sperimentare, insegnare a fare impresa investendo sul sociale, professionalizzare il settore». Il tutto, per rispondere a una domanda che è anche politica: «Che futuro vogliamo consegnare ai nostri figli? Possiamo eludere il tema, già europeo, di una gamba di welfare sostenuta dai privati? Che non devono sostituirsi allo Stato, ma integrarlo. L’impresa sociale –dice Giovanna Melandri - deve essere affrancata dalla dipendenza delle risorse pubbliche, deve imparare a reggersi da sé». E in più, sperimenterà i nuovi strumenti della finanza sociale. «Vogliamo lanciare un fondo di investimento, un social impact fund, che è collegato alla rete internazionale Giis: si tratta di investimenti che definirei “good profit”, con un rendimento che va dal 3 al 5 per cento, ma molto più stabili degli altri. E soprattutto, di impatto: ognuno di essi deve garantire, oltre alla sostenibilità finanziaria, l’impegno a cambiare qualcosa. In Rwanda, ad esempio, si investe in una cooperativa agricola di caffè che assume le vedove del genocidio, risolvendo un immenso problema sociale».
Per il lancio di una creatura che cammina da un anno e mezzo, la sua presidente ha aspettato di aver concluso il primo progetto. Bunker Roy voleva portare le “solar mamas” in Sudamerica. Uman gli ha fatto incontrare Enel Green Power, e le nonnine sono già operative in 4 Paesi tra Perù e Bolivia. Come funziona? La società regala un impianto di energia solare a un villaggio, e lì sceglie alcune donne che forma nei Barefoot College per 6 mesi. «Non sanno né leggere né scrivere, ma imparano a gestire un impianto complicato con le marionette e il linguaggio dei segni». Tornano a casa, portano luce. E la politica, onorevole Melandri? «De Gasperi diceva che politica è realizzare. Il vero problema degli ultimi anni, è che non è riuscita a realizzare cambiamento».

Corriere 8.10.12
La benda degli onesti che scelgono rappresentanti non all’altezza
di Fulvio Scaparro


Nessuna comprensione per corrotti, corruttori ed evasori ma mi chiedo quando noi elettori decideremo di fare un po' di autocritica invece di accontentarci della rituale sacrosanta indignazione. Puntare il dito contro l'impressionante degrado della politica senza mettere in gioco noi che abbiamo dato tanto potere a chi ha dimostrato di non meritarlo sa tanto di comoda autoassoluzione; i buoni, noi, da una parte e i cattivi dall'altra mettendo tra l'altro ingiustamente in un unico calderone politici onesti — ce ne sono — e disonesti che minano la democrazia curando i propri affari e le proprie carriere. Visto che, salvo in alcune realtà locali, il potere non è stato strappato con la forza e l'intimidazione ma con regolari elezioni noi cittadini non possiamo fare le anime belle e prendercela con chi abbiamo votato e si è comportato nel peggiore dei modi.
Non si sfugge: o li conoscevamo e quindi siamo i loro compari o siamo caduti in buona fede nella rete delle loro promesse e, per usare un eufemismo, siamo dei creduloni. Capisco chi, per ragioni di età, si avvicina per la prima volta alla politica pieno di speranze di cambiamento e può essere ingannato dalle parole di qualche vecchio marpione. Non capisco proprio invece chi, se non per tornaconto personale o per cieca ideologia, pur avendo una lunga esperienza di elezioni locali e nazionali ancora si meraviglia e si indigna per il malaffare diffuso.
Petrolini, rivolgendosi a un loggionista che lo disturbava, disse: «Io non ce l'ho con te che mi fischi, perché tu così ci sei nato, ma con quello che ti sta vicino e non ti butta di sotto». Dovremmo ricordare questo aneddoto nella cabina elettorale e, se non vogliamo essere come il vicino connivente del loggionista, prestare particolare attenzione alle persone in carne e ossa a cui affidiamo responsabilità di governo a ogni livello. Persone che abbiano senso dello Stato e del bene comune e il cui orizzonte temporale non si limiti alle elezioni successive ma si estenda fino a quando loro non saranno più al potere.

l’Unità 8.10.12
Al servizio di una Roma nuova
di David Sassoli


A Roma serve una luce che illumini la notte. Altro che totonomine. Il dibattito politico in città è avvilente e continua a battere il tasto su alleanze o coalizioni senza contenuti. Sabato, di ritorno dall’Assemblea del Pd, sotto casa mia non c’erano clochard a frugare nei cassonetti.
Ma c’erano persone con quella dignità sfiorita dall’umiliante condizione di non poter resistere alla vergogna. I dati diffusi dalla Camera di commercio, dalla Caritas, dai sindacati, dall’Associazione costruttori sono impressionanti. Tutto sta appassendo a grande velocità e la povertà batte alla porta della maggior parte delle famiglie
della nostra città. A Roma serve un progetto di ricostruzione che coinvolga uomini e donne che non vogliono rassegnarsi a vedere i nostri ragazzi abbandonati la sera sugli scalini delle scuole chiuse, con la bottiglia di birra in mano. Conviviamo con depressione, tristezza e solitudine. E che dire delle grandi periferie, dove anche le opere realizzate di recente vanno alla malora colorando di degrado il paesaggio urbano? Serve una amministrazione con ben altre qualità da quelle espresse dalla giunta Alemanno. In tempo di crisi sono riusciti soltanto ad approvare un’ordinanza contro i panini. A Roma dev’esserci un vero cambio di passo, perché il cambiamento non è un compromesso: o lo facciamo o non lo facciamo. Cambiamento nello stile e nella sostanza. Occorre inventare nuovi processi di partecipazione per legare i cittadini a una città che tutti fanno fatica a considerare la propria città, e che tutti possono violentare e maltrattare.
Abbiamo bisogno di un’amministrazione che non consideri gli imprenditori come mucche da mungere e riesca a coinvolgere i commercianti non solo per spazzare il marciapiede adiacente, ma perché sono una grande risorsa. Dobbiamo tornare ad essere orgogliosi testimoni della solidarietà e tenaci nel promuovere lavoro e inclusione. Per aprire una fase nuova dobbiamo uscire dagli schemi in cui si consuma il dibattito politico cittadino. Ed è a questa sfida che voglio partecipare, per sostenerla o rappresentarla. Bisogna uscire dai personalismi, ma non rinunciare al coraggio di far leva sul cambiamento utilizzando tutte le risorse a disposizione. Abbiamo il dovere di essere ottimisti. Le condizioni di vita dei romani possono migliorare e la città può farcela a riprendere a respirare. Ho vissuto in questi anni molto a Bruxelles. In tutte le città europee, grandi e medie, la vita è più facile. A Roma, invece, tutto è complicato, difficile, asfissiante. Anche per pagare le multe bisogna perdere mezza giornata di lavoro. Dobbiamo importare le buone pratiche usate negli altri paesi. E mai come oggi Roma ha bisogno d’Europa per rilanciare il proprio ruolo di Capitale d’Italia. Saremo in grado di accendere quella scintilla che sola può rischiarare il buio calato sulla nostra città? Questa è la scommessa.

l’Unità 8.10.12
Zingaretti, la risposta della politica seria
Sarà finalmente una nuova Regione Lazio che avrà come faro i bisogni dei cittadini
di Goffredo Bettini


IL CAMPO DEL CENTROSINISTRA HA ASSUNTO, A ROMA E NEL LAZIO, UN’INIZIATIVA POLITICA. Rapida, coesa e per certi aspetti sorprendente. Zingaretti, il candidato naturale per il Campidoglio, è stato impegnato sul terreno melmoso delle elezioni regionali.
La mossa ha suscitato qualche sconcerto. Anche per la sintonia che via via era cresciuta tra Zingaretti e tanta parte dell’opinione pubblica, stanca fino all’inverosimile dei ripetuti fallimenti di Alemanno e della classe dirigente che si è messo attorno.
Credo, tuttavia, che ci siano state ragioni profonde e non banali a spingere (innanzitutto Gasbarra, in una fase di particolare vena politica) in questa direzione.
Alla Regione, infatti, si è aperta una voragine. Solo perché ci si è abituati a tutto, non si sono manifestati un moto di sdegno e una mobilitazione adeguati al carattere tragico e grottesco dello spettacolo che la destra ha messo in scena nei gangli di un pezzo dello Stato italiano che, per grandezza e importanza, è pari a tutto il Belgio. È esplosa un’emergenza: ad essa andava data una risposta alta e politica. Non tecnica o trasversale o genericamente civica. Politica. La qualità di questa risposta, non solo illuminerà anche la successiva contesa su Roma, ma influenzerà in modo decisivo l’indirizzo della politica nazionale dei prossimi mesi. Ci dirà se è possibile o no che, alla crisi, sia la buona politica e le sue ragioni ad avere la meglio, o se il campo è ormai irrimediabilmente occupato, nel migliore dei casi dai tecnici, o nel peggiore dagli umori demagogici dei vari populismi di destra o di sinistra. Ecco perché Zingaretti lì.
E poi alla Regione non si tratta solo di vincere. Si tratta di aprire una fase costituente di un ente che ha perso la sua identità e la sua funzione. La destra ha lucrato indecentemente dentro la trasformazione della Regione da soggetto legislativo e di indirizzo a baraccone di una spesa incontrollata, gestita da uno sciame di enti e sottoenti. L’obiettivo di ricostruire è davvero arduo. Va oltre il far necessariamente piazza pulita. Anche per questo si capisce perché Zingaretti.
Infine: la Capitale ha un valore politico e simbolico senza pari. Ho dedicato parte fondamentale della mia vita politica a questa città. Tanto che, certe volte, l’arredo di una piazza o la realizzazione di un’opera pubblica ha riempito i miei pensieri più dell’anonimo, ma decisivo, scorrere di miliardi nei canali torbidi della sanità. Ma oggi questo errore davvero va evitato. Roma e il Lazio con la destra, per la prima volta, hanno dati dell’economia peggiori di quelli nazionali. Siamo vicini al collasso. Il 2013 sarà l’anno peggiore. Non parliamo di aride cifre, ma di vite umane. Il rigore è sacrosanto ma non più della domanda di che cosa vivrà la nostra comunità. Il tema, dunque, sono i tagli ma anche come e dove si deve creare ricchezza e speranza. Il bandolo di queste risposte lo avrà innanzitutto la Regione. Una nuova Regione: con i piedi piantati tra i bisogni dei cittadini e con lo sguardo rivolto alle occasioni di crescita che nascono da una vera apertura verso l’Europa e il Mediterraneo. Tutto ciò lo può tentare un bravo politico, e non un semplice candidato che vince perché le truppe colpevoli della destra sono in fuga.
Le buone ragioni che hanno spinto Zingaretti alla Regione non risolvono la questione aperta a Roma. Proprio perché non c’è stato nessuno scambio, ma un atto generoso dettato dall’urgenza politica. Il centrosinistra a Roma ha consolidato un ampio vantaggio. Per la saggezza prevalsa nei partiti e per il marasma dell’attuale governo in Campidoglio. È buffo che Alemanno oggi parli di una sorta di abbandono del campo da parte di Zingaretti che va in trincea alla Regione e chiede il voto subito. Mentre lui tenta di scappare dal voto che vuole rimandare e afferma candidamente che non vuole il simbolo del Pdl perché immagino lo consideri, non a torto, impresentabile.
Il centrosinistra ha tanti possibili candidati e talenti. Ma non serve alcun Caminetto che scelga quello giusto. Lo faranno i cittadini con le primarie. Quando non ci siamo rivolti ad essi abbiamo avuto brutte sorprese. Quando lo abbiamo fatto, ed è prevalsa in noi la fiducia nella gente, si sono affermate personalità libere, nuove e vincenti. Così sarà per Roma. Città che non ne può più delle nebbie apparatizie e dei palazzi, e che è desiderosa di una buona politica pulita e trasparente.

il Fatto on line 7.10.12
Violenza sulle donne, uccisa dal marito. Enrica, la 98esima vittima da inizio anno
Telefono Rosa denuncia un'escalation inarrestabile: "la paura di raccontare deriva da una situazione di sudditanza. Fisica e psicologica, ma anche finanziaria". Dall'inizio dell'anno la media è stata di un omicidio ogni due giorni

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Corriere 8.10.12
Il Papa e il matrimonio «È in crisi come la fede»
La «femminista» Ildegarda proclamata dottore della Chiesa
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Oggi «c'è un'evidente corrispondenza tra la crisi della fede e la crisi del matrimonio» perché «il matrimonio è legato alla fede, non in senso generico. Il matrimonio, come unione d'amore fedele e indissolubile, si fonda sulla grazia che viene dal Dio Uno e Trino».
Commentando il Vangelo — nell'omelia della Messa solenne celebrata in Piazza San Pietro per l'apertura del Sinodo sulla nuova evangelizzazione, e a pochi giorni dall'inaugurazione dell'Anno della fede indetto a 50 anni dal Concilio Vaticano II — Benedetto XVI ha voluto rimarcare che il matrimonio tra un uomo e una donna con la sua indissolubilità è un concetto direttamente «legato alla fede». E che proprio per la scristianizzazione della società, esso vive oggi una «crisi profonda». «Il matrimonio, costituisce in se stesso un Vangelo, una Buona Notizia per il mondo di oggi, in particolare per il mondo scristianizzato», ha detto il Papa durante il rito concelebrato con oltre 400 tra padri sinodali, loro collaboratori e altri vescovi. L'unione dell'uomo e della donna, il loro diventare «un'unica carne nella carità, nell'amore fecondo e indissolubile, è segno che parla di Dio con forza, con una eloquenza che ai nostri giorni è diventata maggiore, perché purtroppo, per diverse cause, il matrimonio, proprio nelle regioni di antica evangelizzazione, sta attraversando una crisi profonda». Per Ratzinger, «oggi siamo in grado di cogliere tutta la verità di questa affermazione, per contrasto con la dolorosa realtà di tanti matrimoni che purtroppo finiscono male».
Il Papa prima della messa ha proclamato due nuovi «dottori della Chiesa» (sono adesso in tutto solo 35, di cui 4 donne): lo spagnolo San Giovanni d'Avila (1499-1569) e la benedettina tedesca Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179). Una scelta quest'ultima che sembra essere particolarmente consonante con l'apertura del Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Dotata di un'intelligenza vivissima, Ildegarda riuscì a ribaltare il concetto di monachesimo, preferendo una vita di predicazione aperta verso l'esterno a quella più tradizionalmente claustrale, pur avendo fatto esperienza fin da bambina di contemplazioni mistiche. Non ebbe infatti timore ad uscire dal convento per conferire con vescovi e abati, nobili e principi. Compì quattro viaggi pastorali predicando nelle cattedrali di Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz e Werden. In contatto epistolare con Bernardo di Chiaravalle, sfidò con parole durissime l'imperatore Federico Barbarossa, prima suo protettore, che aveva opposto due antipapi ad Alessandro III. Quando ormai era ritenuta un'autorità all'interno della Chiesa, papa Eugenio III, nel 1147, lesse alcuni dei suoi scritti durante il Sinodo di Treviri. Esperta di scienze naturali, medicina e di musica, nella sua dottrina, Ildegarda, affermava «la sostanziale uguaglianza» di uomini e donne davanti a Dio rileggendo la creazione di Eva dalla costola di Adamo in riferimento al fatto che la donna venne data all'uomo come socia. Si espresse proprio così: «In consortium dilectionis, socia».

Corriere 8.10.12
«Le carte rese pubbliche per denunciare gli intrighi»


Un appello «affinché il Papa conceda la grazia al suo ex collaboratore Paolo Gabriele» e una riflessione sui motivi che hanno spinto l'ex maggiordomo a portare allo scoperto i segreti nascosti del Vaticano. A fare entrambi, appello e riflessione, è Gianluigi Nuzzi, giornalista e autore del libro Sua Santità (Chiarelettere): è a lui che Paolo Gabriele ha consegnato quelle carte riservate, sottratte dall'appartamento privato di Benedetto XVI, ed è con lui che, durante mesi di frequentazione, il «corvo» si è sfogato raccontando i perché del suo gesto. Ora Nuzzi racconta e spiega quei perché in un articolo che esce oggi in contemporanea su Le Monde e El Mundo e, in stralci, sulla Süddeutsche Zeitung. Quello di Gabriele, scrive Nuzzi, era un gesto fatto per denunciare, «per evidenziare storie opache che si sviluppano in Vaticano, nuocendo alla Chiesa stessa». C'è da chiedersi, continua il giornalista, «se il danno alla Chiesa lo cagiona Gabriele che, pur violando la fiducia del Papa, ha fatto emergere storie di interessi in Vaticano o i protagonisti di quelle vicende». Quello che emerge dalle parole di Nuzzi è il ritratto di un uomo che ha agito seguendo un fine preciso: rendere pubblici fatti che, a suo avviso, stavano minando dall'interno il Vaticano. Fatti di cui era all'oscuro lo stesso Joseph Ratzinger, descritto come «un uomo puro in mezzo ai lupi». Tra il Papa e «gli scontri, le espressioni più dure del potere» ci sarebbe una distanza siderale, un «vuoto da vertigine tra chi lavora per la trasparenza e chi coltiva interessi lontani dalle Scritture». Nuzzi, seguendo Gabriele, racconta un mondo lontano dallo spirito del primitivo cristianesimo e ricorda tre fatti emblematici: «L'allontanamento di monsignor Carlo Maria Viganò, economo della Città del Vaticano promosso a Washington dopo le denunce al Papa, il durissimo scontro con il segretario di Stato Tarcisio Bertone e il siluramento di Ettore Gotti Tedeschi dallo Ior». E poi corruzione e «interessi opachi negli appalti», casi come quello del presepe in piazza San Pietro che, ogni anno, costa 250 mila euro. Storie ancora tutte da chiarire, scrive Nuzzi, ma «che spiegano la frustrazione di un uomo solo di fronte a questi intrighi».

Corriere Economia 8.10.12
Non sarà la crisi a creare l'uguaglianza
Nell'area euro in difficoltà la recessione ha inceppato il meccanismo
E adesso i più poveri sono ancora più poveri. La stagnazione italiana
di Danilo Taino

C on le statistiche bisogna fare attenzione: vanno lette nel modo giusto. Diversamente si rischia di scivolare nel famoso caso di scuola del capo dei vigili del fuoco di Chicago: aveva notato che i danni degli incendi erano maggiori quanti più pompieri venivano inviati sul posto; dunque, decise di mandarne meno. A leggere i dati a testa in giù non sempre si fa bruciare una città, ma quasi sempre si creano guai, qualche volta anche peggiori.
Probabilmente, ad esempio, il boss dei pompieri della «seconda città» d'America darebbe un'occhiata al grafico di questa pagina e ne dedurrebbe che i Paesi europei più in crisi — quelli che un paio d'anni fa venivano chiamati volgarmente Pigs, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna — sono quelli in cui, dalla metà degli anni Ottanta alla fine del primo decennio del 2000, i redditi dei poveri sono cresciuti più dei redditi dei ricchi: ragion per cui, per non finire in crisi andrebbero affamati i poveri. Risultato: darebbe fuoco a quasi tutta l'Europa del Sud.
Lettura
In realtà, il grafico — pubblicato dalla rivista trimestrale della McKinsey su dati Ocse — è curioso ma porta a conclusioni diverse. Gli estensori hanno diviso i Paesi in due categorie: quelli (pallini rossi) in cui, sempre dalla metà degli anni Ottanta alla fine del decennio scorso, il reddito del 10% più ricco delle famiglie è cresciuto più di quello del 10% delle famiglie più povere; e quelli (pallini blu) in cui il reddito del 10% delle famiglie più povere è aumentato più di quello del 10% delle famiglie più ricche. I pallini-Paese sono poi stati collocati su un grafico, dove sull'asse delle ascisse (orizzontale) è riportata la variazione media annua dei redditi del 10% delle famiglie più povere e sull'asse delle ordinate (verticale) la variazione dei redditi delle famiglie più ricche. Il risultato visivo è spettacolare.
Innanzitutto, si nota come in 15 anni la distribuzione del reddito in quasi tutti i Paesi a capitalismo avanzato sia stata a favore dei più ricchi. Non solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, di solito considerati meno propensi a forme di egualitarismo. Anche, e in modo considerevole, in Paesi dal Welfare State estremo come la Norvegia, la Finlandia e la Svezia (nel caso svedese addirittura il 10% più ricco si è arricchito di quasi il 2,5% l'anno, mentre il decile più povero di nemmeno lo 0,5%). Poi si nota che la performance in assoluto peggiore è quella del Giappone. Il grafico cattura i due «decenni perduti» del Sol Levante e indica una sostanziale stagnazione anche in fatto di redditi e uguaglianza: dice che i più poveri sono rimasti tali ma anche che i più ricchi non si sono arricchiti granché (lo 0,25% l'anno).
Subito dopo il Giappone, il Paese a maggiore tasso di stagnazione è l'Italia, e in effetti anche per il nostro Paese c'è chi parla di «decennio perduto», quello trascorso, e di rischio simile per il prossimo. Nella Penisola, il 10% dei più ricchi ha accresciuto il reddito di poco più dell'1% all'anno, mentre i poveri dello 0,2%.
Decifrare
Francia e Belgio si collocano in una posizione moderata, nel senso che le variazioni non sono straordinarie e sono abbastanza bilanciate tra ricchi e poveri. Poi ci sono i quattro Pigs da capire. Irlanda e Spagna hanno vissuto buone parte dei 15 anni presi in considerazione in una bolla, soprattutto immobiliare, che ha fatto lievitare i redditi di tutti: dei più poveri di quasi il 4% e dei più ricchi del 2,5% (ma è chiaro che l'1% di aumento dei più ricchi è, in cifra assoluta, molto più dell'1% dei più poveri). Anche Grecia e Portogallo hanno vissuto per anni in una bolla di credito troppo facile rispetto ai fondamentali delle due economie. Da qui, probabilmente, il risultato statistico. Se per i quattro Paesi in crisi si considerasse cosa è successo negli scorsi tre anni (i dati del grafico si fermano al 2009) si noterebbe il crollo della crescita dei redditi e probabilmente anche un peggioramento del benessere del 10% più povero delle famiglie, il più colpito dagli effetti della crisi.
Il grafico racconta che negli anni precedenti la grande crisi la maggior parte dei Paesi capitalisti ha visto allargarsi la forbice tra i ricchi e i poveri. Il capo dei vigili del fuoco di Chicago penserebbe che, se proprio non vogliamo affamare i poveri, allora dobbiamo non crescere e restare sempre in crisi. Già, il mondo è pieno di boss dei pompieri.

Repubblica 8.10.12
Stop agli immondi inni del nazismo in rete
di Mario Pirani


Nella notte del 1° ottobre è morto a Roma Shlomo Venezia all’età di 89 anni. Era una figura storica. Degli ebrei tornati da Auschwitz, figurava tra i pochissimi – una diecina in tutto – sopravvissuti dopo l’ultimo, atroce soggiorno in attesa della morte in un Sonderkommando, le squadre di internati che nel lager, prima di essere uccisi a loro volta, erano obbligati alle ultime operazioni di smaltimento e cremazione dei cadaveri delle vittime dei forni. Venezia si era salvato in extremis. Su questa esperienza inumana aveva scritto un libro, ma più importante di ogni iniziativa, in cui fu coinvolto dopo la guerra con i suoi compagni, furono le testimonianze davanti ai tribunali alleati in cui essi comprovavano per visione diretta le caratteristiche delle camere a gas e le operazioni di sterminio. Per questo le celebrazioni per la sua morte, sono state particolarmente sentite dall’ebraismo romano, dall’antifascismo e dalle rappresentanze dei sopravvissuti. La cronaca non sarebbe completa, però, se lasciassimo passare sotto silenzio come i siti nazifascisti, la cui immonda propaganda , potenziata con vasta eco dal Web,( ricordata dalla nostra ultima rubrica -Linea di confine, 1°ottobre-), si siano subito fatti vivi. Ecco come si è espresso il portavoce di uno dei siti più virulenti: “Morto il falsario olo-sopravvissuto Shlomo Venezia!” In un sottofondo di musiche e canti di gioia lo speaker ha aggiunto: «Quando muore un sopravvissuto sono sempre triste: le loro comiche cazzate mi divertono molto! Comunque pare morendo abbia esalato un ultimo grugnito…». Altre emittenti hanno corredato i concerti con brani in cui gli utenti della rete , trasformati dalla recente tecnologia Web 2.0 in creatori di contenuti, hanno tratto nuova linfa da vecchie canzoni. I brani ‘caricati’ su piattaforme o forum dei simpatizzanti, vengono quasi sempre corredati da commenti di inaudita brutalità e da trasformazioni repellenti di Celentano ed altri. Qualche esempio. «Con 24.000
ebrei quanto sapone ci farai… Se ne rimane pure uno vivo ci farai pure il detersivo». Una delle band che ha dedicato un album a Zyclon B (dal nome del veleno utilizzato nelle camere a gas) contiene strofe ributtanti su Anna Frank: «Anna non c’è, è andata via/ l’hanno trovata a casa sua, / nella soffitta di Amsterdam, ora è sul treno per Buchenwald! / Un bel treno prima classe / lì nei confini del terzo Reich / e poi s’aprono le porte: / Avanti scendi adesso, che fai? / Ti chiudi dentro al cesso? No, Non puoi !/ Il capolinea è questo, non lo sai? / E segui quella fila di giudei, di giudei!».
L’antologia diffusa viaWeb è troppo disgustosa per dilungarsi con altri esempi. Piuttosto vogliamo fare il punto sulla Convenzione di Budapest, che con legge 18 marzo 2008, introduce norme internazionali sulla criminalità informatica sotto le sue varie forme e stabilisce le necessarie modifiche ai codici di procedura penale dei paesi aderenti. L’Italia ha sottoscritto la Convenzione ma non ancora ratificato le norme applicative e, soprattutto, non ha firmato il breve ma importante Protocollo aggiuntivo che inserisce fra i crimini informatici anche qualsiasi forma di antisemitismo e razzismo sotto veste Web. La discussione, tipica del formalismo giuridico italiano, si è impantanata nella inclusione o meno del negazionismo, tra i crimini perseguiti, nel timore che questo apra infiniti e devianti contenziosi sulla libertà di espressione. La discussione vede , da un lato, gli esperti del ministero della Cooperazione internazionale, Riccardi, favorevole a una condanna generalizzata e, dall’altra, i giuristi del ministero di Giustizia, pur guidato da una specchiata figura dell’antifascismo, come Paola Severino, che impersonò la parte civile contro Priebke,chesimostrano restii ad inserire il negazionismo tra i reati da condannare. Tra l’una e l’altra interpretazione ci guadagnano i nazisti, perché nel frattempo, il Protocollo aggiuntivo di Budapest, non viene ratificato dal nostro Paese.

Corriere 8.10.12
Cannoni turchi contro mortai siriani
Nuovi lampi di guerra al confine. In serata, autobomba a Damasco
di Lorenzo Cremonesi


Non è difficile cogliere i motivi dei nuovi colpi di cannoni e mortai lungo il confine tra Turchia e Siria. Da mercoledì la tensione è cresciuta quando un proiettile di mortaio proveniente dalla Siria ha ucciso 5 civili nella cittadina turca di Akcakale. Le artiglierie turche hanno risposto con gli interessi, tanto che giovedì il parlamento di Ankara a grande maggioranza ha concesso la luce verde per azioni di guerra durante i prossimi 12 mesi. E le scaramucce sono continuate per cinque giorni. Ieri ancora bombe sono scoppiate tra alcuni capannoni della compagnia pubblica del grano, non lontano dal centro di Akcakale. Le autorità locali sottolineano che questa volta non ci sono vittime semplicemente per il fatto che a misura precauzionale la zona era stata evacuata dei civili. Subito le artiglierie turche sono tornate a fare fuoco. Tutto ciò mentre non si ferma il bagno di sangue in Siria. La media quotidiana di morti è ormai attestata su quota 100. In serata un'autobomba è esplosa presso il quartier generale della polizia a Damasco, uccidendo un poliziotto. Testimoni sul posto segnalano una seconda forte esplosione e nutriti scambi d'armi leggere.
All'origine delle tensioni tra Damasco e Ankara sta la scelta delle brigate rivoluzionarie siriane di controllare in modo stabile le regioni confinarie con la Turchia. «Se l'Onu, gli Stati Uniti, la Nato e la comunità internazionale non ci aiutano a creare una zona cuscinetto a ridosso della frontiera settentrionale, allora lo faremo noi con le nostre forze e il contributo di chiunque sia pronto ad ascoltarci», spiegavano i capi delle unità ribelli incontrate alle periferie di Aleppo due mesi fa. Detto fatto. Sostenute dagli invii di armi da parte di Qatar e Arabia Saudita, e appoggiate dai volontari islamici legati ad Al Qaeda e in generale alla grande galassia della jihad internazionale, le brigate siriane stanno riuscendo a collegare tra loro i pezzi del grande mosaico di tante realtà locali auto-liberatesi negli ultimi mesi a costo di enormi sacrifici contro i lealisti di Bashar Assad. Più o meno dagli inizi di luglio hanno cominciato ad assumere via via il controllo dei valichi di confine con la Turchia. Il primo fu Bab al Hawa, non lontano dalla cittadina turca di Reyhanieh, dove sono alloggiate diverse famiglie di soldati e ufficiali del Nuovo esercito siriano libero. Poi fu la volta del passaggio di Killis, 150 chilometri più a nord. Seguirono valichi più remoti verso le zone curde, sino a un paio tra i più importanti che portano in Iraq e prossimi alle regioni dei maggiori pozzi petroliferi siriani. Di recente è scontro aperto per la conquista del valico lungo la costa. Per Assad sarebbe un colpo durissimo. Da qui in mezz'ora d'auto si arriva a Latakia, il cuore delle zone alauite e roccaforte della dittatura.
Non è dunque strano che scontri violenti tanto prossimi al confine vedano coinvolto anche il territorio turco. In teoria non è neppure da escludere che qualche proiettile sparato dalle forze ribelli vada a finire oltre confine. Sarebbe solo per errore? Il dubbio è lecito. Tutto sommato, l'intervento militare turco risulterebbe certamente a loro favore in questa fase. In ogni caso, il regime siriano si è già scusato, pure se estremamente critico dell'appoggio che Tayyip Erdogan garantisce ai ribelli. Anche il premier turco ribadisce che il suo Paese «non vuole la guerra». Ma da venerdì il suo discorso si è fatto più minaccioso. «Non intendiamo fare la guerra con la Siria, però sarebbe meglio non metterci alla prova», ha dichiarato infatti con accenti che fanno senz'altro piacere ai suoi generali. «Come dicevano i nostri padri: per avere la pace si deve sempre essere pronti alla guerra».

Corriere 8.10.12
I colpi di mortaio che avvicinano la guerra
Gli attori oscuri dietro l'apparente suicidio di Assad
di Franco Venturini


Per il quinto giorno consecutivo, ieri la Siria di Bashar al Assad ha fatto del suo meglio per suicidarsi. Non diversamente possono essere giudicati i colpi di mortaio che quotidianamente cadono in territorio turco, e ai quali le forze armate di Ankara sono costrette a rispondere con qualche colpo di cannone. Ma mentre attuano le loro limitate rappresaglie e confermano a gran voce che «non vogliono una guerra», militari e politici turchi si sforzano di capire cosa mai stia accadendo al di là del confine.
Perché allargare la guerra civile siriana alla Turchia e quindi alla Nato può essere un obbiettivo di chi vuole un intervento esterno contro Damasco, ma non può in alcun modo rientrare nelle convenienze tattiche o strategiche del regime di Bashar al Assad che di tale intervento sarebbe la vittima designata. E allora, chi e perché spara dalla Siria contro la Turchia?
In via del tutto ufficiosa gli stessi analisti di Ankara fanno due diverse ipotesi. La prima è che i colpi di mortaio siano volontariamente indirizzati contro le zone di frontiera turche dai comandanti dei reparti regolari che combattono i ribelli appena al di là del confine. E questo per un motivo: oltre ad ospitare quasi centomila profughi siriani, i turchi danno appoggio e protezione sul proprio territorio anche a piccoli reparti dell'Esercito libero siriano, il cui quartier generale, fino a dieci giorni fa, si trovava appunto in Turchia. Dunque i soldati siriani, magari impegnati contro avversari che poi si dileguano oltre confine, usano le armi che hanno senza porsi troppi interrogativi. Ricostruzione credibile, che tuttavia comporterebbe un risvolto devastante per Assad laddove risulterebbe che i suoi ufficiali sul terreno non obbediscono agli ordini o alle «inchieste» di Damasco.
La seconda ipotesi è quella della provocazione volta ad allargare il conflitto, chiunque (per esempio infiltrati dell'Esercito libero, o jihadisti) ne sia l'autore. Le autorità turche, che temono di essere strumentalizzate, hanno risposto ai colpi di mortaio provenienti dalla Siria con esemplare equilibrio. Si sono fatte autorizzare dal Parlamento a reagire secondo le circostanze. Hanno preso atto della forte contrarietà popolare a una guerra con Damasco, e anche per questo hanno ripetutamente assicurato, ancora ieri, che Ankara non vuole uno scontro con la Siria. Hanno bussato sì alla porta della Nato ma invocando il consultivo articolo 4 (come era già accaduto in occasione dell'abbattimento di un loro cacciabombardiere) anziché l'obbligo di assistenza militare da parte degli alleati contenuto nell'articolo 5 del Trattato atlantico. Hanno risposto ai colpi siriani in modo più che altro dimostrativo.
Ma se i proiettili continueranno a volare sul confine turco-siriano, questa situazione non potrà durare a lungo. E le due ipotesi, quella degli ufficiali fuori controllo e l'altra della provocazione incendiaria, alla fine porteranno allo stesso risultato.
Cosa potrebbe fare la Turchia, infatti, se i colpi di mortaio provenienti dalla Siria continuassero e si moltiplicassero? Come potrebbe reagire Erdogan, e come reagirebbe la sua opinione pubblica, se un ordigno siriano facesse per esempio strage in una scuola, o in un ospedale? Non basterebbero più le rappresaglie soft a suon di colpi di cannone non si sa quanto mirati. E forse non è un caso che proprio ieri carri armati e sistemi di missili anti-aerei siano stati portati alla chetichella in prossimità del confine con la Siria, mentre le basi aeree sono in allarme permanente.
Che si tratti delle ricadute più o meno involontarie di una atroce guerra civile oppure del calcolo di provocatori professionisti (che magari gradirebbero anche mettere con le spalle al muro un Barack Obama dilaniato tra le elezioni in arrivo e l'impossibilità di restare con le mani in mano), i colpi di mortaio siriani rischiano di allargare in modo irreversibile un conflitto che da sempre è parso assai difficile da circoscrivere. E la comunità internazionale, priva di una intesa negoziata che le consenta di intervenire unitariamente (a poco servono gli sforzi di catechizzare gli altri, quando questi sono i russi) potrebbe trovarsi ancora una volta a fare da spettatore.

Corriere 8.10.12
Anna Politkovskaja e gli altri trecento Quanto costa la libertà in Russia
di Ludmila Ulitskaya


Prima di Eltsin in Russia — in Unione Sovietica — non c'erano mai stati omicidi politici di giornalisti. Perché non c'era libertà di parola. Paradossalmente, gli omicidi di giornalisti sono cominciati nell'era eltsiniana, che — comunque si consideri questo semi-riformatore — ha dato alla Russia la libertà di parola. Una libertà enorme, che il Paese non aveva mai conosciuto. La censura in Russia è stata abolita. Ed è difficile dire quando fosse nata. In ogni caso, il primo testo antico-russo che comprende un indice dei libri proibiti fu scritto nel 1079. Quasi mille anni fa. La censura nel nostro Paese è quasi più antica dello Stato stesso. E tutt'a un tratto, dopo dieci secoli di controlli e divieti, dopo la censura religiosa e laica, imperiale e burocratica, dopo la crudele censura sovietica, ecco che nel 1991 la libertà di stampa è piovuta quasi dal cielo. Bisogna riconoscere che nell'ambito della creazione letteraria la fine della censura non ha avuto conseguenze particolarmente evidenti. E si capisce: la libertà interiore dello scrittore non dipende dall'autorizzazione dei potenti. In compenso nel giornalismo, nel campo dell'informazione di massa ci fu una rivoluzione. I giornali e le riviste divennero talmente interessanti che in quei primi anni Novanta la gente quasi smise di leggere libri.
La parola lasciata in libertà divenne un'arma a doppio taglio: le indagini giornalistiche rivelavano casi di corruzione, minacciavano i leader politici, scoprivano piccoli e grandi «bubboni» del nuovo potere che si andava affermando. Quanto più alto era il livello professionale raggiunto dai giovani giornalisti, tanto più rischiosa diventava la loro posizione. L'epoca degli assassinii politici di giornalisti ebbe inizio già nel 1993, e oggi la Russia è al terzo posto nel mondo per numero di giornalisti uccisi, dopo l'Iraq e l'Algeria.
La carriera giornalistica di Anna Politkovskaja cominciò proprio negli anni in cui si definiva la nuova contrapposizione fra i giornalisti e un potere che non aveva imparato a dialogare civilmente con i suoi oppositori. Anna Politkovskaja reagiva con passione e perfino con furia quando si scontrava con la corruzione, la menzogna e i crimini dei potenti. Fu la prima giornalista a dare un ritratto politico di Putin: un ritratto non certo lusinghiero. La pubblicazione in Gran Bretagna e successivamente in altri Paesi del suo libro La Russia di Putin segnò una nuova fase dei suoi rapporti con il potere.
Anna difendeva con coerenza le sue posizioni, e le sue qualità umane erano il senso di giustizia e la disponibilità ad andare fino al limite, fino alla porta chiusa, fino al muro di cemento. Non era una persona malleabile, ed era impossibile mettersi d'accordo con lei: non accettava alcun compromesso. Il suo era una sorta di massimalismo giovanile, unito a un alto senso della propria dignità. Proprio su questo terreno si era sviluppata la sua attività in difesa dei diritti civili. Ogni volta che si scontrava con l'ingiustizia e la crudeltà, si sentiva offesa personalmente e si gettava nella lotta. Sempre impari.
Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, sei anni fa. È passato quasi un anno, prima che fossero arrestati dei ragazzi ceceni sospettati dell'omicidio, i fratelli Makhmudov e alcuni complici. Nell'autunno del 2008 è cominciato il processo. Nel febbraio 2009 i giurati hanno assolto gli imputati per insufficienza di prove, ma quattro mesi dopo la Corte suprema ha annullato la sentenza, riaprendo il caso. Nella primavera del 2011 è stato arrestato il presunto assassino, Rustam Makhmudov. Nell'agosto del 2011 è stato arrestato l'ex tenente colonnello della polizia Dmitrij Pavljuchenkov, che era già stato testimone al processo. In ottobre sono state notificate accuse ai presunti organizzatori dell'omicidio di Anna Politkovskaja, il boss criminale ceceno Lom-Ali Gajtukaev e l'ex agente dell'UBOP (Direzione lotta alla criminalità organizzata) di Mosca, Sergej Khadzhikurbanov. Come sempre nel caso di indagini così lunghe, nasce il sospetto che l'inchiesta sia «frenata» dall'alto. Nondimeno, qualcosa si sta chiarendo: si conosce il nome dell'assassino, si conosce la catena degli organizzatori. Pavljuchenkov si è riconosciuto colpevole di aver organizzato l'omicidio, ora promette di collaborare alle indagini. Ci sarà un nuovo processo. Ma non c'è più la giornalista Anna Politkovskaja, che avrebbe saputo denunciare con sdegno chi conduce questo processo annoso, lento e sospetto, e avrebbe fatto il nome del principale mandante di questo omicidio. Ma Anna non c'è, e senza di lei è impossibile sbrogliare la matassa...
Per ora non è stato individuato un mandante. Ma ci sono tante versioni.
1. Le tracce dei mandanti vanno cercate in Occidente. I mandanti si nascondono all'interno dei servizi segreti americani, e l'omicidio è stato compiuto per gettare ombra sulla figura di Putin.
2. Una pista porta all'oligarca in disgrazia Boris Berezovskij, che vuole seminare la discordia fra Putin e il popolo.
3. È possibile che a Berezovskij si sia unito Ahmet Zakaev, nel tentativo di guastare i rapporti fra Putin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
4. Il responsabile è lo stesso Ramzan Kadyrov, più volte denunciato negli scritti di Anna Politkovskaja.
5. Secondo un'altra versione, mandanti dell'omicidio furono i dirigenti dell'operazione per la liberazione degli ostaggi al teatro Dubrovka, accusati da Anna Politkovskaja per l'uso del gas nervino che portò alla morte di oltre centoventi persone.
Può bastare?
Non mancano neppure le supposizioni piccanti e i dettagli sensazionali:
1. Agli esecutori furono pagati 2 milioni di dollari. Vero è che nessuno li ha visti.
2. Sulla pistola con cui fu uccisa Anna sono state scoperte tracce del Dna di una donna. Da ulteriori indagini è però emerso che si trattava delle tracce di uno starnuto.
3. Si suppone che l'omicidio di Anna Politkovskaja fosse stato fissato per il 7 ottobre — come regalo di compleanno per Vladimir Putin.
Voci insistenti affermano che il caso sia oggi a una svolta. Temo si tratti di un'illusione. Queste indagini interminabili dimostrano in modo eloquente che la libertà di parola è morta e sepolta, che stiamo tornando a quei tempi tristi in cui la parola libera poteva esistere solo nella clandestinità, nel sottosuolo. E il sottosuolo oggi ha cambiato indirizzo: si chiama Internet.
Sono passati sei anni dal giorno della morte di Anna Politkovskaja: a lei vengono intitolate vie e piazze in molti Paesi — ma non nel suo. Anna ha speso la sua vita per difendere la libertà di parola e la giustizia. Sulla tomba della parola libera si potrà innalzare un monumento con i nomi di quanti per essa hanno pagato con la vita. In Russia dall'inizio degli anni Novanta sono stati uccisi più di trecento giornalisti. Un caro prezzo. Cari giornalisti. In questo elenco Anna Politkovskaja è una delle figure più coraggiose e di maggior talento.
(Traduzione di Emanuela Guercetti)

Corriere Economia 8.10.12
Cina-Giappone: le isole contese affondano l'auto
di Giacomo Ferrari

Quest'anno la festa nazionale per l'anniversario (numero 56) della fondazione della Repubblica popolare cinese è arrivata a proposito. Le autorità di Pechino hanno proclamato, come ogni anno, un'intera settimana di vacanza e le case automobilistiche giapponesi ne hanno approfittato per sospendere la produzione nei loro stabilimenti cinesi.
La contesa tra Tokyo e Pechino relativa alla sovranità sulle isole dell'arcipelago di Senkaku (Mare cinese meridionale) ha infatti fatto crollare le vendite di vetture made in Japan. Oggi, lunedì 8 ottobre, la tregua finisce. Le fabbriche riaprono, ma il problema non è certo superato.
«In effetti — spiega Kenichi Ayukawa, direttore marketing globale di Suzuki, in questi giorni a Parigi per il salone dell'auto — la controversia politica in atto ha provocato un improvviso raffreddamento del pubblico cinese nei confronti di tutti i marchi giapponesi». Aggiunge Andy Palmer, responsabile pianificazione prodotti di Nissan: «L'impatto della crisi non è ancora del tutto quantificato, soprattutto per quanto riguarda la situazione dei fornitori locali». Ma intanto, mentre Honda si è finora limitata a una chiusura di pochi giorni «per ragioni di sicurezza», Toyota (che lo scorso anno ha venduto in Cina circa 800 mila autoveicoli) ha già annunciato una riduzione della produzione destinata al mercato cinese. Quanto a Nissan, valuterà la situazione a partire da oggi. «Alla riapertura — precisa Palmer — decideremo. Certo, per noi la Cina è un mercato molto importante: lo scorso anno in questo Paese abbiamo venduto 1 milione e 250 mila vetture, con una crescita del 22% rispetto al 2010».
Più diplomatico Ayukawa. «Oggi — dice — la nostra quota è del 2-3%, ma su un mercato che vale tra 60 e 70 milioni di automobili. In quest'area vogliamo crescere a ritmi sostenuti». Conflitto politico permettendo. «Nessuno può dire quanto tempo durerà questa situazione — conclude il top manager di Suzuki — ma sono convinto che prima o poi sarà trovata una soluzione diplomatica alla vertenza». L'ottimismo è di rigore, ma la piega che hanno preso gli avvenimenti impone di affrontare il problema con realismo. La Nissan, per esempio, sta già accelerando alla ricerca di nuovi sbocchi. «Guardiamo anche agli altri mercati in crescita — conferma Palmer —. Non solo a Russia, India e Brasile, ma per esempio all'Indonesia».

La Stampa 8.10.12
Volevamo essere come Igor Man
Un ricordo del grande inviato che nasceva 90 anni fa
In un libro una raccolta di reportage, interviste e ritratti
di Marcello Sorgi


Igor Man era nato il 9 ottobre 1922 a Cibali (Catania), figlio dello scrittore Titomanlio Manzella e di una nobile russa esule in Italia. È morto a Roma il 16 dicembre 2009. Qui sotto è con Che Guevara durante la celebre intervista che gli fece nel gennaio del 1961; in basso è con Gheddafi, nel 1986, sotto la tenda del leader libico
«Y es, I know, listen my friend... »: dal suo gabbiotto in redazione, la voce arrivava tonante. Igor parlava insieme arabo e inglese. Aveva l’accento un po’ yankee di tanti della sua generazione a cui era capitato di conoscere gli americani durante la guerra. In quella calda primavera del 1986, nei giorni dell’attacco Usa a Tripoli alla casa di Gheddafi e dei due missili lanciati dal colonnello su Lampedusa, era uno spettacolo vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.
Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito non si sa come a far stampare sui suoi documenti. Aveva un metabolismo mediterraneo, gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa. Personaggio da film, era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata. In Vietnam mentre la moglie adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio Federico: il telegramma per avvertirlo della nascita lo raggiunse quando il bambino era già tornato a casa. E poi in Cile, a Cuba, a Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea.
Allora le missioni duravano mesi, l’informazione tv quasi non esisteva, gli articoli si mandavano col telegrafo o dettandoli a un dimafonista, e cominciavano con il fatidico distico «dal nostro inviato speciale ». In quell’aggettivo c’era un che di avventura, di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all’ultimo dei cronisti di essere, di diventare chissà, un giorno, come il leggendario Igor Man.
A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava orgoglioso il lungo medagliere di foto con i suoi intervistati. Accanto a Che Guevara, ad Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato - raro privilegio -, a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il tè bolliva lento tutto il giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi con cura dappertutto.
Con molti anni di anticipo sul 2001 dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, che doveva cambiare per sempre la convivenza mondiale, Man aveva capito quel che dalla sponda orientale a noi più vicina la polveriera islamica stava incubando, dentro e attorno a un Occidente del tutto impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del ’91 in cui l’Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano Cocciolone. Ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo, e coltivava l’illusione di una crisi reversibile, e non di una rottura ideologico-religiosa che avrebbe segnato il secolo successivo dal suo inizio. Per questo, Man scelse di raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni sulla Stampa. E ogni articolo si chiudeva con una «sura», una massima del Corano lasciata lì, in conclusione, per far riflettere. a contenere la gente. «Il mondo non aveva mai visto uno spettacolo simile», scriverà domani il New York Times, usando la stessa frase con cui, 1° febbraio del 1979, Bahaman 1357, commentò quella corale isteria gioiosa.
Ore 6,30. Sorvoliamo in elicottero la Mosala, vasto spazio aperto a Nord della città vecchia, luogo deputato della preghiera popolare. Il cielo del primo mattino asiatico ha colore di perla; a terra, nel dissolversi delle foschie residue, si rivela qualcosa che sembra una macchia di catrame, irregolare, immensa, sono un milione di persone, tutte nerovestite che si accalcano intorno a una impalcatura alta dieci metri, al cui sommo è un parallelepipedo di cristallo. È l’urna che raccoglie il cadavere di Khomeini. [... ]

Corriere 8.10.12
Il saccheggio continuo del predatore di libri
di Gian Antonio Stella


Ogni volta che torna dai giudici per un nuovo interrogatorio il dottor (falso) professor (falso) principe (falso) Marino Massimo De Caro, messo a dirigere la biblioteca dei Girolamini, racconta di un nuovo saccheggio di libri in giro per l’Italia. Siamo a quattromila, finora. Il più grande sacco planetario degli ultimi decenni.
I 4.000 volumi trafugati dal delegato del ministero

«Mi sono ricordato un altro furto». Ogni volta che torna dai giudici per un nuovo interrogatorio il dottor (falso) professor (falso) principe (falso) Marino Massimo De Caro messo dal ministero a dirigere la biblioteca dei Girolamini, racconta di altri libri saccheggiati in giro per l'Italia. Siamo a quattromila, finora. Tra cui le uniche copie di un testo rarissimo di Galilei sostituite con dei falsi. Il più grande sacco planetario degli ultimi decenni. Che la dice lunga su come «conserviamo» il nostro patrimonio.
Ricordate? Tutto iniziò quando lo storico dell'arte Tomaso Montanari raccontò su il Fatto di avere trovato la ricca biblioteca napoletana della chiesa dei Girolamini, quella di Giambattista Vico, in un caos indescrivibile e di aver sentito voci di «auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili». Seguivano i dubbi sul direttore nominato dal ministero dei Beni culturali, del quale Ferruccio Sansa e Claudio Gatti raccontavano ne Il sottobosco alcune storie stupefacenti. Dai rapporti con oscuri oligarchi russi ai precedenti specifici nel settore del libro antico come la relazione con la libreria antiquaria di Buenos Aires «Imago Mundi» di Daniel Guido Pastore, coinvolto in una inchiesta su una serie di furti alla Biblioteca Nazionale di Madrid e a quella di Saragozza.
Via via, su Marino Massimo De Caro, venne fuori di tutto. Che non era affatto laureato a Siena, che non era affatto principe di Lampedusa, che non aveva affatto insegnato all'Università di Verona… Tutto falso. E spacciato per vero grazie allo spazio che si era ricavato nel retrobottega della politica, come l'Associazione nazionale «Il Buongoverno» che aveva come presidente nazionale onorario Marcello Dell'Utri, segretario il senatore Salvatore Piscitelli e «segretario organizzativo nazionale il professor Marino Massimo De Caro».
Sulle prime, lui cominciò a bombardare di telefonate un po' tutti, a partire dal Corriere che aveva smascherato le bugie della laurea e della docenza: «Ma no, c'è un equivoco, quando mai…». Poi saltarono fuori i primi libri rubati e ammucchiati in giro per vari depositi. Finché il procuratore aggiunto napoletano Giovanni Melillo non gli fece mettere finalmente le manette. Dando il via a una catena di arresti saliti negli ultimi giorni a una dozzina.
Giancarlo Galan, che come sarebbe emerso aveva ricevuto lui pure in regalo un libro antico, sulla caccia, rubato ai Girolamini (a sua insaputa, ovvio…), si precipitò a spiegare al Corriere del Veneto che sì, era vero che quel predone l'aveva introdotto lui come consulente ministeriale prima all'Agricoltura e poi ai Beni culturali ma perché non poteva dire di no: «Me lo aveva presentato un uomo al quale devo tutto: Marcello Dell'Utri». Confidò: «Ammetto le mie colpe. Al suo curriculum non ho dato grande peso». Cioè? «Non ho verificato quanto c'era scritto. Non so se avesse i titoli per quell'incarico». E aggiunse: «Di libri sinceramente non ne capisco niente. E poi lui nel suo curriculum aveva scritto che insegnava a dei master a Buenos Aires e a Verona...»
Che Marcello Dell'Utri ami i libri antichi è noto. Un giorno spiegò a Lo Specchio perché avesse messo insieme una biblioteca eccezionale: «Il rapporto con libri comprende tutti i sensi. Dall'odore si può riconoscere pure il secolo di un libro, basta pensare alla spugna, alla cera che si passa, all'odore della polvere che si crea. E poi la vista: i dorsi con le incisioni in oro, i fregi particolari, la vista d'una biblioteca antica: come trovarsi di fronte a un monumento. Il tatto: la pergamena, il marocchino, il vitellino inglese, la carta vellutata, filigranata, giapponese...».
Fatto sta che, secondo la magistratura che lo ha invitato a comparire, non riconobbe l'odore di tre pezzi rubati dal suo raccomandato ai Girolamini. Per l'esattezza una edizione preziosissima del Momo, o del principe di Leon Battista Alberti, un'altra del De rebus gestis del Vico e infine una rarissima «legatura» di Demetrio Canevari. Un capolavoro che non dice molto a chi non ci capisce ma sul mercato mondiale vale una fortuna.
Eppure non sono quelli finiti nelle mani del senatore berlusconiano, che avrebbe manifestato l'intenzione di restituirli, i pezzi più pregiati. Su tutti i libri razziati dalla volpe messa a guardia del pollaio spiccano per il valore storico e commerciale, due edizioni originali di un libro di Galileo Galilei, Le operazioni del compasso geometrico e militare edito a Padova nel 1606 e dedicato a Cosimo II. Ce n'erano due sole copie, in Italia. Una nella biblioteca dell'Università di Padova, l'altra in quella dell'Abbazia di Monte Cassino. Le ha rubate tutte e due. Sostituendole, dice, con due copie costruite da un abilissimo falsario.
Il rettore padovano Giuseppe Zaccaria, saputa la notizia, è rimasto di sasso. Possibile? Il fatto è che, se non lo avesse raccontato lo stesso Marino Massimo De Caro nel disperato tentativo di collaborare con Melillo e con i sostituti Michele Fini, Antonella Serio e Ilaria Sasso del Verme, non se ne sarebbe mai saputo nulla. Su un terzo libro di Galilei fatto sparire la magistratura ha già comunque controllato. Dice una relazione alla Procura di Maria Rosaria Grizzuti: «L'esemplare del Sidereus Nuncius di Galilei presente presso la Biblioteca nazionale di Napoli altro non è effettivamente che un fac-simile sostituito all'originale».
Come diavolo faceva, quel ladrone paragonabile solo a Guglielmo Bruto Icilio Timoleone conte Libri-Carucci della Sommaia, forse il più grande saccheggiatore di libri della storia, a rubare pezzi di quel livello? Stando ai giudici, che si chiedono perché l'ispezione ai Girolamini disposta già a febbraio fosse stata insabbiata, De Caro arrivava qua e là preceduto spesso dalla telefonata di raccomandazione di Maurizio Fallace, che al ministero guidava la Direzione generale per le biblioteche. I responsabili di queste biblioteche, tutti con l'acqua alla gola per i tagli radicali alla cultura e desiderosi di parlare finalmente con un inviato del ministro, gli spalancavano le porte. Lui scendeva dall'auto blu e si faceva mostrare i pezzi migliori. Poi, in un momento di distrazione…
I libri fatti sparire, per quanto se ne sa oggi, sarebbero almeno quattromila. Le biblioteche «visitate» moltissime. I soldi incassati dal ladro con tesserino ministeriale una enormità: per il solo anticipo sulla vendita di 450 volumi («c'erano degli erbari, c'erano libri di zoologia, c'erano libri di fisica, c'era il primo libro sull'agopuntura cinese, il primo libro sulla pazzia scritto nel Settecento…») De Caro incassò un milione. Se una parte di quei libri possono essere recuperati, però, appare sempre più sconvolgente il danno fatto, con la complicità di padre Sandro Marsano, l'ex conservatore, alla biblioteca dei Girolamini. Per fare sparire i pezzi più pregiati, circa centomila volumi sono stati spostati e gli antichi cataloghi manomessi, tagliati e raschiati per cancellar le tracce. Una devastazione forse irrimediabile. Il tutto grazie all'«errore» di qualche politico che pensa di poter scegliere gli «esperti» così… Ditecelo: quanti altri Marino Massimo De Caro ci sono in giro?

Corriere 8.10.12
«Resuscitato» con 45 minuti di massaggio cardiaco
di Rinaldo Frignani


ROMA — «Uno, due, tre, quattro». Il medico spinge con decisione le mani sull'addome del ragazzo steso sotto di lui al centro del vagone. «Cinque, sei, sette, otto». Le spinte non si fermano. Il ritmo è regolare, gli ordini perentori, ma quel corpo inanimato sobbalza e basta. Il volto del giovane è pallido, le labbra viola, gli occhi girati all'insù. Il cuore non batte. E sul Roma-Ciampino delle 16 tutti trattengono il fiato alla vista di quel ragazzo immobile fra i sedili, sul quale si affannano senza sosta un medico e due infermieri. «Morto, per noi era morto di sicuro», racconteranno poi i passeggeri ancora sotto choc. Ma per quell'equipaggio dell'ambulanza del 118, chiamata dal macchinista con il treno fermo alla stazione di Ciampino, bisognava lottare ancora. Cercare un flebile segnale.
Massaggio cardiaco e defibrillatore, insegnano ai corsi di pronto soccorso. A volte basta, a volte no. Ma l'importante è non mollare mai. E ieri pomeriggio alla fine quel segnale è arrivato. Quasi impercettibile, ma presente. La «resurrezione» di Luigi B., 26 anni, studente di Ciampino, è cominciata così. Come la sua vita. Dato per spacciato, ma salvato in extremis con un massaggio cardiaco di 45 minuti: 20 sul treno e sull'ambulanza parcheggiata in piazzale Kennedy, davanti alla stazione, e altri 25 al Policlinico di Tor Vergata dove il ventenne è arrivato con evidenti segnali di ripresa. E una pressione arteriosa di 110-60. Quasi normale visto quello che aveva appena passato.
Ora Luigi è ricoverato in terapia intensiva sotto stretta osservazione. Al suo capezzale sono accorsi i parenti ai quali i medici hanno spiegato il «miracolo» accaduto sul treno fermo al binario 7. «Il massaggio cardiaco prolungato almeno per 35 minuti, come previsto dalle linee guida, ha permesso di recuperare il battito del cuore del giovane — spiega il professor Antonio Rebuzzi, cardiologo dell'Università Cattolica —. Con un arresto cardiaco reale e prolungato non è possibile un recupero: probabilmente si è trattato di un forte rallentamento del battito oppure di una tachicardia ventricolare, o comunque un'aritmia che ha permesso che un minimo di sangue sia arrivato al cervello per tenerlo in vita». O di un miracolo, puro e semplice, fatto da angeli con il giubbotto arancione.

Corriere 8.10.12
Una fascia da samurai per «vedere» con la pelle
di Mario Pappagallo


Raoul Fuentes Miyari è un giovane pianista cubano che vive a Madrid. Non vede dalla nascita. Così come tanti artisti del suono, più o meno famosi. Una rock star giapponese, una soprano dagli occhi a mandorla, una giovanissima pianista australiana. Sensibilità diversa, da non vedenti abituati ad orientarsi con gli altri quattro sensi. Sempre accompagnati da qualcuno, umano o a quattro zampe, che eviti loro spiacevoli incidenti da affollamento di impulsi.
Ebbene, da qualche tempo possono anche muoversi senza angelo custode. Fanno parte di un progetto che permette loro di «toccare» le immagini. O se si vuole, come dice Raoul al Corriere della Sera, «sentirle sulla pelle». Quella della fronte. Il progetto sviluppato nell'università di Tokio è partito dieci anni fa. Ed ora Yonezo Kanno, ingegnere, ex Ibm, e i maghi dei microchip, Hideaki Sawanobori e Hiroyuki Kajimoto, hanno dato vita al «terzo occhio» frontale, Auxdeco, e alla Eyeplusplus Inc, l'azienda che lo produce. Una fascia, tipo quella dei samurai, che si pone sulla fronte. Al suo interno, a contatto con la pelle, 512 microchip. Una web camera, sulla fascia, raccoglie le immagini che i microchip poi traducono in impulsi puntiformi. Impulsi che arrivano al cervello non utilizzando la via nervosa della vista, ma quella del tatto. I polpastrelli delle dita hanno più sensori tattili (uno ogni 0.2 millimetri) di tutte le altre zone del corpo, ma subito dopo c'è la pelle della fronte (uno ogni 2-3 millimetri). E come le dita «leggono» i punti della scrittura braille, così la fronte «legge» le immagini trasformate in puntini. Per ora in bianco e nero. Il tutto è alimentato da una batteria di mezzo chilo che si porta a tracolla.
Non c'è nulla di invasivo, come i chip impiantati nel cervello per gli sperimentali occhi bionici americani o inglesi. Nessun intervento chirurgico. Le immagini date dai tg nipponici sono sorprendenti. Non vedenti dalla nascita camminano da soli, «vedono» strisce pedonali e ostacoli (solo i colori del semaforo sono un problema ma distinguono la diversa intensità del colore che si accende), «sentono» i contorni di persone ed oggetti, «guardano» ciò che mangiano e bevono... Quadri ambientali in bianco e nero, che migliorano nei particolari con il tempo: quando il cervello comincia a memorizzare ciò che non ha mai visto. Più rapido l'addestramento in chi ha perso l'uso della vista dopo averne potuto godere. In questo caso la memoria aiuta a codificare prima il tatto in immagini.
Auxdeco è sbarcato in Italia ad Isernia, con testimonial ed inventori. Marco Condidorio, presidente regionale dell'Unione ciechi, lo sperimenta: esce dall'auditorium da solo tra la calca dei curiosi. Applausi e lacrime. Ed Isernia per due giorni è patria del «terzo occhio». Come mai Isernia? Perché è lì, nel cuore del Molise che ha sede Ams, la società che importerà Auxdeco come Eyeplusplus Europe. L'avvocato di diritto internazionale Mauro Gagliardi e il professor Bruno Falasca sono i «padroni di casa». Da novembre la fascia della vista sarà in vendita anche in Europa: già 50 mila le ordinazioni. In Giappone costa 12 mila dollari. Pronta la nuova versione con 1.024 (il doppio degli attuali) microchip.
Unico problema: non si può tenere sulla fronte per più di 2 ore di seguito, va cambiata una pellicola di gel che serve da facilitatore della conduzione di impulsi. Poi si riposiziona e si torna a vedere.

Corriere 8.10.12
Topi
Perché li odiamo e amiamo?
di Silvia Vegetti Finzi


Il fumetto più amato dai bambini di tutto il mondo è senz'altro Topolino, l'animale più detestato dagli adulti, insieme al serpente, è indubbiamente il topo. Come si spiega questa contraddizione? Con l'ambivalenza dei simboli inconsci, con la loro capacità di rappresentare opposte tendenze della nostra psiche. Il topo domestico è piccolo, morbido, rapido e furbo come un bambino. Come i bambini è perseguitato da qualcuno più grande e più astuto di lui, il gatto. Il rapporto tra i due animali è così impari che viene spontaneo fare il tifo per quello più debole, che non minaccia nessuno. Questo è il topo buono, così gradevole e ammiccante da far pubblicità a uno dei formaggi più pregiati della nostra tavola. Ma nell'ombra tramano altri esemplari: quelli che vivono nelle fogne, quelli che portano la peste o, peggio ancora, che morsicano i neonati. Il teatro dell'immaginario si sdoppia e, mentre nel pensiero del giorno domina il topo buffo, dietro le quinte del sogno scorrazzano sadici i ratti della notte. La famosa favola del Pifferaio magico si regge sull'equivalenza topi-bambini. Se in un primo tempo uno strano flautista riuscirà con la sua musica a liberare la città di Hamelin dai topi che l'assediano, allo stesso modo le sottrarrà tutti i bambini. Sarà infine l'unico bambino rimasto in città a liberarli riproducendo, con un piccolo flauto, la magica melodia. Uno dei possibili significati della fiaba consiste nella necessità che i bambini giungano, con i propri mezzi, a liberarsi dall'ambivalenza che contraddistingue l'amore degli adulti, fatto di tenerezza e insofferenza, desiderio di vicinanza e di lontananza. Sarà Freud, analizzando il famoso caso clinico dell'Uomo dei topi (1909), affetto da nevrosi ossessiva, a spiegare questo strano intreccio tra attrazione e repulsione attribuendolo al convergere, verso lo stesso oggetto, di impulsi di amore e di odio. Soltanto con la maturità si giunge infatti ad accettare, in noi stessi, la coesistenza dei contrari che il topo simbolizza.

Corriere 8.10.12
Perché credere a Bernadette
Come un detective, Messori indaga il miracolo di Lourdes
di Armando Torno


Era analfabeta. Non aveva mai frequentato il catechismo. La sua età: quattordici anni. Ma non era ancora donna e ne dimostrava dodici. Il nome: Bernadette Soubirous. Fu questa ragazza che dall'11 febbraio al 16 luglio del 1858 vide, lei sola, per diciotto volte in una grotta (o nicchia della roccia) di Massabielle una figura biancovestita, con cintura azzurra e rose sui piedi, con una corona del Rosario. Nella terza apparizione, il 18 febbraio, la misteriosa presenza comincia a parlare. Non si esprime in francese ma nel vernacolo locale e si rivolge a Bernadette con il «voi». Nel sedicesimo suo manifestarsi — è il 25 marzo — dopo che la giovane le chiedeva ripetutamente chi fosse, disse di sé: «Qué soy era Inmacoulada Concepcioú», ovvero: «Sono l'Immacolata Concezione». Parole che confermano quelle del dogma di fede proclamato l'8 dicembre 1854. In quel luogo (Massabielle significa in dialetto occitano roccia vecchia), presso Lourdes, sulla riva sinistra del Gave, era dunque apparsa la Madonna. Un sito malfamato, ripugnante, dove i maiali venivano portati a pascolare e gli amanti irregolari si recavano per consumare indisturbati.
Lourdes non ha bisogno di spiegazioni, perché da oltre un secolo e mezzo è al centro della fede cattolica. Pio XI beatificò Bernadette nel 1925 e la canonizzò nel 1933. La letteratura sull'argomento è sterminata e ogni giorno aumenta. Vittorio Messori ha progettato da decenni un suo libro e ora finalmente lo pubblica. O meglio, quello che uscirà domani sarà il primo: Bernadette non ci ha ingannati. Un'indagine storica sulla verità di Lourdes (Mondadori, pp. 294, 18,50). Un secondo seguirà, anche perché — ricorda lo stesso Messori — il materiale raccolto lo rende opportuno. Comunque, l'opera distribuita in queste ore è qualcosa a sé e possiamo considerarla una delle più documentate ricerche sulla giovane che vide e ricevette messaggi dalla Vergine. Non è semplicemente una difesa della santa che ha ormai un ruolo rilevante nella storia della fede cattolica e della società (Lourdes, con i suoi cinque milioni di pellegrini ogni anno, sempre in aumento, supera tuttora La Mecca), né ci troviamo dinanzi a una apologia. Il libro di Messori offre piuttosto la ricostruzione — con notevole spazio alle critiche — di una figura che Émile Zola definì «un'irregolare dell'isteria», credendo che Bernadette fosse «in realtà... solo una povera idiota». Le sue avrebbero potuto essere allucinazioni o invenzioni di adolescente frustrata? Gliele suggerirono genitori interessati o qualche ambiguo membro del clero? Messori non tralascia alcun particolare. E risponde a obiezioni vecchie o nuove.
I testi su Lourdes riempiono le biblioteche e non soltanto (in francese ve ne sono circa cinquemila), ma Bernadette non ci ha ingannati ha delle ragioni specifiche. L'autore ci ha confidato: «Come Ratzinger sono nato il 16 aprile e questo giorno è quello della morte di Bernadette e quindi la data della sua festa liturgica. Ma a parte tale aspetto, la chiave del libro va cercata in una convinzione che è salda in me: non è semplicismo apologetico, ma mera logica, affermare: "Se Lourdes è vera, allora tutto è vero"». Un sillogismo speciale, perché se Lourdes è «vera», il Credo della tradizione cattolica è «vero»: Dio esiste, Gesù è il Cristo, la Chiesa guidata dal Papa è custode e garante di tali verità. La Vergine stessa esorta la veggente: «Andate a dire ai preti di costruire qui una cappella»; inoltre chiede processioni affidate alle cure ecclesiali, appare seguendo il ciclo liturgico romano. Non c'è nulla di più cattolico di Lourdes e i pontefici hanno costantemente amato e privilegiato questo luogo. Giovanni Paolo II ne fece la meta del suo ultimo pellegrinaggio, Benedetto XVI vi si recò in uno dei primissimi viaggi. Ma già Pio IX lo ebbe caro, Leone XIII approvò una festa liturgica dell'Apparizione dell'Immacolata per la diocesi di Auch, che Pio X estese a tutta la Chiesa latina. Non sono che esempi.
Messori definisce Lourdes una «maniglia», ovvero un appoggio a cui aggrapparsi quando la fede entra in crisi. È materia per i nostri giorni. Il suo procedere sembra quello, ci sia consentito notarlo, di un teologo medievale: usa sino in fondo la ragione e, dopo avere esaminato il possibile, si apre alla prospettiva del mistero. O, se si volesse tradurre questo percorso seguendo il filo del libro, diremo che dimostra come a un certo punto la ragione ci spinga sino a farci trovare davanti a una scelta. Già, una scelta: Lourdes la riassume.
Le pagine di Bernadette non ci ha ingannati riflettono la gioia di una ricerca infinita ma anche le fatiche di un credente che ama chiarire. Messori sembra Tommaso e, rivedendo il dipinto di Caravaggio dove l'apostolo infila l'indice nel costato di Gesù, siamo sicuri che ne ha indossato i panni per ragioni di fede. Ha verificato tutto, dai luoghi agli archivi, lavorando al Santuario e alle tesi scettiche. Al terzultimo capitolo, dopo aver esaminato nella parte precedente le ipotesi sulla allucinazione, ricorda fatti che minavano la credibilità della ragazza. Ne ricordiamo uno: avrebbe ritrattato durante il primo interrogatorio del commissario Jacomet, scongiurando il funzionario di impedire ai suoi genitori di obbligarla ad andare alla grotta. Messori dimostra che siamo dinanzi a un vecchio trucco poliziesco, giacché lei fu sempre granitica. Non arretrò, non si contraddisse.
Bernadette resta un paradosso vivente. Alta un metro e quaranta, soffre d'asma, ha un padre disoccupato, anzi fallito, incriminato e poi assolto per insufficienza di prove dall'accusa di aver rubato due sacchi di farina. Su di lei grava la burocrazia imperiale francese durante i giorni di Napoleone III. Ma nessuno, ribadisce Messori, riesce a soffocare la sua testimonianza. È il niente che alla fine vince il tutto; la sua grandezza va cercata nella piccolezza. Non aveva nulla. Tiene a bada il mondo.

Repubblica 8.10.12
Un saggio di Jim Al-Khalili racconta la fisica divertendo da Maxwell a Einstein
Achille il gatto e la logica
Così l’arte dei paradossi spiega la scienza a tutti
di Stefano Bartezzaghi


Un fisico scozzese sostiene che ogni volta che un suo compatriota si sposta in Inghilterra aumenta il quoziente d’intelligenza medio di entrambi i paesi. Come è possibile? Gli scozzesi, sostiene lui, sono più intelligenti degli inglesi, quindi il migrante aumenta la media di intelligenza inglese. Ma trasferirsi dalla Scozia all’Inghilterra è una tale sciocchezza che sicuramente a commetterla può essere soltanto uno degli scozzesi meno intelligenti, quindi con il suo trasloco aumenta anche il quoziente medio scozzese. Il paradosso era solo apparente.
Inglese, nato a Baghdad da padre iracheno e madre inglese, Jim Al-Khalili dà un ottimo contributo alla media generale dell’intelligenza. Ha cinquant’anni, ricerca e insegna nel campo della fisica teorica, è un esperto comunicatore scientifico. È lui che ha sentito da un collega scozzese il paradosso sul quoziente medio di intelligenza e lo ha impiegato nella prefazione di un libro che ora esce anche in italiano (La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, trad. di Laura Servidei, Bollati Boringhieri, pagg. 242, euro 20). Il libro è importante, nella sua non immodesta veste di intrattenimento pacato, perché non elude ma butta sul piatto con onesta consapevolezza il vero problema della cosiddetta divulgazione scientifica. Per fare divulgazione bisogna sapere spiegare bene la scienza, ma per far capire davvero la scienza spesso occorre, ancorché spiegarla, ripiegarla; ovvero, confondere le idee più che chiarirle. È questa la maledizione, ma anche la benedetta funzione, del paradosso.
Sono alcuni anni, ormai, che la divulgazione scientifica e in particolare matematica ha assunto una rilevanza prima impensabile, costituendo anche una delle poche controtendenze nel mainstream dell’editoria corriva. Al proposito si possono citare il Festival della Scienza, a Genova (Al-Khalili sarà presente all’edizione 2012), e quello della Mente, a Sarzana; l’Infinities di Luca Ronconi e innumerevoli film, libri, fumetti, spettacoli teatrali su biografie come quella di Alan Turing; le raccolte di giochi logici e matematici, che ci sono sempre state ma non sono mai state tanto abbondanti (l’ultima: Federico Peiretti, Matematica per gioco, Longanesi), sino ai quattro volumi delle Grandi Opere Einaudi intitolati a “La Matematica” e curati da Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi (due autori che, ognuno a modo suo, rappresentano al meglio la nuova figura dell’intellettuale eclettico e a proprio agio in svariati campi del sapere, partendo da una formazione matematica o logica).
La matematica, soprattutto, pare giocare un ruolo omologo a quello che all’epoca dello strutturalismo spettava alla linguistica: la disciplina che ha come oggetto il linguaggio comune a tutte le altre, e assume perciò una posizione centrale e una funzione “modellizzante” (come dire: esemplare). Nei confronti di non addetti e non adepti (spesso anche non adatti) la matematica esercita pure un fascino per certi versi analogo e per altri opposto a quello della musica: quello di espressione non traducibile in parole, espressione senza contenuto verbalizzabile. Non a caso il sudoku, sublime giocattolo logico, è stato definito dall’esperto di giochi Will Shortz “wordless crossword”, parole crociate senza parole. Spiegare la matematica a parole, così come la musica, è dunque una sfida: richiede non solo grande confidenza sia con i numeri sia con le parole, ma anche una grande immaginazione e capacità di immedesimazione psicologica nella mentalità del lettore profano.
Che la psicologia entri, e quanto, nel discorso potrebbe anche apparire strano. Ma come! La matematica e la logica, queste fortezze del calcolo impersonale, gli strenui avvocati divorzisti della mente dai vizi inveterati dell’opinione, i disinfestatori delle contraddizioni e degli altri parassiti del pensiero... Eppure, se già queste immagini sembrano rispondere ai canoni di una mythologie sociosemiotica piuttosto che a quelli di un’equanime gnoseologia, matematica e logica riescono ad arrivare al grande pubblico soprattutto quando giocano con il proprio rovescio. Pochi sembrano in grado di appagarsi nella contemplazione del teorema di Lagrange o di quello di Pitagora o del principio del terzo escluso. Ma invece, annunciata anche da usi lessicali peculiari (come le dimostrazioni “per assurdo”, i numeri “irrazionali”, la fuzzy logic, dove fuzzysignifica “confuso”, “indistinto” e quindi “sfumato”) ecco che si apre la via privilegiata per mostrare all’opinione pubblica le seduzioni del pensiero razionale: la via dei paradossi. Cosa attrarrà la doxa meglio dei paradoxa?
La matematica e la logica, così come anche la fisica, non ci affascinano tanto quando dicono «Le cose stanno così, come non sapete né pensate », quanto se dicono «Le cose non stanno affatto come pensate e come pensate di sapere»: ci fanno dubitare che Achille possa mai superare la tartaruga o ci parlano di due gemelli di età diverse. Come accorriamo alla finestra per un incidente stradale, così anche la collisione tra il rigore della dimostrazione e l’apparenza sensoriale (e il nostro modo di organizzarla) ha un richiamo irresistibile.
Con i paradossi il divulgatore desta la meraviglia, e quindi la curiosità: due inneschi della ragione che di per sé tanto «razionali» (nel senso tardo-positivista, ma ancor oggi vulgato, del termine) non sono.
Quando poi ci si trova a dover spiegare la relatività o addirittura la meccanica quantistica il paradosso (in cui senso comune e buon senso, come si dice oggi, «vanno a sbattere») non è più accidentale: «Per quanto si cerchi di spiegarla accuratamente, per chi non è un fisico la meccanica quantistica suonerà sempre sconcertante, se non addirittura inverosimile». In un esperimento immaginato da Erwin Schrödinger, per esempio, la vita di un gatto in una certa scatola dipende dal decadimento di un atomo. C’è il dubbio che secondo la meccanica quantistica quel gatto sia vivo tanto quanto sia morto.
Con sapienza comunicativa e onestà epistemologica Al-Khalili è devoto ai paradossi: non solo ne riconosce la funzione comburente e motoria per la ricerca scientifica ma poi ne percepisce e ne sa potenziare anche il carattere enigmistico che li rende tanto affascinanti per il profano. Così gli chiarisce subito (cosa rarissima) la differenza tra paradossi veri, paradossi percepiti, contraddizioni logiche. Quindi tramite nove paradossi ben scelti gli spiega molte cose utili, magari già orecchiate ma mai capite a fondo; tramite i paradossi più inspiegabili; infine mette la persistenza, forse necessaria, di un vallo fra quanto sappiamo, come specie, e quanto riusciamo a rappresentarci, come individui dotati di buon senso. Il paradosso ci fa attraversare quel vallo prima in una direzione, poi nell’altra. Le emozionanti oscillazioni di un ponticello così precario ci ricordano che la razionalità distinta dalla psicologia semplicemente non esiste. O meglio, esiste come esistono le illusioni, i miraggi, le fate morgane. O meglio, la sua esistenza è essa stessa un paradosso.

Repubblica 8.10.12
“Cara antitrust difendi i piccoli”
Legge Levi, appello degli editori e dei librai indipendenti


Il 2 ottobre scorso, il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, ha inviato ai presidenti del Senato, della Camera, del Consiglio e al Ministro per lo Sviluppo Economico, le sue “Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza per l’anno 2013”, nella quale raccomandava di «eliminare il tetto agli sconti sui libri che limita la libertà di concorrenza dei rivenditori finali, senza produrre sostanziali benefici per i consumatori in termini di servizi offerti o di ampliamento del numero di libri immessi sul mercato».
L’enormità di una simile richiesta è evidente per chiunque conosca l’anomalia della situazione italiana in campo editoriale. Per gli altri, richiede una spiegazione.
In Italia, un numero ristretto di gruppi editoriali possiede l’intera filiera del libro e occupa, perciò, in posizione dominante, tutti i passaggi: produzione, promozione, distribuzione e vendita. I quattro gruppi editoriali – Mondadori, Gems, Rizzoli e Feltrinelli – possiedono molteplici case editrici, e poi case di distribuzione, catene librarie e società che distribuiscono i libri in supermercati, discount, autogrill ecc. (G. D. O.).
In altre parole, i quattro gruppi pubblicano, promuovono, distribuiscono e vendono i loro libri attraverso società e punti vendita di loro proprietà, mentre gli editori indipendenti devono rivolgersi a loro per ogni passaggio, fino ad arrivare in libreria con un margine di guadagno così ristretto da non potersi permettere sconti ulteriori o promozioni. A loro volta, le librerie indipendenti, che ottengono uno sconto sul prezzo di copertina del 30% (le catene librarie ottengono anche il 40/45), non hanno margine sufficiente per praticare uno sconto ormai fisso del 15%. Di conseguenza, i quattro gruppi inondano il mercato di libri scontati, occupano i tavoli e le vetrine delle librerie, gli spazi dei supermercati e così via, mentre tutta l’altra produzione libraria è relegata in spazi angusti e nascosti, per lasciare visibilità alle promozioni.
Negli altri paesi, le funzioni di editore, distributore e libraio, sono nettamente separate e questo a vantaggio di un mercato realmente libero. L’Antitrust è stata costituita nel 1990 per combattere simili situazioni di oligopolio e garantire «il rispetto delle regole che vietano gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni in grado di creare o rafforzare posizioni dominanti dannose per la concorrenza».
La Legge Levi per parte sua, è stata promulgata nel settembre 2011, dopo una durissima e lunga battaglia, per «contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura, alla tutela del pluralismo dell’informazione». Sebbene si ispiri a leggi analoghe che vigono in Francia, Germania e Spagna (per citare i paesi più vicini), che aboliscono o riducono drasticamente lo sconto, la legge Levi consente uno sconto librario del 15% e un tetto del 25% alle promozioni editoriali, per undici mesi all’anno, dicembre escluso. In un altro paese, l’Antitrust avrebbe sostenuto la Legge Levi, che pone un freno all’oligopolio dei gruppi editoriali.
Colpisce che la “raccomandazione” dell’Antitrust avvenga solo sette giorni dopo la verifica discussa alla Camera il 25 settembre, in presenza della Commissione Cultura, Centro per il Libro, del sottosegretario di Stato Peluffo, del ministro Ornaghi e di editori e librai coi loro rappresentanti. In questa sede si manifestavano essenzialmente due posizioni: da una parte librai ed editori indipendenti sostenevano che la Legge Levi avesse contenuto la recessione del mercato librario (assai più forte in altri settori dell’intrattenimento e dello spettacolo) e contribuito a un abbassamento del prezzo dei libri – dall’altra, i quattro gruppi, con qualche sfumatura, chiedevano in sostanza di vanificare la Legge Levi, abolendo lo sconto alle promozioni editoriali, il limite di durata e l’esclusione del mese di dicembre, e auspicando un mercato selvaggio e oligarchico, in cui la Legge si riducesse a mero strumento per difendere i loro libri dalla concorrenza di Amazon.
E con chi si schiera l’Antitrust?
Editori e librai indipendenti chiedono che questa raccomandazione venga ritirata dalle proposte del presidente Petruzzella, che l’Antitrust faccia onore ai suoi obiettivi, battendosi contro e non a favore degli abusi di potere, e che la Legge Levi venga sostenuta e messa in grado di servire i suoi scopi.
Gli editori firmatari sono: nottetempo, Neri Pozza, Sellerio, Il Saggiatore, Donzelli, Voland, Iperborea, minimum fax, Instar libri, Blu edizioni, la Nuova frontiera, et al., Astoria, Keller, Nutrimenti, 66thand2nd, Zandonai, Caissa Italia, Mattioli 1885, Las Vegas Edizioni, Felici Editore, Edizioni Corsare, Edizioni Alegre, Aiep Editore, Mesogea, Leone editore, edizioni La Linea, Viella, edizioni del Capricorno, Hacca – Nuova giuridica, libreria torre di Abele, Emons Audiolibri, Transeuropa, Ananke Edizioni, Edizioni Lapis, Colonnese, No reply