giovedì 11 ottobre 2012

La Stampa 11.10.12
Il silenzio di fronte agli scandali
di Francesco Manacorda


Ma che fine ha fatto a Milano e dintorni la tanto decantata «società civile»? Perché di fronte all’ondata di malcostume e di malaffare che si solleva dai palazzi della politica locale tacciono anche le voci di quella che un tempo era una borghesia imprenditoriale e delle professioni che guardava idealmente a Nord dei propri confini e alla quale buona parte d’Italia guardava a sua volta con non poche speranza?
L’ultimo arresto di ieri per un’accusa più Calabria che Baviera di voto di scambio, con tanto di tariffario delle preferenze veicolate dalla ’ndrangheta, si aggiunge a scandali seri e grotteschi (vedi alla voce Nicole Minetti) e certifica l’ennesimo colpo al potere di Roberto Formigoni. Cinque assessori delle sue giunte arrestati in otto anni, rendono sempre più debole la linea difensiva del presidente della Lombardia, che derubrica d’abitudine ogni inciampo della sua squadra a responsabilità personali. La condanna a dieci anni di reclusione appena inflitta al sodale Pierangelo Daccò per la spoliazione del San Raffaele potrebbe traslare sul piano politico responsabilità penali.
Il bel record di quattordici consiglieri regionali indagati a vario titolo su un totale di ottanta allarga il discredito anche al di fuori dello schieramento del governatore.
Ma mentre la lunghissima stagione del formigonismo mostra segnali inequivocabili della sua fine, quel che colpisce è proprio il silenzio che circonda la parabola di un sistema di potere. Quelle stesse categorie che più di tutte le altre dovrebbero essere colpite e ferite da quello che rivelano le inchieste giudiziarie, non foss’altro perché il rapporto inquinato tra affari e politica mina alla base ogni prospettiva di leale concorrenza e distorce in modo definitivo il mercato, non hanno invece reazioni apprezzabili.
Del resto appare quasi impossibile trovare oggi nella capitale economica d’Italia, poteri «forti» che siano in grado di confrontarsi con il sistema costruito da Formigoni nei tre lustri e mezzo di sua permanenza al Pirellone. Le grandi banche, piegate prima sotto il peso della crisi finanziaria e adesso anche sotto quello di una congiuntura economica che affonda la lama nei loro bilanci, sono tutte concentrate verso azioni di risanamento interne. Quel che resta del capitalismo manifatturiero e dei suoi addentellati finanziari appare impegnato in battaglie talvolta feroci che scardinano il vecchio assetto dei patti di sindacato e si rivelano spesso come lotte per la sopravvivenza.
Se dalla grande impresa si passa a quel popolo di professionisti e partite Iva che dovrebbe costruire parte integrante della borghesia, il discorso cambia poco. Ripiegati su se stessi anche per la necessità di far fronte alla crisi economica, i ceti professionali non trovano del resto un’offerta politica che intercetti la loro domanda e affondano anzi nella grande palude dell’antipolitica.
Pesa probabilmente anche la difficoltà a fare i conti con un insuccesso collettivo: ancora pochi anni fa il mondo delle imprese offriva aperture di credito forti al governo regionale lombardo, come dimostra lo sterminato elenco di industriali e finanzieri che aderì al Comitato strategico per la competitività istituito proprio da Formigoni. E chi, come la Lega, ambiva a dar voce proprio ai ceti produttivi del Nord ha preferito almeno fino a ieri sera tirare a campare nel governo della Lombardia, stretta fra tatticismi elettorali e strategie politiche di incerto destino.
La degenerazione all’ombra del Pirellone, sulla quale pesano anche gli allarmi della Procura milanese ripetuti ancora ieri da Ilda Boccassini riguardo alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo politico ed economico lombardo, merita però una risposta rapida. Chi produce e lavora nell’area più avanzata del Paese e vede arretrare vistosamente il sistema di governo ha il dovere, forse prima ancora del diritto, di ritrovare la voce e farsi sentire.

l’Unità 11.10.12
Nobel a Kobilka e Lefkowitz
Premio ai due chimici per le ricerche sui recettori degli organi del senso
Grazie ai loro studi viene ricostruito il modo
in cui le cellule accettano i messaggi dall’ambiente e capiscono cosa succede
di Pietro Greco


PREMIO NOBEL PER LA CHIMICA 2012 A DUE AMERICANI, ROBERT J. LEFKOWITZ, che lavora all’Howard Hughes Medical Institute del Duke University Medical Center, di Durham, North Carolina, e a Brian K. Kobilka, della californiana Stanford University School of Medicine. I due, recita la motivazione, hanno dato un importante contributo agli «studi delle G proteine accoppiate». Detta così sembrerebbero studi comprensibili solo agli addetti ai lavori. Invece sono studi fondamentali, che hanno cercato di capire quali sono «gli organi di senso» delle nostre cellule. Come quelle minuscole (ma complesse) unità che possiamo considerare i mattoni elementari della vita capiscono cosa succede nell’ambiente esterno. Un uomo ha i suoi bravi cinque sensi per interagire con l’ambiente: vede, ascolta, tocca, gusta, odora. Per ciascuna di queste attività ha organi precisi di senso: gli occhi per vedere, le orecchie per sentire, la pelle per toccare, la bocca per gustare, il naso per odorare. Ma loro, le cellule, come fanno?
In primo luogo ricordiamo cosa sono le cellule. Anzi, le cellule eucariote. Le grosse cellule di cui siamo costituiti (nel nostro corpo ce ne sono miliardi) sono una sorta di piccole fabbriche vecchia maniera. Hanno una parete (la parete cellulare) che le separa dal mondo esterno. Hanno i capannoni (il citoplasma) dove si producono, a comando, una quantità enorme di beni materiali (le proteine) e poi hanno un centro direzionale (il nucleo) ben separato dai capannoni dove risiede il management (il Dna) che invia ordini su come e cosa fare nei reparti produzione.
Ma come fa il management a sapere esattamente cosa va fatto in un preciso momento? Attraverso una catena di informazioni che provengono dai reparti produttivi, ma soprattutto dall’esterno della fabbrica. E allora, come vengono conseguite queste informazioni? Semplice a dirsi: le cellule sulle pareti esterne devono avere degli organi di senso. Qualcosa di simile a occhi, orecchie, eccetera. I biochimici li chiamano recettori. Luoghi dove si ricevono le informazioni. Per tornare alla metafora della fabbrica, devono avere degli uscieri che ricevono i postini. E poi devono avere dei canali tali che le informazioni possano passare dagli uscieri e andare ai reparti di produzione e, soprattutto, ai piani alti, quelli del management.
La storia della moderna chimica della vita può essere interpretata come il progressivo tentativo di individuare gli attori di questa complessa catena
informatica. Negli anni 50, per esempio, Francis Crick e James Watson mostrarono come lavora il management e come invia gli ordini.
Nel corso di questa lunga e complicata storia si è capito chi sono i postini, che si presentano all’entrata per consegnare le «lettere sull’ambiente» agli uscieri e indicare al management qual è la domanda del mercato da soddisfare. I postini sono molecole (in genere proteine, ma non solo) chiamati ormoni. Un esempio noto, almeno di nome, è l’adrenalina. È un ormone che porta messaggi del tipo: attenzione, pericolo.
L’ORGANIZZAZIONE DEGLI «USCIERI»
Queste molecole messaggero sono state a lungo studiate. Ma, alla fine degli anni 60 del secolo scorso, si sapeva poco su chi erano e come lavoravano gli uscieri. È a questo punto che entra in gioco Robert J. Lefkowitz. Il quale con una serie di studi piuttosto complessi alcuni di questi uscieri, chiamati recettori cellulari, e ricostruisce il modo in cui accettano il messaggio riconoscendo sempre un postino da un millantatore e il modo in cui lasciano che il messaggio raggiunga l’interno della fabbrica cellulare. Ricevuto il messaggio, il management si attiva in modo da ordinare alla catena di montaggio qual è la domanda di mercato da soddisfare, producendo un certo tipo di oggetti (proteine) e non altre.
Insomma Lefkowitz ha dato un formidabile contributo a capire come le cellule ricevono e rielaborano le informazioni dall’ambiente. Il problema è che la cellula è come una megafabbrica cinese: vi sono decine di migliaia di lavoratori e un’enorme quantità di uscieri che ricevono un’infinità di informazioni.
È qui che, negli anni 80, entra in gioco anche Brian K. Kobilka. Che da un lato individua il gene (il manager) che codifica per i diversi recettori (uscieri) e dall’altro ricostruisce il modo, unico, con cui una intera classe di recettori riceve le informazioni dall’esterno. Il meccanismo non è diverso da quello con cui noi vediamo. In qualche modo Kobilka ha individuato gli occhi delle cellule. Molto recentemente, lo scorso anno, Brian K. Kobilka ha «fotografato» il momento in cui un usciere (il recettore ß-adrenergico) riceve la «lettera dall’ambiente» da parte del postino.
Ormai quella grande fabbrica che la cellula è ben monitorata. E i biochimici hanno capito molto (ma non tutto) del suo funzionamento. Il che aumenta la possibilità di controllare dall’esterno il funzionamento delle unità fondamentali della materia vivente.

l’Unità 11.10.12
La tempesta sul libro. Vendite in calo e aumento dell’Iva
A Francoforte presentato il rapporto Aie: l’editoria perde quasi il 4% dei già scarsi lettori italiani
di Maria Serena Palieri


FRANCOFORTE. NON È STATO UN BUON RISVEGLIO QUELLO DI IERI MATTINA, A FRANCOFORTE, PER GLI EDITORI ITALIANI: LA MANOVRA DEL GOVERNO, CHIUSASI IN NOTTURNA, INFATTI, HA FATTO OMAGGIO DI UN AUMENTO DELL’IVA SULL’E BOOK DAL 21 AL 22%, QUELL’IVA CHE DA QUANDO SI È ANNUNCIATA LA RIVOLUZIONE DIGITALE LORO CHIEDONO VENGA ABBASSATA, ALL’OPPOSTO, AL 4% CHE GRAVA SUI LIBRI CARTACEI.E piove sul bagnato, visto che il paese che in questo 2012 si affaccia alla Buchmesse con le ossa maggiormente rotte è proprio il nostro. Perché ormai la «i» di Pigs sta per Italia e non più per Irlanda. E perché la crisi che da noi aveva risparmiato il comparto del libro nel 2009 e 2010, facendo spendere fiumi di inchiostro (il nostro compreso) sul potere perdurante del libro quando il Bengodi si sgonfia, ha cominciato a prendere a randellate il comparto nel 2011 e continua spietata a farlo nel 2012.
LA CRISI DEL MERCATO
Il rapporto annuale dell’Aie, presentato dal presidente Marco Polillo, com’è tradizione nel mercoledì di apertura della Fiera, alla presenza di un interlocutore di Governo (ieri Paolo Peluffo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria) dice cifre nitide. Nel 2011 il mercato è decresciuto del 3,7% e, nei primi nove mesi del 2012, di un ulteriore 8,7%. Il libro insomma è entrato nella stessa crisi che aveva colpito forte altri settori del tempo libero già nel 2011: il -10,3% del cinema di sala, il -17,6% dell’home entertainment, il -5,0%della musica registrata, il -7,1%dei videogiochi e, su un altro fronte, il-2,2% della stampa quotidiana e il -3,0% di quella periodica.
Se il libro, fino agli ultimi mesi dell’anno scorso, aveva manifestato un «andamento anticiclico» ora non è più così.
Ma il dato più preoccupante, a ben guardare, non è la crisi di acquisti e vendite, la crisi del «mercato». È la crisi della lettura stessa. 723.000 italiani negli ultimi dodici mesi hanno deciso di non leggere neppure quell’unico libro l’anno che li mante-
neva nella categoria dei lettori (debolissimi e con un’attitudine singolare: come si sceglie «il» libro che ci accompagnerà per dodici mesi?. Ma pur sempre lettori). E a questo si accompagna un dato che ha un valore antropologico: non legge neppure un libro l’anno il 19% dei laureati, il 33,7% dei quadri direttivi e il 31% di dirigenti, imprenditori, professionisti. Se è così chi saprà «dirigere» il cambiamento e portarci di là dal guado?
A guardare il solito bicchiere per diagnosticarlo mezzo pieno o mezzo vuoto, aggiungiamo dei dati che dicono che, tuttavia, la nostra editoria si batte sul piano imprenditoriale: la vendita di diritti all’estero negli ultimi dieci anni è cresciuta del 16% l’anno (i libri italiani tradotti sono passati da 1800 a 4629) e al comparto tradizionalmente tradotto, la narrativa d’autore, si è affiancata la produzione di genere, rosa, giallo, noir, fantasy, quella per bambini, la saggistica e i libri d’arte. Diciamo che il settore per l’infanzia (la Fiera di Bologna è considerata l’appuntamento top nel settore) e quello dei generi sono state le due scommesse giocate e vinte negli ultimi anni.
Ma la crisi resta. E la crisi provoca scenari darwiniani... Fa sì che la nostra editoria si presenti a questa Buchmesse particolarmente lacerata da contrapposizioni tra editori indipendenti e grandi gruppi, come ha testimoniato la sfida aggressiva che i due maggiori gruppi Mondadori e Rcs hanno mosso alla legge Levi sul prezzo del libro, quando a fine settembre ha compiuto un anno, legge che i «piccoli» considerano un baluardo imprescindibile alla propria sopravvivenza. Sicché ha destato allarme nei giorni scorsi un rapporto dell’Antitrust che la qualificava come inefficace e perorava un ritorno al regime antecedente (ma tutto dice che la legge Levi per ora continuerà il suo compito).
NON C’È UN SOLDO
«La tempesta perfetta si è scatenata sul libro, travolto dal calo della domanda e dalle difficoltà di accesso al credito in un momento in cui gli editori sono chiamati a ingenti investimenti sul digitale e non aiutati dalla frammentazione delle competenze sul libro», ha perorato la causa della nostra industria Marco Polillo. Peluffo ha annunciato la creazione di una task force. Per dare iniezioni di liquidità agli editori? No, soldi non ce ne sono. Ma la battaglia antropologica si può tentare: una task force per riportare la lettura nel panorama quotidiano degli italiani.

l’Unità 11.10.12
Editori e governo
C’è bisogno di un sostegno reale


«Dateci sostegno per far abbassare l’Iva sugli eBook dal 21% al 4% e dateci un credito d’imposta sull’innovazione digitale. Ma soprattutto date più attenzione al nostro ruolo di operatori culturali. Sono richieste non troppo onerose per le casse dello Stato ma che stimolerebbero una ripartenza per le case editrici, rimettendo in moto il mondo della lettura», ha chiesto ieri il presidente dell’Associazione Italiana Editori, Marco Polillo, rivolgendosi al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega all’Editoria, Paolo Peluffo, che ha inaugurato oggi il Punto Italia. «Non è più tempo di parole per il mondo del libro. Ci servono fatti» ha continuato Polillo. «Datevi una politica coordinata per il libro, troppi e frammentati sono i rapporti e gli interlocutori del nostro
mondo su sostegno all’editoria, promozione della lettura e diritto d’autore» ha continuato il presidente dell’Aie. Avrà ascolto? Vedremo... Intanto nella stessa giornata, è stato presentato un nuovo premio letterario. Rivolto a un settore dell’editoria che per fortuna ha un ampio mercato, i libri per l’infanzia. Per il cinquantesimo della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, nasce il Premio internazionale Bop, il Bologna Prize all’Editore per ragazzi dell’anno. La scelta dei vincitori sarà fatta da tutti gli editori partecipanti alla Fiera del Libro per Ragazzi, sulla base di una serie di nomination, segnalate dalle Associazioni di Editori di tutto il mondo. Sei saranno i riconoscimenti che verranno assegnati, uno per ciascuna area geografica: Europa, Asia, Africa, Nord America, Sud America e Oceania.

La Stampa 11.10.12
Il Nobel agli ispiratori dei super-farmaci
Stoccolma premia gli americani Lefkowitz e Kobilka, scopritori dei recettori delle cellule
di Valentina Arcovio


Quest’anno entrano a far parte dell’Olimpo dei Nobel gli scienziati che hanno scoperto i «sensori» attraverso cui le nostre cellule percepiscono e rispondono agli stimoli esterni. L’Accademia delle Scienze di Stoccolma ha infatti assegnato il Nobel per la Chimica a Brian Kobilka e Robert Lefkowitz, gli scienziati americani che hanno individuato per primi una categoria particolare di recettori che permettono alle cellule del nostro corpo di interagire e adattarsi all’ambiente esterno. E’ grazie a queste speciali «antenne», battezzate «recettori della proteina G», che le cellule percepiscono stimoli come luce, odori, calore e sapori. Questi recettori hanno anche la funzione di mediare sensazioni – ad esempio gioia e paura scatenando vere e proprie reazioni fisiche, come aumento della respirazione e del battito cardiaco. «Esiste un certo numero di tipi diversi di questi recettori – spiega Yuri Bozzi, dell’Università degli Studi di Trento e riceratore dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr e ognuno ha una specificità per alcune “molecolesegnali”, come per esempio l’adrenalina».
Questi speciali sensori attivano una serie di reazioni fondamentali per il nostro organismo. Una scoperta che ha stuzzicato le case farmaceutiche che ancora oggi sfruttano il lavoro dei due nuovi Nobel per sviluppare farmaci più efficaci e con meno effetti collaterali. I risultati sono già sotto gli occhi di tutti. «Circa la metà dei farmaci ora in uso ha scritto il comitato dei Nobel nella sua motivazione sfruttano il meccanismo dei recettori della proteina G». Basta pensare alla produzione dei betabloccanti, antistaminici e psicofarmaci. «Ad esempio esistono farmaci che lavorano su recettori adreneregici accoppiati a proteine G che si sono rivelati molto efficaci nella terapia dell’asma», dice Bozzi.
Tutto è iniziato nel 1968, quando Lefkowitz, 69 anni, docente dell’ Howard Hughes Medical Institute e della Duke University, è riuscito a individuare il recettore per l’adrenalina, utilizzando ormoni marcati con isotopi radioattivi. Il passo successivo è toccato a Kobilka, 57 anni, della Stanford University School of Medicine, allievo di Lefkowit, che ha isolato il gene che codifica per questo recettore. Il lavoro di Kobilka ha portato alla scoperta di altri «sensori», oltre al recettore per l’adrenalina, che si legano a numerosi neurotrasmettitori. Si tratta di recettori capaci di mediare la risposta della cellula e dell’organismo a queste sostanze e più in generale agli stimoli esterni che essi codificano.
«Il lavoro dei due scienziati – conclude Bozzi rappresenta un caso luminoso di una scoperta di base che ha delle ricadute incredibili sulla ricerca applicata».

La Stampa TuttoScienze 10.10.12
Il Nobel della fisica ai domatori di particelle
di Gabriele Beccaria


Sono esploratori di un mondo invisibile, dove il senso comune è annullato e le cose si comportano come non dovrebbero: da quell’universo parallelo promettono di riportare indietro molte meraviglie, come i segreti per costruire i super-computer del futuro, talmente veloci e potenti da annicchilire quelli attuali e regalarci poteri di analisi e previsione oggi quasi impensabili.
Ecco perché ieri l’Accademia Reale di Stoccolma ha deciso di assegnare il Nobel per la fisica al francese Serge Haroche e all’americano David Wineland: «Hanno aperto una nuova era nelle sperimentazioni di fisica quantistica recita il comunicato ufficiale dimostrando la possibilità dell’osservazione diretta di singole particelle». Il loro primo miracolo è stato quello di isolare «mini-pezzi» di materia le particelle, appunto e di osservarli nel loro strano habitat senza interferenze e quindi lasciandone intatte le bizzarre proprietà. E’ noto, infatti, che a livello dell’infinitamente piccolo, se non si prendono le necessarie contromisure, l’osservatore distrugge ciò che lui stesso avrebbe dovuto studiare.
Haroche e Wineland hanno vinto la sfida nella micro-realtà dell’ottica quantistica, quella in cui protagonista è l’interazione tra luce e materia. Con tecniche differenti.
Il fisico francese, impegnato al Collège de France e all’Ecole Normale Superieure di Parigi, utilizza un superconduttore, a temperature prossime allo zero assoluto, per far rimbalzare singoli fotoni. Gli specchi dell’apparecchiatura sono così sensibili che ogni particella di luce si muove freneticamente fino a un massimo di un decimo di secondo o per l’equivalente di 40 mila chilometri, come un viaggio intorno alla Terra. In quella cavità vengono poi lanciati speciali atomi noti in gergo come «atomi di Rydberg» con cui si misurano le prestazioni dei fotoni stessi, calandosi così nel vortice degli incantesimi quantistici. E là può succedere, tra l’altro, di assistere al fenomeno dell’«entanglement», la straordinaria (e controintuitiva) capacità delle particelle di comportarsi come un singolo sistema indipendentemente dalla distanza oppure dalla posizione.
Il fisico americano, impegnato al «National Institute of Standards and Technology» e alla University of Colorado, ricorre invece al potere dei raggi laser. Riducono lo stato energetico di uno ione vale a dire un atomo elettricamente carico e consentono anche di intrappolarlo. Così si obbliga lo ione stesso a un’altra condizione decisamente controintuitiva, nota come «superposition» (la sovrapposizione), nella quale è capace di esistere in due stati diversi simultaneamente.
Ma, per quanto incredibile appaia l’abilità di bloccare le particelle in apposite «scatoline» e di manipolarle, molto più concrete e visionarie sono le applicazioni degli esperimenti di Haroche e Wineland. E’ già stato realizzato il prototipo di un superorologio ottico, così preciso sostengono gli studiosi da «poter diventare la futura base per un nuovo standard di tempo» e anche da riuscire a misurare alcuni effetti della gravità sullo spazio-tempo previsti dalla Relatività di Albert Einstein.
E lo scenario si allarga fino ai computer quantistici, veri e propri cervelli sintetici, che, invece di ricorrere al codice binario dei bit, giocheranno con la sovrapposizione dei qubit, in cui lo 0 e l’1 possono magicamente coesistere. Risultato: la capacità di immagazzinare e di processare una quantità enorme di dati, proprio come richiede adesso la «Big Science», la scienza avanzata fondata sulla moltiplicazione esponenziale delle informazioni, oltre le circoscritte capacità cognitive degli esseri umani.
Se un giorno si avranno a disposizione i fantascientifici computer in grado di anticipare l’evoluzione del clima terrestre e gestire codici a prova di hacker sarà anche per merito dei due professori che ieri hanno aggiunto il loro nome alla lunga lista dei Premi Nobel.

Repubblica 11.10.12
Il nuovo saggio di Chiara Saraceno è dedicato a come cambiano le relazioni
Il gioco delle coppie
di Nadia Urbinati


“Non vi è nulla di meno naturale della famiglia” scrive Chiara Saraceno in questo interessante ultimo suo libro sulla non-naturalità delle coppie e delle famiglie (Coppie e famiglie che esce per Feltrinelli). Nonostante l’articolo 29 della nostra Costituzione, il quale afferma che “la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”, salvo poi complicare le cose nell’articolo 30, che equipara i diritti dei figli “naturali” a quelli dei figli “legittimi”, suggerendo non soltanto che gli obblighi genitoriali esistono a prescindere dal fatto di essere sposati, ma anche che si può essere sposati con una persona e allo stesso tempo avere obblighi verso figli nati da un rapporto con un’altra con cui non si è mai stati coniugati. «In questi casi, è la presenza di figli, non il matrimonio, che origina una famiglia, per quanto “solo naturale”».
La cultura e i diritti liberali hanno contribuito a rendere il matrimonio un abito sempre più stretto, adattandolo al mutamento della famiglia. Nel Seicento, John Locke aveva proposto di considerare la famiglia come un’associazione funzionale al bisogno di cura e di educazione dei nuovi nati, destinata a esaurire il suo scopo con l’avvenuta maturità dei figli. Quando il bisogno si è estinto, suggeriva il padre della filosofia liberale, allora si può pensare alla coppia come a un’associazione davvero volontaria. Così, aggiungiamo noi oggi, la coppia segue la scelta degli individui, tanto nella struttura quanto nella sua composizione. Se la legge interviene lo dovrà fare in modo tale da non contrapporsi alla volontà, alla libertà di scelta, e alla reciprocità, principi che i diritti difendono e affermano. Da questa premessa nascono i problemi con le tradizioni e le religioni che tormentano le nostre società.
Chiara Saraceno mette a nudo questi problemi andando alla radice delle relazioni famigliari, mettendosi cioè dal punto di vista dei bambini (oggetto di bisogno) e da quello della coppia (oggetto di scelta). In entrambi i casi le soluzioni seguono strade che portano fuori dell’alveo della tradizione e di una normativa troppo rigida. La cultura liberale ha agevolato lo slittamento di accento dalla famiglia alla coppia, rendendo la scelta di convivenza il perno delle relazioni famigliari che per questo cambiano seguendo il percorso delle esigenze e delle scelte delle persone, che si uniscono (a chi vogliono loro) e si separano (quando vogliono loro) con relativa facilità. Non soltanto per l’introduzione della legislazione sul divorzio ma anche perché una volta messo l’accento sulla volontarietà della scelta, la dissociazione tra coppia e forma eterosessuale di convivenza è già nelle cose.
L’evoluzione è stata favorita dalle nuove generazioni che propendono sempre più spesso per soluzioni meno formalizzate del matrimonio, forme di convivenza magari riconosciute dalla legge ma più leggere e anche più permeabili al mutamento (soprattutto meno onerose per chi vuole sciogliere il vincolo). Questa leggerezza giuridica che le coppie eterosessuali ricercano apre la strada al riconoscimento delle coppie omosessuali e lesbiche. Infine porta a compimento la dissociazione tra famiglia e matrimonio e poi anche tra famiglia e coppia eterosessuale.
Del resto se è vero che la base della famiglia è la cura e l’educazione, questo bisogno può essere soddisfatto altrettanto bene anche da chi non è genitore biologico. Famiglie cosiddette allargate, esito di più matrimoni, di forme diverse di coppia, di adozioni e di affidi, ma anche di vie artificiali al concepimento (in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, è accettato il contratto di maternità surrogata) sono un esempio molto eloquente della labilità dell’argomento della natura, anche qualora ci si concentri sul più naturale dei rapporti, quello tra madre e figli.
Le resistenze delle culture e dei codici giuridici, già vanificate di fronte alla richiesta di divorzio e di riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, probabilmente verranno sconfitte anche in questo caso (come sta già avvenendo negli Stati Uniti e in Canada). Sembra che il modello di famiglia al quale ci siamo per alcune generazioni riferiti sia giunto al capolinea. Anche perché ai problemi classici su che cosa sia natura e cultura, le società moderne aggiungono altre complessità, legate non soltanto all’evoluzione delle tecnologie riproduttive ma anche alla celerità e intensità degli spostamenti. Le migrazioni facilitano contaminazioni di culture, di abitudini e di valori.
E’ questa ampia gamma di trasformazioni e discontinuità della visione e della pratica della coppia, come famiglia e come legame giuridico, che Saraceno fotografa con efficacia lasciando il lettore nell’impressione che a forza di dissociare e complicare, ciò che resta è la persona singola con le sue preferenze e la sua libertà di scelta, e (ciò che si tende a sottostimare), con la sua responsabilità sempre più grande, una responsabilità che cresce in misura proporzionale al declino delle famiglie tradizionali e, insieme ad esse, dello stato sociale. Responsabilità nella solitudine che il peso della libertà genera: una riflessione che fa crescere un certo sconforto. Proprio perché il welfare si fa più leggero e la famiglia si allarga, sarebbe opportuno conclude giustamente Saraceno che si estenda il raggio di riconoscimento dei rapporti di coppia e famigliari, che si riveda criticamente l’insieme dei diritti e dei doveri che si attribuiscono alla famiglia e alla coppia coniugata. Affinché la libertà non sia un peso troppo oneroso.

Corriere 11.10.12
Una mostra a Pisa
Kandinsky Nell'anima russa
I sogni di un ribelle prima dell'esilio La nascita dell'astrattismo nei dipinti che riflettono la cultura della sua terra
Nell'armonia cromatica il senso di una ricerca spirituale
di Elena Pontiggia


A l di là della soglia — che dalla luminescenza solare dei lungarni pisani ci introduce in un atipico corridoio di luci artificiali e ombre — c'è un mondo antico ed esoterico, simbolico e folcloristico. Filatoi contadini, giocattoli di legno, vestiti tradizionali, ataviche novelle con rappresentazioni grafiche, personaggi mitici. E colori, con quelle tonalità così intense da inebriare il visitatore incantato e smarrito per questo salto quantico verso una Russia inattesa.
È la rappresentazione allegorica di quel plancton culturale del quale Wassily Kandinsky si cibò elaborando e trasmutando l'ormai insostenibile leggerezza della cultura europea (che aveva ammaliato e permeato la Grande Madre Russia e, dopo l'invasione napoleonica, aveva iniziato ad appassire) per guardare all'io individuale e all'io sociale, nascosti, rimossi, cancellati, sbiaditi forse come colori amorfi.
È lo stesso cibo che assaggia il visitatore, se pur in un frammento dell'anima piccolo e fugace ma così intenso da restare indelebile, immergendosi nella straordinaria e unica mostra sul padre dell'astrattismo che si inaugura da sabato sino al 3 febbraio del 2013 a Palazzo Blu di Pisa.
È un evento perché per la prima volta in Italia si svela il Kandinsky del periodo russo (1901-1921) e lo si mette a confronto con l'avanguardia del suo tempo, quella del suo Paese natale e quella della Germania, dove Wassily fuggì perseguitato dal regime sovietico. Così le opere di Alexej Jawlensky, Marianne Werefkin e Gabriele Munter (solo per citare alcuni nomi) si intersecano in questo cammino dell'arte, simbolica prima e astratta dopo, di un genio trafitto dal demone dell'arte fin da bambino ma rapito completamente, da avvocato, durante quel viaggio fondamentale, nella regione della Vologda, in Siberia, tra le izbe, le case rurali russe, decorate e colorate e i paesaggi, tanto da aver la sensazione, come scriveva entusiasta e commosso, di «vivere dentro un quadro».
Ed è proprio questa sensazione di realtà virtuale che si percepisce nel corridoio che ci introduce alle tredici sale della mostra in un percorso artistico (e anche un po' metafisico) alla scoperta di un pittore che da un simbolismo, se pur già diverso da quello dei suoi contemporanei, si proietta verso l'astrattismo di cui è l'artefice. Sono 150 le opere esposte a Palazzo Blu, una cinquantina di Kandinsky e le altre di contemporanei (russi e tedeschi), ma ci sono anche dipinti di Arnold Shöenberg (tra i quali un magico autoritratto), amico di Wassily, il genio austriaco inventore della musica dodecafonica. Che anch'essa, probabilmente, può essere in parte paragonata all'astrattismo di Kandinsky, una frattura epistemologica nell'arte del '900.
In una sala, accanto a «Macchia nera», il dipinto del 1912 con il quale l'artista abbandona ormai ogni riferimento figurativo, si sfiorano strumenti sciamanici tra i quali un tamburo, riprodotto (la macchia) nello stesso capolavoro. E sembra quasi di sentirlo vibrare, questo tamtam rituale, insieme a un'orchestra impossibile, che diffonde le cascate di note (e colori) della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij.
Si cammina tra le sale che ripropongono i primi dipinti di Kandinsky, in quell'atmosfera simbolista del periodo di Murnau. Si scivola, senza accorgersene, incontro alle grandi tele dell'avanguardia russa e occidentale, intorno al Der Blaue Reiter, e i maggiori protagonisti della sperimentazione russa, da Michail Larionov alla Goncharova. E infine ecco i capolavori, prima della sua fuga dal regime sovietico, quando accetterà da Walter Gropius l'insegnamento al Bauhaus.
Nella sala del drago, se così possiamo chiamarla, l'emozione è al culmine. Ci sono le iconografie di San Giorgio nell'eterna lotta contro il mostro. E c'è la magia di un capolavoro di Wassily: «San Giorgio» (1911). Così, mettendo a confronto icone e dipinto, tradizione e astrattismo, si percepisce quel processo di decostruzione della realtà.
Poco più avanti, ecco la «sala delle barche»; e anche qui un dipinto di un pittore simbolista con le vele sul fiume serve a entrare in «Improvvisazione» (1910) e nell'«Improvvisazione» del 1917 con le «stesse» barche, gli uomini che remano, l'acqua, il cielo.
«È stata una sfida difficile quella di spiegare forse l'artista più concettoso nel Novecento», spiega Claudia Beltramo Ceppi, co-curatrice della mostra insieme Eughenia Petrova, direttrice del museo russo di San Pietroburgo.
Ma perché proprio Kandinsky? «Ci ha affascinato proporre questo periodo particolare della sua vita che segna la definitiva e totale immersione nella pittura — risponde Cosimo Bracci Torsi, presidente della Fondazione Palazzo Blu —. Inoltre, dopo il ciclo dedicato al Mediterraneo con mostre di grandissimo successo su Chagall, Mirò e Picasso, pensiamo a una serie di mostre dedicate all'astrazione».

Corriere 11.10.12
L’acquerello che portò alla luce un mondo fatto di linee e colori
di Marco Gasperetti

Dire che l'astrattismo è nato con Kandinsky è come dire che l'America è stata scoperta da Colombo. L'America, in un certo senso, era già conosciuta, perché i Vichinghi vi erano sbarcati intorno all'anno Mille, mezzo millennio prima del navigatore genovese. Però quella scoperta se l'erano tenuta per sé e solo con Colombo l'America è diventata oggetto di conoscenza per tutti.
Con Kandinsky avviene qualcosa di simile. L'astrazione, cioè un'arte «senza oggetti», in cui linee e colori non rappresentano immagini del mondo esterno (astrarre viene appunto dal latino «ab-s-trahere» che significa «tirare via»), esisteva anche prima. I pavimenti cosmateschi del XII-XIII secolo, per fare un esempio tra i tanti possibili, sono formati da intrecci di cerchi, spirali e curve che si potrebbero già considerare astratti. Solo con Kandinsky, però, e precisamente col suo «Primo acquerello astratto» del 1910, l'astrattismo è realizzato e teorizzato consapevolmente.
Certo, in arte, come in tutte le cose dell'uomo, niente nasce dal nulla. Solo due anni prima dell'acquerello di Kandinsky uno studente tedesco, Wilhelm Worringer, aveva discusso all'Università di Berna una tesi intitolata «Astrazione ed empatia», in cui sosteneva che l'arte non nasce per riprodurre la realtà, ma «tende alla pura astrazione». Chi avesse avuto la pazienza (ce ne voleva tanta) di leggere lo scritto, avrebbe capito che riguardava soprattutto l'espressionismo, nato poco tempo prima, ma intanto il nome e il concetto di Abstraktion circolavano. Già alla fine dell'Ottocento, poi, due studiosi anch'essi tedeschi, Fiedler e Hildebrandt, avevano elaborato la teoria della pura visibilità, secondo cui l'arte non si limita a interpretare gli elementi della natura, ma crea forme completamente nuove.
Se fosse stato per teorici e studiosi, comunque, il concetto di astratto sarebbe rimasto chiuso nelle aule universitarie. Invece l'acquerello di Kandinsky (un foglio di carta alto poco più di cinquanta centimetri, tutto macchie e grumi di colore, che a prima vista sembra lo scarabocchio di un bambino ma racchiude un'energia e un senso dello spazio che solo un artista può avere) esercita un influsso incalcolabile sull'intero secolo. Crea una poetica, una filosofia, quasi una fede.
Oggi se si sente qualcuno definire astratto o figurativo un quadro si può star certi che ha almeno quarant'anni. È una distinzione che ai giovani non interessa più, eppure fino a qualche decennio fa suscitava contrapposizioni, scontri, lacerazioni. E pensare che Kandinsky, invece, era tutt'altro che dogmatico e ammetteva benissimo l'immagine, purché non naturalistica, accanto alla pittura di sole linee e colori di cui era il padre. Quello che gli stava a cuore, e l'aveva portato ad allontanarsi dall'arte imitativa, era la ricerca della spiritualità. «Lo spirituale nell'arte» si intitola appunto il suo testo più famoso: un libretto che scrive nel 1909 e per tre anni gli viene sistematicamente rifiutato, finché l'amico Franz Marc riesce a trovargli un editore. L'artista, sostiene Kandinsky, non deve dipingere la materia, ma l'essenza, l'interiorità, l'anima delle cose. Per esprimere il movimento, per esempio, non deve dipingere un cavallo (o magari una macchina in corsa, come negli stessi anni facevano i futuristi): basta un triangolo, che già con la sua forma acuta e le sue linee oblique suggerisce il dinamismo. Analogamente accade coi colori: il blu dà un senso di quiete, il viola di malattia. Anzi l'effetto è ancora più intenso, perché l'armonia cromatica giunge subito all'anima.
Spiritualità, interiorità, colore: ma Kandinsky è il primo dei moderni o l'ultimo dei bizantini? Forse entrambe le cose. Giunto nel 1866, a trent'anni, a Monaco di Baviera, dove nel 1911-12 fonda con Franz Marc il gruppo del «Cavaliere Azzurro», punto di partenza dell'astrattismo europeo, Kandinsky era nato a Mosca. E nella sua formazione devono aver contato non solo l'impressionismo di Monet e l'esperienza delle coloratissime izbe dei contadini, come lui stesso ha raccontato, ma anche la visione delle icone millenarie. Dove il colore è sempre stato un'espressione dell'anima.

Corriere 11.10.12
Usò l'Italia fascista come ponte per farsi riabilitare in Germania
Sospettato di bolscevismo, puntò sui buoni uffici dei futuristi
di Francesca Bonazzoli


«Qual è il Paese che può rivendicare Kandinsky?» si chiedeva la moglie del pittore, Nina, nell'autobiografia pubblicata nel 1976. La Russia, la Germania o la Francia dove Kandinsky è morto, da cittadino francese e sepolto al cimitero di Neuilly? Nemmeno Nina aveva una risposta, ma certo è che per un periodo, quello fascista, anche l'Italia entrò fra le opzioni di Kandinsky.
La prima volta che l'artista russo mise piede in Italia fu con i genitori, nel 1869. Aveva solo tre anni e di quei giorni riportò il ricordo angosciante di «una foresta inestricabile di colonne fittissime, quella terribile foresta della cattedrale di San Pietro da cui mi pare che invano la mia governante e io cercassimo a lungo l'uscita». E come se non bastasse, il colore che più gli rimase impresso fu il nero: quello di una carrozza nera su un ponte e di una gondola presa di notte sull'acqua nera. Esperienze di puro terrore.
Anni dopo Kandinsky si riconciliò attraverso vacanze soleggiate a Forte dei Marmi, Rimini, Rapallo, Palermo, Verona, Pisa («Là un tempo hanno costruito degli uomini veri!»). Ma soprattutto Kandinsky pensò all'Italia come al Paese-ponte attraverso cui, grazie ai buoni uffici del fascismo, tornare nella Germania nazista da cui si era dovuto allontanare.
La storia è complicata e racconta un'Europa ben più lacerata di quella di oggi, colpita in confronto dalla leggera febbre dello spread. Come molti altri europei, infatti, dalla Rivoluzione russa fino alla fine della seconda guerra mondiale Kandinsky dovette passare da una nazione all'altra inseguito da fame, guerre, persecuzioni razziali, pregiudizi religiosi e politici.
Quando dunque Kandinsky tornò in Italia nel 1936, aveva già lasciato la sua Mosca, dove c'era stata la Rivoluzione ma anche la Germania dove aveva studiato e dove era tornato a vivere nel 1921. Era diventato cittadino tedesco ma il Bauhaus, dove insegnava, era stato chiuso dai nazionalsocialisti e la sua arte considerata degenerata. Per di più, su di lui gravavano sospetti di bolscevismo, per il solo fatto che era di origini russe. Nel 1933 si era quindi dovuto trasferire in Francia dove però il trattato di mutua assistenza franco-sovietica del 1935 minacciava di nuovo la sua sicurezza essendo egli ancora cittadino tedesco, seppure in fuga. Le sue idee antimarxiste dunque non lo salvarono in Germania ma nemmeno lo aiutarono in Francia dove le avanguardie artistiche stavano a sinistra e i rapporti intrattenuti nella casa di Parigi con Marinetti e i futuristi lo rendevano sospetto.
Ecco dunque che per l'errante Kandinsky il consenso nell'Italia fascista poteva diventare il ponte per una riabilitazione agli occhi della Germania dove, fino al 1939, l'artista sperò di tornare. In una lettera, scritta a un amico a Berlino nel 1933, si illudeva così: «Naturalmente per noi, artisti "moderni", è molto spiacevole che il nuovo governo non capisca la nuova arte. In Italia pare che la situazione sia molto diversa! La nuova architettura e la nuova arte (futuristi italiani) vi sono riconosciute come arte fascista ma forse i nazisti si renderanno conto che gli italiani si comportano nel modo giusto».
Scottato dall'esperienza moscovita, Kandinsky temeva l'avvento al potere del partito comunista sia in Francia che in Germania e si ostinava a pensare che le posizioni naziste contro il Bauhaus, l'astrattismo e l'arte degenerata fossero un semplice incidente di percorso, recuperabile attraverso il successo di cui godeva in Italia, dove veniva riconosciuto come «il più celebre pittore astratto di tutti i paesi». Il suo avvicinamento all'Italia, ignorata fino al 1930, fu quindi strumentale al bisogno di rifarsi un'immagine.
Non a caso, quando i fratelli Ghiringhelli gli organizzarono una personale alla galleria del Milione di Milano, nel marzo del 1934, non si impegnò particolarmente e inviò solo opere su carta preoccupandosi soprattutto che la galleria fosse «di assoluta e tipica modernità fascista».
Ma non andò come Kandinsky aveva sperato e nemmeno il sollecitato aiuto dell'amico Marinetti riuscì a riabilitarlo agli occhi dei tedeschi. Ci volle il crollo del nazismo.
In Italia, invece, nonostante a quel punto poco gli importasse, Kandinsky continuò a godere di un grande successo anche dopo il fascismo: nel 1950 Enrico Prampolini lo definì «il Giotto del XX secolo» perché lo vedeva come l'artefice del superamento della tradizione figurativa occidentale. Nel 1966 Piero Dorazio lo acclamò come «il salvatore dalla soffocante influenza di Picasso e della sua mitologia mediterranea» e anche Giulio Carlo Argan vide in lui il liberatore dall'elitaria estetica ellenistico-figurativa.

Repubblica 11.10.12
Le radici visuali e le componenti spirituali dell’opera del maestro russo raccontate in una mostra allestita a Palazzo Blu di Pisa
Wassily Kandinsky. Inventare l’astrazione per dare voce all’anima
di Claudio Strinati


Di Wassily Kandinsky sono chiari molti aspetti ma la mostra che si tiene ora a Pisa permette di verificare in concreto l’attendibilità di quanto sembrerebbe ormai entrato nella coscienza comune di coloro che sono attenti alle cose dell’arte. Kandinsky da un lato fu un russo completamente calato all’interno del clima culturale e spirituale diffuso nella sua terra verso la fine dell’Ottocento (era nato nel 1866 e raggiunse la prima maturazione nel corso del nono decennio) e dall’altro è subito coinvolto con l’ambiente tedesco che lo indirizza verso il culto del Simbolismo e dello Jugendstil, spingendolo ad approfondire la componente spirituale dell’arte sottratta a un confronto diretto con il peso della realtà ma all’opposto orientata sulla scandaglio del profondo, della memoria, dell’introspezione.
Questa sorta di doppia radice, russa e tedesca, sarà determinante per tutta la parabola del grande artista destinato a restare sempre un po’ apolide, persino mal sopportato nella sua stessa patria. La mostra, curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi raccoglie una cinquantina di opere provenienti da San Pietroburgo e da altri musei russi e europei, le affianca quelle dei compagni di strada tedeschi (da Gabriele Munter a Alexej Jawlensky, da Marianne Werefkin a Arnold Schönberg), e apre un orizzonte nuovo sulle possibili interpretazioni della questione decisiva dell’arte moderna: l’astrazione.
Kandinsky può esserne considerato il fondatore ma forse non il padre, perché l’astrazione non fu mai per lui un fine dottrinalmente perentorio, ma un metodo per esplorare territori sconosciuti dell’arte, presenti però alla coscienza umana fin dalle origini.
Quando Kandinsky scrisse Lo Spirituale nell’Arte questo punto era in effetti già latente. Ma l’esatta comprensione del suo pensiero stentò a emergere, anzi soltanto adesso la ricostruzione della storia dell’arte di quell’epoca si sta liberando da inveterati pregiudizi. La genesi de Lo Spirituale nell’Arte è
emblematica. Scrisse il testo in tedesco nel 1909 sotto l’urgenza di dare una sistemazione teorica a quel che stava facendo tra mille contraddizioni e ripensamenti. Poi l’anno dopo lo riscrisse in russo e già questo solo fatto la dice lunga sul suo animo tormentato perché la lingua russa di Kandinsky, come ci viene ben spiegato nel catalogo, era già di per sé una lingua scritta in modo difficile e altezzoso.
In veste di scrittore il maestro si espresse nella sua lingua madre in modo sempre forbito e sovraccarico di una terminologia ad alta densità filosofica e teosofica. Era una lingua destinata a una cerchia di iniziati anche se pretendeva di lanciare un messaggio generoso e ardente a tutta l’umanità, mentre la stesura tedesca accentuava l’argomentazione tecnica. Il libro venne completato e uscì tra il 1911 e il 1912. Kandinsky vi parla, con enfasi, dell’avvento di un’epoca di eletta spiritualità e del principio della necessità interiore che l’artista deve assecondare e tradurre nel concreto dell’opera realizzata. La parola chiave è “anima”.
È l’anima che si deve vedere nell’opera, ma la rappresentazione dell’anima è di necessità astratta perché la verità della dimensione spirituale non ammette figura ma pretende “forma”. In questa aporia misteriosa sembra risiedere l’esigenza perentoria del cambiamento in Kandinsky.
Ma egli in realtà restava libero dai suoi stessi principi senza averne mai fatto una sorta di dogma. Quante sollecitazioni aveva dovuto coordinare lungo il cammino per giungere alla conclusione di potersi presentare come teorico, docente, educatore del popolo, poeta segreto.
All’inizio degli anni Ottanta, giovanissimo, aveva viaggiato per la Russia settentrionale ed era rimasto incantato da questo mondo che sembrava vivere ancora nella dimensione della favola, nell’izba contadina gremita di oggetti, sfavillante di colori, calda e accogliente come un grembo materno. Così racconta il suo ingresso nell’izba di Vologda: «Mi fermai sulla soglia, mi sembrava di entrare nel colore. Avanzai all’interno di un quadro». Quest’esperienza fu fondativa per lui: per tutta la vita cercò la potenza del colore e della forma. Ed è bello che la mostra di Pisa dedichi una sezione alle radici visive dell’opera del maestro russo con oggetti appartenenti alla tradizione dello sciamanesimo raccolti negli stessi anni in cui Kandinsky li appuntava sui suoi taccuini, e da coloratissimi oggetti della tradizione folclorica. Ma ci volle del tempo prima che incontrasse la sua strada. La sua prima formazione era avvenuta in campo giuridico presso la facoltà di Legge di Mosca. Qui aveva lavorato a lungo, appassionandosi alla disciplina e dedicandosi particolarmente a speculazioni teoretiche di filosofia del diritto. Aveva avuto chiara cognizione della dialettica tra diritto romano antico e diritto russo. È proprio nel diritto che aveva individuato una peculiarità russa, rivolta alla cognizione dell’anima. Eccone la interessante chiave interpretativa: il diritto romano insegna a giudicare il fatto, il diritto russo insegna a giudicare l’animo umano, evidenziandone le motivazioni e i relativi comportamenti. Scrive Kandinsky stesso che nel diritto prediligeva la dimensione dell’astrazione concettuale piuttosto che quella della concreta applicazione della norma, anche rispetto alle grandi questioni sociali che di lì a poco avrebbero portato alla rivoluzione e alla vittoria dei principi del materialismo storico.
Ma il materialismo storico era proprio all’opposto di quella via dell’anima che l’artista riteneva determinante e esclusiva per attingere la verità dell’arte. Credeva non a Marx ma al mistico duecentesco Gioacchino da Fiore che aveva profetizzato (e anche Dante lo seguì) i tre regni dell’umanità, sotto il dominio del Padre (il tempo della legge), del Figlio (il tempo della redenzione), dello Spirito Santo (il tempo della rivelazione).
Nasceva in quel momento la convinzione in Kandinsky che la vera rappresentazione dell’anima umana consistesse nella capacità di fissare in immagine quella “risonanza interiore” che genera il suono da un lato (e si estrinseca nella musica) e il colore dall’altro (e si estrinseca nella pittura) concretizzandosi attraverso la combinazione degli elementi essenziali del sapere, che per antonomasia è quello visivo: il punto, la linea, la superficie. Ecco il racconto figurativo dell’anima. Un’utopia, che non gli impedì di continuare contestualmente a rappresentare le favole antiche della gente della sua terra, vista in una lontananza siderale ma captata in uno spazio che ha perso peso e consistenza, per poi ritrasformarsi nell’altro da sé della pura astrazione.

Repubblica 11.10.12
Il pittore e le forme dei teosofi
Le influenze del circolo blavatskiano sulla rivoluzione astratta
di Gregorio Botta


C’è un errore all’origine dell’arte astratta, secondo la storia (o la leggenda?) che lo stesso Kandinsky ha raccontato: un giorno, mentre stava dipingendo, lasciò lo studio per una passeggiata. Al suo rientro, guardò stupito la tela sul cavalletto: non la riconosceva più, ma fu sedotto dalla sua forza e dalla sua potenza. Poi capì: il suo quadro era stato rovesciato dalla donna di servizio venuta a fare le pulizie. Quell’inversione fece compiere all’arte del Novecento l’ultimo passo che ancora mancava: liberare completamente il colore e la forma dall’obbligo di descrivere anche lontanamente una realtà visibile.
Probabilmente Kandinsky sarebbe arrivato lo stesso a varcare la soglia dell’astrazione. Il salto era nell’aria: e molti artisti percepivano il vento del cambiamento prossimo venturo. Un ruolo, nella rivoluzione estetica dei primi del secolo, l’ha certamente avuto la Società Teosofica di Madame Blavatsky. È noto che tutti gli artisti che hanno avuto a che fare con l’astrazione, Malevic, Mondrian, Kandinsky entrarono in contatto con le sue teorie e con quelle dell’eretico Rudolf Steiner, e ne furono in qualche modo contagiati. (Non Paul Klee, che invece nei suoi diari esprime una certa diffidenza per il movimento). Il titolo del manifesto di Kandinsky Lo Spirituale nell’arte è una chiara testimonianza di quelle influenze. Ma è invece meno conosciuta una strana coincidenza: quella di un piccolo e curioso libretto pubblicato dal circolo blavatskiano qualche anno prima delle Improvvisazioni
astratte. Si intitolava Le Forme-Pensiero, e gli autori erano Charles Webster Leadbeater e Annie Besant: spiegavano come pensieri e sentimenti fossero energie che assumevano nello spazio pattern e colori precisi: peccato che solo i chiaroveggenti fossero in grado di vederle. Ne disegnarono il catalogo. Qualche esempio? Un triangolo acutissimo rosso è un segno d’ira, un ovale rosato un pensiero d’amore, un sole (scontato, no?) è amore irradiante, un cerchio circondato da un alone azzurro è il sembiante di un pensiero d’aiuto, mentre una nuvola con una coda di ami uncinati rappresenta l’avidità. E via così. Anche la gamma dei colori è stata interpretata: il blu lapislazzuli significa “alta spiritualità”, il verde smeraldo simpatia, il giallo ocra un “forte intelletto”, il grigio scuro, naturalmente, depressione, il verde marcio inganno.
Tutto questo può fare anche sorridere, le associazioni tra forme e sentimenti sembrano fin troppo semplici e infantili. Ma i chiaroveggenti andarono a “vedere” – se così si può dire – le forme prodotte dall’esecuzione di musiche di Mendelssohn, Gounod e Wagner. E qui la somiglianza con le opere che più tardi avrebbe dipinto Kandinsky è impressionante. Linee guizzanti, nuvole di colore accesi, verdi intensi e rossi squillanti, e nessun riferimento alla realtà.
Il maestro russo scriveva che le sue opere non nascevano dall’arbitrio. “Tutto ciò che è necessario è nascosto. Ciò che è nascosto è alla base dell’opera, dell’opera viva”. E per questo sentì il bisogno di decifrare il codice delle forme che usava. In Punto, linea, superficie l’artista creò il catalogo che spiegava il movimento, il calore, l’effetto, in una parola il senso di linee rette e curve, di triangoli e cerchi, e dei colori. Un vero e proprio dizionario delle forme astratte: simile, in fondo, a quello dei teosofi. Sarebbe bello sapere se la sua biblioteca ospitò anche quel libricino.

mercoledì 10 ottobre 2012

Corriere 10.10.12
Agenda di governo da «rottamare» È duello nel Pd
Fassina attacca. Letta: passato il segno
di Monica Guerzoni


ROMA — L'osservazione che il senatore Stefano Ceccanti consegna a Twitter rivela quel che molti pensano, anche tra i dirigenti del Pd: «Se il responsabile Economia e il vicesegretario dicono cose opposte appoggiando il medesimo candidato forse ci vuole un congresso, non primarie di coalizione». Al centro dei tormenti democratici c'è ancora il «giovane» Stefano Fassina, il responsabile Economia che siede nella segreteria di Bersani. Lunedì aveva accusato Renzi di copiare il programma del partito e ieri ha scritto sul Foglio un lungo articolo intitolato, a caratteri cubitali, «Rottamare l'agenda Monti».
Il proclama contro le riforme ha incendiato le polveri e se ora nell'area filo-montiana c'è chi evoca il congresso è anche perché Bersani si è limitato a contenere Fassina, mentre il suo vice lo ha duramente sconfessato. «Si è passato il segno» è il monito di Enrico Letta, che legge la posizione del leader dei «Giovani turchi» come una «stridente contraddizione» con il sostegno a Monti: «Bersani è sempre stato inequivocabile. Motivo per tanti di noi determinante per appoggiarlo convintamente alle primarie». Il vicesegretario pensa insomma che le tesi di Fassina siano «smentite nella realtà» dalle scelte di Bersani, mentre il leader prova a risolverla così: «Monti ha dato un'idea di rigore e di credibilità al Paese che è un punto di non ritorno, ma noi vogliamo metterci più equità». E poi, per stoppare le critiche interne: «Abbiamo rinunciato a qualcosa di nostro per appoggiare Monti, quindi chi vuole convincerci che va difeso si riposasse. Ora il Paese deve tornare alla normalità e il punto è se abbiamo diritto di votare».
La frattura con l'ala riformista dunque resta e il problema, per il segretario, è come mediare tra le posizioni antitetiche incarnate da due figure chiave della sua maggioranza. E infatti a Berlusconi, che non esclude il «bis», il leader del Pd replica secco: «Chi tira per la giacca a fini elettorali Monti non fa un buon servizio, né a Monti, né all'Italia». I rapporti tra il segretario e il premier sono distesi, così almeno è apparso al lancio della Uman Foundation di Giovanna Melandri. Prima di correre in Consiglio dei ministri Monti ha voluto farsi vedere in casa pd, proprio nel giorno in cui Berlusconi non ha escluso di proporlo come leader dei moderati. E Bersani ne ha approfittato per un breve colloquio.
Ma il Pd è in allarme. A Montecitorio i democratici rievocano con terrore la «gioiosa macchina da guerra» con cui Achille Occhetto andò a infrangersi nel 1994. Quello della vittoria pregustata che diventa disfatta è lo scenario più agghiacciante e, se Pierluigi Castagnetti ne parla senza infingimenti a Tgcom24, Beppe Fioroni scaccia a suo modo i fantasmi del '94: «La riedizione di un'alleanza con Vendola, Di Pietro e la sinistra che è fuori dal Parlamento non è tollerabile». Ma se qualcuno nel Pd aspira a un Monti bis retto dalla maggioranza attuale, quel qualcuno non è Bersani: «Grande coalizione? Basta. Io non faccio più maggioranze con Berlusconi». L'ex premier confermerà il passo indietro? «Noi non ce ne occupiamo — risponde il segretario —. È come interpretare la Sibilla Cumana».
Sul fronte interno, oltre a Renzi che vuole rottamarlo e che lo attacca sulle spese della campagna, Bersani deve vedersela con l'aggressività dell'esordio di Vendola. Un suo manifesto rimbalza sul web e crea polemica. C'è scritto «Il massacro della Diaz oppure Vendola» e lo slogan è così forte che il leader di Sel è costretto a spiegarlo dalla prima pagina del suo blog: se andrà a Palazzo Chigi farà una legge «per l'identificazione dei poliziotti impegnati in operazioni di ordine pubblico», introdurrà il reato di tortura e istituirà «quella commissione di inchiesta sempre barbaramente negata».

il Fatto 10.10.12
Pd, divisi pure i bersaniani
Stefano Fassina vuole rottamare l’agenda Monti, Enrico Letta s’indigna
di Wanda Marra


Rottamare l’agenda Monti”: il titolo - a caratteri cubitali - che il Foglio dà a un lungo commento a firma Stefano Fassina (responsabile Economia del Pd) fa saltare ancora una volta i nervi - già tesi - dei Democratici. “Ha passato il segno”, va all’attacco Enrico Letta. “Vi è una inaccettabile conclusione che appare in stridente contraddizione con tutto ciò che di positivo il Pd ha fatto in questi mesi”. Ma soprattutto Letta ci tiene a chiarire un punto: “Il Pd ha agito e assunto impegni diversi da quelli delineati dall’articolo. E Bersani è sempre stato inequivocabile da questo punto di vista. Motivo per tanti di noi determinante per appoggiarlo convintamente alle primarie del centrosinistra”. Sì, perché il responsabile economico e il vicesegretario del partito pur su posizioni opposte, sostengono il segretario alle primarie. Letta è stato il vero sponsor del governo Monti. Fassina viceversa, fin dai primi passi dell’esecutivo si è messo in una posizione di “lotta e di governo”, criticandone le scelte e partecipando a qualche manifestazione contraria. Ritagliandosi il ruolo di uomo del dissenso da sinistra (pure l’altroieri si è fatto notare per aver attaccato Renzi, reo di copiare il programma del suo stesso partito). E ora, eccoli Fassina e Letta dalla stessa parte, mentre quelli che si sono arrogati l’etichetta di montiani doc stanno con Matteo Renzi. “A leggere Fassina resto sgomento”. A sentire Fioroni (pure lui col segretario) non c’è da stare allegri per l’alleanza bersaniana. “I migliori sostenitori di Renzi sono Fassina e la Bindi”, ironizza soddisfatto il montiano Ceccanti. Ma cosa scrive davvero Fassina? “Nell'area euro siamo su una rotta di aggravamento degli squilibri macroeconomici”, esordisce. Di più: “L’agenda Monti non funziona”, “nell’euro-zona va archiviata la via mercantilistica e allargata la prospettiva dello sviluppo sostenibile”. Accanto a cotali dichiarazioni però chiarisce: “Soltanto la propaganda strumenta-le può leggere nella proposta correzione di rotta la volontà di smontare gli interventi degli ultimi mesi. Aggiustamenti vanno fatti (su esodati e sugli squilibrati assetti degli ammortizzatori nella legge Fornero). Ma, sono aspetti marginali.”. Insomma “è fuori discussione il rispetto di tutti gli impegni sottoscritti dall’Italia”. Difficile capire in questi termini fino a che punto la politica economica di un eventuale governo Bersani potrà differenziarsi da quello Monti. Intanto Bersani mentre apparentemente prende le distanze, in realtà conferma posizioni non molto diverse da quelle del suo responsabile economico: “Ho già detto in assemblea che non è questione di agenda Monti o agenda Bersani ma di un’agenda europea che non funziona. Bisogna cambiare l’agenda europea e quindi quella italiana”. Ma “il rigore di Monti è un punto di non ritorno”. Un perimetro dentro cui dovrebbero stare tutti. Eppure Fassina sull’economia sembra come Nico Stumpo sulle regole: i fedelissimi fanno lo sfondamento, passando un messaggio che il segretario in prima persona non può traghettare.

il Fatto 10.10.12
Ceclia Pezza
“Renzi, un fintissimo democratico”
di Wa. Ma.


Lui va a giro a dire che me e altri due o tre ci vuole far fuori”. “Lui” è Matteo Renzi il lanciatissimo sindaco di Firenze. E a parlare, con spiccato accento fiorentino, è Cecilia Pezza, 26enne consigliera comunale, ex segretaria della Sinistra giovanile cittadina, convintamente bersaniana. In realtà si tratta di uno sfogo, un “fuorionda” (modalità ormai entrata prepotentemente nella prassi mediatica) trasmesso dall’Ultima parola di venerdì scorso. “Lui è un fintissimo democratico. Qui in città la gente ha paura di schierarsi sulle primarie. Cioè quelli che non stanno con lui hanno paura. Perché se fanno un lavoro che minimamente c'entra con l'amministrazione non si schierano perchè hanno paura”. Accuse pesanti. E la Pezza era stata durissima anche “in chiaro”, intervenendo in consiglio comunale: “Io penso che nel corso di questi 3 anni l’ufficio del Sindaco sia diventato un ufficio di dimensioni ministeriali. La buona politica, che va a raccontare in giro per l’Italia, comincia da queste cose”.
LE ACCUSE della Pezza a Firenze non sono passate inosservate. Il Pdl ha cavalcato il caso, chiedendo una discussione in consiglio comunale. Chiarimento che il Pd ha preferito evitare. Il capogruppo Pdl Marco Stella ha denunciato: “La gravità delle accuse lanciate da Pezza non può e non deve cadere nel vuoto, abbiamo il dovere di andare fino in fondo per sapere se Firenze è una città libera o se le nostre imprese vivono un clima di terrore e intimidatorio”. Non è la prima volta che la Pezza si schiera apertamente contro Renzi. E anche in questo caso sceglie di rincarare la dose di quanto detto in maniera più o meno informale: “In consiglio comunale siamo in 7 bersaniani. Ci chiamano i dissidenti”. Non solo: “Non c’è modo di discutere di nulla, di entrare nel merito di nessuna questione che riguardi la città. Perchè se tu provi a fare un ragionamento diverso ti liquidano dicendo ‘tu sei bersaniana’”. Bel clima a Firenze: “Sei tacciato costantemente di essere un traditore, appena hai un’opinione diversa”. Questo vale per tutto, si parli della tranvia, dei teatri o dello sfruttamento dei punti anagrafici. E dunque: “Il mandato dato a me e ad altri non è rispettato”.
MA l’establishment del Pd sarebbe pronto a lavorare con Renzi? “Noi con lui si lavora anche, ma lui non c’è mai. La discussione sul libro di bilancio è molto difficile e lui è sempre a giro a fare campagna elettorale”.
Insomma, la “narrazione” di Renzi secondo cui Firenze è la città più felice del mondo sarebbe solo una favola: “ Quest’anno a una manifestazione importante come i 100 luoghi, quando si fa il punto sui progetti portati avanti in città c’erano 3000 persone tutte arrabbiate, l’anno scorso erano 11mila. E la gente in generale è incazzata nera”. Perché poi, “il mondo è molto più sfaccettato, non si può certo ricondurre tutto a una contrapposizione tra bersaniani e renziani”. Per esempio, c’è il caso della libreria Edison, una di quelle storiche della città che chiude. “Il Comune di Firenze per tutelare un negozio di questo tipo ha un vincolo urbanistico. Ma il Sindaco dice: ’Io faccio una deroga e ci metto la Apple’”. Insomma: “È una città che può essere governata molto meglio”. Non male come critica per uno che si candida a governare il paese. Per chi non avesse capito: “Il sindaco non c’è, io ne prendo atto”. 

La Stampa 10.10.12
“Volevo lasciare ma ho deciso di restare Renzi si farà male”
D’Alema all’attacco: “A Sulmona ci è andato in jet privato E sul camper è salito soltanto alle porte della città”
di Federico Geremicca


«Un paio di mesi fa ne avevo parlato con Bersani. Ma ora no Per quanto mi riguarda no»
«Sono stato a Matera e c’era il doppio della gente rispetto a quanta era accorsa da Renzi»

Guardate, ne avevamo perfino parlato, io e Bersani. Un paio di mesi fa. Gli avevo detto: ragioniamo, troviamo un modo per un mio impegno diverso. Del resto, lavoro già tantissimo, lo sai, un appuntamento dietro l’altro, spesso all’estero: valutiamo assieme l’ipotesi che io non mi ricandidi al Parlamento... Ma ora no. Così, per quanto mi riguarda, no. Poi, naturalmente, parlerà il partito... ». Erano in tanti ad attendere la decisione di Massimo D’Alema: si ricandida o arretra - come molti speravano sotto l’impetuoso attacco di Renzi e dei suoi «rottamatori»? Ora quella decisione è finalmente nota. L’altra sera, infatti, ad un paio di fidatissimi amici di partito, ha confidato: «Lo sapete che se mi stuzzicano reagisco. E che se c’è da combattere, combatto. Renzi ha sbagliato, e continua a sbagliare. Si farà del male».
Erano in tanti ad aspettare un segnale: perché in queste primarie segnate da un drammatico scontro generazionale, la sorte di tanti - appunto - dipende dalla rotta di Massimo D’Alema. Un suo passo indietro, infatti, avrebbe costretto alla resa molti dei leader e dei parlamentari con più di tre mandati alle spalle e messi all’indice da Matteo Renzi; un suo «resistere, resistere, resistere» - invece - dà ora più forza a chi ritiene che la «rottamazione» sia un metodo selvaggio e opportunistico di intendere il rinnovamento e la lotta politica. Ora che la rotta di D’Alema è nota, molti possono tirare un sospiro di sollievo: e accartocciare, assieme alle narrazioni che davano il líder maximo offeso e depresso, i preannunci di un suo imminente passo indietro.
Naturalmente, che sia rimasto personalmente turbato dal trattamento riservatogli dal sindaco di Firenze, è più che possibile (e comprensibile): infatti, non c’è cinema, teatro o studio televisivo nel quale Renzi non mostri la faccia di D’Alema che dice «se vince lui, il centrosinistra è finito» per poi replicare «se vinco io, al massimo è finita la sua carriera parlamentare». Un tormentone - anzi, praticamente una gag - che lo sta trasformando nel simbolo di ogni male, nel nemico da abbattere. Capita, a volte. Capitò a Craxi, poi ad Andreotti, infine a Berlusconi: ma non è, insomma, che sia una gran compagnia...
Renzi, per altro, non lo convince e non gli piace. È persuaso che si tratti di un fenomeno mediatico o poco più. Ieri in Transatlantico, di ritorno dalla Basilicata, D’Alema spiegava il suo punto di vista ad alcuni deputati del Pd: «Sono stato a Matera per una iniziativa su Berlinguer: c’era il doppio della gente rispetto a quanta era accorsa ad ascoltare Renzi. Però i giornali non lo scrivono, perché “rottamare” il Pd conviene a molti». Non solo: contesta - per esempio intorno all’ormai noto camper - ingenuità incomprensibili. «La settimana scorsa Renzi è andato a Sulmona. Sapete come? Jet privato da Ciampino, poi una Mercedes... In camper c’è salito alle porte di Sulmona: ma quando è arrivato in piazza, tutti ad applaudire il giovane ribelle che “altro che auto blu, lui viaggia in camper”. Non lo ha scritto nessuno che si muove così. Anzi no, sbaglio: lo ha scritto “Repubblica”. Ma in cronaca di Firenze. Ora leggo che è finanziato, addirittura dall’America, da Paolo Fresco... Che altro dire? ».
Già, che altro dire? Magari che è anche per questo che è arrabbiato con Renzi? «Non ho il tempo di essere arrabbiato con lui - spiega agli amici deputati -. Sono presidente della più importante Fondazione dei progressisti europei, dovreste vedere gli uffici di Bruxelles e la quantità di impegni in giro per l’Europa. Figurarsi se, tra il lavoro che mi attende quando torno in Italia e le iniziative in altri Paesi europei, ho il tempo di arrabbiarmi con Renzi. È anche per questo che stavamo valutando con Bersani la possibilità di un mio abbandono del Parlamento. Del resto, questo non avrebbe ostacolato un qualche mio impegno al governo, se vinceremo le elezioni e se sarà ritenuto necessario».
Ora, però, non è più il caso di parlarne. Certo, agli amici di partito che come lui - sostengono Bersani, non nasconde che «queste primarie sono un risiko, Pier Luigi le vincerà, ma ci sarà da tenere gli occhi aperti». È anche per questo - oltre che per difendere il proprio onore - che sarà in campo: per salvaguardare un quadro di alleanze e una prospettiva di governo che gli paiono più convincenti di quelli proposti dal sindaco di Firenze. Poi, naturalmente, c’è il rischio, la difficoltà della sfida: e le difficoltà - da sempre - piuttosto che spaventarlo, lo hanno sempre motivato...
In fondo in fondo - ma proprio molto in fondo - non è che D’Alema non colga il senso della battaglia ingaggiata da Renzi per un radicale rinnovamento di uomini e politiche: magari non lo ammetterà mai, ma è nell’agone da troppi anni per non sapere che, ciclicamente, la questione del ricambio si pone. E solitamente (e naturalmente) sono i giovani a porla. Del resto è capitato anche a lui. Aveva appena compiuto 39 anni quando fu inviato in Liguria per spiegare a Natta (sconfitto alle elezioni dell’anno prima e colpito da lieve infarto) che era giunta l’ora che si facesse da parte; e soltanto 45 quando - nel 1994 - diede battaglia per la sostituzione di Achille Occhetto (battuto alle elezioni da Silvio Berlusconi).
Dunque, non contesta la regola secondo la quale chi è sconfitto - talvolta - debba farsi da parte. Ma c’è modo e modo, verrebbe da dire... «A me quella parola, “rottamare”, non piace proprio per niente - spiega ai due deputati che lo stanno ad ascoltare -. Voi dite di Natta e di Occhetto... ma io non ho mai spinto verso il ricambio per sostituire qualcuno, per un fatto personale. Dopo Achille, il segretario poteva farlo tranquillamente Veltroni: e in ogni caso, nessuno riempì di insulti il leader uscente. Quanto a Natta, gli dissi semplicemente quel che ero stato incaricato di dirgli per conto del partito. Lui, un dirigente serissimo, capì. E alla fine ci stringemmo in un abbraccio... ». Altri tempi, sicuro. Migliori o peggiori non sapremmo dirlo.

Esodati, bocciata la proposta Damiano: “Non è coperta”
il Fatto 10.10.12
Esodati, Usiamo i fondi degli F35
di Furio Colombo


Questa mattina (9 ottobre) il ragioniere ha mandato a dire: per coloro che sono restati all'improvviso senza lavoro e senza pensione, a causa di un cambiamento improvviso di “policy” (la parola copre un trucco, e dunque è bene usare la parola inglese) devono accontentarsi: non c'è un euro per loro, ovvero per le decine di migliaia che sono rimasti fuori dal gruppo dei 50 mila graziati dalla Fornero. Non è cattiveria, precisa il ragioniere, non ci sono proprio gli euro per mettere in salvo gli altri. Il ragioniere è il Ragioniere generale dello Stato, a cui è stato chiesto di dare il triste annuncio, perché la piazza e le strade intorno a Montecitorio sono gremite di uomini e donne seri e sensati, non tanto giovani, ma carichi di disperazione e di energia che ti tirano per la giacca e ti dicono sulla faccia: “E io come campo sette anni (ma anche cinque o quattro o nove, perché gli incontri sono tanti e le situazioni sono tutte assurde) senza lavoro e senza pensione? Me lo dice lei come campo? ”. Non glielo dici, riconosci un ex collega di un passato di lavoro o di un altro (non la persona, piuttosto il vestirsi casual del tempo libero di ex dirigenti, di ex quadri, di ex laboriosi e fastidiosi capi ufficio che si portavano il lavoro a casa) e capisci che un incubo ha afferrato e sta scuotendo con assurda violenza una parte degli italiani, mentre stavano attraversando la strada (che è sempre ansiogena) fra l'ultimo lavoro e la pensione. Si è creato un nome strano per una situazione assurda, che fra privati configurerebbe la violazione di un contratto (io prometto, tu fai, e io mi rimangio la promessa di cui ti sei fidato e lo faccio mentre sei senza difese).
QUI ENTRA la proposta di legge Damiano, l'ex ministro del Lavoro Pd, che affronta la situazione (che non puoi lasciare lì sulla piazza) e che esige una soluzione. Lo fa per tante ragioni: una è che il Pd, Renzi o non Renzi, ancora per un poco è un partito di sinistra. Un'altra è proprio Renzi, che non perde il sonno per gli esodati, è giovane, moderno e crede nei conti in ordine, chi ci sta ci sta e gli altri si arrangino. Ma ci sono le primarie e Damiano vorrà segnare il suo punto non proprio vicino a Renzi. Però resta il fatto che nel Pd, alla Camera, parola di Bersani, si era detto: intanto votiamo (la legge sul lavoro e la riforma delle pensioni) perché così richiede l'Orco-Mercato. Poi troveremo una soluzione. Eccoci qua, pronti alla soluzione. Pronti chi? Il ragioniere – abbiamo detto – ha fatto sapere, e il governo ha confermato: giù le mani o crolla tutto. Mancano i soldi, punto e basta. Il problema è che gli esodati ci sono davvero, Damiano e la sua legge (che forse arriva adesso per sospette ragioni elettorali e di battaglia interna, ma risponde a una drammatica situazione vera) aspetta una risposta e non sarebbe facile ritirarla.
Infine mancano i soldi. Però, come diceva Kennedy, non c'è problema umano che gli umani non possano risolvere. Esempio: vendiamo un po’ di caccia-bombardieri F-35. È più facile che vendere il Colosseo, il mercato tira, e noi facciamo una pura e semplice operazione contabile. Mancano soldi (ha ragione il ragioniere) e li troviamo. Siamo sempre nel campo della difesa. Difendiamo, come prescritto dalla Costituzione, cittadini che hanno servito il Paese.

il Fatto 10.10.12
L’intervista, Cesare Damiano, Pd
“Salviamo gli esodati senza toccare la riforma”
di Salvatore Cannavò


È stato indicato come colui che vuole smontare la riforma Fornero sulle pensioni. Ma Cesare Damiano, deputato Pd in Commissione Lavoro già ministro del Welfare nell’ultimo governo Prodi, non ci sta a passare per guastafeste e nemmeno per colui che vuole affossare Monti. “In realtà – spiega in questa intervista al Fatto – è il ministro Fornero che ha lanciato un allarme spropositato realizzando un autogol per il governo. A noi interessa solo la questione esodati e a quella ci atteniamo”. Contro Fornero, Damiano non usa mezzi termini, segno di un rapporto sempre più logorato tra il ministro e il Partito democratico.
Onorevole Damiano, ci spiega qual è l’obiettivo di questa proposta di legge che è sembrata essere una mina sulla strada dell’esecutivo.
L'obiettivo, nonostante la controinformazione che fa il ministro Fornero, non è quello di smontare la sua riforma, ma di correggerne gli errori. Quando parliamo di errori alludiamo a una riforma che ha cancellato qualsiasi gradualità e transizione e causato quel fenomeno di lavoratori che sono rimasti senza stipendio, perché si sono licenziati in buona fede, e che dovranno aspettare anni prima di riscuotere la pensione. Questo errore va corretto e la nostra iniziativa è unitaria di tutta la commissione e non di parte o propagandistica.
Però voi avete introdotto il progetto di legge in esame alla Camera con un articolo, il primo, che vuole riformare l’attuale legge sulle pensioni
Il nostro progetto di legge parla solo di estendere agli uomini l'attuale legge che prevede per le donne di poter andare in pensione con 35 anni di contributi e 58 di età a patto che queste persone accettino la liquidazione dell'assegno con il calcolo contributivo. Vuole sapere da chi è stata avanzata questa idea? Non certo da noi.
E da chi?
Dal ministro Fornero nella sua replica alla Camera il 20 giugno. Gliela leggo integralmente: ‘Da ultimo sempre nella valutazione del costo collettivo e dell'impatto sul trattamento previdenziale si potrebbe considerare di ricorrere a una norma per estendere il contributivo retroattivo anche per gli uomini – ricordo che tale norma è già in vigore per le donne – come opzione di scelta da demandare a lavoratore e azienda’.
Questo l’ha detto il ministro Fornero?
Esatto. È un suo suggerimento e noi l'abbiamo tradotto in forma di legge. E vuole sapere chi ha voluto inserire questa norma nella proposta?
Dica.
L'onorevole Giuliano Cazzola, Pdl, che si è fatto interprete del suggerimento del ministro. Quindi, la logica dei gradini è stata ispirata dal ministro che ora si lamenta. Per quel che mi riguarda quella norma può essere tolta, non l'abbiamo mai caldeggiata. Noi caldeggiamo solo la soluzione per gli esodati, lavoratori in mobilità, prosecutori volontari e licenziati individuali.
Sta dicendo che il Pd non chiede la riforma o la correzione delle pensioni?
Con l’applicazione del calcolo contributivo quella norma non sarebbe recepita dai lavoratori. Per parte nostra può decadere.
Vi concentrate, quindi, sui 270 mila esodati per i quali non è stata ancora trovata soluzione.
Mi sono stancato di inseguire i numeri. Noi parliamo di diritti e vogliamo salvaguardare queste persone.
Ma la copertura dove si trova? Quella indicata dalla vostra legge, i giochi on line, è stata bocciata dalla Ragioneria.
Si può trovare nella spending review 2: una quota dei soldi risparmiati può essere destinata alla salvaguardia degli esodati.
Il governo sta pensando a una soluzione graduale non ancora precisata. Sareste d’accordo?
Una soluzione deve essere trovata e se la soluzione aiuta la discuteremo. Importante è che abbiamo rimesso il problema al centro della discussione.
Siete però accusati di fare un’operazione squisitamente elettorale, in vista anche delle primarie del centrosinistra.
È un’accusa falsa e infondata. Abbiamo a cuore un problema sociale. La proposta è unitaria e i soldi risparmiati possono essere utilizzati per questo obiettivo.
Vi accusano anche di voler far saltare l’agenda Monti.
Non facciamo saltare nessuna agenda Monti. Quando il ministro ripete che noi vogliamo la controriforma è lei che dà l'impressione che si voglia far saltare Monti. Ma noi non abbiamo messo in discussione né i 67 anni necessari per la pensione di vecchiaia, né quelli per la pensione di anzianità, né l'età pensionabile delle donne. Stiamo intervenendo sugli esodati. Il punto per noi è solo questo.
Da quello che sta dicendo possiamo desumere che l’articolo 1 del progetto di legge sarà cassato?
I lavoratori lo guardano con grande sospetto per via della forte decurtazione: quindi, per quello che mi riguarda, è un falso problema. Se è un ostacolo, può essere eliminato. Ma il ministro non si lamenti, l'ha suggerito lei.

il Fatto 10.10.12
Radio Radicale incassa per il 2013 10 milioni di euro


ANCHE STAVOLTA Radio Radicale si salva. La scure della spending review ha messo da parte 10 milioni di euro da destinare all’emittente del partito di Marco Pannella ed Emma Bonino che trasmette i lavori parlamentari e fa informazione politico-istituzionale 24 ore al giorno (oltre a raccontare le vicende interne del partito)..
E proprio in questo sta, secondo i Radicali, l’assenza di contraddizione tra la loro - reiterata - richiesta di abolire i fondi pubblici da destinare ai partiti e il fatto di esser finanziati dal governo: occupandosi di politica e istituzioni, ospitando voci di ogni genere, la radio merita 10 milioni di euro per l’anno 2013. A fine 2011, per il 2012, avevano ottenuto 7 milioni.


il Fatto 10.10.12
Che sorpresa, Fitoussi no-global


Il professore è noto in Francia, celebre in Italia soprattutto perché parla italiano e quindi è facilmente intervistabile. Ma certo Jean-Paul Fitoussi non era mai stato personaggio per il grande pubblico finché Adriano Celentano non lo ha invitato sul palco della sua RockEconomy, all’Arena di Verona, trasmesso su Canale 5. Settantenne giovanile, sempre elegantissimo, abbronzatura perfetta trasversale alle stagioni, accento sempre morbidamente parigino, Fitoussi ha stupito anche chi lo conosce nella sua veste professionale per i toni anti-sistema, perfettamente in linea con l’apologia della decrescita (l’idea che è sbagliato inseguire l’aumento del Pil) all’inizio della trasmissione. Fitoussi si è lanciato contro “il sistema”, denunciando addirittura la fine della democrazia per il prevalere delle logiche finanziarie sulla volontà popolare, “siamo quasi in dittatura, pensavo fosse una dittatura benevola ma ora non lo credo più”. Perfino il cantante-predicatore si scopre moderato, a confronto di Fitoussi.
AL PROFESSORE emerito di Sciences Po, l’università della classe dirigente francese, bisogna fare la tara: un po’ tutti gli economisti francesi, che non si sono mai convertiti alla deriva quantitativa degli americani, sono distruttivi, polemici, critici. Ma anche con questa premessa sono toni sorprendenti per chi da curriculum sembrerebbe un perno di quel sistema che, secondo lui, prepara la dittatura. In Francia è uno dei consulenti più ricercati, secondo soltanto a Jacques Attali, ha collaborato con il presidente Nicolas Sarkozy per un famoso rapporto sul progresso firmato con i Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. É amico di Dominique Strauss-Khan, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale travolto (e poi assolto) da uno scandalo sessuale, che doveva diventare presidente al posto di François Hollande. In Italia è docente alla Luiss, l’università della Confindustria, editorialista del quotidiano La Repubblica e membro del consiglio di amministrazione di due società simbolo del capitalismo di relazione, come Telecom Italia e la banca Intesa Sanpaolo.


Repubblica 10.10.12
Nuovi fantasmi perché gli operai hanno smesso di esistere
Un saggio di Airaudo, sindacalista della Fiom, sulla condizione dei lavoratori
Vengono raccolte una serie di storie e di testimonianze su questa metamorfosi
di Luciano Gallino


Il senso del libro di Airaudo, La solitudine dei lavoratori (Einaudi) è racchiuso nella frase con cui termina: «Dobbiamo riportare nella politica… la rappresentanza, e con questa la cittadinanza del lavoro, per uscire da quella solitudine che, per troppo tempo, in questo paese, ha trasformato in fantasmi le donne e gli uomini che lavorano». Responsabile del settore auto della Fiom, l’autore parla soprattutto di Fiat, ma quel che scrive vale per l’intera società italiana. Dove sembra che i massimi riconoscimenti in campo economico e sociale vadano di preferenza alle imprese e ai dirigenti i quali hanno stabilito che la democrazia, e perfino la Costituzione, si arrestano ai cancelli delle fabbriche e in genere dei luoghi di lavoro. Per primi i governi si sono sbracciati nell’elargire tali riconoscimenti soprattutto alla Fiat, ma tutto ciò che hanno concesso a questa nel campo delle relazioni industriali e delle riforme del mercato del lavoro si è rapidamente diffuso a gran parte dell’industria italiana.
Per contro le donne e gli uomini che lavorano sono stati trasformati in fantasmi, privati di ogni rappresentanza in politica perché nella quasi totalità i media e i politici non hanno la minima idea di un rapporto essenziale per la vita dentro le fabbriche. È il rapporto tra il lavoro alla catena e democrazia. Per illustrarlo l’autore richiama due casi assai efficaci.
C’è un operaio a Mirafiori (ne parlò mesi fa il Corriere della Sera) che da tredici anni avvita bulloni per montare le cinture di sicurezza sul lato destro delle vetture. Sono nove in tutto (sei di essi hanno un nome un po’ diverso, ma non fa differenza). Usando un attrezzo ad aria compressa che pesa parecchi chili, l’operaio, chiamato Sergio nel libro, impiega per montarli circa 180 secondi, tre minuti. Poi ricomincia la stessa operazione. In un anno monta più di 70.000 bulloni. Operazioni del tutto simili le fanno altre migliaia di Sergio e di Anna negli stabilimenti Fiat. Che cosa c’entra qui la democrazia lo spiega, in un’altra citazione, una delegata anch’essa di Mirafiori. L’accordo imposto dall’azienda la vincola a far rispettare i tempi di lavoro. Un traguardo che per molti Sergio e Anna può essere, sovente, difficile da raggiungere. Per diversi motivi: «Perché la linea di montaggio va troppo velocemente, o le pause sono insufficienti, o fa troppo caldo o troppo freddo o, ancora, i componenti da montare sono difettosi o mal posizionati ». Ma la delegata non può farci niente. L’accordo non consente che possa dichiarare sciopero, che ci siano mezzi per difendere i lavoratori o per farsi ascoltare dai capi, che la delegata trovi il modo di rappresentarli. La delegata, a norma di quel contratto legalmente stipulato, non conta niente. È un fantasma. E con lei non contano niente Sergio e Anna, in tutti gli stabilimenti Fiat, come in molte altre fabbriche. Devono soltanto ubbidire. La democrazia è stata fermata dai sorveglianti ai cancelli.
Il libro dedica giustamente spazio a un articolo della Costituzione, il 4, che di solito è poco presente nella discussione sulle relazioni industriali e le politiche del lavoro. In realtà è un articolo fondamentale, perché vari articoli della Carta, dal 35 in avanti, parlano di diritti del lavoro, riferendosi palesemente a chi un lavoro ce l’ha, mentre questo afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». A rigore, potrebbe essere inteso nel senso che lo stato si adopera per dare un lavoro a tutti. Un pronunciamento della Corte costituzionale di vari anni fa ne ha temperato la portata a tale fine, ma è fuor di dubbio, nota l’autore, che nel sancire il principio del diritto al lavoro sta il nucleo del diritto alla stabilità del posto. La legislazione del lavoro degli ultimi quindici anni, sino alla recente riforma, ha totalmente disatteso il principio dell’art. 4. Un tema che percorre tutto il libro è ovviamente il disimpegno di Fiat dall’Italia. Nel 1989 la produzione era giunta a superare nel paese i 2 milioni di vetture. Quest’anno si prevede che non supererà di molto le 450.000. C’è la crisi, dice l’amministratore delegato Sergio Marchionne. Però la crisi ha fatto scendere le vendite del 25 per cento in Europa, non dell’80 per cento. Al fine di giustificare il disimpegno la società ha imputato ai lavoratori e al suo sindacato più diffuso, la Fiom, ogni sorta di inadempienze, dagli eccessi di assenteismo agli intralci recati alla produzione dai sindacalisti e dagli operai, alla vetustà dei contratti di lavoro. A questi si è pensato bene di ovviare con l’accordo di Pomigliano del 2010, esteso poi agli altri stabilimenti del gruppo. Il succo di esso è che Sergio (l’operaio, non l’amministratore delegato) dovrebbe avvitare un maggior numero di bulloni al giorno, facendo meno pause durante l’orario, e lavorare se necessario anche 200 ore in più all’anno. Che vuol dire oltre un mese di lavoro in aggiunta agli altri e tanta fatica in più, ogni giorno. A fronte di tanti diritti in meno. Politici e commentatori di destra e di centro- sinistra hanno plaudito, in nome della modernizzazione delle relazioni industriali e della competitività. Provasse mai, qualcuno di loro, ad avvitare mille bulloni al giorno.

l’Unità 10.10.12
Diminuiscono gli aborti
Ma è record di obiettori
di Riccardo Valdes


ROMA Dall’entrata in vigore della legge sull' aborto, la 194 del 1978, in Italia si è registrata una costante diminuzione degli aborti, fino ad arrivare nel 2011 a registrare un decremento del 5,6 rispetto all’anno precedente. È il quadro tracciato dal ministro della Salute Renato Balduzzi nella presentazione alla Relazione 2012 sulla legge 194, che il ministro ha firmato e inviato ieri mattina al Parlamento.
Nella relazione vengono illustrati i dati preliminari per l'anno 2011 e i dati definitivi relativi all'anno 2010 sull'attuazione della legge n. 194 del 1978. «L'esperienza applicativa della legge n. 194 pone in evidenza come, dopo un iniziale aumento per la completa emersione dell'aborto dalla clandestinità, la cui entita prima della legalizzazione era stimata tra i 220 e i 500mila aborti l'anno, si sia potuta osservare una costante diminuzione dell'Ivg nel nostro Paese», sottolinea Balduzzi. In particolare nel 2011 sono state effettuate 109.538 Ivg (dato provvisorio), con un decremento del 5,6% rispetto al dato definitivo del 2010 (115.981 casi) e un decremento del 53,3% rispetto al 1982, anno in cui si e registrato il piu alto ricorso all'Ivg.
Se gli aborti calano in Italia, il numero di ginecologi, anestesisti e personale non medico obiettore continua invece a essere altissimo, anche se nel 2010, rispetto agli anni precedenti, sembra essersi stabilizzato almeno tra i medici. Tra i ginecologi infatti si è passati dal 58,7% del 2005 al 70,7% nel 2009 e al 69,3% nel 2010. È questo uno dei dati che emerge dalla relazione al Parlamento sulla legge 194 depositata oggi dal ministro della Salute, Renato Balduzzi. Per quanto riguarda gli anestesisti, negli stessi anni, il tasso di obiezione è passato dal 45,7% al 50,8%, mentre tra il personale non medico si è osservato un ulteriore incremento, con valori di obiezione saliti dal 38,6% nel 2005 al 44,7% nel 2010. La relazione rileva comunque come al sud vi siano percentuali di obiezione più alte, superiori all'80%: 85,2% in Basilicata, 83,9% in Campania, 85,7% in Molise, 80,6% in Sicilia, come pure a Bolzano con l'81%. Anche per gli anestesisti i valori più elevati si osservano al sud (con un massimo del 75% in Molise e in Campania e del 78,1% in Sicilia) e i più bassi in Toscana (27,7%) e in Valle d'Aosta (26,3%).
«Abbiamo più volte denunciato il fenomeno grave del numero troppo elevato di obiettori di coscienza, che rende difficile l'attuazione della legge 194. Le strutture ospedaliere devono garantire che le donne che decidono di fare ricorso all'interruzione volontaria di gravidanza possano farlo senza incontrare troppi ostacoli». Lo dice la senatrice del Pd Vittoria Franco.

La Stampa 10.10.12
In 30 anni aborti dimezzati. Raddoppia l’uso di Ru486
Legge 194, la relazione del Ministro: “Potenziare i consultori”
di Rosaria Talarico


In Italia le donne abortiscono sempre di meno. Nel 2011 infatti le interruzioni volontarie di gravidanza (esclusi quindi gli aborti per cause naturali o per patologie) sono state 109.538, facendo registrare un meno 5,6% rispetto al 2010 (115.981 casi). Ma a balzare agli occhi è il confronto con il 1982, l’anno in cui il ricorso all’aborto ha toccato il picco con quasi 235 mila interruzioni di gravidanza: in trent’anni gli aborti sono calati di oltre la metà (-53,3%). Questi dati emergono dalla relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194 del 1978, che introdusse nel nostro ordinamento l’interruzione volontaria di gravidanza e le norme per la tutela sociale della maternità. Da allora passi avanti ne sono stati fatti parecchi, come ricorda lo stesso ministro della Salute Renato Balduzzi.
«La riduzione percentuale di aborti ripetuti - ha spiegato il ministro - è la più significativa dimostrazione del cambiamento nel tempo del rischio di gravidanze indesiderate, poiché, se tale rischio fosse rimasto costante nel tempo, si sarebbero avute attualmente percentuali doppie rispetto a quelle osservate». In questo un’opera costante di supporto e informazione viene svolta dai consultori familiari.
La sostanziale riduzione dell’aborto clandestino e l’eliminazione della mortalità materna purtroppo spesso conseguente è stata possibile, prosegue Balduzzi «grazie alla promozione di un maggiore e più efficace ricorso a metodi di procreazione consapevole, alternativi all’aborto, secondo gli auspici della legge. Per conseguire tale obiettivo è importante potenziare la rete dei consultori familiari, che costituiscono i servizi di gran lunga più competenti nell’attivazione di reti di sostegno per la maternità, in collaborazione con i servizi sociali dei comuni e con il privato sociale».
I dati sono stati raccolti grazie al contributo dell’Istituto superiore di sanità (Iss), il ministero della Salute e l’Istat da una parte, le Regioni e le Province autonome dall’altra. Il tasso di abortività (cioè numero delle interruzioni volontarie di gravidanza per mille donne in età feconda tra 15-49 anni) è l’indicatore più accurato per valutare il fenomeno. Nel 2011 è risultato pari a 7,8 per mille, con un decremento del 5,3% rispetto al 2010 (8,3 per mille). Il valore italiano è tra i più bassi di quelli osservati nei Paesi industrializzati.
A livello geografico, si sono verificati più aborti con minorenni nelle Isole (4,4%) ; seguono le regioni centrali (3,3%), quelle del Nord (3,2%) e l’Italia meridionale (3,1). Per quanto riguarda le Regioni, in testa alla classifica ci sono la Sicilia e la Liguria (4,5%).
Riferendosi al tasso di abortività (per 1.000 donne), si registrano più aborti con minorenni al Centro (5,4), quindi il Nord (5), le Isole (3,9) e il Sud (3,5). Tra le Regioni al primo posto c’è ancora la Liguria (8,5), poi il Piemonte (6,3) e il Lazio (6,2). Nel 2010 le interruzioni volontarie di gravidanza effettuate da minorenni (15-17 anni) sono state 3.828, il 3,3% del totale. L’autorizzazione all’aborto per le minorenni è stata data dai genitori nel 70,8% dei casi e dai giudici nel 27%.
Bilancio positivo anche sul fronte della Ru486, la contestatissima pillola del giorno dopo, introdotta in Italia nel2009. Non si sono registrate complicazioni successive al suo utilizzo nel 96,1% dei casi. Inoltre se nel 2010 la pillola era stata usata in 3.836 casi (il 3,3% del totale), solo nel primo semestre 2011 si contano quasi altrettanti casi (3.404), facendo ipotizzare che il dato finale sarà circa raddoppiato. Particolare attenzione dovrà invece essere rivolta alle donne straniere, a maggior rischio di ricorso all’aborto.

l’Unità 10.10.12
Suicidi in carcere, sono sempre più giovani
L’età media di chi perde la vita dietro le sbarre è di 38 anni rispetto ai 45 del 2000. Negli ultimi 12 anni sono morte 2.056 persone 756 delle quali per suicidio
di Davide Madeddu


Aveva meno di trent’anni. Ha deciso di farla finita, qualche giorno fa, impiccandosi alla grata del bagno con la cinta dell’accappatoio nel carcere di Belluno. Lui, giovane tunisino è l’ultimo detenuto che quest’anno si è ucciso in carcere. L’ultimo di un elenco che da gennaio al 6 ottobre conta 44 persone. A raccontare la sua storia è stata l’associazione Ristretti Orizzonti che cura e aggiorna costantemente il dossier «morire di carcere».
A leggerlo poi nel dettaglio si capisce che i numeri forniti sono quasi da bollettino di guerra. Negli ultimi 12 anni, ossia dal 2000 al 2012 nelle carceri d’Italia sono morte 2056 persone, 756 delle quali per suicidio. Numeri importanti che si ripetono più o meno di anno in anno. E che riguardano persone, uomini e donne. Dall’inizio del 2012 al 6 ottobre, si sono registrati 44 suicidi su un numero complessivo di 123 morti. E sempre secondo quanto spiegano i volontari nel dossier, anche l’età di chi muore in carcere nel corso degli anni si è abbassata. Se nel 2000 l’età media di chi moriva dietro le sbarre era di 45 anni ora è di 38 anni. Una situazione che i rappresentanti delle associazioni impegnate quotidianamente nel mondo carcerario definiscono «preoccupante». Soprattutto perché all’interno delle carceri si continuano a fare i conti con il sovraffollamento. Che non vuole dire solo far stare stretti i detenuti.
«Il sovraffollamento si ripercuote su tutto quello che riguarda la vita del carcere spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti -, dal lavoro all’assistenza sanitaria, continuando con la scuola». Basti un esempio. «Oggi capita che in una sezione dove ci stavano 25 persone che ce ne siano 75 spiega è chiaro che tutte queste persone si riversano in un sistema sanitario rimasto uguale al passato con le stesse risorse economiche e umane del passato». Senza dimenticare poi gli spazi. «Molto spesso in celle che hanno dimensioni tre metri per tre aggiunge devono convivere tre persone che assieme a tutti gli altri devono stare negli stessi passeggi e utilizzare le stesse docce».
Risultato? «C’è gente che passa il suo tempo a non far niente spiega -. I suicidi nascono in una situazione in assenza di futuro. C’è disperazione e soprattutto c’è l’assenza di prospettive». Situazione diffusa in tutta Italia come si legge ancora nel dossier e conferma anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Per commentare i dati del dossier l’esponente di Antigone non usa giri di parole: «Diciamo che sono numeri tragici commenta già un morto basta per indignarsi». Poi il rappresentante dell’associazione che si occupa di diritti dei detenuti aggiunge: «Dopo le parole del presidente Napolitano non è successo niente forse dobbiamo aspettare tempi migliori». Fa una premessa Riccardo Arena, conduttore di Radiocarcere (martedì e giovedì) su Radio Radicale. «E’ evidente che non bisogna generalizzare spiega -.
Infatti ogni suicidio, ogni decesso per malattia deve essere analizzato singolarmente. Ma è altrettanto evidente che, di fronte a queste cifre, si può tranquillamente affermare come in Italia, pur non essendoci la pena di morte, per una pena si può morire». Quanto ai suicidi spiega che «nelle carceri sono, molto spesso, la conseguenza dell’abbandono di singole persone. Persone inascoltate, non seguite adeguatamente che poi una notte si impiccano in bagno. Non suicidi quindi. Ma persone suicidate da un sistema carcerario che non è in grado di gestire problematiche differenti». Sul versante malattie invece spiega che «Ci troviamo spesso dinanzi alla negazione del diritto alla salute. Molte delle persone detenute morte in carcere sono decedute perché non curate». Soluzioni? «Occorre intervenire su più fronti, riformando il sistema delle pene e il processo penale. Riforma che spetterebbe al Parlamento. Ma chi in questo parlamento ha interesse a un processo che termina in un anno anziché in 8, 9 e anche 10 anni? ».

Repubblica 10.10.12
La Weimar greca
di Barbara Spinelli


Ancora non è chiaro, ma se Angela Merkel ieri è corsa a Atene – dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera – vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino. Uno spavento che si è dilatato, dopo l’intervista di Antonis Samaras al quotidiano
Handelsblatt di venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo. La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell’essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell’intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.
Il caos, i tedeschi sanno cos’è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: Weimar è oggi a Atene, e anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà.
Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l’Unione, e tutto quel che l’Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare.
Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L’odio dell’immigrante,del gay, del disabile, è la sua ragion d’essere. Se l’Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L’ex Premier George Papandreou è bollato come «greco al 25 per cento»: la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.
Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell’euro, quanto il tracollo delle mura che l’Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l’Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato. Oltrepassare i calcoli sull’euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.
Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell’accordo di Londra sul debito estero, nel ’53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l’hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell’occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). «Le riparazioni non sono più un problema », replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.
La Grecia certo non è senza colpe. All’indisciplina di bilancio s’accoppiano la corruzione politica, l’enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell’italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d’opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.
In fondo non c’è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi). I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos – una specie di Montalbano greco – sono conosciuti in Italia. L’ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s’intitola L’Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l’altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L’assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados di Piazza Sìntagma vogliono candidarlo: «L’Esattore nazionale è un Dio! », gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos, che raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: «Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all’azione politica». Il sottotitolo di Khaos è «i volti umani della crisi»: volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d’esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell’Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico.
Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione – oggi anacronistica – quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, «perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo». Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.
«Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi», conclude il filosofo: «In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a un federalismo esecutivo.
La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l’occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto».
L’ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l’intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l’allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l’impervia corsa della Merkel a Atene. Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All’orizzonte si staglia la figura dell’Esattore Nazionale, salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide i traditori della democrazia. È così, dai tempi dell’Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.

La Stampa 10.10.12
La Buchmesse al tempo del Big Bang
Si apre oggi la kermesse dell’editoria: le tecnologie digitali stanno facendo nascere il nuovo universo del libro
di Mario Baudino


C’ è anche il bosone di Higgins fra gli ospiti della Fiera di Francoforte, che si apre oggi dopo due giorni di frenetiche pre-contrattazioni nei grandi alberghi del centro. I ricercatori del Cern di Ginevra hanno costruito in una hall una sorta di facsimile del loro acceleratore, che simula la collisione fra protoni. E intanto, il più grande mercato internazionale per i diritti editoriali parte anch’esso all’insegna dell’accelerazione. Dopo due edizioni poco ottimiste, quest’anno molti hanno voglia di aumentare il passo. E quei «molti» sono 7400 espositori da 104 Paesi, alla ricerca di nuovi modelli. Secondo Jurgen Boos, direttore della Fiera, il mondo dell’editoria sta vivendo un suo «Big Bang», tanto per restare al linguaggio della scienza.
Un nuovo universo è sul punto di materializzarsi. Come sia, nessuno lo sa, ma la sensazione generale è che tutto stia cambiando fulmineamente. Quando i libri finiscono sui tablet - è il ragionamento di Cristina Foschini, del gruppo Gems - non competono più con altri libri, come è sempre accaduto, ma con innumerevoli altri prodotti mediatici. E questo finisce per mutare l’idea stessa di libro. Prendiamo l’ultimo successo planetario, e cioè le Cinquanta sfumature australiane, nate sulla rete e vendute in decine di milioni di copie in tutto il mondo nei tre volumi che le declinano al grigio, al rosso e al nero (con buona pace di Stendhal). Ci si può legittimamente chiedere se è ancora un libro, o un fenomeno, o un format. Intanto marchia la Fiera, sommersa di proposte simili, soprattutto da agenti ed editori americani, ma anche da ripescaggi clamorosi. Bompiani ad esempio ha appena rinnovato i diritti per un classico come l’ Histoire d’O, suo antico titolo di catalogo con prefazione di Alberto Moravia, battendosi in un’asta indetta da Fayard. Ora verrà ripubblicato in una nuova, smagliante traduzione.
Ieri, vigilia dell’apertura, il caso di giornata era però un libro atipico, difficilmente catalogabile, ma ancora di un australiano, Graeme Simsion. Si intitola The Rosie Project ed è il diario di un genetista affetto - senza saperlo - dalla sindrome di Asperger, che decide di trovare moglie. La malattia di cui soffre inibisce le emozioni, è una specie di autismo. In questo caso l’effetto del diario è spesso esilarante e altrettanto spesso agghiacciante, tra clinica e narrazione. Per l’Italia se lo è già assicurato Longanesi, ma le aste furoreggiano. Qualcosa di analogo è accaduto per il romanzo dell’esordiente americano Peter Swanson - ma qui siamo più vicini alla narrativa intesa in senso tradizionale - con The Girl with a Clock for a Heart, un thriller basato sulla misteriosa ricomparsa di una ragazza che si credeva morta suicida vent’anni prima. E che chiede un favore al suo innamorato d’allora. Anche in questo caso gli italiani - diritti trattati dall’agenzia di Roberto Santachiara - sono arrivati prima della Fiera, e se lo è assicurato l’Einaudi per Stile Libero. Per il resto del mondo, ci si batte a Francoforte. Per le edizioni in lingua inglese, pare si sia arrivati a 400 mila dollari.
Il colpo più grosso, però, è ancora una volta un «libroide», o se vogliamo un libro totalmente trasversale, di quelli oltre il Big Bang: Not That Kind Of Girl, ovvero i consigli di vita (cibo, sesso, viaggi) di Lena Dunham, ventiseienne creatrice e protagonista di Girls, la serie tv di maggior successo in America: Random House le ha pagato un anticipo di 3,5 milioni, ora l’aspetta un ruolo da star alla Fiera. Girls debutta proprio oggi, da noi, su Mtv. E in attesa dei risultati di pubblico, l’agenzia Santachiara che tratta i diritti per l’Italia ed ha già ricevuto varie offerte non sembra aver fretta di concludere.
I nostri editori non sono comunque alla Buchmesse solo per comperare. Anzi, i libri italiani si esportano sempre meglio, ormai da qualche anno. Molti i titoli, primo fra tutti Fai bei sogni, il best seller di Massimo Gramellini, già venduto dalla Longanesi in 13 Paesi - tutti quelli più importanti - e ora pronto a fronteggiare la ressa dei «piccoli». Rizzoli punta su due esordienti (coincidenza: abitano entrambe a Savona): Daniela Piazza, appena pubblicata con Il tempio della luce, e Emanuela Ersilia Abbadessa, in uscita all’inizio del 2013 con Capo Scirocco, straordinaria storia siciliana di amore e di ombre su cui si sta accendendo molto interesse, ambientata a fine Ottocento in una città che ricorda molto da vicino Catania.
Bompiani, oltre alle Terre leggendarie di Umberto Eco, registra un nuovo interesse americano per Vincenzo Latronico e Andrea De Carlo. Sellerio ha parecchi autori in uscita, ma il suo portabandiera, dopo il successo in Germania (che in genere catalizza l’interesse europeo), è Marco Malvaldi con Non tutti i bastardi sono di Vienna. L’elemento nuovo che sembra emergere per quanto riguarda i libri italiani è però la loro durata. Rosaria Carpinelli, agente di autori come Margaret Mazzantini e Gianrico Carofiglio, nota come rinasca a folate un vivo interesse per libri pubblicati ormai da anni (esempio tipico è Nessuno si salva da solo della Mazzantini, che è appena uscito in Russia con grande successo) e soprattutto che si aprono mercati fino a ieri imprevedibili, al di là dell’Europa. Il passato è una terra straniera di Carofiglio, ad esempio, è fresco di stampa in Viet Nam. Al momento senza polemiche su scribacchini e mestieranti.

Repubblica 10.10.12
E Francoforte scopre la “human economy”
Molti tra i testi presentati alla Buchmesse sono critiche al neo-liberismo
di Vanna Vannuccini


FRANCOFORTE Abbiamo comprato crescita economica e venduto stabilità, ora vogliamo un’economia che tenga conto delle persone: humanomics invece che economics.
Quattro anni dopo il crash della Lehman, le critiche a un capitalismo insieme informe e onnipotente sono la novità quest’anno alla Buchmesse. La “distruzione creatrice” che tiene in piedi il capitalismo sembra non aver perso di verità e ha spinto gli economisti a scrivere libri per spiegare l’economia ai laici. La crisi finanziaria, mutata in crisi del debito e poi in crisi dell’euro, è oggi sempre più una crisi di fiducia: non si fidano i mercati, non si fidano gli investitori, non si fidano gli elettori. Leggere aiuta. E non sono solo gli economisti a scrivere. A sorpresa, ricompaiono gli scrittori “politici”. Almeno tre tra i più noti autori di lingua tedesca si sono reinventati il libro “impegnato”, un genere che era finito dai tempi di Günter Grass. Affrontando temi come la democrazia (Ingo Schulze), l’Europa (Robert Menasse), il manager onesto (Rainald Goetz). Forse qua e là peccano di idealismo, ma restano una novità. Per Ingo Schulze ( I nostri bei vestiti nuovi, Hanser Berlin) è stata una formula usata dalla cancelliera Merkel – «democrazia conforme al mercato » – a farlo sobbalzare. Quella formula gli appare un tradimento della politica: «Non dovrebbero invece essere gli attori in Borsa a cercare di riconquistarsi la fiducia della società? Non di democrazia conforme al mercato si dovrebbe parlare, ma di mercati conformi alla democrazia».
“Siamo il 99 per cento” era lo slogan di Occupy Wall Street e anche se il movimento è finito, quello slogan descrive perfettamente il problema delle grandi disuguaglianze che, come scrive il premio Nobel Stiglitz ne Il prezzo della disuguaglianza, sono un pericolo per l’economia e ancor più per la democrazia. A Francoforte verrà premiato questa settimana per L’economia del bene e del male (Garzanti) Tomas Sedlacek, un economista trentacinquenne ceco che era stato consigliere economico di Vaclav Havel e che esplora le fonti del pensiero economico da Gilgamesh a Wall Street, attraverso la Bibbia e i filosofi greci. Per dare un fondamento teorico alle nuove critiche ai modelli economici correnti. La riduzione dell’uomo a agente economico razionale che cerca di ottimizzare il proprio tornaconto ha portato all’esclusione di qualsiasi agire etico, sconfessando perfino Adam Smith (però gli economisti oggi devono congedarsi dall’idea di Smith della “mano invisibile del mercato”). Abbiamo creato un sistema che crolla se sta fermo, dice Sedlacek, come se un’automobile esplodesse quando non cammina. Un “keynesianismo bastardo” perché se nei momenti cattivi i deficit vanno bene, in quelli buoni dovrebbero venir ripianati, mentre in Occidente si è fatta solo la prima cosa, condendola di populismo.
Il problema è se l’economia funzioni come noi vogliamo; e questo ci riporta a questioni filosofiche: vogliamo una società giusta o una società stabile o una società fissata sulla crescita? Il libro di Sedlacek è diventato una commedia che viene data a Praga (anche su Youtube) e lui a volte vi recita. E intanto scrive un libro di dialoghi con David Orrell, un matematico canadese autore di un bestseller sui Miti dell’economia: dieci modi in cui l’economia sbagliae un altro con David Graeber, l’autore di Debito (sottotitolo: “I primi 5000 anni”, Il Saggiatore). Anche Susanne Schmidt, figlia dell’ex cancelliere, presenta alla Buchmesse una rinnovata critica alle banche: Come le banche governano la politica (Droemer). E a Francoforte ci si è ricordati che anche Goethe era critico della corsa folle al denaro e il suo Faust II viene rappresentato come un’allegoria del capitalismo. Gli editori italiani fanno già oggi un primo bilancio: Ponte alle Grazie festeggia Emanuele Trevi che riceverà con il suo Qualcosa di scritto lo European Union Prize for Literature 2012, mentre Bompiani ha acquistato il libro del giovanissimo Joël Dicker, finalista al Goncourt, La vérité sur l'Affaire Harry Quebert, titolo importante della Fiera.

Repubblica 10.10.12
Caput Mundi
La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano
Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo
di Maurizio Bettini


Quintiliano afferma che «l’antichità produce molta autorità, come accade a coloro che si dice siano nati dalla terra». Ecco un genere di auctoritas che i Romani non si sono mai sognati di reclamare. Al contrario, nel latino colloquiale l’espressione “nato dalla terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, come diremmo noi. Di sicuro gli Ateniesi, che si volevano nati direttamente dal suolo dell’Attica (fieri della loro “autoctonia”, come la chiamavano), non avrebbero apprezzato questo modo di dire. Lungi dal dichiarare di essere nati dalla terra laziale, i Romani preferivano descriversi come discendenti di un gruppo di Troiani che si erano fusi con la popolazione laziale, secondo la versione del mito resa celebre da Virgilio; in seguito questi discendenti di matrimoni misti avevano fondato prima la città di Lavinium, poi quella di Alba Longa. Dopo di che, da Alba due gemelli si erano a loro volta staccati per fondare una nuova città, Roma – ma solo per popolarla di uomini venuti a loro volta da ogni parte, proclamando apertamente che la nuova città aveva natura di asylum.
«Dalle popolazioni vicine » scriveva Livio «confluì una turba indiscriminata – non importava se fossero liberi o schiavi – gente bramosa di novità, e questo fu il nerbo della futura grandezza». Il nerbo della magnitudo romana – quella “grandezza” che per i Romani corrisponde alla loro stessa identità – si fonda sulla commistione di uomini venuti da fuori. Roma è già ai suoi albori una città aperta.
Ora una mostra parte dal mito fondativo della città per ripercorrerne le tappe, dalla conquista dell’Italia, all’espandersi del potere nelle province più lontane, fino alla creazione di quello straordinario melting pot religioso e culturale che è stato l’Impero. Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, (promossa dalla Soprintendenza ai Beni archeologici, curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando) attraverso un centinaio tra sculture, bassorilievi, mosaici, calchi, suppellettili, racconta l’unicum che fu l’avventura di Roma nella storia. La mostra si articola in tre sedi espositive: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro romano, che ospita un’interessante appendice dedicata al mito moderno della città: dall’uso politico che ne fecero le rivoluzioni e le dittature, all’uso spettacolare che ne fece il cinema.
Ma in che modo i Romani immaginarono il momento cruciale della propria origine, la fondazione della città? Ce lo racconta Plutarco. Dunque Romolo «scavò una fossa di forma circolare nel luogo dove sta ora il Comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo la consuetudine e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, cioè mundus.
In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini… Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium».
Inutile dire che la fossa scavata da Romolo, il mundus, è caricata di un grande significato. In essa vengono infatti gettati sia prodotti della cultura (la “consuetudine”), sia prodotti della natura, a significare la creazione di una nuova civiltà. Inoltre in questa fossa vengono gettate zolle tratte dalle rispettive terre patrie di coloro che si sono uniti a Romolo. Questo rimescolamento di terre venute da lontano, e fuse con il suolo laziale, rispecchia perfettamente il rimescolamento di uomini che caratterizza l’asylum. Accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo della città diventa specchio degli uomini che lo calpestano, terra “mescolata” così come “mescolati” sono i futuri abitanti della città. È evidente che questa rappresentazione ha un forte significato politico. Descrivendo la nascita della città come un rimescolamento di terre disparate e come una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate, i Romani mettono in evidenza uno dei caratteri principali della loro cultura: ossia l’apertura verso gli altri. Non a caso Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza.
Naturalmente, l’altra faccia della medaglia è la volontà di potenza dell’urbe: e il suo destino è ben racchiuso nel celebre verso virgiliano che la descrive come «città destinata a parcere subiectis et debellare superbos».
Lo cita la soprintendente Mariarosaria Barbera nel catalogo Electa, aggiungendo che «alcuni secoli più tardi, all’indomani del terribile sacco di Alarico, Rutilio Namaziano ricorda la stupefacente capacità di amalgamare popoli e civiltà (fecisti patriam diversis de gentibus unam).
Tale doppia natura emerge chiarissima nel confronto tra il concetto di “patria comune a tutta la terra”, proposto dal retore Elio Aristide; e quello, assai più famoso, del “deserto che [i Romani massacratori] chiamano pace”, riportato da Tacito nel celebre discorso antiromano del capo Britanno Calgaco (Agricola 30)».
In mostra è testimoniato un passaggio chiave del sistema Roma: quello che i curatori chiamano “Il manifesto dell’integrazione romana” e cioè il discorso che l’imperatore Claudio fece perché il Senato ammettesse i maggiorenti delle tre Gallie. La lapide dell’orazione e la scultura dell’imperatore (proveniente dall’Archeologico di Napoli) sono esposti nella Curia Iulia.
Ma torniamo alla fossa scavata da Romolo al centro della fondazione: la cosa interessante è che porta il nome di mundus, cioè “mondo”. D’altronde gli autori romani, per esempio, sottolineano con una certa enfasi il carattere di orbis, di “cerchio”, che caratterizza il tracciato di fondazione; e anzi mettono in risonanza questa parola con il termine urbs, quasi che il cerchio / orbis e la città / urbs fossero la stessa cosa. Ma orbis non è forse la parola che designa anche l’orbis terrarum, il mondo intero? A questo punto, però, la cosa migliore è tornare a quella fascia circolare, chiamata pomoerium, che secondo il racconto di Plutarco corrispondeva direttamente al tracciato del solco scavato da Romolo. La cultura romana attribuiva una grande importanza al pomoerium.
Questa zona costituiva il confine religioso della città, con particolare riferimento al rapporto fra le attività militari e quelle civili. La cosa interessante però è che, secondo “un costume antico”, come lo definisce Tacito, il comandante che aveva ampliato i confini dell’impero aveva il potere di ampliare anche quelli del pomoerium: tanto che «il pomoerium si ampliò in proporzione alla fortuna di Roma». Dunque il pomoerium è messo direttamente in corrispondenza con i confini dell’impero. Nella concezione romana, marcando il pomoeriumRomolo anticipa, o meglio pre-disegna anche lo spazio esterno di cui i Romani, in proporzione alla loro crescente fortuna, sono destinati a impadronirsi. Questo rapporto scalare fra pomoerium da un lato, e terre conquistate dall’altro, fa probabilmente da sfondo a certe dichiarazioni dei poeti augustei secondo cui la Urbs romana si identifica davvero con l’orbis terrarum. Basterà citare questo distico di Ovidio: «ad altre genti è data una terra segnata da un limite certo: ma lo spazio dell’Urbsromana è lo stesso dell’orbis».

Informazioni utili
“Roma Caput Mundi - Una città tra dominio e integrazione”, Colosseo - Foro romano, Roma, fino al 10 marzo 2013. Promossa dalla Soprintendenza dei Beni archeologici, a cura di Andrea Giardina e Fabrizio Pesando. Orari: dalle 8.30 a un’ora prima del tramonto. Ingresso: 12 euro; ridotto 7,50. Con il biglietto si accede al Colosseo, al Foro romano e al Palatino. Biglietti su www.coopculture.it. L’app iMiBAC Top 40 permette l’acquisto con smartphone. Informazioni: 06-39967700. Catalogo: Electa

Repubblica 10.10.12
Ma l’Impero caduto colpisce ancora
L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi
di Marino Niola


Roma è l’esempio di quel che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Nel geniale paradosso di Andy Warhol c’è la chiave del mito della città eterna. Un mito senza data di scadenza, proprio come le sue rovine. Che alimentano da tempi immemorabili l’immaginario del mondo. Facendo del Colosseo e delle Terme di Caracalla, dei Fori e di Ponte Milvio, del Campidoglio e della Domus Aurea altrettanti luoghi dell’anima. Si può dire che, ancor più di Roma in sé, a produrre da sempre mitologia sia Roma in noi. È dalla fondazione della città, nata dal duello mortale tra i fratelli coltelli Romolo e Remo, che i colli fatali dell’Urbe diventano lo sfondo che dà senso alle diverse vicende degli uomini e delle nazioni. Grandezza e decadenza, virtù e vizi, sobrietà e corruzione, democrazia e tirannide, repubbliche e imperi. Opposti che trovano nella romanità una coincidenza. E nelle sue rovine un’allegoria dai mille significati. Forse perché, come diceva Goethe, quelle vestigia sono di una magnificenza e di uno sfacelo tanto straordinari da diventare entrambi emblematici. Ecco perché il cristallo capitolino non ha mai smesso di brillare e proietta i suoi bagliori fino a noi. Già da quando i Visigoti di Alarico mettono a sacco la città nel 410 dopo Cristo scrivendo la parola fine sul dominio imperiale quirita. Ma come è noto, l’impero colpisce ancora. E comincia a farlo da subito trasferendosi armi e bagagli in Oriente, nella Costantinopoli di Giustiniano, il sovrano illuminato che prende in mano la grande eredità giuridica latina e regala al mondo quel corpus iuris che è la base dei diritti moderni.
Insomma, Roma è il mito politico per eccellenza, buono per tutte le stagioni, da Cesare a Mussolini. Non a caso l’astuto Carlo Magno, re dei Franchi, si fa incoronare imperatore del Sacro romano impero proprio nella chiesa di San Pietro, la notte di Natale dell’800 dopo Cristo. E la stessa cosa faranno gli imperatori di Germania, in primis Federico II, dopo il fatidico giro di boa dell’anno Mille che chiude la lunga notte del Medioevo barbarico e inaugura l’attesa della rinascita umanistica. Che avviene sotto il segno di una Roma dalla doppia anima. Che mette insieme la sua nascita pagana e la sua rinascita cristiana. L’uccisione di Remo che fonda la città e il martirio di Pietro che la rifonda. Con il papa che prende il posto dell’imperatore. Il cristianesimo insomma cambia l’immagine della città, da caput mundi a caput ecclesiae.
Traducendo in termini nuovi il destino universalista che lega a doppio filo l’urbe e l’orbe. Roma è un sogno che la chiesa custodisce tenacemente. Sono parole di Leo Longanesi che riecheggiano alla grande nelle oniriche sagome cardinalizie che attraversano il cinema di Fellini. Ed è proprio il grande schermo a rimettere in moto la macchina del mito romano. Con capolavori come Ben Hur e Quo vadis?, kolossal hollywoodiani in cui l’America vittoriosa nella seconda guerra mondiale si identifica con i martiri cristiani vittime del dispotismo pagano. Rappresentato da un Nerone in camicia nera che si gode cantando lo spettacolo di Roma in fiamme. L’allusione alla romanità fascista non poteva essere più chiara. Come dice Andrea Giardina nel suo bellissimo libro su Roma dopo Roma, sarà proprio il generale Clark, capo dell’esercito di liberazione, a mettersi nei panni di Cesare entrando da trionfatore in Roma dall’Appia antica. Senza trascurare di fermarsi ad ammirare i monumenti che la punteggiano. È la città aperta che inizia la sua conversione in mito turistico. Final destination delle vacanze romane.

l’Unità 10.10.12
Haroche e Wineland
Il Nobel della fisica ai «cacciatori quantistici» per aver catturato il gatto di Schrödinger
di Pietro Greco


HANNO CATTURATO IL GATTO DI SCHRÖDINGER. E PER QUESTO HANNO VINTO IL PREMIO NOBEL PER LA FISICA 2012. I DUE CACCIATORI QUANTISTICI sono il francese Serge Haroche, 68 anni, in forze al Collège de France e all’École Normale Supérieure di Parigi, e l’americano David J. Wineland, 68 anni anche lui e ricercatore sia presso il National Institute of Standards and Technology sia presso la University of Colorado a Boulder, in Colorado.
Haroche e Wineland sono fisici sperimentali, esperti di ottica quantistica. Hanno lavorato in maniera del tutto indipendente. E hanno messo a punto due trappole diverse. Ma entrambi sono riusciti in un’impresa che Erwin Schrödinger pensava impossibile: catturare il suo famoso gatto. Un’impresa che ha sia una notevole ricaduta teorica, sia, almeno in prospettiva, una forte ricaduta applicativa. È grazie alle loro «trappole», infatti, che si faranno probabilmente salti spettacolari sia nel campo dei computer sia nel campo della misura del tempo, ovvero nella costruzione di orologi.
Non è il caso di addentrarsi nelle tecniche che hanno utilizzato. Diciamo solo con un minimo di correttezza scientifica che hanno vinto il premio per aver realizzato strumenti che consentono di isolare e anche di manipolare particelle senza modificarne la natura quantistica. Haroche ha messo a punto trappole per isolare un singolo fotone e facendolo «interrogare» da atomi senza modificarne la natura. Wineland, al contrario, ha messo a punto un sistema di isolamento di singoli ioni (atomi carichi elettricamente) e interrogandoli con fotoni luminosi. Ma, forse, capiamo di più perché hanno vinto (meritatamente) il premio se come suggerisce la stessa Fondazione Nobel che glielo ha assegnato ricorriamo al noto e talvolta abusato paradosso del «gatto di Schrödinger».
Tutto nasce alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, quando nasce la meccanica dei quanti ed emerge chiara la bizzarra fisica che governa l’universo alla scala delle particelle microscopiche, quella degli elettroni, dei fotoni e anche degli atomi. Prendiamo un elettrone: la meccanica dei quanti ci dice che quando è isolato si trova in una «superposizione di tutti gli stati possibili». Per esempio si trova contemporaneamente qui sulla punta delle mie dita, dentro il computer di cui sto battendo i testi e in qualche modo anche a Stoccolma, dove hanno assegnato il Nobel. Solo quando si effettua una misura, ovvero quando interagisce con un oggetto macroscopico, la funziona d’onda collassa, dice la teoria quantistica, e l’elettrone assume una delle condizioni possibili. E quindi, in pratica, me lo ritrovo qui sulla punta del dito o nel computer (talvolta può capitare che me lo ritrovi anche a Stoccolma).
Questo comportamento, che non ha analoghi nel nostro mondo macroscopico, appare bizzarro anche a molti fisici. Compresi Albert Einstein e il giovane austriaco che ha elaborato la funzione d’onda che descrive il comportamento delle particelle quantistiche: Erwin Schrödinger. È come se chiudendo in una scatola il mio gatto, diceva Schrödinger, lui fosse contemporaneamente vivo e morto. Solo quando io o qualcun altro apre la scatola, lo trova o vivo o morto. Il che è paradossale. Sono convinto, insisteva, che c’è qualcosa che ci sfugge. La realtà quantistica deve essere diversa da quella descritta, sia pure ottenendo risultati di estrema precisione, dalla mia funzione. Forse non sapremo mai come stanno le cose, perché non riusciremo mai a «vedere» un elettrone o un fotone o un atomo perfettamente isolati. Perché ogni tentativo di osservarlo inevitabilmente fa collassare la funzione d’onda e perturba il sistema.
Ebbene Schrödinger aveva torto. Il momento in cui è possibile osservare una particella isolata degli ioni, nel caso di Wineland, un fotone nel caso di Haroche senza modificarne la natura quantistica è arrivato. I due hanno intrappolato il gatto di Schrö dinger e ce lo fanno vedere mentre è, contemporaneamente, «vivo e morto». O, per uscire dalla metafora, mentre i pesanti ioni, i leggeri elettroni e i fotoni a massa nulla sono in una superposizione di tutti gli stati possibili. Si tratta di una svolta della teoria quantistica. Anche se, probabilmente, il «problema della misura» e la presenza di variabili che ci nascondano una realtà più profonda non è stato ancora risolto.
Intanto le «trappole» di Wineland e Haroche confermano l’esistenza degli entanglements, di correlazioni istantanee a distanza, tra coppie di oggetti quantistici. Per restare nel paradosso dei gatti, è come se Schrödinger avesse due gatti gemelli: uno maschio, l’altro femmina. Ne porta uno a Vienna e l’altro a Roma, chiusi nelle loro scatole. Mentre viaggiano i gatti, che sono quantistici, si trovano in una «superposizione di tutti gli stati possibili»: sono, nel medesimo tempo, maschio e femmina. Quando infine Schrödinger a Vienna apre la scatola, fa collassare la funzione d’onda sessuale, e trova che il suo gatto è femmina, nel medesimo istante la moglie di Schrödinger apre la scatola a Roma e trova che il suo gatto è il maschio.
Anche questi risultati sperimentali consentono di approfondire il dibattito intorno ai fondamenti della meccanica quantistica. Che si conferma teoria filosoficamente problematica, ma scientificamente molto precisa. La teoria più precisa mai elaborata in fisica. Le possibili implicazioni dei lavori dei lavori di Wineland e Haroche sono molti. A Stoccolma ne hanno indicato due. La realizzazione di orologi, manco a dirlo, ultra-precisi. E lo sviluppo dei computer quantistici. Che molti giurano saranno quelli di prossima generazione: con una potenza di calcolo illimitata e una sicurezza intrinseca inespugnabile.

Repubblica 10.10.12
Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro
Spunta la pagella del biologo premiato a Stoccolma: “Un disastro”
di Elena Dusi


PER togliersi il sassolino dalla scarpa ci ha messo 64 anni. Ma l’effetto è stato grandioso. Il Nobel per la Medicina John Gurdon, giudicato al liceo troppo stupido per fare lo scienziato, ha dedicato ieri al suo prof una frase pronunciata con un ghigno di vittoria: «Andavo a scuola. A 15 anni seguii il mio primo semestre di scienze. Il professore nel giudizio finale scrisse che la mia idea di questo mestiere era ridicola. Le sue frasi posero fine al mio rapporto con la scienza a scuola».
La pagella della Eton School è incorniciata e appesa nello studio di Gurdon a Cambridge: «Quando gli esperimenti non riescono, mi diverto a pensare che l’insegnante avesse ragione». Il giovane John nel 1949 aveva avuto il punteggio più basso fra i 250 ragazzi del corso di biologia. «È stato un semestre disastroso» scrisse l’insegnante. «Il suo lavoro è stato di gran lunga insoddisfacente.
Impara male e i fogli dei suoi test sono pieni di strappi. In una prova ha preso il punteggio di 2 su 50. Spesso si trova in difficoltà perché non ascolta, ma insiste a fare le cose di testa sua. Ho sentito che Gurdon ha intenzione di diventare scienziato. Allo stato attuale, mi sembra una cosa ridicola. Se non può nemmeno imparare i fatti basilari della biologia, non ha chance di fare il lavoro di uno specialista. Sarebbe una pura perdita di tempo per lui e per quelli che dovranno insegnargli».
Quanto ad acume predittivo, il prof di Gurdon era in buona compagnia. Quello di Einstein scrisse: «Non arriverà mai da nessuna parte». E il padre della relatività sembrò dargli ragione quando a 16 anni fu respinto dal Politecnico di Zurigo. Ma non è vero che i suoi punti deboli fossero matematica e scienze, anzi. Einstein aveva voti bassi in francese, geografia e disegno. Peggio di lui Stephen Hawking, che degli anni universitari ricorda «la noia e la sensazione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena sforzarsi». L’astrofisico inglese studiava non più di un’ora al giorno, non si sentiva dotato e confessò di aver imparato a leggere a 8 anni. Ma quando a 21 gli diagnosticarono la Sla, ha raccontato, ricevette una frustata: «Capii che sarei morto presto e che c’erano molte cose da fare prima ».
«Un ragazzo al di sotto degli standard comuni di intelletto » secondo i suoi insegnanti e «una disgrazia per sé e la famiglia» secondo suo padre. Charles Darwin, dopo un’esperienza disastrosa a medicina, fu apostrofato dal genitore così: «Non pensi ad altro che alla caccia e ai cani». Il giovane Charles fu indirizzato verso la carriera religiosa, ma per fortuna della teoria dell’evoluzione risultò un disastro anche lì. Di Thomas Edison a 8 anni il suo maestro disse che era «confuso ». Sua madre lo ritirò dalla scuola dopo tre anni per educarlo personalmente. Non scienziato ma politico, Churchill era secondo il maestro delle elementari «un costante disturbo, sempre pronto a ficcarsi in qualche guaio».
Il sistema educativo anglosassone non è il solo a soffocare i giovani geni. Margherita Hack in terza media fu rimandata in matematica e oggi ricorda: «Studiavo, ma il professore mi aveva preso in uggia. Tenevo sempre gli occhi bassi facendo finta di leggere qualcosa sotto al banco. Ma non avevo nulla, era solo uno scherzo. Un giorno lui si avventò su di me e trovò un giornale dentro alla cartella, che però era chiusa, arrabbiandosi moltissimo. Comunque è vero, la scienza studiata a scuola è molto diversa da quella che si affronta più tardi, come professione ». A disagio con matematica e scienza era anche Rita Levi Montalcini. Ma il futuro Nobel per la medicina attribuì le sue difficoltà al fatto che le medie Margherita di Savoia di Torino puntavano a formare brave spose e madri di famiglia. Non scienziate.

Repubblica 10.10.12
La scuola, per loro un male necessario
di Piergiorgio Odifreddi


MA LASCIATA a se stessa rimane sicuramente animale. Con buona pace di Gibbon, è più probabile che la scuola sia sempre necessaria, eccetto nei casi in cui è dannosa. Le porte delle scuole devono dunque rimanere aperte a tutti, eccetto a chi è in grado di sviluppare un pensiero indipendente e di guardare al mondo con uno sguardo non convenzionale. Cercare infatti di imbrigliare una tale persona nel sapere comune può appunto tarpargli le ali, e impedirgli di sviluppare le proprie potenzialità. E se non lo fa, crea comunque un ostacolo contro il quale il genio si trova a scontarsi, a volte in maniera tragica e con risultati fatali. È il caso di Évariste Galois, ad esempio, l’inventore dell’algebra moderna, che fu rifiutato per due volte all’Ècole Polytechnique per la sua incapacità di superare gli esami convenzionali, e morì in duello a vent’anni. Meno tragici, ma sempre emblematici, sono i casi di Albert Einstein ed Henri Poincaré, i due massimi fisici teorici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che trovarono entrambi molte difficoltà a scuola. Naturalmente, un genio che non vada a scuola rischia di diventare un fenomeno da baraccone, con una cultura squilibrata e incompleta. Per questo la scuola dovrebbe cercare di «dare a ciascuno secondo i propri bisogni intellettuali, e pretendere da ciascuno secondo le proprie possibilità mentali». Ma chi potrebbe pensare e programmare una tale scuola, se non un genio? Cioè, una delle persone meno adatte a farlo?

Repubblica 10.10.12
Niente accanimento terapeutico ma cure soft Non è eutanasia ma rispetto per il malato
La morte dolce di mio suocero il modo migliore per dire addio
di Bill Keller


Il Liverpool Care Pathway adatta al contesto ospedaliero molte pratiche di assistenza in genere limitate agli ospizi, offrendole a un maggior numero di pazienti terminali. «Non si tratta di affrettare il decesso», dice Sir Thomas, «ma di riconoscere che una persona è giunta alla fine della propria vita, e di offrirgli delle scelte. Desidera una maschera di ossigeno sul volto? O vorrà baciare la moglie?».
I medici di Anthony Gilbey avevano concluso che non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fine, tormentata da dolore, immobilità, incontinenza, depressione, progressiva demenza. Il paziente e i familiari erano dello stesso avviso. Perciò l’ospedale ha smesso di somministrare insulina e antibiotici, scollegato i tubi d’alimentazione e idratazione, lasciando solo una fleboclisi per tenere sotto controllo dolore e nausea. L’andirivieni di maschere d’ossigeno, termometri, apparecchiature per misurare la pressione e monitorare il battito cardiaco è stato interrotto. Le infermiere hanno trasferito il paziente in una camera silenziosa, lontana dal bip bip dei macchinari, in attesa del trapasso.
Negli Stati Uniti, nulla infervora il dibattito sulle cure sanitarie più che la questione di quando e come negarle. Il Liverpool Care Pathway, o altre varianti, oggi rappresenta la norma negli ospedali britannici e in diversi altri Paesi, ma non in America. Questo per un motivo ovvio, e per un altro, meno ovvio.
Il motivo ovvio è che i paladini di simili iniziative sono stati demonizzati: criticati dalla Chiesa cattolica nel nome della “vita” e diffamati da Sarah Palin e Michele Bachmann in nome di un vile tornaconto politico. I sostenitori britannici dell’approccio Liverpool sono stati vittime di attacchi analoghi — in particolare dai lobbisti che si battono per il “diritto alla vita”, che lo vedono come una sorta di eutanasia, ma anche dei paladini dell’eutanasia, che non lo considerano sufficientemente “eutanasico”. Le indagini sulle famiglie che si sono avvalse dell’approccio Liverpool rilevano pareri favorevoli; tuttavia, è inevitabile che certe pratiche che toccano le corde più intime delle famiglie e richiedono il coordinamento di diverse discipline mediche, infermieristiche e di consulenza familiare, non riescano sempre ad assicurare una fine agevole quanto quella di mio suocero.
Sospetto, però, che il problema meno ovvio derivi dal fatto che in America i promotori di simili iniziative tendano a presentarle come una questione economica: un quarto o più dei costi dell’assistenza sanitaria si concentra nell’ultimo anno di vita. Questo
indica che stiamo sperperando una fortuna per garantirci qualche settimana o mese in più di vita, da trascorrere attaccati a delle macchine e consumati dalla paura e dal disagio.
L’esigenza di contenere la spesa sanitaria è indubbiamente impellente. Il piano promosso da Obama è un punto di partenza, poiché prevede l’istituzione di una commissione che identifichi possibili aree di risparmio. Ma non è che un inizio. Il buon senso suggerisce che potremmo risparmiare ulteriormente negando le cure mediche nei casi in cui, anziché salvare una vita, servano solo a prolungare per breve le sofferenze.
Tuttavia, credo che si tratti di una posizione discutibile dal punto di vista economico e pessima sotto il profilo politico. Infatti, a prescindere dal buon senso, le prove che queste procedure producano un risparmio sono poche. Studiando i dati, piuttosto lacunosi, Emanuel conclude che, a parte l’assistenza ai malati di tumore, le misure prese per eliminare trattamenti vani nei pazienti prossimi alla morte non si sono tradotte in risparmi significativi.
Anche se si riuscisse a dimostrare che le iniziative come il Liverpool Pathway consentono risparmi cospicui, promuovere l’assistenza per il fine vita per motivi fiscali alimenta i timori di chi ritiene che il sistema medico-industriale abbia fretta di portare i nostri cari all’obitorio per risparmiare il costo dei medici e liberare posti letto. Quando chiedo a degli specialisti britannici se il protocollo di Liverpool riduca effettivamente i costi, questi rispondono di non aver mai posto una simile domanda, né di aver intenzione di farlo.
«Quest’anno sono usciti articoli molto sgradevoli sul Pathway, descritto come un modo per uccidere i pazienti in fretta e liberare posti letto », dice Sir Thomas. «Il momento che si tocca quel tasto si rischia di mettere a rischio l’intero programma».
In America nulla accade senza un’analisi costi-benefici, ma l’argomento a favore di una morte meno straziante potrebbe poggiare su una base più neutra, meno inquietante, ovvero sul fatto che si tratta semplicemente di una morte più umana.
Nei sei giorni precedenti alla morte, Anthony Gilbey, avvolto in una coltre di morfina, ha ripetutamente perso e riacquistato coscienza. Libero da tubi e da medici solleciti, ha potuto ricordare il passato, scusarsi, scambiare battute e promesse di amore con la famiglia, ricevere i sacramenti cattolici e ingoiare un’ostia che è stata forse il suo ultimo pasto. Poi è entrato in coma. È morto umanamente: amato, dignitoso, pronto.
«Ho combattuto la morte tanto a lungo», aveva detto a mia moglie verso la fine. «È un tale sollievo potersi lasciare andare». Sarebbe bello se tutti potessimo morire come lui.
(©The New York Times La Repubblica Traduzione Marzia Porta)