mercoledì 10 ottobre 2012

Corriere 10.10.12
Agenda di governo da «rottamare» È duello nel Pd
Fassina attacca. Letta: passato il segno
di Monica Guerzoni


ROMA — L'osservazione che il senatore Stefano Ceccanti consegna a Twitter rivela quel che molti pensano, anche tra i dirigenti del Pd: «Se il responsabile Economia e il vicesegretario dicono cose opposte appoggiando il medesimo candidato forse ci vuole un congresso, non primarie di coalizione». Al centro dei tormenti democratici c'è ancora il «giovane» Stefano Fassina, il responsabile Economia che siede nella segreteria di Bersani. Lunedì aveva accusato Renzi di copiare il programma del partito e ieri ha scritto sul Foglio un lungo articolo intitolato, a caratteri cubitali, «Rottamare l'agenda Monti».
Il proclama contro le riforme ha incendiato le polveri e se ora nell'area filo-montiana c'è chi evoca il congresso è anche perché Bersani si è limitato a contenere Fassina, mentre il suo vice lo ha duramente sconfessato. «Si è passato il segno» è il monito di Enrico Letta, che legge la posizione del leader dei «Giovani turchi» come una «stridente contraddizione» con il sostegno a Monti: «Bersani è sempre stato inequivocabile. Motivo per tanti di noi determinante per appoggiarlo convintamente alle primarie». Il vicesegretario pensa insomma che le tesi di Fassina siano «smentite nella realtà» dalle scelte di Bersani, mentre il leader prova a risolverla così: «Monti ha dato un'idea di rigore e di credibilità al Paese che è un punto di non ritorno, ma noi vogliamo metterci più equità». E poi, per stoppare le critiche interne: «Abbiamo rinunciato a qualcosa di nostro per appoggiare Monti, quindi chi vuole convincerci che va difeso si riposasse. Ora il Paese deve tornare alla normalità e il punto è se abbiamo diritto di votare».
La frattura con l'ala riformista dunque resta e il problema, per il segretario, è come mediare tra le posizioni antitetiche incarnate da due figure chiave della sua maggioranza. E infatti a Berlusconi, che non esclude il «bis», il leader del Pd replica secco: «Chi tira per la giacca a fini elettorali Monti non fa un buon servizio, né a Monti, né all'Italia». I rapporti tra il segretario e il premier sono distesi, così almeno è apparso al lancio della Uman Foundation di Giovanna Melandri. Prima di correre in Consiglio dei ministri Monti ha voluto farsi vedere in casa pd, proprio nel giorno in cui Berlusconi non ha escluso di proporlo come leader dei moderati. E Bersani ne ha approfittato per un breve colloquio.
Ma il Pd è in allarme. A Montecitorio i democratici rievocano con terrore la «gioiosa macchina da guerra» con cui Achille Occhetto andò a infrangersi nel 1994. Quello della vittoria pregustata che diventa disfatta è lo scenario più agghiacciante e, se Pierluigi Castagnetti ne parla senza infingimenti a Tgcom24, Beppe Fioroni scaccia a suo modo i fantasmi del '94: «La riedizione di un'alleanza con Vendola, Di Pietro e la sinistra che è fuori dal Parlamento non è tollerabile». Ma se qualcuno nel Pd aspira a un Monti bis retto dalla maggioranza attuale, quel qualcuno non è Bersani: «Grande coalizione? Basta. Io non faccio più maggioranze con Berlusconi». L'ex premier confermerà il passo indietro? «Noi non ce ne occupiamo — risponde il segretario —. È come interpretare la Sibilla Cumana».
Sul fronte interno, oltre a Renzi che vuole rottamarlo e che lo attacca sulle spese della campagna, Bersani deve vedersela con l'aggressività dell'esordio di Vendola. Un suo manifesto rimbalza sul web e crea polemica. C'è scritto «Il massacro della Diaz oppure Vendola» e lo slogan è così forte che il leader di Sel è costretto a spiegarlo dalla prima pagina del suo blog: se andrà a Palazzo Chigi farà una legge «per l'identificazione dei poliziotti impegnati in operazioni di ordine pubblico», introdurrà il reato di tortura e istituirà «quella commissione di inchiesta sempre barbaramente negata».

il Fatto 10.10.12
Pd, divisi pure i bersaniani
Stefano Fassina vuole rottamare l’agenda Monti, Enrico Letta s’indigna
di Wanda Marra


Rottamare l’agenda Monti”: il titolo - a caratteri cubitali - che il Foglio dà a un lungo commento a firma Stefano Fassina (responsabile Economia del Pd) fa saltare ancora una volta i nervi - già tesi - dei Democratici. “Ha passato il segno”, va all’attacco Enrico Letta. “Vi è una inaccettabile conclusione che appare in stridente contraddizione con tutto ciò che di positivo il Pd ha fatto in questi mesi”. Ma soprattutto Letta ci tiene a chiarire un punto: “Il Pd ha agito e assunto impegni diversi da quelli delineati dall’articolo. E Bersani è sempre stato inequivocabile da questo punto di vista. Motivo per tanti di noi determinante per appoggiarlo convintamente alle primarie del centrosinistra”. Sì, perché il responsabile economico e il vicesegretario del partito pur su posizioni opposte, sostengono il segretario alle primarie. Letta è stato il vero sponsor del governo Monti. Fassina viceversa, fin dai primi passi dell’esecutivo si è messo in una posizione di “lotta e di governo”, criticandone le scelte e partecipando a qualche manifestazione contraria. Ritagliandosi il ruolo di uomo del dissenso da sinistra (pure l’altroieri si è fatto notare per aver attaccato Renzi, reo di copiare il programma del suo stesso partito). E ora, eccoli Fassina e Letta dalla stessa parte, mentre quelli che si sono arrogati l’etichetta di montiani doc stanno con Matteo Renzi. “A leggere Fassina resto sgomento”. A sentire Fioroni (pure lui col segretario) non c’è da stare allegri per l’alleanza bersaniana. “I migliori sostenitori di Renzi sono Fassina e la Bindi”, ironizza soddisfatto il montiano Ceccanti. Ma cosa scrive davvero Fassina? “Nell'area euro siamo su una rotta di aggravamento degli squilibri macroeconomici”, esordisce. Di più: “L’agenda Monti non funziona”, “nell’euro-zona va archiviata la via mercantilistica e allargata la prospettiva dello sviluppo sostenibile”. Accanto a cotali dichiarazioni però chiarisce: “Soltanto la propaganda strumenta-le può leggere nella proposta correzione di rotta la volontà di smontare gli interventi degli ultimi mesi. Aggiustamenti vanno fatti (su esodati e sugli squilibrati assetti degli ammortizzatori nella legge Fornero). Ma, sono aspetti marginali.”. Insomma “è fuori discussione il rispetto di tutti gli impegni sottoscritti dall’Italia”. Difficile capire in questi termini fino a che punto la politica economica di un eventuale governo Bersani potrà differenziarsi da quello Monti. Intanto Bersani mentre apparentemente prende le distanze, in realtà conferma posizioni non molto diverse da quelle del suo responsabile economico: “Ho già detto in assemblea che non è questione di agenda Monti o agenda Bersani ma di un’agenda europea che non funziona. Bisogna cambiare l’agenda europea e quindi quella italiana”. Ma “il rigore di Monti è un punto di non ritorno”. Un perimetro dentro cui dovrebbero stare tutti. Eppure Fassina sull’economia sembra come Nico Stumpo sulle regole: i fedelissimi fanno lo sfondamento, passando un messaggio che il segretario in prima persona non può traghettare.

il Fatto 10.10.12
Ceclia Pezza
“Renzi, un fintissimo democratico”
di Wa. Ma.


Lui va a giro a dire che me e altri due o tre ci vuole far fuori”. “Lui” è Matteo Renzi il lanciatissimo sindaco di Firenze. E a parlare, con spiccato accento fiorentino, è Cecilia Pezza, 26enne consigliera comunale, ex segretaria della Sinistra giovanile cittadina, convintamente bersaniana. In realtà si tratta di uno sfogo, un “fuorionda” (modalità ormai entrata prepotentemente nella prassi mediatica) trasmesso dall’Ultima parola di venerdì scorso. “Lui è un fintissimo democratico. Qui in città la gente ha paura di schierarsi sulle primarie. Cioè quelli che non stanno con lui hanno paura. Perché se fanno un lavoro che minimamente c'entra con l'amministrazione non si schierano perchè hanno paura”. Accuse pesanti. E la Pezza era stata durissima anche “in chiaro”, intervenendo in consiglio comunale: “Io penso che nel corso di questi 3 anni l’ufficio del Sindaco sia diventato un ufficio di dimensioni ministeriali. La buona politica, che va a raccontare in giro per l’Italia, comincia da queste cose”.
LE ACCUSE della Pezza a Firenze non sono passate inosservate. Il Pdl ha cavalcato il caso, chiedendo una discussione in consiglio comunale. Chiarimento che il Pd ha preferito evitare. Il capogruppo Pdl Marco Stella ha denunciato: “La gravità delle accuse lanciate da Pezza non può e non deve cadere nel vuoto, abbiamo il dovere di andare fino in fondo per sapere se Firenze è una città libera o se le nostre imprese vivono un clima di terrore e intimidatorio”. Non è la prima volta che la Pezza si schiera apertamente contro Renzi. E anche in questo caso sceglie di rincarare la dose di quanto detto in maniera più o meno informale: “In consiglio comunale siamo in 7 bersaniani. Ci chiamano i dissidenti”. Non solo: “Non c’è modo di discutere di nulla, di entrare nel merito di nessuna questione che riguardi la città. Perchè se tu provi a fare un ragionamento diverso ti liquidano dicendo ‘tu sei bersaniana’”. Bel clima a Firenze: “Sei tacciato costantemente di essere un traditore, appena hai un’opinione diversa”. Questo vale per tutto, si parli della tranvia, dei teatri o dello sfruttamento dei punti anagrafici. E dunque: “Il mandato dato a me e ad altri non è rispettato”.
MA l’establishment del Pd sarebbe pronto a lavorare con Renzi? “Noi con lui si lavora anche, ma lui non c’è mai. La discussione sul libro di bilancio è molto difficile e lui è sempre a giro a fare campagna elettorale”.
Insomma, la “narrazione” di Renzi secondo cui Firenze è la città più felice del mondo sarebbe solo una favola: “ Quest’anno a una manifestazione importante come i 100 luoghi, quando si fa il punto sui progetti portati avanti in città c’erano 3000 persone tutte arrabbiate, l’anno scorso erano 11mila. E la gente in generale è incazzata nera”. Perché poi, “il mondo è molto più sfaccettato, non si può certo ricondurre tutto a una contrapposizione tra bersaniani e renziani”. Per esempio, c’è il caso della libreria Edison, una di quelle storiche della città che chiude. “Il Comune di Firenze per tutelare un negozio di questo tipo ha un vincolo urbanistico. Ma il Sindaco dice: ’Io faccio una deroga e ci metto la Apple’”. Insomma: “È una città che può essere governata molto meglio”. Non male come critica per uno che si candida a governare il paese. Per chi non avesse capito: “Il sindaco non c’è, io ne prendo atto”. 

La Stampa 10.10.12
“Volevo lasciare ma ho deciso di restare Renzi si farà male”
D’Alema all’attacco: “A Sulmona ci è andato in jet privato E sul camper è salito soltanto alle porte della città”
di Federico Geremicca


«Un paio di mesi fa ne avevo parlato con Bersani. Ma ora no Per quanto mi riguarda no»
«Sono stato a Matera e c’era il doppio della gente rispetto a quanta era accorsa da Renzi»

Guardate, ne avevamo perfino parlato, io e Bersani. Un paio di mesi fa. Gli avevo detto: ragioniamo, troviamo un modo per un mio impegno diverso. Del resto, lavoro già tantissimo, lo sai, un appuntamento dietro l’altro, spesso all’estero: valutiamo assieme l’ipotesi che io non mi ricandidi al Parlamento... Ma ora no. Così, per quanto mi riguarda, no. Poi, naturalmente, parlerà il partito... ». Erano in tanti ad attendere la decisione di Massimo D’Alema: si ricandida o arretra - come molti speravano sotto l’impetuoso attacco di Renzi e dei suoi «rottamatori»? Ora quella decisione è finalmente nota. L’altra sera, infatti, ad un paio di fidatissimi amici di partito, ha confidato: «Lo sapete che se mi stuzzicano reagisco. E che se c’è da combattere, combatto. Renzi ha sbagliato, e continua a sbagliare. Si farà del male».
Erano in tanti ad aspettare un segnale: perché in queste primarie segnate da un drammatico scontro generazionale, la sorte di tanti - appunto - dipende dalla rotta di Massimo D’Alema. Un suo passo indietro, infatti, avrebbe costretto alla resa molti dei leader e dei parlamentari con più di tre mandati alle spalle e messi all’indice da Matteo Renzi; un suo «resistere, resistere, resistere» - invece - dà ora più forza a chi ritiene che la «rottamazione» sia un metodo selvaggio e opportunistico di intendere il rinnovamento e la lotta politica. Ora che la rotta di D’Alema è nota, molti possono tirare un sospiro di sollievo: e accartocciare, assieme alle narrazioni che davano il líder maximo offeso e depresso, i preannunci di un suo imminente passo indietro.
Naturalmente, che sia rimasto personalmente turbato dal trattamento riservatogli dal sindaco di Firenze, è più che possibile (e comprensibile): infatti, non c’è cinema, teatro o studio televisivo nel quale Renzi non mostri la faccia di D’Alema che dice «se vince lui, il centrosinistra è finito» per poi replicare «se vinco io, al massimo è finita la sua carriera parlamentare». Un tormentone - anzi, praticamente una gag - che lo sta trasformando nel simbolo di ogni male, nel nemico da abbattere. Capita, a volte. Capitò a Craxi, poi ad Andreotti, infine a Berlusconi: ma non è, insomma, che sia una gran compagnia...
Renzi, per altro, non lo convince e non gli piace. È persuaso che si tratti di un fenomeno mediatico o poco più. Ieri in Transatlantico, di ritorno dalla Basilicata, D’Alema spiegava il suo punto di vista ad alcuni deputati del Pd: «Sono stato a Matera per una iniziativa su Berlinguer: c’era il doppio della gente rispetto a quanta era accorsa ad ascoltare Renzi. Però i giornali non lo scrivono, perché “rottamare” il Pd conviene a molti». Non solo: contesta - per esempio intorno all’ormai noto camper - ingenuità incomprensibili. «La settimana scorsa Renzi è andato a Sulmona. Sapete come? Jet privato da Ciampino, poi una Mercedes... In camper c’è salito alle porte di Sulmona: ma quando è arrivato in piazza, tutti ad applaudire il giovane ribelle che “altro che auto blu, lui viaggia in camper”. Non lo ha scritto nessuno che si muove così. Anzi no, sbaglio: lo ha scritto “Repubblica”. Ma in cronaca di Firenze. Ora leggo che è finanziato, addirittura dall’America, da Paolo Fresco... Che altro dire? ».
Già, che altro dire? Magari che è anche per questo che è arrabbiato con Renzi? «Non ho il tempo di essere arrabbiato con lui - spiega agli amici deputati -. Sono presidente della più importante Fondazione dei progressisti europei, dovreste vedere gli uffici di Bruxelles e la quantità di impegni in giro per l’Europa. Figurarsi se, tra il lavoro che mi attende quando torno in Italia e le iniziative in altri Paesi europei, ho il tempo di arrabbiarmi con Renzi. È anche per questo che stavamo valutando con Bersani la possibilità di un mio abbandono del Parlamento. Del resto, questo non avrebbe ostacolato un qualche mio impegno al governo, se vinceremo le elezioni e se sarà ritenuto necessario».
Ora, però, non è più il caso di parlarne. Certo, agli amici di partito che come lui - sostengono Bersani, non nasconde che «queste primarie sono un risiko, Pier Luigi le vincerà, ma ci sarà da tenere gli occhi aperti». È anche per questo - oltre che per difendere il proprio onore - che sarà in campo: per salvaguardare un quadro di alleanze e una prospettiva di governo che gli paiono più convincenti di quelli proposti dal sindaco di Firenze. Poi, naturalmente, c’è il rischio, la difficoltà della sfida: e le difficoltà - da sempre - piuttosto che spaventarlo, lo hanno sempre motivato...
In fondo in fondo - ma proprio molto in fondo - non è che D’Alema non colga il senso della battaglia ingaggiata da Renzi per un radicale rinnovamento di uomini e politiche: magari non lo ammetterà mai, ma è nell’agone da troppi anni per non sapere che, ciclicamente, la questione del ricambio si pone. E solitamente (e naturalmente) sono i giovani a porla. Del resto è capitato anche a lui. Aveva appena compiuto 39 anni quando fu inviato in Liguria per spiegare a Natta (sconfitto alle elezioni dell’anno prima e colpito da lieve infarto) che era giunta l’ora che si facesse da parte; e soltanto 45 quando - nel 1994 - diede battaglia per la sostituzione di Achille Occhetto (battuto alle elezioni da Silvio Berlusconi).
Dunque, non contesta la regola secondo la quale chi è sconfitto - talvolta - debba farsi da parte. Ma c’è modo e modo, verrebbe da dire... «A me quella parola, “rottamare”, non piace proprio per niente - spiega ai due deputati che lo stanno ad ascoltare -. Voi dite di Natta e di Occhetto... ma io non ho mai spinto verso il ricambio per sostituire qualcuno, per un fatto personale. Dopo Achille, il segretario poteva farlo tranquillamente Veltroni: e in ogni caso, nessuno riempì di insulti il leader uscente. Quanto a Natta, gli dissi semplicemente quel che ero stato incaricato di dirgli per conto del partito. Lui, un dirigente serissimo, capì. E alla fine ci stringemmo in un abbraccio... ». Altri tempi, sicuro. Migliori o peggiori non sapremmo dirlo.

Esodati, bocciata la proposta Damiano: “Non è coperta”
il Fatto 10.10.12
Esodati, Usiamo i fondi degli F35
di Furio Colombo


Questa mattina (9 ottobre) il ragioniere ha mandato a dire: per coloro che sono restati all'improvviso senza lavoro e senza pensione, a causa di un cambiamento improvviso di “policy” (la parola copre un trucco, e dunque è bene usare la parola inglese) devono accontentarsi: non c'è un euro per loro, ovvero per le decine di migliaia che sono rimasti fuori dal gruppo dei 50 mila graziati dalla Fornero. Non è cattiveria, precisa il ragioniere, non ci sono proprio gli euro per mettere in salvo gli altri. Il ragioniere è il Ragioniere generale dello Stato, a cui è stato chiesto di dare il triste annuncio, perché la piazza e le strade intorno a Montecitorio sono gremite di uomini e donne seri e sensati, non tanto giovani, ma carichi di disperazione e di energia che ti tirano per la giacca e ti dicono sulla faccia: “E io come campo sette anni (ma anche cinque o quattro o nove, perché gli incontri sono tanti e le situazioni sono tutte assurde) senza lavoro e senza pensione? Me lo dice lei come campo? ”. Non glielo dici, riconosci un ex collega di un passato di lavoro o di un altro (non la persona, piuttosto il vestirsi casual del tempo libero di ex dirigenti, di ex quadri, di ex laboriosi e fastidiosi capi ufficio che si portavano il lavoro a casa) e capisci che un incubo ha afferrato e sta scuotendo con assurda violenza una parte degli italiani, mentre stavano attraversando la strada (che è sempre ansiogena) fra l'ultimo lavoro e la pensione. Si è creato un nome strano per una situazione assurda, che fra privati configurerebbe la violazione di un contratto (io prometto, tu fai, e io mi rimangio la promessa di cui ti sei fidato e lo faccio mentre sei senza difese).
QUI ENTRA la proposta di legge Damiano, l'ex ministro del Lavoro Pd, che affronta la situazione (che non puoi lasciare lì sulla piazza) e che esige una soluzione. Lo fa per tante ragioni: una è che il Pd, Renzi o non Renzi, ancora per un poco è un partito di sinistra. Un'altra è proprio Renzi, che non perde il sonno per gli esodati, è giovane, moderno e crede nei conti in ordine, chi ci sta ci sta e gli altri si arrangino. Ma ci sono le primarie e Damiano vorrà segnare il suo punto non proprio vicino a Renzi. Però resta il fatto che nel Pd, alla Camera, parola di Bersani, si era detto: intanto votiamo (la legge sul lavoro e la riforma delle pensioni) perché così richiede l'Orco-Mercato. Poi troveremo una soluzione. Eccoci qua, pronti alla soluzione. Pronti chi? Il ragioniere – abbiamo detto – ha fatto sapere, e il governo ha confermato: giù le mani o crolla tutto. Mancano i soldi, punto e basta. Il problema è che gli esodati ci sono davvero, Damiano e la sua legge (che forse arriva adesso per sospette ragioni elettorali e di battaglia interna, ma risponde a una drammatica situazione vera) aspetta una risposta e non sarebbe facile ritirarla.
Infine mancano i soldi. Però, come diceva Kennedy, non c'è problema umano che gli umani non possano risolvere. Esempio: vendiamo un po’ di caccia-bombardieri F-35. È più facile che vendere il Colosseo, il mercato tira, e noi facciamo una pura e semplice operazione contabile. Mancano soldi (ha ragione il ragioniere) e li troviamo. Siamo sempre nel campo della difesa. Difendiamo, come prescritto dalla Costituzione, cittadini che hanno servito il Paese.

il Fatto 10.10.12
L’intervista, Cesare Damiano, Pd
“Salviamo gli esodati senza toccare la riforma”
di Salvatore Cannavò


È stato indicato come colui che vuole smontare la riforma Fornero sulle pensioni. Ma Cesare Damiano, deputato Pd in Commissione Lavoro già ministro del Welfare nell’ultimo governo Prodi, non ci sta a passare per guastafeste e nemmeno per colui che vuole affossare Monti. “In realtà – spiega in questa intervista al Fatto – è il ministro Fornero che ha lanciato un allarme spropositato realizzando un autogol per il governo. A noi interessa solo la questione esodati e a quella ci atteniamo”. Contro Fornero, Damiano non usa mezzi termini, segno di un rapporto sempre più logorato tra il ministro e il Partito democratico.
Onorevole Damiano, ci spiega qual è l’obiettivo di questa proposta di legge che è sembrata essere una mina sulla strada dell’esecutivo.
L'obiettivo, nonostante la controinformazione che fa il ministro Fornero, non è quello di smontare la sua riforma, ma di correggerne gli errori. Quando parliamo di errori alludiamo a una riforma che ha cancellato qualsiasi gradualità e transizione e causato quel fenomeno di lavoratori che sono rimasti senza stipendio, perché si sono licenziati in buona fede, e che dovranno aspettare anni prima di riscuotere la pensione. Questo errore va corretto e la nostra iniziativa è unitaria di tutta la commissione e non di parte o propagandistica.
Però voi avete introdotto il progetto di legge in esame alla Camera con un articolo, il primo, che vuole riformare l’attuale legge sulle pensioni
Il nostro progetto di legge parla solo di estendere agli uomini l'attuale legge che prevede per le donne di poter andare in pensione con 35 anni di contributi e 58 di età a patto che queste persone accettino la liquidazione dell'assegno con il calcolo contributivo. Vuole sapere da chi è stata avanzata questa idea? Non certo da noi.
E da chi?
Dal ministro Fornero nella sua replica alla Camera il 20 giugno. Gliela leggo integralmente: ‘Da ultimo sempre nella valutazione del costo collettivo e dell'impatto sul trattamento previdenziale si potrebbe considerare di ricorrere a una norma per estendere il contributivo retroattivo anche per gli uomini – ricordo che tale norma è già in vigore per le donne – come opzione di scelta da demandare a lavoratore e azienda’.
Questo l’ha detto il ministro Fornero?
Esatto. È un suo suggerimento e noi l'abbiamo tradotto in forma di legge. E vuole sapere chi ha voluto inserire questa norma nella proposta?
Dica.
L'onorevole Giuliano Cazzola, Pdl, che si è fatto interprete del suggerimento del ministro. Quindi, la logica dei gradini è stata ispirata dal ministro che ora si lamenta. Per quel che mi riguarda quella norma può essere tolta, non l'abbiamo mai caldeggiata. Noi caldeggiamo solo la soluzione per gli esodati, lavoratori in mobilità, prosecutori volontari e licenziati individuali.
Sta dicendo che il Pd non chiede la riforma o la correzione delle pensioni?
Con l’applicazione del calcolo contributivo quella norma non sarebbe recepita dai lavoratori. Per parte nostra può decadere.
Vi concentrate, quindi, sui 270 mila esodati per i quali non è stata ancora trovata soluzione.
Mi sono stancato di inseguire i numeri. Noi parliamo di diritti e vogliamo salvaguardare queste persone.
Ma la copertura dove si trova? Quella indicata dalla vostra legge, i giochi on line, è stata bocciata dalla Ragioneria.
Si può trovare nella spending review 2: una quota dei soldi risparmiati può essere destinata alla salvaguardia degli esodati.
Il governo sta pensando a una soluzione graduale non ancora precisata. Sareste d’accordo?
Una soluzione deve essere trovata e se la soluzione aiuta la discuteremo. Importante è che abbiamo rimesso il problema al centro della discussione.
Siete però accusati di fare un’operazione squisitamente elettorale, in vista anche delle primarie del centrosinistra.
È un’accusa falsa e infondata. Abbiamo a cuore un problema sociale. La proposta è unitaria e i soldi risparmiati possono essere utilizzati per questo obiettivo.
Vi accusano anche di voler far saltare l’agenda Monti.
Non facciamo saltare nessuna agenda Monti. Quando il ministro ripete che noi vogliamo la controriforma è lei che dà l'impressione che si voglia far saltare Monti. Ma noi non abbiamo messo in discussione né i 67 anni necessari per la pensione di vecchiaia, né quelli per la pensione di anzianità, né l'età pensionabile delle donne. Stiamo intervenendo sugli esodati. Il punto per noi è solo questo.
Da quello che sta dicendo possiamo desumere che l’articolo 1 del progetto di legge sarà cassato?
I lavoratori lo guardano con grande sospetto per via della forte decurtazione: quindi, per quello che mi riguarda, è un falso problema. Se è un ostacolo, può essere eliminato. Ma il ministro non si lamenti, l'ha suggerito lei.

il Fatto 10.10.12
Radio Radicale incassa per il 2013 10 milioni di euro


ANCHE STAVOLTA Radio Radicale si salva. La scure della spending review ha messo da parte 10 milioni di euro da destinare all’emittente del partito di Marco Pannella ed Emma Bonino che trasmette i lavori parlamentari e fa informazione politico-istituzionale 24 ore al giorno (oltre a raccontare le vicende interne del partito)..
E proprio in questo sta, secondo i Radicali, l’assenza di contraddizione tra la loro - reiterata - richiesta di abolire i fondi pubblici da destinare ai partiti e il fatto di esser finanziati dal governo: occupandosi di politica e istituzioni, ospitando voci di ogni genere, la radio merita 10 milioni di euro per l’anno 2013. A fine 2011, per il 2012, avevano ottenuto 7 milioni.


il Fatto 10.10.12
Che sorpresa, Fitoussi no-global


Il professore è noto in Francia, celebre in Italia soprattutto perché parla italiano e quindi è facilmente intervistabile. Ma certo Jean-Paul Fitoussi non era mai stato personaggio per il grande pubblico finché Adriano Celentano non lo ha invitato sul palco della sua RockEconomy, all’Arena di Verona, trasmesso su Canale 5. Settantenne giovanile, sempre elegantissimo, abbronzatura perfetta trasversale alle stagioni, accento sempre morbidamente parigino, Fitoussi ha stupito anche chi lo conosce nella sua veste professionale per i toni anti-sistema, perfettamente in linea con l’apologia della decrescita (l’idea che è sbagliato inseguire l’aumento del Pil) all’inizio della trasmissione. Fitoussi si è lanciato contro “il sistema”, denunciando addirittura la fine della democrazia per il prevalere delle logiche finanziarie sulla volontà popolare, “siamo quasi in dittatura, pensavo fosse una dittatura benevola ma ora non lo credo più”. Perfino il cantante-predicatore si scopre moderato, a confronto di Fitoussi.
AL PROFESSORE emerito di Sciences Po, l’università della classe dirigente francese, bisogna fare la tara: un po’ tutti gli economisti francesi, che non si sono mai convertiti alla deriva quantitativa degli americani, sono distruttivi, polemici, critici. Ma anche con questa premessa sono toni sorprendenti per chi da curriculum sembrerebbe un perno di quel sistema che, secondo lui, prepara la dittatura. In Francia è uno dei consulenti più ricercati, secondo soltanto a Jacques Attali, ha collaborato con il presidente Nicolas Sarkozy per un famoso rapporto sul progresso firmato con i Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. É amico di Dominique Strauss-Khan, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale travolto (e poi assolto) da uno scandalo sessuale, che doveva diventare presidente al posto di François Hollande. In Italia è docente alla Luiss, l’università della Confindustria, editorialista del quotidiano La Repubblica e membro del consiglio di amministrazione di due società simbolo del capitalismo di relazione, come Telecom Italia e la banca Intesa Sanpaolo.


Repubblica 10.10.12
Nuovi fantasmi perché gli operai hanno smesso di esistere
Un saggio di Airaudo, sindacalista della Fiom, sulla condizione dei lavoratori
Vengono raccolte una serie di storie e di testimonianze su questa metamorfosi
di Luciano Gallino


Il senso del libro di Airaudo, La solitudine dei lavoratori (Einaudi) è racchiuso nella frase con cui termina: «Dobbiamo riportare nella politica… la rappresentanza, e con questa la cittadinanza del lavoro, per uscire da quella solitudine che, per troppo tempo, in questo paese, ha trasformato in fantasmi le donne e gli uomini che lavorano». Responsabile del settore auto della Fiom, l’autore parla soprattutto di Fiat, ma quel che scrive vale per l’intera società italiana. Dove sembra che i massimi riconoscimenti in campo economico e sociale vadano di preferenza alle imprese e ai dirigenti i quali hanno stabilito che la democrazia, e perfino la Costituzione, si arrestano ai cancelli delle fabbriche e in genere dei luoghi di lavoro. Per primi i governi si sono sbracciati nell’elargire tali riconoscimenti soprattutto alla Fiat, ma tutto ciò che hanno concesso a questa nel campo delle relazioni industriali e delle riforme del mercato del lavoro si è rapidamente diffuso a gran parte dell’industria italiana.
Per contro le donne e gli uomini che lavorano sono stati trasformati in fantasmi, privati di ogni rappresentanza in politica perché nella quasi totalità i media e i politici non hanno la minima idea di un rapporto essenziale per la vita dentro le fabbriche. È il rapporto tra il lavoro alla catena e democrazia. Per illustrarlo l’autore richiama due casi assai efficaci.
C’è un operaio a Mirafiori (ne parlò mesi fa il Corriere della Sera) che da tredici anni avvita bulloni per montare le cinture di sicurezza sul lato destro delle vetture. Sono nove in tutto (sei di essi hanno un nome un po’ diverso, ma non fa differenza). Usando un attrezzo ad aria compressa che pesa parecchi chili, l’operaio, chiamato Sergio nel libro, impiega per montarli circa 180 secondi, tre minuti. Poi ricomincia la stessa operazione. In un anno monta più di 70.000 bulloni. Operazioni del tutto simili le fanno altre migliaia di Sergio e di Anna negli stabilimenti Fiat. Che cosa c’entra qui la democrazia lo spiega, in un’altra citazione, una delegata anch’essa di Mirafiori. L’accordo imposto dall’azienda la vincola a far rispettare i tempi di lavoro. Un traguardo che per molti Sergio e Anna può essere, sovente, difficile da raggiungere. Per diversi motivi: «Perché la linea di montaggio va troppo velocemente, o le pause sono insufficienti, o fa troppo caldo o troppo freddo o, ancora, i componenti da montare sono difettosi o mal posizionati ». Ma la delegata non può farci niente. L’accordo non consente che possa dichiarare sciopero, che ci siano mezzi per difendere i lavoratori o per farsi ascoltare dai capi, che la delegata trovi il modo di rappresentarli. La delegata, a norma di quel contratto legalmente stipulato, non conta niente. È un fantasma. E con lei non contano niente Sergio e Anna, in tutti gli stabilimenti Fiat, come in molte altre fabbriche. Devono soltanto ubbidire. La democrazia è stata fermata dai sorveglianti ai cancelli.
Il libro dedica giustamente spazio a un articolo della Costituzione, il 4, che di solito è poco presente nella discussione sulle relazioni industriali e le politiche del lavoro. In realtà è un articolo fondamentale, perché vari articoli della Carta, dal 35 in avanti, parlano di diritti del lavoro, riferendosi palesemente a chi un lavoro ce l’ha, mentre questo afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». A rigore, potrebbe essere inteso nel senso che lo stato si adopera per dare un lavoro a tutti. Un pronunciamento della Corte costituzionale di vari anni fa ne ha temperato la portata a tale fine, ma è fuor di dubbio, nota l’autore, che nel sancire il principio del diritto al lavoro sta il nucleo del diritto alla stabilità del posto. La legislazione del lavoro degli ultimi quindici anni, sino alla recente riforma, ha totalmente disatteso il principio dell’art. 4. Un tema che percorre tutto il libro è ovviamente il disimpegno di Fiat dall’Italia. Nel 1989 la produzione era giunta a superare nel paese i 2 milioni di vetture. Quest’anno si prevede che non supererà di molto le 450.000. C’è la crisi, dice l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Però la crisi ha fatto scendere le vendite del 25 per cento in Europa, non dell’80 per cento. Al fine di giustificare il disimpegno la società ha imputato ai lavoratori e al suo sindacato più diffuso, la Fiom, ogni sorta di inadempienze, dagli eccessi di assenteismo agli intralci recati alla produzione dai sindacalisti e dagli operai, alla vetustà dei contratti di lavoro. A questi si è pensato bene di ovviare con l’accordo di Pomigliano del 2010, esteso poi agli altri stabilimenti del gruppo. Il succo di esso è che Sergio (l’operaio, non l’amministratore delegato) dovrebbe avvitare un maggior numero di bulloni al giorno, facendo meno pause durante l’orario, e lavorare se necessario anche 200 ore in più all’anno. Che vuol dire oltre un mese di lavoro in aggiunta agli altri e tanta fatica in più, ogni giorno. A fronte di tanti diritti in meno. Politici e commentatori di destra e di centro- sinistra hanno plaudito, in nome della modernizzazione delle relazioni industriali e della competitività. Provasse mai, qualcuno di loro, ad avvitare mille bulloni al giorno.

l’Unità 10.10.12
Diminuiscono gli aborti
Ma è record di obiettori
di Riccardo Valdes


ROMA Dall’entrata in vigore della legge sull' aborto, la 194 del 1978, in Italia si è registrata una costante diminuzione degli aborti, fino ad arrivare nel 2011 a registrare un decremento del 5,6 rispetto all’anno precedente. È il quadro tracciato dal ministro della Salute Renato Balduzzi nella presentazione alla Relazione 2012 sulla legge 194, che il ministro ha firmato e inviato ieri mattina al Parlamento.
Nella relazione vengono illustrati i dati preliminari per l'anno 2011 e i dati definitivi relativi all'anno 2010 sull'attuazione della legge n. 194 del 1978. «L'esperienza applicativa della legge n. 194 pone in evidenza come, dopo un iniziale aumento per la completa emersione dell'aborto dalla clandestinità, la cui entita prima della legalizzazione era stimata tra i 220 e i 500mila aborti l'anno, si sia potuta osservare una costante diminuzione dell'Ivg nel nostro Paese», sottolinea Balduzzi. In particolare nel 2011 sono state effettuate 109.538 Ivg (dato provvisorio), con un decremento del 5,6% rispetto al dato definitivo del 2010 (115.981 casi) e un decremento del 53,3% rispetto al 1982, anno in cui si e registrato il piu alto ricorso all'Ivg.
Se gli aborti calano in Italia, il numero di ginecologi, anestesisti e personale non medico obiettore continua invece a essere altissimo, anche se nel 2010, rispetto agli anni precedenti, sembra essersi stabilizzato almeno tra i medici. Tra i ginecologi infatti si è passati dal 58,7% del 2005 al 70,7% nel 2009 e al 69,3% nel 2010. È questo uno dei dati che emerge dalla relazione al Parlamento sulla legge 194 depositata oggi dal ministro della Salute, Renato Balduzzi. Per quanto riguarda gli anestesisti, negli stessi anni, il tasso di obiezione è passato dal 45,7% al 50,8%, mentre tra il personale non medico si è osservato un ulteriore incremento, con valori di obiezione saliti dal 38,6% nel 2005 al 44,7% nel 2010. La relazione rileva comunque come al sud vi siano percentuali di obiezione più alte, superiori all'80%: 85,2% in Basilicata, 83,9% in Campania, 85,7% in Molise, 80,6% in Sicilia, come pure a Bolzano con l'81%. Anche per gli anestesisti i valori più elevati si osservano al sud (con un massimo del 75% in Molise e in Campania e del 78,1% in Sicilia) e i più bassi in Toscana (27,7%) e in Valle d'Aosta (26,3%).
«Abbiamo più volte denunciato il fenomeno grave del numero troppo elevato di obiettori di coscienza, che rende difficile l'attuazione della legge 194. Le strutture ospedaliere devono garantire che le donne che decidono di fare ricorso all'interruzione volontaria di gravidanza possano farlo senza incontrare troppi ostacoli». Lo dice la senatrice del Pd Vittoria Franco.

La Stampa 10.10.12
In 30 anni aborti dimezzati. Raddoppia l’uso di Ru486
Legge 194, la relazione del Ministro: “Potenziare i consultori”
di Rosaria Talarico


In Italia le donne abortiscono sempre di meno. Nel 2011 infatti le interruzioni volontarie di gravidanza (esclusi quindi gli aborti per cause naturali o per patologie) sono state 109.538, facendo registrare un meno 5,6% rispetto al 2010 (115.981 casi). Ma a balzare agli occhi è il confronto con il 1982, l’anno in cui il ricorso all’aborto ha toccato il picco con quasi 235 mila interruzioni di gravidanza: in trent’anni gli aborti sono calati di oltre la metà (-53,3%). Questi dati emergono dalla relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194 del 1978, che introdusse nel nostro ordinamento l’interruzione volontaria di gravidanza e le norme per la tutela sociale della maternità. Da allora passi avanti ne sono stati fatti parecchi, come ricorda lo stesso ministro della Salute Renato Balduzzi.
«La riduzione percentuale di aborti ripetuti - ha spiegato il ministro - è la più significativa dimostrazione del cambiamento nel tempo del rischio di gravidanze indesiderate, poiché, se tale rischio fosse rimasto costante nel tempo, si sarebbero avute attualmente percentuali doppie rispetto a quelle osservate». In questo un’opera costante di supporto e informazione viene svolta dai consultori familiari.
La sostanziale riduzione dell’aborto clandestino e l’eliminazione della mortalità materna purtroppo spesso conseguente è stata possibile, prosegue Balduzzi «grazie alla promozione di un maggiore e più efficace ricorso a metodi di procreazione consapevole, alternativi all’aborto, secondo gli auspici della legge. Per conseguire tale obiettivo è importante potenziare la rete dei consultori familiari, che costituiscono i servizi di gran lunga più competenti nell’attivazione di reti di sostegno per la maternità, in collaborazione con i servizi sociali dei comuni e con il privato sociale».
I dati sono stati raccolti grazie al contributo dell’Istituto superiore di sanità (Iss), il ministero della Salute e l’Istat da una parte, le Regioni e le Province autonome dall’altra. Il tasso di abortività (cioè numero delle interruzioni volontarie di gravidanza per mille donne in età feconda tra 15-49 anni) è l’indicatore più accurato per valutare il fenomeno. Nel 2011 è risultato pari a 7,8 per mille, con un decremento del 5,3% rispetto al 2010 (8,3 per mille). Il valore italiano è tra i più bassi di quelli osservati nei Paesi industrializzati.
A livello geografico, si sono verificati più aborti con minorenni nelle Isole (4,4%) ; seguono le regioni centrali (3,3%), quelle del Nord (3,2%) e l’Italia meridionale (3,1). Per quanto riguarda le Regioni, in testa alla classifica ci sono la Sicilia e la Liguria (4,5%).
Riferendosi al tasso di abortività (per 1.000 donne), si registrano più aborti con minorenni al Centro (5,4), quindi il Nord (5), le Isole (3,9) e il Sud (3,5). Tra le Regioni al primo posto c’è ancora la Liguria (8,5), poi il Piemonte (6,3) e il Lazio (6,2). Nel 2010 le interruzioni volontarie di gravidanza effettuate da minorenni (15-17 anni) sono state 3.828, il 3,3% del totale. L’autorizzazione all’aborto per le minorenni è stata data dai genitori nel 70,8% dei casi e dai giudici nel 27%.
Bilancio positivo anche sul fronte della Ru486, la contestatissima pillola del giorno dopo, introdotta in Italia nel2009. Non si sono registrate complicazioni successive al suo utilizzo nel 96,1% dei casi. Inoltre se nel 2010 la pillola era stata usata in 3.836 casi (il 3,3% del totale), solo nel primo semestre 2011 si contano quasi altrettanti casi (3.404), facendo ipotizzare che il dato finale sarà circa raddoppiato. Particolare attenzione dovrà invece essere rivolta alle donne straniere, a maggior rischio di ricorso all’aborto.

l’Unità 10.10.12
Suicidi in carcere, sono sempre più giovani
L’età media di chi perde la vita dietro le sbarre è di 38 anni rispetto ai 45 del 2000. Negli ultimi 12 anni sono morte 2.056 persone 756 delle quali per suicidio
di Davide Madeddu


Aveva meno di trent’anni. Ha deciso di farla finita, qualche giorno fa, impiccandosi alla grata del bagno con la cinta dell’accappatoio nel carcere di Belluno. Lui, giovane tunisino è l’ultimo detenuto che quest’anno si è ucciso in carcere. L’ultimo di un elenco che da gennaio al 6 ottobre conta 44 persone. A raccontare la sua storia è stata l’associazione Ristretti Orizzonti che cura e aggiorna costantemente il dossier «morire di carcere».
A leggerlo poi nel dettaglio si capisce che i numeri forniti sono quasi da bollettino di guerra. Negli ultimi 12 anni, ossia dal 2000 al 2012 nelle carceri d’Italia sono morte 2056 persone, 756 delle quali per suicidio. Numeri importanti che si ripetono più o meno di anno in anno. E che riguardano persone, uomini e donne. Dall’inizio del 2012 al 6 ottobre, si sono registrati 44 suicidi su un numero complessivo di 123 morti. E sempre secondo quanto spiegano i volontari nel dossier, anche l’età di chi muore in carcere nel corso degli anni si è abbassata. Se nel 2000 l’età media di chi moriva dietro le sbarre era di 45 anni ora è di 38 anni. Una situazione che i rappresentanti delle associazioni impegnate quotidianamente nel mondo carcerario definiscono «preoccupante». Soprattutto perché all’interno delle carceri si continuano a fare i conti con il sovraffollamento. Che non vuole dire solo far stare stretti i detenuti.
«Il sovraffollamento si ripercuote su tutto quello che riguarda la vita del carcere spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti -, dal lavoro all’assistenza sanitaria, continuando con la scuola». Basti un esempio. «Oggi capita che in una sezione dove ci stavano 25 persone che ce ne siano 75 spiega è chiaro che tutte queste persone si riversano in un sistema sanitario rimasto uguale al passato con le stesse risorse economiche e umane del passato». Senza dimenticare poi gli spazi. «Molto spesso in celle che hanno dimensioni tre metri per tre aggiunge devono convivere tre persone che assieme a tutti gli altri devono stare negli stessi passeggi e utilizzare le stesse docce».
Risultato? «C’è gente che passa il suo tempo a non far niente spiega -. I suicidi nascono in una situazione in assenza di futuro. C’è disperazione e soprattutto c’è l’assenza di prospettive». Situazione diffusa in tutta Italia come si legge ancora nel dossier e conferma anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Per commentare i dati del dossier l’esponente di Antigone non usa giri di parole: «Diciamo che sono numeri tragici commenta già un morto basta per indignarsi». Poi il rappresentante dell’associazione che si occupa di diritti dei detenuti aggiunge: «Dopo le parole del presidente Napolitano non è successo niente forse dobbiamo aspettare tempi migliori». Fa una premessa Riccardo Arena, conduttore di Radiocarcere (martedì e giovedì) su Radio Radicale. «E’ evidente che non bisogna generalizzare spiega -.
Infatti ogni suicidio, ogni decesso per malattia deve essere analizzato singolarmente. Ma è altrettanto evidente che, di fronte a queste cifre, si può tranquillamente affermare come in Italia, pur non essendoci la pena di morte, per una pena si può morire». Quanto ai suicidi spiega che «nelle carceri sono, molto spesso, la conseguenza dell’abbandono di singole persone. Persone inascoltate, non seguite adeguatamente che poi una notte si impiccano in bagno. Non suicidi quindi. Ma persone suicidate da un sistema carcerario che non è in grado di gestire problematiche differenti». Sul versante malattie invece spiega che «Ci troviamo spesso dinanzi alla negazione del diritto alla salute. Molte delle persone detenute morte in carcere sono decedute perché non curate». Soluzioni? «Occorre intervenire su più fronti, riformando il sistema delle pene e il processo penale. Riforma che spetterebbe al Parlamento. Ma chi in questo parlamento ha interesse a un processo che termina in un anno anziché in 8, 9 e anche 10 anni? ».

Repubblica 10.10.12
La Weimar greca
di Barbara Spinelli


Ancora non è chiaro, ma se Angela Merkel ieri è corsa a Atene – dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera – vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino. Uno spavento che si è dilatato, dopo l’intervista di Antonis Samaras al quotidiano
Handelsblatt di venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo. La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell’essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell’intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.
Il caos, i tedeschi sanno cos’è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: Weimar è oggi a Atene, e anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà.
Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l’Unione, e tutto quel che l’Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare.
Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L’odio dell’immigrante,del gay, del disabile, è la sua ragion d’essere. Se l’Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L’ex Premier George Papandreou è bollato come «greco al 25 per cento»: la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.
Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell’euro, quanto il tracollo delle mura che l’Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l’Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato. Oltrepassare i calcoli sull’euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.
Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell’accordo di Londra sul debito estero, nel ’53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l’hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell’occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). «Le riparazioni non sono più un problema », replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.
La Grecia certo non è senza colpe. All’indisciplina di bilancio s’accoppiano la corruzione politica, l’enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell’italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d’opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.
In fondo non c’è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi). I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos – una specie di Montalbano greco – sono conosciuti in Italia. L’ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s’intitola L’Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l’altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L’assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados di Piazza Sìntagma vogliono candidarlo: «L’Esattore nazionale è un Dio! », gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos, che raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: «Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all’azione politica». Il sottotitolo di Khaos è «i volti umani della crisi»: volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d’esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell’Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico.
Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione – oggi anacronistica – quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, «perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo». Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.
«Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi», conclude il filosofo: «In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a un federalismo esecutivo.
La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l’occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto».
L’ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l’intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l’allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l’impervia corsa della Merkel a Atene. Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All’orizzonte si staglia la figura dell’Esattore Nazionale, salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide i traditori della democrazia. È così, dai tempi dell’Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.

La Stampa 10.10.12
La Buchmesse al tempo del Big Bang
Si apre oggi la kermesse dell’editoria: le tecnologie digitali stanno facendo nascere il nuovo universo del libro
di Mario Baudino


C’ è anche il bosone di Higgins fra gli ospiti della Fiera di Francoforte, che si apre oggi dopo due giorni di frenetiche pre-contrattazioni nei grandi alberghi del centro. I ricercatori del Cern di Ginevra hanno costruito in una hall una sorta di facsimile del loro acceleratore, che simula la collisione fra protoni. E intanto, il più grande mercato internazionale per i diritti editoriali parte anch’esso all’insegna dell’accelerazione. Dopo due edizioni poco ottimiste, quest’anno molti hanno voglia di aumentare il passo. E quei «molti» sono 7400 espositori da 104 Paesi, alla ricerca di nuovi modelli. Secondo Jurgen Boos, direttore della Fiera, il mondo dell’editoria sta vivendo un suo «Big Bang», tanto per restare al linguaggio della scienza.
Un nuovo universo è sul punto di materializzarsi. Come sia, nessuno lo sa, ma la sensazione generale è che tutto stia cambiando fulmineamente. Quando i libri finiscono sui tablet - è il ragionamento di Cristina Foschini, del gruppo Gems - non competono più con altri libri, come è sempre accaduto, ma con innumerevoli altri prodotti mediatici. E questo finisce per mutare l’idea stessa di libro. Prendiamo l’ultimo successo planetario, e cioè le Cinquanta sfumature australiane, nate sulla rete e vendute in decine di milioni di copie in tutto il mondo nei tre volumi che le declinano al grigio, al rosso e al nero (con buona pace di Stendhal). Ci si può legittimamente chiedere se è ancora un libro, o un fenomeno, o un format. Intanto marchia la Fiera, sommersa di proposte simili, soprattutto da agenti ed editori americani, ma anche da ripescaggi clamorosi. Bompiani ad esempio ha appena rinnovato i diritti per un classico come l’ Histoire d’O, suo antico titolo di catalogo con prefazione di Alberto Moravia, battendosi in un’asta indetta da Fayard. Ora verrà ripubblicato in una nuova, smagliante traduzione.
Ieri, vigilia dell’apertura, il caso di giornata era però un libro atipico, difficilmente catalogabile, ma ancora di un australiano, Graeme Simsion. Si intitola The Rosie Project ed è il diario di un genetista affetto - senza saperlo - dalla sindrome di Asperger, che decide di trovare moglie. La malattia di cui soffre inibisce le emozioni, è una specie di autismo. In questo caso l’effetto del diario è spesso esilarante e altrettanto spesso agghiacciante, tra clinica e narrazione. Per l’Italia se lo è già assicurato Longanesi, ma le aste furoreggiano. Qualcosa di analogo è accaduto per il romanzo dell’esordiente americano Peter Swanson - ma qui siamo più vicini alla narrativa intesa in senso tradizionale - con The Girl with a Clock for a Heart, un thriller basato sulla misteriosa ricomparsa di una ragazza che si credeva morta suicida vent’anni prima. E che chiede un favore al suo innamorato d’allora. Anche in questo caso gli italiani - diritti trattati dall’agenzia di Roberto Santachiara - sono arrivati prima della Fiera, e se lo è assicurato l’Einaudi per Stile Libero. Per il resto del mondo, ci si batte a Francoforte. Per le edizioni in lingua inglese, pare si sia arrivati a 400 mila dollari.
Il colpo più grosso, però, è ancora una volta un «libroide», o se vogliamo un libro totalmente trasversale, di quelli oltre il Big Bang: Not That Kind Of Girl, ovvero i consigli di vita (cibo, sesso, viaggi) di Lena Dunham, ventiseienne creatrice e protagonista di Girls, la serie tv di maggior successo in America: Random House le ha pagato un anticipo di 3,5 milioni, ora l’aspetta un ruolo da star alla Fiera. Girls debutta proprio oggi, da noi, su Mtv. E in attesa dei risultati di pubblico, l’agenzia Santachiara che tratta i diritti per l’Italia ed ha già ricevuto varie offerte non sembra aver fretta di concludere.
I nostri editori non sono comunque alla Buchmesse solo per comperare. Anzi, i libri italiani si esportano sempre meglio, ormai da qualche anno. Molti i titoli, primo fra tutti Fai bei sogni, il best seller di Massimo Gramellini, già venduto dalla Longanesi in 13 Paesi - tutti quelli più importanti - e ora pronto a fronteggiare la ressa dei «piccoli». Rizzoli punta su due esordienti (coincidenza: abitano entrambe a Savona): Daniela Piazza, appena pubblicata con Il tempio della luce, e Emanuela Ersilia Abbadessa, in uscita all’inizio del 2013 con Capo Scirocco, straordinaria storia siciliana di amore e di ombre su cui si sta accendendo molto interesse, ambientata a fine Ottocento in una città che ricorda molto da vicino Catania.
Bompiani, oltre alle Terre leggendarie di Umberto Eco, registra un nuovo interesse americano per Vincenzo Latronico e Andrea De Carlo. Sellerio ha parecchi autori in uscita, ma il suo portabandiera, dopo il successo in Germania (che in genere catalizza l’interesse europeo), è Marco Malvaldi con Non tutti i bastardi sono di Vienna. L’elemento nuovo che sembra emergere per quanto riguarda i libri italiani è però la loro durata. Rosaria Carpinelli, agente di autori come Margaret Mazzantini e Gianrico Carofiglio, nota come rinasca a folate un vivo interesse per libri pubblicati ormai da anni (esempio tipico è Nessuno si salva da solo della Mazzantini, che è appena uscito in Russia con grande successo) e soprattutto che si aprono mercati fino a ieri imprevedibili, al di là dell’Europa. Il passato è una terra straniera di Carofiglio, ad esempio, è fresco di stampa in Viet Nam. Al momento senza polemiche su scribacchini e mestieranti.

Repubblica 10.10.12
E Francoforte scopre la “human economy”
Molti tra i testi presentati alla Buchmesse sono critiche al neo-liberismo
di Vanna Vannuccini


FRANCOFORTE Abbiamo comprato crescita economica e venduto stabilità, ora vogliamo un’economia che tenga conto delle persone: humanomics invece che economics.
Quattro anni dopo il crash della Lehman, le critiche a un capitalismo insieme informe e onnipotente sono la novità quest’anno alla Buchmesse. La “distruzione creatrice” che tiene in piedi il capitalismo sembra non aver perso di verità e ha spinto gli economisti a scrivere libri per spiegare l’economia ai laici. La crisi finanziaria, mutata in crisi del debito e poi in crisi dell’euro, è oggi sempre più una crisi di fiducia: non si fidano i mercati, non si fidano gli investitori, non si fidano gli elettori. Leggere aiuta. E non sono solo gli economisti a scrivere. A sorpresa, ricompaiono gli scrittori “politici”. Almeno tre tra i più noti autori di lingua tedesca si sono reinventati il libro “impegnato”, un genere che era finito dai tempi di Günter Grass. Affrontando temi come la democrazia (Ingo Schulze), l’Europa (Robert Menasse), il manager onesto (Rainald Goetz). Forse qua e là peccano di idealismo, ma restano una novità. Per Ingo Schulze ( I nostri bei vestiti nuovi, Hanser Berlin) è stata una formula usata dalla cancelliera Merkel – «democrazia conforme al mercato » – a farlo sobbalzare. Quella formula gli appare un tradimento della politica: «Non dovrebbero invece essere gli attori in Borsa a cercare di riconquistarsi la fiducia della società? Non di democrazia conforme al mercato si dovrebbe parlare, ma di mercati conformi alla democrazia».
“Siamo il 99 per cento” era lo slogan di Occupy Wall Street e anche se il movimento è finito, quello slogan descrive perfettamente il problema delle grandi disuguaglianze che, come scrive il premio Nobel Stiglitz ne Il prezzo della disuguaglianza, sono un pericolo per l’economia e ancor più per la democrazia. A Francoforte verrà premiato questa settimana per L’economia del bene e del male (Garzanti) Tomas Sedlacek, un economista trentacinquenne ceco che era stato consigliere economico di Vaclav Havel e che esplora le fonti del pensiero economico da Gilgamesh a Wall Street, attraverso la Bibbia e i filosofi greci. Per dare un fondamento teorico alle nuove critiche ai modelli economici correnti. La riduzione dell’uomo a agente economico razionale che cerca di ottimizzare il proprio tornaconto ha portato all’esclusione di qualsiasi agire etico, sconfessando perfino Adam Smith (però gli economisti oggi devono congedarsi dall’idea di Smith della “mano invisibile del mercato”). Abbiamo creato un sistema che crolla se sta fermo, dice Sedlacek, come se un’automobile esplodesse quando non cammina. Un “keynesianismo bastardo” perché se nei momenti cattivi i deficit vanno bene, in quelli buoni dovrebbero venir ripianati, mentre in Occidente si è fatta solo la prima cosa, condendola di populismo.
Il problema è se l’economia funzioni come noi vogliamo; e questo ci riporta a questioni filosofiche: vogliamo una società giusta o una società stabile o una società fissata sulla crescita? Il libro di Sedlacek è diventato una commedia che viene data a Praga (anche su Youtube) e lui a volte vi recita. E intanto scrive un libro di dialoghi con David Orrell, un matematico canadese autore di un bestseller sui Miti dell’economia: dieci modi in cui l’economia sbagliae un altro con David Graeber, l’autore di Debito (sottotitolo: “I primi 5000 anni”, Il Saggiatore). Anche Susanne Schmidt, figlia dell’ex cancelliere, presenta alla Buchmesse una rinnovata critica alle banche: Come le banche governano la politica (Droemer). E a Francoforte ci si è ricordati che anche Goethe era critico della corsa folle al denaro e il suo Faust II viene rappresentato come un’allegoria del capitalismo. Gli editori italiani fanno già oggi un primo bilancio: Ponte alle Grazie festeggia Emanuele Trevi che riceverà con il suo Qualcosa di scritto lo European Union Prize for Literature 2012, mentre Bompiani ha acquistato il libro del giovanissimo Joël Dicker, finalista al Goncourt, La vérité sur l'Affaire Harry Quebert, titolo importante della Fiera.

Repubblica 10.10.12
Caput Mundi
La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano
Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo
di Maurizio Bettini


Quintiliano afferma che «l’antichità produce molta autorità, come accade a coloro che si dice siano nati dalla terra». Ecco un genere di auctoritas che i Romani non si sono mai sognati di reclamare. Al contrario, nel latino colloquiale l’espressione “nato dalla terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, come diremmo noi. Di sicuro gli Ateniesi, che si volevano nati direttamente dal suolo dell’Attica (fieri della loro “autoctonia”, come la chiamavano), non avrebbero apprezzato questo modo di dire. Lungi dal dichiarare di essere nati dalla terra laziale, i Romani preferivano descriversi come discendenti di un gruppo di Troiani che si erano fusi con la popolazione laziale, secondo la versione del mito resa celebre da Virgilio; in seguito questi discendenti di matrimoni misti avevano fondato prima la città di Lavinium, poi quella di Alba Longa. Dopo di che, da Alba due gemelli si erano a loro volta staccati per fondare una nuova città, Roma – ma solo per popolarla di uomini venuti a loro volta da ogni parte, proclamando apertamente che la nuova città aveva natura di asylum.
«Dalle popolazioni vicine » scriveva Livio «confluì una turba indiscriminata – non importava se fossero liberi o schiavi – gente bramosa di novità, e questo fu il nerbo della futura grandezza». Il nerbo della magnitudo romana – quella “grandezza” che per i Romani corrisponde alla loro stessa identità – si fonda sulla commistione di uomini venuti da fuori. Roma è già ai suoi albori una città aperta.
Ora una mostra parte dal mito fondativo della città per ripercorrerne le tappe, dalla conquista dell’Italia, all’espandersi del potere nelle province più lontane, fino alla creazione di quello straordinario melting pot religioso e culturale che è stato l’Impero. Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, (promossa dalla Soprintendenza ai Beni archeologici, curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando) attraverso un centinaio tra sculture, bassorilievi, mosaici, calchi, suppellettili, racconta l’unicum che fu l’avventura di Roma nella storia. La mostra si articola in tre sedi espositive: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro romano, che ospita un’interessante appendice dedicata al mito moderno della città: dall’uso politico che ne fecero le rivoluzioni e le dittature, all’uso spettacolare che ne fece il cinema.
Ma in che modo i Romani immaginarono il momento cruciale della propria origine, la fondazione della città? Ce lo racconta Plutarco. Dunque Romolo «scavò una fossa di forma circolare nel luogo dove sta ora il Comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo la consuetudine e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, cioè mundus.
In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini… Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium».
Inutile dire che la fossa scavata da Romolo, il mundus, è caricata di un grande significato. In essa vengono infatti gettati sia prodotti della cultura (la “consuetudine”), sia prodotti della natura, a significare la creazione di una nuova civiltà. Inoltre in questa fossa vengono gettate zolle tratte dalle rispettive terre patrie di coloro che si sono uniti a Romolo. Questo rimescolamento di terre venute da lontano, e fuse con il suolo laziale, rispecchia perfettamente il rimescolamento di uomini che caratterizza l’asylum. Accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo della città diventa specchio degli uomini che lo calpestano, terra “mescolata” così come “mescolati” sono i futuri abitanti della città. È evidente che questa rappresentazione ha un forte significato politico. Descrivendo la nascita della città come un rimescolamento di terre disparate e come una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate, i Romani mettono in evidenza uno dei caratteri principali della loro cultura: ossia l’apertura verso gli altri. Non a caso Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza.
Naturalmente, l’altra faccia della medaglia è la volontà di potenza dell’urbe: e il suo destino è ben racchiuso nel celebre verso virgiliano che la descrive come «città destinata a parcere subiectis et debellare superbos».
Lo cita la soprintendente Mariarosaria Barbera nel catalogo Electa, aggiungendo che «alcuni secoli più tardi, all’indomani del terribile sacco di Alarico, Rutilio Namaziano ricorda la stupefacente capacità di amalgamare popoli e civiltà (fecisti patriam diversis de gentibus unam).
Tale doppia natura emerge chiarissima nel confronto tra il concetto di “patria comune a tutta la terra”, proposto dal retore Elio Aristide; e quello, assai più famoso, del “deserto che [i Romani massacratori] chiamano pace”, riportato da Tacito nel celebre discorso antiromano del capo Britanno Calgaco (Agricola 30)».
In mostra è testimoniato un passaggio chiave del sistema Roma: quello che i curatori chiamano “Il manifesto dell’integrazione romana” e cioè il discorso che l’imperatore Claudio fece perché il Senato ammettesse i maggiorenti delle tre Gallie. La lapide dell’orazione e la scultura dell’imperatore (proveniente dall’Archeologico di Napoli) sono esposti nella Curia Iulia.
Ma torniamo alla fossa scavata da Romolo al centro della fondazione: la cosa interessante è che porta il nome di mundus, cioè “mondo”. D’altronde gli autori romani, per esempio, sottolineano con una certa enfasi il carattere di orbis, di “cerchio”, che caratterizza il tracciato di fondazione; e anzi mettono in risonanza questa parola con il termine urbs, quasi che il cerchio / orbis e la città / urbs fossero la stessa cosa. Ma orbis non è forse la parola che designa anche l’orbis terrarum, il mondo intero? A questo punto, però, la cosa migliore è tornare a quella fascia circolare, chiamata pomoerium, che secondo il racconto di Plutarco corrispondeva direttamente al tracciato del solco scavato da Romolo. La cultura romana attribuiva una grande importanza al pomoerium.
Questa zona costituiva il confine religioso della città, con particolare riferimento al rapporto fra le attività militari e quelle civili. La cosa interessante però è che, secondo “un costume antico”, come lo definisce Tacito, il comandante che aveva ampliato i confini dell’impero aveva il potere di ampliare anche quelli del pomoerium: tanto che «il pomoerium si ampliò in proporzione alla fortuna di Roma». Dunque il pomoerium è messo direttamente in corrispondenza con i confini dell’impero. Nella concezione romana, marcando il pomoeriumRomolo anticipa, o meglio pre-disegna anche lo spazio esterno di cui i Romani, in proporzione alla loro crescente fortuna, sono destinati a impadronirsi. Questo rapporto scalare fra pomoerium da un lato, e terre conquistate dall’altro, fa probabilmente da sfondo a certe dichiarazioni dei poeti augustei secondo cui la Urbs romana si identifica davvero con l’orbis terrarum. Basterà citare questo distico di Ovidio: «ad altre genti è data una terra segnata da un limite certo: ma lo spazio dell’Urbsromana è lo stesso dell’orbis».

Informazioni utili
“Roma Caput Mundi - Una città tra dominio e integrazione”, Colosseo - Foro romano, Roma, fino al 10 marzo 2013. Promossa dalla Soprintendenza dei Beni archeologici, a cura di Andrea Giardina e Fabrizio Pesando. Orari: dalle 8.30 a un’ora prima del tramonto. Ingresso: 12 euro; ridotto 7,50. Con il biglietto si accede al Colosseo, al Foro romano e al Palatino. Biglietti su www.coopculture.it. L’app iMiBAC Top 40 permette l’acquisto con smartphone. Informazioni: 06-39967700. Catalogo: Electa

Repubblica 10.10.12
Ma l’Impero caduto colpisce ancora
L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi
di Marino Niola


Roma è l’esempio di quel che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Nel geniale paradosso di Andy Warhol c’è la chiave del mito della città eterna. Un mito senza data di scadenza, proprio come le sue rovine. Che alimentano da tempi immemorabili l’immaginario del mondo. Facendo del Colosseo e delle Terme di Caracalla, dei Fori e di Ponte Milvio, del Campidoglio e della Domus Aurea altrettanti luoghi dell’anima. Si può dire che, ancor più di Roma in sé, a produrre da sempre mitologia sia Roma in noi. È dalla fondazione della città, nata dal duello mortale tra i fratelli coltelli Romolo e Remo, che i colli fatali dell’Urbe diventano lo sfondo che dà senso alle diverse vicende degli uomini e delle nazioni. Grandezza e decadenza, virtù e vizi, sobrietà e corruzione, democrazia e tirannide, repubbliche e imperi. Opposti che trovano nella romanità una coincidenza. E nelle sue rovine un’allegoria dai mille significati. Forse perché, come diceva Goethe, quelle vestigia sono di una magnificenza e di uno sfacelo tanto straordinari da diventare entrambi emblematici. Ecco perché il cristallo capitolino non ha mai smesso di brillare e proietta i suoi bagliori fino a noi. Già da quando i Visigoti di Alarico mettono a sacco la città nel 410 dopo Cristo scrivendo la parola fine sul dominio imperiale quirita. Ma come è noto, l’impero colpisce ancora. E comincia a farlo da subito trasferendosi armi e bagagli in Oriente, nella Costantinopoli di Giustiniano, il sovrano illuminato che prende in mano la grande eredità giuridica latina e regala al mondo quel corpus iuris che è la base dei diritti moderni.
Insomma, Roma è il mito politico per eccellenza, buono per tutte le stagioni, da Cesare a Mussolini. Non a caso l’astuto Carlo Magno, re dei Franchi, si fa incoronare imperatore del Sacro romano impero proprio nella chiesa di San Pietro, la notte di Natale dell’800 dopo Cristo. E la stessa cosa faranno gli imperatori di Germania, in primis Federico II, dopo il fatidico giro di boa dell’anno Mille che chiude la lunga notte del Medioevo barbarico e inaugura l’attesa della rinascita umanistica. Che avviene sotto il segno di una Roma dalla doppia anima. Che mette insieme la sua nascita pagana e la sua rinascita cristiana. L’uccisione di Remo che fonda la città e il martirio di Pietro che la rifonda. Con il papa che prende il posto dell’imperatore. Il cristianesimo insomma cambia l’immagine della città, da caput mundi a caput ecclesiae.
Traducendo in termini nuovi il destino universalista che lega a doppio filo l’urbe e l’orbe. Roma è un sogno che la chiesa custodisce tenacemente. Sono parole di Leo Longanesi che riecheggiano alla grande nelle oniriche sagome cardinalizie che attraversano il cinema di Fellini. Ed è proprio il grande schermo a rimettere in moto la macchina del mito romano. Con capolavori come Ben Hur e Quo vadis?, kolossal hollywoodiani in cui l’America vittoriosa nella seconda guerra mondiale si identifica con i martiri cristiani vittime del dispotismo pagano. Rappresentato da un Nerone in camicia nera che si gode cantando lo spettacolo di Roma in fiamme. L’allusione alla romanità fascista non poteva essere più chiara. Come dice Andrea Giardina nel suo bellissimo libro su Roma dopo Roma, sarà proprio il generale Clark, capo dell’esercito di liberazione, a mettersi nei panni di Cesare entrando da trionfatore in Roma dall’Appia antica. Senza trascurare di fermarsi ad ammirare i monumenti che la punteggiano. È la città aperta che inizia la sua conversione in mito turistico. Final destination delle vacanze romane.

l’Unità 10.10.12
Haroche e Wineland
Il Nobel della fisica ai «cacciatori quantistici» per aver catturato il gatto di Schrödinger
di Pietro Greco


HANNO CATTURATO IL GATTO DI SCHRÖDINGER. E PER QUESTO HANNO VINTO IL PREMIO NOBEL PER LA FISICA 2012. I DUE CACCIATORI QUANTISTICI sono il francese Serge Haroche, 68 anni, in forze al Collège de France e all’École Normale Supérieure di Parigi, e l’americano David J. Wineland, 68 anni anche lui e ricercatore sia presso il National Institute of Standards and Technology sia presso la University of Colorado a Boulder, in Colorado.
Haroche e Wineland sono fisici sperimentali, esperti di ottica quantistica. Hanno lavorato in maniera del tutto indipendente. E hanno messo a punto due trappole diverse. Ma entrambi sono riusciti in un’impresa che Erwin Schrödinger pensava impossibile: catturare il suo famoso gatto. Un’impresa che ha sia una notevole ricaduta teorica, sia, almeno in prospettiva, una forte ricaduta applicativa. È grazie alle loro «trappole», infatti, che si faranno probabilmente salti spettacolari sia nel campo dei computer sia nel campo della misura del tempo, ovvero nella costruzione di orologi.
Non è il caso di addentrarsi nelle tecniche che hanno utilizzato. Diciamo solo con un minimo di correttezza scientifica che hanno vinto il premio per aver realizzato strumenti che consentono di isolare e anche di manipolare particelle senza modificarne la natura quantistica. Haroche ha messo a punto trappole per isolare un singolo fotone e facendolo «interrogare» da atomi senza modificarne la natura. Wineland, al contrario, ha messo a punto un sistema di isolamento di singoli ioni (atomi carichi elettricamente) e interrogandoli con fotoni luminosi. Ma, forse, capiamo di più perché hanno vinto (meritatamente) il premio se come suggerisce la stessa Fondazione Nobel che glielo ha assegnato ricorriamo al noto e talvolta abusato paradosso del «gatto di Schrödinger».
Tutto nasce alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, quando nasce la meccanica dei quanti ed emerge chiara la bizzarra fisica che governa l’universo alla scala delle particelle microscopiche, quella degli elettroni, dei fotoni e anche degli atomi. Prendiamo un elettrone: la meccanica dei quanti ci dice che quando è isolato si trova in una «superposizione di tutti gli stati possibili». Per esempio si trova contemporaneamente qui sulla punta delle mie dita, dentro il computer di cui sto battendo i testi e in qualche modo anche a Stoccolma, dove hanno assegnato il Nobel. Solo quando si effettua una misura, ovvero quando interagisce con un oggetto macroscopico, la funziona d’onda collassa, dice la teoria quantistica, e l’elettrone assume una delle condizioni possibili. E quindi, in pratica, me lo ritrovo qui sulla punta del dito o nel computer (talvolta può capitare che me lo ritrovi anche a Stoccolma).
Questo comportamento, che non ha analoghi nel nostro mondo macroscopico, appare bizzarro anche a molti fisici. Compresi Albert Einstein e il giovane austriaco che ha elaborato la funzione d’onda che descrive il comportamento delle particelle quantistiche: Erwin Schrödinger. È come se chiudendo in una scatola il mio gatto, diceva Schrödinger, lui fosse contemporaneamente vivo e morto. Solo quando io o qualcun altro apre la scatola, lo trova o vivo o morto. Il che è paradossale. Sono convinto, insisteva, che c’è qualcosa che ci sfugge. La realtà quantistica deve essere diversa da quella descritta, sia pure ottenendo risultati di estrema precisione, dalla mia funzione. Forse non sapremo mai come stanno le cose, perché non riusciremo mai a «vedere» un elettrone o un fotone o un atomo perfettamente isolati. Perché ogni tentativo di osservarlo inevitabilmente fa collassare la funzione d’onda e perturba il sistema.
Ebbene Schrödinger aveva torto. Il momento in cui è possibile osservare una particella isolata degli ioni, nel caso di Wineland, un fotone nel caso di Haroche senza modificarne la natura quantistica è arrivato. I due hanno intrappolato il gatto di Schrö dinger e ce lo fanno vedere mentre è, contemporaneamente, «vivo e morto». O, per uscire dalla metafora, mentre i pesanti ioni, i leggeri elettroni e i fotoni a massa nulla sono in una superposizione di tutti gli stati possibili. Si tratta di una svolta della teoria quantistica. Anche se, probabilmente, il «problema della misura» e la presenza di variabili che ci nascondano una realtà più profonda non è stato ancora risolto.
Intanto le «trappole» di Wineland e Haroche confermano l’esistenza degli entanglements, di correlazioni istantanee a distanza, tra coppie di oggetti quantistici. Per restare nel paradosso dei gatti, è come se Schrödinger avesse due gatti gemelli: uno maschio, l’altro femmina. Ne porta uno a Vienna e l’altro a Roma, chiusi nelle loro scatole. Mentre viaggiano i gatti, che sono quantistici, si trovano in una «superposizione di tutti gli stati possibili»: sono, nel medesimo tempo, maschio e femmina. Quando infine Schrödinger a Vienna apre la scatola, fa collassare la funzione d’onda sessuale, e trova che il suo gatto è femmina, nel medesimo istante la moglie di Schrödinger apre la scatola a Roma e trova che il suo gatto è il maschio.
Anche questi risultati sperimentali consentono di approfondire il dibattito intorno ai fondamenti della meccanica quantistica. Che si conferma teoria filosoficamente problematica, ma scientificamente molto precisa. La teoria più precisa mai elaborata in fisica. Le possibili implicazioni dei lavori dei lavori di Wineland e Haroche sono molti. A Stoccolma ne hanno indicato due. La realizzazione di orologi, manco a dirlo, ultra-precisi. E lo sviluppo dei computer quantistici. Che molti giurano saranno quelli di prossima generazione: con una potenza di calcolo illimitata e una sicurezza intrinseca inespugnabile.

Repubblica 10.10.12
Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro
Spunta la pagella del biologo premiato a Stoccolma: “Un disastro”
di Elena Dusi


PER togliersi il sassolino dalla scarpa ci ha messo 64 anni. Ma l’effetto è stato grandioso. Il Nobel per la Medicina John Gurdon, giudicato al liceo troppo stupido per fare lo scienziato, ha dedicato ieri al suo prof una frase pronunciata con un ghigno di vittoria: «Andavo a scuola. A 15 anni seguii il mio primo semestre di scienze. Il professore nel giudizio finale scrisse che la mia idea di questo mestiere era ridicola. Le sue frasi posero fine al mio rapporto con la scienza a scuola».
La pagella della Eton School è incorniciata e appesa nello studio di Gurdon a Cambridge: «Quando gli esperimenti non riescono, mi diverto a pensare che l’insegnante avesse ragione». Il giovane John nel 1949 aveva avuto il punteggio più basso fra i 250 ragazzi del corso di biologia. «È stato un semestre disastroso» scrisse l’insegnante. «Il suo lavoro è stato di gran lunga insoddisfacente.
Impara male e i fogli dei suoi test sono pieni di strappi. In una prova ha preso il punteggio di 2 su 50. Spesso si trova in difficoltà perché non ascolta, ma insiste a fare le cose di testa sua. Ho sentito che Gurdon ha intenzione di diventare scienziato. Allo stato attuale, mi sembra una cosa ridicola. Se non può nemmeno imparare i fatti basilari della biologia, non ha chance di fare il lavoro di uno specialista. Sarebbe una pura perdita di tempo per lui e per quelli che dovranno insegnargli».
Quanto ad acume predittivo, il prof di Gurdon era in buona compagnia. Quello di Einstein scrisse: «Non arriverà mai da nessuna parte». E il padre della relatività sembrò dargli ragione quando a 16 anni fu respinto dal Politecnico di Zurigo. Ma non è vero che i suoi punti deboli fossero matematica e scienze, anzi. Einstein aveva voti bassi in francese, geografia e disegno. Peggio di lui Stephen Hawking, che degli anni universitari ricorda «la noia e la sensazione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena sforzarsi». L’astrofisico inglese studiava non più di un’ora al giorno, non si sentiva dotato e confessò di aver imparato a leggere a 8 anni. Ma quando a 21 gli diagnosticarono la Sla, ha raccontato, ricevette una frustata: «Capii che sarei morto presto e che c’erano molte cose da fare prima ».
«Un ragazzo al di sotto degli standard comuni di intelletto » secondo i suoi insegnanti e «una disgrazia per sé e la famiglia» secondo suo padre. Charles Darwin, dopo un’esperienza disastrosa a medicina, fu apostrofato dal genitore così: «Non pensi ad altro che alla caccia e ai cani». Il giovane Charles fu indirizzato verso la carriera religiosa, ma per fortuna della teoria dell’evoluzione risultò un disastro anche lì. Di Thomas Edison a 8 anni il suo maestro disse che era «confuso ». Sua madre lo ritirò dalla scuola dopo tre anni per educarlo personalmente. Non scienziato ma politico, Churchill era secondo il maestro delle elementari «un costante disturbo, sempre pronto a ficcarsi in qualche guaio».
Il sistema educativo anglosassone non è il solo a soffocare i giovani geni. Margherita Hack in terza media fu rimandata in matematica e oggi ricorda: «Studiavo, ma il professore mi aveva preso in uggia. Tenevo sempre gli occhi bassi facendo finta di leggere qualcosa sotto al banco. Ma non avevo nulla, era solo uno scherzo. Un giorno lui si avventò su di me e trovò un giornale dentro alla cartella, che però era chiusa, arrabbiandosi moltissimo. Comunque è vero, la scienza studiata a scuola è molto diversa da quella che si affronta più tardi, come professione ». A disagio con matematica e scienza era anche Rita Levi Montalcini. Ma il futuro Nobel per la medicina attribuì le sue difficoltà al fatto che le medie Margherita di Savoia di Torino puntavano a formare brave spose e madri di famiglia. Non scienziate.

Repubblica 10.10.12
La scuola, per loro un male necessario
di Piergiorgio Odifreddi


MA LASCIATA a se stessa rimane sicuramente animale. Con buona pace di Gibbon, è più probabile che la scuola sia sempre necessaria, eccetto nei casi in cui è dannosa. Le porte delle scuole devono dunque rimanere aperte a tutti, eccetto a chi è in grado di sviluppare un pensiero indipendente e di guardare al mondo con uno sguardo non convenzionale. Cercare infatti di imbrigliare una tale persona nel sapere comune può appunto tarpargli le ali, e impedirgli di sviluppare le proprie potenzialità. E se non lo fa, crea comunque un ostacolo contro il quale il genio si trova a scontarsi, a volte in maniera tragica e con risultati fatali. È il caso di Évariste Galois, ad esempio, l’inventore dell’algebra moderna, che fu rifiutato per due volte all’Ècole Polytechnique per la sua incapacità di superare gli esami convenzionali, e morì in duello a vent’anni. Meno tragici, ma sempre emblematici, sono i casi di Albert Einstein ed Henri Poincaré, i due massimi fisici teorici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che trovarono entrambi molte difficoltà a scuola. Naturalmente, un genio che non vada a scuola rischia di diventare un fenomeno da baraccone, con una cultura squilibrata e incompleta. Per questo la scuola dovrebbe cercare di «dare a ciascuno secondo i propri bisogni intellettuali, e pretendere da ciascuno secondo le proprie possibilità mentali». Ma chi potrebbe pensare e programmare una tale scuola, se non un genio? Cioè, una delle persone meno adatte a farlo?

Repubblica 10.10.12
Niente accanimento terapeutico ma cure soft Non è eutanasia ma rispetto per il malato
La morte dolce di mio suocero il modo migliore per dire addio
di Bill Keller


Il Liverpool Care Pathway adatta al contesto ospedaliero molte pratiche di assistenza in genere limitate agli ospizi, offrendole a un maggior numero di pazienti terminali. «Non si tratta di affrettare il decesso», dice Sir Thomas, «ma di riconoscere che una persona è giunta alla fine della propria vita, e di offrirgli delle scelte. Desidera una maschera di ossigeno sul volto? O vorrà baciare la moglie?».
I medici di Anthony Gilbey avevano concluso che non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fine, tormentata da dolore, immobilità, incontinenza, depressione, progressiva demenza. Il paziente e i familiari erano dello stesso avviso. Perciò l’ospedale ha smesso di somministrare insulina e antibiotici, scollegato i tubi d’alimentazione e idratazione, lasciando solo una fleboclisi per tenere sotto controllo dolore e nausea. L’andirivieni di maschere d’ossigeno, termometri, apparecchiature per misurare la pressione e monitorare il battito cardiaco è stato interrotto. Le infermiere hanno trasferito il paziente in una camera silenziosa, lontana dal bip bip dei macchinari, in attesa del trapasso.
Negli Stati Uniti, nulla infervora il dibattito sulle cure sanitarie più che la questione di quando e come negarle. Il Liverpool Care Pathway, o altre varianti, oggi rappresenta la norma negli ospedali britannici e in diversi altri Paesi, ma non in America. Questo per un motivo ovvio, e per un altro, meno ovvio.
Il motivo ovvio è che i paladini di simili iniziative sono stati demonizzati: criticati dalla Chiesa cattolica nel nome della “vita” e diffamati da Sarah Palin e Michele Bachmann in nome di un vile tornaconto politico. I sostenitori britannici dell’approccio Liverpool sono stati vittime di attacchi analoghi — in particolare dai lobbisti che si battono per il “diritto alla vita”, che lo vedono come una sorta di eutanasia, ma anche dei paladini dell’eutanasia, che non lo considerano sufficientemente “eutanasico”. Le indagini sulle famiglie che si sono avvalse dell’approccio Liverpool rilevano pareri favorevoli; tuttavia, è inevitabile che certe pratiche che toccano le corde più intime delle famiglie e richiedono il coordinamento di diverse discipline mediche, infermieristiche e di consulenza familiare, non riescano sempre ad assicurare una fine agevole quanto quella di mio suocero.
Sospetto, però, che il problema meno ovvio derivi dal fatto che in America i promotori di simili iniziative tendano a presentarle come una questione economica: un quarto o più dei costi dell’assistenza sanitaria si concentra nell’ultimo anno di vita. Questo
indica che stiamo sperperando una fortuna per garantirci qualche settimana o mese in più di vita, da trascorrere attaccati a delle macchine e consumati dalla paura e dal disagio.
L’esigenza di contenere la spesa sanitaria è indubbiamente impellente. Il piano promosso da Obama è un punto di partenza, poiché prevede l’istituzione di una commissione che identifichi possibili aree di risparmio. Ma non è che un inizio. Il buon senso suggerisce che potremmo risparmiare ulteriormente negando le cure mediche nei casi in cui, anziché salvare una vita, servano solo a prolungare per breve le sofferenze.
Tuttavia, credo che si tratti di una posizione discutibile dal punto di vista economico e pessima sotto il profilo politico. Infatti, a prescindere dal buon senso, le prove che queste procedure producano un risparmio sono poche. Studiando i dati, piuttosto lacunosi, Emanuel conclude che, a parte l’assistenza ai malati di tumore, le misure prese per eliminare trattamenti vani nei pazienti prossimi alla morte non si sono tradotte in risparmi significativi.
Anche se si riuscisse a dimostrare che le iniziative come il Liverpool Pathway consentono risparmi cospicui, promuovere l’assistenza per il fine vita per motivi fiscali alimenta i timori di chi ritiene che il sistema medico-industriale abbia fretta di portare i nostri cari all’obitorio per risparmiare il costo dei medici e liberare posti letto. Quando chiedo a degli specialisti britannici se il protocollo di Liverpool riduca effettivamente i costi, questi rispondono di non aver mai posto una simile domanda, né di aver intenzione di farlo.
«Quest’anno sono usciti articoli molto sgradevoli sul Pathway, descritto come un modo per uccidere i pazienti in fretta e liberare posti letto », dice Sir Thomas. «Il momento che si tocca quel tasto si rischia di mettere a rischio l’intero programma».
In America nulla accade senza un’analisi costi-benefici, ma l’argomento a favore di una morte meno straziante potrebbe poggiare su una base più neutra, meno inquietante, ovvero sul fatto che si tratta semplicemente di una morte più umana.
Nei sei giorni precedenti alla morte, Anthony Gilbey, avvolto in una coltre di morfina, ha ripetutamente perso e riacquistato coscienza. Libero da tubi e da medici solleciti, ha potuto ricordare il passato, scusarsi, scambiare battute e promesse di amore con la famiglia, ricevere i sacramenti cattolici e ingoiare un’ostia che è stata forse il suo ultimo pasto. Poi è entrato in coma. È morto umanamente: amato, dignitoso, pronto.
«Ho combattuto la morte tanto a lungo», aveva detto a mia moglie verso la fine. «È un tale sollievo potersi lasciare andare». Sarebbe bello se tutti potessimo morire come lui.
(©The New York Times La Repubblica Traduzione Marzia Porta)

martedì 9 ottobre 2012

l’Unità 9.10.12
La città specchio dell’anima
Come il disagio del mondo interagisce con la nostra psiche
L’anticipazione Esce domani «La carta del senso» dello psicoanalista e filosofo milanese: come conciliare privato e pubblico
di Romano Màdera


Romano Màdera, La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica
pagine 342
euro 29,00 Raffaello Cortina

MILANO NEL MICROSCOPIO ANALITICO APPAIONO PIÙ CHIARAMENTE I GUASTI CELLULARI CHE SI STANNO PRODUCENDO NEL GRANDE ORGANISMO DELLA CITTÀ PLANETARIA. Senza un solido sé ci si scompensa, le differenze e le articolazioni psichiche diventano divisioni, la divisione patologia, più o meno grave, nevrotica o psicotica, a secondo della rigidità e della ampiezza delle linee di scissione. L’angoscia di una libertà paradossalmente coatta nel suo essere spinta e sedotta a ignorare centro e limite, ordine e gerarchia, si trasforma in un disordine generale della personalità, nei cosiddetti disturbi di personalità. Le diverse denominazioni patologiche non a caso insistono su qualcosa che ha come riferimento la costruzione o il riconoscimento di sé: patologie del sé, disturbi borderline (della linea di confine!) e numerosi altri di «personalità», patologie narcisistiche. Senza dire che disturbi alimentari e dismorfofobie hanno in comune una confusione del sé che si riflette sulla sua radice, cioè sull’io-corpo. Infine claustrofobie, agorafobie e panico dicono con evidenza che la centratura del sé nello spazio sociale e naturale è diventata inefficace. Difese dal contatto contro minacce fusionali e conseguente ritiro dalle relazioni, perdita di sé per sfuggire all’isolamento, sembrano rispondere alla difficoltà di trovare un proprio posto nel mondo e di saper edificare entro quella condizione. Il desiderio pervasivo costringe invece tutti alla prestazione, a odiare ogni barriera che ci faccia da impedimento. Ritrarsi in una pseudofortezza o lanciarsi in una pseudoconquista sembrano due modi, opposti e complementari, di reazione alla percezione di un disagio che chiede una risposta al fallimento del riconoscimento di sé. Ne seguono, sul piano dell’umore, i bassi e gli alti della depressione e della maniacalità come modi di reagire alla richiesta eccessiva di prestazioni in ogni campo della vita.
Nel narciso il sé che non sono si deve mettere in mostra, nella paura di non essere riconosciuto mi autoriferisco e tento di impormi. Nasce una nuova versione del Don Giovanni senza tragedia, diventato figura del consumo emozionale.
Nel border i tratti della diagnosi l’impulsività, l’instabilità affettiva e la fragilità dei rapporti sembrano la riproduzione patologica dei requisiti del consumatore ideale (che però diventano difetti anche per il più precario dei produttori: con ciò la scissione si rivela inscritta nei diversi ruoli del cittadino postmoderno).
Presumibilmente solo la schizofrenia sembra estranea a un deciso modellamento sociale delle patologie, questo sarebbe confermato dai tentativi di misurarne l’incidenza statistica in popolazioni culturalmente e socialmente molto diverse. Si potrebbe aggiungere che la schizofrenia sembra far emergere, nella forma più acuta, proprio la natura stessa della patologia, e quindi la natura comune di ogni patologia psichica, il terreno di coltura di ogni variante storica: la scissione.
Per favorire la riparazione delle scissioni, più o meno gravi, la cura positiva deve consistere nel potenziamento della coscienza simbolica, espressione della nostra naturale immaginazione creatrice, proprio in condizioni che sono esposte da ogni dove alla potenza disgregatrice della negazione dei limiti e dello smarginamento della personalità.
Alla unificazione ritrovata nel simbolo appartiene la misura la relazione fra tutto ciò che entra nella immagine che sutura la frattura tra le divergenti direzioni dei nostri desideri e la «giusta misura» che ne consente la soddisfazione sensata. L’antica parola latina ratio, ma anche l’antico termine greco logos, contenevano la nozione di misura e di relazione.
Esattamente quello che manca all’anima, manca alla città. La città e l’anima concrescono una con l’altra, una nell’altra.
OVERSHOOT DAY
Senza misura. Quello che era scritto nei geni del capitale si è storicamente avverato. Secondo il Global Footprint Network che calcola l’area produttiva necessaria a fornirci di ciò che consumiamo, il primo Overshoot Day, cioè il giorno nel quale si esauriscono le risorse rinnovabili, è stato il 31 dicembre del 1986. Nel 2010 dopo 233 giorni, cioè il 21 agosto, abbiamo superato la soglia. Cosa significa? Che stiamo consumando più beni naturali rinnovabili di quanti il pianeta ci mette a disposizione, stiamo vivendo a credito, senza sapere come e quando ripianare il debito. Tutto ciò avviene in un quadro di ineguaglianze estreme: se tutti vivessimo come uno statunitense avremmo bisogno di cinque terre, di 2,7 vivendo come un italiano, ma ne basterebbero 0,4 rispetto ai consumi medi di un indiano. Sappiamo peraltro come si potrebbe uscirne. Non c’è bisogno di ridurre tutti allo stile di vita dell’indiano medio, basterebbe usare in modo più efficiente l’energia, ridurre i combustibili fossili e il consumo di carne, aumentare le produzioni da fonti rinnovabili e smetterla di tagliare senza criterio le foreste (oggi ogni minuto sparisce una superficie pari a 65 campi di calcio).
Ovviamente questo significa che la competizione per le risorse energetiche, per le materie prime, per la produzione agricola diventerà, senza contromisure, più spietata. Alcuni beni stanno subendo da anni forti pressioni e i loro prezzi salgono in modo preoccupante se si guarda al loro impatto sulle popolazioni e sugli stati (si va dalle fonti energetiche fossili alle «terre rare» necessarie per i prodotti ad alto contenuto tecnologico, fino a beni di prima necessità per centinaia di milioni di persone, come il riso).
Di qui, endemicamente, situazioni d’emergenza a catena che colpiscono le popolazioni: carestie, siccità e penuria d’acqua, spostamenti e fughe di popolazioni. Gli allarmi antimmigrazione si fanno più isterici, addirittura la civilissima Danimarca moltiplica i controlli al confine con la Germania, le folle di giovani vandali disperati delle periferie vanno all’assalto in Francia come in Inghilterra: cosa accadrà quando i tagli e i fallimenti congiunti delle politiche sociali nei paesi ricchi, e l’esaurirsi di ogni prospettiva in quelli poveri e in crescita demografica, si sommeranno? Alla gara distruttiva e autodistruttiva, cronica e di bassa intensità, punteggiata da guerre ed esplosioni locali, nessuno pare in grado di porre freni credibili.

L’APPUNTAMENTO «Spiritualità in pratica Un congresso a Milano
«La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica», Raffaello Cortina Editore, è in uscita il 10 0ttobre nelle librerie.
Lo stesso giorno l’autore partecipa al Congresso, il XIX, della Società Italiana di Cure Palliative dedicato alla «Comunicazione» che si svolge al Centro Congressi del Lingotto a Torino, intervenendo su «La spiritualità in pratica: filosofie in dialogo» in una tavola rotonda coordinata da Laura Campanello.

l’Unità 9.10.12
A Isernia 7 persone condannate per aver cantato «Bella ciao», in Abruzzo strade intestate a gerarchi, e a Catanzaro...
Senza memoria. Quell’Italia che accetta il revisionismo fascista
Carlo Smuraglia:  «Il Paese non ha mai fatto i conti col passato ed è stato troppo tiepido con i negazionisti
di Roberto Rossi


Scriveva Luis Sepulveda che «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». La memoria aggrega, è il collante che unisce generazioni, la memoria è la base della storia e del civismo. Ma in Italia la memoria spesso cambia forma, muta la sua pelle, si plasma a seconda della forma e dei contesti. Lascia spazio, alle volte, a rigurgiti di nostalgia che in politica trovano terreno nei movimenti che si rifanno al fascismo. Che non solo vengono tollerati, ma che spesso sono incoraggiati anche dai pubblici amministratori e ufficiali.Come è successo a Isernia. Dove fra qualche settimana si discuterà l’appello contro una strana sentenza di condanna di cinque uomini e due donne avvenuta il 5 maggio scorso. Strana non tanto per l’entità della pena, otto giorni di reclusione poi trasformati in un’ammenda da 1350 euro per ciascun imputato, quanto per le aggravanti.
I fatti, in breve. Il 27 ottobre del 2011 nella città molisana si confrontano due gruppi. Da una parte Casa Pound e Gioventù Italiana del Molise, movimenti di estrema destra, dall’altra il Comitato antifascista molisano. Quest’ultimo protesta contro la decisione della Amministrazione provinciale di concedere l’uso di una sala pubblica «alle associazioni neofasciste» che hanno organizzato un incontro pubblico. Per questo chiede e ottiene il permesso dalla questura di poter organizzare un sit in davanti al palazzo della Provincia. C’è forte tensione quel giorno. Alimentata anche dai giornali locali che ipotizzano l’arrivo di black block. Eppure tutto fila liscio. Le disposizioni del comitato per l’Ordine pubblico sono rispettate alla lettera fino a quando un gruppo di antifascisti, circa quaranta, si stacca dal sit-in. Ma fanno pochi metri. Fronteggiati dalla polizia desistono e se ne vanno via cantando. I gruppi, dunque, non vengono a contatto. Ma tanto basta perché la questura identifichi sette del Comitato e li porti davanti a un giudice. La colpa? Aver disatteso le disposizioni della questura, con le aggravanti di aver gridato, come scrive il procuratore Federico Scioli nella richiesta di condanna, «slogan del tipo “il Molise è antifascista” e intonato la canzone “Bella Ciao”».
«Dunque dice il giuslavorista Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia nulla è successo se non che un gruppo di manifestanti si era appena mosso e soprattutto aveva cantato, ahimè, Bella Ciao». Ad Isernia, sostiene ancora Smuraglia, «lo Stato dimostra tolleranza per un movimento di fascisti sedicenti “del terzo millennio”, che in quanto tali sarebbero fuori dalla Costituzione, e poi fa la faccia feroce con gli antifascisti che protestano senza aver compiuto alcun atto di rilevanza penale». Ma in Molise non è solo senza memoria il giudice che ha condannato sette persone per aver cantato una canzone partigiana, non ricordando per altro che l’ideologia fascista in Italia è pur sempre un reato, ma anche la Regione e il suo presidente Michele Iorio. Il quale, il sette agosto scorso, si è affrettato ad assicurare il patrocinio del Molise, come si evince da una nota della presidenza con tanto di numero di protocollo, alla manifestazione commemorativa su «X settembre ’43 Isernia bombardata» promossa lo scorso otto settembre ancora una volta da Casa Pound e Gioventù Italiana. Una manifestazione che ha visto la partecipazione, tra gli altri, anche di un esponente della repubblica fascista di Salò. «Tutto questo spiega ancora il presidente dell'Anpi che lo scorso 25 luglio ha lanciato da Gattico (Reggio Emilia) una campagna di contrasto al neo fascismo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto i conti con il proprio passato, non ha mai fatto conoscere e analizzato a fondo il fascismo ed è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di revisionismo».
Che come un fiume carsico ogni tanto ritrova la superficie. Il caso di Affile, piccolo comune romano, e del mausoleo dedicato al criminale di guerra Rodolfo Graziani e sovvenzionato dalla regione Lazio con 170mila euro, è solo l’ultimo dei tanti casi. In Abruzzo, ad esempio, regione che pure vanta una tradizione partigiana di spessore (la Brigata Maiella tanto per fare un nome) negli ultimi mesi sono stati segnalati due episodi di revisionismo singolari. Il primo è avvenuto nel comune di Castellafiume (L’Aquila) dove una strada della frazione Pagliara è stata dedicata a Cornelio Di Marzio. Nella targa, una delle poche presenti nel paese dove le vie sono scritte sui muri, si celebrano le sue presunti doti di scrittore e poeta. Ma si omette di dire che Di Marzio è stato uno dei personaggi di spicco del fascismo sia in Italia sia all’estero, e soprattutto che è stato uno dei 100 firmatari delle leggi razziali. E questo sicuramente ha caratterizzato la vita di Cornelio Di Marzio più di quanto i suoi scritti, che nessuno conosce, abbiano mai fatto.
LO ZIO FAMOSO
Tutti conoscono, invece, Gianni Letta, per anni consigliere di Berlusconi nonché sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Letta lo scorso luglio è diventato cittadino onorario di un paese della Marsica che si chiama Aielli. Un omaggio che il sindaco Benedetto Di Censo ha voluto fare alle origini di un politico di spessore. Un atto di ossequio anticipato il 20 agosto 2011 dalla stessa amministrazione comunale che aveva rinominato la piazza principale del paese, piazza Risorgimento, intitolandola a Guido Letta, zio di Gianni, e piazzando a futura e imperituria memoria anche un busto di marmo. Eppure Guido Letta non è conosciuto solo per i suoi rapporti di parentela con l’ex sottosegretario del Consiglio ma anche per essere stato uno dei più ardenti sostenitori del fascismo in Italia. Anche lui figura tra gli autori delle leggi razziali emanate nel 1938 che furono causa di deportazione per migliaia di ebrei e che recentemente Mario Monti ha definito «infami e atroci». Tra l’altro il prefetto Letta fu anche membro della segreteria particolare di Benito Mussolini, e in quanto tale intermediò con il sicario del deputato socialista Giacomo Matteotti, Amerigo Dumini. Inoltre aderì alla Repubblica di Salò, fu nominato console della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale e collaborò attivamente con i tedeschi tanto da meritare l’Ordine dell’Aquila Tedesca, una speciale onorificenza istituita da Hitler nel 1937 assegnata a soli 9 prefetti su 322.
Ma nel Paese senza memoria una menzione la merita anche il presidente della Provincia di Catanzaro Wanda Ferro, un passato nell’Msi, poi An e infine Pdl. Lo scorso 14 settembre ha concesso all’Associazione Furor la Sala Consiliare della Provincia per la presentazione del libro «L’aquila ed il condor» di Stefano Delle Chiaie, noto neofascista degli anni di piombo. Ma il presidente non si è solo limitata a questo, ignorando che Catanzaro è stata sede del processo per la Strage di Piazza Fontana, ma ha anche preso parte attiva alla presentazione del libro cimentandosi in una ricostruzione particolare della storia, definendo quella della Resistenza, la lotta di liberazione dal nazifascismo, «una chiara manipolazione della verità».
«La presentazione del libro di Delle Chiaie, l’ospitalità e la presenza di Wanda Ferro all’iniziativa è un episodio che conferma le tendenze nostalgiche del presidente della Provincia di Catanzaro» spiega in una nota il segretario generale della Cgil di Catanzaro, Giuseppe Valentino. Tra l’altro il presidente Ferro fino a qualche tempo fa era affiancata nella sua giunta da Natale Giaimo segretario provinciale de «La Destra Fiamma tricolore», lo stesso che lo scorso agosto ha promosso il raduno presso la statua della Madonna a Monte Covello, eretta nel 1939 per osannare le gesta del regime dopo la costruzione della strada che da Girifalco porta alla montagna, in ricordo dei «martiri» fascisti.

l’Unità 9.10.12
12 ottobre, studenti in piazza per cambiare scuola e società
di Roberto Campanelli

coordinatore nazionale Unione degli studenti

SE SI VUOLE PARTIRE DA UN DATO GENERALE SULLA SCUOLA BISOGNA PARLARE DELLO STATO DI ABBANDONO A CUI È SOTTOPOSTA DA VENT’ANNI. Ad oggi la spinta dell’autonomia scolastica si è esaurita sulla scia di un progetto complessivo assente, e dell’assenza delle risorse. I percorsi positivi di valorizzazione delle scuole sono stati cancellati dall’impossibilità di finanziarli e gli istituti vivono una profonda sofferenza, dimostrata da dati terrificanti, ad esempio le richieste alle famiglie di contributi volontari che anno dopo anno sono cresciuti a dismisura, raggiungendo anche centinaia di euro a studente. La capillarità della diffusione del contributo volontario, la sua consistenza, e il metodo autoritario con il quale viene imposto permettono di considerarlo come una vera e propria tassazione informale. Una vera e propria trasformazione del paradigma della scuola pubblica, un’introduzione silente di un modello privatistico di scuola.
Non basta, il ritorno del p.d.l. Aprea (legge 953), già respinto dal movimento studentesco dell’Onda nel 2008, rischia di trasformare l’autonomia scolastica in una vera e propria anarchia, in cui i diritti vengono cancellati ed i privati rischiano di entrare in luoghi nevralgici della programmazione dell’offerta formativa. Continueremo a respingere questa ipotesi di legge fin quando non verrà sottoposta ad una discussione seria e condivisa con tutte le rappresentanze del mondo della scuola.
Questi elementi vanno contestualizzati nell’Italia della crisi, nell’Italia in cui i redditi crollano, nell’Italia in cui per la prima volta le iscrizioni alle università diminuiscono, nell’Italia in cui uno studente su 5 non completa la scuola, mentre a quindici anni, con l’apprendistato, vengono espulsi di fatto tantissimi studenti dai percorsi formativi. L’Italia accusa un problema strutturale per l’accesso all’istruzione. Denunciamo da sempre l’assenza di una legge nazionale sul diritto allo studio che indichi i livelli essenziali delle prestazioni che le regioni devono erogare. Mancano strumenti di base per garantire il diritto allo studio, ma non ci si può fermare alla contingenza.
È necessario ragionare in prospettiva, è necessario guardare alle esperienze positive che in giro per l’Europa hanno riconosciuto agli studenti una sfera dei diritti a 360°, alle esperienze che hanno istituito il reddito per i soggetti in formazione, uno strumento che riconosce il valore sociale e ed economico di chi studia e garantisce a tutti di poterlo fare. Dovrebbe essere questo il paradigma nuovo con cui si esce dalla crisi, in contrapposizione all’esclusione e alla negazione dei diritti, la garanzia universale di studiare ed emanciparsi.
È necessario ragionare di edilizia scolastica, di un piano nazionale straordinario che metta in sicurezza le scuole, elimini ogni barriera architettonica e le renda termo-sostenibili e energeticamente indipendenti. Una serie di microprovvedimenti che darebbero lavoro a migliaia di persone e nuovo slancio all’economia. Per fare tutto ciò ci vogliono risorse, proprio quello che si nega all’istruzione a partire dal 2008 con i famosi 8 miliardi di tagli. È necessario rompere con il rigorismo cieco che ignora i diritti sociali, le risorse ci sono e vanno indirizzate nei settori strategici della società, basti pensare alle Grandi Opere del governo Berlusconi ancora in programma o ai finanziamenti miliardari per i cacciabombardieri, soldi che lo Stato continua a spendere inutilmente. C’è un bisogno profondo di qualificare il dibattito politico con proposte concrete e radicalmente alternative a quelle che ci hanno portato alla crisi, il problema non sono stati i diritti per tutti, ma le privatizzazioni.
Il 12 ottobre saremo in piazza in tutto il Paese per mettere al centro questi temi, le emergenze sociali del Paese, il modo nuovo con cui dovremmo uscire dalla crisi. Gli studenti aspettano da anni risposte all’altezza dei loro bisogni, non forze dell’ordine schierate per le strade e cariche spropositate contro i quindicenni.

La Stampa 9.10.12
Bersani rottamatore a sorpresa
di Marcello Sorgi


Un paradosso accompagna l’avvio della campagna delle primarie del Pd: invece di uno solo, i rottamatori sono diventati due. Dopo Matteo Renzi, che della cacciata del vecchio gruppo dirigente ha fatto il suo marchio di fabbrica, a sorpresa, anche Pierluigi Bersani ha sposato la linea del pensionamento anticipato. La novità inattesa sta gettando nella disperazione più cupa i predestinati. Tra loro, c’era chi voleva far saltare le primarie, ma il segretario non era dello stesso avviso. C’era chi puntava a farle svolgere con un regolamento restrittivo, tale da condizionarne il risultato e limitare l’afflusso dei consensi per Renzi; ma anche in questo caso il leader del Pd ha preferito primarie «aperte». Così che sabato, all’Assemblea del partito, tutti hanno dovuto prendere atto che Bersani ha accettato la sfida - e un po’ l’ha promossa -, non solo per battere definitivamente il suo sfidante e ottenere la candidatura alla premiership, ma anche per liberarsi della tutela esercitata fin qui su di lui dai numerosi capicorrente.
Che questo sia un obiettivo legittimo, per un leader che ha dovuto accettare altri sacrifici nel corso del suo mandato, è fuor di dubbio. Ma che il modo per arrivarci sia di rivolgersi agli elettori delle primarie quasi con gli stessi argomenti del suo avversario, è da vedere. Per varie ragioni. La prima è che Bersani ha una biografia completamente diversa da quella di Renzi: per età e formazione appartiene cioè in tutto e per tutto alla generazione dei possibili rottamandi. Anno più anno meno, ha la stessa anzianità di iscrizione al Pci-PdsDs-Pd. E’ stato presidente della Regione Emilia, quando ancora il partito in cui militava si chiamava «comunista». E’ stato ministro nei governi dell’Ulivo e dell’Unione con Prodi, D’Alema, Amato, Veltroni e Rosi Bindi. E prima ancora delle precedenti primarie che lo avevano consacrato leader, era stato designato come segretario alla vigilia di un tradizionale congresso e da un normale (per quei tempi) accordo tra i vituperati (solo ora) capi delle diverse fazioni interne.
Tutto ciò, va detto a suo onore, Bersani non l’ha mai nascosto, né se n’è mai vergognato; menandone vanto, al contrario, e dichiarandosene anzi orgoglioso. Ma proprio questo rende più difficile da capire la sua conversione alla scelta rottamatrice. Intendiamoci, non è che ci si possa aspettare da lui, in contrapposizione col «nuovismo» di Renzi, una difesa a oltranza del «vecchio» Pd. Ci mancherebbe: i tempi non lo consentono. E l’ondata di reazioni dell’opinione pubblica, che tende a livellare indistintamente - e ingiustamente - i politici, come esponenti di una casta privilegiata e corrotta, non lascia molte possibilità a sfumature o ad analisi articolate.
Malgrado tutto, però, uno spazio per discutere, e proporre regole ragionate, occorrerebbe trovarlo. Sarebbe compito anche di Bersani individuarlo, in coincidenza con le primarie: cominciando dal tratteggiare criteri più convincenti per la rottamazione, rispetto alla ghigliottina anagrafica generalizzata proposta da Renzi. Ad esempio, che si debbano lasciare fuori dal Parlamento tutti i coinvolti in affari giudiziari, è sicuro. Ne va del recupero di credibilità delle Camere in cui attualmente sono più di un centinaio quelli con carichi pendenti. Ma si dovrà o no distinguere tra un’accusa e l’altra, tra il corrotto conclamato e il responsabile oggettivo, tra il ladro, il recidivo e chi ha agito in stato di necessità? Sono differenze, tra l’altro, che la stessa giustizia ordinaria tende a sottolineare nelle sue sentenze.
E quanto al problema dell’anzianità di servizio, chiamiamola così: si dovrà o no tener conto dell’impegno prestato, dei risultati ottenuti, del patrimonio di esperienza apportato alla vita del partito e alle istituzioni? Prendiamo ancora i nomi di quelli che figurano in cima alla lista degli epurandi: per D’Alema e Veltroni, contano di più gli errori innegabili delle loro lunghe carriere, o l’aver portato, con tutti i limiti arcinoti, il centrosinistra al governo per due volte? E per la Bindi, dev’essere considerata imperdonabile la sua, a volte incerta, carriera di ministro, o le dev’essere riconosciuto il contributo dato negli ultimi vent’anni al rinnovamento dei partiti in cui ha militato, dalla Dc al Pd?
Sono solo tre esempi, scelti a proposito, sapendo che se continua l’andazzo di questi giorni, nel giro di qualche settimana diventeranno indifendibili. Vent’anni fa, al tempo della caduta della Prima Repubblica, la mannaia scese repentinamente su tutta intera la classe dirigente. Era la prima volta in più di quarant’anni che la politica svelava la sua faccia nascosta all’opinione pubblica: fu un terremoto, una mezza rivoluzione, e forse non c’era altro da fare. Dopo, negli anni, c’è stato anche il tempo per i ripensamenti.
Ma adesso, anche se non è affatto facile, prima che la Storia si ripeta, forse c’è ancora il tempo di riflettere, di tentare di distinguere, di separare il grano dal loglio. E se Bersani ne ha voglia, le primarie del Pd in questo senso cadrebbero a proposito.

il Fatto 9.10.12
“Paga Bersani”, la campagna low cost del capo
di Wanda Marra


La realtà viene prima della comunicazione”. Pier Luigi Bersani l’ha detto domenica sera negli studi di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Una dichiarazione che - nell’era mediatica per eccellenza, quella in cui l’immagine è tutto e in cui un leader politico deve essere soprattutto televisivo - è sembrata una filosofia di vita. Mentre Renzi sta girando a tappeto l’Italia con il suo camper, Bersani la sua campagna per le primarie non l’ha neanche cominciata: “Ha voluto aspettare la modifica dello Statuto”, spiega Roberto Speranza, uno dei tre (assieme alla portavoce, Alessandra Moretti e a Tommaso Giuntella) che costituiscono la squadra ad hoc per quest’avventura.
PER ORA, il poco che c’è è quasi sconcertante. Il sito, Tutti per Bersani, è essenziale, per non dire scarno, con l’interattività ridotta al minimo. L’unico gadget esistente è una spilletta con la scritta “Bersani 2013” in rosso e verde su fondo bianco. E la sola iniziativa che c’è stata, la presentazione della squadra alla Casa Internazionale della Donna di Roma. 630 euro, pagate di tasca sua dallo stesso segretario. Già, chi paga? “Il segretario e il suo comitato si autofinanziano”, spiega Antonio Misiani, il tesoriere democratico. Per ora quanti soldi ci sono? “Non ce ne sono”, dice Speranza. E allora? “Faremo una sottoscrizione sul sito. Poi, chiederemo agli amministratori locali e ai parlamentari che sostengono il segretario un contributo”. E lui e gli altri due che lavorano alla campagna? “Volontari”. Intanto, adesso che la cosa è entrata nel vivo è Stefano Di Traglia, lo storico portavoce di Bersani, il responsabile della comunicazione. E lui chi lo paga? “Lavoro per il Pd”. Insomma, lo paga il partito. Con buona pace di Roberto Reggi (numero 2 di Renzi) che ha tuonato contro i segretari locali che stanno facendo campagna per Bersani: “Sono strutture del partito”, ha detto. E vallo a dimostrare che le iniziative per le primarie e quelle democratiche vanno distinte: ma d’altra parte questo dà il sapore di una sfida che sembra sempre più tra il segretario del partito e quello dell’antipartito. Vista la corazzata che ha messo in campo Renzi, però secondo i bersaniani ci vuole coraggio: “Il tema sono i soldi di Renzi, non i nostri”. Sposetti l’ha accusato (ignorato) di aver già speso 2 milioni e 25 mila euro. Pensare che il tetto a candidato per le primarie 2009 era di 250 mila euro. Di Traglia sta mettendo in campo una squadra. Ne farà parte Simona Ercolani, produttrice tv di successo, moglie del giornalista Fabrizio Rondolino (che però sta con Renzi). Un po’ l’anti-Gori. Darà una mano come volontaria, assicurano. A curare le ultime campagne, non proprio ben riuscite, “Oltre il Pd” e “Rimbocchiamoci le maniche” è stata l’agenzia creativa Abc. Lo farà anche per questa? “Saranno quelli di sempre”, dice sbrigativo Di Traglia. Aldo Biasi, il direttore creativo sostiene di non aver ancora ricevuto l’incarico. Soldi? “Appunto, non se n’è parlato”. D’altra parte, sarà una campagna “fatta di luoghi e di cose”, non “uno spettacolo chiuso uguale in ogni posto”, precisa Di Traglia. E dunque, Bersani partirà domenica da Bettola. (Chi paga? “Forse ancora lui”, spiega Speranza), in provincia di Piacenza, dalla pompa di benzina che fu di suo padre, il 19 sarà al Cern di Ginevra. Poi, in programma ci sono L’Aquila e il Casertano. Intanto è stata aperta la sede del comitato, 150 metri quadri nel centro di Roma, tra piazza Sant'Ignazio e via del Corso. Anche questa, assicura Speranza, la pagheranno “le sottoscrizioni”.

il Fatto 9.10.12
Renzi, incarichi pubblici per sua la corte
di Giampiero Calapà


Come si costruisce un sistema di potere? In un Comune con le società partecipate, le ex municipalizzate. Uno dei cavalli di battaglia di Matteo Renzi all’epoca delle primarie per la candidatura a sindaco, era proprio: “Via la politica dalle partecipate”. Non è andata così, spazzato via l’apparato ex Ds, la corte di Renzi è proliferata, anche con un paio di finanziatori dichiarati della sua campagna del 2009: se Giorgio Moretti, 48 anni, da luglio di quell’anno presidente della Quadrifoglio (l’azienda che gestisce i rifiuti) ha rinunciato al compenso, non lo ha fatto Andrea Bacci, socio e presidente della della Silfi (illuminazione comunale), 21 mila euro l’anno. Poi ci sono ragioni di famiglia e di opportunità. Maria Elena Boschi, 31 anni, avvocato, in passato praticante in uno studio legale insieme a Francesco Bonifazi, capogruppo Pd in Comune, è nel cda di Publiacqua, 22 mila euro annui; nessun problema ad occuparsi, con il ruolo di coordinatrice, dei comitati “Adesso” per la corsa di Renzi contro Pier Luigi Bersani, come lei stessa dice: “Non mi imbarazza, il mio incarico in Publiacqua è precedente”. Filippo Vannoni, invece, lavora alla Servizi alla strada spa ed è il marito di Lucia De Siervo, dirigente del settore Cultura del Comune, già capo segreteria del sindaco. Lei, assessore con Leonardo Domenici a Palazzo Vecchio, è la figlia di Ugo, ex presidente della Corte Costituzionale, e sorella di Luigi DeSiervo, direttore commerciale della Rai, nonché uno dei registi dei comitati “Adesso”. Leonardo Sorelli, è l’amministratore delegato, di Firenze Fiera, 28 mila euro annui, ed è il marito di Paola Andreini, una dei capi della segreteria del sindaco. Il presidente di Firenze Parcheggi, invece, è l’esempio più concreto del successo che Renzi riscuote a destra: Carlo Bevilacqua, alla guida dell’opposizione al presidente della Provincia Matteo Renzi, 2004-’09, prima capogruppo di Forza Italia e poi Pdl. Undici mila euro annui più 190 euro di gettone a seduta. Jacopo Mazzei, dal ’99 in uno dei gruppi immobiliari più importanti d’Italia, è nel cda di Aeroporto Firenze, 12 mila euro annui. Luca Talluri è presidente di Casa Spa, 55 mila euro all’anno: il fratello Marco è direttore di Tele Iride, tv di Barberino del Mugello abbastanza seguita in zona, schierata al fianco del sindaco di Firenze. Bruno Cavini, ex sindaco democristiano di Palazzuolo sul Senio, uno dei fedelissimi, nella segreteria di Renzi e nel cda dell’Ente cassa di risparmio di Firenze. Giuliano Da Empoli, già assessore alla cultura, presidente del Gabinetto Viesseux, membro in rappresentanza del Comune, di Polimoda Firenze, assiduo frequentatore del camper “Adesso”. Moreno Panchetti, presidente di Sas (Servizi alla strada), 30 mila euro annui, commercialista ed ex allenatore di calcio di Luca Lotti, capo gabinetto e factotum del sindaco. Poi c’è Marco Carrai, a Firenze avversari e nemici lo chiamano “l’uomo nero”. È il “gianniletta” del sindaco (definito così da David Allegranti nel libro “Matteo Renzi”, edito da Vallecchi). Amministratore delegato di Firenze Parcheggi, 42 mila euro annui, vanta importanti relazioni nella finanza torinese e milanese, dal 2011 anche nel cda dell’Ente cassa di risparmio di Firenze, nel Gabinetto Viesseux, proviene da una potente famiglia demo-cristiana di Greve in Chianti, vicino a Comunione e liberazione, è il legame di Renzi con l’Opus Dei. Carrai è legato da stima e amicizia a Paolo Fresco, ex presidente Fiat, vicepresidente del Maggio Musicale Fiorentino.

La Stampa 9.10.12
Renzi sotto accusa nel Pd: “Copione”
L’attacco di Fassina. Il sindaco in tv: “Una certa sinistra s’accontenta di partecipare, io vorrei anche vincere”
di Raffaello Masci


Rottamatore! E va bene. Presuntuoso. Irriverente. Arrogante. Più un’altra quantità di insulti. Ma adesso Matteo Renzi, sindaco di Firenze con grandi ambizioni, è anche «copione! ». Sissignore. Ha (o avrebbe) copiato il programma proprio del suo maggiore competitor, Pierluigi Bersani. E l’accusa gli viene mossa da un centravanti della squadra del segretario, il responsabile economico Stefano Fassina.
Le cose sono andate così. Ieri, a un certo punto, sul sito di Renzi è apparsa una di quelle proposte che fanno fare un salto sulla sedia: un grande progetto per l’occupazione femminile che cominci con un mega investimento sugli asili nido, una cosa da 16 miliardi in 5 anni che darebbe lavoro diretto a 450 mila donne, ma farebbe da volano ad una massa sterminata di posti al femminile, in quanto libererebbe molte donne dagli impegni della maternità. Il sito di Renzi ricorda, infatti, che 80 mila donne l’anno lasciano il lavoro in corrispondenza con la nascita di un figlio e che l’Italia è in coda tra i paesi europei per occupazione femminile. Il sindaco di Firenze poi fa due conti e dice anche dove li andrebbe a prendere questi soldi: 13 miliardi dai fondi europei, e tre dal taglio del 2 per cento della spesa corrente.
Saranno giusti i conti? Sarà praticabile la lungimirante operazione? Il punto non è questo. Quanto il fatto che - secondo Fassina - la proposta sarebbe stata copiata pari-pari dall’agenda Bersani: «A Matteo Renzi dobbiamo cominciare a chiedere i diritti d’autore - contesta il responsabile economico del Pd -. Anche oggi, a proposito di occupazione femminile e asili nido, fa taglia-incolla delle proposte approvate dall’Assemblea nazionale del Pd e, da ultimo, riprese nel Documento della Conferenza nazionale per il Lavoro di Napoli. E’ vero che lui non può saperlo perchè non partecipa, ma almeno qualcuno dei suoi potrebbe dare una letta ai documenti programmatici del partito a cui è iscritto e riconoscerci la paternità, meglio, maternità delle “sue” proposte».
Replica uno dei giovani colonnelli renziani, Giuliano da Empoli: «Seguendo la logica di Stefano Fassina, l’idea degli asili nido, in Italia, risale a Mussolini che istituisce l’Opera nazionale maternità e infanzia nel 1925. Come la mettiamo con il copyright? ». Fin qui la battuta piccata. Quindi la risposta di merito: «La proposta per allineare l’Italia agli standard europei in materia di asili nido è stata pubblicata sul sito www.matteorenzi.it da tre settimane. L’unica novità di oggi aggiunge - è che è stata messa on line l’infografica per sintetizzare la proposta. Si vede che è stata un’iniziativa utile, perchè è servita ad attirare l’attenzione del responsabile economico del Pd».
Poi, in tarda serata Matteo Renzi è stato ospite di «Che tempo che fa». Di Fassina e del suo attacco non ha parlato, ma a proposito delle bordate ricevute in questi giorni da Nichi Vendola, è stato netto: «Non ho capito se Vendola si è candidato per dire le sue idee o per parlare male delle mie... ». E poi ha concluso: «Una certa sinistra si accontenta di partecipare... Noi si vorrebbe anche vincere. Almeno ogni tanto». "La proposta sugli asili nido: 16 miliardi in 5 anni e lavori a 450 mila donne. Ed è polemica"

La Stampa 9.10.12
I cattolici e il sindaco
Matteo, il cattolico liquido tra gli scout e l’arcivescovado
Ogni domenica il sindaco va a messa in compagnia della famiglia
Più difficile il rapporto con Cl, mediato dal braccio destro
di Andrea Tornielli


È abbastanza “liquido” da essere sfuggente su alcune delle cose che stanno più a cuore a noi cattolici…». Nei sacri palazzi della Chiesa italiana è questo uno dei giudizi più ricorrenti su Matteo Renzi, il «rottamatore» deciso a contendere al segretario del Pd Bersani la candidatura a premier. I temi eticamente sensibili, quelli che dividono, non sono centrali nella campagna del sindaco di Firenze che attraversa l’Italia in camper. Eppure quello di Renzi con il mondo cattolico è un legame di antica data, che continua, pur con alti e bassi.
Buone sono le relazioni del primo cittadino con l’arcivescovo della città, il cardinale Giuseppe Betori, già segretario della Cei ruiniana. Renzi, credente praticante, non manca a una messa del cardinale e nelle solennità vi assiste insieme alla famiglia. E ha riportato in piazza del Duomo il grande presepe artigianale che le precedenti amministrazioni di sinistra avevano abolito. La perplessità della curia per alcuni punti del suo programma - ad esempio quello sulle unioni civili - è nota, come pure sono noti gli screzi in occasione dell’uscita del bando comunale che assegnava alloggi a coppie sposate e no, senza distinzione di orientamento sessuale. Ma le polemiche non sembrano essere state tali da intaccare il rapporto.
Renzi proviene dall’esperienza scout, e molti dei circoli che ora lo sostengono vedono coinvolte persone vicine agli ambienti dell’Agesci, l’Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani, ben diffusa sul territorio. Il «rottamatore» negli anni delle scuole superiori, ha avuto contatti anche con Gs, costola studentesca di Comunione e Liberazione, guidata da don Paolo Bargigia, oggi missionario in Perù. Si devono a questa sua formazione le citazioni di Chesterton, Dostojevskij e soprattutto del poeta francese Charles Peguy.
Da quando è entrato in politica non sono mancate frizioni con esponenti di Cl a Firenze. Ma frequentazioni cielline ha uno degli uomini chiave della sua campagna, Marco Carrai, manager che siede nel board della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, come in diversi cda culturali. Carrai si occupa della raccolta fondi per Renzi ed è anche incaricato di tessere le relazioni internazionali per il candidato alle primarie, con contatti che spaziano dal mondo neoconservatore, con personaggi come Micheal Ledeen, della Foundation for Defense of Democracies, come pure con il Partito Democratico americano. Quando era candidato sindaco, Renzi rispose sui suoi rapporti con la Compagnia delle Opere e sul sostegno ricevuto da quell’ambiente, dicendo che avrebbe sperato di essere più aiutato, ma precisando anche: «Trovo stravagante l’atteggiamento della sinistra verso la Compagnia. L’unico politico che ha chiuso il Meeting di Rimini si chiama Pierluigi Bersani. Se Bersani può parlare con la Cdo, non vedo perché non ci possa parlare qualcun altro».
Attenzione al mondo del no profit Renzi l’ha manifestata anche un anno fa, al «Big Bang» alla stazione Leopolda. Tra gli intervenuti c’era il cattolico Riccardo Bonacina, direttore della rivista «Vita»: due dei quattro punti da lui suggeriti - la liberalizzazione del tetto delle donazioni e il servizio civile universale - sono stati accolti nel programma del «rottamatore».
Tra gli amici di Matteo e la moglie Agnese, lei pure ex scout, c’è Renato Boccardo, attuale arcivescovo di Spoleto, per anni guida spirituale degli scout nonché segretario del Governatorato vaticano e organizzatore dei viaggi di Papa Wojtyla. Agnese, dice chi conosce da vicino i Renzi, è la vera «colonna» della famiglia anche per quanto riguarda la fede: un fratello sacerdote, altri parenti appartenenti al Cammino Neocatecumenale, ha insegnato catechismo nella parrocchia di Pontassieve frequentata col marito e i figli. Non poteva mancare, poi, un rapporto con i gesuiti. Matteo Renzi è amico di padre Enrico Deidda, della comunità di San Michele, a Cagliari, che il sindaco di Firenze ha frequentato con la famiglia per seguire gli esercizi spirituali ignaziani e «discernere» la sua vocazionedi vita.
Con questi trascorsi non stupisce che il «liquido» Renzi sappia avventurarsi anche in prudenti «rottamazioni» in campo religioso. Intervistato dal «Foglio», ha suggerito alla Chiesa di recuperare «un po’ di slancio e un po’ più di coraggio. A volte mi chiedo come sia possibile che i bambini a scuola conoscano più Harry Potter che Gesù Cristo».

Corriere 9.10.12
Paolo Fresco, ex presidente della Fiat: tifo per lui, ma non è vero che gli regalo voli aerei
“Darò fondi e idee al camper di Matteo il vero rischio sarà scegliersi la squadra”
di Salvatore Tropea


ROMA — «Lo conosco da tempo. Ho avuto occasione di lavorare al suo fianco nel campo dei beni culturali e sono rimasto ben impressionato dal suo coraggio e dalle sue capacità. Ora deve solo stare attento a circondarsi di collaboratori capaci, intelligenti e magari accettare che qualcuno gli dica apertamente di essere contro quando non è d’accordo con lui». Alla soglia degli ottanta, Paolo Fresco, il presidente della Fiat di fine Novecento, si scopre «rottamatore», ammiratore e sostenitore di Matteo Renzi e non solo per una questione di campanile, essendo entrambi fiorentini.
É così, avvocato Fresco?
«Sono sempre stato per il ricambio. Renzi l’ho incontrato la prima volta quando aveva 28 anni ed era già presidente della Provincia di Firenze. L’ho visto all’opera e non mi ha mai deluso».
Il ruolo di premier è però ben altro che quello di presidente di Provincia o di sindaco di Firenze.
«Certo che è diverso. In queste cose c’è sempre la componente scommessa, ma guardando intorno non mi pare di vedere molte alternative. Sul piano della novità lui si presenta bene: è collocato in un’area moderna e riformista e non è certo un bolscevico, anzi è contro la sinistra estrema e vetero. In questo senso può raccogliere consensi anche nell’area moderata della media borghesia ».
Lei viene indicato come un autorevole esponente dei sostenitori di Renzi anche in termini di aiuti finanziari. Si dice che abbia messo a disposizione dei pacchetti di voli aerei come suo contributo alla campagna per le primarie.
«Non so cosa sia questa storia dei pacchetti di voli, per il resto penso che aiuterò anche materialmente Renzi, naturalmente nei limiti ammessi e in perfetta trasparenza. Siamo ancora in una situazione di continua evoluzione. Ancora non c’è una riforma elettorale degna di questo nome, non si capisce bene se ci sarà effettivamente un’apertura ai giovani e al nuovo oppure tutto continuerà come prima. Insomma non ci sono regole, per cui è saggio dire: vediamo gli sviluppi. Comunque quando deciderò di appoggiarlo lo farò alla luce del sole. Non è da me fare giochetti. In ogni caso il contributo maggiore sarà di natura intellettuale perche faccia scelte giuste».
Ma lei lo ha visto o sentito da quando è iniziata la campagna del camper?
«Ci vediamo raramente, ma ci sentiamo. Lui oggi è impegnato in un’impresa importante che lo assorbe molto».
Le sue simpatie sono in qualche modo collegabili alla famosa dichiarazione fatta da Renzi quando sul caso Fiat ha detto di stare con Marchionne «senza se e senza ma»?
«Diciamo che quella scelta di campo fa parte della sua natura. Significa avere il coraggio delle proprie opinioni. I se e i ma non fanno parte del vocabolario di Renzi e anche per questo io lo ammiro.
Apprezzo questa rottura, vera non fittizia, con il politichese. Mi piace perché segnala un cambiamento o per lo meno la voglia di misurarsi con il nuovo di
cui il paese ha bisogno».
Insomma anche lei è per la rottamazione?
«Quando dico di condividere e ammirare la scelta di Renzi per la rottamazione penso al coraggio di mandare in pensione i vecchi soloni della politica. In questo ha avuto il coraggio di imboccare una strada di rottura».
Rischiando però di andare a sbattere con certe forme di grillismo.
«Non credo corra questo pericolo. Ha fatto la sua scelta in tempi non sospetti, quando ha cominciato a sparare sui partiti il grillismo non esisteva ancora».
É ragionevole pensare che le sue simpatie per Renzi siano state influenzata dalla sua lunga esperienza di manager formato anche alla scuola americana?
«Penso proprio di sì. Il suo stile è abbastanza anglosassone e i suoi maestri sono Obama e Blair, soprattutto quest’ultimo».
Allora Renzi for president?
«Con un solo timore».
E sarebbe?
«I collaboratori devono essere all’altezza del ruolo».
É per caso una sua candidatura a entrare nel team?
«C’è sempre qualcosa da fare, in tutte le stagioni. Io posso assolvere solo il ruolo del vecchio saggio, non altro. Ci sono poi quelli che hanno o ritengono di avere anche la vigoria fisica come il mio predecessore in Fiat. Il mio contributo? Pensiero più che azione».

Repubblica 9.10.12
Comune di Firenze
Impiegato accusa il sindaco. La Procura apre un fascicolo


FIRENZE — Le spese di Matteo Renzi, sindaco di Firenze e candidato alle primarie del Pd, sono da tempo al centro di polemiche politiche e di indagini della Corte dei Conti (che ne ha censurate alcune risalenti all’epoca in cui Renzi era presidente della Provincia di Firenze). Un dipendente comunale ha presentato una serie di esposti sui rapporti di alcune società di parenti e amici di Renzi con il Comune e con aziende partecipate. Il procuratore Giuseppe Quattrocchi ha aperto un fascicolo, per ora senza indagati né titolo di reato. Ieri il dipendente comunale è stato ascoltato dalla Guardia di Finanza. Al momento sembra che le accuse da lui mosse a Renzi siano il frutto di un collage di notizie raccolte su Internet e da fonti non controllate. Gli accertamenti comunque proseguono.

Corriere 9.10.12
Primarie, Vendola rilancia sulle regole “Voto aperto a tutti anche al ballottaggio”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Senza usare i toni di Renzi, Nichi Vendola si prepara a mettere un bel po’ di veti alla linea scelta da Bersani per le primarie. Questa è una settimana-chiave, si definiscono regole e programmi. Domani il leader di Sel, insieme agli altri alleati del centrosinistra, sarà a Roma per incontrare le associazioni e la società civile. È l’occasione per comunicare di persona al segretario del Pd che le restrizioni al voto non vanno bene, sono un filtro inaccettabile. E bisogna cambiare. «Non si capisce perché non può votare al secondo turno chi non ha votato al primo. Non ha senso», ripete da giorni il governatore pugliese. Il quale non si sente affatto sconfitto in partenza. Perciò punta alla massima apertura della competizione, anche al voto di opinione. Vuole pescare nel serbatoio di sinistra di Bersani e in quello nuovista di Renzi. In questo caso, il sindaco di Firenze è destinato a diventare un prezioso compagno di viaggio. Perché anche lui non si rassegna al blocco della preregistrazione tra il primo voto e il ballottaggio.
Dunque, Vendola e Renzi se ne sono dette di tutti i colori. «Non ho capito se Nichi si è candidato per dire le sue idee o per parlare male delle mie...», ha replicato ieri il sindaco di Firenze a Che tempo che fa.
Ma entrambi sono contrari alle rigidità delle procedure votate dall’assemblea pd e possono trovarsi sulla stessa trincea. Come dire: l’assemblea democratica non si è affatto chiusa sabato, resta virtualmente convocata e deve portare a sviluppi diversi. Esattamente ciò che Rosy Bindi e i bersaniani Nico Stumpo e Maurizio Migliavacca vogliono evitare, forti del voto plebiscitario dello scorso week end. Bersani ha concesso uno spiraglio in più parlando domenica di una bega che sarà risolta con comodo. Vendola e Renzi però chiedono normalità, la strada maestra: voto aperto a tutti. E se il sindaco dice di fidarsi del segretario Pd («Mi fido, anche se potrò sembrare ingenuo», ha aggiunto) evidentemente i suoi fedelissimi la pensano diversamente. Il capo della sua campagna Roberto Reggi non si fida affatto. «Finora abbiamo tenuto i contatti a distanza con Migliavacca. Non basta più. Adesso voglio essere invitato formalmente
al tavolo delle primarie », annuncia Reggi, bellicoso e diffidente, all’Huffington
Post Italia.
Enrico Letta cerca di calmare le acque. «Le primarie non sono una resa dei conti». Ma avverte Vendola: «Il Pd l’altro giorno ha votato la continuità con il montismo ». Il leader di Sel non accetta questa impostazione e cercherà di sfumare il ruolo dell’alleanza con i moderati nel Manifesto del centrosinistra. È un altro punto chiave. I montiani del Pd potranno accettare modifiche alla linea democratica nel senso di una critica radicale al governo tecnico? No, non potranno. E sono molto attenti alle mosse del governatore.
La partita dei due sfidanti principali comunque è già cominciata. «Se vinco le primarie scatta un cambiamento profondo», promette Renzi. Sono i luogotenenti a far capire quale sarà il clima da qui al giorno del voto. Stefano Fassina apre un altro fronte con Renzi. Lo accusa di copiare il programma del Pd. «Il suo progetto sulle donne e sugli asili nido è un plagio della conferenza del Lavoro del Pd e di altri documenti democratici», è l’attacco del responsabile economico del Pd. I fan del sindaco si scatenano sui social network: «Ma se copiamo il Pd come fanno a dire che siamo di destra». Il lettiano Francesco Boccia taglia corto con una piccola frecciata a Fassina: «Ma se accusiamo Renzi di plagio sul programma significa che Renzi è di sinistra? Bene, ora siamo tutti dalla stessa parte». Perciò adesso basta «litigare sul nulla. Bisogna smetterla con la rottamazione e le accuse di copiatura. Invece di rottamazione e plagio, parliamo di esodati e fondi per lo sviluppo».

La Stampa 9.10.12
Sassoli
«Mi candido per correre da sindaco di Roma»
di M. Zat.


Suona il telefono. «Mi candido alle primarie per il Campidoglio», dice David Sassoli, capogruppo Pd a Strasburgo, mister 400 e passa migliaia di preferenze nel suo collegio al voto europeo del 2009. Una notizia e non una sorpresa. L’ex anchorman del Tg1 meditava da tempo un rientro in Patria, pensava alle politiche, poi s’è fatto il suo nome per la Regione. Ora la decisione è presa. «Roma è una città che si avvia al declino, occorre ridarle speranza - racconta Sassoli -. Dobbiamo mettere insieme ogni energia di questa grande città, che è una risorsa per l’intero paese, con un programma fatto per i cittadini». L’esperienza Ue aiuterà? «Se vai a Bruxelles, Berlino, o a Parigi, vedi tutto è più facile che a Roma - attacca Sassoli -. Bisogna importare le buone pratiche europee». Giornalista, nato a Firenze nel 1956 e romano di adozione, ex volto del Tg3 e TG1, tifa per la Fiorentina. Un ostacolo? «Per nulla - assicura - mi aiuterà a essere obiettivo».

La Stampa 9.10.12
Il vero addio alla prima repubblica
di Luigi La Spina


Il fallimento è ormai così evidente che anche i protagonisti della cosiddetta seconda Repubblica non possono più negarlo. Il ventennio nato dalle inchieste intitolate fiduciosamente «Mani pulite», e finito con quelle sulle Regioni, che si potrebbero amaramente battezzare «Mani sempre più sporche», si chiude con un bilancio in profondo rosso. L’ esito di questo fallimento potrebbe sfociare in uno sbocco imprevedibile: la rottamazione, per usare un vocabolo impietoso, ma alla moda, del ceto dirigente della prima Repubblica.
Il rendiconto degli ultimi vent’anni è eloquente. Le cifre dell’economia segnano un declino storico della posizione italiana nel mondo, dagli indici di crescita a quelli di competitività, con un contemporaneo vertiginoso aumento delle tasse. Gli effetti di questa micidiale mistura di dati sono stati devastanti soprattutto per due categorie di cittadini: il ceto medio dipendente, che ha subìto un netto impoverimento del suo tenore di vita, e i giovani, una generazione che rischia di perdersi nella precarietà e nella paura del futuro.
In altri campi, quel bilancio è altrettanto deludente. Le riforme elettorali, col passaggio dal proporzionale al maggioritario, non solo non hanno rafforzato la forza del governo e del presidente del Consiglio, ma sono sfociate in una legge, il cosiddetto «porcellum», che ha affidato ai vertici dei partiti il compito di nominare il Parlamento, espropriando i cittadini del potere di giudicare i propri rappresentanti alle Camere. Le riforme costituzionali, poi, in gran parte sono naufragate e, in quella parte realizzata, hanno costruito un modello di presunto federalismo i cui guasti sono sotto gli occhi di tutti.
La «grande illusione» di questo ventennio è stata quella di pensare che bastasse cambiare le leggi per chiudere un’epoca. Un regime, invece, muta davvero quando cambiano gli uomini al potere. Quando a un ceto politico se ne sostituisce un altro, o in virtù di una rivoluzione sociale, o di una guerra perduta, o di un dichiarato fallimento, politico, economico e anche morale. Se guardiamo, allora, un po’ più da lontano allo scorrere di questi anni, dobbiamo ammettere che il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica non è mai avvenuto, perché questo inganno è stato un altro capitolo del male profondo che ha contrassegnato la nostra storia unitaria, il trasformismo.
Dietro le maschere dei due principali protagonisti del ventennio, due uomini provenienti dalla società civile e non dal solito professionismo partitico, Prodi, per il centrosinistra, e Berlusconi, per il centrodestra, la gran parte della classe politica e amministrativa della prima Repubblica è rimasta al potere, distribuendosi tra l’uno e l’altro schieramento. I pochi rimasti fuori dai due grandi gruppi che hanno dominato questi anni, si sono rifugiati nel piccolo partito di Casini. L’unico ceto politico veramente nuovo, quello sotto le insegne di Bossi e di Di Pietro, è apparso tanto chiassoso sui giornali e in tv quanto marginale nelle stanze che contano. Con un bilancio della loro presenza, peraltro, che non induce a un grande rammarico per quella marginalità. Così, ex comunisti ed ex popolari hanno fornito sia la truppa sia la dirigenza del centrosinistra nell’era di Prodi, socialisti, democristiani e missini hanno costituito la vera base di potere del centrodestra, dietro lo pseudonuovismo di Berlusconi e dei quadri di Publitalia.
E’ possibile, ora, che il compito illusoriamente affidato a una seconda Repubblica, in realtà mai nata, sia realizzato da una terza, di cui si odono i primi vagiti. Da una parte, Bersani, cerca di scrollarsi di dosso il peso politico, mediatico e culturale del ceto dirigente ex prima Repubblica trasmigrato nelle file del suo partito. Ecco perché l’esito dell’assemblea di sabato scorso ha suscitato tanti repressi mugugni e sospetti, non confessabili ma evidenti, sia nelle file degli ex comunisti, sia in quelle degli ex popolari. D’Alema, Veltroni, Bindi, Franceschini, temono, infatti, che il segretario, col pretesto di reagire all’accusa di conservatorismo generazionale affibbiatogli da Renzi, colga l’occasione per un deciso rinnovamento delle facce del partito.
La stesso desiderio di un colpo di spugna alla vecchia dirigenza del Pdl alberga in Berlusconi. Tra la frustrazione per il perduto potere di governo dell’Italia e quella per i deludenti sondaggi sul suo erratico annuncio di ritorno in campo, il Cavaliere medita un doppio ridimensionamento, se non una doppia esclusione. Quella degli ex socialisti, da Cicchitto, a Brunetta, a Sacconi fino ad arrivare a Tremonti, già uscito da un partito che da tempo non era più suo, e quella degli ex missini, da La Russa a Gasparri. Nell’epurazione berlusconiana finirebbero anche i vecchi democristiani, come Scajola, Pisanu, Rotondi.
Il paradosso di questa strana stagione della nostra vita politica è quello di un possibile tramonto, questa volta reale, della prima Repubblica, non da parte del rottamatore autoproclamato, Matteo Renzi, ma a opera di due uomini che proprio nuovi non sono, cioè Bersani e Berlusconi. Ma ai paradossi, ormai, siamo abituati.

Repubblica 9.10.12
I nodi del dopo-Monti
di Guido Crainz


Stiamo assistendo ad uno strano e pericoloso paradosso, lo ha osservato benissimo domenica Eugenio Scalfari. I rischi e i drammi della situazione internazionale incombono sul nostro vissuto quotidiano ma il nodo dell’Europa appare oggi utilizzato come arma dai suoi nemici e troppo poco presente invece nella discussione del centrosinistra. Eppure è un nodo centrale. “La ferocia della recessione e la pressione del mercato ci riportano alla questione primaria: chi siamo?”, ha sottolineato un recente editoriale di “Limes” sull’identità europea che prende avvio dalla Spagna. Senza rispondere a questa domanda è difficile misurarsi con una situazione di incertezza che non ha precedenti in questo dopoguerra, e non è possibile costruire adeguati argini a quelle derive che la Grecia sperimenta da tempo (la prosa dello scrittore Petros Markaris e le ultime indagini del suo commissario Charitos potrebbero essere un consigliabile e non sgradevole antidoto alla rimozione).
Ritornano ora, aggravate, alcune questioni generali che si erano presentate già in passato. Si erano poste con forza ad esempio già nella seconda metà degli anni Novanta, nel momento stesso in cui il nostro Paese conquistava – grazie soprattutto all’azione di Romano Prodi e di Carlo Azeglio Ciampi – un insperato e fondamentale ingresso nell’area dell’euro. Quel che però preoccupa, scriveva allora Barbara Spinelli, “è la latitanza del sovrano tradizionale di fronte a riforme che vengono affidate in blocco ai tecnici e alle Banche centrali affinché siano loro a giustificarle, a imporle ai cittadini smarriti come dolorose necessità (…). Lo spazio occupato dalla politica si restringe drasticamente proprio nel momento in cui dovrebbe piuttosto estendersi, preparare strategie abbastanza forti per fronteggiare la mondializzazione”. Ezio Mauro aggiungeva: avviata l’unificazione europea “attraverso l’unico comun denominatore oggi possibile, quello della moneta”, è urgente “dare un contesto istituzionale, culturale e politico in senso proprio a questa moneta. Perché rappresenti l’Europa e non soltanto undici Paesi comandati da una banca”. Era necessaria insomma una politica all’altezza dei suoi compiti ma così non è stato: quelle preoccupazioni e quei giudizi ci appaiono oggi straordinariamente attuali, e il nodo vero sta proprio qui. Né la politica è l’unica responsabile di un ritardo sempre più grave: la cultura – o larga parte di essa – ha colpe analoghe e altrettanto pesanti, e deve in primo luogo riflettere criticamente su se stessa, sulle proprie pigrizie, sui propri provincialismi.
L’azione e la credibilità internazionale del governo Monti hanno attenuato i rischi più disastrosi di una difficilissima congiuntura ma certo questo non basta. E francamente stride la parola d’ordine che si sente sempre più spesso nel dibattito dei partiti: “Monti ha salvato il Paese, ora tocca alla politica”. Per fare che, viene purtroppo da chiedere, dato che essa è stata sin qui assolutamente incapace di riformare se stessa, la propria etica (o mancanza di etica), il proprio costume, e sta dando pessima prova anche sulla riforma elettorale? E quali sono le direttrici ideali e programmatiche capaci di ridare un senso e un valore al futuro europeo? Non è possibile nessuna scelta, non solo economica, che eluda questi aspetti: prescindere da essi significa aggravare la già ampia confusione delle discussioni e la già opprimente opacità delle prospettive.
È naturale tirare un sospiro di sollievo dopo un’assise del Pd che, grazie a Bersani, non ha innescato immediati disastri ma permangono enormi preoccupazioni e incertezze: il centrosinistra appare impegnato soprattutto a farsi degli autogol, nonostante gli avversari giochino ormai a porta vuota e si accapiglino disordinatamente in ogni parte del campo. Mai forse l’assenza di una alternativa riformatrice chiara e riconoscibile è apparsa così drammatica: e alla base del relativo successo del sindaco di Firenze vi è soprattutto l’insofferenza esasperata e diffusa per un’oligarchia inamovibile, incapace di fare i conti con le proprie sconfitte e con le proprie inadeguatezze. Capace invece di dileggiare l’unico asse fondato – anche se privo di contenuti – del ragionamento di Renzi, cioè la necessità di rivolgersi realmente a quell’ampia e disorientata area di cittadini che aveva condiviso le illusioni berlusconiane e leghiste: illusioni rese in qualche modo “credibili” dal crollo della prima Repubblica e sopravvissute a se stesse per molti anni anche per l’assenza di proposte di “buona politica” da parte del centrosinistra. Un centrosinistra che era stato prontissimo invece ad affossare l’unico tentativo in questa direzione, il primo governo Prodi: allora non fu colpa solo di Rifondazione comunista ma oggi sembrano riproporsi antichi e rovinosi equivoci. Ha davvero senso accogliere nella coalizione e nelle primarie chi, come Nichi Vendola, si dichiara oppositore deciso del governo Monti ed ha rafforzato in questi mesi il proprio legame con Antonio Di Pietro, del tutto estraneo a una logica riformatrice? Da Sinistra e Libertà era giusto attendersi una salutare revisione del proprio arroccamento identitario e ideologico, e la convinta assunzione di un orizzonte di responsabilità generale: così però non è stato e sarebbe sbagliato ignorarlo (anche da questa confusione trae forza la “non proposta” di Renzi).
L’esasperato contenzioso sulle primarie e sul candidato premier, inoltre, è stato affiancato dalle incomprensibili vicende di una legge elettorale che può rendere quel contenzioso largamente inutile ma non ne disperderà i veleni. Questa schizofrenia contribuisce ad avvolgere in nebbie ancor più fitte sia i contenuti programmatici sia il possibile profilo di una squadra di governo all’altezza dei suoi compiti. Capace di garantire agli occhi dei cittadini, con la sua stessa composizione e qualità, un rinnovamento vero della politica e l’avvio di una Ricostruzione reale, non solo economica. Da qui però è necessario ripartire: a questi nodi riconduce inevitabilmente ogni vera discussione sul dopo Monti. E su Monti.

il Fato 9.10.12
Corruzione, scontro nel governo sulla legge
Catricalà propone un supercommissarip ad hoc per rallentare l’iter
Patroni Griffi si oppone
di Caterina Perniconi


Filippo Patroni Griffi ieri mattina è stato svegliato da una telefonata. Ancora in pigiama il ministro della Funzione pubblica ha scoperto di essere il promotore, insieme ad Antonio Catricalà, di un supercommissario per la lotta alla corruzione. Non è servito lavarsi il viso per capire che l’intervista rilasciata dal suo collega di governo al Messaggero stava buttando al macero mesi di diplomazia e cesellature di un provvedimento che non è ancora riuscito a vedere la luce.
Dall’altra parte della cornetta gli leggono le parole del sottosegretario a Palazzo Chigi: “Il governo proporrà un vero e proprio commissario per l’anti-corruzione”. Patroni Griffi ascolta in silenzio. “Cercherà in Senato il massimo del consenso, e faremo alcune modifiche che riteniamo opportune”. Patroni Griffi non crede alle parole che sta sentendo. “L’emendamento l’abbiamo elaborato e scritto Patroni Griffi e io e tra poche ore lo consegneremo al ministro Severino”. Eh no, questo è troppo. Lui non ne sa nulla, ha solo visto una bozza di proposta di Catricalà durante un Consiglio dei ministri e, sebbene l’idea non gli dispiacesse, non ha mai scritto né posseduto documenti in merito. Tantomeno pensato di modificare il provvedimento su cui ci sono stati sforzi prodigiosi di compromesso al Senato.
CONCLUSA la telefonata, Patroni Griffi riprende il suo cellulare e chiama il sottosegretario. Poche parole tra i due, dure. Dopo qualche minuto, alle 8.55, le agenzie battono un comunicato che, con frasi istituzionali, stronca l’iniziativa inattesa: “Il sottosegretario Catricalà pone la questione, reale, del rafforzamento della Commissione incaricata della prevenzione della corruzione – dichiara Patroni Griffi – ma in questo momento però ritengo che la priorità assoluta sia la conclusione dell’iter parlamentare del disegno di legge”. Di qui non si passa. “É per questo – aggiunge – che il governo ha presentato un emendamento soltanto relativo alla repressione della corruzione e quindi alla seconda parte del testo. Di altre questioni si discuterà in altri provvedimenti”. Tradotto: non si mettono bombe su questo percorso. C’è da capire chi sia il mandante. Perché un tentativo come questo, per niente velato, di affossare il ddl è un’importante mossa politica. E non è nemmeno la prima manovra improvvisata di Catricalà: a maggio aveva innescato una polemica con Mario Monti per aver presentato delle modifiche dall’inconfondibile matrice pidiellina sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura.
ANCHE QUESTA volta l’ipotesi più semplice è quella: ha voluto dare un “aiutino” al Pdl, a cui questa legge non piace, ma che non si può permettere una campagna pro corruttori. Poi ci sono anche i più maliziosi, che pensano che Catricalà stia agendo per sé, contro la norma che lascia “soli” 10 anni di collocazione fuori ruolo per i magistrati o, addirittura, per crearsi una poltrona ad hoc. La giustificazione ufficiale è quella di non costruire una nuova Authority, ma di avere “un commissario con poteri ispettivi effettivi per denunciare i casi di malaffare nel-l’amministrazione pubblica e non far gravare tutto sull'autorità giudiziaria”. Fatto sta che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ieri sera è stato costretto a rettificare, fare una decina di passi indietro e dire che sì, l’idea vorrebbe portarla avanti, magari in un altro provvedimento.
Eppure la sicurezza della legge sembra già a rischio. Ieri i partiti si sono rimessi la tenuta da battaglia: non sapendo a questo punto quali saranno le mosse del governo, hanno ripresentato tutti gli emendamenti da capo. Falso in bilancio, prescrizioni più lunghe e pene più severe per il Pd, “anti-Batman” (in realtà pro) e “salva-Ruby” (o meglio, salva-Berlusconi) per il Pdl. Oggi Patroni Griffi e la Severino dovranno affrontare altro lavoro di Commissione a Palazzo Madama. Potrebbero chiudere con un maxiemendamento e andare già in aula mercoledì per chiedere la fiducia. Sempre che la mossa di Catricalà non abbia dato i frutti che lui, probabilmente, sperava.

La Stampa 9.10.12
Imu alla Chiesa, tutto da rifare
Il Consiglio di Stato boccia il regolamento: serve una legge. Il ministro Grilli: l’obiettivo è far pagare chiunque
L’Imu applicabile ai beni della Chiesa vale circa 600 milioni di euro
di Giacomo Galeazzi


In ballo ci sono 600 milioni di euro, più le sanzioni in arrivo dall’Unione europea. Il Consiglio di Stato blocca il decreto che estende l’Imu alla Chiesa. La scure di Palazzo Spada cala sulla tassazione degli «immobili di Dio» e subito riesplodono le polemiche attorno alla «vexata quaestio» che dal 1992 spacca trasversalmente la politica tra laici e cattolici.
Entro la fine dell’anno va riscritto il regolamento, altrimenti dal 1° gennaio niente imposte per le strutture ecclesiastiche. «L’obiettivo del governo resta quello di far pagare tutti, quindi troveremo le soluzioni appropriate», assicura il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, mentre in Cei si auspica che la bocciatura sia l’occasione per un approfondimento della materia e per una «più chiara ed equa definizione del recinto delle esenzioni». Una salutare pausa di riflessione, quindi. Il governo «non rinunci», rilanciano i socialisti.
Il Consiglio di Stato, nel parere in cui stoppa l’applicazione dell’Imu sugli enti non commerciali e dunque anche sulle proprietà ecclesiastiche, invita l’esecutivo alla «prudenza» nella definizione dei casi di esenzione per la Chiesa. Sullo stesso argomento, spiegano i giudici amministrativi, si attende l’esito di un’indagine della Commissione europea che deve verificare se l’esenzione della vecchia Ici si configura come aiuto di Stato. Intanto il regolamento viene respinto in quanto «non è demandato al ministero di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu». Va individuato, cioè, «lo strumento idoneo a fare chiarezza sulla qualificazione di una attività come non commerciale». Di certo non si può procedere attraverso «il regolamento così come varato dal Tesoro». Il ministero ha «esulato» dalle proprie competenze regolamentari e sono ««eterogenei» i criteri utilizzati per le convenzioni con lo Stato per le attività erogate dalle onlus in campo sanitario, culturale o sportivo. In alcuni casi è usato «il criterio della gratuità o del carattere simbolico della retta», in altri quello «della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attività didattiche) ».
Gabriele Toccafondi, deputato Pdl in commissione Bilancio, mette in guardia il governo dal chiedere «l’Imu ad opere di pura carità che a malapena pareggiano i conti, operano per il bene di tutti e senza di loro lo Stato dovrebbe pagare molto di più». La partita è aperta, al Tesoro la prossima mossa.

Mario Staderini «Monti è stato coraggioso Tiri dritto o ci prende in giro»
È solo una battuta d’arresto?
«Di sicuro il governo deve andare avanti a far pagare l’Imu a chi non l’ha mai pagata, però la brutta figura del decreto scritto male resterà. Non c’è tempo da perdere. L’Unione Europea sta per concludere la procedura d’infrazione contro l’Italia e le sanzioni saranno pesanti. Il passo falso del Tesoro è sospetto, tanto più che dalle carte di Vatileaks sappiamo che Tremonti ha spiegato in Curia come scongiurare il pagamento dell’Imu sia per gli arretrati sia per le future imposte. A pensare male si fa peccato, ma si indovina. Siamo allibiti di fronte a un errore clamoroso per un governo di tecnici ». per sacerdoti che nella pratica sono veri e propri albergo totalmente esentasse. Finora ci si era rifiutati di riscuotere le imposte dovute da chiese e onlus, soggetti sempre esentati. In un momento in cui si tagliano voci essenziali è inammissibile favorire diocesi, ordini religiosi e strutture ecclesiastiche. Monti ha cercato di cambiare le cose, adesso deve completare l’opera o è una presa in giro».

Michele Pennisi, vescovo «Non bisogna avere fretta Si rifletta sulle conseguenze»
Vescovo Pennisi, è uno stop utile?
«Sì se serve a riflettere meglio su cosa comporta davvero estendere l’Imu a strutture ecclesiastiche o cooperative sociali che svolgono una funzione indispensabile. A Palermo il Comune riesce a garantire solo il 7% delle scuole materne necessarie, il resto sono enti cattolici di volontariato. In campo educativo la situazione è drammatica. A causa di questa imposta centinaia di asili e istituti rischiano la chiusura e i costi del loro mancato servizio ricadrebbero sullo Stato. Insomma, per incassare poche centinaia di milioni di Imu, le casse pubbliche rischiano di perdere miliardi in servizi. Non è un problema solo per la Chiesa».
Quali altri soggetti sono a rischio?
«Tutto il “no profit”. Nella fretta di tagliare esenzioni, infatti, si finisce per far pagare l’Imu a strutture di base che già stentano a sopravvivere. Non si può penalizzare chi porta avanti una delicatissima opera a favore dei bisognosi. Senza una simile presenza sul territorio lo Stato dovrebbe pagare costi insostenibili per assicurare servizi essenziali alla popolazione.

Corriere 9.10.12
Lo tsunami del laicismo e il sinodo dei vescovi
di Gian Guido Vecchi

«Dietro il silenzio dell'universo, dietro le nuvole della Storia, c'è un Dio o non c'è?». Benedetto XVI ha lo sguardo assorto e fisso davanti a sé, non ha scritto un testo né consulta appunti, e ad ascoltare sospesi uno dei discorsi più alti e belli del suo pontificato ci sono 262 padri sinodali arrivati a Roma da tutto il mondo. Si parla di «nuova evangelizzazione», relatore è il cardinale di Washington Donald Wuerl che risale «agli sconvolgimenti degli anni 70 e 80» e dice: «È come se uno tsunami di laicismo avesse travolto il mondo occidentale». E il pontefice, dopo i travagli e le miserie di Vatileaks, richiama tutti all'essenziale e spiega che gli Apostoli non hanno creato una Chiesa «con la forma di una Costituente», ma pregato e aspettato: «Anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare. La Chiesa non comincia con il nostro fare, ma con il fare e parlare di Dio». Così il Papa parte dalla «grande sofferenza dell'uomo», dai suoi dubbi, «e se c'è questo Dio, ci conosce, è buono? Tanta gente si domanda: perché non si fa sentire?». Ma «vangelo», la parola euangélion che «appare in Omero come annuncio di bene e gioia», vuol dire che «Dio ha rotto il suo silenzio: ci conosce, ci ama, è entrato nella Storia. Gesù è la sua Parola». La confessio pubblica della fede, il ritorno alla «passione» delle origini: «Il cristiano non dev'essere tiepido. L'Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza discredita il cristianesimo».

Corriere 9.10.12
Quando la pace si sogna in due
L'appello di Grossman e Sansal contro gli integralismi
di Stefano Montefiori


STRASBURGO — Se falliscono, comunque non avranno fatto peggio dei politici che li hanno preceduti negli ultimi 60 anni. David Grossman, israeliano, e Boualem Sansal, arabo, lanciano un appello per una «Unione mondiale degli scrittori per la pace» in Medio Oriente, innanzitutto tra israeliani e palestinesi.
Gli autori di «A un cerbiatto somiglia il mio amore» (Mondadori) e «Il villaggio del tedesco» (Einaudi) hanno presentato la loro — scandalosa, di questi tempi — iniziativa a Strasburgo, la città della pace ritrovata tra francesi e tedeschi, in occasione del primo «Forum mondiale per la democrazia» organizzato dal Consiglio d'Europa. Sabato scorso, nell'ex caserma Aubette nel cuore della città alsaziana, la presentazione è cominciata con l'esibito imbarazzo di Grossman e Sansal, consci di apparire ingenui nel riprendere l'ormai stanco concetto di pace tra israeliani e palestinesi. «Certo che siamo naïf — ha esordito Grossman —, siamo naïf consapevoli, per scelta. Non so se riuscirò a cambiare il mondo, ma di sicuro il mondo non riuscirà a cambiare me: alla guerra non mi rassegno».
Il processo di pace arabo-israeliano è fermo da tempo, il premier di Gerusalemme Benjamin Netanyahu e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahamud Abbas si ignorano anche quando, il 28 settembre scorso, parlano entrambi dalla tribuna dell'Onu a New York: la priorità del primo è la minaccia nucleare iraniana, il secondo condiziona la ripresa dei negoziati al congelamento degli insediamenti. Il risultato è che Cisgiordania e Gaza sprofondano nella miseria. Dall'altra parte, nonostante la crisi economica in Occidente, Israele continua nella sua eccezionale crescita materiale ma — a giudizio di Grossman — la sua stessa ragione d'essere è tradita. «Abbiamo fondato Israele giurando a noi stessi che non ci saremmo mai più trovati nella condizione di vittime — dice Grossman —, ma vittime siamo, di nuovo. Vittime della condizione di guerra perenne, strisciante, alla quale abbiamo finito per abituarci. Consideriamo normale una situazione che non lo è, i nostri vicini ci trattano da nemici e ci siamo adattati. La guerra ha reso tutti malati, in Medio Oriente, noi compresi. Parlare di pace in Israele ormai significa essere presi per stupidi sognatori sinistroidi».
Il primo a spezzare la logica dei due mondi contrapposti è stato l'algerino Boualem Sansal, che nel marzo scorso ha accettato l'invito a partecipare al Festival della letteratura di Gerusalemme, dove ha fatto la conoscenza di David Grossman. Non solo Sansal è andato in Israele, ma poi ha persino scritto di essere tornato da quel viaggio «arricchito e felice». Parole imperdonabili per gli ambasciatori dei Paesi arabi che avevano conferito il «Premio del romanzo arabo» al suo «Rue Darwin» (Gallimard): premio prontamente ritirato. Da allora Sansal, oppositore sia del regime algerino sia degli islamisti, subisce minacce di morte.
«Io e David possiamo fare qualcosa per cambiare la mentalità delle persone — dice Sansal —. L'antisemitismo e la negazione della Shoah sono diffusi come cinquant'anni fa se non di più, e qualcuno deve denunciarlo. La cultura dell'integralismo islamico avanza nei Paesi toccati dalle primavere arabe ma anche in Algeria, dove il regime dittatoriale ha imparato a servirsene: da ragazzo a scuola avevamo un'ora di religione alla settimana, adesso sono diventate sei. Ore e ore di propaganda. Nelle moschee Hitler è ancora considerato o un'invenzione dei sionisti, o qualcuno che non è riuscito a finire il proprio lavoro».
C'è molto da spiegare, evidentemente, e l'iniziativa di Grossman e Sansal — che sperano in uno Stato palestinese accanto allo Stato ebraico — forse non è poi così naïf. Non capita spesso di vedere insieme persone che appartengono a due mondi in decennale conflitto. E se mai i politici riprenderanno a negoziare, gli eventuali accordi non porteranno a niente se i cittadini nel frattempo non avranno almeno cominciato a conoscersi, e accettarsi.
La guerra, combattuta con le armi o con le parole, ha già chiesto un prezzo molto pesante a Grossman e Sansal. Il primo ha perso il figlio Uri pochi giorni prima che finisse il conflitto del Libano; il secondo, in Algeria, è trattato da traditore.
L'appello di Strasburgo inizia ricordando il miracolo della riconciliazione tra Francia e Germania, «una pace che però ha dimenticato il resto del mondo». Giovedì Grossman e Sansal renderanno noto l'elenco degli scrittori che hanno aderito, fra i quali c'è già Claudio Magris, tra i primi a essere contattati settimane fa. «Ho aderito senza esitazione, solo esprimendo la speranza che tutti, non solo gli scrittori, si sentano coinvolti», dice Magris. Ogni due anni l'Unione di Strasburgo individuerà un segretario, un «primus inter pares» che ne guidi le attività, e da subito formerà gruppi di lavoro per ogni area di crisi (dal conflitto israelo-palestinese alla Siria al Mali). L'«Onu degli scrittori», visti i risultati dell'Onu vera, non sfigurerà.

l’Unità 9.10.12
George Sabra
«Assad vuole allargare il conflitto, va fermato»
Cristiano, portavoce del Consiglio nazionale siriano:
«Dal conflitto si può uscire coinvolgendo personalità del regime estranee alla guerra»
I colpi di mortaio contro i villaggi turchi non sono un incidente ma una scelta
di Umberto De Giovannangeli


«Quei colpi di mortaio sparati contro i villaggi turchi di confine non sono un “incidente” ma una scelta meditata da parte di Bashar al-Assad: quella di regionalizzare il conflitto. Fermarlo non è solo nell’interesse del popolo siriano, lo è anche per evitare che l’intero Medio Oriente si trasformi in un immenso campo di battaglia». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative dell’opposizione siriana al regime baathista: George Sabra, cristiano, portavoce del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), l’organismo rappresentativo del fronte dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad. Sulla possibilità di aprire un tavolo di «riconciliazione nazionale» per una «transizione condivisa», il portavoce del Cns che ha passato otto anni nelle carceri del regime, quattro dei quali in totale isolamento dice a l’Unità: «La precondizione per l’avvio di un processo di transizione è l’uscita di scena di Bashar al-Assad. Con lui al potere, dialogo resta una parola priva di senso. Ma sappiamo anche che negli apparati dello Stato vi sono personalità che non sono coinvolte nella guerra contro il popolo siriano portata avanti dal “clan Assad”. La Siria che intendiamo costruire ha bisogno anche di loro». La nuova Siria, aggiunge deciso Sabra, «sarà democratica, potenzialmente laica, riconciliata e libera dall’oppressione.
Si sta andando verso una «catastrofe». Questo l’allarme sulla crisi in Siria lanciato dal segretario dell’Onu Ban Ki Moon al Consiglio d’Europa. L’escalation del conflitto ha detto «ha conseguenze molto gravi e sta mettendo a rischio la stabilità dei Paesi vicini e dell'intera regione». «La Comunità internazionale farebbe bene a prestare ascolto alle parole del segretario generale delle Nazioni Unite. Più che di rischio, parlerei di certezza. Assad punta alla regionalizzazione del conflitto per avere un’arma in più di ricatto verso il mondo e per chiamare direttamente in causa quei regimi o movimenti armati che già lo sostengono, sia pure indirettamente...».
A chi si riferisce?
«Penso innanzitutto all’Iran e a Hezbollah. Ma anche alla Russia che non si limita “solo” a bloccare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu risoluzioni di condanna contro il regime di Assad, ma continua a fornire aiuti militari che Assad utilizza per una repressione che ha già provocato oltre 30mila vittime».
C’è chi sostiene che l’opposizione ad Assad, almeno sul versante militare, sia sempre più egemonizzata dai gruppi jihadisti. «Assad prova ad agitare lo spauracchio jihadista per giustificare la brutale repressione messa in atto contro una rivolta popolare. Ma quella che lui sta conducendo da oltre 17 mesi non è una “guerra al terrorismo”: la sua è la guerra contro un popolo. Voglio portarle un esempio: ad Aleppo noi abbiamo 7mila combattenti, tra questi ci sono 150 combattenti venuti da Paesi arabi come la Libia e l’Arabia Saudita, e qualcuno, si contano sulle dita delle mani, venuto da Paesi non arabi. Noi siamo sicuri che quando la guerra sarà finita così come sono venuti se ne andranno. Non abbiamo alcun dubbio al riguardo».
È ancora possibile avviare un dialogo di riconciliazione nazionale che inglobi anche personalità dell’attuale regime?
«Di certo nessuna riconciliazione è possibile con Assad, lui deve lasciare il potere. Ci si può riconciliare con chi ha distrutto il 15% delle abitazioni private in Siria, creato 3milioni di sfollati, 400mila rifugiati all'estero, 40mila martiri? Lui deve lasciare il potere. Poi la vera riconciliazione, quella della e nella società, sarà possibile. Per quanto ci riguarda, non intendiamo fare “tabula rasa”: nella “nuova Siria” ci sarà posto e ruolo anche per quei servitori dello Stato che non si sono macchiati dei crimini contro il popolo siriano. Vede, noi siamo contro il regime, ma non contro lo Stato. Vogliamo mantenere quello che c’è di buono: il ministero dell’Interno, il comando dell’Esercito dopo le defezioni di alcuni tra gli alti gradi. Il primo obiettivo da perseguire, oggi e in futuro, è la sicurezza del popolo siriano. Se l’opposizione vince, quale sarà la fine di Bashar al-Assad e del suo entourage? «Ciò che il popolo siriano esige è giustizia, non vendetta. I siriani vogliono vedere Bashar al Assad e la sua cerchia di alleati davanti ad una Corte».

l’Unità 9.10.12
Il Nobel alle staminali
Yamanaka e Gurdon riscrivono la biologia
I due scienziati hanno dimostrato che il viaggio indietro nel tempo per la cellula è possibile. Grazie a loro, nel 1997, è nata la pecora Dolly, il primo mammifero clonato
di Cristiana Pulcinelli


ROMA DOPO LE LORO SCOPERTE SI È DOVUTO RISCRIVERE I LIBRI DI BIOLOGIA. Così si legge nella motivazione dell’assegnazione del premio Nobel per la medicina 2012 al giapponese Shinya Yamanaka e al britannico John Gurdon. E, in effetti, basterebbe questo fatto a far capire l’importanza del lavoro di due ricercatori distanti nello spazio e nel tempo, ma accomunati dall’interesse per le cellule staminali.
Gurdon, classe 1933, è nato a Dippenhall nel Regno Unito. Ha studiato ad Oxford e, dopo un periodo di lavoro in California, è tornato a insegnare a Cambridge. Oggi dirige nella città inglese un istituto che porta il suo nome. Yamanaka è nato invece nel 1962 (l’anno del primo importante esperimento di Gurdon) a Osaka in Giappone. Ha studiato nel suo paese e lì, dopo un periodo di lavoro negli Stati Uniti, è tornato come professore all’università di Kyoto. Le loro scoperte, avvenute a una distanza di quarant’anni l’una dall’altra, «hanno rivoluzionato la nostra comprensione di come cellule ed organismi si sviluppano». Come mai? Per capirlo dobbiamo ripercorrere le fasi di sviluppo di un organismo vivente.
Durante i primi giorni dopo il concepimento, l’embrione consiste di cellule immature, le staminali pluripotenti, ognuna delle quali è capace di trasformarsi in tutti gli oltre duecento tipi cellulari che formano un organismo adulto. Con il tempo, queste cellule si trasformano in cellule nervose, muscolari, del sangue, del fegato e via discorrendo, ognuna delle quali ha un compito preciso da assolvere. Fino all’inizio degli anni Sessanta si pensava che questo viaggio da cellule immature a cellule specializzate fosse a senso unico: una volta che la cellula si era maturata, non era possibile che tornasse ad uno stadio immaturo e quindi pluripotente.
Gurdon sfidò questo dogma immaginando che il genoma della cellula differenziata ancora fosse in grado di guidare lo sviluppo in una certa direzione. Così nel 1962 decise di fare un esperimento: rimpiazzò il nucleo di una cellula uovo di rana con il nucleo di una cellula già specializzata presa dall’intestino di un girino. L’uovo si sviluppò dando vita a un clone del girino, dimostrando così che il nucleo della cellula matura non aveva perso la sua capacità di guidare lo sviluppo verso un organismo completo e funzionante. Il dogma era sfatato: il viaggio indietro nel tempo per la cellula è possibile. Dagli studi di Gurdon sono nate le ricerche che hanno permesso nel 1997 la nascita del primo grande mammifero clonato a partire da una cellula adulta: la pecora Dolly.
L’esperimento di Gurdon comportava però che il nucleo della cellula fosse aspirato con una micropipetta e inserito in un’altra cellula a cui fosse stato rimosso il nucleo originario. Qualcuno si cominciò a domandare se fosse possibile far compiere a una cellula il viaggio indietro nel tempo portandola ad uno stadio di staminale pluripotente lasciandola però intatta. Quarantaquattro anni dopo l’esperimento cruciale di Gurdon, la risposta arrivò dal Giappone. Shinya Yamanaka stava lavorando con le staminali embrionali di topo e individuò alcuni dei geni che le mantengono allo stadio di cellule immature. Il ricercatore giapponese provò a introdurre alcuni di questi geni in cellule adulte del tessuto connettivo chiamate fibroblasti. Scoprì così che quattro geni erano in grado di riprogrammare i fibroblasti e farli ritornare indietro nel tempo, dando vita a cellule simili alle staminali embrionali. Le cellule così ottenute (chiamate cellule iPS o induced pluripotent stem cells) potevano dare vita a cellule nervose, del tessuto connettivo o dell’intestino.
La scoperta di Yamanaka è stata pubblicata nel 2006. Da allora la riprogrammazione delle cellule è stata fatta anche sulle cellule umane ed è diventata uno strumento importante di studio delle malattie. L’uso delle cellule iPS a scopo terapeutico, invece, ad esempio per creare tessuti che sostituiscano quelli danneggiati, è ancora di là da venire.
Il Nobel assegnato non ha mancato di riaprire una vecchia polemica. Le cellule staminali indotte avevano fatto pensare che fosse possibile rinunciare allo studio sulle staminali embrionali umane osteggiato in alcuni ambienti per motivi bioetici poiché il loro uso comporta la distruzione dell’embrione da cui vengono estratte. E, in effetti, ieri una parte del mondo cattolico da monsignor Sgreccia all’associazione Scienza e Vita ha esultato per l’assegnazione del premio sottolineando l’eticità di queste ricerche rispetto a quelle sulle staminali embrionali. La risposta della scienza laica è arrivata dalle parole di Elena Cattaneo, direttore del laboratorio di biologia delle cellule staminali di Milano: «La scoperta di Yamanaka è anche il frutto di 10 anni di studio intenso sulle cellule staminali embrionali vere, fatte da colleghi statunitensi, il loro lavoro, condotto nonostante le restrizioni dell'epoca Bush, ha fornito tante informazioni a Yamanaka». E Ignazio Marino ha ricordato che «nella visione di Yamanaka, questo metodo per quanto promettente non esclude l’importanza di proseguire le ricerche anche sulle staminali embrionali»

Corriere 9.10.12
L'inerzia dei governi liberali carta vincente del fascismo
I militari, non i capitalisti, spianarono la strada al Duce
di Ernesto Galli Della Loggia


Con questo terzo volume (Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Il Mulino), che esce a più di 45 anni di distanza dal primo, Roberto Vivarelli consegna alla cultura italiana un'opera monumentale, paragonabile solo a quella di Renzo De Felice su Mussolini. E, aggiungendo la sua all'altra — non importano, su alcuni punti, le differenze pure non irrilevanti tra le due —, egli segna la vittoria definitiva del cosiddetto revisionismo su quella che è la questione cruciale della storia italiana del Novecento. Revisionismo è un termine maledetto nel lessico del conformismo ideologico onnipresente, se in realtà esso non volesse dire — come lo stesso autore rivendica — «una delle più elementari esigenze del mestiere» di storico. È giusto comunque adoperarlo per significare come dopo quest'opera nessuno potrà più continuare a sostenere le interpretazioni del fascismo e delle sue cause che pure vanno ancora oggi per la maggiore, tutte in realtà rivolte ad assegnare torti e ragioni secondo le convenienze dell'antifascismo di allora e di poi (esattamente come, dopo l'opera di De Felice, nessuno ha potuto più accreditare l'immagine trucemente macchiettistica del regime che i suoi avversari gli avevano cucito addosso). Naturalmente nessuno che voglia muoversi sul terreno dei fatti e che non sia accecato dal pregiudizio. Resta infatti vero ciò che lo stesso Vivarelli osserva nella prefazione — in polemica con certa imperversante storiografia internazionale, in specie anglosassone, che da noi ha il suo rappresentante in Emilio Gentile — e cioè che la sua opera non varrà certo a far cambiare punto di vista a quegli «studi che discettano di un fenomeno fascista senza confrontarsi affatto con le vicende effettive del movimento di Mussolini e con la storia del Paese in cui quelle vicende si svolsero», riducendone le esperienze a quelle del nazismo tedesco «che con il fascismo italiano avevano in realtà poco a che fare».
Secondo Vivarelli il fascismo non è nato, e neppure si è affermato, come un movimento reazionario di classe sollecitato dagli agrari o tanto meno dagli industriali, come vuole lo stereotipo ancora oggi corrente. L'idea centrale della sua ricostruzione, invece — condotta, così come nei volumi precedenti, su una vastissima documentazione anche di ambito locale —, è che in Italia, tra il 1919 e il 1922, si sia combattuta in realtà una vera e propria guerra civile «tra due opposte passioni politiche», incarnate dai socialisti da un lato e dai fascisti dall'altro: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore.
In una simile prospettiva di guerra civile il punto chiave, come è evidente, è l'uscita del conflitto sociale dai binari della legalità; il problema del «chi ha cominciato». E qui una montagna schiacciante di prove vale a mettere sul banco degli accusati il Partito socialista. Per pagine e pagine il lettore s'inoltra in una sorta di interminabile rassegna di quello che è difficile non definire un vero e proprio attacco di demenza politica che in quel dopoguerra colpì i socialisti. Inebriati fino alla forsennatezza dalla rivoluzione leninista, infatti, e non sospettando neppure che con la guerra e la vittoria si apriva una pagina interamente nuova della storia del Paese, dopo il 1918 essi misero in atto due orientamenti suicidi. Da un lato il desiderio di prendersi la rivincita della sconfitta patita nel maggio del 1915 a opera del fronte interventista (il quale però si dà il caso che avesse portato il Paese a un'affermazione storica di cui era impossibile ignorare la portata), e dall'altro l'illusione che in Italia si potesse «fare come la Russia», cioè impadronirsi del potere.
A fare da trait d'union tra questi due obiettivi, e da sfondo ideologico alla grande ondata di lotte sociali successive alla lunga compressione bellica, il Partito socialista mise in campo una violentissima predicazione antinazionale e antipatriottica, una martellante propaganda antimilitaristica fin dentro le caserme e ben oltre i limiti del disfattismo; un fiume ininterrotto di minacce di ogni tipo rivolte ai «borghesi», ai «padroni», ai «signori ufficiali». Non erano solo parole (che pure in politica contano e come!), perché ad esse si aggiungevano i fatti: l'appoggio incondizionato agli scioperi più insulsi, alle violenze più inutili, alle agitazioni anche le più distruttive come gli assalti ai negozi; e poi, laddove il potere era nelle mani degli uomini del partito (a cominciare dalle campagne e dai piccoli centri della bassa Lombardia, del Rodigino, dell'Emilia, della Toscana), «uno stillicidio continuo di abusi e di provocazioni». E non solo: dal momento che, scrive Vivarelli, «non corrisponde al vero che i socialisti fossero alieni dalla violenza». Si arrivò al punto, come a Bologna nel 1920, di disporre la chiusura del camposanto nel giorno dei Morti per festeggiare la conquista del municipio; o, come nei comuni del Genovese, di ordinare alle scuole di rimuovere, insieme ai crocefissi, i ritratti dei sovrani, le lapidi in memoria dei caduti in guerra, le corone con nastri tricolori. E infine dovunque prepotenze, più o meno piccole angherie ai «nemici di classe» e illegalità analoghe.
Ma tutto questo senza la minima iniziativa politica concreta, nonostante che dal 1919, come si sa, i socialisti, con oltre 150 seggi, fossero il maggior partito presente alla Camera. Il fatto si è, però, che dalla retorica massimalista e rivoluzionaria, dalla fissazione leninista di cui erano tutti prigionieri — salvo forse il solo Turati (sì, tutti: perfino i Baldesi, i Matteotti, i Buozzi, i Montemartini si dicevano ancora nel 1921 a favore dell'adesione al Comintern) — essi si sentivano obbligati a teorizzare come unico fine della propria presenza nelle istituzioni rappresentative il boicottaggio delle medesime. Basti pensare che nella legislatura 1919-21 il gruppo parlamentare socialista non avanzò una sola proposta di legge, non una. E che ancora nell'agosto del 1922 — quando ormai l'organizzazione socialista in intere regioni della Penisola era stata ridotta dallo squadrismo a un mucchio di macerie — un uomo come Claudio Treves, presunto portabandiera del riformismo, affermava alla Camera: «Quando si minaccia il parlamentarismo e si inneggia alla dittatura, noi vi diciamo, o signori, de re vestra agitur. Il regime liberale parlamentare è vostro, non nostro».
La vera e massima colpa degli eterogenei governi a maggioranza liberale di quel dopoguerra fu, secondo Vivarelli, di non aver opposto un'energica azione repressiva, come peraltro le leggi consentivano, a questo autentico attacco frontale dei socialisti nei confronti dello Stato nazionale. Ma anzi di aver mantenuto di fronte a un simile attacco, che era rivolto senza mezzi termini alle istituzioni, un'assurda posizione di sostanziale neutralità.
Sta qui, direi, il nocciolo interpretativo decisamente nuovo del libro (nuovo almeno per la storiografia d'ispirazione liberaldemocratica, cui il nostro autore appartiene). Il quale spiega questa debolezza/incapacità con il fatto che il fronte liberalcostituzionale si riconosceva ancora largamente nell'antinterventismo di marca giolittiana, a cui di fatto pure il Partito socialista e i cattolici avevano a suo tempo aderito, ed era quindi ideologicamente ed emotivamente restio a rivendicare il valore della guerra e della vittoria. All'antipatriottismo sovversivo socialista, insomma, i liberali e i popolari furono incapaci di opporre un consapevole, ma fermo, patriottismo delle istituzioni. La loro inazione, protrattasi per almeno due anni, produsse non solo un grave e capillare deterioramento dell'ordine pubblico, ma insieme — ciò che era ancora più grave — quella che a molti e in tante occasioni apparve come un'autentica latitanza dello Stato. Fu questa scelta suicida — quasi una replica sul versante liberale di quella compiuta dai socialisti — che finì per scavare un fossato tra la tradizionale classe dirigente e un'opinione pubblica, specie borghese, che per tanta parte si identificava pienamente nello Stato nazionale, tanto più riconoscendosi, dopo la vittoria, nelle ragioni della guerra e nell'esperienza bellica a cui aveva direttamente partecipato. Da qui una paurosa perdita di prestigio e di autorità da parte dei vari governi che si succedettero dal 1919 al '22 — a cominciare da quello di Giolitti stesso —; da qui l'insuperabile mancanza di credibilità e di forza politica comune a tutti.
Combattuti ferocemente dai socialisti, non difesi in modo adeguato dai liberali, lo Stato e l'eredità della guerra rimasero in certo senso alla mercé di chiunque avesse la volontà, la capacità e la forza di farsene tutore e rappresentante. Proprio perché mancò la reazione legale, è opinione di Vivarelli, sorse e si affermò quella illegale, cioè il fascismo. Dietro l'origine e il successo del quale, non vi fu dunque nessun particolare interesse di classe, bensì, per l'essenziale, una vasta adesione ideologico-culturale allo Stato nazionale nonché la volontà di difenderne la vittoria del '18. Agrari e industriali vennero solo dopo, a cose fatte o quasi, tanto più che «il carattere distintivo del movimento fascista — leggiamo — sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». La ragione ultima e più vera del successo dei fascisti deve essere vista nel fatto che essi, prendendo atto che la situazione del Paese era ormai quella di una virtuale guerra civile — e cioè che all'uscita dalla legalità da parte dei socialisti poteva contrapporsi solo un'illegalità organizzata, data la «neutralità» del governo — ne trassero le ovvie conseguenze e cominciarono a combattere gli avversari sul loro stesso terreno; e che potendo disporre in una misura enormemente superiore ai loro avversari dei mezzi per vincere (la giovane età, l'esperienza militare, la disciplina, una leadership anche tattica abilissima come quella di Mussolini), alla fine vinsero. Ma non senza avvalersi di una carta decisiva: l'appoggio, fin dall'inizio, delle forze dell'ordine e dell'esercito.
Vivarelli contrasta, in modo che a me sembra anche sul piano documentario convincente, la tesi tradizionale che ciò sarebbe stato il frutto di una voluta complicità con il nascente fascismo della classe dirigente liberale. A un'analisi attenta si direbbe che non fu proprio così. In realtà, sostiene il libro, si sarebbe trattato di una sorta di vera e propria sedizione tacita della struttura militare dello Stato, la quale avrebbe di fatto cessato di obbedire agli ordini di contrasto al movimento fascista impartiti dal governo. I quali ordini invece ci furono, energici e ripetuti, sebbene avvolti sempre da un'ambigua genericità (per esempio non fu mai previsto esplicitamente dalle autorità l'uso delle armi contro i fascisti o disposta la messa fuori legge delle squadre), e così furono ancor più destinati a restare elusi o inascoltati. Il fatto è che, avendo mancato di difendere la legalità contro i socialisti, agli occhi delle forze dell'ordine e dell'esercito (e assai probabilmente anche ai propri stessi occhi) i governi liberali avevano perduto qualunque autorità necessaria per ordinarne ora il rispetto contro i fascisti. Dichiarando una specie di neutralità nella guerra civile in atto, senza peraltro avere la forza di reprimere le due parti in lotta, il governo e i partiti costituzionali erano in pratica usciti dal novero degli attori politici; e con ciò avevano segnato la propria fine.
Come si vede, è un radicale spostamento d'asse interpretativo quello che questo libro opera rispetto all'immagine del fascismo e delle sue premesse, depositata da sempre nel discorso pubblico italiano. E poiché quell'immagine, come si sa, è in qualche modo alla base di tutta la vita della Repubblica, proprio per ciò esso ci aiuta a capire non poche delle fragilità e delle contraddizioni che ne hanno accompagnato la nascita, e non solo.

Corriere 9.10.12
Roma, Romae
Il doppio volto dell'Impero

Accanto al dominio brutale delle armi una politica di integrazione unica
di Lauretta Colonnelli


Roma agli inizi dell'Impero è descritta mirabilmente da Seneca: una città popolata da un milione di abitanti, che a malapena riescono a trovare ospitalità nelle case. La maggior parte è gente affluita dalle colonie sparse in tutto il mondo. «Gli uni li ha spinti l'ambizione, altri gli obblighi di una funzione pubblica, altri l'incarico di un'ambasceria, altri la lussuriosa ricerca di un luogo adatto perché pieno di vizi, altri il desiderio degli studi liberali, altri gli spettacoli. Alcuni li ha attratti l'amicizia, altri la volontà di trovare uno spazio dove poter esprimere le proprie capacità. Alcuni sono giunti per mettere in vendita la bellezza, altri l'eloquenza. Ogni genere d'individui è accorso in questa città che paga ad alto prezzo i vizi e le virtù. Chiamali, e chiedi a ciascuno: "da dove vieni?". Vedrai che la maggior parte ha abbandonato la patria per venire a Roma, la città più grande e bella del mondo, che tuttavia non è la loro».
Se i fondatori della città avessero potuto ascoltare le parole di Seneca, avrebbero saputo che la profezia di Romolo si era avverata. Sette secoli prima infatti, secondo il racconto tramandato da Tito Livio, il primo re di Roma era apparso dopo la morte a un testimone e gli aveva detto: «Va' e annuncia ai romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia la capitale del mondo. Perciò coltivino l'arte militare e sappiano, e anche ai posteri tramandino, che nessuna potenza umana potrà resistere alle armi dei romani». Roma fu di fatto «caput mundi» fino alla caduta dell'impero d'Occidente, ma simbolicamente lo è rimasta per sempre. Come è riuscita a realizzare un progetto tanto ambizioso? Andrea Giardina ha pensato di raccontarlo con questa mostra che ha curato insieme a Fabrizio Pesando. «Volevo innanzitutto correggere una visione sbagliata della potenza romana, trasmessa al grande pubblico prima dai dipinti e dai bestseller ottocenteschi con le loro scene di "crudeltà romana", poi dai kolossal cinematografici del Secondo dopoguerra, in cui i romani e i loro imperatori venivano assimilati ai nazisti e ai fascisti, a Hitler e Mussolini. Volevo spezzare questa simmetria tra Roma e violenza, che ancora oggi prevale nell'immaginazione collettiva».
Secondo Giardina, Roma raggiunse la sua potenza non solo con il dominio delle armi, ma anche con la capacità di integrare i vinti. E l'esposizione, che si snoda tra il Colosseo, la Curia Iulia e il tempio del Divo Romolo nel Foro romano, vuole mettere in risalto le «armoniche contraddizioni» di una storia unica per ricchezza e varietà. Attraverso un centinaio di opere tra sculture, rilievi, mosaici, affreschi, bronzi e monete si narrano i due volti di Roma «caput mundi». Da una parte gli aspetti più brutali del dominio romano: le guerre di rapina, la schiavitù, le sofferenze inferte a intere comunità. Dall'altra, una politica dell'integrazione che non trova riscontri in nessun altro periodo storico: i romani ritenevano irrilevante la purezza della stirpe, concedevano facilmente la cittadinanza, liberavano gli schiavi e i figli di questi ultimi erano considerati cittadini di pieno diritto. Roma diventò pian piano una «città aperta», dove anche un cittadino di umili origini, o straniero, poteva diventare imperatore. Era sabino Numa, etrusco Tarquinio Prisco, forse figlio di una schiava Servio Tullio. Erano spagnoli Traiano, Adriano e Marco Aurelio, africani Settimio Severo e Caracalla, addirittura di origini barbare Massimino il Trace.
L'inizio di questo processo di apertura è documentato all'ingresso della mostra, nella Curia. Qui l'imperatore Claudio, nel 48 d. C., tenne un'orazione per convincere i senatori ad accogliere tra i loro ranghi alcuni notabili delle province della Gallia Transalpina. E qui è stata esposta l'epigrafe che contiene una parte del discorso autentico di Claudio, mentre un'installazione presenta il testo completo, in latino e in italiano. Accanto all'epigrafe, il papiro contenente un frammento dell'editto con cui Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero.

Corriere 9.10.12
E Augusto inventò il principe nel nome della Repubblica
La campagna contro l'Egitto, capolavoro di propaganda
di Luciano Canfora


Gaio Ottavio, poi Gaio Giulio Cesare dopo che Cesare lo adottò come figlio (44 a. C.), vulgo Ottaviano, detto così da chi voleva rimarcare le sue origini plebee, poi Augusto, poi «divo Augusto» post mortem, era nato nell'anno del consolato di Cicerone (63 a. C.) e morì nel 14 d. C., a settantasette anni, dopo essere stato ininterrottamente al potere in varie forme, dal 43 a. C. fino alla morte, per 57 anni. È difficile trovare nella storia una carriera più lunga. Era un precoce e fu, tra i reggitori dell'impero, il più longevo. Da giovanissimo, men che diciottenne, aveva preso parte all'ultima campagna cesariana della lunga guerra civile: la pericolosa campagna di Spagna contro i figli di Pompeo, che avevano sollevato la regione, facendo leva sugli antichi legami di clientela del loro padre Pompeo Magno. La carriera di Ottaviano fu segnata da quella campagna. La sua ascesa politica incominciò allora. Può essere utile ricordare che toccò proprio a lui, molti anni dopo, completare la conquista della Spagna (26 a.C.).
Ci sono grandi capi politici la cui «grandezza» risulta, nell'immagine recepita dalla tradizione e in fondo anche dalla storiografia, menomata dalla grandezza del predecessore. Ci riferiamo beninteso non già a quello che la ricerca accerta e ricolloca nella giusta dimensione attraverso un costante lavoro sui documenti, ma all'immagine consolidata: che pure ha anch'essa il suo rilievo ed è essa stessa, in certo senso, un fatto storico.Pensiamo ad Augusto alle prese con il gigantesco suo padre adottivo Giulio Cesare, pensiamo ad Adriano rispetto a Traiano(il "nuovo fondatore" dell'impero e conquistatore della Dacia, impresa pari, per durezza e durevolezza degli effetti, alla conquista cesariana della Gallia), a Costantino VII rispetto a Basilio I, a Filippo II rispetto a Carlo V, a Stalin rispetto a Lenin e così via. Lo studio della «fenomenologia del capo» meriterebbe una trattazione a parte: il «caso Augusto» è, da questo punto di vista, emblematico.
Eppure la sua carriera come capoparte spregiudicato, triumviro spietato, abile artefice di una apparente «restaurazione della Repubblica» che di fatto consisteva nella creazione di una nuova forma di potere personale definibile come principato (né monarchia né libera repubblica), non deve offuscare l'opera sua di costruzione imperiale e di consolidamento e ampliamento dell'impero sul piano diplomatico e militare.
Il perno di questo rinnovamento fu la guerra contro l'Egitto di Cleopatra (per parte sua sorretta dalle legioni e dall'esperienza militare di Antonio): la «guerra di Azio» (31 a. C.) seguita dalla «guerra di Alessandria», cioè dalla conquista, quasi senza colpo ferire, dell'Egitto nonostante il tentativo postremo di Cleopatra di sedurre anche il gelido Ottaviano. Si sorride di solito della scomposta esultanza di Orazio (Odi, I, 37) alla notizia della vittoria di Agrippa e di Ottaviano sulla flotta della regina che apprestava «dementes ruinas» a danno del Campidoglio. Si sorride del poeta servile che cerca di cancellare il ricordo della sua giovanile militanza repubblicana a Filippi (42 a. C.) ingigantendo il «pericolo egiziano» sventato dalla vittoria di Ottaviano ad Azio. Ma non vi è solo questo in quel celebre testo modellato sull'incipit di una altrettanto celebre poesia di Alceo. Vi è anche l'adozione del motivo principale della propaganda augustea secondo cui quella di Azio non fu l'ultimo atto della lunga guerra civile bensì una guerra esterna contro una ragguardevole potenza — l'Egitto (l'ultimo grande regno erede dell'impero di Alessandro Magno) — divenuta ancor più temibile a causa del tradimento di Antonio messosi contro Roma al servizio di una potenza straniera. E come in tutte le propagande, vi è anche un residuo di verità in una tale impostazione, giacché davvero una vittoria antoniana ad Azio avrebbe impresso una svolta all'impalcatura imperiale romana dalle conseguenze imprevedibili: ivi compresa l'adozione di un modello di regalità ellenistica che avrebbe trovato un terreno tutt'altro che sfavorevole anche nel centro del potere, e che Augusto esorcizzò e per un tempo lunghissimo rinviò grazie alla sua linea «occidentalistica» e restauratrice delle tradizioni romane, assecondata da zelanti «intellettuali organici» come il Virgilio dell'Eneide e l'indigesto Properzio del IV libro delle Elegie.
La conquista dell'Egitto non solo segnò la fine della lunga scia di Alessandro Magno, ma fu il perno di un riordino dell'assetto provinciale e della distribuzione territoriale delle legioni a tutto vantaggio del princeps e a detrimento della più potente casta repubblicana, pur sempre egemone sul piano sociale, quale il Senato di Roma.
Sul piano diplomatico il nuovo assetto dell'Oriente conseguente alla vittoria sull'Egitto comportava anche la determinazione di condizioni di buon vicinato col regno dei Parti. che già avevano umiliato Roma al tempo di Carre (53 a.C.) e che avevano sfondato in Siria al tempo del "protettorato" antoniano sulla pars Orientis (campagna di Ventidio: 38 a.C.). OraAugusto ottenne la simbolica restituzione delle insegne romane sottratte a Carre allo sconfitto Crasso. E la sua tela diplomatica si spinse ancora più ad oriente verso l'India. Il che giovò anche a un incremento dei commerci su quel versante (la «via della seta»).
Fu nel mondo germanico che la politica imperiale di Augusto subì una pesante battuta d'arresto, con la sconfitta catastrofica di Quintilio Varo caduto in trappola nella foresta di Teutoburgo il 9 d.C., cinque anni prima della morte del princeps. Ventimila uomini massacrati sul posto e il suicidio di Varo cancellarono definitivamente l'illusione di "romanizzare" il mondo germanico. Il confine fortificato si assestò, allora, definitivamente sul Reno.
Ottaviano, divenuto Augusto nel 27 a. C. nell'atto stesso di «restaurare la Repubblica», aveva conquistato diciannovenne con un colpo di Stato e marciando su Roma il massimo potere repubblicano (il consolato), dopo aver liquidato i consoli in carica nel corso del caotico epilogo della «guerra di Modena» (43 a. C.). E si è congedato dal potere e dalla vita (14 d. C.) minacciando — nei primi righi delle Res Gestae fatti leggere davanti al Senato all'indomani della sua morte— una riapertura delle guerre civili ove la torsione in senso dinastico nella «restaurata» Repubblica non fosse stata accettata dalla frastornata casta senatoria ormai priva di potere militare. Il fatto che il successore designato leggesse al Senato quelle pesanti parole con cui le Res Gestae incominciano («Ho salvato la Repubblica all'età di diciannove anni arruolando un esercito privato») non era solo una larvata minaccia: era il segno più chiaro che il princeps morente aveva designato il nuovo princeps, e che dunque un'altra forma di potere si era ormai consolidata.

Corriere 9.10.12
Potere nero? Settimio Severo, il «proto Obama»
Il sogno americano guarda a duemila anni fa
di Ennio Caretto


Dal 1776, quando si proclamò indipendente, l'America si considera la «Seconda Roma». Nell'anno della pubblicazione dell'epocale lavoro dello storico inglese Edward Gibbon, «The Decline and Fall of the Roman Empire», due dei padri fondatori dell'unica superpotenza di oggi, Thomas Paine e William Drayton, la immaginarono la nuova «caput mundi». Nel generale George Washington, il loro primo presidente, uomo schivo, gli americani colti videro un altro Cincinnato. A lui, avvolto in una toga, lo scultore Horatio Greenough dedicò una statua di marmo simile a quella degli imperatori romani, che il popolino chiamò subito George Jupiter (Giorgio Giove). È probabile che il presidente ne fosse lusingato: cultore della romanità, amava a tal punto il dramma «Catone» di un altro inglese, Joseph Addison, da farlo recitare alle sue truppe.
Dal 2008, l'anno dell'elezione di Obama, il suo primo presidente nero, — una sorta di suggello del carattere multirazziale e multiculturale della sua società —l'America ha un motivo in più per identificarsi nell'antica Roma. L'Impero romano, il più multirazziale e multiculturale della storia, ebbe infatti il proto Obama in Settimio Severo, il suo primo imperatore nero. Conquistato il potere con le armi nel 193, questo generale libico, nato a Leptis Magna nel 146, un protetto di Marco Aurelio, sposato a una siriana, inaugurò una nuova dinastia, la prima di colore della romanità. Nella moneta aurea che lo ritrae con la moglie e i due figli, diversamente dai loro il suo volto è bronzeo. Settimio Severo non era un democratico alla Obama, instaurò una dittatura militare. Ma Caracalla, il primogenito suo successore, estese la cittadinanza a tutti gli «ingenui» o uomini liberi di un impero che comprendeva un terzo del mondo conosciuto.
È probabile che la mostra sulla grandezza dell'antica Roma fornisca all'America altre ragioni per rivendicarne l'eredità. Le differenze tra le due civiltà sono notevoli. L'Impero romano fu frutto di conquiste, ossia delle armi (la «hard power», come si dice oggi), quello americano, che non si è mai dichiarato tale, è frutto della supremazia globale della sua finanza e delle sue tecnologie, la «soft power». Al proprio interno, Roma fu sempre classista, con una rigida divisione prima tra i due «ordini» senatoriale ed equestre e i plebei, poi tra gli «honestiores» e gli «humiliores». Ma non fu quasi mai razzista, mentre l'America è l'esatto contrario. I governanti di Roma parlavano due lingue, il latino e il greco, le lingue dell'intellighenzia, ma in America sono i governati, le minoranze etniche, a parlarne due, la propria e l'inglese, le lingue di milioni di immigrati.
Tuttavia, le analogie tra i due imperi non sono un semplice cliché. La cultura americana è oggi dominante come lo fu quella romana duemila anni fa. L'America è animata da quel senso di «exceptionalism» o unicità che fu tipico di Roma. L'«American dream», il sogno americano del successo, riflette il «Roman dream». Sovente in America l'«outsider», il figlio del Terzo mondo è considerato un essere inferiore, come nell'antica Roma era considerato un essere inferiore il barbaro. E in giro per il mondo il cittadino americano chiede la stessa impunità del civis romano. Se visitiamo Washington, vediamo i fasci romani sul trono della statua di Lincoln, e ci accorgiamo che la «Union Station», la stazione ferroviaria, è la copia dei monumentali bagni di Diocleziano. L'America conta 16 città chiamate Roma: in quella della Georgia c'è la Lupa capitolina con Romolo e Remo, regalo di Mussolini nel 1929.
Cullen Murphy, storico che per vent'anni ha diretto la prestigiosa rivista Atlantic Monthly, è l'autore di «Are we Rome?» (Siamo Roma?), uno delle centinaia di libri sulle somiglianze tra il duro Impero romano e il morbido Impero americano pubblicati in America in oltre due secoli. Lo ha ispirato un celebre detto di George Santayana, cioè che l'umanità è condannata a ripetere gli errori commessi nella storia. Quello del crogiolo, ci dice Murphy, «non è un mito, l'America è un modello di assimilazione di etnie e culture estranee ed è portatrice di civiltà, non sempre benvenuta, come lo fu Roma. E al pari di essa, è un modello di crescita economica». Non è un mito neppure quello dell'unica superpotenza: «La pax americana è il volto contemporaneo della pax romana. È logico, pertanto, che i poveri vogliano immigrare in America e che i giovani vogliano conoscerla». «Al principio del primo millennio», osserva lo storico, «tutti volevano vedere Roma e oggi tutti vogliono vedere New York o Washington». Nel libro, uscito nel 2007, Cullen Murphy si è chiesto se l'America non sia nella situazione di Roma nel terzo secolo, alla vigilia della decadenza. «Dalla fine della Guerra fredda», dichiara, «non sa che ruolo assumere. Un ruolo quasi imperiale che può essere incompatibile con le sue istituzioni democratiche? Un ruolo più modesto che può renderla meno rilevante?».
L'America, prosegue, è alle prese con gli stessi problemi della romanità: «La presunzione di essere la nazione destinata da Dio alla grandezza. L'eccessiva militarizzazione che aliena la società civile. La corruzione e l'imprudente privatizzazione dei servizi pubblici. Il rifiuto di proteggere l'ambiente». Ma lo storico non è un «declinist», teorico del tramonto del potere americano, scosso dai colossi emergenti, Cina in testa, come Roma fu scossa dalle invasioni barbariche. A suo giudizio, a differenza di Roma, l'America può non tramontare: «Abbiamo una straordinaria capacità di reinventarci e di innovare. Occorrono però un maggiore impegno nella società civile e più rispetto per le altre nazioni».

Corriere 9.10.12
Lo sfregio al quadro di Rothko. Può essere pazzia, ma forse è arte
di Angelo Crespi


Possiamo considerare un pazzo Vladimir Umanets che ha sfregiato un Rothko firmandolo col proprio nome e sostenendo di aver fatto un'operazione alla Duchamp? Umanets si è difeso sostenendo che l'opera in questione assumerà nel tempo un valore maggiore. Ovviamente se ragioniamo dal lato della Tate Modern di Londra che ha cura del quadro e lo assicura (peraltro appese alcuni Rothko al contrario), Umanets è un vandalo: l'astrattista americano viene battuto per milioni di euro. Se però analizziamo la questione all'interno del dibattito artistico dell'ultimo secolo, si potrebbe anche prestare fede al russo (autodefinitosi artista, inventore del movimento Yellowism) che non ha deturpato il capolavoro per pazzia, ma con lucida follia l'avrebbe integrato. Anni fa, alla Biennale di Venezia, degli incauti imbianchini ripittarono una porta malmessa; non sapendo però che quella porta proveniva dall'appartamento parigino di Duchamp e che il maestro Dada l'aveva scelta come ready made e dunque elevata ad opera d'arte. Alcuni storici, senza successo, cercarono di giustificare il danno, sostenendo che se il caso aveva determinato la scelta di Duchamp, un caso maggiore aveva poi agevolato l'atto scellerato della ripulitura.
L'esempio rimanda ovviamente alla possibilità (sempre più labile) di definire l'opera d'arte che non è più un oggetto bello, né fatto bene, anzi spesso rimanda all'orrido, che non per forza deve essere stato prodotto dall'artista, spesso basta che lo abbia trovato, o che qualcuno lo abbia esposto in un museo, e che perfino può non esistere, essendo sufficiente il gesto. Se tutto può essere arte, non tutto però è arte. I ligi custodi del discernimento su questo sono impassibili. Quando Paul McCarthy espose a Carrara escrementi giganti in travertino si accettò l'operazione concettuale, mentre si guardò con disgusto l'operazione meta concettuale di alcuni buontemponi che avevano affiancato al mega escremento una mega scopa (tanto che la contro installazione venne subito tolta). A questo punto non avendo elementi certi in proposito, non ci resta che aspettare per scoprire se Umanets è un novello Duchamp o no.

Repubblica 9.10.12
Guttuso. Le due anime dell’uomo che dipinse il Novecento
Nel centenario della nascita il Complesso del Vittoriano di Roma dedica un’ampia retrospettiva al maestro siciliano
Cento opere ne rappresentano tutto l’arco creativo
di Fabrizio D’Amico


ROMA «Ho parlato sempre di realismo e di cubismo, sono antiastratto, antidecorativo, antiformalista. Se mai ho avuto vizi di contenuto. Ho sentito di spiegare a me stesso e agli altri in che senso andasse adoperato l’insegnamento dei cubisti (da Cézanne a Picasso, a Braque, a Matisse, a Gris, a Léger) e ho parlato di cubismo come di una necessaria educazione, non soltanto formale, ma educazione che riconducesse all’oggetto, ne agevolasse la identificazione. Se sono caduto in errori di semplicismo è stato sempre in senso realistico (Courbettiano per capirci) mai in senso astrattista»: così scriveva Renato Guttuso a Cesare Brandi nell’aprile del 1947: lo ricorda adesso Fabio Carapezza, che con Enrico Crispolti (e il coordinamento di Alessandro Nicosia) ha curato la grande mostra che al Complesso del Vittoriano celebra il centenario della nascita del pittore siciliano (catalogo Skira). È un momento decisivo, quella primavera del ’47, per la vicenda di Guttuso: che ha, fra i primissimi in Italia, preso atto da tempo del verbo neocubista che dilagherà nel nostro paese all’aprirsi delle frontiere dopo la guerra; che tenta proprio allora di iniziare una sua avventura oltre frontiera: ma che proprio in quei giorni ha visto i giovani di Forma – i “suoi” giovani, per tanti versi: che aveva accolto nella sua casa e nel suo studio, che aveva aiutato a crescere – scavalcarlo in avanti, e dichiararsi “formalisti e marxisti”, in un connubio per lui difficile. Che leggerà, forse perplesso, le parole con le quali Lionello Venturi lo presenterà alla mostra milanese della galleria della Spiga (la prima del Fronte Nuovo delle Arti): «ha potuto così compiere un viaggio di andata e ritorno: dalla natura è salito all’ordine astratto, che è un’altezza con aria rarefatta, e da quell’altezza egli ha potuto vedere la
realtà e ritornare alla realtà»; parole che quel bilico fra neocubismo (pur se Venturi lo chiami “ordine astratto”) e intenzione realista sembravano un’altra volta evocare.
Di fronte alla gran pala della Crocifissione, oggi in mostra al Vittoriano, sappiamo d’altronde come il dissidio fra le due vocazioni di Guttuso era già in atto da anni: e in effetti ben prima dell’avvio del quinto decennio del secolo. Esposta (e premiata,
fra cento polemiche) al IV Premio Bergamo del ’42, la Crocifissione tiene assieme tanto: tante memorie diverse – da Cagli a Picasso. E tante intenzioni: in quelle figure angolose e scheggiate, in quel colore dato senza vibrazioni chiaroscurali al suo interno (con una semplificazione “irrealistica” della forma, dunque, che ripensava il nuovo linguaggio di Francia); e all’opposto in quel grido alto di dolore, in quel pianto che sta per divenir
rivolta, in quel rosso che batte ovunque lo spazio della rappresentazione, forte come un simbolo. Un grido e un dolore, peraltro, che avevano profondamente segnato la pittura di Guttuso fin dalla sua prima maturità, spesa fra Roma e Milano negli anni Trenta e nella quale s’affollano pensieri e propositi diversi, ancora allacciati – taluni – a Mafai, o memori dei colloqui scambiati a Milano con Birolli (così ad esempio in Gente nello studio, del ’38, qui esposta, e nelle sue nervose, serpentinanti figure abbandonate sul divano; o in certe vedute di Roma e dei suoi tetti infiniti).
Dire una parola agra e spoglia, priva finalmente delle antiche seduzioni novecentesche che l’avevano per un breve momento attratto nei suoi primissimi lavori: di questo va in cerca Guttuso. Ed è al sommo di questo suo modo che viene, presentata
al Premio Bergamo del 1940, la Fuga dall’Etna, che gli valse tra l’altro, assieme all’anatema di Ojetti, un significativo riconoscimento di Guido Piovene: «Guttuso è forse l’unico tra gli espositori che abbia un temperamento genuinamente drammatico e tenda a capire e ritrarre la diversità anche sgradevole di corpi, di gesti e di anime». Fra la
Fuga dall’Etna e la Crocifissione, in un breve volgere d’anni a cavallo dei due decenni, s’avvia «quel modo tutto proprio di Guttuso di leggere la lezione picassiana in senso espressivo (e persino espressionistico): modo che acquista anche un significato particolare nel panorama delle diverse risposte a Picasso in Italia lungo gli anni Venti e Trenta», ha scritto Crispolti. Un’asprezza che aveva avvistato anche Vittorini, dicendo dell’impegno di Guttuso a spogliare il suo eloquio da ogni facile incanto, a dir secco quanto deve dire, «a dirlo in parole povere».
Un quadro importante e raramente esposto, il Massacro di agnelli del ’47, affrontato al celebre Il merlo – il suo dipinto più “formalista”, davvero a un sol passo dall’astratto – esposto alla Biennale veneziana del ’48 (alla sua prima edizione postbellica, dunque, alla quale Guttuso partecipò con il Fronte Nuovo delle Arti, che aveva contribuito a fondare), segna oggi in mostra l’ultimo momento in cui si danno compresenti le due anime che hanno fecondato assieme l’animo di Guttuso nell’immediato dopoguerra. Seguì il momento forse più difficile del pittore, che si trovò a capo della corrente neo-realista, interpretandone l’intento di dar voce anche con la pittura all’impegno sociale e politico che il Partito Comunista pretendeva dai suoi adepti.
Dalla Pesca del pesce spada, del ’49, alla Zolfara (’53-’55), la mostra documenta questo suo tempo, prima di destinarsi a riguardare la “seconda età” di Guttuso, nella quale s’alternano dipinti intessuti di sensualità (Nuda nello studio, ’59) ad altri che cantano i miti popolari della nuova società (a partire da La spiaggia e da Ragazzi in Vespa), ai numerosi ritratti (fra i quali il bellissimo Ritratto di Mario Schifano, del ’66), sino alle vaste composizioni degli anni Settanta (I funerali di Togliatti, La Vucciria, Caffè Greco) in cui, dietro il colore sempre acceso e quasi urlante, si scopre un Guttuso incline al ricordo, alla memoria degli anni e degli amici di un tempo lontano e, forse, alla malinconia.

Repubblica 9.10.12
La battaglia contro l’astrazione
Il pittore, il Pci e i dettami del “realismo socialista”
di Nello Ajello


Un caposcuola e un bersaglio: questo è stato Guttuso per l’arte della sinistra italiana nel dopoguerra. La sua figura era al centro di intensi scontri politico-culturali. Tutto nasceva dal fatto che il Pci, il “suo” Pci, trovava normale adeguarsi, in questo campo, ai suggerimenti teorici provenienti dall’Urss, e ciò implicava un ossequio alla teoria del “realismo socialista”. La direttiva, già diramata nel 1934 dal massimo teorico della materia, Andrej Zdanov, imponeva agli artisti di «operare al servizio del partito». Chi, fra loro, «non è capace di marciare col popolo sarà messo da parte». Così avrebbe ribadito lo stesso Zdanov nel ’46.
Un paese come il nostro – che aveva partecipato ai movimenti del primo Novecento, dalla pittura metafisica al cubismo – aderiva a fatica a una consegna così categorica. Togliatti se ne rendeva conto. Da uomo dell’Ottocento, egli condivideva le direttive del “Paese-guida” in ciò che esse avevano di più ruvidamente conservatore (in un congresso degli scrittori sovietici tenuto a Wroclav nel ’48, si arrivò a dire che la moderna cultura borghese poneva «sul piedestallo gli schizofrenici e i morfinomani, i provocatori e i degenerati»). Il segretario comunista si sforzava così, alla meno peggio, di sottoporre gli artisti a un’obbedienza, sia pure non del tutto ortodossa.
Guttuso apparve dunque l’uomo più adatto a interpretare il progetto. A partire dalla letteratura e dal cinema, la formula del realismo sovietico assumeva da noi le vesti del “neorealismo”. Ma per molti pittori la variante somigliava troppo all’originale, anche perché il segretario del Pci non sempre riusciva a nascondere il proprio consenso allo zdanovismo: in una nota su Rinascita del novembre 1948, egli non si trattenne dal liquidare l’arte moderna dell’Occidente – definita «una raccolta di cose mostruose» – condannando in particolare i suoi esponenti italiani. Di conseguenza gli astrattisti, che avevano aderito sulle prime, insieme ai colleghi di diversa tendenza, a un Fronte nuovo delle arti, diedero vita a un gruppo autonomo, detto “degli Otto”. Erano i pittori Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova, e due scultori, Leonardi e Viani. Più tardi Ennio Morlotti avrebbe rimproverato a Guttuso di voler «ficcare in testa a martellate il realismo socialista» ai propri seguaci, che Pietro Consagra giudicava «un’ottusa tresca di sergenti».
Guttuso, in realtà, era molto legato all’ultima grande pittura italiana – da de Chirico a Morandi, da Carrà a Boccioni – e lo spagnolo Pablo Picasso, assai sgradito agli “zdanoviani”, rappresentava per lui un mito al quale rifarsi: non a caso c’era chi lo descriveva intento a produrre «picassate alla siciliana».
Una felice stagione guttusiana era stata in passato il tardo periodo fascista, nel quale taluni suoi quadri, dalla Fuga dall’Etna alla Crocifissione, simboleggiavano un’acre dissidenza. Poco più tardi, la guerra partigiana lo trovò fra i suoi fervidi interpreti: si ricordi il bel ciclo intitolato Gott mit uns, una netta denunzia della brutalità nazista. Bastavano simili precedenti ad accreditargli la posizione di “leader” della nuova pittura “di sinistra”? Di fatto Guttuso prese a effigiare nelle sue tele degli anni Cinquanta operai, contadini, solfatari, braccianti e mondine, ed era difficile decidere se lo facesse per intima predilezione o per adeguarsi agli umori del partito. I suoi denigratori optavano, ovviamente, per la seconda ipotesi.
Intanto, lui “faceva scuola”. E a chi, come trent’anni fa Moravia sull’Espresso, gli rimproverava di avere «allievi non alla sua altezza» reagiva citando le risposte noncuranti rivolte da Picasso a chi gli imputava di aver generato tanti “picassini”. E, a proposito del sapore “di partito” che emanavano certe sue opere, tagliava corto: «Se ho fatto brutti quadri, ho voluto farli io. Ma ne ho fatti anche di belli. Comunque, Togliatti non mi ha ordinato niente».
I tempi divennero maturi per il tramonto dell’“impegno” in pittura. Di suo, Guttuso era poi un uomo naturalmente sensibile alla popolarità. Nel 1981, avendo la rivista Capital pubblicato una sua intervista, apparve sull’Unitàla lettera d’un lettore scandalizzato: perché il Maestro – si chiedeva il mittente – s’è confidato con un periodico che è «espressione della nostra controparte politica»?. La reazione del Maestro fu di un’ironia sferzante: «Mettete davanti a quella rivista un “Das” e tutto va posto». “Das Kapital”, come il capolavoro di Marx.

Repubblica 9.10.12
Ebay, asta da record per la lettera di Einstein


LONDRA — Una famosa lettera autografa di Albert Einstein, in cui il grande scienziato metteva in dubbio l’esistenza di Dio, è in vendita da ieri su eBay con un prezzo di partenza di 3 milioni di dollari. Scritta nel 1954, un anno prima di morire, all’amico e filosofo Erik Gutkind, la lettera contiene le riflessioni di Einstein su Dio, che egli considerava “null’altro che l’espressione della debolezza umana”, sulla religione (“quella ebraica, più di ogni altra, è per me l’incarnazione di infantili superstizioni”, scriveva) e sulla Bibbia, definita “una raccolta di leggende dignitose, ma piuttosto primitive”. La missiva del premio Nobel per la fisica fu acquistata nel 2008 a un’asta per 400 mila dollari da un anonimo collezionista, che in appena quattro anni spera dunque di moltiplicarne di sette-otto volte il valore.

Repubblica Salute 9.10.12
Al congresso della Società di Psichiatria. Disturbo bipolare
Chi aspetta più di due anni nell’utilizzo di farmaci stabilizzatori dell’umore
può sviluppare forme più gravi
In corso a Milano la questione di come riconoscere la malattia:
Irritabilità episodica segnale da osservare
Trattamenti immediati barriera anti-suicidi
di Francesco Cro


Un intervento precoce nel disturbo bipolare può fare la differenza, soprattutto in termini di prevenzione del suicidio (evento più frequente in questi pazienti). È l’opinione della psichiatra Roberta Bassetti, curatrice, con Monica Bosi e altri colleghi del Centro disturbi depressivi del Sacco di Milano, del corso “Approccio al trattamento della complessità nei disturbi dell’umore” all’interno del 46° congresso della Società Italiana di Psichiatria (titolo: “Nutrire la mente”), in corso a Milano.
I pazienti che aspettano più di due anni prima di ricevere una terapia con farmaci stabilizzatori dell’umore sono più propensi a sviluppare una sintomatologia più grave. La psicologa Doreen Olvet, del Programma di ricerca sui disturbi psichiatrici del North Shore-Long Island Jewish Health System di New York, ha notato che i sintomi prodromici del disturbo bipolare sono difficilmente distinguibili da quelli di altre psicosi, come la schizofrenia; di conseguenza, anche la prescrizione di una terapia specifica può non essere tempestiva. L’esecuzione di test neurocognitivi, nei quali i pazienti bipolari tendono a ottenere risultati migliori, può essere di aiuto.
Un altro filone di studi è quello che mette in relazione l’irritabilità e la rabbia cronica nell’adolescenza con il futuro sviluppo di un disturbo bipolare. Daniele Radaelli e i suoi colleghi del Dipartimento di neuroscienze del San Raffaele di Milano hanno riscontrato disfunzioni comuni ai disturbi dell’umore e al disturbo di personalità borderline, caratterizzato da alterata regolazione delle emozioni, nell’attività di aree appartenenti al sistema limbico, implicato nell’integrazione emotiva degli stimoli esterni. E in uno studio sull’elaborazione neurocognitiva delle emozioni in pazienti bipolari giovani, Ellen Leibenluft, direttrice della Sezione disturbi spettro bipolare dei National Institutes of Health di Bethesda, Maryland (Usa), ha osservato nei ragazzi con grave disregolazione emotiva e in quelli con disturbo bipolare un’alterazione simile del funzionamento dell’amigdala di sinistra in risposta alla presentazione di immagini raffiguranti espressioni di rabbia; la risposta ad espressioni di allegria differiva invece tra i due gruppi, dimostrando così una base neurobiologica parzialmente condivisa, ma non del tutto sovrapponibile, nelle due condizioni. L’irritabilità episodica sarebbe più indicativa, rispetto a quella stabile nel tempo, di un possibile futuro sviluppo di un disturbo bipolare.
*Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica Salute 9.10.12
Cure palliative
Italia in ritardo: Sabato iniziative Isal
Un manifesto europeo e da oggi un convegno a Torino.
Terapia del dolore e fine vita la Ue prepara nuove regole
di Mariapaola Salmi


In un’Europa sempre più vecchia, oltre cento milioni di anziani ogni anno potrebbero trarre beneficio dalle terapie cosiddette “palliative” alle quali in realtà accede di essi uno scarno 8%. Nel nostro paese, relegato al 12° posto in questo settore persino dietro alla Polonia, solo il 15% dei malati arrivati alla fase finale di una malattia cronica riceve un trattamento di fine vita adeguato a restituire dignità alle sofferenze fisiche e psicologiche e a supportare la famiglia. La necessità di implementare le cure palliative e la terapia del dolore è ormai considerata un’urgenza comunitaria tanto che a Bruxelles, l’Associazione europea di cure palliative (Eapc) e la Società europea per la medicina geriatrica (Eugms) hanno presentato al Parlamento europeo un manifesto che in sei punti delinea un nuovo modello assistenziale e auspica il coinvolgimento di palliativisti e geriatri. «Il classico modello di cure palliative e terapia del dolore disegnato per un paziente giovane adulto grave con tumore e pochi mesi di vita non può funzionare – afferma Giovanni Gambassi, specialista in medicina interna e geriatria al Gemelli di Roma – serve un cambio di rotta, un nuovo modello adattato alle malattie croniche cosiddette “allargate” che coinvolgono oltre ai malati, famiglie intere per lunghi anni, una diversa assistenza che oltre a gestire i sintomi del fine vita riduca di un buon 60% i costi». Il manifesto se approvato al Parlamento europeo aprirà la strada a un piano di investimenti per la formazione dei medici, la ricerca e la comunicazione, non sempre facile e della quale si parlerà al prossimo Convegno nazionale della Società italiana di cure palliative (da oggi al 12 a Torino).
Sebbene sei medici di famiglia su dieci ritengano fondamentale trattare in modo appropriato il dolore cronico, un’indagine Mundipharma rivela come solo un medico su quattro conosca bene la legge 38/2010 che ha sancito il diritto di tutti a non soffrire. Scarso anche il monitoraggio del dolore (solo il 27% dei medici è attento al problema). «Una ricognizione de primari oncologi (Cipomo) su dieci centri di oncologia medica – sottolinea l’oncologo medico Sandro Barni dell’ospedale di Treviglio - evidenzia come i medici sottovalutino ancora l’utilità dei farmaci adiuvanti, cortisonici e antidepressivi modulatori importanti del dolore, e quanto sia necessario serrare i controlli nelle prime settimane per aggiustare il trattamento». «Le cure palliative e la terapia del dolore sono per tutte le età, per tutti i malati inguaribili e devono diventare un supporto per le famiglie, la nostra normativa è la migliore d’Europa – sottolinea Adriana Turriziani, presidente della Società cure palliative (Sicp) – adesso dobbiamo impegnarci perché i decreti attuativi vengano adattati alle realtà regionali e perché l’assistenza sia il più omogenea possibile». Intanto la Fondazione Isal (www.fondazioneisal. it), sabato 13, promuove in 56 città la Giornata contro il dolore cronico, con lo slogan “Il dolore non va sopportato ma curato”.

il Fatto 9.10.12
Mercati
La libreria on line compra la bottega
Le vendite in rete vanno talmente bene che le aziende rilevano i vecchi negozi destinati a scomparire
di Eugenia Romanelli


Forse non tutti se ne sono accorti, ma a maggio le librerie Melbook hanno cambiato insegna e sono diventate Ibs.it   Bookshop. In pratica il guru italiano delle librerie on line, Ibs, è diventato talmente potente da potersi permettere di aprire punti vendita “reali” in un momento in cui tutti gli altri stanno chiudendo i bandoni, e per il 2013 sono in programma ancora nuovi spazi.   Com  ’è possibile? Chris Anderson, direttore di quella Bibbia per nerd e smanettoni che è Wired, qualche anno fa l’aveva predetto: the long tail, la coda lunga, avrebbe rivoluzionato il mercato. The long tail era anche il titolo del suo libro e lì Chris – poi beccato a copiare su Wikipedia, ma questa è un’altra storia – vi sosteneva che se fino all’avvento di internet la parte da leone nella domanda la facevano pochi big players (librerie, critici, editori e distributori), nell’era 2.0 sarebbero stati autori e lettori che, con passaparola, rete, autopromozione e social advertising, avrebbero determinato gusti e tendenze. Così è stato, e oggi le librerie on line, anche in Italia, proprio grazie al fatto di aver messo al centro il lettore e non i big players, sono diventate un cuore vivo importante del mercato editoriale.
IBS, APPUNTO, ma anche Amazon, Feltrinelli, Bol, Hoepli o Webster hanno fatto affari d’oro, in controtendenza rispetto alle librerie tradizionali, sempre più in crisi. A tal punto, e il paradosso sta qui, che oggi, visti i milioni di clienti on line, per Ibs è stato possibile acchiappare anche i consumatori tradizionali che acquistano off line: “La nostra strategia – spiega Marco Zerbini, amministratore delegato Ibs – è basata sulla presa di coscienza che non abbiamo ancora afferrato il futuro.
Perché il futuro non sta nell’on line ma nel mix on line/off line. Gli utenti che acquistano su Ibs acquistano anche nelle librerie tradizionali: il fatto è che internet è diventato parte della nostra quotidianità ma ovviamente non può sostituirsi ad essa. Quindi per soddisfare il lettore è necessario metterlo in condizioni di fare acquisti sia on line che off line. Per questo abbiamo sfruttato le librerie ‘reali’ che possedeva il nostro gruppo, le Melbook, e la forza del nostro marchio Ibs, l’unico al mondo in grado di superare Amazon”.
In effetti, dati alla mano, a resistere sul mercato sono le librerie che si sono messe in rete, appunto mixando reale e virtuale: “Il punto è che l’on line non implica automaticamente un successo di mercato, se non è accompagnato dall’off line – spiega Alberto Galla, presidente dell’Associazione Librai –. Senza un magazzino consistente come hanno Ibs o Amazon, e senza una logistica che faccia funzionare perfettamente i siti, un carrello virtuale serve a poco. Ma se al carrello si aggiungono iniziative ‘reali’ come incontri, manifestazioni, salotti, aperitivi o eventi, ecco che si crea un circolo virtuoso. Le piccole librerie indipendenti oggi si salvano così, e fanno da esempio per le grandi”.
SONO QUINDI la territorializzazione o la specializzazione, unite alla connessione in rete, la carta vincente e le librerie di nicchia – per esempio le gastronomiche piuttosto che le gialliste, o quelle legate al quartiere – collegate tra loro via etere, riescono a pescare un bacino di lettori ampio e vivace.
Giorgio Pignotti della libreria Rinascita di Ascoli Piceno, ad esempio, col suo progetto Bibliodiversità, ha fatto in modo che il cliente che va in libreria per cercare un testo può consultare un database in comune con tutte le librerie associate e con le biblioteche del territorio e così scoprire in tempo reale dove si trovi il volume, magari proprio nella libreria sotto casa.